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Ti mangio con gli occhi
Ti mangio con gli occhi Ebbe un sogno curioso. Sognò di essere seduto al tavolo di un caffè. Sei piatti erano davanti a lui, e lui mangiava come un affamato. Le pietanze – come ogni cibo nei sogni – non avevano molto sapore, ma egli aveva la sensazione che quando le avesse terminate avrebbe avuto il piatto migliore. Graham Greene, Il potere e la gloria Socrate nel Convivio di Platone mi ha fatto capire che, abbandonato a se stesso, l’uomo è triste, ma quando arriva il cibo la sua anima riaffiora, e il cibo fa lo stomaco pesante. Valentino Zeichen, intervista “La Stampa” © 2013 Contrasto srl via degli Scialoja, 3 00193 Roma www.contrastobooks.com © 2013 Ferdinando Scianna per le singole fotografie pubblicate nel volume. Tutti i diritti riservati. Editing: Giovanna Salvia Impaginazione: Tania Russo Controllo qualità: Barbara Barattolo isbn: 978-88-6965-447-3 Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questa pubblicazione può essere riprodotta, interamente o in parte, memorizzata o inserita in un sistema di ricerca delle informazioni o trasmessa in qualsiasi forma e con qualsiasi mezzo (elettronico o meccanico, in fotocopia o altro), senza il previo consenso scritto dall’editore. Indice Questo libro ...........................................................................................................11 Il mito dell’Aurora ................................................................................................13 A prova e a taglio .................................................................................................21 Il limone dolce del ramo torto ......................................................................... 25 La mafalda con le panelle ...................................................................................29 Lo sfincione ...........................................................................................................33 Pane .........................................................................................................................37 L’astratto .................................................................................................................43 Il polpo di Ciccio Mosca ....................................................................................47 Il passato immobile .............................................................................................51 La distruzione delle arance ................................................................................59 Il capretto di Kami ..............................................................................................65 Il latte di zu Bastiano ..........................................................................................67 Il limite del rospo .................................................................................................69 Un pugno di riso ..................................................................................................73 Mosche ................................................................................................................... 77 Le granite di Acireale ..........................................................................................79 Il decottaio .............................................................................................................81 Il sapore della buonanima ..................................................................................83 Il fidanzamento ad Arcanghelos ......................................................................89 Il cuscus di Marsala .............................................................................................91 I pesci dal volto umano ......................................................................................95 Gli asparagi selvatici di Sciascia ........................................................................99 I ragazzini con i vassoi ......................................................................................101 La lepre in salmì di Roberto Leydi ............................................................... 103 La panela ............................................................................................................... 107 I dolci siciliani .....................................................................................................111 Bomboloni, caramelle attìa, focaccelle, iris fritte ........................................113 Jerom Ferrante ....................................................................................................117 Il cibo condiviso con gli animali ................................................................... 125 Bocuse .................................................................................................................. 129 Tre mazzi ............................................................................................................. 133 L’anatra di Parigi, il pane dello Yemen, il pesce sul giornale................... 135 I gelsi neri ............................................................................................................ 139 Il cibo votivo .......................................................................................................141 I sapori mai provati ............................................................................................149 Il rito dei tagliarini .............................................................................................153 La granita di gelsomino ....................................................................................159 La geografia della spesa ....................................................................................163 Sale .........................................................................................................................169 Ragnatele di fame ...............................................................................................177 El molino de chocolate .............................................................................................183 Mangiare, parlare ...............................................................................................185 Sugo finto, uomo finto .....................................................................................189 Ferran Adrià ........................................................................................................191 La pasta di donna Provvidenza ......................................................................195 Le sarde, il limone, il fico d’India ................................................................. 197 Vino, ricotta, cannoli ........................................................................................203 Castrato con le zucchine al matrimonio di Tinherir ................................207 Cibi di strada .......................................................................................................211 Uccidere, mangiare ........................................................................................... 213 Colombia di frutta e coccodrilli ....................................................................221 Prima salsiccia alla festa della Milicia. Gli azeruoli ..................................225 Cucinare ............................................................................................................... 231 Questo libro Questo libro me lo porto dietro da molti anni. All’inizio non era nemmeno un progetto di libro. Faceva parte di quel gioco di specchi con la memoria che, da quando la scrittura è diventata per me più importante, sempre più si è andato dialetticamente affiancando alla mia attività di fotografo e ai lavori che costruisco con le molte immagini messe insieme in mezzo secolo di mestiere. Forse è stata anche colpa dei piedi, che da un po’ di tempo non sono più molto disponibili a quella pratica peripatetica in cui consisteva il mio mestiere di fotografo. Ma in realtà, la mia radicata concezione narrativa della fotografia mi ha portato quasi naturalmente ad affiancare alle immagini dei testi scritti. Questi testi sul mangiare li ha fatti scattare la stessa molla. Frammenti, che andavo scrivendo a mano a mano che si imponevano alla mente. Quasi sempre, ma non sempre, partivano da fotografie. A poco a poco si sono accumulati, e così è nata l’idea di farne un libro. Mi sono reso conto che il mio scrivere finisce sempre col prendere un tono autobiografico. Forse non so fare altro. Ma chi mi conosce sa che mangiare, cucinare, la curiosità per i cibi – arricchita, oltre che dai ricordi, dai molti viaggi – sono davvero pratiche e riflessioni centrali nella mia vita. Poi ho abbandonato l’idea. Ero spaventato dall’alluvione di libri di cucina e sulla cucina che hanno invaso e continuano a invadere le librerie. Ma l’idea non ha abbandonato me. In definitiva, mi sono detto, questo non è un libro sulla cucina, e ancora meno un libro di cucina. Non ci sono ricette. E magari è uno dei suoi più gravi difetti. È un libro sul mangiare e sul ruolo fondamentale che il cibo ha avuto e ha nella mia memoria e nelle mie esperienze di vita. Come, credo, nella vita di tutti noi. 11 Il mito dell’Aurora Dove si fa il miglior caffè del mondo? In Italia. E in Italia dove si fa il migliore? In Sicilia. E in Sicilia? A Bagheria. E il miglior caffè di Bagheria? Al bar Aurora. Renato Guttuso dixit Il bar Aurora era strategicamente situato all’inizio di corso Umberto, la strada principale del paese, quella che dalla piazza Madrice arrivava a Villa Palagonia. Oggi la strada continua, fiancheggiata da mostri edilizi. Ma prima il paese finiva lì, a Villa Palagonia; dopo cominciava la campagna. Di bar non ce n’erano molti in paese. Ma l’Aurora non era solo un bar, era il bar per eccellenza, era il luogo dove ci si dava appuntamento: Ci vediamo all’Aurora. Da lì cominciavano le vasche avanti e indietro per corso Umberto. Era la migliore pasticceria, la migliore gelateria. Non parliamo poi del caffè. Per un baarioto, il caffè dell’Aurora era la pietra di paragone assoluta e insuperata. Uno poteva andare in viaggio per pochi giorni o emigrare per decenni. La prima cosa che faceva tornando era precipitarsi all’Aurora per prendere un caffè, il caffè. Così faceva Renato Guttuso, per esempio, e i camerieri, non appena si spargeva la voce che era di passaggio a Bagheria, preparavano matita e fogli per metterglieli subito davanti e sfruttare il momento di beatitudine dopo che aveva sorbito il caffè. E lui non rifiutava mai 13 bombe, ma anche in coni da passeggio o morbidissime brioche, da una finestra che dava sul corso. Da lì, gruppi di amici o famiglie intere schierate in formazione d’assalto facevano avanti e indietro per il corso leccando il gelato. Le granite invece erano di due soli gusti, limone e caffè. Il limone freschissimo e profumato, colto la mattina stessa nei giardini del paese, e il caffè dal gusto intenso, mai annacquato, proveniente direttamente dalla macchina, coronato da un generoso ricciolo di panna montata. La domenica, per non dire nelle feste comandate, il bar pasticceria gelateria Aurora brulicava di gente più che la Madrice alla messa di mezzogiorno. E dopo la messa si passava a ritirare le monumentali guantiere di dolci ordinati già dal giorno prima, o ad assistere alla riempitura espressa dei cannoli, che non tollerano attesa, pena la perdita, sia pure infinitesimale, di fragranza della scorza fritta per troppo lunga contiguità con l’umida crema. Ma poi accadde l’inconcepibile: l’Aurora chiuse. Nuova concorrenza, malattie, cattiva gestione. Non si seppe mai. La notizia fu ricevuta come una catastrofe storica. E lo era. Per quanti arrivavano in paese e scoprivano che il bar non esisteva più, era come se nella prospettiva della piazza fosse crollato il campanile. E per l’intera popolazione dei baarioti fu anche peggio, fu vissuto come un lutto familiare. Ci furono da parte degli eredi tentativi di effimere resurrezioni. Niente da fare: era finita. Da quel momento nacque e continuò a crescere la leggenda, il mito dell’Aurora. Alcuni dei baristi e dei lavoranti si misero in proprio. Qualcuno giurava che in quei nuovi bar si poteva ritrovare il paradiso perduto. Si andava a provare, ma le verifiche finivano sempre in amare delusioni. Sì, forse ogni tanto il caffè non è male, sì, forse quel pasticcino, ma la cassata, ma i cannoli… In un di eseguire l’ennesimo schizzo di tazzina fumante. Dietro la cassa, la parete era decorata con un frammento del suo grande quadro Boogie-Woogie. I baristi addetti alla macchina erano sacerdoti officianti, conoscevano i gusti di ciascun cliente e per ciascuno si può dire che facessero un caffè su misura. Le tazzine erano sempre bollenti ed era imperativo far precedere e seguire la sorsata, non più di una quintessenziale sorsata, da un goccio di acqua fredda. C’erano appassionati del caffè ristretto superforte ai quali veniva servita una crema profumata così densa che il cucchiaino ci stava dentro ritto in piedi. Alcuni clienti prendevano il caffè solo se alla macchina c’era quel barista. Gli altri, erano disposti a giurare, non avevano la mano giusta. Il circolo Ordine e Libertà, detto dei civili, era situato di fronte al bar. Il viavai dei camerieri attraverso corso Umberto, dal bar al circolo e ritorno, era ininterrotto. Al circolo c’erano raffinatissimi esperti di caffè. Pretendevano di riconoscere la mano del barista che aveva preparato la divina bevanda. Attribuzionisti della tazzina che non avevano niente da invidiare ai maggiori esperti d’arte internazionali, capaci di risalire da un minimo dettaglio stilistico all’identità dell’autore di qualsiasi dipinto, come rabdomanti in grado di sentire infallibilmente i segnali invisibili che rivelano la presenza sotterranea di una preziosa vena d’acqua. Uno in particolare ce n’era, che accettava scommesse con poste altissime sulla sua capacità di riconoscere l’autore di ogni tazzina di caffè che arrivava dal bar Aurora. E non sbagliava mai. La pasticceria era inarrivabile. Le cassate, i cannoli, le sfince di San Giuseppe, le torte, i pasticcini ripieni – gli eterei choux – di nocciola, caffè, cioccolato, crema e panna, i friabilissimi taralli, i biscotti di San Martino, i bocconcini di pinoli e quelli di pistacchio. Di gelato c’erano solo cinque gusti: crema, caffè, cioccolato, fragola e nocciola. Veniva servito sotto forma di 14 15 certo senso, come è di ogni leggenda, la delusione dopo ogni possibile confronto era anche una specie di soddisfazione: la soddisfazione di essere stati testimoni di qualcosa di imparagonabile, di una irripetibile stagione. Magari, anni dopo, un vecchio lavorante si rimetteva a fare le cassate. Qualcuno giurava di averci ritrovato l’antico sapore dell’Aurora. Mezzo paese si precipitava a fare ordinazioni, la diaspora veniva informata del probabile miracolo, le spedizioni viaggiavano per ogni parte del mondo dove vi fossero ancora baarioti testimoni oculari, olfattivi e gustativi della leggenda. Ma erano sempre fuochi di paglia. Si potrà passare la vita a cercare di ritrovare la perfezione da idea platonica della crostatina di fragoline di Ribera che in maggio, per la delizia del palato e dello spirito, usciva da quella magica pasticceria. Altri hanno tentato di rifarla. Ma dove sono l’impalpabile sottigliezza e leggerezza della pasta frolla, la perfetta densità della crema di burro aromatizzato in cui erano immerse le fragranti, profumatissime fragoline, il velo esatto e croccante di glassa che le sigillava? L’Aurora, ormai, non esiste più da una trentina d’anni. Giuseppe Tornatore per il suo film Baarìa, saga di una famiglia e di un paese, ha fatto costruire alla periferia di Tunisi un’allucinante riproduzione di Bagheria com’era. Quando sono andato a visitare questa sorprendente scenografia, tra le molte ondate di emozioni da rigurgiti di memoria la più grande è stata sicuramente il ritrovare, falso ma tale e quale, e proprio perché falso più vero del vero, il bar Aurora, con la sua insegna, le sue sedie sul marciapiede di corso Umberto. Mi sono seduto e ho chiesto a mia figlia di farmi una fotografia, in un assurdo, disperato, eppure in quell’istante quasi riuscito, tentativo di annullare il tempo. 16 A prova e a taglio Strada per strada, il paese continuamente risuonava delle grida dei venditori ambulanti. Vendevano di tutto: dagli aghi per le macchine per cucire al lucido per le scarpe, dai coltelli alla biancheria da corredo, alle pentole. Di alluminio o di terracotta. C’erano anche quelli che le aggiustavano le pentole, come affilavano i coltelli. Ma soprattutto vendevano cibo. Pescivendoli, fruttivendoli, verdurai, formaggiai, gelatai. Venivano dai paesi vicini a vendere la loro mercanzia e le loro grida scandivano l’alternarsi delle stagioni ribadendo il mito della qualità speciale che quei frutti, quei pesci avevano solo se provenivano da certi luoghi, rinomatissimi per la particolare dolcezza e freschezza dei loro prodotti. Ho cominciato a imparare i nomi dei paesi siciliani associandoli alla speciale geografia di frutti o di formaggi. Ru Parcu ’i ficu! U Parcu era il paese di Altofonte e i fichi di Altofonte erano per fede comune di incomparabile dolcezza. E fin qui. Ma il pescivendolo giurava che era ruci com’u zuccaru ’a sarduzza ’i l’Aspira! E nessuno era disposto ad ammettere che le sardine di Aspra, la frazione di pescatori di Bagheria, 21 potessero compararsi con quelle pescate dalle barche di Porticello, che pure dista appena tre chilometri e le cui barche magari pescano nelle stesse acque. Niente da fare: le sardine di Aspra erano le migliori, dolci come lo zucchero. Così come i meloni gialli di Ficuzza o le fragoline di Ribera, anche a mio parere inarrivabili. Le angurie si vendevano a prova e a taglio, ovvero si potevano assaggiare prima di comprarle. E poi c’erano le cicorie, i cavuliceddi, le sinape e tutte le verdure di collina, che, raccolte all’alba, arrivavano freschissime. Non parliamo poi dei gelsi neri: A st’ura t’arrifriscano! Oltre che buonissimi anche miracolosi se consumati di prima mattina, a digiuno, per il loro potere rinfrescante. O i carciofini selvatici, bizzarramente chiamati domestiche, di indimenticabile bontà. Questi, come certe verdure, venivano venduti anche cotti, dentro pentoloni fumanti. Le grida avevano cadenze di canto, spesso di nenie arabe. Ricordo la mia sorpresa quando, attratto in mezzo alle stradine della casbah di Tunisi da un grido identico a quello sentito da bambino per le strade del mio paese, scoprii che la mercanzia in vendita era la stessa. Ogni prodotto veniva offerto con un grido speciale e ogni grido aveva la sua speciale musica. Le banniate si incrociavano e si sovrapponevano componendo la sinfonia di promesse dei migliori prodotti della terra. L’acquolina in bocca arrivava attraverso le orecchie. Le donne si affacciavano ai balconi, calavano il paniere e compravano; oppure, specialmente nel caso dei pesci, andavano all’uscio per verificare la freschezza e dare inizio a lunghe contrattazioni. 23 Il limone dolce del ramo torto A Bagheria, paese che dei limoni viveva, noi bambini eravamo abituati a mangiarli a morsi i limoni, a succhiarli in grandi quantità, magari strizzando un poco gli occhi per i più aspri. Spesso li mangiavamo anche senza sbucciarli, godendoci il piccante gusto alcolico della buccia verde. Ma se li sbucciavamo, allora bisognava farlo con grande cura. Si cominciava dall’alto a togliere lo strato sottile, girando il limone a poco a poco in modo che il coltello non rompesse il ricciolo che si andava formando. Se questo perfetto sbucciamento riusciva, sorgeva un allegro grido collettivo: Evviva! È morto un prete! A ogni perfetto sbucciamento, un prete morto. Tutti quanti, che io ricordi, grandi e piccini, si applicavano – e si applicano – con grande serietà a questo sbucciamento metaforicamente e magicamente preticida. E che rammarico se a mezza strada, per eccessiva fragilità o imperizia, la buccia si rompeva. I più buoni da mangiare, con il loro sapore morbido e profumato, erano i bastardoni, i frutti nati dalla forzatura, che si consumavano anche a fette, magari accompagnati da un pizzico di sale. Tra luglio e agosto, quando il caldo è cocente e spesso imperversa lo scirocco africano che piega le gambe a tutti, uomini, piante, animali, il limoneto si lascia senz’acqua, a patire, e soffrono visibilmente le povere piante. Le foglie cominciano 25 Noi cercavamo invano di scoprirlo, il favoloso ramo torto, tra quelli che ci sembravano avere forme più singolari e inconsuete. Raccoglievamo i limoni cresciuti su quel ramo, ma quelli dolci non li trovavamo mai. Qualche volta, raramente, mio padre ne portava a casa qualcuno e lo aprivamo, annusavamo e succhiavamo davvero come un regalo giunto da un mondo sconosciuto, più dolce, più benevolo. Una volta ne portò quattro e li trovai nel mezzo della tavola come una promessa di delizia alla fine del pasto. Uno, soprattutto, era bellissimo, grosso e turgido come non ne avevo mai visti. Non potevo staccare lo sguardo. Mangiai velocissimo e alla fine agguantai quel meraviglioso limone prima degli altri. Ce ne toccava uno a testa. Lo tagliai e lo portai alla bocca. Ma non era dolce, anzi, per lo sconcerto mi sembrò più aspro di quelli asperrimi cui pure ero abituato. Alzai gli occhi delusi verso mio padre, che mi guardava sornione. Hai visto, mi disse, cosa ti è successo a prendere il più grosso senza pensare agli altri? Fu la mia prima e non dimenticata lezione sull’egoismo e l’avidità. ad accartocciarsi, a perdere colore, come se mandassero invocazioni di soccorso. Questo patimento lo si prolunga sotto trepidante sorveglianza fino al limite del rischio per la loro stessa sopravvivenza. Poi, nel giro di un paio di settimane, il giardino – così con arabo splendore si chiamano le piantagioni di agrumi – viene inondato d’acqua, due, tre volte, con abbondanza e generosità. L’acqua in quei giorni fatidici si prende quando te la danno, a qualunque ora, di giorno o di notte. Ricordo notti di abbeverate alla luce di lumi a petrolio, interminabili e faticose, anche se nel ricordo sono diventate romantiche. Non avere l’acqua al momento giusto può compromettere un giardino. Controllare l’acqua in una zona di endemica scarsezza conferisce un grande potere. I mafiosi la controllavano. Le piante di limoni impazziscono per questo agognato balsamo d’acqua, cedono all’inganno di una falsa primavera. Sembrano resuscitare, letteralmente rifioriscono. La campagna olezza di un profumo di zagare denso, quasi morboso nel caldo compatto di agosto. È la forzatura, che inventa una seconda produzione, quella dei verdelli – i bastardoni, appunto. Un ramo di una pianta grande del limoneto, mio padre l’aveva innestato a lumie. Dava limoni indistinguibili dagli altri per forma e colore ma dal sapore dolcissimo, un poco sfuggente, vagamente orientale, misterioso e quasi stucchevole per chi come noi bambini era abituato a quello aspro di cui pure eravamo ghiottissimi. Zu Rosario, il contadino, ce ne parlava ammantandone la natura e l’origine di un alone di favola. In qualche pianta di limoni, ci diceva, c’è un ramo torto, ma torto in un certo modo tutto suo, difficilissimo da riconoscere. Di tanto in tanto su questo ramo torto nascono questi limoni dolcissimi, che sono come un regalo della pianta, un messaggio. 26 27 La mafalda con le panelle Sul vocabolario la parola mafalda non c’è, e nemmeno panella. Entrambe però sono parte ineludibile della mia infanzia e della mia adolescenza siciliane. Forse sono addirittura parte della mia struttura biologica. Come un’intera generazione, sono venuto su a pane e panelle. Ogni santo giorno della mia giovane vita finché sono vissuto a Bagheria. Il pane da farcire con le panelle era la mafalda. La mafalda è un pane che si fa con un serpentone di pasta che si ripiega su se stesso quattro volte e poi si “chiude” con la parte finale disposta per lungo. Prima di infornarlo si inumidisce e lo si cosparge di semi di sesamo, la giuggiulena. È un pane bianco, morbido, ideale per accompagnare le panelle calde. Specialmente se pure lei, la mafalda, è bella fresca, calda meglio ancora. Panelle, la sola parola mi fa venire l’acquolina. Nel Giorno della civetta di Leonardo Sciascia c’è un panellaro – un venditore di panelle – testimone del delitto che apre il romanzo. Ricordo che un traduttore francese se l’era cavata con “cotolette di polenta di ceci”. Magari la definizione è corretta, ma io non ce le avevo riconosciute le panelle. In effetti sono una specie di farinata ligure fritta. In certi posti, dalle parti di Chiavari credo, la friggono pure loro la farinata, a listarelle. 29 Al paese c’era almeno un panellaro per quartiere. Nel mio quartiere, Anime Sante, il migliore era Ciccio. Il cognome non l’ho mai saputo. Era Ciccio il panellaro, e basta. Nello stanzone a pianterreno, casa e bottega, una tenda separava l’alcova dalla panelleria. Proprio al centro, la moglie rimestava con un bastone nel paiolo dove si andava addensando la polenta. La polenta della farina di ceci dev’essere spessa, ma non dura. Verso la fine della cottura si butta dentro una manciata di semi di finocchio. A qualcuno l’aggiunta del finocchio non piace, a me sì. Pronta la polenta, velocissimamente, con una spatola, se ne spalma uno strato su apposite tavolette rettangolari, di legno – su alcune sono incisi fregi, lettere, simboli –, dove si lascia a raffreddare. Quello che resta nel paiolo, un po’ incrostato sul fondo, lo si aggruma in bitorzolute polpette che poi si friggono e danno le rascature, croccanti e grondanti d’olio, delizia sopraffina. Soltanto in Egitto, in certe friggitorie di Giza, vicino alle piramidi, o nelle casbah di San’a’ ho gustato, e nella stessa identica atmosfera, meraviglie comparabili. Una volta raffreddate, le panelle si staccano e si friggono in un padellone pieno di olio bollente. Al padellone c’era quasi sempre Ciccio, sornione e scherzoso. La moglie, con dita di amianto, farciva le mafalde di panelle roventi e incassava i soldi: mezza mafalda con tre panelle trenta lire, una intera con cinque panelle cinquanta lire. Pane e polenta fritta, una mafalda ti inzeppava lo stomaco per un giorno intero. Per molti poveri, in effetti, poteva essere l’unico pasto della giornata. Dal panellaro, specie la mattina, c’era sempre la coda, soprattutto di ragazzini che poi la mafalda se la mangiavano correndo sulla via della scuola o del lavoro con la bocca fumante e spalancata per non bruciarsi la lingua. Appena la ressa si disperdeva, Ciccio si metteva a tracolla con uno spago un tegamone d’alluminio pieno di panelle calde e andava a 31 Lo sfincione vendersele per il quartiere. Cavuri, cavuri, c’a carni su’!, gridava. E la sarcastica aggiunta “con la carne” alludeva alle mosche di cui era pieno il paese e che circondavano in permanenza lui e il tegame come una nuvola di santità. Le panelle dovrei venderle più care, diceva: la carne costa più cara, le mosche non sono carne? Le donne sentivano il grido e lo chiamavano. Nella panelleria l’odore era inconfondibile, il fumo denso, l’olio nero, i muri unti. Ciccio giurava ridendo che, panellari di padre in figlio, nella sua famiglia l’olio del padellone non si cambiava dai tempi del nonno. L’olio si aggiunge, non si cambia mai, sentenziava, se no le panelle perdono sapore. Sembra una pratica truculenta e oggi, del resto, le friggitorie – anche quelle palermitane del fantastico pane con la milza – incappano negli strali delle normative della Comunità europea, che viene a ficcare il naso anche dentro la padella dei panellari. E però, fatte in casa, fritte in igieniche padelle e in extravergini oli d’oliva, le panelle non hanno e mai avranno quell’inimitabile sapore. Nessuna famiglia poteva rinunciare allo sfincione per la festa della Madonna e per Natale. È una specialità che si trova in tutta la provincia di Palermo, ma in ogni paese si prepara in maniera diversa. Naturalmente, ciascuno considera la propria ricetta di gran lunga superiore, non paragonabile alle altre. A Palermo, per esempio, si fa col pomodoro: una specie di pizza. Al mio paese, di pomodoro nemmeno l’ombra. Ma in effetti lo sfincione è una specie di pizza, o grossa torta di cipolle, se si vuole. Pasta di pane molto lievitata, si spiana alta e poi la si inzeppa con pezzi di formaggio pecorino fresco, il primosale. Prima però si è preparata la copertura. Una quantità di cipolle tagliate lunghe e soffritte in abbondante olio d’oliva. Moltissima mollica di pane di frumento rimacinato, grattugiata fresca, anche questa soavemente soffritta in molto olio dove si sono fatte sciogliere sarde salate. Sulla pasta si distribuiscono prima le cipolle e sopra, a proteggerle, 32 33 il pane soffritto; infine si inforna. In un grande forno a legna, beninteso. Piatto povero, certo, poverissimo. Che è anzi una sintesi di quello che era il mangiare quotidiano dei contadini: pane e formaggio, pane e cipolle, pane e sarde salate, pane con l’olio, pane con pane. Ciò che lo trasforma in piatto ricco, in prelibatezza da festa, è l’abbondanza dell’olio. L’olio, per le famiglie povere ma anche per i piccoli coltivatori che non possedevano qualche ulivo, era un lusso. Durante l’anno lo si centellinava. Nel fare lo sfincione, invece, con l’olio si esagerava. Una povera donna che viveva di pulizie e lavature di panni nelle case del suo quartiere – la signorina, la chiamavano con rispettoso eufemismo per non sottolineare il fatto che era rimasta zitella – mi ripeteva spesso che lei durante l’anno metteva ogni giorno in una bottiglia speciale un poco dell’olio che a Natale le sarebbe servito per lo sfincione. L’olio per lo sfincione non doveva mancare, se no ti sentivi proprio un paria. Lo sfincione natalizio è ancora un piatto molto diffuso dalle mie parti; adesso viene preparato da panetterie e rosticcerie fuori da ogni rituale ricorrenza, praticamente tutto l’anno. Ma io me lo ricordo come una vera febbre che nel mese di dicembre investiva il paese intero. L’impasto moltissimi se lo facevano in casa; quelli che in casa di solito si facevano anche il pane, magari con la farina del proprio frumento. Ma molti lo facevano preparare dal fornaio. Per le cuonze, però, ovvero il condimento, ogni famiglia aveva il suo segreto. C’era chi sotto le cipolle metteva ricotta fresca, chi salsiccia sminuzzata, chi alla fine grattugiava pecorino pepato delle Madonie, chi alle cipolle aggiungeva aglio, da altri aborrito. Autentiche eresie per chiunque ritenesse di essere il solo depositario dell’autentica ricetta tradizionale. Insomma, si sa, in fatto di sfincione, e non solo, ogni testa è un tribunale. Solo pochissimi affidavano le cuonze al fornaio perché condisse lui. Nessuno si fidava. Tutti raccontavano indignati di quella volta che, per essersi fidati, si erano poi ritrovati con sfincioni scarsi d’olio e di condimenti, dei quali si era appropriato qualche garzone di mano lesta. Le donne, i propri condimenti li portavano in capienti tegami al forno e lì, aspettando per ore il turno per l’infornata, preparavano personalmente il loro sfincione, marcandolo con un segno particolare: un po’ di origano, un giro di olive, a volte un’iniziale scavata nella mollica – insomma, qualcosa che scongiurasse la paventatissima eventualità che all’uscita del forno il loro sfincione fosse scambiato, magari con proditoria premeditazione, con quello di altri. Ancora rovente, sulla dorata pietanza si colava un giro d’olio crudo. Quest’ultima benedizione da molti era considerata imprescindibile. Un mio zio diceva che quel nonnulla d’olio crudo allo sfincione gli tira fuori l’anima. Olio, olio e ancora olio. Appena sfornate, le sospirate delizie venivano impilate in ceste foderate da coperte di lana per tenerle in caldo, oppure messe in fila su tavoloni. Abilissimi ragazzi le portavano poi correndo nelle case dei clienti. Il paese intero olezzava di cipolle fritte, di sarde salate, di pane fresco. Le famiglie, lo sfincione lo pregustavano da giorni. Lo sfincione si mangia a gigantesche fettone, ancora caldo ma non troppo. Abbastanza perché affondando i denti nel pane lievitato, che dev’essere sofficissimo, si senta il morbido formaggio fresco fondersi con le cipolle e le sarde salate, inondandosi beati bocca, mento e naso di olio fritto e forti profumi. Ci sono poi i fanatici dello sfincione mangiato la mattina dopo, freddo e un poco irrigidito. Magari con il caffelatte. Autentici fondamentalisti. Di tempra forte, anche. Perché, se non si possiede uno stomaco gagliardo, lo sfincione di Natale è facile che lo si digerisca a Pasqua. 34 35 Pane Colpevolizzato, criminalizzato, il pane va scomparendo, mi sembra, dalle nostre ricche tavole ipercaloriche. Di certo, il pane ha perduto centralità nelle abitudini alimentari dei paesi ricchi, anche di quelli nei quali, davvero non tanto tempo fa, era essenziale. Lo dimostra il fatto che il pane, persino nelle panetterie di paese, è diventato un oggetto di consumo ludico, con una molteplicità di forme, consistenze, grani e sapori che dovrebbe invogliare all’acquisto. E non soltanto dalle diete mi sembra che vada scomparendo, ma anche dalla lingua e dal nostro immaginario culturale, dai proverbi e dai modi di dire. Tutto quello che non era pane era companatico, ciò che accompagna il pane. Questa certezza cominciava a vacillare già quando ero bambino se il mio ricordo dei pranzi familiari non è separabile da continui, ossessivi richiami, che diventavano intimazioni severe, a mangiare con il pane ogni tipo di alimento. Mio nonno mangiava persino la pasta e la frutta con il pane. Queste reprimende erano spesso accompagnate da confronti tra il nostro privilegio e quello delle famiglie in cui mancava il pane. E non era un modo di dire. Noi sapevamo 37 che diceva di mangiare le arance in insalata, con l’olio e il pane. Le arance con l’olio!, segno di ricchezza. Guadagnarsi il pane era una realistica perifrasi per lavorare. È da molto tempo che non la sento più usare. Intorno alla centralità del pane c’erano molti mitologici racconti familiari. Ogni famiglia tramandava i suoi. Quella di mio nonno Benedetto era una famiglia di carrettieri. Come gli odierni camionisti, trasportavano ogni genere di merci di paese in paese. Dei fratelli, Silvestre era famoso per la quantità di pane che mangiava durante i lunghi e sonnolenti viaggi col carretto, che potevano durare anche alcuni giorni. Durante uno di questi viaggi, ho sentito raccontare molte volte, fu fermato dai carabinieri a un posto di blocco dalle parti di Partinico. Erano anni di banditismo e in quelle zone imperversava la banda Giuliano. Gli chiesero dove andasse, perquisirono il carretto e nella bisaccia gli trovarono tre grandi pani rotondi, di quelli da tre chili. Quando torni?, domandarono. Domattina, rispose lui. E tutto questo pane, a chi lo porti? Questo è il mio mangiare per il viaggio, rispose Silvestre. Uno dei carabinieri si insospettì, pensando che fosse destinato a qualche latitante. Aspetta qui, gli disse, che tra poco viene il maresciallo. Silvestre si sdraiò sui sacchi, dopo un po’ tirò fuori il coltello e cominciò a tagliarsi fette di pane e a mangiarlo. Una mezz’ora dopo il carabiniere gli ripassò davanti e si accorse allibito che aveva fatto fuori il primo grosso pane. Va bene, gli disse, un forno sei, non un cristiano, te ne puoi andare. Un’altra volta, raccontava sempre mio nonno, Silvestre doveva partire per un viaggio urgente il giorno di San Giuseppe. Ora, per la festa del patrono si riuniva tutta la famiglia e si faceva un gran pranzo concluso da cannoli squisiti, alla madre benissimo che nelle famiglie di nostri compagni di scuola e di giochi spesso il pane mancava davvero. In una foto di gruppo delle mia terza elementare, del resto, si vedono bambini scalzi. Forse i loro genitori avevano dovuto scegliere tra le scarpe e il pane. In ogni caso, il pane era oggetto di un rispetto sacro da parte di tutti. Se giocando, in casa o in mezzo alla strada, cadeva un pezzo di pane, anche piccolo, bisognava subito raccoglierlo, se no Gesù piange, soffiarci su, baciarlo se era piccolo, fargli sopra una croce con il pollice se era più grosso, e poi finire di mangiarlo. La merenda, che certo non era istituzionalizzata, di fatto consisteva quasi sempre in un semplice pezzo di pane. Solo di tanto in tanto, sulla fetta di pane si metteva un filo d’olio; ancora più raramente, leccornia autentica, da privilegiati, un sottile strato del raro burro con sopra un velo di zucchero. Il pane veniva a consegnarlo il garzone del panettiere. Nelle famiglie contadine, che magari avevano un appezzamento a grano, il pane si faceva in casa, una volta al mese, con la propria farina di rimacinato, e poi lo si portava a cuocere al forno. Pan con pan, comer de tonto, dicono ancora gli spagnoli. Pane e coltello, era la versione siciliana. Di fatto, nei miei ricordi, un po’ di companatico ad accompagnare il pane c’era sempre. Fosse pure una manciata di olive nere, una cipolla o una sarda salata, che erano spesso l’unico companatico dei braccianti. Ma nelle case povere la cena consisteva spesso in pane e piattu cunzatu, piatto condito: un po’ d’olio, un po’ di limone, sale e origano. Poco olio e molto pane, naturalmente. A me piaceva, di tanto in tanto, ma i miei compagni più poveri non condividevano il mio entusiasmo. In Conversazione in Sicilia, il bracciante pagato in arance che tornava dalla Calabria dove inutilmente aveva cercato di venderle, commentava con invidia l’affermazione del viaggiatore 38 39 piangeva il cuore che il figlio partisse proprio quel giorno senza nemmeno godersi i cannoli. Ne prese uno, lo avvolse nella carta oleata e glielo diede per il viaggio. La sera dopo, al ritorno, gli chiese come gli era sembrato il cannolo. Una bontà, rispose Silvestre. Mezzo me lo sono mangiato col pane – sempre quello da tre chili – e l’altro mezzo, aggiunse raggiante, l’ho mangiato schittu. Cioè da solo. Stando così le cose, non sorprenderà che io non riesca a mangiare nulla senza pane, anche se la mia stazza mi consiglierebbe di farne a meno. Non sono riuscito nemmeno a risparmiare alle mie figlie lamentele e rancorose intimazioni quando le vedo sacrilegamente mangiare senza pane. Tutte, naturalmente, conoscono le epopee a base di pane dello zio Silvestre e quando fanno le schizzinose, o non si contentano delle pure fin troppo variate pietanze che vengono loro offerte, non rinuncio al piacere sadico di raccontare la storia della pasta con le fave, che regolarmente mi veniva inflitta quando mi si rimproverava di essere troppo viziato. Questa storia riguarda un altro zio che da bambino detestava la pasta con le fave. Anch’io da bambino la detestavo, mentre adesso la adoro. Dunque c’era pasta con le fave, quella con le fave secche, verdina e un po’ melmosa. Lo zio si rifiutò di mangiarla, proprio non ci fu verso di persuaderlo. Va bene, disse il padre, come vuoi tu, ma non avrai altro. Il suo piatto fu messo nel vano della finestra che dava sulla strada, protetta da una rete metallica antimosche. (Non c’erano ancora i frigoriferi.) La sera appresso, lo zio si ritrovò davanti il suo piatto di pasta con le fave. E di nuovo lo rifiutò. E di nuovo andò a letto digiuno. Lo stesso la terza sera e quella dopo ancora, con rifiuti sempre più cupi e intestarditi. La pasta, intanto, si andava asciugando e calcinando, e sulla superficie cominciavano a formarsi crepe, come nei terreni secchi, ma anche una leggera patina di muffa. La sesta sera, per fame, ma anche per 41 L’astratto presa d’atto politica che quello era ormai diventato un braccio di ferro con il padre che lui non aveva nessuna possibilità di vincere, lo zio tolse lentamente la patina di muffa dal piatto e ingollò in silenzio la sua pasta con le fave. Il bracciante pagato in arance di Vittorini, la storia della pasta con le fave, il cannolo dello zio Silvestre, il bacio sul pane raccolto da terra per non fare piangere Gesù. Tutte cose che mi tornano spesso in mente, con ironia, ma anche con sgomento e scandalo quando il mio mestiere mi porta ad assistere a spettacoli di miseria e sofferenza che ancora devastano il mondo e li confronto con l’insensatezza degli sprechi delle nostre vite senza memoria. Finché c’è sucu, c’è Sicilia. E perché ci sia sucu, occorre preparare l’estratto di pomodoro. Lo si prepara in piena estate, quando il pomodoro è più saporito, polposo e a buon mercato. In tutta la Sicilia, specialmente nei paesi, ma beninteso in maniera differente da paese a paese, da provincia a provincia, ogni famiglia – oggi, soprattutto quelle che poi lo commercializzano – prepara l’astratto. Si spremono tonnellate di pomodori, la cui polpa vermiglia viene posta ad asciugare su larghe tavole di legno: le maidde. Su queste tavole, infaticabilmente, famiglie intere – soprattutto le donne, ma anche i bambini –, per favorire l’asciugatura della polpa, che dovrà completarsi nella giornata, la rimestano tracciando con le dita ghirigori degni di Hartung o dell’action painting americana. Non per niente si chiama astratto. Le tavole vengono orientate verso il sole inclinandole sempre più a mano a mano che questo va calando. A fine giornata si sarà ottenuta una crema densa e un poco bruna, dal profumo forte, intenso. Una quintessenza di estate. Conservata 42 43 in burnìe di terracotta o barattoli di vetro, con sopra un velo d’olio a proteggerla dall’ossidazione, servirà poi in inverno, diluita in acqua e variamente manipolata, a fare il sucu. Per capire l’importanza quasi rituale del sucu nella cucina, e direi nella visione della vita, dei siciliani bisogna leggere certi capitoli dell’Ultima provincia, scritto da un’osservatrice esterna e divertita come Luisa Adorno. 45 Il polpo di Ciccio Mosca Pantelleria era un paradiso per chi amava la pesca subacquea. È nelle sue acque cristalline che ho provato, ragazzo, prima e ultima volta, la vertigine. Tanto trasparenti erano quelle acque benedette. Guardando il fondo, che pure era a una trentina di metri sotto di me, ebbi l’impressione di precipitare. Aria sembrava, non acqua. Non sono mai stato un grande pescatore. Era il piacere di sprofondare in apnea nell’incomparabile, per me, liquido amniotico del Mediterraneo che aveva trasformato quel gioco in passione. Quando andavo a Pantelleria in vacanza, a pescare uscivo sempre con la barca di Ciccio Mosca. Da quando un amico mi aveva fatto il suo nome era diventato il mio barcaiolo. Non era una persona qualsiasi Ciccio Mosca, e Pantelleria non era ancora diventata il posto mondano e alla moda che è oggi. I turisti erano rari e a dire il vero, a parte in agosto, non ci trovavi nessuno. Ciccio sì, infallibilmente lo trovavi dentro la sua barca, o lì intorno. Non era una gran barca: un gozzo da trentadue palmi al massimo, con un piccolo motore entrobordo. Ma sembrava il suo guscio, quasi lui fosse una tartaruga di mare. E a una tartaruga un poco assomigliava Ciccio, rugoso, dalla 47 la padrona della trattoria sul porto o uno degli innumerevoli amici che aveva dappertutto, l’isola sembrava fosse per lui un solo, grande ristorante. Quando gli girava attraccava la barca in qualche punto della costa e scendeva a trovare uno di questi amici, magari portandosi dietro come regalo qualche magnifico pesce di quelli che con grande perizia, che sembrava incredibile facilità, sapeva tirare fuori da quel mare stupendo. Tutti lo accoglievano come una musica di festa e subito si organizzava una gran mangiata annaffiata dai vini forti, alcuni certo un po’ troppo liquorosi per il pesce, che generosamente offre l’isola. È stata in una di queste improvvisate con Ciccio Mosca che ho scoperto l’ammuogghiu, un saporitissimo condimento estivo per la pasta che da allora non ho più abbandonato. È il pesto pantesco e se tutti gli ingredienti sono, come lo erano quella volta, freschissimi e saporiti e profumati, è davvero imbattibile. Intanto ci vuole il basilico giusto, che non è lo stesso che si usa per il pesto genovese, ma uno di foglia più piccola (non piccolissima), meno intenso di sapore ma profumatissimo, poi quel pomodoro piccolo, lobato, di terra secca, tutto polpa e sapore, e aglio, con generosità, e olio buono, di quello che sul fondo della bottiglia lascia il suo bel sedimento di oliva. Si pesta l’aglio con basilico abbondante, appena spiccato – Ciccio pareva che lo bastonasse, per chissà quale sgarbo che gli aveva fatto, dentro il grande mortaio di legno –, poi si aggiunge il pomodoro pelato e tagliato a pezzi, ma questo si pesta con dolcezza, che ne restino dei pezzettini e non tutto vada in salsa. Sale, pepe nero energico e olio senza risparmio. L’ospite avaro, diceva Ciccio Mosca, fa l’ammuogghiu mollo, acquoso insomma. E parlava soprattutto dell’olio, naturalmente, da cui viene il nome di questa salsa meravigliosa: pelle color tabacco, ispido di barba, con una coppola sempre tirata all’indietro. Di pochissime parole, e quelle sornione, sfottenti, ma che ti facevano sentire l’amicizia. Amici un poco credo lo fossimo diventati, con Ciccio Mosca. Potevano passare due anni senza vederci e mi accoglieva sempre come se ci fossimo lasciati qualche ora prima. Che età aveva Ciccio Mosca? E chi lo sa. Lui certo non me lo ha mai detto. Dare gli anni a un marinaio è difficile, con quella pelle conciata dal sole, dal salmastro e dal vento, che fa credere vecchi uomini che stanno appena uscendo dalla più vigorosa giovinezza. Esperienze, certo, ne aveva vissute molte e a pezzi e bocconi qualcuna me l’aveva raccontata. Pantelleria, paradiso per chi ci andava in vacanza, era spesso in quegli anni durissima da vivere per gli abitanti e molti di loro erano costretti a emigrare, per bisogno o per speranza. Anche Ciccio era partito, in alta Italia, in Germania. Per cercare lavoro, ma soprattutto, mi diceva, per vedere se il mondo assomigliava davvero alle favole che raccontavano quelli che erano partiti e che di tanto in tanto tornavano. Lui, però, un sospetto ce l’aveva su quei racconti. Le parole erano spavalde, mi disse, ma gli occhi tristi. Dopo un paio d’anni di verifiche, Ciccio decise che avevano ragione gli occhi, quelli degli altri e i suoi, che con tutto quel grigio del cielo del Nord si stavano affumicando anche loro. E se ne tornò a Pantelleria, alla sua barca, al suo mare, alla sua vita. Non ho nessuno, mi diceva, di che cosa ho bisogno? Tra cielo e mare, da dormire e da mangiare certo non mi manca. Credo che vivesse in casa con una sorella e quando non dormiva nella barca, le rare volte, era lì che allungava le ossa in un letto. Quanto a mangiare, un piatto di pasta per lui c’era sempre. Ma era un buongustaio Ciccio, non si limitava certo alla pasta, e anche su quella aveva fisime e idee precise. Che fosse 48 49 Il passato immobile ammugghiari significa infatti avvolgere e l’ammuogghiu sembra fondersi con la pasta caldissima e al dente mentre l’avvolge, e avvolge anche il palato, deliziandolo. Ma il vero, indimenticabile ricordo gastronomico che devo a Ciccio Mosca è un altro. Una mattina, preda facile una volta trovata, ma da me certo non disdegnata, tirai su un polpo ragguardevole, sarà stato almeno tre chili. Lo porsi a Ciccio ancora infilzato nell’arpione, lui lo staccò e lo uccise fulmineamente con il classico, pietoso e feroce morso del pescatore. Vieni su, mi disse, che ce lo andiamo a cucinare. Era raro che Ciccio si autoinvitasse a mangiare le prede di chi accompagnava e ne fui incuriosito. Fece partire il motore e si diresse verso un punto della costa dove di solito non andavamo. Pensavo che avesse in mente il dammuso di uno dei suoi amici, ma vidi che non accennava a fermarsi. A un certo punto, con mia sorpresa, arrivò in un posto dove il mare fumava. Ridendo del mio stupore mi spiegò che ogni tanto in quel punto il mare bolliva. Tra quei vapori gettò l’ancora. Prese il polpo e lo sbatté a lungo sulle tavole della barca per snervarlo e intenerirlo, quindi lo agganciò a un grosso amo e con una sagola lo calò nell’acqua fumante. Non ce lo tenne molto, certo non più di venti minuti. Quando lo tirò fuori il polpo era splendidamente arricciato e cotto a puntino. Il più buono che abbia mai mangiato. Cerco sempre, specialmente a primavera, soprattutto se le mie riserve cominciano a scarseggiare, di fare un salto in Sicilia, a Bagheria, per procurarmi il tenero, profumatissimo, saporito finocchietto di montagna. Montagne che sono poi le brevi colline che racchiudono la cosiddetta Conca d’oro, oggi piuttosto conca di cemento. Se non posso andare, imploro amici e parenti che vengono al Nord di portarmene un bel po’. A Milano, dove abito da oltre trent’anni, si trovano ormai anche le verdure meridionali e maghrebine e orientali e sudamericane e oceaniche più rare e stagionali, quelle la cui mancanza molti anni fa accendeva la dolorosa nostalgia degli immigrati. Non c’è niente che faccia sentire di più la lontananza da un luogo, dal quale magari con solide ragioni si è partiti senza alcun apparente rimpianto, della mancanza, in certe stagioni, in certe ricorrenze, di precisi sapori. È un autentico lutto dell’identità che non si riesce a medicare, e forse nemmeno si vuole, anche se magari si finge di desiderarlo. Così per me il finocchietto. Il suo profumo forte, netto, è senza dubbio, insieme a quello delle zagare e del gelsomino 50 51 per necessità. Forse la stessa necessità per cui a scadenza fissa è obbligatorio rinnovare i documenti. Ecco, la pasta con le sarde per un siciliano, o per un valenciano la paella, il cuscus per un maghrebino, specialmente se emigrati, soprattutto se emigrati, vengono mangiati come se ci si auto-rinnovasse l’identità culturale. Non è una faccenda da prendere alla leggera, è una serissima questione di linguaggio e del valore simbolico collettivo che assumono certi alti risultati – intendo di alto valore condiviso – di quel linguaggio. Come certi romanzi o certi dipinti, certi monumenti, certe arie d’opera, che assai più delle bandiere e degli inni nazionali definiscono un tal gruppo di uomini e donne, un popolo addirittura, che metaforicamente fanno da punto di riferimento per la loro maniera di agire, ragionare, pensare, distinguere, delinquere, giudicare. Vivere, insomma. Quei cibi, quelle ricette tramandate di madre in figlio sono come la lingua, i dialetti che parliamo. E proprio come la lingua e i dialetti, finché li usiamo nel contesto storico e geografico che è il loro mutano, si evolvono, sperimentano, vivono. Non a caso di certe ricette, pur considerate classiche, ci sono nella stessa regione, nello stesso paese, infinite varianti che mutano di quartiere in quartiere, addirittura di strada in strada. Ma non appena ce ne allontaniamo, specialmente se l’allontanamento è vissuto con il sentimento lacerante del distacco, il loro uso cambia di significato, si trasforma in gesto di appartenenza, in spazio familiare, riconoscibile, rassicurante, prova della permanenza dell’identità che si teme di perdere, tentativo di fissare la memoria, il passato, in un impossibile, immobile presente. E proprio come la lingua e i dialetti, certi piatti, certi dolci, tendono a fissarsi, cristallizzarsi, sclerotizzarsi, a morire di falsa sopravvivenza, diventano cadaveri imbalsamati. Come i cannoli con la ricotta delle feste di San Gennaro a Little Italy, arabo, la più forte tra le scatenanti madeleine della mia memoria. Il suo profumo, il suo sapore, ma soprattutto il suo ruolo di indispensabile ingrediente per certi piatti. Ecco, il finocchietto selvatico a Milano proprio non lo trovo, né lo trovavo a Parigi, o rarissimamente, e deludente, quasi inodore e di scarsissimo gusto, quando per finocchietto non cercano di gabellarmi l’assai diverso aneto. Si trova, di rado, il finocchio tenero, molto meno profumato, con il quale si possono preparare ottime minestre, che mio padre detestava – la chiamava pasta con i peli –, come detestava la pasta con i tenerumi, le foglie della pianta di zucchine lunghe, di cui io invece andavo matto e che ancora mi incanta, mentre per lui era pasta con le pezze di lana, mangiare per vacche. Il mio finocchietto mi arriva quindi dalla Sicilia, anzi dalle colline che circondano il mio paese, e se invece sono a Bagheria mi piace comprarlo dai soliti vecchietti che si alzano all’alba per raccoglierlo e poi lo vendono vicino alla posta, a mazzetti, avvolto in teli di juta bagnata. Lo ripulisco e una volta a Milano lo metto in freezer, riserva preziosa, diviso in dosi sufficienti per un abbondante sugo per la pasta con le sarde. Refrigerato perde certo qualcosa della sua fragranza, ma non tanto da non confermare l’impossibilità di farne a meno. Senza finocchietto, infatti, niente pasta con le sarde. Semmai, se non hai trovato o non hai potuto comprare le sarde, senza sarde si può preparare una pasta più povera, buona anche quella, che porta il nome sarcastico di pasta con le sarde a mare. Ma se uno ogni tanto non si prepara una buona pasta con le sarde, che campa a fare? E non sto parlando soltanto di piacere o di nostalgia dei sapori. In genere detesto la nostalgia. È che ci sono piatti che alcuni individui, originari dello stesso territorio geografico e culturale, e da questo lontani, ogni tanto devono mangiare, 52 53 a New York, prima che Little Italy fosse ingoiata da Chinatown, che mi hanno dato la sensazione di assaggiare mummie impagliate di quello che era, che ancora è in certe pasticcerie della provincia di Palermo, il cannolo siciliano. Oppure i churros, monumento nazionale della cucina popolare iberica, che si ritrovano in Messico, Argentina, Brasile, ma anche nel quartiere ispanico di New York, unti, secchi, inutilmente ripieni, imbolsiti, irriconoscibili. Reperti archeologici, fossili di uno strazio culturale che è continuato per generazioni. Martin Scorsese ha magnificamente e ossessivamente raccontato nei suoi film di ambiente italoamericano il ruolo fondamentale del cibo in questa sindrome da paura di perdita dell’identità. A Charles e Catherine, i suoi genitori, ha affidato con frequenza piccoli ruoli nei suoi film, quasi sempre legati al cibo. Catherine è spesso la mamma che cucina per i bravi figli assassini e Charles, in Quei bravi ragazzi, è l’uomo che in prigione affetta l’aglio sottilissimo con una lametta da barba per preparare il sugo di pomodoro. Mi aveva molto impressionato, quando lo vidi in un cinemino di Saint-Germain, a Parigi, il suo documentario Italianamerican, composto di due lunghe interviste. La prima è proprio con i suoi genitori, seduti nel loro tinello piccolo-borghese, dai quali Scorsese si fa raccontare l’odissea vissuta dai nonni, arrivati a New York nei primi anni del Novecento, in fuga dalla miseria dei due paesi della provincia di Palermo, Ciminna e Polizzi Generosa, da cui provenivano, e il loro venire su bambini nel passato immobile di Elizabeth Street, nel cuore di Little Italy, dove poi si erano conosciuti e sposati e da dove si erano allontanati soltanto quando Martin, raggiunto il successo e diventato ricco, li aveva trasferiti in un appartamento dei quartieri midtown, all’inizio di Madison Avenue. La più ciarliera era Catherine, naturalmente, gran carattere. Raccontavano dei nonni di Martin che in trent’anni di America non avevano imparato una parola di inglese, delle tante peripezie, di quello strano rito, ogni estate, di preparare, in the roof la salsa di pomodoro da asciugare al sole per ricavarne l’estratto, crema densa e bruna da usare per i sughi dell’inverno. Nel corso dell’intervista la mamma continuamente si alzava, seguita dalla macchina da presa, per andare in cucina a controllare una pietanza che sobbolliva in una grossa marmitta. Questo vai e vieni si ripete tre, quattro volte e a un certo punto Martin le domanda, ma con l’aria sorridente e le narici dilatate di chi conosce benissimo la risposta, che cosa sta preparando. Come, che cosa sto preparando? Sapendo che venivi sto preparando le polpette col sugo, naturalmente, quelle che mi ha insegnato a fare tua nonna e che ti piacciono tanto. Quelle polpette diventarono il Leitmotiv del racconto, al punto che alla fine dell’intervista, sui titoli di coda, scorre la ricetta delle polpette col sugo della signora Scorsese. Nella seconda intervista del documentario, un giovane dichiara subito che lui ha sempre preferito mangiare al McDonald’s perché sua madre cucinava uno schifo. Insomma, finché il filo della ricetta delle polpette, tramandata dalla Sicilia alla nonna alla mamma a Martin, non si spezza, c’è memoria, c’è identità. Quel documentario mi ha suscitato una curiosità appassionata per Martin Scorsese. Ha la mia stessa età, i suoi nonni partirono dalla Sicilia lo stesso anno, chissà, magari con la stessa nave, della sorella di mia nonna e del fratello di mio nonno, che tutta la famiglia accompagnò al porto con le lacrime di chi sapeva che non li avrebbe rivisti mai più. Per caso – per caso? – ho poi avuto l’occasione di realizzare per un numero speciale di “Vogue France” un lungo lavoro 54 55 fotografico su Scorsese e la sua famiglia, andando a trovare persino i parenti rimasti a Ciminna e a Polizzi Generosa. Quelle polpette le ho mangiate a New York, in casa dei genitori di Scorsese, dove su mia richiesta furono preparate per me e dove Catherine mi raccontò delle mangiate a casa sua di Martin con Coppola e De Niro a base di ziti col sugo, polpette e chicken c’u garlic, di cui è ghiotto specialmente Coppola, e di quella sciocca di sua nipote Domenica, la figlia di Martin, che non vuole imparare l’italiano. Perché per Catherine la lingua misteriosa fatta di siciliano arcaico e di americano che parlava lei e che cercava di insegnare alla nipote era italiano. La mattina dopo li accompagnai in Elizabeth Street, dove andavano ogni giorno per comprare il pane da una panettiera polizzana che, mi spiegò Catherine, lo fa “come da noi”. Come da noi significava come in Sicilia. Catherine è nata a New York, quando l’ho conosciuta aveva settantadue anni e in Sicilia non c’era mai stata, come non c’era mai stata la panettiera originaria di Polizzi Generosa. Ma il sapore di quel pane, come quella neolingua mezza siciliana e mezza americana che scambiava per italiano, era ancora una patria, il racconto di un’identità. Lo stesso racconto di cui il figlio regista, americano, della prima generazione non più siculo-americana, continua a nutrire il suo cinema. Ma se la sclerotizzazione dei linguaggi, l’immobilismo della memoria possono diventare imbalsamazione e morte, anche il trasformismo gastronomico può essere a volte vissuto come profanazione gratuita, scandalosa. La pizza con l’ananas, per esempio, o certi pseudo spaghetti-colla conditi con sciroppo d’acero. Con la galoppante globalizzazione sono diventate moda troppo spesso gratuita le cucine fusion e ogni sorta di contaminazione. Le esperienze e le varie migrazioni suscitano sperimentazioni che in passato sarebbero sembrate spericolate. Magari spericolate, comunque vitali, e stimolanti 57 La distruzione delle arance di nuovi punti di vista. Trovo formidabile, per esempio, il tonno farcito di aglio, pepe e menta, cotto nell’estratto di pomodoro e mangiato con una buona polenta. Forse mi fa capire meglio di tante analisi storico-sociologiche il mio percorso di terrone milanese. In un romanzo del mio indimenticabile amico Manuel Vázquez Montalbán, Gli uccelli di Bangkok, Pepe Carvalho, collage di investigatori e come il suo inventore appassionato di cucina, si ritrova in Thailandia alle prese con una complicata vicenda di cui non riesce a venire a capo. Per occupare il tempo, mentre è costretto a nascondersi, decide di prepararsi una specialità valenciana, ma naturalmente non dispone degli ingredienti necessari. Allora tenta di arrangiarsi con quelli che trova. E dopo aver preparato quella pietanza, sorprendendosi per il sapore che ne è venuto fuori, eco dell’originale eppure coerente, ha un’illuminazione: se finora non è riuscito a risolvere l’intrigo, è perché lo ha affrontato con una logica spagnola anziché thailandese. Quell’esperimento gastronomico gli rivela che, come per quel piatto, era necessario tradurre il ragionamento nella logica del luogo in cui si trovava. E all’improvviso capisce. Mi è capitato di fotografare distruzioni di massa di frutta. In Emilia, le pere. In Sicilia, a Paternò, a Palagonia, le arance. Teorie di camion stracolmi di frutti in attesa di passare al peso per ottenere i rimborsi dalle strutture preposte al ritiro di quelli in sovrapproduzione. Per calmierare il mercato e non fare crollare i prezzi. Motivazione forse economicamente razionale, ma che non basta a cancellare il sentimento di assistere a una sacrilega follia. Dopo essere stati pesati, i camion si avviavano verso le discariche dove le pere, le arance venivano ammucchiate, irrorate di sostanze che le rendevano inconsumabili e poi schiacciate da ruspe che completavano l’uccisione. Uccidere, propriamente, assassinare. È questo sentimento, sacrilega follia, che suscita lo spettacolo penoso. Hanno anche tentato di impedirmi di fotografarlo, il massacro. Il mio fondato sospetto è che volessero evitare la documentazione di una pratica, lo scafazzo, che si trasforma in facile occasione per le molte truffe che qualche volta sono venute a galla. Camion pesati più volte e cose del genere. Ma non è impossibile che, come avviene per i macelli industriali, si volesse nascondere lo scandalo crudele di quelle distruzioni. 58 59 Chissà, forse persino per rimuovere un oscuro senso di colpa sociale. Mentre seguivo quei camion di rosseggianti arance verso i luoghi della macellazione, non potevo fare a meno di ricordare la trepidazione con cui mio padre proteggeva le piante del suo limoneto dai rischi cui la natura le esponeva. Malsecco, cocciniglie, il pidocchio a virgola, la siccità, la pioggia al momento sbagliato, la grandine, il vento che sbattendo i frutti sui rami provocava una cicatrice che deturpava la bellezza e uniformità della buccia, l’eccesso di vegetazione che diminuiva la produzione dei frutti. Bisognava calcolare la concimazione esatta, l’acqua da dare al momento giusto. Bisognava zapparle le piante, irrorarle, rimondarle. Proteggerle e aiutarle in ogni modo. Conosceva le sue piante una per una, mio padre. Ricordo, dopo l’irrigazione, le sue solitarie e accurate esplorazioni con il terreno non ancora completamente asciutto per controllare che ci fosse abbastanza zagara e che quella zagara non fosse vuota di frutti. Una sapienza acquisita nel tempo, un amore che aveva un unico scopo, economico certo, ma che soprattutto sanciva un risultato meticolosamente cercato. Una ricca produzione di frutti belli e sani. Mi chiedevo quale devastazione avrebbe provocato nel suo orgoglio contadino vedere i suoi limoni, le sue arance, caricati alla rinfusa su dei camion per andare al macello. A Palagonia ho seguito i camion fino a una discarica. Rovesciavano le tonnellate di arance, già contaminate dalla bava verdognola dei veleni, su un terreno in pendenza. Le ruspe le spingevano e schiacciavano senza sosta. Su quel pendio si formava una colata che si muoveva verso valle lentamente. Emanava un odore acre e già infetto. Assomigliava davvero a una colata di lava del vicino Etna. Ma senza l’oscura forza vitale che la lava, a volte devastatrice, comunica. Una lava di arance, una colata di morte, come un lento pianto doloroso. 60 Il capretto di Kami Accompagnavo un medico di Cooperazione internazionale nel suo giro per i microvillaggi intorno all’accampamento di minatori che stavo fotografando in Bolivia. Ci condussero in una capanna dove viveva una famiglia di poverissimi pastori. C’era un bambino magrissimo e stremato. Parlavano aymara. Faticosamente capimmo che quello che chiedevano al dottore non era tanto una diagnosi, ma di fargli qualcosa. Magari, ci fecero capire con gesti eloquenti, con una di quelle bottiglie collegate a una vena che, come avevano visto fare per altri malati, portavano linfa miracolosa dentro il corpo, rimettendo in sesto la gente. Il dottore visitò il bambino. Ma che bottiglia, disse, ha solo bisogno di mangiare. Dategli da mangiare. Sembravano delusi, costernati. Sono tornato il giorno dopo. La nonna aveva appena finito di scuoiare un capretto che avevano macellato per dare da mangiare al bambino. Per loro un grande sacrificio, che avevano cercato in ogni modo di scongiurare. 65 Il latte di zu Bastiano In uno spot televisivo che ho visto molte volte, per sottolineare la speciale genuinità di un certo latte e rafforzare la fedeltà a quel marchio, viene mostrato un bambino che assaggiandolo esclama rapito che sì, è proprio il latte della Lola, quella mucca speciale, la sua mucca. Questo avviene in un mondo, quello di oggi, nel quale è assai probabile, se non certo, che molti bambini di città una mucca non l’abbiano mai vista altrove che in schermi televisivi o nelle illustrazioni dei libri. La mia Lola, io da bambino la vedevo tutte le mattine. Tutte le mattine, infatti, zu Bastianu il vaccaro e sua moglie donna Eleonora arrivavano di buon’ora con le loro due mucche all’angolo della strada dove abitavamo. Là li aspettavano donne e bambini, messi a turno dall’energica donna Eleonora, e zu Bastianu mungeva il latte direttamente dentro le gamelle che gli andavano porgendo. Quando il latte cominciava a esaurirsi e le due mucche si erano sgravate anche di meno profumati prodotti del loro corpo, zu Bastianu e sua moglie scendevano lungo la stradina e si fermavano davanti alle porte di alcuni clienti speciali. Mia madre era tra questi. 67 Il limite del rospo Non si sarebbe mai messa a fare il turno per il latte, né andava, come molte altre donne, a prendere l’acqua col secchio alla fontana, allo stesso angolo di strada dove quotidianamente si montava la piccola latteria. Noi, famiglia di piccolissimo proprietario di limoneto, l’acqua l’avevamo in casa, come poche altre famiglie nella strada. Un vero privilegio consisteva nell’ottenere l’ultimo latte della mungitura, il più denso, il più ricco di grasso, il più saporito. A me piaceva berlo così, subito, ancora caldo, con nel naso il sentore di stalla che le due mucche facevano entrare in casa. Anche se mia madre debolmente opponeva che bisognava prima bollirlo il latte, che a lei quell’odore di stalla e la dubbia pulizia dei due vaccari non la incantavano per niente. Oltre ai vaccari – ne arrivava praticamente uno in ogni strada – per il paese passavano quotidianamente anche i caprai. Molti infatti preferivano il latte di capra, considerato più gustoso e leggero. Ai neonati che non potevano essere allattati dalla madre veniva dato latte d’asina o di capra diluito. Frigoriferi non ce n’erano. Il latte, quindi, come tutto ciò che poteva guastarsi rapidamente, veniva comprato ogni giorno. Soprattutto in estate. D’inverno, nei brevi periodi in cui faceva molto freddo, se ne comprava di più. Quello che restava, mia madre lo metteva nel vano di una finestrina che dava sulla strada, con una fitta rete metallica a proteggerla dagli insetti. Se il latte era bello denso, la mattina dopo trovavamo sulla superficie una crema prelibatissima che veniva accuratamente raccolta, spalmata sul pane e spolverata di zucchero. Un autentico premio. Soltanto molti anni dopo, al Nord, ho ritrovato nel buon mascarpone, raro, quel non dimenticato sapore. A Kuala Lumpur, con la zuppa di rospo non ce l’ho fatta. Nelle stradine della città vecchia i piccoli ristoranti si susseguono colorati e sull’uscio di ognuno campeggia una vetrina dove puoi scegliere il tuo rospo, vivo, naturalmente, col quale preparano una zuppa famosa da quelle parti per la sua prelibatezza. Sapevo che la mia disponibilità curiosa per i cibi sconosciuti avrebbe prima o poi trovato il suo invalicabile muro culturale. Approfittando di un mestiere che mi ha fatto molto viaggiare, ho mangiato ogni sorta di cibi in giro per il mondo. Per curiosità, per mettermi in bocca lo stesso sapore che aveva la gente che fotografavo e cercavo di capire. Con una predilezione per i cibi di strada. Spesso ho mandato giù intrugli cucinati nei luoghi più sospetti senza nemmeno immaginare con che cosa – grassi, spezie, erba o animale – fossero stati preparati. Non sempre quei cibi mi hanno entusiasmato, ma non ho mai avuto problemi. Ho sempre pensato che i tabù alimentari siano soltanto culturali. Miei conterranei che come me hanno succhiato per anni, dopo averne forato il guscio con abilissimo colpo di canino, pentolate di lumachine, i babbaluci, cucinate con aglio, 68 69 olio e peperoncino, si fanno pericolosamente pallidi e cercano con inquietudine il bagno più vicino se gli racconti quanto sono deliziosi i piccoli grilli fritti del ristorante La Coronilla a Oaxaca, o certi piatti di serpente di Hong Kong. L’anguilla, il gronco, la murena, ai ferri o in brodo, i gamberetti, l’antidiluviana coda di rospo, l’inquietante granseola, nostrane delizie da leccarsi i baffi. Il serpente, che schifo! Il maiale, in salsiccia, in ciccioli, gli speziati fegatini avvolti dentro la rete di grasso, monumenti della nostra cucina nazionale. Il cane, la zebra, roba da selvaggi. Ma il rifiuto schifato non investe soltanto l’esotico sconosciuto, il sapore che non hai praticato fin dall’infanzia e non fa parte della tua cultura alimentare. Moltissimi sono orripilati dalle interiora, dalle trippe, o detestano i polpi, le seppie, ogni viscido animale, e così via. Per non parlare di certi vegetariani, che il pesce però lo mangiano. Molti scrittori hanno problemi perfino con le parole che designano i cibi, e non solo con quelle. Leonardo Sciascia non mangiava le ostriche, per esempio, né alcun mollusco vivo. Ma le grasse e di forte sapore stigghiole, budella di capretto o anche di castrato, arrotolate con spezie e arrostite sul carbone, gli piacevano molto, come ogni genere di interiora. Jorge Luis Borges, al quale chiesi come mai al ristorante chiedesse così spesso prosciutto, mi rispose che trovava la parola molto nutriente e saporita. Non c’è da stupirsi di queste idiosincrasie e passioni. L’identità culturale è un cerchio più o meno netto di gusti, rifiuti, credenze, ripulse, gerarchie di valori che fortemente ci definiscono e la cui fondamentalista inflessibilità così tanti guai produce in altri campi. Sono contento, comunque, che il caso e la curiosità mi abbiano fatto sperimentare la grigliata di coccodrillo a Leticia de las Tres Fronteras, in Colombia, e la succosa, clandestina bistecca di tartaruga a Bali. E che tanto mi piacciano le andouillettes di ogni tipo, le salsicce francesi di interiora, come i loro omologhi insaccati grigliati marocchini e ogni sorta di trippe, con predilezione per le preparazioni toscane, madrilene e catalane. A Kuala Lumpur, tuttavia, davanti al bel rospo vivo da fare in brodo, proprio non ce l’ho fatta. 70 71 Un pugno di riso In quella parte del mondo dove il caso e la fortuna mi hanno fatto nascere e vivere, la parola fame l’ho vista trasformarsi da esperienza di vita in concetto metaforico. Quando ero bambino io non l’ho certo patita la fame, ma sapevo che intorno a me era cosa drammaticamente concreta. Se si diceva che in una casa mancava il pane non era certo per metafora. Di povertà ce n’è ancora molta nella società detta del benessere, ma la miseria, quella dove la fame è occhi incavati e crampi allo stomaco, quella per fortuna mi sembra diventata rara. Il mio mestiere di reporter mi ha fatto incrociare molte volte la fame in luoghi diseredati del mondo, seviziati da eccezionali o endemiche catastrofi naturali. Nel Bangladesh un terribile tsunami, che, si disse allora con approssimazione, aveva fatto oltre settecentomila morti. A Noakhali, su un terrapieno dove l’onda devastante si era infranta due volte, in andata e ritorno, portando via tutto – persone, bestie, raccolti –, migliaia di uomini e donne e vecchi e bambini scavavano nel fango per cercare di recuperare il pochissimo riso che vi era rimasto imprigionato. Quel disperato lavoro poteva fare la differenza tra la sopravvivenza e la morte. Salii su un barcone che andava ad Hatiya, isoletta del delta del Gange, dove era stato localizzato l’epicentro di quella catastrofe. 73 Ci aspettava una folla di affamati ai quali venivano letteralmente versati, nelle mani aperte a coppa, un pugno di riso, una razione di farina. Agli uomini era chiesto di firmare con la loro impronta digitale, su assurdi registri, la ricevuta per questo misero aiuto. Ho ascoltato storie che sembravano favole nere. Come quella dell’uomo che il giorno prima dell’onda aveva visto i cani arrampicarsi sulle palme. Si era spaventato e si era arrampicato su una palma anche lui, con il suo bambino. Arrivò l’ondata immane, piegò la palma e a un certo punto il bambino gli sfuggì dalle braccia, poi anche lui, assieme alla palma, fu strappato via dalla violenza dell’urto. Perse i sensi. Si svegliò, miracolosamente vivo, non avrebbe saputo dire quanto tempo dopo. Non riconosceva nulla del paesaggio devastato che lo circondava. Soltanto dopo scoprì che si trovava a quattordici chilometri dalla sua casa. Un pugno di riso. Questa espressione metaforica, drammaticamente concreta, l’ho ritrovata a Macallé, in Etiopia, dove in un campo erano ammassati i fuggiaschi da una delle ricorrenti siccità che devastano quel paese. Morivano cinquanta persone al giorno. Per paradossale iperbole visiva, accanto al campo, che era stato un macello a cielo aperto, si ammucchiavano migliaia di ossa e crani bianchi di animali che sembravano un monito minaccioso per i vivi. Dal campo, specialmente la notte, saliva un suono spaventoso, come se quelle migliaia di persone fossero diventate un solo corpo dal quale esalava straziante un unico lamento. Anche lì piccole mani nere aperte per pochi grammi di grano, per un salvifico pugno di bianca farina. L’afflizione che davano a Benares le lunghe file di mendicanti accoccolati davanti ai loro piatti di foglie intrecciate in attesa della povera sbobba dei pellegrini dei templi, era diversa. Lo spavento della fame si poteva leggere nei loro occhi, non l’orrore della morte. 75 Mosche Sono diventato anch’io intollerante alle mosche. La mia figlia minore non le sopporta. È sufficiente che una mosca o due si posino su un cibo perché lo schifo si disegni sul suo volto. Se non riesce a tagliare, a rimuovere la parte per un istante contaminata dall’insetto è capace di rinunciare alla pietanza. Se si tratta di un frutto lo lava e rilava più volte. In estate, in vacanza, quando, complice il calore, in campagna o al mare inevitabilmente ci sono un po’ di mosche, la battaglia per eliminarle è continua e senza quartiere. Mentre faccio la mia parte in queste nevrotiche scaramucce non posso comunque impedirmi di sorridere al ricordo della quantità di mosche che hanno infestato la mia infanzia e delle autentiche, inutili, guerre che quotidianamente si combattevano per tentare di debellarle. A volte era necessario chiudere ermeticamente le stanze, fare buio, aprire uno spiraglio di luce, e con l’aiuto di grandi sventolamenti di tovaglie spingere fuori i nugoli di mosche attirate dalla luce. Si cercava in mille modi di proteggere i cibi, naturalmente, ma nessuno si schifava troppo se qualche mosca si posava su una pietanza, non al punto comunque da rinunciare a mangiarla. Si sarebbe morti di fame. Sui banchi dei macellai, dei pescivendoli, dei verdurai uno strato di mosche fameliche ricopriva i cibi sino a letteralmente 77 Le granite di Acireale impedire, nel caso delle trippe, per esempio, o dei frutti di mare, di capire di che cosa si trattasse. Poi tutto veniva ripulito, bollito, grigliato e nessuno ci pensava più, alle mosche. Del venditore ambulante di panelle che girava per le strade del mio paese gridando C’a carni su’! – dove per carni si intendeva nient’altro che il velo di mosche che copriva la sua mercanzia – ho già detto. Una scrollatina, cinque panelle in mezzo a una mafalda e la bontà che si sprigionava al primo morso faceva dimenticare qualsiasi cosa, figuriamoci le mosche. Oggi è soltanto durante certi viaggi in paesi del Terzo o Quarto mondo che mi capita di vedere banchi di cibi neri di mosche. Mi fanno più schifo di quando ero bambino. Tuttavia, lo ammetto, qualche volta mi innescano meccanismi di memoria che assomigliano alla nostalgia. Del resto, Kundera non ha scritto che le fotografie di Hitler lo commuovono perché gli ricordano la gioventù? Poi sono arrivati il ddt, le disinfestazioni, e le mosche sono diminuite in maniera drastica nel paesaggio della nostra vita. Adesso è soprattutto sui cumuli di immondizie troneggianti nelle strade delle nostre città che si possono trovare accaniti nugoli di mosche che ricordano le invasioni della mia infanzia. Su molta frutta non si posano nemmeno. Forse oggi sono le mosche a schifarsi, dello strato di veleni chimici che ricopre pesche, fragole e albicocche. Ero ad Acireale per un lavoro sull’Etna. Alloggiavo in un piccolo albergo vicino alla piazza, magnifica. La mattina mi piaceva fare colazione leggendo i giornali a un tavolino del più rinomato caffè del paese, davanti alla stupenda chiesa barocca di San Sebastiano. Granita con panna, accompagnata naturalmente da una calda, sofficissima brioche. La prima colazione con la granita è una delle glorie della Sicilia orientale. Al banco e ai tavolini il viavai delle persone si faceva folla. Dal bar partivano squadre di ragazzini con vassoi pieni di granite e brioche che raggiungevano le case, i saloni dei barbieri, i circoli. Ascoltavo la sincopata jam session delle ordinazioni. Mezza granita di mandorla con panna. Granita di caffè e brioche fredda. Caffè con panna. Mezza di mandorla e mezza di caffè, senza panna. Limone e fragoline. Fragola con panna. Mandorla tostata e panna con due brioche caldissime. Gelsi neri con panna. Gelsi neri con una punta di mandorla. Gelsi e limone. Una variazione infinita sul tema del piacere, araba e barocca. Ero impressionato. Sembrava che ciascuno avesse il suo personale segreto della esatta ricetta per raggiungere la 78 79 Il decottaio perfezione del gusto. Quando si tratta di sapori, bisogna riconoscere che i siciliani ci danno dentro con i sensi. Ho detto arabo e barocco. In effetti nella mia immaginazione, soprattutto per i gelati, è il sogno arabo che c’è in me che viene fuori. Paolo Conte lo promette a una donna sotto forma di tiepidezze da hammam. Per me sogno arabo è il gelato, soprattutto le granite. Con pertinenza penso, visto che sono stati gli arabi a regalarcelo. Il gelato è un refrigerio inventato da un popolo che conosce il deserto, la vampa calda del sole. Nel brulicante suk di Damasco ho assaggiato un meraviglioso sorbetto di crema preparato a vista da nerboruti giovanotti che senza tregua pestavano in profondi pozzetti ghiaccio tritato, latte, zucchero, e un po’ di cannella, come si faceva una volta, fino a ridurre il tutto a una setosa delizia. Mi sono ricordato delle fotografie siciliane di fine Ottocento in cui si vedono lunghe file di donne che trasportano cesti di neve da interrare per la preparazione, in estate, di sorbetti e granite. Sogno barocco, anche. E non soltanto per l’arricciolata variazione di combinazioni che consentono le granite. Ma anche, se non soprattutto, perché, come ad Acireale, io associo i piaceri del gelato alla suggestione di alcune tra le più belle piazze del mondo. Ma quante piazze tra le più belle del mondo ci sono in Sicilia, in Italia? Sorbire una granita di mandorla tostata, o di gelsi neri – la mia preferita, ma forse la mia granita preferita è quella che in quel momento mi sto godendo –, davanti all’incredibile, sublime architettura di panna baciata dall’ultimo sole del duomo di Siracusa è un’esperienza in cui la fusione dei piaceri del palato e della vista produce estasi estetiche da sindrome di Stendhal. Una volta, a Ispica, in un piccolo bar, mi hanno fatto provare una granita di carruba. Sorprendente e straordinaria. Non l’ho più ritrovata. Lo spaccio del decottaio era uno stanzone con sedie impagliate e pochi tavolini. Sul lungo banco erano allineate grosse pentole che contenevano, caldissimi, decotti di varie erbe. Malva, gramigna, fiori di fico d’India, erba spaccapietre, menta. La mattina lo stanzone era sempre affollato di uomini che sorseggiavano da grandi boccali di vetro, con la faccia seria di chi celebra un rito, le loro fumanti infusioni. C’era un’atmosfera da terme d’acque e, specie d’inverno, densa di caldi vapori profumati. Io facevo riempire la mia gamella con mescolanze a base di infusioni di fiori di fichi d’India ed erba spaccapietre. Mio padre, che soffriva di renella e di calcoli, aveva fiducia assoluta, se il malessere non era gravissimo, nell’effetto rinfrescante del decotto di fiori di fichi d’India. E ne aveva persino di più in quello di erba spaccapietre, che anch’io avevo imparato a riconoscere e raccogliere in campagna per le preparazioni di mia madre. Quel decotto miracoloso, per convinta fede popolare aveva la virtù di sciogliere e permettere di eliminare anche le “pietre” più grosse e micidiali. A me i decotti disgustavano abbastanza, anche se adesso mi capita, per desiderio, di ritrovare quel sapore, di raccogliere i fiori di fico d’India per farne infusioni. Mi piaceva solo il decotto di gramigna. Portentosamente rinfrescante. anche quello, si capisce. 80 81 Il sapore della buonanima Non avevano avuto figli. Era il cruccio della loro vita. La sola ombra in un matrimonio felice. Avevano celebrato da poco, assieme ai pochi parenti e amici, le nozze d’argento: venticinque anni. Poi, fulminea e inattesa in quel giardino di serenità, una brutta malattia – così si suole dire, come se ce ne fossero di belle – si portò via la moglie. Pietro, ancora giovane, poco più di cinquant’anni, ne fu atterrato. La moglie era l’aria e la musica tranquilla della casa e della sua vita. Anche quando il dolore cominciò ad attutirsi, la solitudine nella quale ora viveva lo aveva fatto scivolare in una sorta di blanda depressione. Con gli amici, con il fratello più anziano, il suo argomento principale, praticamente il solo, era la defunta moglie, la buonanima, scrigno e parametro di ogni virtù. Si lasciava andare. La cognata e una nipote andavano ogni tanto a portargli qualche pietanza calda e a dare una sistemata in casa. Ma se ne lamentavano. Lui non voleva cameriere tra i piedi. Mangiava un pezzo di pane e formaggio, olive, un po’ di frutta della sua campagna. Usciva poco ormai. Al circolo, dove peraltro aveva quasi smesso di andare, non ne potevano più dei suoi panegirici sulla buonanima. Lui se ne accorgeva e si isolava sempre di più. Insomma, così non si poteva andare avanti. Il fratello, soprattutto spinto dalle lamentele della 83 moglie, cominciò un’opera di convincimento. Sei ancora giovane, devi pensare al domani, a rifarti una vita; insomma, ti devi rimaritare. La prima volta Pietro accolse la proposta con una risata. Rimaritarsi? E con chi? Come se fosse possibile anche solo pensare di sostituire quella pietra di paragone di ogni perfezione che era stata la buonanima. Ma il fratello non mollava la presa. Moltiplicava le mirabolanti descrizioni di partiti eccezionali. Senza risultato alcuno. Finché un giorno arrivò con la proposta giusta: Agatina. La storia di Agatina era simmetrica a quella di Pietro. Ancora troppo giovane per rassegnarsi alla vedovanza, di specchiata reputazione, con una situazione economica agiata, e bella poi, del tipo florido, che non guasta. Non furono però tutte queste doti a smuovere le coriacee resistenze di Pietro. È che lui la conosceva Agatina. Non direttamente, ma attraverso i racconti affettuosi della buonanima. Più giovane di lei di un paio d’anni, era stata, quando erano ragazze, la sua migliore amica: Ci spartivamo il sonno, soleva ripetere; e anche dopo, negli anni, era rimasta praticamente la sola che continuava a frequentare e con la quale condivideva attività di parrocchia, problemi di uncinetto e ricette di cucina. Gran cuoca, Agatina, ripeteva la buonanima. E forse fu questo a far vacillare le resistenze di Pietro. A poco a poco gli era venuto il dubbio che quello che più gli mancava della buonanima fosse il profumo delle pietanze di cui trovava piena la casa al suo ritorno, anticipo della beatitudine dei sapori che avrebbero deliziato il suo palato. Ah, la pasta e fagioli della buonanima! Ah, il ragù della buonanima! Inarrivabili, impareggiabili. Al confronto, le pietanze che gli portava ogni tanto la cognata mangiare per asini gli sembravano, pastone per le galline. La buonanima diceva spesso che certi segreti di cucina era stata proprio Agatina a insegnarglieli. Come cuoca è la mia maestra, ripeteva. Pietro si mise a fantasticare. Se la buonanima, cuoca meravigliosa, l’apprezzava tanto, chissà che delizie! Si stordiva alla sola idea. Le sue resistenze infine crollarono. Presso Agatina di resistenze non se ne trovarono molte; anche lei aveva avuto decantate dalla buonanima le straordinarie virtù di Pietro e la solitudine della vedovanza le pesava assai. Si sposarono. Agatina si impadronì rapidamente di Pietro e della casa, che riempi di serenità, pulizia, luce, persino di allegria. Pietro era contento e ricominciò a fare una vita normale, aveva ripreso a occuparsi con passione degli affari, trascorreva di nuovo ore al circolo con gli amici e nella conversazione gli era tornata una certa vena sarcastica che lo faceva apprezzare e un poco anche temere. Ma: c’era un ma. Quando la sera rientrava a casa la trovava certo accogliente, densa di buoni profumi delle pietanze cucinate, e onestamente non si poteva lamentare. Buoni, quei piatti erano buoni. Pietro non lo negava. E tuttavia rimaneva insoddisfatto. Si era ben lontani dai fasti della cucina della buonanima che tanto gli erano mancati e che aveva sperato di ritrovare. Agatina se ne accorgeva e ci soffriva. Andava così bene sotto ogni altro aspetto, anche i più intimi, e proprio sul terreno sul quale si sentiva più sicura, sul quale in vita la stessa buonanima – che a parere di Agatina gran cuciniera non era – aveva tante volte riconosciuto la sua superiorità, non riusciva a non farla rimpiangere. Quando erano a tavola l’allegria scemava un poco. Tra lei e Pietro i sapori della buonanima si ergevano come un muro. Agatina moltiplicava gli sforzi, variava le ricette, si sbizzarriva. Ma, con sua grande delusione, era proprio quando maggiore era lo sforzo per compiacere che minore era l’effetto. Il fatto è che in una lunga convivenza anche la cucina, forse soprattutto la cucina, finisce a poco a poco con l’assestarsi 84 85 all’interno di un repertorio, magari limitato, ma condiviso. Questo repertorio diventa il terreno di sottili complicità. In un certo giorno della settimana, in una certa stagione, quella più propizia a certe verdure, a certi profumi, tornando a casa immagini la pietanza che troverai nel piatto e accorgersi di avere indovinato non suscita affatto sentimenti di stanca ripetizione, ma al contrario conferma un’intesa spirituale e insieme fisica, quasi erotica. Pietro era troppo timido per avanzare richieste precise. Intuiva che si era suo malgrado innescata una sorda competizione tra Agatina e la buonanima, e per quanto cercasse di non esasperarla non riusciva a nascondere la propria insoddisfazione. Infine fu Agatina, più coraggiosa, stremata dagli sforzi e dai fallimenti, a chiedere a Pietro che cosa precisamente voleva che gli cucinasse. Lui si schermì, opponendo che tutto andava bene e che non aveva espresso lamentele. Ma lei non demordeva. Ha detto il sorcio alla noce, dammi tempo che ti buco. Così pensava Agatina. Tanto insistette, che Pietro si lasciò andare: quella pasta con i fagioli così speciale, col soffritto di guanciale e cipolla, e l’aggiunta di certe verdure, appena un po’, fatta con i rigatoni frantumati dentro un panno con il batticarne. Oppure quello stufato meraviglioso che lei, la buonanima, faceva mescolando carni diverse, di vitellone e maiale, salsicce e piedini, che con soffritti e aggiunta di estratto di pomodoro diluito con il vino davano un sugo che così perfettamente si sposava con le patate infornate con cipolle e peperoncini, in parte dolci, in parte piccanti. Agatina esultò. Quelle ricette le aveva date lei alla buonanima. Non era possibile che le avesse realizzate meglio di quanto lei fosse in grado di fare. E cominciò la dura stagione dei confronti. Dura per Agatina, ché nonostante la cura meticolosa con cui si applicava a quelle ricette e ad altre specialità che aveva strappato dalla memoria rapita di Pietro, al momento dell’assaggio sugli occhi di lui calava, benché si sforzasse di dissimularlo, il velo della delusione. Agatina se ne disperava, non riusciva a capire quale fosse il segreto che aveva permesso alla buonanima di accendere un tale inestinguibile rimpianto gastronomico. Intanto, la mancata intesa sulla cucina stingeva sugli altri versanti del loro rapporto. Il muro si faceva sempre più grigio e insormontabile. Agatina cedette le armi. Pietro gliene fu quasi grato, perché cominciava a irritarlo la costrizione a mentire, a fingere soddisfazione quando ogni nuovo tentativo aumentava invece il rimpianto. Parlavano sempre meno. Tra loro si era insinuata e cresceva una svogliatezza. L’apparenza era di affettuosa cortesia, ma la sostanza era di crescente e progressiva stanchezza. Agatina continuava a cucinare, naturalmente, ma non ci metteva più l’anima, la passione della perfezione come strumento di seduzione e di conquista di un’identità che potesse far dimenticare l’ossessionante buonanima. Era diventata distratta, approssimativa. Tanto, si diceva, non serve a niente. Un giorno, mentre nella pentola sobbolliva per il pranzo l’ennesimo tentativo di quella iperbolica e mai nemmeno avvicinata pasta e fagioli, Agatina, che quasi per masochistica autopunizione all’una guardava alla televisione trasmissioni di cucina, si dimenticò della pietanza sul fuoco. Fu soltanto quando l’odore carbonoso dei fagioli attaccati al fondo della pentola, bruciati assieme alla pasta e ai soffritti, la prese alla gola, più che al naso, che la povera Agatina si precipitò a spegnere il fuoco. Il guaio era drammatico. Irreparabile. Inutile cercare di separare la parte non bruciata dal resto. Ormai era una poltiglia unica, brunastra. Agatina era disperata. Era tardissimo. Pietro stava per arrivare e mentre lei contemplava impietrita quella sbobba sentì la chiave girare nella serratura. 86 87 Il fidanzamento ad Arcanghelos Fu in quel preciso momento che la disperazione si trasformò in ribellione. Tanto, tornò a ripetersi, non serve a niente. Qualunque cosa io gli metta davanti, lui la ingoia mentre sulla faccia gli si disegna sempre, dietro un falso sorriso, la stessa identica espressione di leggero disgusto che platealmente significa una cosa sola: Eh no!, niente a che spartire con il sapore della buonanima. In preda a una furia silenziosa si avvicinò al tavolo e quasi con violenza scodellò nel piatto di Pietro una grossa mestolata di quella schifezza. Lui fece una faccia strana. Come di sorpresa e curiosità. Per forza!, pensò Agatina, ha sentito l’odore e pregusta la mia ennesima e più cocente sconfitta. Gli si sedette di fronte guardandolo con aria di sfida, pronta a una catartica sfuriata. Pietro portò alla bocca una cucchiaiata; si fermò, come se fosse stato colpito da una scarica elettrica. La ingoiò, poi ne prese un’altra. Alzò lentamente il volto dal piatto, rivolse ad Agatina uno sguardo acquoso, colmo di lacrime che stavano per traboccare: Agatina!, esclamò. Grazie, grazie Agatina. Finalmente, il sapore della buonanima! Ad Archangelos, piccolo paese dell’interno nell’isola di Rodi, mi sono casualmente trovato nel mezzo di uno straordinario rito collettivo. La sera si sarebbe celebrata una festa di fidanzamento. Nelle case, le donne impastavano e tiravano la sfoglia su lindi spianatoi circolari, la riducevano a listarelle e con queste preparavano dolci dalla forma aggraziata di piccole rose. Ridevano, scherzavano, lavoravano, cantavano e tutte insieme partecipavano al rito della promessa di due giovani. Quei dolcetti bellissimi e buonissimi, portati poi in processione in casa della fidanzata, avrebbero dato insieme ai profumi e alle decorazioni il sapore della tradizione a una cerimonia da tutti condivisa, alla quale tutti avevano contribuito, nella comunità alla quale compiendo quei gesti tutti sentivano di appartenere. 88 89 Il cuscus di Marsala Tra Marsala e Capo San Vito, in Sicilia, la presenza araba è antica e ancora molto forte. I paesi della costa sono il regno del cuscus con il pesce. La vicinanza della Sicilia alla costa maghrebina ha prodotto molti scambi e incroci culturali. Compresi gli odierni sbarchi di profughi e clandestini che sono, e temo per molti anni saranno, alla ribalta della cronaca. A Mazara del Vallo c’è un quartiere, la casbah si chiama, dove per la struttura urbanistica e la presenza di molti arabi sembra quasi di essere a Tunisi o a Casablanca. Non sorprende che uno dei piatti più prelibati, in molti ristoranti ma anche nelle famiglie, sia il cuscus. Soprattutto il cuscus con il pesce. A mio parere, anzi, nemmeno sulle coste di Tunisia e Marocco se ne trova di altrettanto ricco e buono. Giovanna è la moglie del mio amico Nino De Vita, prezioso e apprezzato poeta che scrive in lingua siciliana e vive in contrada Cutusìo a Marsala. Giovanna è per me il Rubens del cuscus. Per come lo prepara. Ma il suo talento per il cuscus è anche letterario. Perché lei la preparazione del cuscus con il pesce prima la racconta. E il suo racconto, che non è la banale descrizione della ricetta, ha formidabile valore estetico ed evocativo. Si ha l’impressione 91 che per complessità, sapienza di assonanze e di rime – di parole, di sapori –, finezze lessicali, improvvise rotture e riprese, quella preparazione arrivi alle orecchie come se fosse composta in esametri classici. Non proverò nemmeno a competere nella mimesi della recitazione. Tanto per cominciare, Giovanna il cuscus non lo compra in scatola, come noi poveri mortali privi del dono dell’arte. Che orrore!, il cuscus confezionato. Giovanna, assieme alla madre, con molto anticipo il cuscus lo ’ncoccia. Cioè parte dalla semola di grano duro e a forza di dosatissime umidificazioni e sfregamenti tra le palme delle mani crea le preziose palline, ovviamente mai tutte uguali come quelle prodotte da macchine senz’anima. E già questa è una differenza fondamentale. Poi, naturalmente, bisogna trovare il pesce adatto. Sembra facile. Ma qui non si tratta di una banale zuppa. Il brodo per il cuscus necessita di quei certi pesci e non di altri, di quella pezzatura e non di un’altra. E poi ci vuole il granchio arancio. Che sarebbe la granseola. Se al mercato non trovi un bel granchio arancio vivo è proprio inutile, dice Giovanna, pensare di mettersi a preparare il cuscus con il pesce. Infine la preparazione del brodo, con inserimento dei vari pesci scandito da necessità imperscrutabili, prima alcuni e poi altri, guai a variare la sequenza, alcuni da togliere prima di mettere gli altri, altri no. E poi le spezie, una precisa varietà e fragranza, alcune fresche, altre essiccate. E poi, con ritorno tonale da tormentone poetico, a questo punto, dice Giovanna, bisogna rinnovare il sapore. Con altre spezie, immagino. E bisogna rinnovarlo almeno due, tre volte. Prima di mettervi in infusione il cuscus per il tempo necessario, e poi di nuovo prima di servirlo, come va riportato a calore il pesce armonicamente disposto per forma e colore in piatto acconcio, e che va servito a parte. Be’, non vi dico che risultato producono sul palato tanta raffinata tecnica e tanta cultura. Mentre tentavo questa misera descrizione, mi chiedevo per quale motivo avrò mai lasciato passare tanti anni senza chiedere a Giovanna di prepararmi, ancora una volta, quel suo cuscus marsalese, autentica idea platonica del cuscus con il pesce. 92 93 I pesci dal volto umano Tra le mie fotografie, molte ce ne sono, scattate soprattutto in mercati, in cui mostro pesci dal volto umano, razze, piccoli squali. Sono anche un po’ ossessionato dalle teste degli animali macellati. Mi impongono inevitabili considerazioni sulla naturale ferocia umana dell’uccidere per nutrirsi. Con i pesci è diverso. Quando non sono ancora tagliati offrono immagini splendide, ma meno cruente. Un tonno intero su un banco fa pensare a una magnifica scultura. Lo sentii dire a Manzù mentre insieme a Cesare Brandi visitavamo il mercato del Capo a Palermo. Voglio scolpirlo, ripeteva entusiasta. E in effetti, i magnifici tonni di maggio sembrano fusi nel bronzo. I pesci dal volto umano di cui parlo sono un’altra faccenda. Nel loro assomigliare, assomigliarci, mi procurano una speciale inquietudine. Le espressioni sono malinconiche e quasi stupite, come se ancora non si capacitassero della trappola vigliacca nella quale sono caduti e che era stata pensata proprio per loro. Non posso negare che me ne vengono contorti complessi di colpa. Sono stato, ancora lo sono – anche se in modo assai blando, essendo avanzata l’età –, un appassionato cacciatore subacqueo. 95 Ho sempre sostenuto che la caccia subacquea è disciplina completamente diversa da quella che si pratica sulla terraferma con i fucili, che mi sembra più proditoria. L’ho sostenuto, ma so bene che è un discorso ipocrita. È vero che il cacciatore subacqueo si muove nell’acqua, nell’elemento che appartiene alle sue prede e non è il suo. Prende più rischi, in un certo senso. Ma per quanto rudimentale – una molla, un elastico, dell’aria compressa –, un fucile è un fucile. Per quanto si debba entrare, psicologicamente oltre che fisicamente, nel mondo e nel modo in cui vivono i pesci, nelle loro abitudini, nel loro habitat, e per quanto ci si debba avvicinare molto, per scoprirli, attenderli, un po’ contemporaneamente cane e cacciatore, alla fine il gesto è sempre quello proditoriamente tecnologico di scagliare un arpione assassino contro i loro corpi. Io so che la ragione profonda che mi ha fatto tanto amare la caccia subacquea è il mare, l’immergersi fino a perdersi nell’acqua con la felicità fisica che ti offre la sensazione di recuperare antiche beatitudini da liquido amniotico, da vita prenatale. Ma incontestabilmente c’è anche la caccia, il ritrovare qualcosa di oscuramente ancestrale nell’adrenalina che ti fa trattenere il fiato, appostare, esplorare gli anfratti e le caverne, cogliere l’attimo fatale in cui devi diventare pesce anche tu per meglio colpirli. Colpevolmente oggi, senza dubbio, ma so che ogni volta dentro di me rivive il gesto della caccia come arte e necessità della sopravvivenza. Forse non è molto diverso comprare un pesce al mercato e tornare con uno che tu hai ucciso. Forse. Ma se non riesco a darmi assoluzioni, non riesco nemmeno a soffocare dentro di me un istinto che la cultura avrebbe dovuto superare: la caccia ti rivela come continui a vivere oscura e potente dentro di te, oltre ogni evoluzione etica, oltre ogni ipocrisia, la tua natura di predatore. 97 Gli asparagi selvatici di Sciascia La prima volta che ho incontrato Leonardo Sciascia è stato nella casa persa in mezzo ai mandorleti della contrada Noce di Racalmuto, senza acqua né elettricità, dove per anni, prima di costruirne una nuova accanto alla vecchia, andava in estate a scrivere i suoi libri sottili e acuminati come lame. Guardammo insieme le sue zie affaccendate di fronte al piccolo forno davanti alla casa. Ci prepararono anche un buonissimo pollo alle erbe, di quelli che vivevano liberi nel campo. Mio nonno, che mi accompagnava, non lo volle nemmeno assaggiare. Era di venerdì. Leonardo fu molto divertito da questo rigoroso rispetto dei precetti religiosi, e le zie, ammirate, prepararono in fretta e furia una sostitutiva frittata. Era un vero buongustaio Leonardo, e cuoco sopraffino. Ricordo ancora il suo magistrale baccalà con le olive. Potrei ricostruire la nostra trentennale amicizia anche soltanto attraverso le comuni esplorazioni di un condiviso paesaggio gastronomico. Aveva i suoi rifiuti netti, tuttavia. Il crudo lo accettava solo per la frutta e le verdure. Certo non per le carni e i pesci. Di cui 99 I ragazzini con i vassoi non era peraltro grande consumatore. Si rifiutava di mangiare la meravigliosa nunnata, la neonata, ovvero i micro-gianchetti che in Sicilia sono quasi un’argentea crema, saporita e fragrante di mare, specialmente quella di sardine. Se si chiamasse in un altro modo, diceva, forse la mangerei. Non parliamo delle ostriche. Una sola volta accettò di mangiarne, gratinate. Ma senza entusiasmo. Nemmeno si faceva sedurre dalle cucine esotiche. Un paio di volte l’ho trascinato a Parigi in ristoranti cinesi o indiani. Al massimo concedeva la sufficienza. Ma ne usciva insoddisfatto. Con gli stessi ingredienti, commentava, farei di sicuro qualcosa di più saporito. Ma era un vero, appassionato conoscitore di verdure. Soprattutto di quelle che crescevano spontanee intorno alla casa della Noce e che andava a raccogliere personalmente, con competenza. Una volta, a Milano, manifestava un’incomprensibile urgenza di tornare in Sicilia. Ma perché non si ferma ancora qualche giorno?, gli chiesi. Amava Milano, gli incontri che vi faceva. Scherzi, mi disse, questa è proprio la settimana che in campagna si cominciano a trovare gli asparagi selvatici! Non se li poteva perdere. Una volta, a Parigi, capitò una cosa buffa. Lo avevano invitato a cena degli amici scrittori. La padrona di casa gli preannunciò una sorpresa. Le abbiamo preparato, disse con soddisfazione, la ricetta del coniglio di cui lei ha scritto nel Giorno della civetta. Un sorriso di rassegnata gratitudine si disegnò sulle labbra di Leonardo. Quando ce ne andammo, disse esasperato che non era la prima volta. Non mi perdonerò mai, sbottò, di avere scritto di quel maledetto coniglio. Lo detesto, io, il coniglio. Nelle città del Sud, specialmente nei paesi, ogni bar, ogni pasticceria ha dei garzoni per il servizio a domicilio. Ma brulicano anche nei suk delle città del Medio Oriente. Nella maggior parte dei casi sono ragazzini, quasi dei bambini. A certe ore, specialmente la mattina, è tutto uno sciamare di questi lindi messaggeri che con una mano abilmente reggono un vassoio di metallo, la guantiera, colma di brioche, cornetti, caffè e cappuccini protetti da tovagliolini di carta, ma anche di microthermos, o di bottigliette piene di caffè, che si affrettano a consegnare nelle case e nei circoli dei signori. A Istanbul sono soprattutto bicchieri colmi di tè fumante. Questo vai e vieni, al Sud non si ferma quasi mai; si placa un poco solo nelle ore centrali della giornata, quando si consegnano gli spuntini salati – arancini, ravazzate, impanate –, e torna frenetico in serata, per gli aperitivi. 100 101 La lepre in salmì di Roberto Leydi “L’Europeo” mi aveva mandato in Polonia con Roberto Leydi per un servizio sulla pregiata vodka polacca. Ne abbiamo naturalmente approfittato per visitare accampamenti di zingari e scultori popolari di figure in legno. Durante la visita alla sezione di imbottigliamento della vodka Wyborowa, a Cracovia, assistemmo a un’epica farsa. Quella mattina nel reparto tutto andò a catafascio. Le bottiglie avrebbero dovuto, nella catena automatizzata, essere con perfezione tecnologica riempite, tappate ed etichettate fino ad arrivare a valle, dove alcune operaie le aspettavano per metterle nei cartoni. Il guaio è che durante il percorso un gran numero di bottiglie scivolavano dai loro previsti alloggiamenti per fracassarsi a terra, il rubinetto della vodka di conseguenza mancava il collo delle bottiglie versandosi ovunque, i tappi non entravano e le etichette si incollavano storte. Su un centinaio di bottiglie solo pochissime arrivavano a destinazione, dove le impassibili operaie le collocavano nei cartoni inutilmente predisposti. I responsabili della fabbrica correvano istericamente a destra e a manca tra sfracelli di vetri rotti, laghi di vodka e urla da farsa chapliniana. Ci portarono via frettolosamente continuando a scusarsi per un incidente che, ci giuravano, non era mai accaduto prima. 103 Le nostre guide erano livide di vergogna e paura. Roberto allegramente le rassicurava con argomenti che a loro sembravano anche peggiori della catastrofe tecnologica. Grazie al cielo, affermava, nel mondo socialista non c’era ancora la dittatura delle macchine sugli uomini, costretti a diventare anche loro macchine alienate. L’umanità del lavoro era ancora salva. Non sembravano affatto persuasi e intanto ci spingevano verso la cantina dei distillati. Era immensa, impressionante, e ai visitatori venivano offerti con grande gentilezza assaggi multipli della varie specialità. Io cominciai a fare fotografie e ogni tanto Roberto mi raggiungeva. Hai assaggiato, mi diceva, questa meraviglia? È una specie di calvados, ma con delle sfaccettature inaspettate e magnifiche. Me ne sono fatto mettere via una piccola damigiana. E quest’altro?, mi veniva a raccontare, una grappa davvero favolosa. Secchissima, ma che sa di torba, di terre vergini, profumata e severa. Ne voglio prendere un po’ da portare via. I suoi entusiasmi si facevano sempre più frequenti e allegri, e i suoi occhi sempre più lucidi. Non era ancora mezzogiorno e io mi divertivo come un matto in previsione di quello che sarebbe accaduto. E infatti, quando ci trasferirono in un lussuoso albergo per il pranzo ufficiale, sentivo Roberto sempre più incontrollabilmente facondo. Nel grande salone dove un tavolo per venti era illuminato da sfarzosi lampadari, venne il momento dei brindisi. Roberto si alzò in piedi e, coppa in mano e gesto largo, cominciò a raccontare: Una volta, disse, mi è capitato di andare a mangiare al ristorante Il Cappello d’oro, a Bergamo. Sapevo che quel rinomato ristorante era particolarmente famoso per la sua lepre in salmì con polenta. Naturalmente la volli provare. Arrivò questo piatto che mi suscitò un entusiasmo al di sopra di ogni aspettativa. Era davvero perfetto, direi ancora di più, era sublime. Chiamai il ca- meriere e chiesi un’altra porzione di quella meravigliosa lepre in salmì con polenta, che mi fu subito servita. Ma la bontà del piatto, la ricchezza del sapore, la perfezione dell’esecuzione, la qualità degli ingredienti erano tali che ne chiesi subito una terza. E il piacere non scemò, anzi raddoppiò, triplicò. Non riuscivo a staccarmene. Ne chiesi una quarta. A quel punto, dalla cucina uscì in pompa magna, reggendo un grandissimo padellone di rame colmo di quella inarrivabile lepre in salmì con polenta, il cuoco, che mi si avvicinò e con un grande sorriso mi disse: Signore, lei onora la mia cucina. Da questo momento è mio ospite. Il racconto suscitò approvazione e applausi, anche se nessuno capiva che cosa diavolo c’entrasse con la celebrazione della vodka polacca. Roberto ringraziò, tracannò il suo vino, posò la coppa, diede un colpo di tosse e dopo un bel sorriso riprese la parola: Una volta, disse, mi è capitato di andare a mangiare al ristorante Il Cappello d’oro, a Bergamo. Sapevo che quel rinomato ristorante era particolarmente famoso per la sua lepre in salmì con polenta. Naturalmente la volli provare. E così via, ripetendo, tra l’imbarazzata stupefazione generale, parola per parola, esitazioni, virgole ed effetti retorici compresi, esattamente lo stesso racconto di prima su quella inarrivabile lepre in salmì con polenta del Cappello d’oro di Bergamo. Nessuno osava interromperlo, io gongolavo. Arrivò fino in fondo. A quel punto tutti cominciarono a parlare tra di loro per sciogliere l’imbarazzo, ma Roberto, dopo una qualche esitazione alzò la voce e ricominciò: Una volta… Ripeté il racconto tale e quale. Trattenendo a stento le risate, mi alzai, lo raggiunsi e cercai di portarlo via. Ma quanta vodka hai bevuto in quella cantina?, gli chiesi sghignazzando. Mi avviai, seguito da un 104 105 La panela Leydi solennissimo che sosteneva un’andatura impettita, alla Hitchcock. Guarda che io sono perfettamente lucido, mi disse con serissima convinzione; è la glottide che non mi ubbidisce più. Una volta arrivati in albergo, epicamente inondò il pavimento del bagno di tutta la vodka bevuta la mattina e forse, chissà, anche dei residui di quella pantagruelica scorpacciata di lepre in salmì con polenta di qualche anno prima. Vasta piantagione di canna da zucchero in Colombia. Uomini protetti da cappellacci tagliano la canna. Liberate dal ciuffo che le sovrasta, le canne, di un bel colore rossastro, vengono legate in fasci che un paio di cavalli portano alla vicina fattoria. Là, una rudimentale macchina le stritola e pressa la massa ottenuta fino a farne uscire un ruscelletto di succo, che viene convogliato in recipienti di pietra. Da quelle vasche, il succo viene versato a secchi in immensi padelloni. Dopo un po’ comincia a bollire furiosamente e va acquistando uno spumeggiante, bellissimo colore di oro fuso. A questo punto, rapidamente perché non caramelli troppo, lo zucchero liquido, raccolto con enormi ramaioli, viene versato in una canalina che lo conduce a riempire un sistema di stampi in pietra dentro i quali raffredderà e solidificherà. Tutti partecipano febbrilmente, vecchi, bambini, donne con i neonati in braccio. Ne risultano dei lingotti da circa cinque chili della preziosa panela. Zucchero puro che sa di sole, di campo, di canna, di lavoro. 106 107 I dolci siciliani Sarà sciovinismo, ma soltanto in certe città indiane ho trovato una pasticceria che possa rivaleggiare per bontà, ricchezza e fantasia con la pasticceria siciliana. Un universo, per quanto creda di conoscerlo, che continua a riservarmi sorprese e piaceri inattesi. Nelle tante, impossibili fughe che si tentano nella vita, l’azzardo mi ha portato a innamorarmi della Spagna, e specialmente del Sud dell’Andalusia, in provincia di Almería, dove da vent’anni ho una casina. L’incontro non è certo stato casuale. La commistione tra cultura araba e cattolicesimo, così forte in Andalusia come in Sicilia, mi fa sentire particolarmente a mio agio con la cadenza culturale di quei paesaggi, della gente, dell’architettura, in quella luce, con la speciale maniera che ha il mare di essere mare in quelle aree del Mediterraneo. Ho parlato di fuga; ché molte sono le ragioni di fuggire dalla Sicilia. E poi ci si ritrova in un posto che quasi troppo le assomiglia. Ma non è certo dai sapori siciliani che sono fuggito, soprattutto da quelli dei dolci. Nella invenzione e preparazione dei dolci i siciliani sembrano esprimere al massimo grado una sensualità, un calore, una capacità di comprensione e un uso delle materie prime, una fantasia estetica che riflettono fedelmente le stupende complessità frutto delle stratificazioni culturali che nei secoli si sono susseguite in Sicilia. Nel Sud dell’Andalusia, 111 Bomboloni, caramelle attìa, focaccelle, iris fritte invece, la povertà culturale della pasticceria è affliggente. Ma com’è possibile?, ho continuato a ripetermi per anni. Anche qui ci sono stati gli arabi, anche qui ci sono mucche, pecore, latte, mandorle. Eppure niente. Anche ora che è stata investita dal turismo, qualunque italiano che si improvvisi mediocre gelataio ha grande successo. Le creme di latte, le ricotte. Niente. Qualcosa con le mandorle, ma con preparazioni piuttosto grossolane. Se si eccettua qualche monastero di Siviglia, le opportunità di peccare di gola con i dolci scarseggiano davvero. Arricchendo un poco le mie conoscenze sulle vicende storiche di quelle regioni, mi sono dato un tentativo di spiegazione che mi piacerebbe approfondire. In realtà mi pare che, dopo la cacciata degli ebrei e degli arabi da parte dei reyes católicos, quelle regioni siano entrate in una sorta di buco nero economico e culturale e vi siano rimaste secoli. Troppo povere per concedersi fantasie dolciarie. Ma soprattutto, troppo piatta la realtà sociale per suscitarle. Non che in Sicilia mancasse la miseria. Ma molto forte e vivace era la presenza nobiliare, soprattutto nelle grandi città. Le ambizioni cosmopolite di questi nobili, la sontuosa mondanità delle loro feste richiedevano altrettanta sontuosità nella pasticceria. I conventi delle monache diventarono vere università dei piaceri dolciari. Questa cultura contagiò anche il mondo contadino, che imparò preparazioni molto sofisticate. Alla fine del Settecento furono addirittura chiamate in Sicilia famiglie di pasticcieri svizzeri e austriaci, che a loro volta portarono nuove sapienze e sofisticate innovazioni nell’uso delle magnifiche materie prime dell’isola. Ne rimangono forti tracce nei nomi di famose pasticcerie di Catania e Palermo, ancora oggi rinomatissime: Caviezel, Caflisch. Insomma, quando assaporiamo alcune opere magnifiche dell’arte dolciaria, senza rendercene conto ripercorriamo attraverso il gusto le vicende grandiose o miserabili della storia. Ci sono sapori della mia infanzia che nel ricordo vanno insieme a sensazioni fisiche di allegria del corpo. Nel rievocarli si confondono con la memoria di pantaloni corti e corse forsennate. Come se non fosse possibile ritrovare quei sapori senza mescolarli con l’energia infantile di un corpo che non riusciva a camminare, solo a correre. All’ingresso della scuola, ma di domenica anche in piazza, c’era sempre un banchetto dove si vendevano caramelle di zucchero brune e cilindriche (si chiamavano caramelle attìa, non so perché), le buonissime meline, caramellate anche queste, spesso scarlatte, infilzate in stecchi di legno, i bomboloni con striature di vari colori, dal sapore più terroso di quello delle caramelle. Sento ancora la crosticina di zucchero che si rompe sotto i denti prima di raggiungere la polpa succosa della mela. Ne compravo una e correvo, mi sembra di averle sempre mangiate correndo, verso casa, verso la scuola, verso i giochi. Il venditore di focaccelle aveva invece un tegamone di alluminio. Le focaccelle erano palline di riso fritte, molto unte, che prima di mangiarle si facevano rotolare nello zucchero. Hanno a che fare con le crespelle catanesi, che però si tuffano nel miele. Ce n’erano di tre prezzi, secondo le dimensioni. 112 113 Da cinque, dieci e venti lire. Quelle da venti erano belle grosse. Si potevano comprare a numero, oppure, con dieci lire, si poteva sfidare la sorte. Il venditore ti dava una forchetta con due denti soltanto, raddrizzati per giunta, e tu avevi il diritto di lanciarla nel mucchio delle focaccelle. Tutte quelle che riuscivi a tirare su, con la forchetta rigorosamente in verticale, erano tue. La forchetta, era molto leggera e unta, le focaccelle erano scivolose: tirandole su, tendevano a cadere. L’errore era puntare avidamente sul mucchio delle grosse. Quelle raramente rimanevano infilzate fino all’uscita dal tegamone. Troppo pesanti. Il segreto era fare dei tiri un po’ sbiechi, magari cercando di infilzare una focaccella grossa insieme a una piccola, sotto, che la tenesse. C’erano dei veri virtuosi del lancio della forchetta sdentata. Le iris erano fritte o al forno. A me piacevano quelle fritte. Morbida pasta ripiena di crema di ricotta con pezzetti di cioccolato. Si rotolano nel pan grattato e si friggono. Belle calde e gonfie, sono meravigliose. Certo, per digerirle è consigliabile lo stomaco dei diciassette anni. Ma è rarissimo, quando ritorno al mio paese, che io rinunci a mangiarne almeno una bella grossa. Al liceo avevamo diritto, alle undici, a un quarto d’ora di intervallo. Siccome le ragazze non potevano uscire dalla classe, noi ragazzi raccoglievamo le loro ordinazioni e correvamo al chiosco di don Gino, proprio accanto al liceo. Le iris erano le più richieste. Ne trovavamo una bella montagna appena fritte. Una in mano, a mangiarla correndo, un paio in un cartoccio per le compagne che le tiravano su dalla finestra con un panierino. 115 Jerom Ferrante Nella primavera del 1978 arrivò nel mio ufficio parigino dell’“Europeo” un plico bizzarro. Istoriato di colorati francobolli e timbri del Libbiru guvernu di Sicilia. Il valore dei francobolli era espresso in tarì, antica moneta siciliana che soltanto avevo sentito nominare in certe filastrocche della mia infanzia. Ivu a la fera accattari cuttuni, mi ci mannò lu me patruni, mi ci mannò cu tri tarì, unu, rui e tri. Me lo rigiravo in mano, quel plico, divertito e curioso. Che a mia insaputa ci fosse stata in Sicilia una guerra di indipendenza sfociata in un Libbiru guvernu? Il contenuto non era meno stupefacente. Fotocopie su fotocopie di documenti, petizioni alla Cee, all’Onu, ai governi di mezza Europa, riproduzioni di progetti di aeroporti internazionali a Palermo, Licata, Catania, libelli storico-politici sulle prevaricazioni e rapine subite dalla Sicilia per mano di Garibaldi, dei governi monarchici e repubblicani. Riproduzioni di tarì cartacei e di tarì in oro, moneta ufficiale. Resoconti sulle infinite ricchezze dell’isola, dal petrolio all’oro. Il tutto in una lingua squinternata e ibrida, franco-siculo-italiana. Ogni documento firmato da Jerom Ferrante, portavoce e responsabile 117 del Libbiru guvernu di Sicilia in esilio a Marsiglia. Un meraviglioso delirio che non poteva non farmi venire il desiderio di incontrare il pirotecnico Jerom. Andai a Marsiglia. Arrivai la mattina presto. La monumentale e coloniale scalinata della stazione Saint-Charles cominciava a popolarsi dell’eterogenea umanità di questa molto mediterranea città di mare. Lì di fronte, al 14 di boulevard Voltaire, dalla bianca terrazza di un piccolo ristorante sentii zampillare le note scintillanti dell’inno dei Puritani di Vincenzo Bellini: Suoni la tromba, e intrepido… Un uomo corpulento, sui sessant’anni, dal volto mite, la barba di tre giorni, con l’aiuto di un bastone issava su un ferro una colorata bandiera che subito si mise a sventolare nell’aria del mattino. È la bandiera blu verde e bianca con al centro le tre gambe della Trinacria, il sole e la testa del leone. L’uomo scatta sull’attenti e saluta la bandiera con le tre dita della mano destra aperte: Viva la Sicilia libbira e indipindenti! Jerom Ferrante rientra per togliere dal grammofono il disco rigato dai troppi passaggi. La sede del Libbiru Statu di Sicilia in esilio e il ristorante Etna Mungibeddu che la ospita sono aperti. Un’insegna e uno stemma indicano la doppia funzione dell’edificio, così che a Marsiglia si trova l’unica sede diplomatica d’Europa dove è possibile ordinare un piatto di pasta con le sarde o le melanzane ripiene. Questa surreale cerimonia dell’alzabandiera si ripeteva tutte le mattine ormai da molti anni, da quando Jerom si era persuaso che il Consiglio d’Europa lo aveva autorizzato, con il protocollo numero 6507/64 del dicembre 1974, ad aprire una rappresentanza di quel libero governo siciliano di cui lui si era nominato portavoce. Il ristorante era vuoto. In un angolo, seduto davanti a un lercio tavolino, Jerom Ferrante. Dietro di lui un accatastamento di oggetti da rigattiere siciliano, bandiere con la Trinacria, carrettini multicolori, marranzani, piccole ceramiche, manifesti che inneggiavano al Libbiru guvernu, carte geografiche dell’isola, pietre dell’Etna. All’origine del suo gentile, innocuo, appassionato delirio c’era quel cornuto del prefetto Mori, mandato dal fascio a perseguitare i galantuomini. Diciottenne, Jerome scappò dal suo villaggio, Isola delle Femmine, vicino a Palermo, assieme a uno zio e a sessanta patrioti capitanati da Guido Fortini, figlio di don Carlo Fortini, grande capo della lotta per l’indipendenza siciliana, per sfuggire alle persecuzioni e cercare in Francia rifugio e armi per l’insurrezione che avrebbe liberato l’isola dall’occupazione coloniale degli italici e evitato la guerra. Da allora erano passati quarantadue anni, ma Jerom Ferrante, detto Mommo – Al municipio avevano scritto Gerolamo, ma mio padre mi chiamava Girolmo, alla francese; per questo mi firmo Jerom –, non aveva mai rinunciato alla sua missione redentrice e rivoluzionaria. Un profluvio di appelli su carta intestata del Libbiru statu cominciarono a partire dal ristorante all’indirizzo di tutti i capi di stato e di ogni istituzione mondiale riconosciuta. Aveva persino scritto un libro il portavoce, Sicile droit d’un peuple, nel quale illustrava a popoli e governi le ragioni storiche della santa battaglia e il programma rivoluzionario che sarebbe stato applicato allo scoppio dell’inevitabile insurrezione che avrebbe restituito alla Sicilia bella la sua libertà. Saputo che ero giornalista, e per giunta siciliano, Jerom si alzò e mi abbracciò con trasporto, commosso. Un paesano, un fratello. Cominciò a parlarmi in un dialetto palermitano imbastardito, francesizzato. La Sicilia, mi spiegò Girolmo, è sempre stata un paese francofono, per questo i francesi ci appoggiano. In che senso francofono?, chiesi. Don Jerom si infervorò: “Ma dalla nostra stessa lingua si capisce. Come diciamo noi per dire che uno 118 119 è vestito trasandato? A sanfasò, diciamo, francese spiccicato, sans façon. E quando si chiama la contradanza che cosa grida chi la dirige? Dames et chevaliers, un passu n’arrier. E che cosa c’è dipinto sui laterali dei nostri belli carretti siciliani? La storia dei paladini di Francia c’è dipinta, certo non la storia degli italici. I siciliani hanno accolto Garibaldi perché era francese. Per questo lo fecero presidente della Sicilia, se no a calci in culo l’avrebbero cacciato. Tanto è vero che quando a Bronte gli presentarono la bandiera italiana i contadini si ribellarono. Che cos’è questa pezza da piedi? Noi vogliamo la nostra bella bandiera siciliana, la bandiera di Archimede e di Federico ii, blu come il Mediterraneo, verde come i giardini e le vigne della Conca d’oro, bianca come la spuma del mare orientale, col sole a leone cocente e la Trinacria, una gamba per Messina, una per Catania e la terza per Paliermu. Allora arrivò Nino Bixio e li scannò tutti i contadini di Bronte, questa è stata l’abilità di quel bel pezzo di eroe. Quando Garibaldi lo seppe si spaventò tanto che gli si scatenò una diarrea, ma una diarrea, che finì solo quando finalmente passò dall’altra parte dello Stretto”. Allora, don Jerom, dopo la rivoluzione verrà abolito l’italiano, in Sicilia parleremo soltanto siciliano. “Ma quando mai! Non ci siamo capiti proprio. Loro lo hanno chiamato italiano, ma in realtà è la lingua che è stata inventata dalla scuola poetica siciliana dove la studiò lo stesso Alighieri d’Etna.” Alighieri d’Etna? “E certo! D’Etna, Dante… la stessa cosa è! Poi lui, partendo dalla Sicilia, disse Vado a lavare i panni in Arno, per dire che andava a insegnare il siciliano agli italici.” Siamo sicuri, don Jerom, che non ci sbagliamo di secolo e di persona? “Ma quando mai! Lo so che poi quei cornuti hanno cercato di cambiare le carte in tavola e la raccontano in un altro modo. Ma la storia vera questa è.” E il programma rivoluzionario? Meriterebbe un’approfondita relazione. Ma mi parve che si basasse molto sui traumi giovanili di Jerom. Fuori gli italici, ovviamente; prigioni non solo abolite, ma rase al suolo. Niente tasse fino a un guadagno di sessantamila dollari, proprio così, espresso in dollari; abolizione degli esami di riparazione nelle scuole, ché i ragazzi, con quel sole meraviglioso, si devono godere l’estate. Giustizia: occhio per occhio, dente per dente. Rubi un asino?, devi rifondere l’asino. Ammazzi qualcuno?, niente pena di morte, per carità, ma giudizio di Dio: l’assassino viene condotto in nave a metà strada tra la Sicilia e l’Africa e gettato a mare. Se si salva, meglio per lui. Le peripezie che portarono lo zio a farsi una nuova vita a Marsiglia devono essere state complicate e dolorose. Finché non aprirono il ristorante Etna Mungibeddu, aiutati da una mezza parente, naturalmente siciliana, che si improvvisò cuoca. Il rancore e la nostalgia di cui era avvelenato lo zio – un sentimento della Sicilia come terra di latte e di miele, di fuoco e di ricchezza rubata, di uomini umiliati e spogliati della dignità – finirono per invadere la coscienza e l’immaginario del ragazzo Jerom, che forse era sempre stato un po’ strambo e fragile di cervello, e per questo lo zio se l’era portato dietro. Morto lo zio, Jerom decise di fondare il Libbiru guvernu, avamposto in esilio dell’inevitabile riconquista, della certissima liberazione. Governo riconosciuto da tutte le grandi istituzioni internazionali e da almeno venti governi, che godeva della benevolenza di Chirac, mi confermò Ferrante, mostrandomi come prove orgogliose le ricevute di ritorno delle raccomandate che da anni spediva a chiunque gli passasse per la testa – governi, 120 121 banche, persone di cui leggeva il nome sui giornali o che sentiva nominare alla televisione. Tutti solidali, come inconfutabilmente provavano quelle ricevute di ritorno. Torna questa sera, mi disse, ti invito a cena e ti presento alcuni dei tanti amici con i quali stiamo preparando l’esercito di liberazione della Sicilia. Tornai. C’erano molti avventori. Altri ne entravano e tutti salutavano trinacriamente. A un tavolo abbastanza grande, un gruppo di persone di diverse età alle quali fui presentato. Da quel tavolo sorgeva una conversazione in una lingua dolce, intricata e zoppicante, misteriosa. Vi si parlava di un’isola bella, benedetta dal cielo, circondata da un mare più azzurro, illuminata da un sole più caldo, ridente di giardini, ricca di petrolio, zampillante di pure acque e di ogni ben di Dio. Eldorado perduto, irraggiungibile terra promessa. Che si mangia? Qui abbiamo solo specialità della nostra terra: sarde a beccafico, melanzane ammuttunate, pasta coi broccoli arriminati, pasta con le sarde, naturalmente, panelle, rascature e tutto quello che di siciliano si può immaginare. A mano a mano che le pietanze arrivavano fiorivano i commenti, secondo un rito che conosco benissimo. C’è meglio degli ziti col sucu fatto con le cotenne e la salsiccia con i semi di finocchio? Buone queste sarde. In questa stagione sono buone per i beccafico; per la pasta, invece, sono un po’ troppo grasse. Buona ’sta ricotta, chi te la porta? C’è un pecoraro siciliano che ha la mandria vicino a Marsiglia e me la fa portare dal figlio. La parola Sicilia ritornava continuamente, come un talismano o un tormentone da blues. Il cibo dava corpo alla nostalgia e al viaggio dentro una favola struggente. Ma chi erano quei personaggi? Cominciai a interrogarli. E rimasi stupefatto. La maggior parte erano figli di siciliani emigrati in Egitto, Tunisia, Algeria le cui famiglie, cacciate via dai nuovi governi indipendenti, si erano rifugiate in Francia. Ma c’erano anche arabi, immigrati clandestini per la maggior parte, indistinguibili dagli altri figli di siciliani, che si erano aggregati alla ricerca di una comunità. La cosa più incredibile era che nessuno di loro era nato in Sicilia, nessuno c’era mai stato. Neanche Jerom Ferrante vi era più ritornato, dopo la fuga con lo zio. Preferivano non mettere alla prova della realtà il sogno, la nostalgia dell’isola Eden, ricolma di tutti i doni che la natura le aveva concesso. Tanto se la sentivano in bocca, nella memoria, quella terra, attraverso i sapori delle pietanze dell’infanzia che già con nostalgia cucinavano le loro mamme. Ma per gli immigrati c’era anche un’altra ragione. Jerom, in quanto portavoce e responsabile del Libbiru guvernu di Sicilia in esilio, oltre a coniare moneta e a stampare marche da bollo e francobolli, rilasciava documenti di identità. Ne fece uno anche a me la mattina seguente. Quattro fotografie fatte alla photomaton della stazione, una bella carta piena di marche da bollo e di timbri a secco e a inchiostro, e le canoniche firme. Una copia rimaneva in sede, un’altra veniva data al cittadino, una, sempre con la sua bella raccomandata con ricevuta di ritorno, veniva spedita alla sede della Comunità europea e l’ultima al comune di origine. Non ho mai visto niente di più autentico. Parecchi immigrati clandestini vivevano da anni tranquilli grazie a quel documento di identità che mai aveva suscitato perplessità o sospetti nei poliziotti che lo controllavano. Qualcuno ci viaggiava anche all’estero. La cena andava per le lunghe, si era fatto tardi. Gli altri avventori erano andati via. I miei commensali uscirono e io con loro. 122 123 Il cibo condiviso con gli animali Jerom mise sul piatto del giradischi il vecchio settantotto giri da cui si levarono, gracchianti e commoventi, le note dell’inno dei Puritani. Tutti sull’attenti a salutare col braccio teso e le tre dita aperte, tre, come le gambe della Trinacria, mentre Jerom ammainava la bandiera del Libbiru guvernu. Alzo le tre dita e saluto anch’io: Viva il libbiru guvernu di Sicilia! Da bambino, al paese, gli animali facevano parte della vita di ogni giorno. C’erano forse più animali che persone. Aiutavano gli uomini nel loro lavoro, quando non erano essi stessi il lavoro. I vaccari, i pecorai, gli allevatori di conigli, maiali, tacchini, galline. I cavalli dei carrettieri, i muli e gli asini dei contadini e degli artigiani, per andare in campagna, tirare gli aratri, fare i trasporti in paese. C’erano anche animali in casa, ma, a parte gli uccellini nelle gabbie, che offrivano danze colorate, musica e leggiadria, gli altri animali erano tutti funzionali alla vita. Le galline per la loro carne e le uova, i cani e i furetti per la caccia e la guardiania, i gatti per i topi di casa e di strada, che erano numerosi e pericolosi per i neonati e per le malattie che portavano, gli asini, i muli e i cavalli per tirare i carretti e trasportare uomini e cose. Lavoravano anche loro. L’asino del mio vicino bracciante viveva nella stessa stanza in cui lui viveva con la moglie e i figli. Si pensava al proprio cibo come si pensava a quello per gli animali di casa e di bottega. Si preparava il pastone per le galline e si andava a comprare la paglia e il fieno fresco, di stagione, per gli asini e i cavalli. Mi ricordo che arrivava nella stalla di mio nonno ancora ricco di fiori rossi. 124 125 Bocuse I cani e i gatti mangiavano i resti della cucina della famiglia. La quantità di pasta da mettere in pentola mia madre la calcolava tenendo conto del gatto e del cane, se non c’erano ossa o resche di pesce che la sostituissero: tre quarti di chilo con tutto il gatto. Non esistevano certo i cibi speciali e costosi per animali che oggi andiamo a comprare nei supermercati. A mio nonno di certo sarebbe sembrato uno spreco, una perdita di sobria frugalità del mondo, e se ne sarebbe scandalizzato. Io, invece, non posso impedirmi di pensare che questo consumismo è segno di finto rispetto, di finto affetto. È in effetti una facilità, un fare a meno di occuparsi davvero dei nostri animali. Far mangiare a loro il nostro stesso cibo, quello era il vero segno di condivisione della nostra vita con gli animali di casa. Giscard d’Estaing aveva affidato a Paul Bocuse la preparazione del pranzo di gala per la sua elezione a presidente della Repubblica francese. Era un gesto simbolico di riconoscimento ufficiale, di Stato, della Nouvelle cuisine e del suo profeta. Il menu fu riportato dai media di tutto il mondo. Bocuse diventò di colpo il cuoco più famoso del pianeta. Gli chiesi un’intervista e andai a Lione. Mi fu riservato il trattamento mediatico completo. Il suo libro manifesto si chiamava La cuisine du marché. Quindi, sveglia alle cinque, Bocuse mi prelevò in albergo perché potessi accompagnarlo nel suo giro d’acquisti ai meravigliosi mercati generali. Gran spettacolo d’attore, pacche sulle spalle, strette di mano, ognuno gli offriva il meglio della propria mercanzia e lui indicava le quantità, comprando senza mai discutere il prezzo. Dubito assai che facesse questo giro tutte le mattine, ma quel giorno c’era un giornalista. A fine giro, verso le sette e mezzo, mi portò al bistrò del mercato. Tra effluvi simenoniani di café crème e calvados, un altro inatteso spettacolo. Quel bistrò sembrava un firmamento dell’alta cucina lionese, tanti erano i cuochi carichi di stelle Michelin presenti: lo chef di La mère Denis, quello del Léon de 128 129 Lyon e di parecchi altri prestigiosi ristoranti. Tutti insieme intorno a un lungo tavolo. Battute, risate, scambi di informazioni. Dalla cucina arrivò un monumentale pot-au-feu. Mettendo da parte raffinatezze e teorie rivoluzionarie, tutti si gettarono con entusiasmo su quel classico, tradizionalissimo bollito. In serata giro al ristorante, il cui maître era italiano, e visita alla impressionante collezione di macchine da musica meccaniche che Bocuse raccoglie da anni. Naturalmente fui invitato a cena. Un vero regalo. Il menu prevedeva alcuni dei piatti serviti alla cena presidenziale, compresa la celebre truite en croûte. A una certa ora Bocuse, in divisa e con il cappello bianco d’ordinanza, fece un giro tra i tavoli, salutò tutti, con tutti scambiando una battuta, raccolse complimenti, insomma, fece la passerella. “Epoca”, a incontrare Bocuse. Immagino che avesse avuto un’accoglienza ancora più generosa di quella che era stata riservata a me. Nel suo articolo, Soldati scrisse: Credo che avesse ragione Scianna, quella zuppa sarebbe molto più interessante con i tartufi bianchi. Vendetta piemontese. Di quell’incontro lionese ricordo con piacere una bellissima risposta di Bocuse. Gli chiesi quale fosse il pasto migliore che ricordava di aver fatto nella sua vita. C’era la guerra, mi disse, eravamo in campagna. Una sera arrivò un amico con un introvabile e preziosissimo salame. Indimenticabile. L’indomani mattina, intervista. Brillante, facondo, simpatico. Alla fine mi chiese se avevo apprezzato la cena. Naturalmente mi profusi in entusiastici complimenti. Ah, quella trota en croûte. Ah, quella splendida soupe di fagiolini aux truffes. E fu a questo punto che feci la gaffe. Mi chiedevo, osai dire, come sarebbe quella soupe con i tartufi bianchi invece che con i neri. Non l’avessi mai detto! La truffe blanche, commentò gelido Bocuse, une patate. Mi parve eccessivo, e siccome non era pensabile che non conoscesse i tartufi bianchi, commentai che mi sembrava una dichiarazione piuttosto sciovinista. Les italiens, concluse sarcastico e più sciovinista che mai il grande cuoco: grandi gelatai. Raccontai questo battibecco nella mia intervista pubblicata sull’“Europeo” e qualche mese dopo, inattesa, mi arrivò una grande soddisfazione. Mario Soldati andò anche lui, per 130 131 Tre mazzi C’erano due bambini. Uno era molto povero, l’altro molto ricco. Giocavano insieme, ma il bambino ricco prendeva gusto a umiliare il bambino povero. Che cosa hai mangiato?, gli chiedeva quasi ogni giorno. E il bambino povero rispondeva: Cicoria. Io, diceva il bambino ricco, ho mangiato rotolo di carne ripieno e poi un dolce. E l’indomani: Che cosa hai mangiato? Indivia, rispondeva il povero, la cui dieta era quasi esclusivamente composta da verdure selvatiche che la madre raccoglieva all’alba per venderle in paese, casa per casa. Io, diceva il bambino ricco, ho mangiato pollo arrosto. La cosa durò molto tempo. Il bambino povero ne soffriva. Ne parlò con la madre. Tu fai così, gli disse lei: domani, quando te lo chiede, rispondi che hai mangiato filetto. Il giorno dopo il bambino ricco ricominciò: Io ieri ho mangiato aragosta, e tu che cosa hai mangiato? Ho mangiato filetto, rispose pronto il bambino povero. Davvero?, commentò il bambino ricco, e quanto ne hai mangiato? Il bambino povero esitò, e poi con sicurezza disse: Tre mazzi. 133 L’anatra di Parigi, il pane dello Yemen, il pesce sul giornale Non disdegno di certo i ristoranti prestigiosi. Specialmente quelli di grande tradizione. Mi picco persino di saper apprezzare le raffinatezze che qualche volta offrono. Ma soprattutto mi affascina e mi diverte la liturgia del mangiare. Le luci, gli ambienti. Moltissimo anche i costumi codificati dei maître e dei camerieri, le rigorose gerarchie dei ruoli. Non posso nascondere che il mio sguardo è sempre impastato di una certa ironia. Mi è capitato un paio di volte di mangiare in uno di quei ristoranti francesi che servono anatre numerate, a partire da una qualche data di un qualche ipotetico Settecento. Arriva, accompagnata da due giovanotti che spingono un carrello immacolato, dal primo cameriere e dal maître in frac, la canonica anatra, coperta dalla sua inevitabile cupola d’argento. Il maître scoperchia lentamente e il capolavoro si concede nella sua bruna bellezza diffondendo perfetti profumi. Il primo cameriere si avvicina con i suoi scintillanti strumenti e aggredisce teatralmente la crosta dorata del nobile animale. Al primo infausto colpo uno schizzo di sugo fuoriesce dall’incisione. Il maître ha un trasalimento come se quella coltellata avesse lacerato il suo, di costato. Con un balzo si avvicina, S’il vous plaît!, esclama togliendo d’autorità le posate dalle mani del 135 I gelsi neri cameriere. Assistiamo dal vivo a un’impressionante operazione di altissima classe gastronomica, degna, per precisione e sicurezza, dell’intervento di un grande chirurgo che si addentra con raffinatissimi bisturi nei meandri di un cervello umano. Distribuite le porzioni ai commensali, dell’animale non rimane che la carcassa intera, perfettamente scarnificata. Sono tentato di tributare un applauso scrosciante. Al cameriere, il maître non lascia che l’umile compito di trasferire quello scheletro nella acconcia macchina che lo schiaccia fino a distillarne i meravigliosi succhi, destinati ad arricchire le delicate, profumate carni del pregiato gallinaceo. Bella esperienza e gratificante ricordo. E però non più gratificante, nella mia memoria, di uno splendido pesce del Mar Rosso mangiato in Yemen in una stamberga con griglia per arrostire. Il pane, preparato all’istante attaccando la pasta sulla parete di un forno a pozzetto dal quale veniva staccato al formarsi delle prime bolle di cottura. Siccome ero straniero, sul nudo legno del tavolone al quale mi ero seduto fu steso in funzione di ecologico piatto uno stropicciato foglio di giornale. Niente posate, naturalmente, ma il pesce e il pane erano memorabili. Di poche cose ero più ghiotto da bambino, come oggi continuo a esserlo, che dei gelsi neri. In estate, per le strade del paese passava il venditore ambulante e lanciava il suo grido meraviglioso: A ’st’ura v’arrifriscanu! Avevano fama di essere altamente rinfrescanti i gelsi neri, specialmente se consumati di prima mattina. Ma non era certo per passione salutistica che io mi precipitavo da mia madre ad avvertirla che passava il venditore con i suoi panieri foderati da fragranti foglie di fico. Veniva chiamato e versava nel piatto quella meraviglia di squisiti gelsi che già sanguinavano di succulenti umori. Attento, raccomandava mia madre, ché le macchie non si tolgono. Bisogna strofinargli sopra more verdi perché vengano via, e dove le troviamo le more verdi? Ma a me piaceva prenderli con le mani, le dita rimanevano squisitamente macchiate di rosso per giorni e io continuavo a succhiarmele illudendomi di sentire ancora il sapore. Un nostro vicino di campagna aveva, da me invidiatissimo, un gigantesco, o così nell’invidia mi sembrava, albero di gelsi neri. Ogni tanto arrivava il sospirato invito ad andarne 138 139 Il cibo votivo a cogliere. Era un rito. Mia madre mi faceva indossare la più vecchia e malandata canottiera di cui disponeva, venivo munito di panierino e mi avviavo ad arrampicarmi sull’albero delle meraviglie. Ci passavo la mattina. Il panierino non lo riportavo mai pieno, ma la pancia rischiava di esplodermi. Al ritorno, immancabilmente venivo accolto da finti rimproveri scandalizzati. Ma guarda come ti sei ridotto, un santo Lazzaro! Che in effetti, non solo la canottiera, ma il corpo intero era completamente e deliziosamente insanguinato. Ci volevano grandi strigliate per farmi tornare presentabile. A proposito, la granita di gelsi neri, fatta come Dio comanda è, giuro, la più sublime che si possa desiderare. Fatta eccezione per le altre, si capisce. Nella memoria di un bambino non credo ci sia niente di paragonabile a queste scorpacciate di frutta arrampicati sugli alberi. Su un grande fico che torreggiava in mezzo al limoneto, in agosto praticamente ci abitavo e ricordo ancora con delizia la sensazione di bruciore che mi lasciava sulla pelle il latticello dei frutti e delle foglie. E che dire di quelle perine piccole, dalle guancette rosse, così succulente se consumate direttamente dal ramo? Il guaio è che la memoria di queste meraviglie gioca qualche volta brutti scherzi. Non sono molti anni che trovandomi davanti a un irresistibile albero di fico carico di frutti maturi con la camicetta sfardata, cioè con la pelle un po’ crepata dal gonfiore della maturazione, detto fatto, pur con qualche sforzo, volli salirci sopra a rinnovare gli antichi fasti. Purtroppo l’albero non si dimostrò tollerante del mio greve peso come il gelso lo era stato di quello lieve della mia infanzia. È successo quello che doveva succedere. Son caduto giù dal fico. Ovunque nel mondo, il cibo accompagna i riti religiosi del popolo. A conferma che tra gli umili e i poveri il sentimento religioso poco ha a che fare con finezze teologiche e metafisiche e molto con la durezza della lotta quotidiana e collettiva per la vita e con l’incombere della morte. Il cibo è stare insieme, esorcizzare la paura della fame, condividere con gli altri, compresi santi e dèi, fare offerte, impetrare aiuto. Numerosissimi gli esempi che si affacciano alla memoria della mia infanzia e in viaggi per il mondo. Con grande anticipo, in vista della Settimana santa i bambini in Sicilia preparano i laureddi. Si semina del grano in vasi e lo si fa germogliare al buio. Ne vengono fuori piccoli boschi di steli di un delicato colore gialloverde, che decorati con nastri variopinti vanno poi ad adornare, il Giovedì santo, la prigione di Gesù. La rendono meno triste quella prigione, ma soprattutto l’offerta in modo trasparente allude all’augurio di un buon raccolto, all’attesa della trionfante resurrezione pasquale, annuncio della primavera che risveglia la terra e prepara i suoi frutti. 140 141 Assai simili sono le offerte preparate per il grande pellegrinaggio primaverile nell’isola di Bali. Anche lì grano pallido, frutti, cibi portati sulla sommità del capo da donne vestite a festa, in fila indiana sulle impervie scalinate dei templi. A Racalmuto, per la festa della Madonna del Monte gli uomini salgono di corsa, in groppa a muli o cavalli, la ripida scala fin dentro la chiesa, dove offrono sacchetti di grano alla Madonna. Le donne, a piedi, i candidi sacchi sui quali è cucita un’immagine sacra, li portano, come a Bali, in equilibrio sulla testa, in pellegrinaggio alla Vergine madre. Nella processione del Venerdì santo di Collesano ognuno degli incappucciati confratelli porta un simbolo, il sole, la luna, i tre chiodi della croce, la scala, la borsa dei trenta denari di Giuda, tutti facilmente decifrabili. Ma ce n’è uno, particolarmente suggestivo, di cui ignoro il significato: un’arancia, trafitta da un coltello. In casa, per Pasqua, si preparano i pupi con l’uovo. Pasta dolce farcita di uova intere complete di guscio. Si abbozzano canestri, cuori, che poi si scambiano con i fidanzati, floride fanciulle che sempre suscitano risate maliziose a causa delle uova che le dotano di iperboliche tette. Tutto decorato di barocchi fili d’argento, di glassa bianca, di palline colorate. Ma soprattutto, le pasticcerie si riempiono di agnelli di pasta di mandorle. Tutte le famiglie, ma proprio tutte, per il pranzo pasquale ne mettono a tavola uno. Ce ne sono di piccolissimi e poverissimi, ma anche di sontuosi e monumentali. Si può dire che ciascuna provincia, ciascun paese, lo faccia in modo diverso l’agnello pasquale. Soprattutto cambiano le farciture, dove prevalgono la marmellata di cedro, la pasta di pistacchio e la zuccata, ma anche vari tipi di confettura, cannella, pezzetti di cioccolato, secondo la fantasia e la tradizione del luogo e del singolo pasticciere. Molto diverse sono anche le forme: innanzitutto ce n’è di 142 143 curcati, cioè sdraiati, e di assittati, cioè seduti. Poi, alcuni sono lavorati con grandissima arte, secondo la tradizione che fa pensare ai Matera e ai grandi scultori di figure da presepe del Settecento napoletano, mentre altri sono solo grossolanamente abbozzati. Ma è la decorazione che la fa da padrona, a cominciare dai cestini variamente intrecciati, a simulare recinti, dentro cui sono presentati, per continuare con i confetti dorati o argentati, i cioccolatini, i nastri, le rose scarlatte di sfoglia d’ostia. E su ciascuno, infilzato nella tenera pasta, un rosso stendardo. A volte sono così belli che piange il cuore a rovinarli per mangiarli. Come il bel paladino a cavallo – a mia sorella toccava di solito una ballerina – di zucchero colorato che ricevevo in regalo per la festa dei Morti. Lo rompevo a pezzettini, a poco a poco, da dietro, in modo che frontalmente non se ne vedesse l’inesorabile erosione. Quanto più era bello, tanto più cercavo di farlo durare. Finché qualche settimana dopo il nobile paladino, a forza di essere sistematicamente sbrecciato e sgranocchiato, non stava più in piedi, crollava, e con mio grande sollievo gli si poteva dare il colpo di grazia. I pupi di zucchero li ho trovati anche in Messico, l’unico altro paese al mondo dove il 2 di novembre è anche grande e felice festa di bambini e di dolci. Là soprattutto prevalgono teschi e ossa di morti, che ci sono anche in Sicilia. Non c’è niente di triste in tutto questo. Anzi, credo sia un modo di fare uno sberleffo alla morte e di sottolineare una saggia continuità con quanti ci hanno preceduto e che raggiungeremo. Da noi, persino le castagne secche, gialle e rugose, sono chiamate cruzziteddi, teschiolini. Cruzziteddi allessi, teschiolini bolliti. A Kami, sulle Ande boliviane, ho visto molte volte frotte di persone, amici e familiari andare a consumare cibi speciali al cimitero, sulle tombe dei loro cari. Una piccola festa tra le croci. Di ogni cibo, una porzione va al morto. A ogni giro di bevute di chicha, bevanda fermentata della quale gli uomini sono quasi in permanenza ubriachi, una bella dose viene versata sulla tomba perché il congiunto beva insieme a loro. In Sicilia per i morti ci sono anche i mostaccioli e la sussa di miele – una sorta di pan pepato che sa di cannella e chiodi di garofano –, nel Siracusano i tenerissimi totò. Ma è anche l’occasione per fare i buccellati, le ruote barocche ripiene di fichi secchi, messi ad asciugare in agosto, noci, mandorle, pistacchi. L’11 novembre non possono mancare i biscotti di San Martino, appunto, che non ho mai amato, duri, un po’ terrosi, sanno vagamente di anice. Li sopporto solo se intinti in mosto di vino, che è peraltro il modo canonico di consumarli. A carnevale le sfince, le zeppole, naturalmente, come in tutta Italia. A Mamoiada, in Sardegna, per la festa di Sant’Antonio, nella città rosseggiante di fiamme e assordata dai campanacci dei Mamuthones le donne offrono ai ballerini che intorno ai fuochi ritmano in cerchio la loro monotona danza e a tutti i passanti vassoi colmi di dolcetti ripieni istoriati di cabalistiche decorazioni. Ma la festa che da bambino amavo di più per le sue promesse gastronomiche era Santa Lucia, il 13 dicembre. Già almeno una settimana prima cominciavamo a fremere. Tra pochi giorni è Santa Lucia, bisogna pensare alla cuccìa. Si racconta che in tempi antichi, di non precisata antichità, vi fu in Sicilia una terribile, lunghissima carestia. Uomini, donne, bambini, animali morirono a migliaia, di fame e delle malattie che la denutrizione provocava. Finalmente, dopo mesi e mesi di disperazione e devastazione, nel giorno di Santa Lucia arrivarono al porto di Palermo miracolose 144 145 navi a portare l’agognato grano. Il grano cominciò a essere distribuito, ma l’attesa sarebbe stata troppo lunga per andare ai mulini, macinarlo quel grano, ridurlo in farina e poi impastarla e infornarla per farne pane. Troppo impellente e terribile la fame. Allora si decise di bollirlo e di mangiarlo subito. Questo è la cuccìa, grano bollito. Lo stesso che si usa a Napoli per la pastiera. A Santa Lucia, per ricordare quel fausto giorno, non si mangia pasta né pane. Quanto a risparmio di tempo, è da vedere. Perché riesca bene, il grano, bel grano grosso, va messo a bagno almeno quarantott’ore prima. E poi bollito a lungo, circa quattro ore, finché rilascia abbondante amido. Una volta pronta la cuccìa, la fantasia si sbizzarrisce. Per essere la ricorrenza di una scampata morte da fame, bisogna riconoscere che le lussuose varianti sono davvero numerose. Si va dalla preparazione minimalista, quella preferita da mio nonno, appena condita con un filo d’olio e un po’ di pepe, alle più lussuose ed elaborate. La si può mescolare a zucchero e latte. Si può annegare in budini di latte o cioccolato. In creme di ricotta. La si può condire con il miele. Insomma, esistono mille varianti succulente. Dovunque io sia vissuto e viva, il giorno di Santa Lucia non è per me concepibile se non mi preparo una bella cuccìa. Ma non c’è solo quella. Purché non ci sia pane o pasta, tutto è consentito. Inevitabili sono le scorpacciate di panelle e panelle. Ossia sandwich di caldissime panelle fritte tra due panelle crude. Ma soprattutto gli arancini. Il giorno di Santa Lucia è in ogni famiglia il trionfo degli arancini. Le mitiche palle di riso ripiene di ragù di cui in ogni casa si segue una ricetta diversa, quasi tutte sublimi. Lasciatemelo dire. A Palermo c’è una friggitoria dove preparano degli arancini da almeno mezzo chilo che costituiscono, io penso, l’arma risolutiva per sconfiggere ogni eventuale carestia e fame presente e da venire. Per anni, tornando in Sicilia in treno, durante la traversata in traghetto, il rito di riappropriazione identitaria era andare sul ponte, comprare un arancino al bar e mangiarselo, ancora assonnati, appoggiati al parapetto, mentre la Sicilia si andava avvicinando, favolosamente avvolta nelle dorate luci dell’alba. 146 147 I sapori mai provati Almeno fino agli anni cinquanta, l’universo del cibo in Italia era quello che oggi si chiamerebbe a chilometro zero. Nei paesi, soprattutto al Sud, la vita era ancora immersa nella cultura contadina. I cibi arrivavano dalla campagna e dagli allevamenti che circondavano i paesi, se non direttamente dall’orto e dal pollaio di casa. Oggi, che non si sa più da dove arrivano i cibi che si comprano al supermercato e può anche capitare di trovare arance spagnole persino a Catania, lo si ricorda con rimpianto. Ma quell’epoca forse è stata un po’ mitizzata anche a forza di piuttosto stucchevole nostalgia alla Citati per quei pomodori da giardino dell’Eden. Si dimentica che, per quanto fossimo molti di meno, di tantissimi cibi, se non di pomodori, c’era penuria, e la parola fame non aveva ancora perduto nel mondo contadino il suo duro peso di concreta esperienza, per acquistare il valore di semplice metafora che fortunatamente ha oggi. Ma anche se non tutti soffrivano la penuria, è vero che il numero dei cibi di cui si poteva avere esperienza era piuttosto limitato. O perché prodotti in luoghi lontani da quelli in cui si viveva, o perché potevano permetterseli soltanto i ricchi. Non dico la banalissima banana, che mi veniva comprata solo nei giorni di convalescenza da qualche sfibrante febbre. 149 (La propaganda fascista negli anni della breve avventura coloniale pretendeva che una banana avesse la sostanza di due uova.) Penso a cibi mitici e lontani come il salmone, il tartufo, il caviale, il foie gras, che non solo non avevamo mai visto né assaggiato, ma che nella fantasia collettiva erano soltanto suoni letterari che accompagnavano scene di sontuosi ricevimenti in scintillanti palazzi dove danzavano donne bellissime in abiti lunghi e spalle nude e si brindava a champagne, anche quello mai visto né assaggiato. Ricchezza e peccato, insomma, inaccessibili. Penso anche a oggi trivialissimi condimenti: la maionese, per esempio, chi l’aveva mai vista? Non altrettanto mitica del caviale da Vedova allegra, certo, ma che a me evocava immagini di borghesia agiata, dai costumi e gusti anche quelli, se non altrettanto soffusi di leggenda, comunque altrettanto sconosciuti. Me lo ricordo, il mio primo incontro con la maionese. In prima media, tra i miei compagni c’era anche uno dei rampolli di un piccolo industriale della pasta di Santa Flavia, un paese vicino dove ogni mese andavo a comprare la pasta nei bei pacchi da cinque chili di carta blu insieme a mio nonno, con l’asino e il carretto. Quel bambino e io diventammo amici. Una volta mi invitò a pranzo a casa sua e andai con lui, nella macchina con autista che tutti i giorni lo portava a scuola e tornava a riprenderlo. Casa impressionante, con stanze grandi, piene di quegli oggetti bellissimi e inutili che per me erano il segno della ricchezza. Ci sedemmo a tavola, grande, ovale, il padre a capotavola, stoviglie di porcellana antica decorate con fiori bellissimi. Ci serviva un cameriere col gilet di rigatino. Io ero terrorizzato all’idea di usare le posate sbagliate e di come le impugnavo e appoggiavo sul piatto. Una volta già, qualche anno prima, ospiti del padrone del magazzino di tessuti dove lavorava mio padre, un altro cameriere mi aveva portato via da sotto il naso un piatto di pasta buonissima che avevo appena cominciato perché, pare, avevo appoggiato la forchetta in modo sbagliato, un modo che voleva dire, e che ne sapevo io?, che non ne volevo più. Ma quando mai! Io ne volevo ancora, eccome! Una pasta buonissima anche questa volta, con un saporito ragù, diverso da quello che preparava mia madre. Più fine, pensai. Poi arrivò, e fu messo trionfalmente in centro alla tavola, un enorme merluzzo lesso, circondato da fettine di limone e ciuffetti di prezzemolo. Nel nostro codice familiare merluzzo lesso voleva dire insipida convalescenza, ché altrimenti si fa alla matalotta, con aglio e pomodoro. Quello, però, era proprio bellissimo da guardare. Il cameriere me ne diede una porzione abbondante e mentre aspettavo – mia madre mi aveva raccomandato di cominciare a mangiare dopo tutti gli altri – ripassò con un curioso recipiente allungato pieno di una crema giallastra dall’aria equivoca. Assomigliava precisa alla cacchetta della mia sorellina. Mi urgeva di servirmene, e siccome esitavo me ne schiaffò una grande cucchiaiata accanto al merluzzo. Ero molto inquieto. Cominciai a mangiare il pesce facendo grande attenzione a non contaminarlo con quella crema sospetta. Ma non riuscii a scamparla. La mamma del mio amico, che seguiva ogni mio movimento con sollecitudine, mi chiese perché non mangiavo la maionese. Ecco che cos’era! E mi invitò a provarla dicendo che Maria – la cuoca, immagino – la preparava con le uova freschissime del loro pollaio e i limoni del giardino. Chilometro zero anche quella. La provai, con minimalista circospezione. Mentirei se dicessi che mi entusiasmò. Insomma, la nostra generazione ha assaggiato per prima i sapori di quei cibi leggendari. Perché abbiamo cominciato a viaggiare, sia noi che i cibi, perché abbiamo potuto permetterceli. Direi anzi che negli ultimi anni le cose sono girate 150 151 Il rito dei tagliarini in modo che i prezzi hanno di nuovo allontanato dai nostri palati certi cibi: il caviale, per esempio. In ogni caso, i loro nomi e i loro sapori si sono separati dal mito di lusso peccaminoso al quale li avevamo associati. Ricordo quando, eravamo nel 1968, offrii ai miei genitori, che per la prima volta erano venuti a trovarmi a Milano, del salmone affumicato. Mio padre mostrò di apprezzarlo, mia madre invece confessò che secondo lei una buona aringa affumicata, con l’uovo, da fare in insalata con le prime arance acidule di ottobre, era molto più saporita. Mio padre la trattò da contadina dai gusti rozzi. Questo salmone, disse, è cosa molto più fine. Del resto, aggiunse, sono sicuro che costa molto di più dell’aringa. Quanto? Io tergiversavo. Insistette. Glielo dissi. Smise subito di mangiarlo. E tu cretino che butti via i soldi così!, fu il suo commento. Poco tempo dopo la morte del padre, di poco sopravvissuto, vecchio e solo, alla scomparsa della moglie, il mio amico Marcello prima di chiudere la casa dei suoi genitori mi invitò a prendere quello che poteva servirmi. Uscivo da una vita verso una nuova. Feci un mezzo trasloco. Ancora oggi, trent’anni dopo, se qualche residuo bicchiere si rompe la cosa mi dà pena pensando che magari era quanto rimaneva di un regalo di nozze dei genitori del mio amico, ora morto anche lui. Tra le cose che avevo scelto c’era una tavola di legno chiaro, stanca per l’uso, un poco incavata al centro, pallida per i residui di farina che la incipriavano. Il mio amico mi disse che su quella tavola, il tagliere, per cinquant’anni, o almeno da quando lui poteva ricordare, la sua mamma romagnola ogni giorno della sua vita aveva mescolato farina e uova per fare la pasta. Le mani di sua madre avevano incavato il legno come nei secoli le labbra dei pellegrini il marmo del ginocchio della statua a Santiago de Compostela. Quell’oggetto così vissuto, come si dice, mi commosse. Fotografo di irritante sentimentalismo, sono spesso commosso dagli oggetti dove sono impresse tracce di vita, di lavoro, di fatica. Ho a casa un tavolo dove rimangono alcune forti bruciature da ferro da stiro dimenticato da chissà quale stiratrice di chissà quale paese in chissà quale tempo. 152 153 154 155 Quelle bruciature ne avvilivano il prezzo, ma io l’ho comprato proprio perché quelle bruciature mi avevano attratto. Il tagliere di quella signora romagnola non è mai arrivato a casa mia. Si è perso per strada. Forse era piaciuto anche al trasportatore. Non so. Forse non aveva voluto essere museificato in casa d’altri e aveva deciso di raggiungere la sua padrona. Ma il mio interesse era scattato soprattutto a causa del fatto che una spianatoia simile, sulla quale impastavano mia madre e mia nonna, io me la ricordo. Si chiamava scanaturi, ma non aveva affatto un uso quotidiano. Lo aveva avuto, mi raccontava mia madre, negli anni difficili della guerra, durante i quali ogni giorno vi si impastava la farina difficilmente macinata dal grano ancora più difficilmente trovato al mercato nero. Su quello scanaturi si erano impresse memorie di fatica e stenti che non appena la situazione lo permise lo fecero accantonare senza rimpianti. Mia madre aveva finito con il detestare la pasta fresca. Lo scanaturi veniva tirato fuori di tanto in tanto, e solo in occasioni di feste e di grandi riunioni conviviali nelle quali il rito centrale era una gran mangiata di tagliarini, tagliatelle di grano duro, alte, carnose. Se ne impastavano quantità gargantuesche. Si cuocevano in grandi pentoloni di rame stagnato e dovevano bollire in acqua abbondante e a ritmo d’inferno col fuoco a legna della fornacella. Appena pronte venivano scolate e versate direttamente sullo scanaturi dove erano state impastate, oppure, se i commensali erano molto numerosi, sulle enormi maidde, i tavoloni che erano serviti per seccare al sole il sugo di pomodoro da ridurre in estratto per l’inverno. Inondate di sugo, basilico, formaggio pecorino, i mangiatori vocianti, seduti attorno a questa rossa piramide egizia di pasta, ne tiravano grandi quantità dalla loro parte, senza posate, con le mani, costruendosi davanti piste di tagliatelle che poi venivano risucchiate con la bocca, il naso, la faccia e inviate, dritte com’erano, senza praticamente masticare, direttamente nello stomaco. Scena da rituale tribale, esorcismo, rivincita su memorie di fame atavica, simile a quella resa immortale da Totò ed Enzo Turco in Miseria e nobiltà, ma più truce, nel mio ricordo, più allegramente disperata. La gran mangiata si trasformava invariabilmente in una sorta di competizione suicida. La bocca insanguinata di sugo si sollevava dal tavolone solo quando era impossibile inzeppare ulteriormente lo stomaco e la milza avvertiva di essere prossima all’esplosione. Mangiare a crepapelle non era più un’espressione metaforica. Ma il peggio veniva dopo, quando i tagliarini cominciavano a gonfiarsi dentro i ventri dilatati. Stravaccati all’ombra di un albero, per terra o su pericolanti sedie a sdraio, gli occhi strabuzzati, si respirava a piccoli bocconi d’aria per lo spazio limitatissimo che la pancia aveva lasciato ai polmoni e durante alcune ore si giocava l’incerta partita tra il digerire e il morire. 156 157 La granita di gelsomino Da giugno a settembre andavamo in villeggiatura. Andare in villeggiatura significava che la famiglia si spostava dalla casa in paese a un ampio casotto che normalmente serviva per riporre gli attrezzi di lavoro per il limoneto. Il piccolo limoneto si trovava alla periferia di Bagheria, a poche centinaia di metri dalla vecchia e scomoda casa in paese. Ma comunque andavamo in villeggiatura, ed era un grande privilegio. Mio nonno caricava sul carretto quattro materassi, sei sedie e qualche pentola e ci trasferivamo in campagna. All’inizio ci accampavamo alla meno peggio nel piccolo spazio che di fatto serviva solo per dormire, dato che le attività e soprattutto i frenetici ozi della giornata si svolgevano tutti all’aperto, comprese le necessità igieniche. Non c’era la corrente elettrica. Illuminavamo con lumi a petrolio, poi a gas: avevano come bruciatore una calzina bianca, che bisognava cambiare spesso. Negli anni, a poco a poco, a quel casotto si sono aggiunte altre stanze fino a trasformarlo in una casa spartana ma piuttosto confortevole. Di quei mesi di villeggiatura mi rimangono molti ricordi felici, marcati dagli odori della zagara e del gelsomino. Abbarbicata attorno alla tettoia c’era infatti una gigantesca pianta di gelsomino. Mai ne ho trovata una altrettanto grande, ricca, rigogliosa, generosa di una inimmaginabile quantità di 159 profumatissimi fiori. Tanto che quotidianamente mia madre doveva scopare via quelli secchi, che cadevano in quantità. Un paio di volte a estate, su pressante richiesta mia e di mia sorella, mia madre faceva la granita di gelsomino. Era una preparazione lunga, alla quale partecipavamo tutti: la sera, all’imbrunire, bisognava raccogliere i fiori che cominciavano ad aprirsi e che si sarebbero schiusi il giorno successivo. Solo quelli erano adatti, perché ancora contenevano nel turgido bocciolo tutti i succhi e i profumi che ne sarebbero sprigionati. Noi bambini li riconoscevamo perché erano gli stessi che ci piaceva succhiare. Bisognava, per raggiungere i più alti, salire su delle sedie o arrampicarsi su una scaletta di legno e in un paio d’ore, facendo attenzione a non danneggiarli, ne raccoglievamo tanti da riempire una larga bacinella di zinco. Forse esagero, ma secondo me arrivavamo a mezzo chilo. Dalla bacinella veniva su un profumo stordente. Sui fiori si versava acqua fino a ricoprirli appena, poi sulla bacinella si stendeva un panno immacolato e i fiori si lasciavano a riposare tutta la notte, fuori dalla tettoia, che prendessero la rugiada. La mattina dopo si tiravano via i gelsomini, strizzandoli un poco – con delicatezza, altrimenti, diceva mia madre, veniva fuori l’amaro. Una parte dell’acqua di infusione si metteva in una marmitta e vi si faceva sciogliere a caldo lo zucchero, con l’aggiunta di un poco di succo di limone, fino a ottenere uno sciroppo; poi si aggiungeva l’acqua rimasta. Prima che arrivasse l’elettricità, la marmitta con l’acqua di gelsomino la portavo alla fabbrica del ghiaccio, poco distante da casa. Mi piaceva gironzolare alla fabbrica del ghiaccio. C’era un vai e vieni di carretti, di moto Ape che caricavano scintillanti blocchi di ghiaccio avvolti in coperte e sacchi di iuta per portarli a Porticello, dove, macinati, servivano per il pesce della giornata. Oppure ai ristoranti, o alla bottega del ghiaccio. Quando eravamo in paese andavo anch’io, nelle giornate più calde, a comprare un quarto di blocco di ghiaccio al vicolo della Neve, così si chiamava, per i nostri usi di casa. A mio padre e a mia nonna, specialmente, piaceva l’acqua freddissima, anche se non diventava mai deliziosamente gelata come quella che si comprava a bicchieroni al chiosco dell’acquaiolo di corso Umberto, dove con una bottiglia a beccuccio lungo la si insaporiva con una nuvoletta di anice unico dei fratelli Tutone, il profumato zammù. Il proprietario della fabbrica del ghiaccio, il gentile signor Calì, me la metteva in un posto speciale la marmitta con l’acqua di gelsomino, a gelare. Una specie di pozzetto dove spesso lasciavamo a galleggiare anche le angurie. Alle angurie bastava poco per diventare fredde, per la granita ci voleva più tempo. Dopo un paio d’ore tornavo, toglievo il coperchio alla marmitta e con un cucchiaione di legno giravo l’acqua di gelsomino, che cominciava a solidificare. E poi di nuovo, per un’altra oretta almeno, ogni dieci minuti: finché la granita era a punto. Appena pronta me la portavo di corsa a casa. Qualche volta il signor Calì accettava che gliene riempissi un boccale, come mia madre mi raccomandava sempre di fare. In seguito, quando arrivarono i frigoriferi, queste operazioni si cominciò a farle nello scomparto freezer, e più avanti ancora nelle primitive gelatiere, il cui filo usciva fuori dal frigo e si collegava a una presa elettrica a parte. Ma la granita di gelsomino, chissà perché, poi non si fece più. 160 161 La geografia della spesa Comprare il cibo in un paese agricolo siciliano come quello nel quale sono vissuto da ragazzo può essere una faccenda topograficamente e culturalmente complicata. Non è che uno va dal verduraio o dal panettiere, o dal macellaio e compra quello che gli serve. Eh, no! Se uno ha esigenze da gourmet per comporre i suoi menu – e tutti, da quelle parti, si atteggiano a puntigliosi buongustai –, o anche soltanto per fare la spesa scegliendo la varietà migliore e il prodotto più fresco e saporito, la competenza, frutto di radicata e continuamente aggiornata esperienza, dev’essere vasta e puntuale. Il pane, per esempio. C’è forno e forno, c’è pane e pane, c’è panettiere e panettiere. E ci sono anche le mode. Un certo pane paesano, denso, fatto con farine rimacinate o integrali, cotto a legna con sarmenti d’ulivo o di limone, per un po’ di anni non era stato di moda. Il gusto, che si voleva aggiornare verso sapori più cittadini, si era mosso verso pani più bianchi, più morbidi, anche se magari diventano elastici e immangiabili dopo poche ore. E aveva fatto preferire più anodine cotture elettriche, complici anche i deliri pseudo-igienici della Commissione europea che per anni ha fatto la guerra ai forni a legna e al buon pane. Oggi la tendenza si è radicalmente invertita. Davanti ai forni tradizionali si trovano di nuovo code di clienti che aspettano 163 l’ultima sfornata, beandosi dei meravigliosi profumi che sprigionano dal pane caldo. Pani rotondi, mafalde, morbidissimi muffuletti – il pane arabo, ideale per le panelle (l’ideale è sempre mobile) o, caldissimo, ripieno di ricotta, sugna, sale, pepe e pecorino –, filoncini ricoperti di sesamo, dalla crosta duretta e croccante, e altre forme, le più diverse, per soddisfare ciascun gusto o ghiribizzo. Ma il panettiere non fa solo pane. Fa anche gli sfincioni, e non è affatto detto che il fornaio di cui ti piace molto quel filoncino integrale con il sesamo sia anche quello che fa lo sfincione migliore, o i migliori muffuletti. Dunque, per il pane si va da un certo fornaio, per gli sfincioni da un altro, e per i biscotti regina, coperti di giuggiulena, da un altro ancora. Non importa se i forni si trovano in strade lontanissime tra loro. Vale il viaggio, dicono le guide gastronomiche. Il fatto è che la stessa molteplicità geografica si ritrova anche per le verdure. I cavolfiori, per esempio. I cavolfiori, dice mia sorella, vanno comprati dal contadino di via Milazzo. In paese, molti contadini che hanno piccoli appezzamenti coltivati a orto vendono direttamente i prodotti che coltivano. Mettono fuori dalla porta di casa una sedia con sopra la verdura raccolta la mattina, oppure parcheggiano davanti alla porta un Ape o un furgoncino con la merce in vendita, in modo che la gente sappia che c’è roba fresca da comprare. Il contadino di via Milazzo è specialista in cavolfiori e finocchi. Sarà la terra, sarà la sua particolare perizia nel coltivarli, fatto sta che sono speciali, turgidi e al tempo stesso morbidi, che basta un bollore per ritrovarseli da sciogliersi in bocca, profumatissimi, saporitissimi, ottimi conditi con un filo d’olio buono come per le eccellenti minestre o le più sofisticate ricette. Come imbattibili sono i carciofi di un altro contadino, quello di via Sant’Antonino, coltivati in collina, pieni, tenerissimi, senza un’ombra di barba, dolcissimi da mangiare semplicemente bolliti, oppure cucinati ammuttunati, ripieni di pan grattato, cipolla, spezie, con un tappo di uovo battuto fritto a blindarne il sapore prima di cucinarli in salsa di pomodoro. (Piatto mitico di mia madre.) Anche per ognuna delle verdure di montagna, raccolte all’alba in collina e che vanno a ruba in poche ore – cicorie, borragini, tenerumi, cavuliceddi, sinape, una verdura amarognola che trovo solo in Sicilia –, si va da un certo contadino e non da un altro, ognuno ha la sua specialità. Il finocchietto invece bisogna comprarlo dal vecchio che si mette vicino alla posta, che sa dove trovare il più tenero e profumato. Mentre le uova si prendono, freschissime, da una signora che vende anche qualche meravigliosa gallina allevata in campagna. E i macellai. C’è quello che ha i migliori capretti, e l’altro che ti prepara davanti la salsiccia tagliata a coltello, mettendoci gli ingredienti che preferisci – formaggio, pomodoro, aglio; ma a me piace semplice, classica: sale, pepe e semi di finocchio. Per non parlare della ricotta. Ordinata il giorno prima da quel pizzicagnolo al quale la porta ogni mattina, fumante, morbida, saporitissima e ancora immersa nel suo siero, un certo pecoraio che viene giù dagli stazzi dei vicini paesi di collina. Sui pasticcieri, poi, le diatribe sono violente. Ciascuno giura sul proprio, e nessuno è disposto ad ammettere che la sua cassata preferita, che magari va apposta a comprare in un paese vicino, o i suoi cannoli preferiti, che naturalmente vanno riempiti di crema di ricotta al momento e mangiati subito, pena il letale ammosciamento della cialda croccante, possano essere anche soltanto paragonati ad altri, dei quali si elencano, con grande competenza e lusso di acrimoniosi dettagli, i difetti e le approssimazioni, sia nelle materie prime che nell’esecuzione. Insomma, fare la spesa implica grandi deambulazioni per il paese e conoscenza dettagliata della geografia dell’eccellenza. 164 165 Poi, a tavola, immancabilmente, l’erotica pratica del mangiare assaporando è accompagnata dal compiacimento verbale per la scelta. Quella ricotta, quella salsiccia, quel cavolfiore, sono proprio “un’altra cosa”. Insomma, non si mangia mai quello che si sta mangiando, si mangia sempre “un’altra cosa”. 167 Sale Di una pietanza senza sale si dice che è insipida, se è una minestra la definiamo una brodaglia. Persino di un uomo, se non è intelligente diciamo che non ha sale in zucca, ed è senza sale la prosa di uno scrittore sciatto. Molte delle cose che mangiamo possono essere saporite anche senza sale, ma nelle cose cucinate l’apporto del sale è determinante. Questo spiega l’alta considerazione di cui ha sempre goduto nella storia. In Italia per molto tempo è stato monopolio dello stato, e tutti ricordiamo le insegne, a volte pregevolmente dipinte, delle privative di Sali&Tabacchi. Beninteso, l’uso del sale implica equilibrio. Una pietanza troppo salata può essere immangiabile, come indigesto è un conto troppo salato. Numerose sono le metafore morali e culturali che hanno per oggetto il sale. Padre Dante ci ha detto come sa di sale lo pane altrui. Insomma, con il sale abbiamo quotidianamente molto a che fare. Molto a che fare ci ho avuto anch’io nella mia vita di fotografo. Spesso l’ho incrociato nei luoghi in cui si produce. Luoghi familiari nella mia Sicilia o in Andalusia, luoghi spettacolari in lontanissimi paesi. 169 Intanto, c’è il sale marino e c’è quello di miniera, il salgemma. In Sicilia ci sono entrambi, ed entrambi li ho esplorati. Per insaporire i cibi preferisco il sale di mare, così ricco dello iodio di cui tanto mi piace riempirmi anche i polmoni. Il sale di mare si coltiva, con antica sapienza. Queste grandi coltivazioni sono suddivise in vasche dove, a mano a mano che l’acqua di mare si asciuga, si formano paesaggi lagunari fantastici, ricchi di colori e riflessi, al cui centro stanno spesso arcaici e pittoreschi mulini a vento. Lavoro duro che si conclude con la raccolta del prezioso minerale – una volta con carriole, ora con nastri trasportatori –, che si accumula in bianche piramidi, poi ricoperte di coppi di terracotta gialloverdastri per proteggerlo dalle intemperie. A Marsala, a Trapani. Poi ritrovate, le saline, affascinanti e arcaiche, a Cervia e a Cabo de Gata, nell’altra piccola patria eletta nel Sud dell’Andalusia. La salina più bella di Marsala si chiama Imperatore, si trova di fronte all’isola di Mozia e mi piaceva particolarmente andarci anche per conversare con il suo custode-poeta. Spettacolari sono le miniere di salgemma di Petralia, che non appaiono cupe come quelle di zolfo o di carbone, o quelle boliviane di tungsteno, ma assomigliano a vaste cattedrali barocche dove le luci dell’acetilene moltiplicano gli scintillii e sottolineano le fantasiose curvature scavate dalle frese. Adesso è un lavoro di macchine quello delle miniere, ma in passato i salinari, di cui Leonardo Sciascia ha raccontato la fatica fisica e morale, vi scontavano una vita durissima, di sfruttato lavoro. In Bolivia, all’altro capo del mondo, ho scoperto l’immenso salar di Uyuni. Un lago secco, grande come l’Umbria, che lo choc dei continenti ha sollevato, non so quante centinaia di migliaia di anni fa, ai quattromila metri di altitudine della cordigliera delle Ande, nel Sud del pese, quasi ai confini con il Cile. Quando piove, il salar diventa uno specchio d’acqua dove ogni cosa perfettamente si raddoppia. Ma è quando l’acqua evapora che il paesaggio si trasforma in qualcosa di assolutamente straordinario, una delle meraviglie del mondo: una sterminata superficie di un bianco che sembra ghiaccio, e invece è sale, tramato di un’infinita successione di larghi esagoni, come una allucinata coperta all’uncinetto. A Uyuni, operai dall’aspetto di galeotti, con cappucci di lana e scurissimi occhiali da sole per proteggersi dall’abbacinante biancore, tagliano da quella superficie compatta, con lunghe asce affilate, parallelepipedi di sale da una quindicina di chili. Per secoli, un mattone sul fianco destro e uno sul sinistro, interminabili carovane di lama hanno trasportato il preziosissimo sale per venderlo nei diversi mercati del paese. Del salar di Uyuni mi avevano parlato i tecnici dell’Organizzazione mondiale della sanità, che avevano invitato dei giornalisti per illustrare il loro progetto di lotta contro il gozzo in Bolivia. In Bolivia, il gozzo è un’endemica malattia nazionale. Ne soffre oltre la metà della popolazione. Paese tagliato fuori dal mare, nella dieta degli abitanti manca completamente lo iodio. Noi è soprattutto dal consumo di pesce che assumiamo iodio, e dal sale naturalmente, soprattutto quello marino, che ne è ricco. L’Oms, per indurre in maniera capillare il consumo di iodio in Bolivia e cercare di debellare il gozzo, aveva saggiamente escogitato di introdurlo nel sale prima che fosse immesso nel mercato. Lo recuperavano da Uyuni, lo tritavano, lo arricchivano di iodio e lo mettevano in vendita. Ma scoprirono che non funzionava. I boliviani erano abituati a comprare il sale in grossi mattoni tagliati direttamente nel salar. Popolo di pastori, le loro abitudini nomadi rendevano quelle forme di sale 172 173 più comode da trasportare e da consumare. Non rischiava di disperdersi e per l’uso bastava grattarne un po’. Insomma, i tecnici della iodizzazione del sale furono costretti a ricompattarlo nei lingotti tradizionali per persuadere i boliviani a comprarlo. È questa affascinante storia che mi ha indotto a visitare il magico salar di Uyuni. Quei lingotti di sale sui fianchi dei lama li ho ritrovati in diversi mercati, ma non sempre erano quelli industrialmente arricchiti del salvifico iodio. 175 Ragnatele di fame Era un’epoca, quella, che spegnevamo i lumi con gli sbadigli da fame. Nel pentolone ormai ci campavano le ragnatele. Tutte le notti andavo a mare con la barchetta per totani o polpi. Puh, marina di merda! Manco una boga. Le budella mi si attorcigliavano. Da quindici giorni mangiavamo verdura che andavamo a raccogliere in montagna. In casa, tutti la pancia scombussolata avevamo. La verdura, da sola, non ti ci tiene in piedi. Alla bottega di zu Pietro a Santa Flavia non ci potevamo andare a comprare il mangiare a credito. Non ce ne dava più. Il libro nero dove segnava il nostro debito, grosso come il Vangelo della messa era. Il conto, più lungo di una lenza di palamitara. Alle prime ore del mattino me ne andavo al mercato per vedere di capitare qualche pesce sgarrato. Ma pure quello era difficile. Troppo assai eravamo a cercare. Pure contro i gatti facevamo guerra. Più magri di noi erano, e selvaggi erano diventati. Che dovevo fare? Mi venne una pensata. Mi feci imprestare una cassetta di sardine e me le strofinai addosso dalla testa ai piedi e subito subito me ne andai di corsa alla bottega di zu Pietro. Scostai la rete e mi misi a gridare: 177 Zu Pe’, zu Pe’, ora ora sono tornato, nella barca di Nofrio Argento ero, sette cantara di sarde abbiamo preso, domattina la parte prendo. Buona sarà, zu Pe’. Sulla testa dei bambini, appena li prendo i soldi prima di tutti per vossia sono, che con noi è stato buono e paziente. Per la buonanima di mio padre, che come un fratello lo stimava, vossia lo sa. Si passasse una mano sulla coscienza, zu Pe’, tre chili di pasta e tre chili di fagioli mi deve dare. A casa stanno allampando tutti dalla fame. Se non torno con qualche cosa m’ammazzano. Zu Pietro mi guardò per un pezzo. Neanche una parola diceva. Poi uscì da dietro il bancone e mi si avvicinò a portata di naso. Mi annusava la canottiera tutta unta, la faccia; proprio addosso mi stava, mi girava intorno. Un cane cirneco pareva. Non si fidava, le squame erano assai, l’odore era di sarda fresca, ma il conto da pagare era vecchio e infradicito. Non si voleva fare fottere, zu Pietro. Io lo sapevo che fottere a zu Pietro non era facile. E però, alla fine, il Signore mi volle aiutare. Larenzo, mi disse, speriamo che la Madonna del Lume si sia decisa a posarci la sua mano su quella casa. Qua ci sono la pasta e i fagioli. Domani ti aspetto, guai a te, non ti scordare, e salutami a tua madre. Mi misi a baciargli le mani: Il Signore ce lo paga, zu Pe’!, Mill’anni di purgatorio ci deve abbuonare per il cuore che ave vossia!, mill’anni di purgatorio. Afferrai i due coppi e mi buttai per la strada che l’avevano asfaltata e cilindrata che era poco. Come un pazzo correvo verso casa, un cavallo parevo, niente guardavo, niente vedevo, che magari presi una pietra maligna e puntuta che mi spaccò il piede una pietà. E meno male che non avevo le scarpe, che se no questa volta ce le lasciavo, per come è vero Dio. A quattrocento metri dalla casa già gridavo: Ma’, ma’, piglia la legna, metti la pignata, il mangiare ho! Le donne si affacciavano alla porta per vedere chi gridava così. Mia madre la trovai che piangeva. La notizia prima di me le era arrivata. Già stava sventagliando la legna nella fornacella sotto il pentolone di rame. I fagioli assai ci vuole per cuocere, mi disse. Mangiamoci prima la pasta, diceva. Ma io non ci volli sentire, la pasta non ci basta per tutti, dissi, la fame è troppo assai, anche noi siamo troppo assai. E intanto sventagliavo pure io. La pignata taliata non bolle mai, si dice, ma quell’acqua pareva di ghiaccio. Ogni momento sollevavo il coperchio. Lo sapevo che era peggio, ma non mi davo pace. Appena appena che l’acqua cominciò a muoversi ci buttai dentro i fagioli. Mezza cipolla c’era, anche se vecchia, e ci cacciai dentro pure alcune foglie mezze ammuffite di alloro. Che a me, nei fagioli mi ci piace l’alloro. Tempo ci voleva. Uscii per cercare di svagarmi. Ma non c’era verso. La testa sempre alla pignata ce l’avevo. Ogni cinque minuti tornavo. La pignata continuava a bollire forte con quell’inferno di fuoco che mia madre non faceva placare. Ma quei maledetti fagioli non cuocevano mai. Ogni momento li assaggiavo. Sempre duri come le corna erano. È che bisognava metterli a mollo una nottata, diceva mia madre. Sì, una nottata! Come se potevamo aspettare una nottata. Uscivo, rientravo. Uscivo, rientravo. Un’anima in pena ero. Più tempo passava, più fame mi si scatenava. Non la sentivo più nella pancia; la fame ora la testa mi svuotava. Ci pensavo. E più ci pensavo e meno mi parevano, quei fagioli. Troppo assai siamo. Il tempo si avvicinava che sarebbero tornati tutti a casa. Non ci bastano quei fagioli, pensavo. Ci ragionavo. E più ci ragionavo, meno bastavano. E più sapevo che non bastavano e più la fame mi riempiva la testa e mi svuotava gli occhi. I fagioli si stavano cuocendo e la mia testa pure. Io lo sapevo quello che dovevo fare. Tornai a casa di corsa e mi misi a gridare: Ma’, ma’, sciarra di donne; a tua figlia Lucrezia se la stanno squartando alla fontana! Mia madre si mise le mani nei capelli: Bella Madre del Lume, aiutaci!, 178 179 disse, e partì verso la fontana. Io entrai e misi ferro e catenaccio. Buttai dentro la pasta e cominciai a fare vento alla fornacella. Il fuoco più grande, però, ce l’avevo dentro la testa. A mano a mano che la pasta si andava cuocendo, io me la andavo mangiando. Direttamente dal pentolone me la mangiavo. Come il fuoco bruciava. Ma io non smettevo. Col cucchiaione grande di legno me la mangiavo. Dopo un poco mia madre tornò con mia sorella grande, poi arrivò anche la sorella piccola, picchiavano alla porta e urlavano: Larè, apri Larè, disgraziato! Poi arrivò anche mio fratello Peppino, tutti picchiavano alla porta, tutti urlavano. Quello che urlava di più era zu Tommasino, che per quanto vecchio e magro pareva un leone. La porta voleva abbattere. Per come è vero Dio, urlava, appena entro ti ammazzo, grandissimo cornuto! Io di lui soprattutto avevo paura. Ma non perché mi poteva ammazzare. Quello non solo urlava come un leone, come un leone pure mangiava. Lo sapevamo tutti. Mia madre e le mie sorelle piangevano. Adesso mi urlavano anche i vicini di casa. Anima dannata, mi dicevano: apri a tua madre! Io manco li sentivo. Mangiavo, mangiavo. Poi la pasta e i fagioli si misero a non andare più direttamente nella testa, cominciai a sentire che andavano nella pancia. Lo sentii perché non ce ne entravano più. Ero disperato, con tutta la fame che ancora sapevo di avere, in quella stupida pancia non ce ne entravano più. Mi dovetti fermare. Si era fatta notte. Io guardavo nel buio con gli occhi di fuori. Pure sugli occhi premevano la pasta e i fagioli. Si gonfiavano da dentro. Respiravo a sorsi piccoli. Non c’era spazio per l’aria nei polmoni. Ogni respiro un rantolo. Avevo paura che mi si crepasse la pancia. Nel letto non ci potevo stare. Mi allungai per terra. Alla porta non picchiavano più. Mio zio e Peppino se n’erano dovuti andare a mare. Le mie sorelle da una zia nostra che stava alla marina. Io mi trascinai ad aprire 181 El molino de chocolate la porta e poi mi buttai sul letto. Dopo un poco entrò mia madre. Piangeva. Nemmeno si avvicinò alla pignata. Gemeva che non finiva più. Si mise nel letto e continuava a piangere. Io non potevo dormire. Gli occhi mi lampeggiavano nel buio come il faro di Capo Zafferano. La testa ce l’avevo alla pignata. Ancora bene di Dio c’era là dentro. Nelle prime ore della mattina capii che ce la potevo fare. Mi avvicinai silenzioso e cominciai a mangiarmi il resto. Quella pasta e quei fagioli erano diventati come la calce che impastavo con la sabbia quando andavo a muratore. Ma mi mangiai tutto lo stesso. Quando non ce ne fu più uscii, mi chiusi la porta alle spalle e sparii per tre anni. Oaxaca, difficile non soccombere alla sua seduzione. Ci sono stato due volte e vorrei tornarci ancora, anche se degli amici mi dicono che anche lì fanno di tutto per distruggere l’incanto. Una luce e un’aria impareggiabili, un contesto artigianale straordinario per ricchezza e fantasia, i colori delle case, dei vestiti delle donne, dei mercati, la musica che sembra venire fuori dalla terra stessa. Uscivamo dal ristorante La Coronilla, luogo di delizie per il suo saporito guacamole, le croccanti chapulines, le cavallette fritte, il mole di pollo, e per finire un mezcal col gusano, il vermetto che viene introdotto nelle bottiglie più pregiate a renderne perfetto l’aroma. A passeggio dopo un pranzo ragguardevole, eravamo stati raggiunti da una tiepida brezza profumata di cioccolato. Molto profumata, irresistibile. Usando il naso come bussola ci eravamo addentrati nelle viuzze del centro per capire da dove sprigionasse un tale intenso profumo, sempre più intenso quanto più ci avvicinavamo alla fonte. Fu così che scoprimmo el molino de chocolate. Una grande stanza che aveva in effetti l’aria di un mulino. Sacchi di baccelli di cacao, zucchero di canna, cannella, stecche di vaniglia, zenzero, peperoncini vari, altre spezie. 182 183 Mangiare, parlare Donne e bambini con in mano pentolini, sacchetti di plastica, secchi di zinco, aspettavano il proprio turno. Quando arrivava il momento davano la loro ricetta, ognuna diversa, con piccole variazioni, nelle quantità di zucchero, cannella, spezie, cacao. Il tutto veniva pesato, mescolato e introdotto attraverso un imbuto dentro una specie di macina dove, una volta che il composto era diventato una spessa farina, veniva aggiunta dell’acqua: mescolata energicamente, questa produceva una fluida crema che i clienti raccoglievano in basso da un bocchettone d’uscita nel proprio recipiente. A casa, una volta freddo, se ne scalpellano dei pezzi da mangiare direttamente o da sciogliere per farne bevanda. Sapore meraviglioso e granuloso, che con mia grande sorpresa ho riconosciuto come familiare. L’evocazione è stata immediata: la cioccolata preparata a freddo dalla pasticceria Bonajuto di Modica che tanto piaceva a Leonardo Sciascia. I Bonajuto dicono che la ricetta, tramandata di padre in figlio, risalirebbe nientemeno che ai primi anni successivi alla scoperta dell’America, quando il cacao arrivò in Europa e si impose come bevanda prediletta dalle signore della nobiltà. Da Oaxaca a Modica, una ricetta e un sapore che hanno attraversato indenni secoli e oceani. Nel divertente romanzo, Il più grande uomo scimmia del Pleistocene, lo scrittore inglese Roy Lewis racconta le paradossali vicende di un gruppo di uomini scimmia vissuti in Africa più o meno un paio di milioni di anni fa. Il romanzo racconta antiche vicende che continuamente e ironicamente alludono alle nostre convinzioni scientifiche e sociali. Il protagonista, Edward, è una specie di scienziato evoluzionista che affronta scoperte cruciali per la vicenda umana. E non sempre i suoi nuovi punti di vista sono facilmente accettati dal gruppo del quale è il leader. Come sempre ne nascono drammi anche molto violenti. Ernest, il figlio, nella inevitabile contrapposizione ideologica e di potere con il padre finisce persino, con la complicità del fratello, per ucciderlo con le nuove armi per la caccia che il padre stesso aveva inventato. La grande, rivoluzionaria novità fu soprattutto la scoperta del fuoco. Lo ricordo qui perché mi aveva molto divertito, e persuaso, il racconto delle conseguenze di quella capitale scoperta sulla vita quotidiana di quegli uomini scimmia e del modo di sfruttarla. Formidabili cambiamenti. Tanto per cominciare, il fuoco, acceso davanti alle caverne dove gli uomini scimmia abitavano, era un enorme progresso nella sicurezza delle loro notti. 184 185 Sugo finto, uomo finto Finalmente potevano dormire tranquilli senza l’angoscia che bestie feroci venissero a sbranarli durante il sonno. Ma enorme era anche il progresso nelle pratiche alimentari. La carne degli animali cacciati e uccisi dagli uomini scimmia, si scoprì, diventava molto più tenera e quindi molto più facile da smembrare, trasportare e masticare, se non persino più saporita. Trascinata, cotta e fatta a pezzi, poteva essere consumata collettivamente e in santa pace nelle case caverna. Nasceva così il pranzo di gruppo, il rito conviviale. Rito che non è mai cessato fino ai nostri giorni. Ma l’ipotesi affascinante di Lewis è che, nel consumare questi pasti familiari e tribali, i grugniti di compiacimento per la soddisfazione della fame siano stati i primi embrioni del linguaggio. Mi persuade. Mi sembra verosimile che la necessità di comunicare con gli altri sia nata da quell’altra primaria necessità condivisa: cucinare e mangiare. In Sicilia, il sucu, piatto invernale essenziale, su cui ha scritto pagine fini e spassose Luisa Adorno nel suo L’ultima provincia, si prepara con l’estratto della salsa di pomodoro fatta asciugare sui tavoloni di legno che in agosto invadono le strade del paese. In certe famiglie, la domenica, la pasta con il sugo è pietanza fissa, rituale come l’obbligo di andare a messa. La preparazione è faccenda complessa. Oltre al classico soffritto, occorrono carni varie, di manzo, di maiale, cotenne, puntine, salsicce con i semi di finocchio, profumi di terra, in quantità e proporzioni decise insindacabilmente dalla cuoca di casa, secondo regole tramandate di madre in figlia e solo raramente suscettibili di minime e discusse variazioni. Con la giusta quantità di estratto, naturalmente, sciolto a fare spessa la salsa. La cottura, a fuoco bassissimo, è lunga e lenta. Solo così si otterrà quel sapore speciale, unico, che per sempre, per tutti i componenti della famiglia, diventerà inamovibile pietra di paragone per giudicare il vero e autentico sucu, anche se diverso da come viene preparato da una zia o da una vicina. Nel tempo, e nella diaspora, quel sapore si trasformerà in mito. Piatto ricco, come si vede, per la sua dovizia di carni, e per questo, negli anni della mia infanzia, raramente 188 189 Ferran Adrià alla portata di tutte le famiglie. Ma non poter comprare le carni necessarie non significava che ci fossero famiglie che rinunciavano al sucu domenicale. Se ne facevano semmai versioni meno ricche. L’estratto, comunque, con il pomodoro maturo, saporito e a buon mercato di agosto, ogni famiglia lo preparava. E in casi di più severa povertà c’era sempre la soluzione del sucu fintu. I formaggiai, nel vendere i profumati pecorini, i magnifici ragusani stagionati dalla scorza dura, come li vantavano i venditori ambulanti, tagliavano e mettevano da parte le unte cortecce. A prezzo infimo venivano comprate dai più poveri ed erano queste scorze di formaggio invecchiato che davano forza e sapore alle comunque immancabili rosse spaghettate. Come spesso succede, le ricette nate dal bisogno hanno finito col produrre sapori speciali che si sono imposti per bontà e nobiltà. I poveri preparavano solo ogni tanto il sucu tradizionale con la carne, gli altri, più spesso, il sucu finto lo facevano per gusto e piacere. Anche del sugo per la pasta con le sarde, del resto, esiste una versione ironicamente detta con le sarde a mare, senza i pesci, buonissima anche quella. Io ne vado matto. Specialmente mi piace anche il sucu finto, per il suo forte aroma di scorze di robusti formaggi. È quello, semmai, che oggi è diventato una leccornia rara. Dove le trovi, per abbondanza e qualità, le scorze di formaggi che servono? Il sucu finto torna in modi di dire che dall’universo del mangiare entrano nel parlare comune. Di un uomo o di qualcosa di molta apparenza e poca sostanza si dice per esempio che è un sucu finto. Come di un’illusoria autoconsolazione si dice che è amore e brodo di ceci. (La minestra di ceci, con molta acqua e pochi legumi, con buona volontà può essere consumata illudendosi che si tratti di un ricco e nutriente brodo di carne.) Ho letto che il ristorante El Bulli, per anni forse il più famoso del mondo, lo chiudono. Io c’ero andato per fotografare lui, Ferran Adrià, da molti anni il più celebre cuoco, il più discusso e contestato, il più stellato, il più. Adrià diceva che al Bulli non si andava per mangiare, ma per vivere un’esperienza. Io, però, ci ho anche mangiato. Benissimo. Tra tutti i pasti consumati in tutti i ristoranti nei quali sono stato, quello al Bulli, se non il migliore in assoluto, rimane il più memorabile. Provare la cucina di Ferran Adrià è in effetti un’esperienza speciale. Lui dice che più che un cuoco si considera un designer di piatti, uno sperimentatore di nuove possibilità tecniche e culturali per produrre sapori. Al Bulli, Adrià non cucinava; si faceva vedere. Rilasciava interviste. Più di trecentocinquanta all’anno, mi ha detto, almeno una al giorno, per i principali giornali del mondo. A cucinare c’era un piccolo esercito di cuochi, oltre quaranta, quasi quanti i coperti dei clienti. Due tavoli davano sulla cucina, che era come un palcoscenico dove ogni giorno si metteva in scena il balletto delle ventiquattro portate che cambiavano da stagione a stagione, il menu che ricchi clienti da tutto il mondo, 190 191 con prenotazioni spesso da un anno all’altro, venivano a consumare. Magari arrivando con voli charter dal Giappone o dal Brasile. Da uno di quei due tavoli di proscenio ho assistito al rito spettacolare. Rito di precisione militare, eleganza e velocità. Un balletto, in effetti, che invece che dalla musica veniva ritmato dagli ordini esatti del direttore di cucina, vorrei dire d’orchestra. Adrià si mostrava, filosofeggiava, si faceva fotografare. Poi, magari a un certo punto gli veniva fame, afferrava una banalissima pera e se la divorava a morsi. 193 La pasta di donna Provvidenza Da sempre, e a dire il vero ancora adesso, quando sento invocare la provvidenza inevitabilmente penso alla pasta. So benissimo perché. Da bambino ho vissuto quel periodo di interregno tra la pasta fatta quotidianamente in casa, o comunque la pasta fresca, e la pasta secca, quella confezionata, la pasta di fabbrica. In realtà in casa mia, salvo che in particolari ricorrenze, o quando si preparavano le abbuffate di tagliarini, la pasta fresca non la si faceva più. Durante la guerra farla in casa era inevitabile, sempre che con difficoltà e pericolo si fosse riusciti a trovare del frumento e con rischio ancora maggiore a clandestinamente macinarlo, e allora forse quel quotidiano fare le pasta aveva finito col diventare tutt’uno con i brutti ricordi di troppi momenti difficili. Però la pasta fresca la mangiavamo spesso. La domenica quasi sempre. La compravamo, come moltissimi altri baarioti, già fatta, e precisamente da donna Provvidenza. Andare a comprare la pasta era spesso compito mio. Mia nonna, mia madre, mi davano i soldi, non riesco a ricordare quanti, e mi facevano l’ordinazione: spaghetti, bucati, bucatini, tagliatelle, lasagne, margherite, ziti, mezzi ziti, maccheroni, maccheroni rigati, bastarda, che stava, la bastarda, un 195 Le sarde, il limone, il fico d’India formato che mi piaceva molto, tra i capelli d’angelo, la tria fina e gli spaghetti. Si comprava quasi esclusivamente la pasta lunga. La pasta corta, che si usava per le minestre con legumi e verdure, era già quella confezionata, oppure la si otteneva rompendo quella lunga, spaghetti e tagliatelle, soprattutto. Mia madre la faceva a pezzi grossolanamente: la avvolgeva in un panno pulito a fare un fagotto e poi la frantumava con il palmo della mano, col pestello del mortaio o con il batticarne. Io faccio ancora così. Il negozio di donna Provvidenza mi piaceva. C’era sempre grande animazione, e un buonissimo profumo. Lei era energica ed efficiente, con i capelli bianchi raccolti sulla nuca, a crocchia. Bianco, del resto, nel ricordo, mi pare che fosse tutto là dentro. Compreso il figlio, col grembiule bianco, la camicia e i pantaloni bianchi, e io me lo ricordo bianchissimo pure in faccia, come se avesse finito col prendere il colore della farina che impastava. Soltanto la pasta, che pendeva a seccare dal soffitto su varie file di canne, aveva un bel colore biondo. Ricevuta l’ordinazione sganciavano una canna, la inclinavano con grande perizia per fare scivolare la quasi sempre esatta quantità di pasta direttamente sulla bilancia, la avvolgevano, larga, che non si attaccasse, in un bel foglio di carta paglierina, porosa e profumata anche quella, mi sembrava, e me la mettevano sulle braccia aperte. Attento che non si apra il pacco! E io, con le braccia tese a reggere e il naso sopra a godermi il profumo, me ne correvo a casa. Cibi totem, alberi paesaggio, sapori memoria, della mia memoria di siciliano e di quanti altri uomini e donne hanno vissuto e vivono in luoghi del sud del Mediterraneo. Quando si concludeva la raccolta dei limoni, mio padre faceva una festa con la famiglia e i raccoglitori. La festa consisteva soprattutto in una grande mangiata di sarde. Aveva fatto costruire apposta dal fabbro una graticola enorme. Ci si potevano allineare cinque chili di sarde. Occorrevano due uomini per collocarla e ritirarla dalla carbonella ardente, e molta arte per girare le sardine e andarle bagnando durante la cottura con il salmoriglio preparato con olio, aglio, limone sparso sui pesci con uno scopettone di origano fresco. Quel fumo oleoso di legna di limone e sarmenti di vite e di ulivo spandeva un aroma appetitoso che sembrava avere virtù esilaranti, tanto suscitava allegria. Zu Rosario, decano dei contadini, che negli ultimi anni della sua vita camminava ad angolo retto a forza di fare andare la zappa corta sotto gli alberi di limone bassi, era il maestro di cerimonie di queste sardinate. Con la sua roncola lucente staccava dalla siepe che saliva alta contro il muro di cinta del campo alcune grosse pale di fico d’India, le foglie più larghe e carnose, scegliendo quelle un po’ concave, le liberava dalle 196 197 spine, le sciacquava, ed ecco pronto un verde servizio di piatti. Con il coltello arcuato da innesto, tagliava in alto alcuni grossi limoni, li svuotava del succo e della polpa che andava ad arricchire il salmoriglio, tagliando il cocuzzolo in modo che stessero in piedi, ed ecco pronto un servizio di profumati bicchieri. Con mezze cannette aperte a metà e dentellate in cima faceva eleganti ed efficacissime forchette. Mangiare le sardine roventi e l’insalata di pomodori e cipolle fresche nel piatto di fico d’India, infilzarle con le forchette di canna, bere l’acqua, o quel tremendo vino di casa a diciotto gradi, nel bicchiere di limone, che a tutto aggiungeva dolcezza e profumo speciali. Ecco una memoria di giubilo personale e collettivo che mai mi ha abbandonato negli anni. Ma certe memorie sono anche una bussola dell’esperienza. Le sardinadas le ho ritrovate, riti fondamentali, nell’Andalusia, dove oggi sto scrivendo queste pagine e dove ho trovato un mio altrove della memoria, che tanti cerchiamo e qualche rara volta troviamo nelle molte false fughe della vita. Non c’è romería che si rispetti, in Andalusia, senza la sua omerica sardinata. Non c’è chiringuito, nelle spiagge del Palo di Malaga, senza la graticola per le sardine da cui si alza il profumo penetrante della mia infanzia. Anche di fronte alla casetta andalusa dove vado in vacanza c’è una siepe di fico d’India. In estate vi raccolgo gli squisiti chumbos, non senza averne prima staccato i fiori secchi, di un giallo così vivo in primavera, con i quali preparo infusioni nelle cui virtù diuretiche, come mio padre, nutro fede assoluta. Dolcissimo, singolare sapore di deserto, quello dei fichi d’India. Più esotico di tanti esotici frutti. Gusto forte e discriminante e per questo fonte di nostalgie, anche se adesso, al seguito degli emigranti, i fichi d’India si trovano ovunque, anche nei mercati di Milano o di Parigi. Chi non li conosce, al primo assaggio non solo dal sapore rimane sorpreso, ma soprattutto dall’abbondanza dei semi di cui è piena la polpa e che istintivamente tende a sputare. Sulle conseguenze che possono avere quei semi in quantità, per chi per piacere o fame da miseria mangia troppi fichi d’India, abbondano al mio paese truci racconti popolari. Ogni volta che assisto a questa reazione, di sputare quasi istintivamente i semi dei fichi d’India, non posso fare a meno di rievocare la scena esilarante della commedia L’aria del continente, scritta da Nino Martoglio, nella quale il protagonista professore siciliano, tornato dal continente in Sicilia sposato con una donna nordica e dalle idee liberalissime, specie in fatto di costumi sessuali, al punto da considerare arcaico e reazionario retaggio la terronica gelosia, scopre che la moglie non solo è fuggita con un suo amico, ma che per giunta non del Nord libero e liberale era originaria, bensì dell’arretrato e sicilianissimo paese di Caropepe. Era carrapipana!, esclama infuriato il professore, e sputava l’ossa dei fichi d’India! (Prova inconfutabile, e in questo caso fornita in malafede, di settentrionalità.) Qualche anno fa, la direttrice creativa di un’agenzia pubblicitaria londinese, che pretendeva che abbandonassi in pieno agosto il mio eremo andaluso per andare a parlare con lei di un progetto, sorprendentemente decise, di fronte al mio rifiuto, di venire lei stessa. Si presentarono in tre, dopo un avventuroso viaggio di coincidenze mancate. Li invitai a cena. Quando arrivammo a casa già faceva notte e i fari dell’automobile con cui ero andato a prenderli all’aeroporto illuminarono la mia cara siepe di fico d’India. La signora, che era molto direttrice creativa e molto londinese, dovette pensare di essere arrivata in piena Africa. Alla fine della cena che avevo preparato per lei e i suoi collaboratori offrii dei fichi d’India. What is this?, chiese lei diffidente. Le spiegai che erano i frutti di quei cactus che aveva visto arrivando. Li assaggiò, sputò 198 199 abbondantemente e ripetutamente i semi, e commentò gelida: Strange fruit. Non ho avuto quel lavoro. Col succo un po’ vischioso dei fichi d’India – filtrato, si capisce, dei fatidici semi – si prepara un magnifico sorbetto. Eppure ogni volta, godendomelo, penso con un qual senso di colpa che ridurlo a raffinato sorbetto è una sorta di violenza culturale perpetrata nei confronti di quella selvaggia essenza di cactus, aliena figlia del deserto; un modo per renderla accessibile e accettabile alle non carrapipane figlie delle schizzinosità urbane. Mi pare più aderente alla cultura materiale del mondo contadino, se esiste, l’uso totale che del fico d’India fanno i messicani. Con le foglie più tenere, per esempio, preparano molti piatti, anche se io, che le ho assaggiate arrostite, non sono andato matto per la loro dolciastra bavosità. Preparano fritte croccanti persino le povere bucce del frutto, naturalmente liberate dalle molte fastidiose pungenti setole. Chi le ha provate mi dice che ricordano le squisite melanzane. 201 Vino, ricotta, cannoli Un mio cugino aveva alla periferia di Calatafimi un grosso magazzino per un commercio di vino che aveva ereditato dal padre. La sua casa era a Palermo, ma a Calatafimi era costretto a una specie di eremitaggio per cinque giorni la settimana. Gli faceva piacere che gli amici andassero a distoglierlo da un avvitamento solitario che qualche volta, confessava, aveva l’impressione che gli riuscisse fin troppo bene. Andavo ogni tanto, con un paio di compagni, a passare da lui due o tre giorni. Erano strane gite, durante le quali sembrava che andassimo, più o meno inconsapevolmente, a sperimentare, a immagazzinare, certe sensazioni primarie. Mio cugino naturalmente ci faceva assaggiare con orgoglio il suo vino. I diversi vini, anzi, che si producevano nella zona, famosa per i vigneti. Ai miei amici piacevano. Non sono mai stato un bevitore. Anzi. Detesto la pur piacevole sensazione di perdita di controllo che dà l’alcol. Mi sono ubriacato solo un paio di volte nella vita e non ne ho un bel ricordo. Mi irrita molto non aver conservato memoria di che cosa ho vissuto di così eccitante prima della nausea e del mal di testa del giorno dopo, meritato contrappasso, mi pare, e che ricordo benissimo. Altre ebbrezze mi interessano, di cui posso, pur nell’abbandono, analizzare in ogni istante tutte le sfumature. 203 Il vino, però, per quanto ne beva poco, mi piace molto. Non quelli che allora ci faceva assaggiare mio cugino, che come suo padre ne vantava soprattutto la genuinità e l’altissima gradazione. Bevande impossibili, violente mi sembravano, come impossibile e violenta mi sembrava la Sicilia che non sapeva elaborare la sua genuinità e la sua alta gradazione oltre una sorta di autenticità brutale. Anni dopo i siciliani hanno trovato il modo di imbrigliare quella forza, che per tanto tempo era stata esportata a buon mercato per aggiungere corpo a pregiati ma anemici vini del Nord Italia o di Borgogna, e hanno imparato anche loro a usare i sofisticati metodi tecnici, le raffinate ipocrisie della cultura per fare il vino, grandi vini, anzi, che hanno conquistato il mondo. Sparavamo. Mio cugino aveva fucili, i fucili di suo padre, che era stato appassionato cacciatore. Lui non lo era, ma i fucili li aveva conservati, come badava ai tre cani che aveva ereditato insieme alle armi e ai quali era molto affezionato. Li teneva, cani e fucili, per prudenza, così diceva, visto che la casa in cui viveva, adiacente al magazzino, era piuttosto isolata. Prudenza inutile, pensavo, in caso di veri malintenzionati. In realtà i cani gli facevano compagnia e lui si divertiva, ogni tanto, a fare del tirassegno con gli amici nel grande cortile. Bottiglie vuote, scatole di latta. Sono state le uniche volte nella mia vita in cui ho sparato. Se si eccettuano i fucili da caccia subacquea. Ma quella è un’altra faccenda. Di quelle sparatorie ho un ricordo fortissimo. Le esplosioni assordanti. Una sensazione inquietante, come di potenza colpevole, una forte scarica di adrenalina. Una sensazione primaria, in un certo senso simile a quella che dava al palato il micidiale vino a diciotto gradi, ne bastavano poche sorsate perché mi desse alla testa. La mattina all’alba, altro rito, andavamo dal pecoraio di Segesta. Segesta era a pochissimi chilometri. Il turismo di massa non era ancora cominciato. Non c’era ancora l’autostrada da Palermo a Trapani. Il paesaggio era immacolato. Probabilmente identico al tempo in cui erano stati costruiti il tempio e il teatro, situato un po’ più in alto. Il sole, sorgendo, rivelava d’improvviso il tempio magnifico dipingendolo d’oro. L’emozione era straordinaria. Dentro mi riecheggiavano i versi, forse di Vicente Aleixandre, mai più ritrovati, dedicati a Segesta, nati dalla stessa emozione, nella quale il poeta spagnolo cantava il miracolo di un gesto di architettura che si fa numero, senso, bellezza. Tra il tempio e il teatro c’era lo stazzo del pecoraio. Che a quell’ora, con suo figlio, preparava la ricotta. Gesti esatti, antichi, silenziosi. Alla fine dava a ciascuno di noi una tazza colma di ricotta caldissima e profumata, che galleggiava nel suo siero verdino. Ce la godevamo fuori dalla capanna, con l’odore forte dello stazzo, nel silenzio che parlava solo attraverso il belato delle pecore, con negli occhi il mistero del paesaggio che cominciava a definirsi e sembrava miracolosamente convergere nel punto esatto dove il tempio splendeva. Allo stesso modo, tutto quanto sembrava convergere anche nel sapore di quella ricotta che ci inondava il palato come la luce inondava gli alberi, le foglie, le colonne. Il tempo era come se non esistesse più. Si può descrivere il sapore di quella ricotta? Ogni volta che mi capita, qualche rara volta ancora mi capita, di assaggiare una ricotta, una buona ricotta, ancora calda, mi sembra che la sensazione di quel sapore, così essenziale, così primario appunto, soprattutto mi serva a tentare di recuperare l’emozione di quella ricotta mangiata all’alba davanti al tempio di Segesta. Oggi quello stazzo non c’è più. È stata la prima cosa che hanno fatto fuori quando hanno “sistemato” l’area per renderla funzionale al turismo di massa. 204 205 Castrato con le zucchine al matrimonio di Tinherir Non era decente, hanno detto, quella cacca di pecore in un luogo così meraviglioso, non era igienico. Ed era invece la cosa più straordinariamente coerente. Adesso davanti al tempio c’è uno spazio cementato per farci parcheggiare i pullman e le automobili, c’è un orribile casotto per vendere i biglietti. C’è l’autostrada, in fondo. C’è insomma tutto quello che occorre, tutto, tranne l’incanto. Come al Partenone di Atene, come alle piramidi del Cairo. Né magia, né ricotta. Nostalgia? No. Indignata presa d’atto di quello che ci dicono inevitabile. Tornando a casa andavamo quasi sempre a mangiare un cannolo in un piccolo bar pasticceria di Dattilo, un paesino non lontano da Castellammare del Golfo. Un cannolo straordinario, una specie di protocannolo, secondo me. Credo li facciano ancora, sono un po’ di anni che non ci torno. Intanto è enorme, peserà mezzo chilo, una cosa per saziare oltre che per dare piacere. Da giorno di festa di gente affamata. E poi ha un sapore brutale, selvaggio. La preparazione della crema di ricotta è ancora primaria, niente da spartire con la finezza talvolta eterea dei cannoli delle migliori pasticcerie palermitane, dove la crema è passata attraverso le raffinate tecniche dei pasticcieri svizzeri chiamati a Palermo nel Settecento per soddisfare i palati sofisticati della nobiltà. Mangiando quel cannolo si sente ancora la pecora, il sapore aspro del latte profumato dalle erbe stente di cui si nutrono le bestie, persino i belati. La scorza, croccante e spessa, sa dell’olio fruttato e profumato nel quale è stata fritta. Il ritorno alle origini popolari, contadine, insomma, di una fortunata invenzione di pasticceria. In viaggio in Marocco con Roberto Leydi. Non ricordo più per quale storia o pretesto di quelli che Roberto sapeva inventarsi per andare dietro alle sue curiosità etnologiche e musicali e dalle quali sapeva comunque cavare affascinanti articoli. Per me giorni felici. In viaggio con il mio amico maestro, in un paese meraviglioso, con gli occhi anche più aperti dalle parole e dagli insegnamenti di Roberto. Arriviamo la sera a Tinherir, vasta oasi, piantagione di palme, incastonata in un paesaggio bruno e rossastro, antico come un racconto orientale. Ci sistemiamo nel piccolo ostello. Ci giungono ondate di musica e canti. Leydi scatta come una molla. Prende il suo registratore Uher, io le macchine fotografiche, e seguiamo il sentiero della musica. È in corso una festa di matrimonio. In realtà le feste sono due, una per gli uomini e una per le donne. Quella degli uomini si svolge in una stanza al primo piano di una costruzione di fango. Una piccola stanza, umida e fumosa, appena illuminata da due lampade a petrolio, stipata di gente che suona, canta, 206 207 Cibi di strada balla, suda. Ci incorporiamo alla festa, subito accolti con grande ospitalità e gentilezza. E immediatamente ci mettono in mano dei bicchieri colmi di rovente tè alla menta, con le belle foglie verdi, troppo dolce, come deve essere, i bordi decorati da una fitta corona di mosche. Le cacciamo e beviamo. Non ci lasciano mai con il bicchiere vuoto. Roberto tira fuori il microfono, io comincio a fotografare. C’è un ragazzino che suona il piffero con un virtuosismo da grande jazzista. Si forma un cerchio, al centro alcuni anziani ballano facendo volteggiare scialli colorati trapunti d’argento. Da un’altra stanza non lontana giungono le grida e i canti della festa delle donne, a noi preclusa. Poi arriva un ragazzo con un grande piatto fumante di cibo, una pietanza di carne in salsa. Viene messo al centro e tutti si siedono attorno con il loro pane non lievitato. Ne strappano dei pezzi e con quelli raccolgono carne e sugo dal grande piatto. Naturalmente siamo invitati anche noi. Prendo il mio boccone usando il pane come pinza e cucchiaio e lo assaggio. Uno choc: è il castrato con patate, pomodoro e zucchine che preparava mia madre. Identico non solo l’aspetto, ma anche il sapore. Lo spazio e il tempo si annullano di colpo. Ritrovo un pezzo della storia culturale del Mediterraneo, l’inequivocabile filo arabo della mia identità siciliana. Sono a casa. Dovunque mi sia trovato nel mondo, da New York a La Paz, da Monaco di Baviera a Benares, a Timbuctù, a Shibam, una delle prime cose che faccio è assaggiare qualcosa da mangiare nelle friggitorie di strada. Ce ne sono dappertutto; purché quello che friggono o lessano o arrostiscono assomigli anche un poco a rascature, melanzane, panelle, cazzilli (le crocchette di patate), stigghiole, callo. Mi sembra di capire meglio la gente e il mondo che mi circonda, di poterli meglio vedere e interpretare se in bocca ho lo stesso sapore che hanno loro. Se dall’autobus che dall’aeroporto di Palermo vi porta verso la città vedete ai bordi della strada levarsi alte colonne di fumo, non pensiate che siano segnali indiani. Quel fumo denso è provocato dal grasso delle stigghiole che si scioglie sui carboni roventi di enormi graticole. Gli avventori fanno cerchio intorno aspettando che siano cotte per mangiarle ancora roventi, bruciandosi dita e palato. La stigghiola è uno dei tipici cibi di strada del Palermitano. Come il meraviglioso lampredotto toscano, è fatta con le trippe. È una specie di involtino 210 211 Uccidere, mangiare in cui frammenti di trippe sono avvolte insieme a cipolla nel budello del capretto, o, di sapore ancora più brutale, in quello di castrato. Si trovano un po’ in tutta la Sicilia, ma nella provincia di Caltanissetta, per esempio, alle trippe si aggiungono erbe aromatiche e spezie che le rendono saporitissime. Non solo in Sicilia, però, le ho mangiate; praticamente identiche sono vendute, sotto forma di salsicce arrostite, nei mercati marocchini e tunisini, o, in fagottini, anche in Puglia. Sono parenti, forse antenate, di quella gloria gastronomica francese che è l’andouillette. A Palermo il cibo di strada è una maniera del mangiare veloce che ha poi trionfato come fast food nel mondo intero. Sono cibo di strada le focacce con la milza, il pane e panelle, le vastedde con le melanzane fritte, il polpo bollito, il callo (piedi interi di manzo o di maiale preparati in antri infernali e poi venduti per strada sotto forma di grossi nervetti mangiati a stricasale, col sale grosso). Dovunque vada nel mondo, sono un adepto convinto delle meraviglie cibarie che si comprano e consumano per strada. I churros in Spagna, gli hot dog in America, i bratwurst in Germania, i kebap in tutto il Medio Oriente, come i meravigliosi spiedini che si vendono sulle gradinate delle plazas provvisorie allestite per le corride in Colombia, come le zuppe e i fritti indiani. Impossibile ricordarli e inventariarli tutti. Ma mi è sempre sembrato che quei cibi, quei sapori, fossero una lingua popolare straordinaria, che mentre definisce l’identità di un paese getta un efficacissimo ponte di comunicazione con ogni visitatore straniero. Una lingua che si comprende al volo, senza bisogno di traduzione. Vedranno mai gli uomini il giorno in cui non uccideranno più per mangiare? Chissà, forse quel giorno coinciderà con il tempo, in un’isola-che-non-c’è, in cui non uccideranno più per paura, per desiderio di potenza, di ricchezza, di dominio, per orgoglio ferito, per pura arroganza – per amore persino, dicono. Diventeremo tutti vegetariani? Hitler era vegetariano. E se scoprissimo, come già sappiamo fingendo di non saperlo, che anche le piante, esseri viventi, hanno sensibilità, provano dolore? Ci sono animali vegetariani. Per motivi di coscienza? Si sente spesso ripetere, e qualche volta vorrei crederlo, che a differenza degli uomini gli animali uccidono solo per necessità di sopravvivenza, e che non si conoscono animali che abbiano progettato e realizzato eccidi di massa. Forse perché il futuro degli animali non va oltre il tempo di un istante, di un giorno o di una stagione – la fame della tigre. Persino gli animali sociali, api, formiche, castori, hanno un futuro che, benché socialmente organizzato, ci appare chiuso. Ma quella scienza di politica pura che è la zoologia, 212 213 l’osservazione e lo studio degli animali, ci mostra uccisioni crudeli, spesso politicamente machiavelliche, di altri esseri viventi più deboli. Mi ha sempre colpito che i bambini siano tanto appassionati di certi terribili documentari sugli animali. In quel mondo non esiste la coscienza, quindi non esiste nemmeno il concetto di male, il peccato, il delitto. La ferocia viene chiamata istinto, la politica di potenza, difesa del territorio. Noi, normalmente, sistematicamente, industrialmente, spesso sadicamente, uccidiamo esseri viventi per divorarli. E ipocritamente, anche. Uomini in strutture apposite lo fanno per noi, con discrezione che arriva alla dura censura. La bistecca, avvolta nel cellophane dei supermercati, arriva sulla nostra tavola il più possibile sterilizzata dalla sua natura di frammento di vittima assassinata. Ma basta avvicinarsi solo un poco ai macelli industriali, alle strutture d’allevamento e sterminio di massa degli animali di cui ci cibiamo, per rimanerne sconvolti. Del resto, non è facile avvicinarsi, ottenere permessi per visitare, o peggio per fotografare, i macelli industriali. Una volta ne ho visitato uno in Argentina. Mi hanno mostrato, a fatica, solo l’ingresso e l’uscita dell’impianto. Ma all’ingresso gli animali sono vivi, e all’uscita sono carne. È in mezzo che si consuma il rito anonimo, il sacrificio sempre più tecnologico, pare, ma assai concreto. Mi ha impressionato che la struttura, architettonicamente, logisticamente, obbedisce agli stessi criteri e alle stesse esigenze dei campi di sterminio. I macelli industriali sono il modello dei campi di sterminio. Di tutti i campi di sterminio. Dopo quella visita sono stato vegetariano per un mese. Poi, appunto, un programma di zoologia umana mi ha ricordato che Hitler era vegetariano. Ho visto altri macelli, a cielo aperto. Nell’Isola di Pasqua, i cavalli, di cui è, o era?, ricca l’isola li ho visti uccidere senza alcun tentativo di occultamento da un ometto che li faceva fuori con un unico, infallibile colpo di mazza in mezzo alla fronte. A Kami, in Bolivia, dove ogni tanto, in uno slargo del villaggio veniva macellata una vacca. A Baghdad, lungo il fiume, la sera, ho visto placide famigliole scegliere con allegria tra i grossi pesci vivi dentro un bidone quello della loro cena, che veniva subito ammazzato sbattendogli ripetutamente la testa su un banco prima di pulirlo e metterlo sulla graticola. Nemmeno nel mondo contadino nel quale sono cresciuto c’erano ipocrisie e occultamenti. Non ho mai sentito nessuno, che mi ricordi, porsi questo problema in maniera eticamente inquieta. Mia nonna diceva: Domani facciamo il brodo di gallina. Mio nonno andava nel pollaio, sceglieva una gallina tra quelle che non facevano più uova e le tirava il collo, con naturalezza. Io, piccolino, assistevo a tutta l’operazione, poi portavo la gallina, che ancora tremava, a mia nonna e la aiutavo a spennarla. Con i miei amici catturavamo uccellini con il vischio e le reti e quelli non canterini finivano fritti o arrosto. Del resto, le esche per prenderli erano vermetti vivi di cui quegli uccellini andavano ghiotti. Succede spesso nettando i pesci di trovarvi in pancia altri pesci più piccoli non ancora del tutto digeriti. Una volta ne ho trovato uno ancora vivo. In stagione di caccia, uno zio o un amico di famiglia arrivavano spesso con un coniglio sanguinolento o una spiedonata di quaglie. Ed era una festa. Spesso capretti, maiali, agnelli venivano macellati dagli stessi allevatori davanti all’acquirente. 214 215 Il figlio del macellaio vicino a casa nostra era un mio compagno di giochi. Spesso lo accompagnavo al macello da dove tornava con pesanti secchi colmi di vischioso sangue. Gli piaceva. Lo beveva caldo, direttamente dal secchio, inginocchiato, con gusto. Cercava in tutti i modi di persuadermi a berne anch’io. È buono, diceva, pare latte, provalo! Non ce l’ho mai fatta. Ma mi fa più orrore oggi il ricordo della sua bocca sanguinolenta di quanto non mi impressionasse allora la sua proposta. Il sanguinaccio, del resto, che suo padre preparava con quel sangue e vendeva la sera, davanti alla macelleria che dava sulla piazzetta delle Anime Sante, fumante e odoroso su un tavolone, mi piaceva molto e moltissimo ancora mi piace, specialmente sotto forma di squisita morcilla spagnola. Una delle esperienze gastronomiche più straordinarie che ho vissuto risale a non molti anni fa a Mamoiada, in Sardegna, per la festa di Sant’Antonio, con fuochi, Mamuthones e tutto, comprese grandi bevute e grandi mangiate di specialità locali. In un sordido garage, dentro un ex bidone di benzina, fu messo a bollire uno stomaco di pecora intero, pieno di sangue, spezie e vari condimenti e poi accuratamente ricucito. Lunga cottura, a intervalli regolari interrotta per manipolazioni ed esperti schiacciamenti dell’impressionante e fumante recipiente, per evitare che il sangue che conteneva si raggrumasse. Una volta pronto e squarciato quel primitivo contenitore, ne veniva estratto e distribuito in scodelle uno spesso, profumato, saporito, misterioso, indimenticabile budino. Altro che rito arcaico e truculento. Sofisticatissima e raffinata operazione gastronomica, che a parer mio in quella occasione sfiorò, forse raggiunse, le vette dell’arte. È questa cosa qui, la gastronomia: una grande metafora della cultura, forse dell’intera condizione umana. Unica specie animale, gli uomini pretendono di riscattare persino l’assassinio degli animali che mangiano mediante la forma estetica. Nella lotta tra angeli e demoni, che come si sa si sono spartiti il mondo, anch’io come Milan Kundera credevo da bambino che il mondo migliore fosse quello in cui ci sono solo angeli. Un mondo, quindi, tra le altre cose, senza macelli, senza i budini di Mamoiada, e senza risate. Ché le risate sempre presuppongono il demone. Dopo abbiamo capito (o abbiamo, rassegnati, accettato?) che forse il vero, difficilissimo ideale è l’equilibrio tra i due. Se tutto va bene, leggermente, utopicamente, squilibrato a favore dell’angelo. Siamo sicuri che saremmo disposti a pagare il prezzo della rinuncia a Mozart, Piero della Francesca, Dante per non avere più Hitler, Stalin, Nabucodonosor, Tamerlano? Che faremmo a meno delle salsicce con il finocchio, della pasta con le sarde, del sugo di maiale, del mole di pollo messicano, delle risate, per eliminare dal nostro orizzonte i macelli, questi rimossi Buchenwald quotidiani? Siamo sicuri che potremmo farlo, e che facendolo sopravvivremmo? Non intendo come corpi. Intendo come uomini, quella specie ambigua, terribile, non banale alla quale apparteniamo. 218 219 Colombia di frutta e coccodrilli Facevo un giro fotografico in Colombia. Scoprivo un paese martoriato dalla violenza mafiosa e terroristica, ma straordinario per varietà e bellezza. La suggestione dei paesaggi del Rio delle Amazzoni, Leticia de las Tres Fronteras, una cittadina dove convergono le frontiere di tre paesi. Con le sue banchine da dove partono le navi che fanno sognare Fitzcarraldo e che costeggiando il fiume immenso raggiungono luoghi di cui bastano i nomi per farti sentire personaggio di un romanzo d’avventure: Puerto Nariño, Ramón Castilla, Tabatinga. Lungo il fiume un brulichio di marinai, scaricatori, vocianti venditori di spettacolosi pesci colorati, di frutti sconosciuti. Mi feci accompagnare da un barcaiolo in un giro per il fiume solenne e i suoi mille bracci, dove la foresta si specchia così perfettamente da offrire un mondo doppio nel quale gli alberi svettano verso il cielo allo stesso modo in cui sprofondano verso l’abisso. La guida mi portò dentro un’ansa buia dove per un attimo fu possibile indovinare attraverso il velo melmoso dell’acqua, terribile e gigantesca, l’anaconda. Tirò fuori una canna rudimentale e si mise a pescare pirañas, striati e coloratissimi, con denti feroci, aguzzi e spaventosi. Su una fornacella poi preparò un piccolo fuoco e mangiammo pirañas arrostiti. Non sono male, anche se sono pieni di 221 spine e lasciano in bocca un sapore di fiume, denso e limaccioso come il grande Rio. Poi mi portò in un villaggio dove mi disse che avremmo forse potuto incontrare dei cacciatori di frodo di coccodrilli. Li trovammo che ne stavano arrostendo uno a pezzi su un largo letto di braci. Conoscevano il mio accompagnatore, e così fummo invitati a pranzo. Un ragazzo aveva svuotato una zampa e la indossava orgoglioso come un guanto unghiato e inquietante. Mi fecero vedere il cranio, già perfettamente ripulito dalla carne. Non era un animale enorme, ma furono necessari due giovani per aprirgli la bocca e mostrarmi i denti micidiali. La bistecca era eccellente, aveva un sapore che mi è sembrato una via di mezzo tra il pesce e il pollo. Ma la Colombia è molte altre cose. È Bogotá, vivissima e molto pericolosa, non si stancavano di mettermi in guardia, soprattutto la notte e in certi quartieri, dove dopo il tramonto non si avventura nemmeno la polizia. È Cartagena de Indias, dove si ritrova intatto il fascino dei tempi dei Conquistadores. Sono Las Islas del Rosario, molte delle quali microscopiche, che ospitano una sola casa o una capanna, disseminate in un arcipelago che è uno stereotipo tropicale, paradiso di mare blu e spiagge di un bianco accecante. Sono i siti archeologici precolombiani, come San Agustín, immacolati, non ancora paesaggisticamente e culturalmente distrutti dalle orde del turismo di massa. Ci accompagnava Alberto, un autista innamorato del suo paese e appassionatissimo della sua frutta. Lungo le strade, ci fece scoprire, ci sono posadas esclusivamente dedicate alla frutta, dove i viaggiatori si fermano per riposarsi consumando succhi e frullati che mescolano una varietà di frutti dai sapori fiabeschi. Durante quel viaggio, grazie alla competenza e alla passione di Alberto, credo di avere assaggiato per la prima volta almeno una dozzina di frutti che solo da poco cominciano ad 223 Prima salsiccia alla festa della Milicia. Gli azeruoli arrivare, e non tutti, nei nostri più sofisticati negozi europei di Delikatessen. Tra questi, il prelibatissimo, per loro, durien, forse il frutto più caro al mondo. Assomiglia un poco a un ananas e puzza, almeno per il nostro olfatto occidentale, talmente tanto che è persino proibito trasportarlo in aereo se non è avvolto in almeno tre strati di fogli metallici. Era il 31 di dicembre. Guardando la carta avevo scoperto che non eravamo lontanissimi da un villaggio che si chiamava Palermo. Decisi che avrei passato il mio capodanno tropicale a Palermo di Colombia, e ci andammo. Era un villaggio davvero minuscolo. Fu una fine d’anno speciale, con brindisi a base di succo di frutto della passione. Il giorno dopo consumavamo la nostra colazione di latte di cocco e altra frutta sui gradini dell’ostello, dove avevamo trovato da dormire in una grande stanza dal cui soffitto penzolavano varie amache. Si avvicinò un bambino che portava tra le braccia un enorme canestro colmo di chirimoyas. Adesso è facile trovarle anche da noi, le chirimoyas. Ma io le avevo scoperte pochi giorni prima. Sembrano pigne, e avevo imparato che sotto le scaglie in apparenza durissime si nascondevano cremose, profumate dolcezze. Il bambino ce le offriva con un timido sorriso. Quanto costano?, chiesi. Tre pesos, mi rispose. Era comunque un prezzo irrisorio. Tre pesos ciascuna?, chiesi con una faccia teatralmente scandalizzata. Il bambino sbarrò gli occhi stupefatto: No, señor, tres pesos toda la canasta! I frigoriferi hanno cambiato il rapporto con il cibo. Quando ero ragazzo, a Bagheria, conservare la carne, i pesci, la frutta, la ricotta, diventava problematico quando arrivava il caldo. E da giugno in poi il caldo poteva diventare davvero forte, specialmente nei giorni in cui soffiava il vento di scirocco e l’aria sembrava uscire dalla bocca di un forno. Il refrigerio si conquistava a forza di immobilità e di ghiaccio. In paese c’era il venditore di ghiaccio. Era in una stradina che per l’appunto si chiamava vicolo della Neve, in ricordo di tempi, da me non conosciuti salvo che in vecchie fotografie, in cui si vendeva la neve raccolta in inverno sulle Madonie e poi trasportata e conservata sottoterra. Le fabbriche di ghiaccio industriale cambiarono le tecniche di conservazione e i piaceri, soprattutto nel consumo delle bevande. Vicinissimo alla nostra casetta di campagna ce n’era una e le domeniche d’estate, quando eravamo ancora in paese, mi mandavano a comprare un quarto di blocco di ghiaccio. Avvolto in un panno, lo portavo a casa correndo. Si metteva, insieme a poca acqua, in un grande recipiente di zinco dove venivano immerse bottiglie d’acqua, vino, aranciate, angurie. Il tutto ricoperto da una spessa coperta di lana per mantenerne più a lungo la temperatura. Pochi avevano la ghiacciaia: macellai, pescivendoli. 224 225 Quando eravamo in campagna, invece, con la scusa della granita e delle angurie da raffreddare, me ne stavo ore alla fabbrica del ghiaccio a guardare i caricatori che riempivano carretti e camioncini con i blocchi candidi tirati fuori dalla camera ghiaccia. Questo mio piacere fu interrotto da un incidente del quale ho ben vivo e ancora terrorizzato ricordo. Era una di quelle giornate di scirocco terribile, da boccheggiare. Ero lì con la mia canottierina a bearmi delle freschissime folate di refrigerio che uscivano dalla grande ghiacciaia quando, non visto, mi ci infilai dentro. Immediatamente dopo, completato il lavoro, i caricatori chiusero la pesante porta blindata. Mi ritrovai al buio e incapace di aprire da dentro la pesantissima porta. Nessuno sentì le mie grida. Per fortuna pochi minuti dopo ci fu da fare un altro carico, i caricatori aprirono la ghiacciaia e, con raccapriccio, mi ci trovarono dentro tremante e in lacrime. Don Antonino, il proprietario, si mise a bestemmiare e a urlare contro tutti come un ossesso. Le mie scorribande alla fabbrica del ghiaccio finirono per sempre. La difficoltà, in estate, di conservare i cibi costringeva a regole molto precise. Per esempio, da luglio in poi non si vendeva più la ricotta fresca, non si facevano cassate, cannoli e altri dolci con quella crema, non si macellavano più i maiali. Il consumo di certi cibi era dunque stagionale, e diventava rituale. Le cassate e i cannoli ritornavano a settembre e a settembre pure, per la festa della Madonna, si faceva la prima salsiccia di maiale. L’occasione era la festa di Altavilla Milicia, meta di un enorme pellegrinaggio, molto spesso a piedi scalzi, verso il santuario della Madonna nera. Io, quando fui più grandino, accompagnavo mia madre e mia nonna; da piccolissimo andavo con mio nonno, sul carrettino tirato dall’asino Ciccio, con il quale poi tornava tutta la famiglia. Mi piaceva molto quel pellegrinaggio, lo aspettavo con ansia. C’erano tante ban- carelle colorate che vendevano giocattoli di legno, tamburini, girandole. Sempre me ne regalavano uno. Era pure l’occasione per comprare brocche, pentole di terracotta e i meravigliosi bummuli, dove l’acqua si manteneva così fresca e prendeva un sapore speciale. Ma il “viaggio” alla Madonna della Milicia rimane per me legato a due sapori. Mio padre, immancabilmente, comprava un gran cartoccio di azeruoli, frutto che si trovava solo in quella occasione, di sapore dolce e acidulo. Io ne andavo matto, e ancora adesso quando mi capita di trovarne li compro per sentire di nuovo nel palato il sapore infantile di quella festa. Le strade di Altavilla erano invase da lunghi tavoloni, a ogni angolo c’erano enormi griglie dove energicamente si sventolava la carbonella per arrostirvi grandi ruote della prima salsiccia. Tutto il paese era invaso dal fumo profumato, speziato e dolciastro di quella gigantesca grigliata. Ogni festa aveva i suoi sapori. I pupi di zucchero e le ossa dei morti per il 2 novembre. Festa grande per i bambini. I regali, infatti, non era Gesù Bambino o Babbo Natale a portarli. Li portavano i morti. Li scoprivamo con emozione sotto il letto. Piccoli, poveri regali, ma anche dolcetti, mostaccioli, cavalieri e damine di zucchero colorato. Per la festa di San Giuseppe c’erano le bancarelle con il torrone di campagna. Un torrone contadino sostanzialmente fatto di zucchero e mandorle. Il sapore non mi incantava, né la consistenza sabbiosa, ma moltissimo mi piacevano i colori duri e improbabili delle fette di torrone artisticamente disposte nelle bancarelle, sotto grandi immagini del santo, come piccoli Mondrian rivisti da Klee. Poi c’erano i caliari, con i loro spettacolari banchi colorati, impennacchiati e dipinti. In grosse fornacelle facevano la calia tostando i ceci dentro la sabbia. Con lo stesso metodo 226 227 si arrostivano in inverno le castagne nella cenere. Poi c’erano i semi di zucca e di melone tostati e ricoperti di sale – la simenza –, arachidi, mandorle. Lo scacciu era una mescolanza variamente composta di questi elementi, comunque con prevalenza di simenza e calia. Se ne compravano grossi cartocci. Ognuno aveva il suo, oppure ce n’era uno enorme per tutta la famiglia, e tutti vestiti a festa la sera si faceva cento volte lo struscio avanti e indietro per il corso, in mezzo a una folla inestricabile, aspettando l’ora tarda dei fuochi d’artificio. Era un’occasione importante per le ragazze delle famiglie contadine, che raramente uscivano di casa, per mostrarsi ai giovani del paese nella speranza che da brevi ma intense occhiate assassine nascessero amori, o richieste di fidanzamento. Tutti quanti ruminavano la calia e rompevano i semi con un abile colpo di denti per poi sputarne le buccine salate. All’alba, sul corso ce n’era un compatto tappeto. 229 Cucinare Non c’è niente che mi rassereni come cucinare. Per me è quasi come ascoltare musica: mette in moto razionalità ed estetica. Ti stimola a trovare un equilibrio tra la tua identità, la tua tradizione, e l’identità e la tradizione della gente che incontri, e così facendo ti sollecita la creatività. È regola codificata, da rispettare con grande scrupolo artigianale, e nello stesso tempo possibilità di sperimentazione. Da bambino ero sempre tra i piedi quando mia madre cucinava. La sua era una cucina di tradizione. I piatti che preparava non erano numerosissimi, ma li eseguiva con precisione e scrupolo. Li aveva imparati da sua madre, che a sua volta li aveva imparati dalla sua. Ma non era ripetitiva, perché seguiva le stagioni. Specialmente nell’uso delle verdure, era infatti il loro ritorno stagionale a determinare le pietanze che arrivavano in tavola. I piselli, per esempio, le zucchine, non c’erano tutto l’anno, c’erano quando era il loro tempo. Non esistevano i cibi surgelati e mia madre non usava mai cibi in scatola. Il pomodoro c’era soltanto nei mesi estivi e le passate o l’estratto si preparavano per l’inverno nel momento della massima maturazione. Ma i sughi fatti con l’estratto non avevano niente a che fare con le altre preparazioni in cui entrava il pomodoro fresco, e neanche la passata delle bottiglie produceva condimenti identici a quelli che si facevano d’estate. Tutte queste cose le imparavo nella quotidianità. Quello che mi stupiva era che la salsa di pomodoro per la pasta che preparava mia madre, per esempio, per quanto fosse fatta secondo un procedimento che a me sembrava identico, non aveva lo stesso sapore di quella di mia nonna, ancora meno di quella delle mie zie. Ciascuna aveva il suo stile, la sua sfumatura particolare. 231 All’inizio, quando adolescente cominciai a giocare-sperimentare in cucina, la spinta era provare cose diverse, in cui gli ingredienti erano assemblati e trattati in maniera diversa, trasgressiva, rispetto a quella, canonica, con cui mia madre preparava le sue pietanze. Nella maggior parte dei casi, i catastrofici risultati erano frutto di cervellotiche sperimentazioni. Mia madre commentava disgustata che combinavo dei pasticci. Ma anche quando difendevo i miei pasticci, il gusto mi faceva capire che ogni sovvertimento dei canoni e delle regole deve avere come scopo la costruzione di nuovi canoni e nuove regole, non basta sovvertirli. Al tempo stesso, scoprivo che le regole rimanevano astratte se prive di sapienza interpretativa. Ogni volta che ho cercato di farmi trasferire da mia madre la ricetta esatta per preparare una pietanza mi sono reso conto di quanto l’impresa fosse difficile, se non impossibile. Quanto aglio, quanta cipolla? Quella che occorre, è di solito la risposta di mia madre. Quanto a lungo bisogna friggere una fetta di melanzana? Finché vedi che è pronta. Già. Ma poi dipende dall’aglio: fresco o conservato?, e la melanzana, fritta dopo averla messa a bagno in acqua e sale? Di stagione, o prodotta in serra? E il basilico? Dipende dal profumo, dal tipo, da quando è stato colto. Il finocchietto, è stato raccolto fresco in collina la mattina? Mio padre sosteneva che le minestre cambiavano completamente sapore se le verdure erano state colte la mattina stessa o il giorno prima. Renato Guttuso mi aveva raccontato che suo padre era contrarissimo a cuocere la pasta con la fiamma del gas, sosteneva che il sapore cambiava radicalmente se la si cuoceva nella fornacella a fuoco di legna, e se cercavano di coglierlo in castagna non sbagliava mai. Fanatismi? Forse. Non ho mai sacrificato a certi fondamentalismi. Ma ne rispetto il senso culturale. E ho capito che è molto più difficile ottenere una pasta con le sarde rigorosamente eseguita, che È stato così che il fascino del cucinare ha cominciato a sedurmi. Un po’ più o un po’ meno di olio per il soffritto, tenuto un po’ più a lungo nella padella prima di mettervi i pomodori, l’aggiunta di un poco di aglio, di basilico a foglia piccola o a foglia larga, le arbitrarie quantità e i vaghi tempi di cottura erano altrettante varianti che si aggiungevano alle differenze sottili ma concrete delle materie prime. La regola era ferrea, eppure l’individualità artigiana con la quale veniva interpretata, producendo risultati magari leggermente diversi ma comunque diversi, spalancava le porte a ogni possibile invenzione. Assomigliava, questa scoperta, all’altra, stupefacente, del linguaggio. Anche nel linguaggio c’era accumulo di variatissimi ingredienti, le parole, e di regole esatte e complesse con cui usarli. Con il paradosso che il sistema delle regole non limitava la libertà d’uso. Anzi, la moltiplicava. (Ricordo lo stupore della mia figlia maggiore quando scoprì che la parola cane e la parola pane, pur così simili, designavano cose tanto diverse. Il cane poteva mangiare il pane, ma non viceversa. Si poteva però immaginare una favola in cui, in un mondo diverso, quello della fantasia, questo diventava possibile.) Andavo insomma scoprendo che la cucina, come il linguaggio, era frutto di una storia lunga e variegata, della geografia, della natura, degli scambi, delle infinite sperimentazioni che avevano portato a quelle regole, a quei canoni. E che nel linguaggio, come nel cucinare e nel mangiare, ogni invenzione, ogni fantasia, era consentita, a condizione di conoscere quei canoni e quelle regole, pena la gratuità di ogni trasgressione, la babele di ogni possibilità di comunicare, l’incapacità di riconoscere e rispettare le regole degli altri, le loro idee e i loro gusti, come il fatto che mangiassero cose a te sconosciute, cucinate in maniere diversissime e magari ripugnanti per il codice culturale nel quale eri cresciuto. 232 233 tenti di essere all’altezza dei miei ricordi e dei miei canoni di gusto, che compiacersi di una sperimentazione cervellotica, anche se magari qualche volta riuscita, che non ha bisogno di corrispondere, nel gusto tuo e degli altri, a regole stabilite nel tempo e condivise. Mi servo spesso, nel tentare di definire e comunicare le regole cui mi riferisco per il mio lavoro di fotografo, di paragoni culinari. Una fotografia, un reportage, un libro, un racconto devono essere cucinati come si deve. La lingua dev’essere sempre rispettata. Non certo per ripetere all’infinito il già fatto e il già detto, ma per cercare di dare senso e consapevolezza culturale alle necessarie sperimentazioni. Cucinare è pratica eminentemente umana, profondamente culturale. Cucinare è vivere, è pensare, è intuire. Cucinare mi ha fatto capire la metafora utilizzata da Federico De Roberto nell’Imperio, a proposito della difficoltà della politica, quando considera che anche in politica, come in cucina, per ottenere una pietanza degna bisogna spesso sporcarsi le mani. In cucina ho riflettuto sulla nostra forse inevitabile natura di feroci predatori. Vázquez Montalbán ha scritto che gli uomini sono i soli animali che hanno trasformato l’assassinio in una delle belle arti. In cucina si medita incessantemente sulla bellezza della natura, sulla varietà dei sapori, dei colori, dei cibi e degli ingredienti che usiamo e sulla possibilità, e la difficoltà, che sono poi il fondamento di ogni gesto culturale, di trasformare tanti elementi in qualcosa di nuovo e diverso. Di costruire altri specchi della nostra verità umana. 234 Finito di stampare nel mese di aprile 2013, presso EBS, Verona.