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Ti mangio con gli occhi

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Ti mangio con gli occhi
Ti mangio con gli occhi
Ebbe un sogno curioso. Sognò di essere seduto al tavolo di un caffè.
Sei piatti erano davanti a lui, e lui mangiava come un affamato. Le pietanze – come ogni cibo nei sogni – non avevano molto sapore, ma egli
aveva la sensazione che quando le avesse terminate avrebbe avuto il
piatto migliore.
Graham Greene, Il potere e la gloria
Socrate nel Convivio di Platone mi ha fatto capire che, abbandonato a se
stesso, l’uomo è triste, ma quando arriva il cibo la sua anima riaffiora, e
il cibo fa lo stomaco pesante.
Valentino Zeichen, intervista “La Stampa”
© 2013 Contrasto srl
via degli Scialoja, 3
00193 Roma
www.contrastobooks.com
© 2013 Ferdinando Scianna
per le singole fotografie pubblicate nel volume.
Tutti i diritti riservati.
Editing: Giovanna Salvia
Impaginazione: Tania Russo
Controllo qualità: Barbara Barattolo
isbn: 978-88-6965-447-3
Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questa pubblicazione
può essere riprodotta, interamente o in parte, memorizzata o
inserita in un sistema di ricerca delle informazioni o trasmessa
in qualsiasi forma e con qualsiasi mezzo (elettronico o meccanico,
in fotocopia o altro), senza il previo consenso scritto dall’editore.
Indice
Questo libro ...........................................................................................................11
Il mito dell’Aurora ................................................................................................13
A prova e a taglio .................................................................................................21
Il limone dolce del ramo torto ......................................................................... 25
La mafalda con le panelle ...................................................................................29
Lo sfincione ...........................................................................................................33
Pane .........................................................................................................................37
L’astratto .................................................................................................................43
Il polpo di Ciccio Mosca ....................................................................................47
Il passato immobile .............................................................................................51
La distruzione delle arance ................................................................................59
Il capretto di Kami ..............................................................................................65
Il latte di zu Bastiano ..........................................................................................67
Il limite del rospo .................................................................................................69
Un pugno di riso ..................................................................................................73
Mosche ................................................................................................................... 77
Le granite di Acireale ..........................................................................................79
Il decottaio .............................................................................................................81
Il sapore della buonanima ..................................................................................83
Il fidanzamento ad Arcanghelos ......................................................................89
Il cuscus di Marsala .............................................................................................91
I pesci dal volto umano ......................................................................................95
Gli asparagi selvatici di Sciascia ........................................................................99
I ragazzini con i vassoi ......................................................................................101
La lepre in salmì di Roberto Leydi ............................................................... 103
La panela ............................................................................................................... 107
I dolci siciliani .....................................................................................................111
Bomboloni, caramelle attìa, focaccelle, iris fritte ........................................113
Jerom Ferrante ....................................................................................................117
Il cibo condiviso con gli animali ................................................................... 125
Bocuse .................................................................................................................. 129
Tre mazzi ............................................................................................................. 133
L’anatra di Parigi, il pane dello Yemen, il pesce sul giornale................... 135
I gelsi neri ............................................................................................................ 139
Il cibo votivo .......................................................................................................141
I sapori mai provati ............................................................................................149
Il rito dei tagliarini .............................................................................................153
La granita di gelsomino ....................................................................................159
La geografia della spesa ....................................................................................163
Sale .........................................................................................................................169
Ragnatele di fame ...............................................................................................177
El molino de chocolate .............................................................................................183
Mangiare, parlare ...............................................................................................185
Sugo finto, uomo finto .....................................................................................189
Ferran Adrià ........................................................................................................191
La pasta di donna Provvidenza ......................................................................195
Le sarde, il limone, il fico d’India ................................................................. 197
Vino, ricotta, cannoli ........................................................................................203
Castrato con le zucchine al matrimonio di Tinherir ................................207
Cibi di strada .......................................................................................................211
Uccidere, mangiare ........................................................................................... 213
Colombia di frutta e coccodrilli ....................................................................221
Prima salsiccia alla festa della Milicia. Gli azeruoli ..................................225
Cucinare ............................................................................................................... 231
Questo libro
Questo libro me lo porto dietro da molti anni. All’inizio non
era nemmeno un progetto di libro. Faceva parte di quel gioco
di specchi con la memoria che, da quando la scrittura è diventata per me più importante, sempre più si è andato dialetticamente affiancando alla mia attività di fotografo e ai lavori
che costruisco con le molte immagini messe insieme in mezzo
secolo di mestiere. Forse è stata anche colpa dei piedi, che da
un po’ di tempo non sono più molto disponibili a quella pratica
peripatetica in cui consisteva il mio mestiere di fotografo. Ma
in realtà, la mia radicata concezione narrativa della fotografia
mi ha portato quasi naturalmente ad affiancare alle immagini
dei testi scritti.
Questi testi sul mangiare li ha fatti scattare la stessa molla.
Frammenti, che andavo scrivendo a mano a mano che si imponevano alla mente. Quasi sempre, ma non sempre, partivano da
fotografie. A poco a poco si sono accumulati, e così è nata l’idea
di farne un libro. Mi sono reso conto che il mio scrivere finisce
sempre col prendere un tono autobiografico. Forse non so fare
altro. Ma chi mi conosce sa che mangiare, cucinare, la curiosità
per i cibi – arricchita, oltre che dai ricordi, dai molti viaggi –
sono davvero pratiche e riflessioni centrali nella mia vita.
Poi ho abbandonato l’idea. Ero spaventato dall’alluvione di
libri di cucina e sulla cucina che hanno invaso e continuano a
invadere le librerie. Ma l’idea non ha abbandonato me. In definitiva, mi sono detto, questo non è un libro sulla cucina, e
ancora meno un libro di cucina. Non ci sono ricette. E magari è
uno dei suoi più gravi difetti. È un libro sul mangiare e sul ruolo fondamentale che il cibo ha avuto e ha nella mia memoria e
nelle mie esperienze di vita. Come, credo, nella vita di tutti noi.
11
Il mito dell’Aurora
Dove si fa il miglior caffè
del mondo?
In Italia.
E in Italia dove si fa il migliore?
In Sicilia.
E in Sicilia? A Bagheria.
E il miglior caffè di Bagheria?
Al bar Aurora.
Renato Guttuso dixit
Il bar Aurora era strategicamente situato all’inizio di corso
Umberto, la strada principale del paese, quella che dalla piazza Madrice arrivava a Villa Palagonia. Oggi la strada continua,
fiancheggiata da mostri edilizi. Ma prima il paese finiva lì, a
Villa Palagonia; dopo cominciava la campagna. Di bar non ce
n’erano molti in paese. Ma l’Aurora non era solo un bar, era il
bar per eccellenza, era il luogo dove ci si dava appuntamento:
Ci vediamo all’Aurora. Da lì cominciavano le vasche avanti e
indietro per corso Umberto.
Era la migliore pasticceria, la migliore gelateria. Non parliamo poi del caffè. Per un baarioto, il caffè dell’Aurora era la
pietra di paragone assoluta e insuperata. Uno poteva andare
in viaggio per pochi giorni o emigrare per decenni. La prima cosa che faceva tornando era precipitarsi all’Aurora per
prendere un caffè, il caffè. Così faceva Renato Guttuso, per
esempio, e i camerieri, non appena si spargeva la voce che
era di passaggio a Bagheria, preparavano matita e fogli per
metterglieli subito davanti e sfruttare il momento di beatitudine dopo che aveva sorbito il caffè. E lui non rifiutava mai
13
bombe, ma anche in coni da passeggio o morbidissime brioche, da una finestra che dava sul corso. Da lì, gruppi di amici
o famiglie intere schierate in formazione d’assalto facevano
avanti e indietro per il corso leccando il gelato. Le granite invece erano di due soli gusti, limone e caffè.
Il limone freschissimo e profumato, colto
la mattina stessa nei giardini del paese, e il
caffè dal gusto intenso, mai annacquato,
proveniente direttamente dalla macchina,
coronato da un generoso ricciolo di panna
montata. La domenica, per non dire nelle
feste comandate, il bar pasticceria gelateria Aurora brulicava di gente più che la Madrice alla messa di mezzogiorno.
E dopo la messa si passava a ritirare le monumentali guantiere
di dolci ordinati già dal giorno prima, o ad assistere alla riempitura espressa dei cannoli, che non tollerano attesa, pena la
perdita, sia pure infinitesimale, di fragranza della scorza fritta
per troppo lunga contiguità con l’umida crema.
Ma poi accadde l’inconcepibile: l’Aurora chiuse.
Nuova concorrenza, malattie, cattiva gestione. Non si seppe mai. La notizia fu ricevuta come una catastrofe storica.
E lo era. Per quanti arrivavano in paese e scoprivano che il
bar non esisteva più, era come se nella prospettiva della piazza fosse crollato il campanile. E per l’intera popolazione dei
baarioti fu anche peggio, fu vissuto come un lutto familiare.
Ci furono da parte degli eredi tentativi di effimere resurrezioni. Niente da fare: era finita. Da quel momento nacque
e continuò a crescere la leggenda, il mito dell’Aurora. Alcuni dei baristi e dei lavoranti si misero in proprio. Qualcuno
giurava che in quei nuovi bar si poteva ritrovare il paradiso
perduto. Si andava a provare, ma le verifiche finivano sempre
in amare delusioni. Sì, forse ogni tanto il caffè non è male,
sì, forse quel pasticcino, ma la cassata, ma i cannoli… In un
di eseguire l’ennesimo schizzo di tazzina fumante. Dietro la
cassa, la parete era decorata con un frammento del suo grande
quadro Boogie-Woogie.
I baristi addetti alla macchina erano sacerdoti officianti,
conoscevano i gusti di ciascun cliente e per ciascuno si può
dire che facessero un caffè su misura. Le tazzine erano sempre bollenti ed era imperativo far precedere e seguire la sorsata, non più di una quintessenziale sorsata, da un goccio di acqua fredda. C’erano appassionati del caffè ristretto superforte
ai quali veniva servita una crema profumata così densa che il
cucchiaino ci stava dentro ritto in piedi.
Alcuni clienti prendevano il caffè solo se alla macchina
c’era quel barista. Gli altri, erano disposti a giurare, non avevano la mano giusta. Il circolo Ordine e Libertà, detto dei civili,
era situato di fronte al bar. Il viavai dei camerieri attraverso
corso Umberto, dal bar al circolo e ritorno, era ininterrotto.
Al circolo c’erano raffinatissimi esperti di caffè. Pretendevano di riconoscere la mano del barista che aveva preparato la
divina bevanda. Attribuzionisti della tazzina che non avevano
niente da invidiare ai maggiori esperti d’arte internazionali,
capaci di risalire da un minimo dettaglio stilistico all’identità
dell’autore di qualsiasi dipinto, come rabdomanti in grado di
sentire infallibilmente i segnali invisibili che rivelano la presenza sotterranea di una preziosa vena d’acqua. Uno in particolare ce n’era, che accettava scommesse con poste altissime
sulla sua capacità di riconoscere l’autore di ogni tazzina di
caffè che arrivava dal bar Aurora. E non sbagliava mai.
La pasticceria era inarrivabile. Le cassate, i cannoli, le sfince
di San Giuseppe, le torte, i pasticcini ripieni – gli eterei choux
– di nocciola, caffè, cioccolato, crema e panna, i friabilissimi
taralli, i biscotti di San Martino, i bocconcini di pinoli e quelli
di pistacchio. Di gelato c’erano solo cinque gusti: crema, caffè,
cioccolato, fragola e nocciola. Veniva servito sotto forma di
14
15
certo senso, come è di ogni leggenda, la delusione dopo ogni
possibile confronto era anche una specie di soddisfazione: la
soddisfazione di essere stati testimoni di qualcosa di imparagonabile, di una irripetibile stagione. Magari, anni dopo,
un vecchio lavorante si rimetteva a fare le cassate. Qualcuno
giurava di averci ritrovato l’antico sapore dell’Aurora. Mezzo paese si precipitava a fare ordinazioni, la diaspora veniva
informata del probabile miracolo, le spedizioni viaggiavano
per ogni parte del mondo dove vi fossero ancora baarioti testimoni oculari, olfattivi e gustativi della leggenda. Ma erano
sempre fuochi di paglia.
Si potrà passare la vita a cercare di ritrovare la perfezione
da idea platonica della crostatina di fragoline di Ribera che in
maggio, per la delizia del palato e dello spirito, usciva da quella magica pasticceria. Altri hanno tentato di rifarla. Ma dove
sono l’impalpabile sottigliezza e leggerezza della pasta frolla,
la perfetta densità della crema di burro aromatizzato in cui
erano immerse le fragranti, profumatissime fragoline, il velo
esatto e croccante di glassa che le sigillava?
L’Aurora, ormai, non esiste più da una trentina d’anni.
Giuseppe Tornatore per il suo film Baarìa, saga di una famiglia e di un paese, ha fatto costruire alla periferia di Tunisi un’allucinante riproduzione di Bagheria com’era. Quando
sono andato a visitare questa sorprendente scenografia, tra
le molte ondate di emozioni da rigurgiti di memoria la più
grande è stata sicuramente il ritrovare, falso ma tale e quale,
e proprio perché falso più vero del vero, il bar Aurora, con la
sua insegna, le sue sedie sul marciapiede di corso Umberto.
Mi sono seduto e ho chiesto a mia figlia
di farmi una fotografia, in un assurdo, disperato,
eppure in quell’istante quasi riuscito, tentativo
di annullare il tempo.
16
A prova e a taglio
Strada per strada,
il paese continuamente
risuonava
delle grida dei venditori ambulanti.
Vendevano di tutto:
dagli aghi per le macchine per cucire
al lucido per le scarpe,
dai coltelli alla biancheria da corredo,
alle pentole.
Di alluminio o di terracotta.
C’erano anche quelli che le aggiustavano le pentole, come
affilavano i coltelli. Ma soprattutto vendevano cibo. Pescivendoli, fruttivendoli, verdurai, formaggiai, gelatai. Venivano dai paesi vicini a vendere la loro mercanzia e le loro grida
scandivano l’alternarsi delle stagioni ribadendo il mito della
qualità speciale che quei frutti, quei pesci avevano solo se
provenivano da certi luoghi, rinomatissimi per la particolare dolcezza e freschezza dei loro prodotti. Ho cominciato a
imparare i nomi dei paesi siciliani associandoli alla speciale
geografia di frutti o di formaggi.
Ru Parcu ’i ficu! U Parcu era il paese di Altofonte e i fichi di
Altofonte erano per fede comune di incomparabile dolcezza.
E fin qui. Ma il pescivendolo giurava che era ruci com’u zuccaru
’a sarduzza ’i l’Aspira! E nessuno era disposto ad ammettere
che le sardine di Aspra, la frazione di pescatori di Bagheria,
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potessero compararsi con quelle pescate dalle barche di Porticello, che pure dista appena tre chilometri e le cui barche
magari pescano nelle stesse acque. Niente da fare: le sardine di Aspra erano le migliori, dolci come lo zucchero. Così
come i meloni gialli di Ficuzza o le fragoline di Ribera, anche
a mio parere inarrivabili. Le angurie si vendevano a prova e
a taglio, ovvero si potevano assaggiare prima di comprarle.
E poi c’erano le cicorie, i cavuliceddi, le sinape e tutte le verdure
di collina, che, raccolte all’alba, arrivavano freschissime. Non
parliamo poi dei gelsi neri: A st’ura t’arrifriscano! Oltre che
buonissimi anche miracolosi se consumati di prima mattina,
a digiuno, per il loro potere rinfrescante. O i carciofini selvatici, bizzarramente chiamati domestiche, di indimenticabile
bontà. Questi, come certe verdure, venivano venduti anche
cotti, dentro pentoloni fumanti. Le grida avevano cadenze di
canto, spesso di nenie arabe. Ricordo la mia sorpresa quando,
attratto in mezzo alle stradine della casbah di Tunisi da un
grido identico a quello sentito da bambino per le strade del
mio paese, scoprii che la mercanzia in vendita era la stessa.
Ogni prodotto veniva offerto con un grido speciale e ogni
grido aveva la sua speciale musica. Le banniate si incrociavano
e si sovrapponevano componendo la sinfonia di promesse
dei migliori prodotti della terra. L’acquolina in bocca arrivava attraverso le orecchie. Le donne si affacciavano ai balconi,
calavano il paniere e compravano; oppure, specialmente nel
caso dei pesci, andavano all’uscio per verificare la freschezza
e dare inizio a lunghe contrattazioni.
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Il limone dolce del ramo torto
A Bagheria,
paese che dei limoni viveva,
noi bambini eravamo abituati
a mangiarli a morsi i limoni,
a succhiarli in grandi
quantità, magari strizzando
un poco gli occhi
per i più aspri.
Spesso li mangiavamo anche senza sbucciarli, godendoci il
piccante gusto alcolico della buccia verde. Ma se li sbucciavamo, allora bisognava farlo con grande cura. Si cominciava
dall’alto a togliere lo strato sottile, girando il limone a poco
a poco in modo che il coltello non rompesse il ricciolo che si
andava formando. Se questo perfetto sbucciamento riusciva,
sorgeva un allegro grido collettivo: Evviva! È morto un prete!
A ogni perfetto sbucciamento, un prete morto. Tutti quanti,
che io ricordi, grandi e piccini, si applicavano – e si applicano
– con grande serietà a questo sbucciamento metaforicamente
e magicamente preticida. E che rammarico se a mezza strada,
per eccessiva fragilità o imperizia, la buccia si rompeva. I più
buoni da mangiare, con il loro sapore morbido e profumato,
erano i bastardoni, i frutti nati dalla forzatura, che si consumavano anche a fette, magari accompagnati da un pizzico di sale.
Tra luglio e agosto, quando il caldo è cocente e spesso imperversa lo scirocco africano che piega le gambe a tutti, uomini, piante, animali, il limoneto si lascia senz’acqua, a patire, e
soffrono visibilmente le povere piante. Le foglie cominciano
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Noi cercavamo invano di scoprirlo, il favoloso ramo torto, tra quelli che ci sembravano avere forme più singolari e
inconsuete. Raccoglievamo i limoni cresciuti su quel ramo,
ma quelli dolci non li trovavamo mai. Qualche volta, raramente, mio padre ne portava a casa qualcuno e lo aprivamo, annusavamo e succhiavamo davvero come un regalo giunto
da un mondo sconosciuto, più dolce, più
benevolo. Una volta ne portò quattro e li
trovai nel mezzo della tavola come una
promessa di delizia alla fine del pasto.
Uno, soprattutto, era bellissimo, grosso e turgido come non
ne avevo mai visti. Non potevo staccare lo sguardo. Mangiai
velocissimo e alla fine agguantai quel meraviglioso limone
prima degli altri.
Ce ne toccava uno a testa. Lo tagliai e lo portai alla bocca.
Ma non era dolce, anzi, per lo sconcerto mi sembrò più aspro
di quelli asperrimi cui pure ero abituato. Alzai gli occhi delusi verso mio padre, che mi guardava sornione. Hai visto, mi
disse, cosa ti è successo a prendere il più grosso senza pensare
agli altri?
Fu la mia prima e non dimenticata lezione sull’egoismo e
l’avidità.
ad accartocciarsi, a perdere colore, come se mandassero invocazioni di soccorso. Questo patimento lo si prolunga sotto trepidante sorveglianza fino al limite del rischio per la loro stessa
sopravvivenza. Poi, nel giro di un paio di settimane, il giardino
– così con arabo splendore si chiamano le piantagioni di agrumi – viene inondato d’acqua, due, tre volte, con abbondanza e
generosità. L’acqua in quei giorni fatidici si prende quando te la
danno, a qualunque ora, di giorno o di notte. Ricordo notti di
abbeverate alla luce di lumi a petrolio, interminabili e faticose,
anche se nel ricordo sono diventate romantiche.
Non avere l’acqua al momento giusto può compromettere
un giardino. Controllare l’acqua in una zona di endemica scarsezza conferisce un grande potere. I mafiosi la controllavano.
Le piante di limoni impazziscono per questo agognato
balsamo d’acqua, cedono all’inganno di una falsa primavera.
Sembrano resuscitare, letteralmente rifioriscono. La campagna olezza di un profumo di zagare denso, quasi morboso nel
caldo compatto di agosto. È la forzatura, che inventa una seconda produzione, quella dei verdelli – i bastardoni, appunto.
Un ramo di una pianta grande del limoneto, mio padre
l’aveva innestato a lumie. Dava limoni indistinguibili dagli
altri per forma e colore ma dal sapore dolcissimo, un poco
sfuggente, vagamente orientale, misterioso e quasi stucchevole per chi come noi bambini era abituato a quello aspro di cui
pure eravamo ghiottissimi.
Zu Rosario, il contadino, ce ne parlava ammantandone la
natura e l’origine di un alone di favola. In qualche pianta di limoni, ci diceva, c’è un ramo torto, ma torto in un certo modo
tutto suo, difficilissimo da riconoscere. Di tanto in tanto su
questo ramo torto nascono questi limoni dolcissimi, che sono
come un regalo della pianta, un messaggio.
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27
La mafalda con le panelle
Sul vocabolario
la parola mafalda non c’è,
e nemmeno panella.
Entrambe però
sono parte ineludibile
della mia infanzia
e della mia adolescenza
siciliane.
Forse sono addirittura parte della mia struttura biologica.
Come un’intera generazione, sono venuto su a pane e panelle.
Ogni santo giorno della mia giovane vita finché sono vissuto
a Bagheria. Il pane da farcire con le panelle era la mafalda.
La mafalda è un pane che si fa con un serpentone di pasta
che si ripiega su se stesso quattro volte e poi si “chiude” con
la parte finale disposta per lungo. Prima di infornarlo si inumidisce e lo si cosparge di semi di sesamo, la giuggiulena. È un
pane bianco, morbido, ideale per accompagnare le panelle calde. Specialmente se pure lei, la mafalda, è bella fresca, calda
meglio ancora. Panelle, la sola parola mi fa venire l’acquolina.
Nel Giorno della civetta di Leonardo Sciascia c’è un panellaro – un venditore di panelle – testimone del delitto che apre
il romanzo. Ricordo che un traduttore francese se l’era cavata
con “cotolette di polenta di ceci”. Magari la definizione è corretta, ma io non ce le avevo riconosciute le panelle. In effetti
sono una specie di farinata ligure fritta. In certi posti, dalle
parti di Chiavari credo, la friggono pure loro la farinata, a
listarelle.
29
Al paese c’era almeno un panellaro per quartiere. Nel mio
quartiere, Anime Sante, il migliore era Ciccio. Il cognome
non l’ho mai saputo. Era Ciccio il panellaro, e basta.
Nello stanzone a pianterreno, casa e bottega, una tenda
separava l’alcova dalla panelleria. Proprio al centro, la moglie
rimestava con un bastone nel paiolo dove si andava addensando la polenta. La polenta della farina di ceci dev’essere
spessa, ma non dura. Verso la fine della cottura si butta dentro
una manciata di semi di finocchio. A qualcuno l’aggiunta del
finocchio non piace, a me sì. Pronta la polenta, velocissimamente, con una spatola, se ne spalma uno strato su apposite
tavolette rettangolari, di legno – su alcune sono incisi fregi,
lettere, simboli –, dove si lascia a raffreddare. Quello che resta
nel paiolo, un po’ incrostato sul fondo, lo si aggruma in bitorzolute polpette che poi si friggono e danno le rascature, croccanti e grondanti d’olio, delizia sopraffina. Soltanto in Egitto,
in certe friggitorie di Giza, vicino alle piramidi, o nelle casbah
di San’a’ ho gustato, e nella stessa identica atmosfera, meraviglie comparabili.
Una volta raffreddate, le panelle si staccano e si friggono in
un padellone pieno di olio bollente. Al padellone c’era quasi
sempre Ciccio, sornione e scherzoso. La moglie, con dita di
amianto, farciva le mafalde di panelle roventi e incassava i
soldi: mezza mafalda con tre panelle trenta lire, una intera
con cinque panelle cinquanta lire. Pane e polenta fritta, una
mafalda ti inzeppava lo stomaco per un giorno intero. Per
molti poveri, in effetti, poteva essere l’unico pasto della giornata. Dal panellaro, specie la mattina, c’era sempre la coda,
soprattutto di ragazzini che poi la mafalda se la mangiavano correndo sulla via della scuola o del lavoro con la bocca
fumante e spalancata per non bruciarsi la lingua. Appena la
ressa si disperdeva, Ciccio si metteva a tracolla con uno spago
un tegamone d’alluminio pieno di panelle calde e andava a
31
Lo sfincione
vendersele per il quartiere. Cavuri, cavuri, c’a carni su’!, gridava.
E la sarcastica aggiunta “con la carne” alludeva alle mosche
di cui era pieno il paese e che circondavano in permanenza
lui e il tegame come una nuvola di santità. Le panelle dovrei
venderle più care, diceva: la carne costa più cara, le mosche
non sono carne? Le donne sentivano il grido e lo chiamavano. Nella panelleria l’odore era inconfondibile, il fumo denso,
l’olio nero, i muri unti. Ciccio giurava ridendo che, panellari
di padre in figlio, nella sua famiglia l’olio del padellone non si
cambiava dai tempi del nonno. L’olio si aggiunge, non si cambia mai, sentenziava, se no le panelle perdono sapore. Sembra
una pratica truculenta e oggi, del resto, le friggitorie – anche
quelle palermitane del fantastico pane con la milza – incappano negli strali delle normative della Comunità europea, che
viene a ficcare il naso anche dentro la padella dei panellari.
E però, fatte in casa, fritte in igieniche padelle e in extravergini oli d’oliva, le panelle non hanno e mai avranno quell’inimitabile sapore.
Nessuna famiglia
poteva rinunciare allo
sfincione
per la festa della Madonna
e per Natale.
È una specialità che si trova in tutta la provincia di Palermo,
ma in ogni paese si prepara in maniera diversa. Naturalmente,
ciascuno considera la propria ricetta di gran lunga superiore,
non paragonabile alle altre. A Palermo, per esempio, si fa col
pomodoro: una specie di pizza. Al mio paese, di pomodoro
nemmeno l’ombra.
Ma in effetti lo sfincione è una specie di pizza, o grossa
torta di cipolle, se si vuole. Pasta di pane molto lievitata, si
spiana alta e poi la si inzeppa con pezzi di formaggio pecorino
fresco, il primosale. Prima però si è preparata la copertura.
Una quantità di cipolle tagliate lunghe e soffritte in abbondante olio d’oliva. Moltissima mollica di pane di frumento rimacinato, grattugiata fresca, anche questa soavemente soffritta
in molto olio dove si sono fatte sciogliere sarde salate. Sulla
pasta si distribuiscono prima le cipolle e sopra, a proteggerle,
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33
il pane soffritto; infine si inforna. In un grande forno a legna,
beninteso.
Piatto povero, certo, poverissimo. Che è anzi una sintesi
di quello che era il mangiare quotidiano dei contadini: pane e
formaggio, pane e cipolle, pane e sarde salate, pane con l’olio,
pane con pane. Ciò che lo trasforma in piatto ricco, in prelibatezza da festa, è l’abbondanza dell’olio.
L’olio, per le famiglie povere ma anche per i piccoli coltivatori che non possedevano qualche ulivo, era un lusso. Durante l’anno lo si centellinava. Nel fare lo sfincione, invece, con
l’olio si esagerava. Una povera donna che viveva di pulizie e
lavature di panni nelle case del suo quartiere – la signorina, la
chiamavano con rispettoso eufemismo per non sottolineare
il fatto che era rimasta zitella – mi ripeteva spesso che lei durante l’anno metteva ogni giorno in una bottiglia speciale un
poco dell’olio che a Natale le sarebbe servito per lo sfincione.
L’olio per lo sfincione non doveva mancare, se no ti sentivi
proprio un paria.
Lo sfincione natalizio è ancora un piatto molto diffuso
dalle mie parti; adesso viene preparato da panetterie e rosticcerie fuori da ogni rituale ricorrenza, praticamente tutto l’anno. Ma io me lo ricordo come una vera febbre che nel mese di
dicembre investiva il paese intero.
L’impasto moltissimi se lo facevano in casa; quelli che in
casa di solito si facevano anche il pane, magari con la farina
del proprio frumento. Ma molti lo facevano preparare dal fornaio. Per le cuonze, però, ovvero il condimento, ogni famiglia
aveva il suo segreto. C’era chi sotto le cipolle metteva ricotta
fresca, chi salsiccia sminuzzata, chi alla fine grattugiava pecorino pepato delle Madonie, chi alle cipolle aggiungeva aglio,
da altri aborrito. Autentiche eresie per chiunque ritenesse di
essere il solo depositario dell’autentica ricetta tradizionale.
Insomma, si sa, in fatto di sfincione, e non solo, ogni testa
è un tribunale. Solo pochissimi affidavano le cuonze al fornaio perché condisse lui. Nessuno si fidava. Tutti raccontavano
indignati di quella volta che, per essersi fidati, si erano poi
ritrovati con sfincioni scarsi d’olio e di condimenti, dei quali
si era appropriato qualche garzone di mano lesta.
Le donne, i propri condimenti li portavano in capienti tegami al forno e lì, aspettando per ore il turno per l’infornata,
preparavano personalmente il loro sfincione, marcandolo con
un segno particolare: un po’ di origano, un giro di olive, a
volte un’iniziale scavata nella mollica – insomma, qualcosa
che scongiurasse la paventatissima eventualità che all’uscita
del forno il loro sfincione fosse scambiato, magari con proditoria premeditazione, con quello di altri. Ancora rovente, sulla dorata pietanza si colava un giro d’olio crudo. Quest’ultima
benedizione da molti era considerata imprescindibile. Un mio
zio diceva che quel nonnulla d’olio crudo allo sfincione gli tira
fuori l’anima. Olio, olio e ancora olio.
Appena sfornate, le sospirate delizie venivano impilate in
ceste foderate da coperte di lana per tenerle in caldo, oppure messe in fila su tavoloni. Abilissimi ragazzi le portavano
poi correndo nelle case dei clienti. Il paese intero olezzava di
cipolle fritte, di sarde salate, di pane fresco. Le famiglie, lo
sfincione lo pregustavano da giorni.
Lo sfincione si mangia a gigantesche fettone, ancora caldo ma non troppo. Abbastanza perché affondando i denti nel
pane lievitato, che dev’essere sofficissimo, si senta il morbido
formaggio fresco fondersi con le cipolle e le sarde salate, inondandosi beati bocca, mento e naso di olio fritto e forti profumi.
Ci sono poi i fanatici dello sfincione mangiato la mattina
dopo, freddo e un poco irrigidito. Magari con il caffelatte.
Autentici fondamentalisti. Di tempra forte, anche. Perché, se
non si possiede uno stomaco gagliardo, lo sfincione di Natale
è facile che lo si digerisca a Pasqua.
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Pane
Colpevolizzato,
criminalizzato,
il pane
va scomparendo,
mi sembra,
dalle nostre
ricche tavole
ipercaloriche.
Di certo, il pane ha perduto centralità nelle abitudini alimentari dei paesi ricchi, anche di quelli nei quali, davvero non tanto tempo fa, era essenziale. Lo dimostra il fatto che il pane,
persino nelle panetterie di paese, è diventato un oggetto di
consumo ludico, con una molteplicità di forme, consistenze,
grani e sapori che dovrebbe invogliare all’acquisto. E non soltanto dalle diete mi sembra che vada scomparendo, ma anche
dalla lingua e dal nostro immaginario culturale, dai proverbi
e dai modi di dire.
Tutto quello che non era pane era companatico, ciò che
accompagna il pane. Questa certezza cominciava a vacillare
già quando ero bambino se il mio ricordo dei pranzi familiari
non è separabile da continui, ossessivi richiami, che diventavano intimazioni severe, a mangiare con il pane ogni tipo di
alimento.
Mio nonno mangiava persino la pasta e la frutta con il pane.
Queste reprimende erano spesso accompagnate da confronti tra il nostro privilegio e quello delle famiglie in cui
mancava il pane. E non era un modo di dire. Noi sapevamo
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che diceva di mangiare le arance in insalata, con l’olio e il
pane. Le arance con l’olio!, segno di ricchezza.
Guadagnarsi il pane era una realistica perifrasi per lavorare. È da molto tempo che non la sento più usare. Intorno
alla centralità del pane c’erano molti mitologici racconti familiari. Ogni famiglia
tramandava i suoi. Quella di mio nonno
Benedetto era una famiglia di carrettieri.
Come gli odierni camionisti, trasportavano ogni genere di merci di paese in
paese. Dei fratelli, Silvestre era famoso
per la quantità di pane che mangiava durante i lunghi e sonnolenti viaggi col carretto, che potevano durare anche alcuni
giorni. Durante uno di questi viaggi, ho sentito raccontare
molte volte, fu fermato dai carabinieri a un posto di blocco
dalle parti di Partinico. Erano anni di banditismo e in quelle
zone imperversava la banda Giuliano. Gli chiesero dove andasse, perquisirono il carretto e nella bisaccia gli trovarono
tre grandi pani rotondi, di quelli da tre chili. Quando torni?,
domandarono. Domattina, rispose lui. E tutto questo pane, a
chi lo porti? Questo è il mio mangiare per il viaggio, rispose
Silvestre. Uno dei carabinieri si insospettì, pensando che fosse destinato a qualche latitante. Aspetta qui, gli disse, che tra
poco viene il maresciallo. Silvestre si sdraiò sui sacchi, dopo
un po’ tirò fuori il coltello e cominciò a tagliarsi fette di pane
e a mangiarlo. Una mezz’ora dopo il carabiniere gli ripassò davanti e si accorse allibito che aveva fatto fuori il primo grosso
pane. Va bene, gli disse, un forno sei, non un cristiano, te ne
puoi andare.
Un’altra volta, raccontava sempre mio nonno, Silvestre doveva partire per un viaggio urgente il giorno di San Giuseppe.
Ora, per la festa del patrono si riuniva tutta la famiglia e si
faceva un gran pranzo concluso da cannoli squisiti, alla madre
benissimo che nelle famiglie di nostri compagni di scuola e di
giochi spesso il pane mancava davvero. In una foto di gruppo
delle mia terza elementare, del resto, si vedono bambini scalzi. Forse i loro genitori avevano dovuto scegliere tra le scarpe
e il pane. In ogni caso, il pane era oggetto di un rispetto sacro
da parte di tutti.
Se giocando, in casa o in mezzo alla strada, cadeva un pezzo di pane, anche piccolo, bisognava subito raccoglierlo, se
no Gesù piange, soffiarci su, baciarlo se era piccolo, fargli
sopra una croce con il pollice se era più grosso, e poi finire
di mangiarlo. La merenda, che certo non era istituzionalizzata, di fatto consisteva quasi sempre in un semplice pezzo
di pane. Solo di tanto in tanto, sulla fetta di pane si metteva un filo d’olio; ancora più raramente, leccornia autentica,
da privilegiati, un sottile strato del raro burro con sopra un
velo di zucchero. Il pane veniva a consegnarlo il garzone del
panettiere. Nelle famiglie contadine, che magari avevano un
appezzamento a grano, il pane si faceva in casa, una volta al
mese, con la propria farina di rimacinato, e poi lo si portava
a cuocere al forno.
Pan con pan, comer de tonto, dicono ancora gli spagnoli. Pane
e coltello, era la versione siciliana.
Di fatto, nei miei ricordi, un po’ di companatico ad accompagnare il pane c’era sempre. Fosse pure una manciata di olive
nere, una cipolla o una sarda salata, che erano spesso l’unico companatico dei braccianti. Ma nelle case povere la cena
consisteva spesso in pane e piattu cunzatu, piatto condito: un
po’ d’olio, un po’ di limone, sale e origano. Poco olio e molto
pane, naturalmente. A me piaceva, di tanto in tanto, ma i miei
compagni più poveri non condividevano il mio entusiasmo.
In Conversazione in Sicilia, il bracciante pagato in arance che
tornava dalla Calabria dove inutilmente aveva cercato di venderle, commentava con invidia l’affermazione del viaggiatore
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piangeva il cuore che il figlio partisse proprio quel giorno senza nemmeno godersi i cannoli. Ne prese uno, lo avvolse nella
carta oleata e glielo diede per il viaggio.
La sera dopo, al ritorno, gli chiese come gli era sembrato
il cannolo. Una bontà, rispose Silvestre. Mezzo me lo sono
mangiato col pane – sempre quello da tre chili – e l’altro mezzo, aggiunse raggiante, l’ho mangiato schittu. Cioè da solo.
Stando così le cose, non sorprenderà che io non riesca a
mangiare nulla senza pane, anche se la mia stazza mi consiglierebbe di farne a meno. Non sono riuscito nemmeno a
risparmiare alle mie figlie lamentele e rancorose intimazioni
quando le vedo sacrilegamente mangiare senza pane. Tutte,
naturalmente, conoscono le epopee a base di pane dello zio
Silvestre e quando fanno le schizzinose, o non si contentano
delle pure fin troppo variate pietanze che vengono loro offerte, non rinuncio al piacere sadico di raccontare la storia della
pasta con le fave, che regolarmente mi veniva inflitta quando
mi si rimproverava di essere troppo viziato.
Questa storia riguarda un altro zio che da bambino detestava la pasta con le fave. Anch’io da bambino la detestavo,
mentre adesso la adoro. Dunque c’era pasta con le fave, quella
con le fave secche, verdina e un po’ melmosa. Lo zio si rifiutò
di mangiarla, proprio non ci fu verso di persuaderlo. Va bene,
disse il padre, come vuoi tu, ma non avrai altro. Il suo piatto
fu messo nel vano della finestra che dava sulla strada, protetta
da una rete metallica antimosche. (Non c’erano ancora i frigoriferi.) La sera appresso, lo zio si ritrovò davanti il suo piatto
di pasta con le fave. E di nuovo lo rifiutò. E di nuovo andò
a letto digiuno. Lo stesso la terza sera e quella dopo ancora,
con rifiuti sempre più cupi e intestarditi. La pasta, intanto, si
andava asciugando e calcinando, e sulla superficie cominciavano a formarsi crepe, come nei terreni secchi, ma anche una
leggera patina di muffa. La sesta sera, per fame, ma anche per
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L’astratto
presa d’atto politica che quello era ormai diventato un braccio
di ferro con il padre che lui non aveva nessuna possibilità di
vincere, lo zio tolse lentamente la patina di muffa dal piatto e
ingollò in silenzio la sua pasta con le fave.
Il bracciante pagato in arance di Vittorini, la storia della
pasta con le fave, il cannolo dello zio Silvestre, il bacio sul
pane raccolto da terra per non fare piangere Gesù. Tutte cose
che mi tornano spesso in mente, con ironia, ma anche con
sgomento e scandalo quando il mio mestiere mi porta ad assistere a spettacoli di miseria e sofferenza che ancora devastano
il mondo e li confronto con l’insensatezza degli sprechi delle
nostre vite senza memoria.
Finché c’è sucu,
c’è Sicilia.
E perché ci sia sucu,
occorre preparare
l’estratto di pomodoro.
Lo si prepara in piena estate,
quando il pomodoro
è più saporito,
polposo e
a buon mercato.
In tutta la Sicilia, specialmente nei paesi, ma beninteso in maniera differente da paese a paese, da provincia a provincia,
ogni famiglia – oggi, soprattutto quelle che poi lo commercializzano – prepara l’astratto.
Si spremono tonnellate di pomodori, la cui polpa vermiglia
viene posta ad asciugare su larghe tavole di legno: le maidde.
Su queste tavole, infaticabilmente, famiglie intere – soprattutto le donne, ma anche i bambini –, per favorire l’asciugatura
della polpa, che dovrà completarsi nella giornata, la rimestano
tracciando con le dita ghirigori degni di Hartung o dell’action painting americana. Non per niente si chiama astratto.
Le tavole vengono orientate verso il sole inclinandole sempre
più a mano a mano che questo va calando. A fine giornata
si sarà ottenuta una crema densa e un poco bruna, dal profumo forte, intenso. Una quintessenza di estate. Conservata
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in burnìe di terracotta o barattoli di vetro, con sopra un velo
d’olio a proteggerla dall’ossidazione, servirà poi in inverno,
diluita in acqua e variamente manipolata, a fare il sucu. Per
capire l’importanza quasi rituale del sucu nella cucina, e direi
nella visione della vita, dei siciliani bisogna leggere certi capitoli dell’Ultima provincia, scritto da un’osservatrice esterna e
divertita come Luisa Adorno.
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Il polpo di Ciccio Mosca
Pantelleria era un paradiso
per chi amava la pesca subacquea.
È nelle sue acque cristalline
che ho provato,
ragazzo,
prima e ultima volta,
la vertigine.
Tanto trasparenti
erano quelle acque benedette.
Guardando il fondo,
che pure era a una trentina
di metri sotto di me,
ebbi l’impressione di precipitare.
Aria sembrava, non acqua. Non sono mai stato un grande pescatore. Era il piacere di sprofondare in apnea nell’incomparabile, per me, liquido amniotico del Mediterraneo che aveva
trasformato quel gioco in passione. Quando andavo a Pantelleria in vacanza, a pescare uscivo sempre con la barca di Ciccio Mosca. Da quando un amico mi aveva fatto il suo nome
era diventato il mio barcaiolo. Non era una persona qualsiasi
Ciccio Mosca, e Pantelleria non era ancora diventata il posto
mondano e alla moda che è oggi. I turisti erano rari e a dire il
vero, a parte in agosto, non ci trovavi nessuno.
Ciccio sì, infallibilmente lo trovavi dentro la sua barca, o
lì intorno. Non era una gran barca: un gozzo da trentadue
palmi al massimo, con un piccolo motore entrobordo. Ma
sembrava il suo guscio, quasi lui fosse una tartaruga di mare.
E a una tartaruga un poco assomigliava Ciccio, rugoso, dalla
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la padrona della trattoria sul porto o uno degli innumerevoli
amici che aveva dappertutto, l’isola sembrava fosse per lui un
solo, grande ristorante. Quando gli girava attraccava la barca
in qualche punto della costa e scendeva a trovare uno di questi amici, magari portandosi dietro come
regalo qualche magnifico pesce di quelli che con grande perizia, che sembrava
incredibile facilità, sapeva tirare fuori da
quel mare stupendo.
Tutti lo accoglievano come una musica di festa e subito si organizzava una
gran mangiata annaffiata dai vini forti, alcuni certo un po’
troppo liquorosi per il pesce, che generosamente offre l’isola.
È stata in una di queste improvvisate con Ciccio Mosca che
ho scoperto l’ammuogghiu, un saporitissimo condimento estivo
per la pasta che da allora non ho più abbandonato.
È il pesto pantesco e se tutti gli ingredienti sono, come lo
erano quella volta, freschissimi e saporiti e profumati, è davvero imbattibile. Intanto ci vuole il basilico giusto, che non è lo
stesso che si usa per il pesto genovese, ma uno di foglia più piccola (non piccolissima), meno intenso di sapore ma profumatissimo, poi quel pomodoro piccolo, lobato, di terra secca, tutto
polpa e sapore, e aglio, con generosità, e olio buono, di quello
che sul fondo della bottiglia lascia il suo bel sedimento di oliva.
Si pesta l’aglio con basilico abbondante, appena spiccato
– Ciccio pareva che lo bastonasse, per chissà quale sgarbo
che gli aveva fatto, dentro il grande mortaio di legno –, poi si
aggiunge il pomodoro pelato e tagliato a pezzi, ma questo si
pesta con dolcezza, che ne restino dei pezzettini e non tutto
vada in salsa. Sale, pepe nero energico e olio senza risparmio.
L’ospite avaro, diceva Ciccio Mosca, fa l’ammuogghiu mollo, acquoso insomma. E parlava soprattutto dell’olio, naturalmente, da cui viene il nome di questa salsa meravigliosa:
pelle color tabacco, ispido di barba, con una coppola sempre tirata all’indietro. Di pochissime parole, e quelle sornione, sfottenti, ma che ti facevano sentire l’amicizia. Amici un
poco credo lo fossimo diventati, con Ciccio Mosca. Potevano
passare due anni senza vederci e mi accoglieva sempre come
se ci fossimo lasciati qualche ora prima. Che età aveva Ciccio
Mosca? E chi lo sa. Lui certo non me lo ha mai detto. Dare
gli anni a un marinaio è difficile, con quella pelle conciata dal
sole, dal salmastro e dal vento, che fa credere vecchi uomini che stanno appena uscendo dalla più vigorosa giovinezza.
Esperienze, certo, ne aveva vissute molte e a pezzi e bocconi
qualcuna me l’aveva raccontata.
Pantelleria, paradiso per chi ci andava in vacanza, era spesso in quegli anni durissima da vivere per gli abitanti e molti di
loro erano costretti a emigrare, per bisogno o per speranza.
Anche Ciccio era partito, in alta Italia, in Germania. Per cercare lavoro, ma soprattutto, mi diceva, per vedere se il mondo
assomigliava davvero alle favole che raccontavano quelli che
erano partiti e che di tanto in tanto tornavano. Lui, però, un
sospetto ce l’aveva su quei racconti. Le parole erano spavalde,
mi disse, ma gli occhi tristi.
Dopo un paio d’anni di verifiche, Ciccio decise che avevano ragione gli occhi, quelli degli altri e i suoi, che con tutto
quel grigio del cielo del Nord si stavano affumicando anche
loro. E se ne tornò a Pantelleria, alla sua barca, al suo mare,
alla sua vita. Non ho nessuno, mi diceva, di che cosa ho bisogno? Tra cielo e mare, da dormire e da mangiare certo non
mi manca. Credo che vivesse in casa con una sorella e quando
non dormiva nella barca, le rare volte, era lì che allungava le
ossa in un letto. Quanto a mangiare, un piatto di pasta per lui
c’era sempre.
Ma era un buongustaio Ciccio, non si limitava certo alla
pasta, e anche su quella aveva fisime e idee precise. Che fosse
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Il passato immobile
ammugghiari significa infatti avvolgere e l’ammuogghiu sembra
fondersi con la pasta caldissima e al dente mentre l’avvolge, e
avvolge anche il palato, deliziandolo.
Ma il vero, indimenticabile ricordo gastronomico che devo
a Ciccio Mosca è un altro. Una mattina, preda facile una volta
trovata, ma da me certo non disdegnata, tirai su un polpo
ragguardevole, sarà stato almeno tre chili. Lo porsi a Ciccio
ancora infilzato nell’arpione, lui lo staccò e lo uccise fulmineamente con il classico, pietoso e feroce morso del pescatore.
Vieni su, mi disse, che ce lo andiamo a cucinare. Era raro che
Ciccio si autoinvitasse a mangiare le prede di chi accompagnava e ne fui incuriosito. Fece partire il motore e si diresse
verso un punto della costa dove di solito non andavamo. Pensavo che avesse in mente il dammuso di uno dei suoi amici,
ma vidi che non accennava a fermarsi. A un certo punto, con
mia sorpresa, arrivò in un posto dove il mare fumava. Ridendo del mio stupore mi spiegò che ogni tanto in quel punto il
mare bolliva. Tra quei vapori gettò l’ancora. Prese il polpo e
lo sbatté a lungo sulle tavole della barca per snervarlo e intenerirlo, quindi lo agganciò a un grosso amo e con una sagola
lo calò nell’acqua fumante. Non ce lo tenne molto, certo non
più di venti minuti. Quando lo tirò fuori il polpo era splendidamente arricciato e cotto a puntino.
Il più buono che abbia mai mangiato.
Cerco sempre,
specialmente a primavera,
soprattutto se le mie riserve
cominciano a scarseggiare,
di fare un salto in Sicilia,
a Bagheria,
per procurarmi il tenero, profumatissimo,
saporito finocchietto di montagna.
Montagne che sono poi le brevi colline
che racchiudono
la cosiddetta Conca d’oro,
oggi piuttosto conca di cemento.
Se non posso andare, imploro amici e parenti che vengono al
Nord di portarmene un bel po’.
A Milano, dove abito da oltre trent’anni, si trovano ormai anche le verdure meridionali e maghrebine e orientali e
sudamericane e oceaniche più rare e stagionali, quelle la cui
mancanza molti anni fa accendeva la dolorosa nostalgia degli
immigrati.
Non c’è niente che faccia sentire di più la lontananza da
un luogo, dal quale magari con solide ragioni si è partiti senza
alcun apparente rimpianto, della mancanza, in certe stagioni, in certe ricorrenze, di precisi sapori. È un autentico lutto
dell’identità che non si riesce a medicare, e forse nemmeno si
vuole, anche se magari si finge di desiderarlo.
Così per me il finocchietto. Il suo profumo forte, netto, è
senza dubbio, insieme a quello delle zagare e del gelsomino
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per necessità. Forse la stessa necessità per cui a scadenza fissa
è obbligatorio rinnovare i documenti. Ecco, la pasta con le
sarde per un siciliano, o per un valenciano la paella, il cuscus
per un maghrebino, specialmente se emigrati, soprattutto se
emigrati, vengono mangiati come se ci si auto-rinnovasse l’identità culturale. Non è una faccenda da prendere alla leggera, è una serissima questione di linguaggio e del valore simbolico collettivo che assumono certi alti risultati – intendo di
alto valore condiviso – di quel linguaggio.
Come certi romanzi o certi dipinti, certi monumenti, certe
arie d’opera, che assai più delle bandiere e degli inni nazionali
definiscono un tal gruppo di uomini e donne, un popolo addirittura, che metaforicamente fanno da punto di riferimento
per la loro maniera di agire, ragionare, pensare, distinguere,
delinquere, giudicare. Vivere, insomma.
Quei cibi, quelle ricette tramandate di madre in figlio sono
come la lingua, i dialetti che parliamo. E proprio come la lingua e i dialetti, finché li usiamo nel contesto storico e geografico che è il loro mutano, si evolvono, sperimentano, vivono.
Non a caso di certe ricette, pur considerate classiche, ci sono
nella stessa regione, nello stesso paese, infinite varianti che
mutano di quartiere in quartiere, addirittura di strada in strada. Ma non appena ce ne allontaniamo, specialmente se l’allontanamento è vissuto con il sentimento lacerante del distacco, il loro uso cambia di significato, si trasforma in gesto di
appartenenza, in spazio familiare, riconoscibile, rassicurante,
prova della permanenza dell’identità che si teme di perdere,
tentativo di fissare la memoria, il passato, in un impossibile,
immobile presente.
E proprio come la lingua e i dialetti, certi piatti, certi dolci, tendono a fissarsi, cristallizzarsi, sclerotizzarsi, a morire di
falsa sopravvivenza, diventano cadaveri imbalsamati. Come i
cannoli con la ricotta delle feste di San Gennaro a Little Italy,
arabo, la più forte tra le scatenanti madeleine della mia memoria. Il suo profumo, il suo sapore, ma soprattutto il suo ruolo
di indispensabile ingrediente per certi piatti.
Ecco, il finocchietto selvatico a Milano proprio non lo
trovo, né lo trovavo a Parigi, o rarissimamente, e deludente,
quasi inodore e di scarsissimo gusto, quando per finocchietto
non cercano di gabellarmi l’assai diverso aneto.
Si trova, di rado, il finocchio tenero, molto meno profumato, con il quale si possono preparare ottime minestre, che
mio padre detestava – la chiamava pasta con i peli –, come
detestava la pasta con i tenerumi, le foglie della pianta di zucchine lunghe, di cui io invece andavo matto e che ancora mi
incanta, mentre per lui era pasta con le pezze di lana, mangiare per vacche.
Il mio finocchietto mi arriva quindi dalla Sicilia, anzi dalle
colline che circondano il mio paese, e se invece sono a Bagheria mi piace comprarlo dai soliti vecchietti che si alzano all’alba per raccoglierlo e poi lo vendono vicino alla posta, a mazzetti, avvolto in teli di juta bagnata. Lo ripulisco e una volta
a Milano lo metto in freezer, riserva preziosa, diviso in dosi
sufficienti per un abbondante sugo per la pasta con le sarde.
Refrigerato perde certo qualcosa della sua fragranza, ma non
tanto da non confermare l’impossibilità di farne a meno.
Senza finocchietto, infatti, niente pasta con le sarde. Semmai, se non hai trovato o non hai potuto comprare le sarde,
senza sarde si può preparare una pasta più povera, buona anche quella, che porta il nome sarcastico di pasta con le sarde
a mare. Ma se uno ogni tanto non si prepara una buona pasta
con le sarde, che campa a fare?
E non sto parlando soltanto di piacere o di nostalgia dei
sapori. In genere detesto la nostalgia. È che ci sono piatti che
alcuni individui, originari dello stesso territorio geografico e
culturale, e da questo lontani, ogni tanto devono mangiare,
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a New York, prima che Little Italy fosse ingoiata da Chinatown, che mi hanno dato la sensazione di assaggiare mummie
impagliate di quello che era, che ancora è in certe pasticcerie della provincia di Palermo, il cannolo siciliano. Oppure i
churros, monumento nazionale della cucina popolare iberica,
che si ritrovano in Messico, Argentina, Brasile, ma anche nel
quartiere ispanico di New York, unti, secchi, inutilmente ripieni, imbolsiti, irriconoscibili. Reperti archeologici, fossili di
uno strazio culturale che è continuato per generazioni.
Martin Scorsese ha magnificamente e ossessivamente raccontato nei suoi film di ambiente italoamericano il ruolo fondamentale del cibo in questa sindrome da paura di perdita
dell’identità. A Charles e Catherine, i suoi genitori, ha affidato
con frequenza piccoli ruoli nei suoi film, quasi sempre legati
al cibo. Catherine è spesso la mamma che cucina per i bravi
figli assassini e Charles, in Quei bravi ragazzi, è l’uomo che in
prigione affetta l’aglio sottilissimo con una lametta da barba
per preparare il sugo di pomodoro. Mi aveva molto impressionato, quando lo vidi in un cinemino di Saint-Germain, a
Parigi, il suo documentario Italianamerican, composto di due
lunghe interviste.
La prima è proprio con i suoi genitori, seduti nel loro tinello piccolo-borghese, dai quali Scorsese si fa raccontare l’odissea vissuta dai nonni, arrivati a New York nei primi anni del
Novecento, in fuga dalla miseria dei due paesi della provincia
di Palermo, Ciminna e Polizzi Generosa, da cui provenivano,
e il loro venire su bambini nel passato immobile di Elizabeth
Street, nel cuore di Little Italy, dove poi si erano conosciuti e
sposati e da dove si erano allontanati soltanto quando Martin,
raggiunto il successo e diventato ricco, li aveva trasferiti in
un appartamento dei quartieri midtown, all’inizio di Madison
Avenue. La più ciarliera era Catherine, naturalmente, gran carattere. Raccontavano dei nonni di Martin che in trent’anni
di America non avevano imparato una parola di inglese, delle
tante peripezie, di quello strano rito, ogni estate, di preparare, in the roof la salsa di pomodoro da asciugare al sole per
ricavarne l’estratto, crema densa e bruna da usare per i sughi
dell’inverno.
Nel corso dell’intervista la mamma continuamente si alzava, seguita dalla macchina da presa,
per andare in cucina a controllare una pietanza
che sobbolliva in una grossa marmitta. Questo
vai e vieni si ripete tre, quattro volte e a un certo
punto Martin le domanda, ma con l’aria sorridente e le narici dilatate di chi conosce benissimo la
risposta, che cosa sta preparando. Come, che cosa
sto preparando? Sapendo che venivi sto preparando le polpette col sugo, naturalmente, quelle
che mi ha insegnato a fare tua nonna e che ti piacciono tanto. Quelle polpette diventarono il Leitmotiv del racconto, al
punto che alla fine dell’intervista, sui titoli di coda, scorre la
ricetta delle polpette col sugo della signora Scorsese.
Nella seconda intervista del documentario, un giovane dichiara subito che lui ha sempre preferito mangiare al McDonald’s perché sua madre cucinava uno schifo.
Insomma, finché il filo della ricetta delle polpette, tramandata dalla Sicilia alla nonna alla mamma a Martin, non si
spezza, c’è memoria, c’è identità.
Quel documentario mi ha suscitato una curiosità appassionata per Martin Scorsese. Ha la mia stessa età, i suoi nonni
partirono dalla Sicilia lo stesso anno, chissà, magari con la
stessa nave, della sorella di mia nonna e del fratello di mio
nonno, che tutta la famiglia accompagnò al porto con le lacrime di chi sapeva che non li avrebbe rivisti mai più.
Per caso – per caso? – ho poi avuto l’occasione di realizzare per un numero speciale di “Vogue France” un lungo lavoro
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fotografico su Scorsese e la sua famiglia, andando a trovare
persino i parenti rimasti a Ciminna e a Polizzi Generosa.
Quelle polpette le ho mangiate a New York, in casa dei genitori di Scorsese, dove su mia richiesta furono preparate per
me e dove Catherine mi raccontò delle mangiate a casa sua di
Martin con Coppola e De Niro a base di ziti col sugo, polpette e chicken c’u garlic, di cui è ghiotto specialmente Coppola, e di
quella sciocca di sua nipote Domenica, la figlia di Martin, che
non vuole imparare l’italiano. Perché per Catherine la lingua
misteriosa fatta di siciliano arcaico e di americano che parlava
lei e che cercava di insegnare alla nipote era italiano.
La mattina dopo li accompagnai in Elizabeth Street, dove
andavano ogni giorno per comprare il pane da una panettiera polizzana che, mi spiegò Catherine, lo fa “come da noi”.
Come da noi significava come in Sicilia. Catherine è nata a
New York, quando l’ho conosciuta aveva settantadue anni e
in Sicilia non c’era mai stata, come non c’era mai stata la panettiera originaria di Polizzi Generosa. Ma il sapore di quel
pane, come quella neolingua mezza siciliana e mezza americana che scambiava per italiano, era ancora una patria, il racconto di un’identità. Lo stesso racconto di cui il figlio regista,
americano, della prima generazione non più siculo-americana, continua a nutrire il suo cinema.
Ma se la sclerotizzazione dei linguaggi, l’immobilismo
della memoria possono diventare imbalsamazione e morte,
anche il trasformismo gastronomico può essere a volte vissuto come profanazione gratuita, scandalosa. La pizza con
l’ananas, per esempio, o certi pseudo spaghetti-colla conditi
con sciroppo d’acero. Con la galoppante globalizzazione sono
diventate moda troppo spesso gratuita le cucine fusion e ogni
sorta di contaminazione. Le esperienze e le varie migrazioni
suscitano sperimentazioni che in passato sarebbero sembrate
spericolate. Magari spericolate, comunque vitali, e stimolanti
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La distruzione delle arance
di nuovi punti di vista. Trovo formidabile, per esempio, il tonno farcito di aglio, pepe e menta, cotto nell’estratto di pomodoro e mangiato con una buona polenta. Forse mi fa capire
meglio di tante analisi storico-sociologiche il mio percorso di
terrone milanese.
In un romanzo del mio indimenticabile amico Manuel
Vázquez Montalbán, Gli uccelli di Bangkok, Pepe Carvalho, collage di investigatori e come il suo inventore appassionato di
cucina, si ritrova in Thailandia alle prese con una complicata vicenda di cui non riesce a venire a capo. Per occupare il
tempo, mentre è costretto a nascondersi, decide di prepararsi
una specialità valenciana, ma naturalmente non dispone degli ingredienti necessari. Allora tenta di arrangiarsi con quelli
che trova.
E dopo aver preparato quella pietanza, sorprendendosi
per il sapore che ne è venuto fuori, eco dell’originale eppure
coerente, ha un’illuminazione: se finora non è riuscito a risolvere l’intrigo, è perché lo ha affrontato con una logica spagnola anziché thailandese. Quell’esperimento gastronomico
gli rivela che, come per quel piatto, era necessario tradurre il
ragionamento nella logica del luogo in cui si trovava. E all’improvviso capisce.
Mi è capitato di fotografare
distruzioni di massa
di frutta.
In Emilia,
le pere.
In Sicilia,
a Paternò, a Palagonia,
le arance.
Teorie di camion stracolmi di frutti in attesa di passare al
peso per ottenere i rimborsi dalle strutture preposte al ritiro di quelli in sovrapproduzione. Per calmierare il mercato e
non fare crollare i prezzi. Motivazione forse economicamente razionale, ma che non basta a cancellare il sentimento di
assistere a una sacrilega follia. Dopo essere stati pesati, i camion si avviavano verso le discariche dove le pere, le arance
venivano ammucchiate, irrorate di sostanze che le rendevano
inconsumabili e poi schiacciate da ruspe che completavano
l’uccisione.
Uccidere, propriamente, assassinare.
È questo sentimento, sacrilega follia, che suscita lo spettacolo penoso. Hanno anche tentato di impedirmi di fotografarlo, il massacro. Il mio fondato sospetto è che volessero evitare
la documentazione di una pratica, lo scafazzo, che si trasforma
in facile occasione per le molte truffe che qualche volta sono
venute a galla. Camion pesati più volte e cose del genere. Ma
non è impossibile che, come avviene per i macelli industriali,
si volesse nascondere lo scandalo crudele di quelle distruzioni.
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Chissà, forse persino per rimuovere un oscuro senso di colpa sociale. Mentre seguivo quei camion di rosseggianti arance
verso i luoghi della macellazione, non potevo fare a meno di
ricordare la trepidazione con cui mio padre proteggeva le piante del suo limoneto dai rischi cui la natura le esponeva. Malsecco, cocciniglie, il pidocchio a virgola, la siccità, la pioggia al
momento sbagliato, la grandine, il vento che sbattendo i frutti
sui rami provocava una cicatrice che deturpava la bellezza e
uniformità della buccia, l’eccesso di vegetazione che diminuiva
la produzione dei frutti.
Bisognava calcolare la concimazione esatta, l’acqua da
dare al momento giusto. Bisognava zapparle le piante, irrorarle, rimondarle. Proteggerle e aiutarle in ogni modo. Conosceva le sue piante una per una, mio padre. Ricordo, dopo
l’irrigazione, le sue solitarie e accurate esplorazioni con il
terreno non ancora completamente asciutto per controllare
che ci fosse abbastanza zagara e che quella zagara non fosse
vuota di frutti.
Una sapienza acquisita nel tempo, un amore che aveva un
unico scopo, economico certo, ma che soprattutto sanciva un
risultato meticolosamente cercato. Una ricca produzione di
frutti belli e sani.
Mi chiedevo quale devastazione avrebbe provocato nel suo
orgoglio contadino vedere i suoi limoni, le sue arance, caricati
alla rinfusa su dei camion per andare al macello.
A Palagonia ho seguito i camion fino a una discarica. Rovesciavano le tonnellate di arance, già contaminate dalla bava
verdognola dei veleni, su un terreno in pendenza. Le ruspe
le spingevano e schiacciavano senza sosta. Su quel pendio si
formava una colata che si muoveva verso valle lentamente.
Emanava un odore acre e già infetto. Assomigliava davvero
a una colata di lava del vicino Etna. Ma senza l’oscura forza
vitale che la lava, a volte devastatrice, comunica.
Una lava di arance,
una colata di morte,
come un lento pianto doloroso.
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Il capretto di Kami
Accompagnavo un medico
di Cooperazione internazionale
nel suo giro per i microvillaggi
intorno all’accampamento di minatori
che stavo fotografando in Bolivia.
Ci condussero in una capanna
dove viveva una famiglia
di poverissimi pastori.
C’era un bambino magrissimo e stremato. Parlavano aymara.
Faticosamente capimmo che quello che chiedevano al dottore
non era tanto una diagnosi, ma di fargli qualcosa. Magari, ci
fecero capire con gesti eloquenti, con una di quelle bottiglie
collegate a una vena che, come avevano visto fare per altri
malati, portavano linfa miracolosa dentro il corpo, rimettendo in sesto la gente.
Il dottore visitò il bambino.
Ma che bottiglia, disse, ha solo bisogno di mangiare. Dategli da mangiare.
Sembravano delusi, costernati.
Sono tornato il giorno dopo. La nonna aveva appena finito
di scuoiare un capretto che avevano macellato per dare da
mangiare al bambino. Per loro un grande sacrificio, che avevano cercato in ogni modo di scongiurare.
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Il latte di zu Bastiano
In uno spot televisivo
che ho visto molte volte,
per sottolineare la speciale
genuinità di un certo latte
e rafforzare la fedeltà a quel marchio,
viene mostrato un bambino
che assaggiandolo
esclama rapito che sì,
è proprio
il latte della Lola,
quella mucca speciale,
la sua mucca.
Questo avviene in un mondo, quello di oggi, nel quale è
assai probabile, se non certo, che molti bambini di città una
mucca non l’abbiano mai vista altrove che in schermi televisivi o nelle illustrazioni dei libri.
La mia Lola, io da bambino la vedevo tutte le mattine.
Tutte le mattine, infatti, zu Bastianu il vaccaro e sua moglie
donna Eleonora arrivavano di buon’ora con le loro due mucche all’angolo della strada dove abitavamo. Là li aspettavano
donne e bambini, messi a turno dall’energica donna Eleonora, e zu Bastianu mungeva il latte direttamente dentro le
gamelle che gli andavano porgendo. Quando il latte cominciava a esaurirsi e le due mucche si erano sgravate anche di
meno profumati prodotti del loro corpo, zu Bastianu e sua
moglie scendevano lungo la stradina e si fermavano davanti
alle porte di alcuni clienti speciali. Mia madre era tra questi.
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Il limite del rospo
Non si sarebbe mai messa a fare il turno per il latte, né andava, come molte altre donne, a prendere l’acqua col secchio
alla fontana, allo stesso angolo di strada dove quotidianamente si montava la piccola latteria.
Noi, famiglia di piccolissimo proprietario di limoneto,
l’acqua l’avevamo in casa, come poche altre famiglie nella
strada. Un vero privilegio consisteva nell’ottenere l’ultimo
latte della mungitura, il più denso, il più ricco di grasso, il
più saporito. A me piaceva berlo così, subito, ancora caldo,
con nel naso il sentore di stalla che le due mucche facevano
entrare in casa. Anche se mia madre debolmente opponeva
che bisognava prima bollirlo il latte, che a lei quell’odore di
stalla e la dubbia pulizia dei due vaccari non la incantavano
per niente.
Oltre ai vaccari – ne arrivava praticamente uno in ogni
strada – per il paese passavano quotidianamente anche i caprai. Molti infatti preferivano il latte di capra, considerato
più gustoso e leggero. Ai neonati che non potevano essere
allattati dalla madre veniva dato latte d’asina o di capra diluito. Frigoriferi non ce n’erano. Il latte, quindi, come tutto
ciò che poteva guastarsi rapidamente, veniva comprato ogni
giorno. Soprattutto in estate. D’inverno, nei brevi periodi in
cui faceva molto freddo, se ne comprava di più. Quello che
restava, mia madre lo metteva nel vano di una finestrina che
dava sulla strada, con una fitta rete metallica a proteggerla
dagli insetti. Se il latte era bello denso, la mattina dopo trovavamo sulla superficie una crema prelibatissima che veniva
accuratamente raccolta, spalmata sul pane e spolverata di
zucchero. Un autentico premio.
Soltanto molti anni dopo, al Nord, ho ritrovato nel buon
mascarpone, raro, quel non dimenticato sapore.
A Kuala Lumpur,
con la zuppa di rospo
non ce l’ho fatta.
Nelle stradine della città vecchia
i piccoli ristoranti
si susseguono colorati
e sull’uscio di ognuno campeggia
una vetrina dove puoi scegliere
il tuo rospo,
vivo, naturalmente,
col quale preparano una zuppa
famosa da quelle parti
per la sua prelibatezza.
Sapevo che la mia disponibilità curiosa per i cibi sconosciuti
avrebbe prima o poi trovato il suo invalicabile muro culturale.
Approfittando di un mestiere che mi ha fatto molto viaggiare, ho mangiato ogni sorta di cibi in giro per il mondo. Per
curiosità, per mettermi in bocca lo stesso sapore che aveva la
gente che fotografavo e cercavo di capire. Con una predilezione per i cibi di strada.
Spesso ho mandato giù intrugli cucinati nei luoghi più sospetti senza nemmeno immaginare con che cosa – grassi, spezie, erba o animale – fossero stati preparati. Non sempre quei
cibi mi hanno entusiasmato, ma non ho mai avuto problemi.
Ho sempre pensato che i tabù alimentari siano soltanto
culturali. Miei conterranei che come me hanno succhiato per
anni, dopo averne forato il guscio con abilissimo colpo di
canino, pentolate di lumachine, i babbaluci, cucinate con aglio,
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olio e peperoncino, si fanno pericolosamente pallidi e cercano con inquietudine il bagno più vicino se gli racconti quanto
sono deliziosi i piccoli grilli fritti del ristorante La Coronilla a
Oaxaca, o certi piatti di serpente di Hong Kong. L’anguilla, il
gronco, la murena, ai ferri o in brodo, i gamberetti,
l’antidiluviana coda di rospo, l’inquietante granseola, nostrane delizie da leccarsi i baffi. Il serpente,
che schifo!
Il maiale, in salsiccia, in ciccioli, gli speziati fegatini avvolti dentro la rete di grasso, monumenti
della nostra cucina nazionale. Il cane, la zebra, roba
da selvaggi.
Ma il rifiuto schifato non investe soltanto l’esotico sconosciuto, il sapore che non hai praticato
fin dall’infanzia e non fa parte della tua cultura alimentare. Moltissimi sono orripilati dalle interiora, dalle trippe, o detestano i polpi, le seppie, ogni viscido animale, e così
via. Per non parlare di certi vegetariani, che il pesce però lo
mangiano.
Molti scrittori hanno problemi perfino con le parole che
designano i cibi, e non solo con quelle. Leonardo Sciascia non
mangiava le ostriche, per esempio, né alcun mollusco vivo.
Ma le grasse e di forte sapore stigghiole, budella di capretto o
anche di castrato, arrotolate con spezie e arrostite sul carbone,
gli piacevano molto, come ogni genere di interiora.
Jorge Luis Borges, al quale chiesi come mai al ristorante
chiedesse così spesso prosciutto, mi rispose che trovava la parola molto nutriente e saporita.
Non c’è da stupirsi di queste idiosincrasie e passioni. L’identità culturale è un cerchio più o meno netto di gusti, rifiuti, credenze, ripulse, gerarchie di valori che fortemente ci
definiscono e la cui fondamentalista inflessibilità così tanti
guai produce in altri campi.
Sono contento, comunque, che il caso e la curiosità mi abbiano fatto sperimentare la grigliata di coccodrillo a Leticia
de las Tres Fronteras, in Colombia, e la succosa, clandestina bistecca di tartaruga a Bali. E che tanto mi piacciano le
andouillettes di ogni tipo, le salsicce francesi di interiora, come
i loro omologhi insaccati grigliati marocchini e ogni sorta di
trippe, con predilezione per le preparazioni toscane, madrilene e catalane.
A Kuala Lumpur, tuttavia, davanti al bel rospo vivo da
fare in brodo, proprio non ce l’ho fatta.
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Un pugno di riso
In quella parte del mondo
dove il caso
e la fortuna
mi hanno fatto nascere
e vivere,
la parola fame
l’ho vista trasformarsi
da esperienza di vita
in concetto metaforico.
Quando ero bambino io non l’ho certo patita la fame, ma sapevo
che intorno a me era cosa drammaticamente concreta. Se si diceva che in una casa mancava il pane non era certo per metafora.
Di povertà ce n’è ancora molta nella società detta del benessere,
ma la miseria, quella dove la fame è occhi incavati e crampi allo
stomaco, quella per fortuna mi sembra diventata rara.
Il mio mestiere di reporter mi ha fatto incrociare molte volte
la fame in luoghi diseredati del mondo, seviziati da eccezionali
o endemiche catastrofi naturali.
Nel Bangladesh un terribile tsunami, che, si disse allora
con approssimazione, aveva fatto oltre settecentomila morti.
A Noakhali, su un terrapieno dove l’onda devastante si era infranta due volte, in andata e ritorno, portando via tutto – persone, bestie, raccolti –, migliaia di uomini e donne e vecchi e
bambini scavavano nel fango per cercare di recuperare il pochissimo riso che vi era rimasto imprigionato. Quel disperato
lavoro poteva fare la differenza tra la sopravvivenza e la morte.
Salii su un barcone che andava ad Hatiya, isoletta del delta del
Gange, dove era stato localizzato l’epicentro di quella catastrofe.
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Ci aspettava una folla di affamati ai quali venivano letteralmente versati, nelle mani aperte a coppa, un pugno di riso, una
razione di farina. Agli uomini era chiesto di firmare con la loro
impronta digitale, su assurdi registri, la ricevuta per questo misero aiuto.
Ho ascoltato storie che sembravano favole nere. Come quella dell’uomo che il giorno prima dell’onda aveva visto i cani
arrampicarsi sulle palme. Si era spaventato e si era arrampicato
su una palma anche lui, con il suo bambino. Arrivò l’ondata
immane, piegò la palma e a un certo punto il bambino gli sfuggì dalle braccia, poi anche lui, assieme alla palma, fu strappato
via dalla violenza dell’urto. Perse i sensi. Si svegliò, miracolosamente vivo, non avrebbe saputo dire quanto tempo dopo. Non
riconosceva nulla del paesaggio devastato che lo circondava.
Soltanto dopo scoprì che si trovava a quattordici chilometri
dalla sua casa.
Un pugno di riso. Questa espressione metaforica, drammaticamente concreta, l’ho ritrovata a Macallé, in Etiopia, dove in
un campo erano ammassati i fuggiaschi da una delle ricorrenti
siccità che devastano quel paese. Morivano cinquanta persone
al giorno. Per paradossale iperbole visiva, accanto al campo, che
era stato un macello a cielo aperto, si ammucchiavano migliaia
di ossa e crani bianchi di animali che sembravano un monito
minaccioso per i vivi. Dal campo, specialmente la notte, saliva
un suono spaventoso, come se quelle migliaia di persone fossero diventate un solo corpo dal quale esalava straziante un unico
lamento. Anche lì piccole mani nere aperte per pochi grammi
di grano, per un salvifico pugno di bianca farina.
L’afflizione che davano a Benares le lunghe file di mendicanti accoccolati davanti ai loro piatti di foglie intrecciate in
attesa della povera sbobba dei pellegrini dei templi, era diversa.
Lo spavento della fame si poteva leggere nei loro occhi, non
l’orrore della morte.
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Mosche
Sono diventato anch’io
intollerante alle mosche.
La mia figlia minore
non le sopporta.
È sufficiente che una mosca
o due si posino
su un cibo perché
lo schifo
si disegni sul suo volto.
Se non riesce a tagliare, a rimuovere la parte per un istante contaminata dall’insetto è capace di rinunciare alla pietanza. Se si
tratta di un frutto lo lava e rilava più volte. In estate, in vacanza,
quando, complice il calore, in campagna o al mare inevitabilmente ci sono un po’ di mosche, la battaglia per eliminarle è
continua e senza quartiere.
Mentre faccio la mia parte in queste nevrotiche scaramucce
non posso comunque impedirmi di sorridere al ricordo della
quantità di mosche che hanno infestato la mia infanzia e delle
autentiche, inutili, guerre che quotidianamente si combattevano per tentare di debellarle. A volte era necessario chiudere
ermeticamente le stanze, fare buio, aprire uno spiraglio di luce,
e con l’aiuto di grandi sventolamenti di tovaglie spingere fuori
i nugoli di mosche attirate dalla luce. Si cercava in mille modi
di proteggere i cibi, naturalmente, ma nessuno si schifava troppo se qualche mosca si posava su una pietanza, non al punto
comunque da rinunciare a mangiarla. Si sarebbe morti di fame.
Sui banchi dei macellai, dei pescivendoli, dei verdurai uno strato di mosche fameliche ricopriva i cibi sino a letteralmente
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Le granite di Acireale
impedire, nel caso delle trippe, per esempio, o dei frutti di
mare, di capire di che cosa si trattasse. Poi tutto veniva ripulito,
bollito, grigliato e nessuno ci pensava più, alle mosche.
Del venditore ambulante di panelle che girava per le strade
del mio paese gridando C’a carni su’! – dove per carni si intendeva
nient’altro che il velo di mosche che copriva la sua mercanzia
– ho già detto. Una scrollatina, cinque panelle in mezzo a una
mafalda e la bontà che si sprigionava al primo morso faceva
dimenticare qualsiasi cosa, figuriamoci le mosche.
Oggi è soltanto durante certi viaggi in paesi del Terzo o
Quarto mondo che mi capita di vedere banchi di cibi neri di
mosche. Mi fanno più schifo di quando ero bambino. Tuttavia,
lo ammetto, qualche volta mi innescano meccanismi di memoria che assomigliano alla nostalgia. Del resto, Kundera non ha
scritto che le fotografie di Hitler lo commuovono perché gli ricordano la gioventù? Poi sono arrivati il ddt, le disinfestazioni,
e le mosche sono diminuite in maniera drastica nel paesaggio
della nostra vita. Adesso è soprattutto sui cumuli di immondizie troneggianti nelle strade delle nostre città che si possono
trovare accaniti nugoli di mosche che ricordano le invasioni
della mia infanzia. Su molta frutta non si posano nemmeno.
Forse oggi sono le mosche a schifarsi, dello strato di veleni
chimici che ricopre pesche, fragole e albicocche.
Ero ad Acireale
per un lavoro sull’Etna.
Alloggiavo in un piccolo albergo
vicino alla piazza, magnifica.
La mattina
mi piaceva fare colazione
leggendo i giornali a un tavolino
del più rinomato caffè
del paese,
davanti alla stupenda
chiesa barocca di
San Sebastiano.
Granita con panna, accompagnata naturalmente da una calda, sofficissima brioche. La prima colazione con la granita
è una delle glorie della Sicilia orientale. Al banco e ai tavolini il viavai delle persone si faceva folla. Dal bar partivano
squadre di ragazzini con vassoi pieni di granite e brioche che
raggiungevano le case, i saloni dei barbieri, i circoli. Ascoltavo
la sincopata jam session delle ordinazioni. Mezza granita di
mandorla con panna. Granita di caffè e brioche fredda. Caffè
con panna. Mezza di mandorla e mezza di caffè, senza panna.
Limone e fragoline. Fragola con panna. Mandorla tostata e
panna con due brioche caldissime. Gelsi neri con panna. Gelsi neri con una punta di mandorla. Gelsi e limone.
Una variazione infinita sul tema del piacere, araba e barocca. Ero impressionato. Sembrava che ciascuno avesse il
suo personale segreto della esatta ricetta per raggiungere la
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79
Il decottaio
perfezione del gusto. Quando si tratta di sapori, bisogna riconoscere che i siciliani ci danno dentro con i sensi.
Ho detto arabo e barocco. In effetti nella mia immaginazione, soprattutto per i gelati, è il sogno arabo che c’è in me che
viene fuori. Paolo Conte lo promette a una donna sotto forma di tiepidezze da hammam. Per me sogno arabo è il gelato,
soprattutto le granite. Con pertinenza penso, visto che sono
stati gli arabi a regalarcelo. Il gelato è un refrigerio inventato
da un popolo che conosce il deserto, la vampa calda del sole.
Nel brulicante suk di Damasco ho assaggiato un meraviglioso
sorbetto di crema preparato a vista da nerboruti giovanotti che
senza tregua pestavano in profondi pozzetti ghiaccio tritato,
latte, zucchero, e un po’ di cannella, come si faceva una volta,
fino a ridurre il tutto a una setosa delizia. Mi sono ricordato
delle fotografie siciliane di fine Ottocento in cui si vedono
lunghe file di donne che trasportano cesti di neve da interrare
per la preparazione, in estate, di sorbetti e granite.
Sogno barocco, anche. E non soltanto per l’arricciolata variazione di combinazioni che consentono le granite. Ma anche, se non soprattutto, perché, come ad Acireale, io associo
i piaceri del gelato alla suggestione di alcune tra le più belle
piazze del mondo. Ma quante piazze tra le più belle del mondo
ci sono in Sicilia, in Italia? Sorbire una granita di mandorla
tostata, o di gelsi neri – la mia preferita, ma forse la mia granita preferita è quella che in quel momento mi sto godendo –,
davanti all’incredibile, sublime architettura di panna baciata
dall’ultimo sole del duomo di Siracusa è un’esperienza in cui la
fusione dei piaceri del palato e della vista produce estasi estetiche da sindrome di Stendhal.
Una volta, a Ispica, in un piccolo bar, mi hanno fatto provare una granita di carruba. Sorprendente e straordinaria. Non
l’ho più ritrovata.
Lo spaccio del decottaio
era uno stanzone con sedie
impagliate e pochi tavolini.
Sul lungo banco erano
allineate grosse pentole
che contenevano,
caldissimi,
decotti di varie erbe.
Malva, gramigna, fiori di fico d’India, erba spaccapietre, menta.
La mattina lo stanzone era sempre affollato di uomini che sorseggiavano da grandi boccali di vetro, con la faccia seria di chi
celebra un rito, le loro fumanti infusioni.
C’era un’atmosfera da terme d’acque e, specie d’inverno,
densa di caldi vapori profumati. Io facevo riempire la mia gamella con mescolanze a base di infusioni di fiori di fichi d’India
ed erba spaccapietre. Mio padre, che soffriva di renella e di
calcoli, aveva fiducia assoluta, se il malessere non era gravissimo, nell’effetto rinfrescante del decotto di fiori di fichi d’India.
E ne aveva persino di più in quello di erba spaccapietre, che
anch’io avevo imparato a riconoscere e raccogliere in campagna
per le preparazioni di mia madre. Quel decotto miracoloso, per
convinta fede popolare aveva la virtù di sciogliere e permettere
di eliminare anche le “pietre” più grosse e micidiali. A me i
decotti disgustavano abbastanza, anche se adesso mi capita, per
desiderio, di ritrovare quel sapore, di raccogliere i fiori di fico
d’India per farne infusioni. Mi piaceva solo il decotto di gramigna. Portentosamente rinfrescante. anche quello, si capisce.
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Il sapore della buonanima
Non avevano avuto figli.
Era il cruccio
della loro vita.
La sola ombra in un
matrimonio felice.
Avevano celebrato da poco,
assieme ai pochi parenti
e amici, le nozze d’argento:
venticinque anni.
Poi, fulminea e inattesa in quel giardino di serenità, una brutta malattia – così si suole dire, come se ce ne fossero di belle
– si portò via la moglie. Pietro, ancora giovane, poco più di
cinquant’anni, ne fu atterrato. La moglie era l’aria e la musica
tranquilla della casa e della sua vita. Anche quando il dolore
cominciò ad attutirsi, la solitudine nella quale ora viveva lo
aveva fatto scivolare in una sorta di blanda depressione. Con
gli amici, con il fratello più anziano, il suo argomento principale, praticamente il solo, era la defunta moglie, la buonanima, scrigno e parametro di ogni virtù.
Si lasciava andare. La cognata e una nipote andavano ogni
tanto a portargli qualche pietanza calda e a dare una sistemata
in casa. Ma se ne lamentavano. Lui non voleva cameriere tra i
piedi. Mangiava un pezzo di pane e formaggio, olive, un po’
di frutta della sua campagna. Usciva poco ormai. Al circolo,
dove peraltro aveva quasi smesso di andare, non ne potevano
più dei suoi panegirici sulla buonanima. Lui se ne accorgeva
e si isolava sempre di più. Insomma, così non si poteva andare avanti. Il fratello, soprattutto spinto dalle lamentele della
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moglie, cominciò un’opera di convincimento. Sei ancora giovane, devi pensare al domani, a rifarti una vita; insomma, ti
devi rimaritare. La prima volta Pietro accolse la proposta con
una risata. Rimaritarsi? E con chi? Come se fosse possibile
anche solo pensare di sostituire quella pietra di paragone di
ogni perfezione che era stata la buonanima. Ma il fratello non
mollava la presa. Moltiplicava le mirabolanti descrizioni di
partiti eccezionali. Senza risultato alcuno. Finché un giorno
arrivò con la proposta giusta: Agatina.
La storia di Agatina era simmetrica a quella di Pietro. Ancora troppo giovane per rassegnarsi alla vedovanza, di specchiata reputazione, con una situazione economica agiata, e
bella poi, del tipo florido, che non guasta. Non furono però
tutte queste doti a smuovere le coriacee resistenze di Pietro.
È che lui la conosceva Agatina. Non direttamente, ma attraverso i racconti affettuosi della buonanima. Più giovane
di lei di un paio d’anni, era stata, quando erano ragazze, la
sua migliore amica: Ci spartivamo il sonno, soleva ripetere; e
anche dopo, negli anni, era rimasta praticamente la sola che
continuava a frequentare e con la quale condivideva attività
di parrocchia, problemi di uncinetto e ricette di cucina.
Gran cuoca, Agatina, ripeteva la buonanima.
E forse fu questo a far vacillare le resistenze di Pietro. A
poco a poco gli era venuto il dubbio che quello che più gli
mancava della buonanima fosse il profumo delle pietanze di
cui trovava piena la casa al suo ritorno, anticipo della beatitudine dei sapori che avrebbero deliziato il suo palato. Ah, la
pasta e fagioli della buonanima! Ah, il ragù della buonanima!
Inarrivabili, impareggiabili. Al confronto, le pietanze che gli
portava ogni tanto la cognata mangiare per asini gli sembravano, pastone per le galline.
La buonanima diceva spesso che certi segreti di cucina era
stata proprio Agatina a insegnarglieli. Come cuoca è la mia
maestra, ripeteva. Pietro si mise a fantasticare. Se la buonanima, cuoca meravigliosa, l’apprezzava tanto, chissà che delizie!
Si stordiva alla sola idea. Le sue resistenze infine crollarono.
Presso Agatina di resistenze non se ne trovarono molte; anche lei aveva avuto decantate dalla buonanima le straordinarie
virtù di Pietro e la solitudine della vedovanza le pesava assai.
Si sposarono.
Agatina si impadronì rapidamente di Pietro e della casa,
che riempi di serenità, pulizia, luce, persino di allegria. Pietro era contento e ricominciò a fare una vita normale, aveva
ripreso a occuparsi con passione degli affari, trascorreva di
nuovo ore al circolo con gli amici e nella conversazione gli era
tornata una certa vena sarcastica che lo faceva apprezzare e
un poco anche temere.
Ma: c’era un ma. Quando la sera rientrava a casa la trovava certo accogliente, densa di buoni profumi delle pietanze
cucinate, e onestamente non si poteva lamentare. Buoni, quei
piatti erano buoni. Pietro non lo negava. E tuttavia rimaneva
insoddisfatto. Si era ben lontani dai fasti della cucina della
buonanima che tanto gli erano mancati e che aveva sperato di
ritrovare. Agatina se ne accorgeva e ci soffriva. Andava così
bene sotto ogni altro aspetto, anche i più intimi, e proprio sul
terreno sul quale si sentiva più sicura, sul quale in vita la stessa
buonanima – che a parere di Agatina gran cuciniera non era
– aveva tante volte riconosciuto la sua superiorità, non riusciva a non farla rimpiangere. Quando erano a tavola l’allegria
scemava un poco. Tra lei e Pietro i sapori della buonanima
si ergevano come un muro. Agatina moltiplicava gli sforzi,
variava le ricette, si sbizzarriva. Ma, con sua grande delusione,
era proprio quando maggiore era lo sforzo per compiacere
che minore era l’effetto.
Il fatto è che in una lunga convivenza anche la cucina, forse soprattutto la cucina, finisce a poco a poco con l’assestarsi
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all’interno di un repertorio, magari limitato, ma condiviso.
Questo repertorio diventa il terreno di sottili complicità. In
un certo giorno della settimana, in una certa stagione, quella
più propizia a certe verdure, a certi profumi, tornando a casa
immagini la pietanza che troverai nel piatto e accorgersi di
avere indovinato non suscita affatto sentimenti di stanca ripetizione, ma al contrario conferma un’intesa spirituale e insieme fisica, quasi erotica. Pietro era troppo timido per avanzare
richieste precise. Intuiva che si era suo malgrado innescata
una sorda competizione tra Agatina e la buonanima, e per
quanto cercasse di non esasperarla non riusciva a nascondere
la propria insoddisfazione.
Infine fu Agatina, più coraggiosa, stremata dagli sforzi e
dai fallimenti, a chiedere a Pietro che cosa precisamente voleva che gli cucinasse. Lui si schermì, opponendo che tutto
andava bene e che non aveva espresso lamentele. Ma lei non
demordeva. Ha detto il sorcio alla noce, dammi tempo che ti
buco. Così pensava Agatina.
Tanto insistette, che Pietro si lasciò andare: quella pasta
con i fagioli così speciale, col soffritto di guanciale e cipolla, e
l’aggiunta di certe verdure, appena un po’, fatta con i rigatoni
frantumati dentro un panno con il batticarne. Oppure quello
stufato meraviglioso che lei, la buonanima, faceva mescolando carni diverse, di vitellone e maiale, salsicce e piedini, che
con soffritti e aggiunta di estratto di pomodoro diluito con il
vino davano un sugo che così perfettamente si sposava con
le patate infornate con cipolle e peperoncini, in parte dolci,
in parte piccanti. Agatina esultò. Quelle ricette le aveva date
lei alla buonanima. Non era possibile che le avesse realizzate
meglio di quanto lei fosse in grado di fare.
E cominciò la dura stagione dei confronti. Dura per Agatina, ché nonostante la cura meticolosa con cui si applicava
a quelle ricette e ad altre specialità che aveva strappato dalla
memoria rapita di Pietro, al momento dell’assaggio sugli occhi
di lui calava, benché si sforzasse di dissimularlo, il velo della
delusione. Agatina se ne disperava, non riusciva a capire quale
fosse il segreto che aveva permesso alla buonanima di accendere un tale inestinguibile rimpianto gastronomico. Intanto, la mancata intesa sulla cucina stingeva
sugli altri versanti del loro rapporto. Il muro si faceva sempre più grigio e insormontabile. Agatina
cedette le armi. Pietro gliene fu quasi grato, perché
cominciava a irritarlo la costrizione a mentire, a
fingere soddisfazione quando ogni nuovo tentativo
aumentava invece il rimpianto. Parlavano sempre
meno. Tra loro si era insinuata e cresceva una svogliatezza. L’apparenza era di affettuosa cortesia, ma
la sostanza era di crescente e progressiva stanchezza. Agatina continuava a cucinare, naturalmente, ma non ci
metteva più l’anima, la passione della perfezione come strumento di seduzione e di conquista di un’identità che potesse far dimenticare l’ossessionante buonanima. Era diventata
distratta, approssimativa. Tanto, si diceva, non serve a niente.
Un giorno, mentre nella pentola sobbolliva per il pranzo
l’ennesimo tentativo di quella iperbolica e mai nemmeno avvicinata pasta e fagioli, Agatina, che quasi per masochistica
autopunizione all’una guardava alla televisione trasmissioni
di cucina, si dimenticò della pietanza sul fuoco. Fu soltanto
quando l’odore carbonoso dei fagioli attaccati al fondo della
pentola, bruciati assieme alla pasta e ai soffritti, la prese alla
gola, più che al naso, che la povera Agatina si precipitò a spegnere il fuoco. Il guaio era drammatico. Irreparabile. Inutile
cercare di separare la parte non bruciata dal resto. Ormai era
una poltiglia unica, brunastra. Agatina era disperata. Era tardissimo. Pietro stava per arrivare e mentre lei contemplava
impietrita quella sbobba sentì la chiave girare nella serratura.
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Il fidanzamento ad Arcanghelos
Fu in quel preciso momento che la disperazione si trasformò in ribellione. Tanto, tornò a ripetersi, non serve a niente.
Qualunque cosa io gli metta davanti, lui la ingoia mentre sulla
faccia gli si disegna sempre, dietro un falso sorriso, la stessa identica espressione di leggero disgusto che platealmente
significa una cosa sola: Eh no!, niente a che spartire con il
sapore della buonanima.
In preda a una furia silenziosa si avvicinò al tavolo e quasi
con violenza scodellò nel piatto di Pietro una grossa mestolata di quella schifezza. Lui fece una faccia strana. Come di
sorpresa e curiosità. Per forza!, pensò Agatina, ha sentito l’odore e pregusta la mia ennesima e più cocente sconfitta. Gli si
sedette di fronte guardandolo con aria di sfida, pronta a una
catartica sfuriata. Pietro portò alla bocca una cucchiaiata; si
fermò, come se fosse stato colpito da una scarica elettrica. La
ingoiò, poi ne prese un’altra. Alzò lentamente il volto dal piatto, rivolse ad Agatina uno sguardo acquoso, colmo di lacrime
che stavano per traboccare: Agatina!, esclamò. Grazie, grazie
Agatina. Finalmente, il sapore della buonanima!
Ad Archangelos,
piccolo paese dell’interno
nell’isola di Rodi,
mi sono casualmente
trovato nel mezzo di uno
straordinario
rito collettivo.
La sera si sarebbe celebrata una festa di fidanzamento.
Nelle case, le donne impastavano e tiravano la sfoglia su
lindi spianatoi circolari, la riducevano a listarelle e con queste
preparavano dolci dalla forma aggraziata di piccole rose. Ridevano, scherzavano, lavoravano, cantavano e tutte insieme
partecipavano al rito della promessa di due giovani.
Quei dolcetti bellissimi e buonissimi, portati poi in processione in casa della fidanzata, avrebbero dato insieme ai
profumi e alle decorazioni il sapore della tradizione a una
cerimonia da tutti condivisa, alla quale tutti avevano contribuito, nella comunità alla quale compiendo quei gesti tutti
sentivano di appartenere.
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Il cuscus di Marsala
Tra Marsala
e Capo San Vito,
in Sicilia,
la presenza araba
è antica
e ancora molto forte.
I paesi della costa
sono il regno del cuscus
con il pesce.
La vicinanza della Sicilia alla costa maghrebina ha prodotto
molti scambi e incroci culturali. Compresi gli odierni sbarchi di profughi e clandestini che sono, e temo per molti anni
saranno, alla ribalta della cronaca. A Mazara del Vallo c’è un
quartiere, la casbah si chiama, dove per la struttura urbanistica e la presenza di molti arabi sembra quasi di essere a Tunisi
o a Casablanca. Non sorprende che uno dei piatti più prelibati, in molti ristoranti ma anche nelle famiglie, sia il cuscus. Soprattutto il cuscus con il pesce. A mio parere, anzi, nemmeno
sulle coste di Tunisia e Marocco se ne trova di altrettanto
ricco e buono.
Giovanna è la moglie del mio amico Nino De Vita, prezioso e apprezzato poeta che scrive in lingua siciliana e vive in
contrada Cutusìo a Marsala.
Giovanna è per me il Rubens del cuscus. Per come lo prepara. Ma il suo talento per il cuscus è anche letterario. Perché
lei la preparazione del cuscus con il pesce prima la racconta.
E il suo racconto, che non è la banale descrizione della ricetta,
ha formidabile valore estetico ed evocativo. Si ha l’impressione
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che per complessità, sapienza di assonanze e di rime – di parole, di sapori –, finezze lessicali, improvvise rotture e riprese,
quella preparazione arrivi alle orecchie come se fosse composta in esametri classici. Non proverò nemmeno a competere
nella mimesi della recitazione. Tanto per cominciare, Giovanna il cuscus non lo compra in scatola, come noi poveri mortali
privi del dono dell’arte.
Che orrore!, il cuscus confezionato.
Giovanna, assieme alla madre, con molto anticipo il cuscus lo ’ncoccia. Cioè parte dalla semola di grano duro e a
forza di dosatissime umidificazioni e sfregamenti tra le palme delle mani crea le preziose palline, ovviamente mai tutte
uguali come quelle prodotte da macchine senz’anima. E già
questa è una differenza fondamentale. Poi, naturalmente, bisogna trovare il pesce adatto. Sembra facile. Ma qui non si
tratta di una banale zuppa. Il brodo per il cuscus necessita
di quei certi pesci e non di altri, di quella pezzatura e non di
un’altra. E poi ci vuole il granchio arancio. Che sarebbe la
granseola. Se al mercato non trovi un bel granchio arancio
vivo è proprio inutile, dice Giovanna, pensare di mettersi a
preparare il cuscus con il pesce.
Infine la preparazione del brodo, con inserimento dei vari
pesci scandito da necessità imperscrutabili, prima alcuni e
poi altri, guai a variare la sequenza, alcuni da togliere prima
di mettere gli altri, altri no. E poi le spezie, una precisa varietà e fragranza, alcune fresche, altre essiccate. E poi, con
ritorno tonale da tormentone poetico, a questo punto, dice
Giovanna, bisogna rinnovare il sapore. Con altre spezie, immagino. E bisogna rinnovarlo almeno due, tre volte. Prima
di mettervi in infusione il cuscus per il tempo necessario, e
poi di nuovo prima di servirlo, come va riportato a calore il
pesce armonicamente disposto per forma e colore in piatto
acconcio, e che va servito a parte.
Be’, non vi dico che risultato producono sul palato tanta
raffinata tecnica e tanta cultura.
Mentre tentavo questa misera descrizione, mi chiedevo per
quale motivo avrò mai lasciato passare tanti anni senza chiedere a Giovanna di prepararmi, ancora una volta, quel suo cuscus marsalese, autentica idea platonica del cuscus con il pesce.
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I pesci dal volto umano
Tra le mie fotografie,
molte ce ne sono,
scattate soprattutto in mercati,
in cui mostro pesci dal volto umano,
razze, piccoli squali.
Sono anche un po’ ossessionato
dalle teste
degli animali macellati.
Mi impongono
inevitabili considerazioni
sulla naturale ferocia umana
dell’uccidere per nutrirsi.
Con i pesci è diverso.
Quando non sono ancora tagliati offrono immagini splendide, ma meno cruente. Un tonno intero su un banco fa pensare
a una magnifica scultura. Lo sentii dire a Manzù mentre insieme a Cesare Brandi visitavamo il mercato del Capo a Palermo.
Voglio scolpirlo, ripeteva entusiasta. E in effetti, i magnifici
tonni di maggio sembrano fusi nel bronzo.
I pesci dal volto umano di cui parlo sono un’altra faccenda.
Nel loro assomigliare, assomigliarci, mi procurano una speciale inquietudine. Le espressioni sono malinconiche e quasi
stupite, come se ancora non si capacitassero della trappola
vigliacca nella quale sono caduti e che era stata pensata proprio per loro. Non posso negare che me ne vengono contorti
complessi di colpa. Sono stato, ancora lo sono – anche se in
modo assai blando, essendo avanzata l’età –, un appassionato
cacciatore subacqueo.
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Ho sempre sostenuto che la caccia subacquea è disciplina
completamente diversa da quella che si pratica sulla terraferma con i fucili, che mi sembra più proditoria. L’ho sostenuto,
ma so bene che è un discorso ipocrita. È vero che il cacciatore
subacqueo si muove nell’acqua, nell’elemento che appartiene
alle sue prede e non è il suo. Prende più rischi, in un certo
senso. Ma per quanto rudimentale – una molla, un elastico,
dell’aria compressa –, un fucile è un fucile. Per quanto si debba entrare, psicologicamente oltre che fisicamente, nel mondo
e nel modo in cui vivono i pesci, nelle loro abitudini, nel loro
habitat, e per quanto ci si debba avvicinare molto, per scoprirli, attenderli, un po’ contemporaneamente cane e cacciatore,
alla fine il gesto è sempre quello proditoriamente tecnologico
di scagliare un arpione assassino contro i loro corpi.
Io so che la ragione profonda che mi ha fatto tanto amare la caccia subacquea è il mare, l’immergersi fino a perdersi
nell’acqua con la felicità fisica che ti offre la sensazione di
recuperare antiche beatitudini da liquido amniotico, da vita
prenatale. Ma incontestabilmente c’è anche la caccia, il ritrovare qualcosa di oscuramente ancestrale nell’adrenalina che
ti fa trattenere il fiato, appostare, esplorare gli anfratti e le
caverne, cogliere l’attimo fatale in cui devi diventare pesce anche tu per meglio colpirli. Colpevolmente oggi, senza dubbio,
ma so che ogni volta dentro di me rivive il gesto della caccia
come arte e necessità della sopravvivenza. Forse non è molto
diverso comprare un pesce al mercato e tornare con uno che
tu hai ucciso.
Forse. Ma se non riesco a darmi assoluzioni, non riesco
nemmeno a soffocare dentro di me un istinto che la cultura
avrebbe dovuto superare: la caccia ti rivela come continui a
vivere oscura e potente dentro di te, oltre ogni evoluzione
etica, oltre ogni ipocrisia, la tua natura di predatore.
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Gli asparagi selvatici di Sciascia
La prima volta
che ho incontrato
Leonardo Sciascia
è stato nella casa persa
in mezzo ai mandorleti
della contrada Noce di Racalmuto,
senza acqua né elettricità,
dove per anni,
prima di costruirne una nuova
accanto alla vecchia,
andava in estate a scrivere i suoi libri
sottili e acuminati
come lame.
Guardammo insieme le sue zie affaccendate di fronte al piccolo forno davanti alla casa. Ci prepararono anche un buonissimo pollo alle erbe, di quelli che vivevano liberi nel campo.
Mio nonno, che mi accompagnava, non lo volle nemmeno
assaggiare. Era di venerdì.
Leonardo fu molto divertito da questo rigoroso rispetto
dei precetti religiosi, e le zie, ammirate, prepararono in fretta
e furia una sostitutiva frittata.
Era un vero buongustaio Leonardo, e cuoco sopraffino.
Ricordo ancora il suo magistrale baccalà con le olive. Potrei
ricostruire la nostra trentennale amicizia anche soltanto attraverso le comuni esplorazioni di un condiviso paesaggio
gastronomico.
Aveva i suoi rifiuti netti, tuttavia. Il crudo lo accettava solo
per la frutta e le verdure. Certo non per le carni e i pesci. Di cui
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I ragazzini con i vassoi
non era peraltro grande consumatore. Si rifiutava di mangiare
la meravigliosa nunnata, la neonata, ovvero i micro-gianchetti
che in Sicilia sono quasi un’argentea crema, saporita e fragrante
di mare, specialmente quella di sardine. Se si chiamasse in un
altro modo, diceva, forse la mangerei.
Non parliamo delle ostriche. Una sola volta accettò di mangiarne, gratinate. Ma senza entusiasmo. Nemmeno si faceva
sedurre dalle cucine esotiche. Un paio di volte l’ho trascinato
a Parigi in ristoranti cinesi o indiani. Al massimo concedeva
la sufficienza. Ma ne usciva insoddisfatto. Con gli stessi ingredienti, commentava, farei di sicuro qualcosa di più saporito.
Ma era un vero, appassionato conoscitore di verdure. Soprattutto di quelle che crescevano spontanee intorno alla casa
della Noce e che andava a raccogliere personalmente, con
competenza.
Una volta, a Milano, manifestava un’incomprensibile urgenza di tornare in Sicilia. Ma perché non si ferma ancora
qualche giorno?, gli chiesi. Amava Milano, gli incontri che vi
faceva. Scherzi, mi disse, questa è proprio la settimana che in
campagna si cominciano a trovare gli asparagi selvatici!
Non se li poteva perdere. Una volta, a Parigi, capitò una
cosa buffa. Lo avevano invitato a cena degli amici scrittori.
La padrona di casa gli preannunciò una sorpresa. Le abbiamo
preparato, disse con soddisfazione, la ricetta del coniglio di
cui lei ha scritto nel Giorno della civetta. Un sorriso di rassegnata
gratitudine si disegnò sulle labbra di Leonardo.
Quando ce ne andammo, disse esasperato che non era la
prima volta. Non mi perdonerò mai, sbottò, di avere scritto di
quel maledetto coniglio. Lo detesto, io, il coniglio.
Nelle città del Sud,
specialmente nei paesi,
ogni bar,
ogni pasticceria
ha dei garzoni
per il servizio a domicilio.
Ma brulicano
anche nei suk
delle città
del Medio Oriente.
Nella maggior parte dei casi
sono ragazzini,
quasi dei bambini.
A certe ore, specialmente la mattina, è tutto uno sciamare di
questi lindi messaggeri che con una mano abilmente reggono
un vassoio di metallo, la guantiera, colma di brioche, cornetti,
caffè e cappuccini protetti da tovagliolini di carta, ma anche
di microthermos, o di bottigliette piene di caffè, che si affrettano a consegnare nelle case e nei circoli dei signori.
A Istanbul sono soprattutto bicchieri colmi di tè fumante.
Questo vai e vieni, al Sud non si ferma quasi mai; si placa
un poco solo nelle ore centrali della giornata, quando si consegnano gli spuntini salati – arancini, ravazzate, impanate –, e
torna frenetico in serata, per gli aperitivi.
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La lepre in salmì di Roberto Leydi
“L’Europeo” mi aveva mandato
in Polonia con Roberto Leydi
per un servizio sulla
pregiata vodka polacca.
Ne abbiamo naturalmente
approfittato per visitare
accampamenti di zingari e
scultori popolari
di figure in legno.
Durante la visita alla sezione di imbottigliamento della vodka
Wyborowa, a Cracovia, assistemmo a un’epica farsa. Quella mattina nel reparto tutto andò a catafascio. Le bottiglie
avrebbero dovuto, nella catena automatizzata, essere con perfezione tecnologica riempite, tappate ed etichettate fino ad arrivare a valle, dove alcune operaie le aspettavano per metterle
nei cartoni. Il guaio è che durante il percorso un gran numero
di bottiglie scivolavano dai loro previsti alloggiamenti per fracassarsi a terra, il rubinetto della vodka di conseguenza mancava il collo delle bottiglie versandosi ovunque, i tappi non
entravano e le etichette si incollavano storte. Su un centinaio
di bottiglie solo pochissime arrivavano a destinazione, dove
le impassibili operaie le collocavano nei cartoni inutilmente
predisposti.
I responsabili della fabbrica correvano istericamente a destra e a manca tra sfracelli di vetri rotti, laghi di vodka e urla
da farsa chapliniana.
Ci portarono via frettolosamente continuando a scusarsi
per un incidente che, ci giuravano, non era mai accaduto prima.
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Le nostre guide erano livide di vergogna e paura. Roberto allegramente le rassicurava con argomenti che a loro sembravano anche peggiori della catastrofe tecnologica. Grazie al
cielo, affermava, nel mondo socialista non c’era ancora la dittatura delle macchine sugli uomini, costretti a diventare anche
loro macchine alienate. L’umanità del lavoro era ancora salva.
Non sembravano affatto persuasi e intanto ci spingevano
verso la cantina dei distillati. Era immensa, impressionante,
e ai visitatori venivano offerti con grande gentilezza assaggi
multipli della varie specialità.
Io cominciai a fare fotografie e ogni tanto Roberto mi raggiungeva. Hai assaggiato, mi diceva, questa meraviglia? È una
specie di calvados, ma con delle sfaccettature inaspettate e magnifiche. Me ne sono fatto mettere via una piccola damigiana.
E quest’altro?, mi veniva a raccontare, una grappa davvero favolosa. Secchissima, ma che sa di torba, di terre vergini, profumata e severa. Ne voglio prendere un po’ da portare via.
I suoi entusiasmi si facevano sempre più frequenti e allegri,
e i suoi occhi sempre più lucidi. Non era ancora mezzogiorno
e io mi divertivo come un matto in previsione di quello che
sarebbe accaduto.
E infatti, quando ci trasferirono in un lussuoso albergo per
il pranzo ufficiale, sentivo Roberto sempre più incontrollabilmente facondo. Nel grande salone dove un tavolo per venti
era illuminato da sfarzosi lampadari, venne il momento dei
brindisi. Roberto si alzò in piedi e, coppa in mano e gesto
largo, cominciò a raccontare: Una volta, disse, mi è capitato
di andare a mangiare al ristorante Il Cappello d’oro, a Bergamo. Sapevo che quel rinomato ristorante era particolarmente
famoso per la sua lepre in salmì con polenta.
Naturalmente la volli provare. Arrivò questo piatto che mi
suscitò un entusiasmo al di sopra di ogni aspettativa. Era davvero perfetto, direi ancora di più, era sublime. Chiamai il ca-
meriere e chiesi un’altra porzione di quella meravigliosa lepre
in salmì con polenta, che mi fu subito servita. Ma la bontà del
piatto, la ricchezza del sapore, la perfezione dell’esecuzione,
la qualità degli ingredienti erano tali che ne chiesi subito una
terza. E il piacere non scemò, anzi raddoppiò, triplicò. Non
riuscivo a staccarmene. Ne chiesi una quarta. A quel punto,
dalla cucina uscì in pompa magna, reggendo un grandissimo
padellone di rame colmo di quella inarrivabile lepre in salmì
con polenta, il cuoco, che mi si avvicinò e con un grande
sorriso mi disse: Signore, lei onora la mia cucina. Da questo
momento è mio ospite.
Il racconto suscitò approvazione e applausi, anche se nessuno capiva che cosa diavolo c’entrasse con la celebrazione
della vodka polacca.
Roberto ringraziò, tracannò il suo vino, posò la coppa,
diede un colpo di tosse e dopo un bel sorriso riprese la parola:
Una volta, disse, mi è capitato di andare a mangiare al ristorante Il Cappello d’oro, a Bergamo. Sapevo che quel rinomato
ristorante era particolarmente famoso per la sua lepre in salmì
con polenta.
Naturalmente la volli provare.
E così via, ripetendo, tra l’imbarazzata stupefazione generale, parola per parola, esitazioni, virgole ed effetti retorici
compresi, esattamente lo stesso racconto di prima su quella
inarrivabile lepre in salmì con polenta del Cappello d’oro di
Bergamo. Nessuno osava interromperlo, io gongolavo. Arrivò fino in fondo. A quel punto tutti cominciarono a parlare
tra di loro per sciogliere l’imbarazzo, ma Roberto, dopo una
qualche esitazione alzò la voce e ricominciò: Una volta… Ripeté il racconto tale e quale.
Trattenendo a stento le risate, mi alzai, lo raggiunsi e cercai di portarlo via. Ma quanta vodka hai bevuto in quella
cantina?, gli chiesi sghignazzando. Mi avviai, seguito da un
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La panela
Leydi solennissimo che sosteneva un’andatura impettita, alla
Hitchcock. Guarda che io sono perfettamente lucido, mi disse con serissima convinzione; è la glottide che non mi ubbidisce più.
Una volta arrivati in albergo, epicamente inondò il pavimento del bagno di tutta la vodka bevuta la mattina e forse,
chissà, anche dei residui di quella pantagruelica scorpacciata
di lepre in salmì con polenta di qualche anno prima.
Vasta piantagione di canna
da zucchero in Colombia.
Uomini protetti da cappellacci
tagliano la canna.
Liberate dal ciuffo che le
sovrasta, le canne, di un bel
colore rossastro, vengono legate
in fasci che un paio di cavalli
portano alla vicina fattoria.
Là, una rudimentale macchina le stritola e pressa la massa ottenuta fino a farne uscire un ruscelletto di succo, che viene convogliato in recipienti di pietra.
Da quelle vasche, il succo viene versato a secchi in immensi
padelloni. Dopo un po’ comincia a bollire furiosamente e va
acquistando uno spumeggiante, bellissimo colore di oro fuso.
A questo punto, rapidamente perché non caramelli troppo,
lo zucchero liquido, raccolto con enormi ramaioli, viene versato in una canalina che lo conduce a riempire un sistema di
stampi in pietra dentro i quali raffredderà e solidificherà.
Tutti partecipano febbrilmente, vecchi, bambini, donne con
i neonati in braccio. Ne risultano dei lingotti da circa cinque
chili della preziosa panela.
Zucchero puro che sa di sole, di campo, di canna, di lavoro.
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I dolci siciliani
Sarà sciovinismo, ma soltanto
in certe città indiane ho trovato
una pasticceria che possa
rivaleggiare per bontà, ricchezza
e fantasia con la pasticceria
siciliana. Un universo,
per quanto creda di conoscerlo,
che continua a riservarmi
sorprese e piaceri inattesi.
Nelle tante, impossibili fughe che si tentano nella vita, l’azzardo
mi ha portato a innamorarmi della Spagna, e specialmente del
Sud dell’Andalusia, in provincia di Almería, dove da vent’anni
ho una casina. L’incontro non è certo stato casuale. La commistione tra cultura araba e cattolicesimo, così forte in Andalusia
come in Sicilia, mi fa sentire particolarmente a mio agio con la
cadenza culturale di quei paesaggi, della gente, dell’architettura,
in quella luce, con la speciale maniera che ha il mare di essere
mare in quelle aree del Mediterraneo.
Ho parlato di fuga; ché molte sono le ragioni di fuggire
dalla Sicilia. E poi ci si ritrova in un posto che quasi troppo le
assomiglia.
Ma non è certo dai sapori siciliani che sono fuggito, soprattutto da quelli dei dolci. Nella invenzione e preparazione dei
dolci i siciliani sembrano esprimere al massimo grado una sensualità, un calore, una capacità di comprensione e un uso delle
materie prime, una fantasia estetica che riflettono fedelmente
le stupende complessità frutto delle stratificazioni culturali che
nei secoli si sono susseguite in Sicilia. Nel Sud dell’Andalusia,
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Bomboloni, caramelle attìa,
focaccelle, iris fritte
invece, la povertà culturale della pasticceria è affliggente. Ma
com’è possibile?, ho continuato a ripetermi per anni. Anche
qui ci sono stati gli arabi, anche qui ci sono mucche, pecore,
latte, mandorle. Eppure niente. Anche ora che è stata investita
dal turismo, qualunque italiano che si improvvisi mediocre gelataio ha grande successo. Le creme di latte, le ricotte. Niente.
Qualcosa con le mandorle, ma con preparazioni piuttosto grossolane. Se si eccettua qualche monastero di Siviglia, le opportunità di peccare di gola con i dolci scarseggiano davvero.
Arricchendo un poco le mie conoscenze sulle vicende storiche di quelle regioni, mi sono dato un tentativo di spiegazione
che mi piacerebbe approfondire.
In realtà mi pare che, dopo la cacciata degli ebrei e degli
arabi da parte dei reyes católicos, quelle regioni siano entrate in
una sorta di buco nero economico e culturale e vi siano rimaste
secoli. Troppo povere per concedersi fantasie dolciarie. Ma soprattutto, troppo piatta la realtà sociale per suscitarle.
Non che in Sicilia mancasse la miseria. Ma molto forte e
vivace era la presenza nobiliare, soprattutto nelle grandi città.
Le ambizioni cosmopolite di questi nobili, la sontuosa mondanità delle loro feste richiedevano altrettanta sontuosità nella
pasticceria. I conventi delle monache diventarono vere università dei piaceri dolciari. Questa cultura contagiò anche il mondo
contadino, che imparò preparazioni molto sofisticate. Alla fine
del Settecento furono addirittura chiamate in Sicilia famiglie di
pasticcieri svizzeri e austriaci, che a loro volta portarono nuove sapienze e sofisticate innovazioni nell’uso delle magnifiche
materie prime dell’isola. Ne rimangono forti tracce nei nomi di
famose pasticcerie di Catania e Palermo, ancora oggi rinomatissime: Caviezel, Caflisch.
Insomma, quando assaporiamo alcune opere magnifiche
dell’arte dolciaria, senza rendercene conto ripercorriamo attraverso il gusto le vicende grandiose o miserabili della storia.
Ci sono sapori della mia infanzia
che nel ricordo vanno insieme
a sensazioni fisiche
di allegria del corpo.
Nel rievocarli si confondono
con la memoria
di pantaloni corti e corse forsennate.
Come se non fosse possibile
ritrovare quei sapori
senza mescolarli con l’energia infantile
di un corpo che non riusciva
a camminare,
solo a correre.
All’ingresso della scuola, ma di domenica anche in piazza, c’era sempre un banchetto dove si vendevano caramelle di zucchero brune e cilindriche (si chiamavano caramelle attìa, non
so perché), le buonissime meline, caramellate anche queste,
spesso scarlatte, infilzate in stecchi di legno, i bomboloni con
striature di vari colori, dal sapore più terroso di quello delle
caramelle. Sento ancora la crosticina di zucchero che si rompe
sotto i denti prima di raggiungere la polpa succosa della mela.
Ne compravo una e correvo, mi sembra di averle sempre mangiate correndo, verso casa, verso la scuola, verso i giochi.
Il venditore di focaccelle aveva invece un tegamone di alluminio. Le focaccelle erano palline di riso fritte, molto unte,
che prima di mangiarle si facevano rotolare nello zucchero.
Hanno a che fare con le crespelle catanesi, che però si tuffano nel miele. Ce n’erano di tre prezzi, secondo le dimensioni.
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Da cinque, dieci e venti lire. Quelle da venti erano belle grosse. Si potevano comprare a numero, oppure, con dieci lire, si
poteva sfidare la sorte. Il venditore ti dava una forchetta con
due denti soltanto, raddrizzati per giunta, e tu avevi il diritto
di lanciarla nel mucchio delle focaccelle. Tutte quelle che riuscivi a tirare su, con la forchetta rigorosamente in verticale,
erano tue. La forchetta, era molto leggera e unta, le focaccelle
erano scivolose: tirandole su, tendevano a cadere. L’errore
era puntare avidamente sul mucchio delle grosse. Quelle raramente rimanevano infilzate fino all’uscita dal tegamone.
Troppo pesanti. Il segreto era fare dei tiri un po’ sbiechi,
magari cercando di infilzare una focaccella grossa insieme a
una piccola, sotto, che la tenesse. C’erano dei veri virtuosi del
lancio della forchetta sdentata.
Le iris erano fritte o al forno. A me piacevano quelle fritte.
Morbida pasta ripiena di crema di ricotta con pezzetti di cioccolato. Si rotolano nel pan grattato e si friggono. Belle calde
e gonfie, sono meravigliose. Certo, per digerirle è consigliabile lo stomaco dei diciassette anni. Ma è rarissimo, quando
ritorno al mio paese, che io rinunci a mangiarne almeno una
bella grossa.
Al liceo avevamo diritto, alle undici, a un quarto d’ora di
intervallo. Siccome le ragazze non potevano uscire dalla classe, noi ragazzi raccoglievamo le loro ordinazioni e correvamo
al chiosco di don Gino, proprio accanto al liceo. Le iris erano
le più richieste. Ne trovavamo una bella montagna appena
fritte. Una in mano, a mangiarla correndo, un paio in un cartoccio per le compagne che le tiravano su dalla finestra con
un panierino.
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Jerom Ferrante
Nella primavera del 1978
arrivò nel mio ufficio parigino
dell’“Europeo” un plico bizzarro.
Istoriato di colorati
francobolli
e timbri del
Libbiru guvernu di Sicilia.
Il valore dei francobolli
era espresso in tarì,
antica moneta siciliana
che soltanto avevo sentito nominare
in certe filastrocche
della mia infanzia.
Ivu a la fera accattari cuttuni, mi ci mannò lu me patruni, mi ci mannò
cu tri tarì, unu, rui e tri.
Me lo rigiravo in mano, quel plico, divertito e curioso. Che
a mia insaputa ci fosse stata in Sicilia una guerra di indipendenza sfociata in un Libbiru guvernu?
Il contenuto non era meno stupefacente. Fotocopie su fotocopie di documenti, petizioni alla Cee, all’Onu, ai governi di
mezza Europa, riproduzioni di progetti di aeroporti internazionali a Palermo, Licata, Catania, libelli storico-politici sulle
prevaricazioni e rapine subite dalla Sicilia per mano di Garibaldi, dei governi monarchici e repubblicani. Riproduzioni di
tarì cartacei e di tarì in oro, moneta ufficiale. Resoconti sulle
infinite ricchezze dell’isola, dal petrolio all’oro. Il tutto in una
lingua squinternata e ibrida, franco-siculo-italiana. Ogni documento firmato da Jerom Ferrante, portavoce e responsabile
117
del Libbiru guvernu di Sicilia in esilio a Marsiglia. Un meraviglioso delirio che non poteva non farmi venire il desiderio di
incontrare il pirotecnico Jerom. Andai a Marsiglia.
Arrivai la mattina presto. La monumentale e coloniale
scalinata della stazione Saint-Charles cominciava a popolarsi dell’eterogenea umanità di questa molto mediterranea città
di mare. Lì di fronte, al 14 di boulevard Voltaire, dalla bianca terrazza di un piccolo ristorante sentii zampillare le note
scintillanti dell’inno dei Puritani di Vincenzo Bellini: Suoni la
tromba, e intrepido…
Un uomo corpulento, sui sessant’anni, dal volto mite, la
barba di tre giorni, con l’aiuto di un bastone issava su un ferro
una colorata bandiera che subito si mise a sventolare nell’aria
del mattino. È la bandiera blu verde e bianca con al centro le
tre gambe della Trinacria, il sole e la testa del leone. L’uomo
scatta sull’attenti e saluta la bandiera con le tre dita della mano
destra aperte: Viva la Sicilia libbira e indipindenti!
Jerom Ferrante rientra per togliere dal grammofono il disco rigato dai troppi passaggi. La sede del Libbiru Statu di
Sicilia in esilio e il ristorante Etna Mungibeddu che la ospita
sono aperti.
Un’insegna e uno stemma indicano la doppia funzione
dell’edificio, così che a Marsiglia si trova l’unica sede diplomatica d’Europa dove è possibile ordinare un piatto di pasta con
le sarde o le melanzane ripiene.
Questa surreale cerimonia dell’alzabandiera si ripeteva tutte le mattine ormai da molti anni, da quando Jerom si era
persuaso che il Consiglio d’Europa lo aveva autorizzato, con
il protocollo numero 6507/64 del dicembre 1974, ad aprire
una rappresentanza di quel libero governo siciliano di cui lui
si era nominato portavoce. Il ristorante era vuoto. In un angolo, seduto davanti a un lercio tavolino, Jerom Ferrante. Dietro di lui un accatastamento di oggetti da rigattiere siciliano,
bandiere con la Trinacria, carrettini multicolori, marranzani,
piccole ceramiche, manifesti che inneggiavano al Libbiru guvernu, carte geografiche dell’isola, pietre dell’Etna.
All’origine del suo gentile, innocuo, appassionato delirio
c’era quel cornuto del prefetto Mori, mandato dal fascio a perseguitare i galantuomini. Diciottenne, Jerome scappò dal suo
villaggio, Isola delle Femmine, vicino a Palermo, assieme a
uno zio e a sessanta patrioti capitanati da Guido Fortini, figlio
di don Carlo Fortini, grande capo della lotta per l’indipendenza siciliana, per sfuggire alle persecuzioni e cercare in Francia
rifugio e armi per l’insurrezione che avrebbe liberato l’isola
dall’occupazione coloniale degli italici e evitato la guerra.
Da allora erano passati quarantadue anni, ma Jerom Ferrante, detto Mommo – Al municipio avevano scritto Gerolamo, ma mio padre mi chiamava Girolmo, alla francese; per
questo mi firmo Jerom –, non aveva mai rinunciato alla sua
missione redentrice e rivoluzionaria. Un profluvio di appelli
su carta intestata del Libbiru statu cominciarono a partire dal
ristorante all’indirizzo di tutti i capi di stato e di ogni istituzione mondiale riconosciuta.
Aveva persino scritto un libro il portavoce, Sicile droit d’un
peuple, nel quale illustrava a popoli e governi le ragioni storiche della santa battaglia e il programma rivoluzionario che sarebbe stato applicato allo scoppio dell’inevitabile insurrezione
che avrebbe restituito alla Sicilia bella la sua libertà.
Saputo che ero giornalista, e per giunta siciliano, Jerom si
alzò e mi abbracciò con trasporto, commosso. Un paesano,
un fratello. Cominciò a parlarmi in un dialetto palermitano
imbastardito, francesizzato.
La Sicilia, mi spiegò Girolmo, è sempre stata un paese
francofono, per questo i francesi ci appoggiano. In che senso
francofono?, chiesi. Don Jerom si infervorò: “Ma dalla nostra
stessa lingua si capisce. Come diciamo noi per dire che uno
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è vestito trasandato? A sanfasò, diciamo, francese spiccicato,
sans façon. E quando si chiama la contradanza che cosa grida
chi la dirige? Dames et chevaliers, un passu n’arrier. E che cosa c’è
dipinto sui laterali dei nostri belli carretti siciliani? La storia
dei paladini di Francia c’è dipinta, certo non la storia degli
italici. I siciliani hanno accolto Garibaldi perché era francese.
Per questo lo fecero presidente della Sicilia, se no a calci in
culo l’avrebbero cacciato. Tanto è vero che quando a Bronte
gli presentarono la bandiera italiana i contadini si ribellarono.
Che cos’è questa pezza da piedi? Noi vogliamo la nostra bella
bandiera siciliana, la bandiera di Archimede e di Federico ii,
blu come il Mediterraneo, verde come i giardini e le vigne
della Conca d’oro, bianca come la spuma del mare orientale,
col sole a leone cocente e la Trinacria, una gamba per Messina, una per Catania e la terza per Paliermu. Allora arrivò
Nino Bixio e li scannò tutti i contadini di Bronte, questa è
stata l’abilità di quel bel pezzo di eroe. Quando Garibaldi lo
seppe si spaventò tanto che gli si scatenò una diarrea, ma una
diarrea, che finì solo quando finalmente passò dall’altra parte
dello Stretto”.
Allora, don Jerom, dopo la rivoluzione verrà abolito l’italiano, in Sicilia parleremo soltanto siciliano. “Ma quando mai!
Non ci siamo capiti proprio. Loro lo hanno chiamato italiano,
ma in realtà è la lingua che è stata inventata dalla scuola poetica siciliana dove la studiò lo stesso Alighieri d’Etna.”
Alighieri d’Etna?
“E certo! D’Etna, Dante… la stessa cosa è! Poi lui, partendo dalla Sicilia, disse Vado a lavare i panni in Arno, per dire
che andava a insegnare il siciliano agli italici.”
Siamo sicuri, don Jerom, che non ci sbagliamo di secolo
e di persona? “Ma quando mai! Lo so che poi quei cornuti
hanno cercato di cambiare le carte in tavola e la raccontano in
un altro modo. Ma la storia vera questa è.”
E il programma rivoluzionario? Meriterebbe un’approfondita relazione. Ma mi parve che si basasse molto sui traumi
giovanili di Jerom.
Fuori gli italici, ovviamente; prigioni non solo abolite, ma
rase al suolo. Niente tasse fino a un guadagno di sessantamila dollari, proprio
così, espresso in dollari; abolizione degli
esami di riparazione nelle scuole, ché i
ragazzi, con quel sole meraviglioso, si
devono godere l’estate. Giustizia: occhio
per occhio, dente per dente. Rubi un asino?, devi rifondere l’asino. Ammazzi qualcuno?, niente pena
di morte, per carità, ma giudizio di Dio: l’assassino viene condotto in nave a metà strada tra la Sicilia e l’Africa e gettato a
mare. Se si salva, meglio per lui.
Le peripezie che portarono lo zio a farsi una nuova vita a
Marsiglia devono essere state complicate e dolorose. Finché non
aprirono il ristorante Etna Mungibeddu, aiutati da una mezza
parente, naturalmente siciliana, che si improvvisò cuoca.
Il rancore e la nostalgia di cui era avvelenato lo zio – un
sentimento della Sicilia come terra di latte e di miele, di fuoco e di ricchezza rubata, di uomini umiliati e spogliati della
dignità – finirono per invadere la coscienza e l’immaginario
del ragazzo Jerom, che forse era sempre stato un po’ strambo
e fragile di cervello, e per questo lo zio se l’era portato dietro. Morto lo zio, Jerom decise di fondare il Libbiru guvernu,
avamposto in esilio dell’inevitabile riconquista, della certissima liberazione.
Governo riconosciuto da tutte le grandi istituzioni internazionali e da almeno venti governi, che godeva della benevolenza di Chirac, mi confermò Ferrante, mostrandomi come
prove orgogliose le ricevute di ritorno delle raccomandate che
da anni spediva a chiunque gli passasse per la testa – governi,
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banche, persone di cui leggeva il nome sui giornali o che sentiva nominare alla televisione. Tutti solidali, come inconfutabilmente provavano quelle ricevute di ritorno.
Torna questa sera, mi disse, ti invito a cena e ti presento
alcuni dei tanti amici con i quali stiamo preparando l’esercito
di liberazione della Sicilia. Tornai. C’erano molti avventori.
Altri ne entravano e tutti salutavano trinacriamente. A un
tavolo abbastanza grande, un gruppo di persone di diverse età alle quali fui presentato. Da quel tavolo sorgeva una
conversazione in una lingua dolce, intricata e zoppicante,
misteriosa. Vi si parlava di un’isola bella, benedetta dal cielo, circondata da un mare più azzurro, illuminata da un sole
più caldo, ridente di giardini, ricca di petrolio, zampillante di
pure acque e di ogni ben di Dio.
Eldorado perduto, irraggiungibile terra promessa.
Che si mangia? Qui abbiamo solo specialità della nostra
terra: sarde a beccafico, melanzane ammuttunate, pasta coi
broccoli arriminati, pasta con le sarde, naturalmente, panelle, rascature e tutto quello che di siciliano si può immaginare.
A mano a mano che le pietanze arrivavano fiorivano i commenti, secondo un rito che conosco benissimo. C’è meglio
degli ziti col sucu fatto con le cotenne e la salsiccia con i semi
di finocchio? Buone queste sarde. In questa stagione sono
buone per i beccafico; per la pasta, invece, sono un po’ troppo grasse. Buona ’sta ricotta, chi te la porta? C’è un pecoraro siciliano che ha la mandria vicino a Marsiglia e me la fa
portare dal figlio. La parola Sicilia ritornava continuamente,
come un talismano o un tormentone da blues.
Il cibo dava corpo alla nostalgia e al viaggio dentro una
favola struggente.
Ma chi erano quei personaggi? Cominciai a interrogarli.
E rimasi stupefatto. La maggior parte erano figli di siciliani
emigrati in Egitto, Tunisia, Algeria le cui famiglie, cacciate via
dai nuovi governi indipendenti, si erano rifugiate in Francia.
Ma c’erano anche arabi, immigrati clandestini per la maggior
parte, indistinguibili dagli altri figli di siciliani, che si erano
aggregati alla ricerca di una comunità. La cosa più incredibile
era che nessuno di loro era nato in Sicilia, nessuno
c’era mai stato. Neanche Jerom Ferrante vi era più
ritornato, dopo la fuga con lo zio.
Preferivano non mettere alla prova della realtà il
sogno, la nostalgia dell’isola Eden, ricolma di tutti i
doni che la natura le aveva concesso.
Tanto se la sentivano in bocca, nella memoria, quella terra, attraverso i sapori delle pietanze
dell’infanzia che già con nostalgia cucinavano le
loro mamme.
Ma per gli immigrati c’era anche un’altra ragione. Jerom, in quanto portavoce e responsabile del Libbiru guvernu di Sicilia in esilio, oltre a coniare moneta e a stampare
marche da bollo e francobolli, rilasciava documenti di identità. Ne fece uno anche a me la mattina seguente. Quattro
fotografie fatte alla photomaton della stazione, una bella carta
piena di marche da bollo e di timbri a secco e a inchiostro, e le
canoniche firme. Una copia rimaneva in sede, un’altra veniva
data al cittadino, una, sempre con la sua bella raccomandata
con ricevuta di ritorno, veniva spedita alla sede della Comunità europea e l’ultima al comune di origine.
Non ho mai visto niente di più autentico.
Parecchi immigrati clandestini vivevano da anni tranquilli
grazie a quel documento di identità che mai aveva suscitato perplessità o sospetti nei poliziotti che lo controllavano.
Qualcuno ci viaggiava anche all’estero.
La cena andava per le lunghe, si era fatto tardi. Gli altri
avventori erano andati via. I miei commensali uscirono e io
con loro.
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Il cibo condiviso con gli animali
Jerom mise sul piatto del giradischi il vecchio settantotto giri da cui si levarono, gracchianti e commoventi, le note
dell’inno dei Puritani.
Tutti sull’attenti a salutare col braccio teso e le tre dita
aperte, tre, come le gambe della Trinacria, mentre Jerom ammainava la bandiera del Libbiru guvernu.
Alzo le tre dita e saluto anch’io: Viva il libbiru guvernu di
Sicilia!
Da bambino, al paese,
gli animali facevano parte
della vita di ogni giorno.
C’erano forse
più animali che persone.
Aiutavano gli uomini nel
loro lavoro,
quando non
erano essi stessi il lavoro.
I vaccari, i pecorai, gli allevatori di conigli, maiali, tacchini, galline. I cavalli dei carrettieri, i muli e gli asini dei contadini e
degli artigiani, per andare in campagna, tirare gli aratri, fare i
trasporti in paese.
C’erano anche animali in casa, ma, a parte gli uccellini nelle
gabbie, che offrivano danze colorate, musica e leggiadria, gli
altri animali erano tutti funzionali alla vita. Le galline per la
loro carne e le uova, i cani e i furetti per la caccia e la guardiania, i gatti per i topi di casa e di strada, che erano numerosi e
pericolosi per i neonati e per le malattie che portavano, gli asini,
i muli e i cavalli per tirare i carretti e trasportare uomini e cose.
Lavoravano anche loro.
L’asino del mio vicino bracciante viveva nella stessa stanza
in cui lui viveva con la moglie e i figli. Si pensava al proprio cibo
come si pensava a quello per gli animali di casa e di bottega.
Si preparava il pastone per le galline e si andava a comprare la
paglia e il fieno fresco, di stagione, per gli asini e i cavalli.
Mi ricordo che arrivava nella stalla di mio nonno ancora
ricco di fiori rossi.
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Bocuse
I cani e i gatti mangiavano i resti della cucina della famiglia. La quantità di pasta da mettere in pentola mia madre la
calcolava tenendo conto del gatto e del cane, se non c’erano
ossa o resche di pesce che la sostituissero: tre quarti di chilo
con tutto il gatto.
Non esistevano certo i cibi speciali e costosi per animali
che oggi andiamo a comprare nei supermercati. A mio nonno
di certo sarebbe sembrato uno spreco, una perdita di sobria
frugalità del mondo, e se ne sarebbe scandalizzato.
Io, invece, non posso impedirmi di pensare che questo
consumismo è segno di finto rispetto, di finto affetto. È in
effetti una facilità, un fare a meno di occuparsi davvero dei
nostri animali. Far mangiare a loro il nostro stesso cibo, quello era il vero segno di condivisione della nostra vita con gli
animali di casa.
Giscard d’Estaing
aveva affidato a Paul Bocuse
la preparazione
del pranzo di gala
per la sua elezione a
presidente della Repubblica
francese.
Era un gesto simbolico di riconoscimento ufficiale, di Stato,
della Nouvelle cuisine e del suo profeta.
Il menu fu riportato dai media di tutto il mondo. Bocuse
diventò di colpo il cuoco più famoso del pianeta.
Gli chiesi un’intervista e andai a Lione.
Mi fu riservato il trattamento mediatico completo. Il suo
libro manifesto si chiamava La cuisine du marché. Quindi, sveglia alle cinque, Bocuse mi prelevò in albergo perché potessi
accompagnarlo nel suo giro d’acquisti ai meravigliosi mercati
generali. Gran spettacolo d’attore, pacche sulle spalle, strette di
mano, ognuno gli offriva il meglio della propria mercanzia e lui
indicava le quantità, comprando senza mai discutere il prezzo.
Dubito assai che facesse questo giro tutte le mattine, ma quel
giorno c’era un giornalista.
A fine giro, verso le sette e mezzo, mi portò al bistrò del
mercato. Tra effluvi simenoniani di café crème e calvados, un
altro inatteso spettacolo. Quel bistrò sembrava un firmamento dell’alta cucina lionese, tanti erano i cuochi carichi di stelle
Michelin presenti: lo chef di La mère Denis, quello del Léon de
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Lyon e di parecchi altri prestigiosi ristoranti. Tutti insieme intorno a un lungo tavolo. Battute, risate, scambi di informazioni.
Dalla cucina arrivò un monumentale pot-au-feu. Mettendo da
parte raffinatezze e teorie rivoluzionarie, tutti si gettarono con
entusiasmo su quel classico, tradizionalissimo bollito.
In serata giro al ristorante, il cui maître era italiano, e visita
alla impressionante collezione di macchine da musica meccaniche che Bocuse raccoglie da anni.
Naturalmente fui invitato a cena. Un vero regalo. Il menu
prevedeva alcuni dei piatti serviti alla cena presidenziale, compresa la celebre truite en croûte.
A una certa ora Bocuse, in divisa e con il cappello bianco d’ordinanza, fece un giro tra i tavoli, salutò tutti, con tutti
scambiando una battuta, raccolse complimenti, insomma, fece
la passerella.
“Epoca”, a incontrare Bocuse. Immagino che avesse avuto
un’accoglienza ancora più generosa di quella che era stata
riservata a me. Nel suo articolo, Soldati scrisse: Credo che
avesse ragione Scianna, quella zuppa sarebbe molto più interessante con i tartufi bianchi.
Vendetta piemontese.
Di quell’incontro lionese ricordo con
piacere una bellissima risposta di Bocuse.
Gli chiesi quale fosse il pasto migliore che
ricordava di aver fatto nella sua vita. C’era
la guerra, mi disse, eravamo in campagna.
Una sera arrivò un amico con un introvabile e preziosissimo
salame. Indimenticabile.
L’indomani mattina, intervista. Brillante, facondo, simpatico. Alla fine mi chiese se avevo apprezzato la cena. Naturalmente mi profusi in entusiastici complimenti. Ah, quella trota
en croûte. Ah, quella splendida soupe di fagiolini aux truffes.
E fu a questo punto che feci la gaffe.
Mi chiedevo, osai dire, come sarebbe quella soupe con i tartufi bianchi invece che con i neri. Non l’avessi mai detto! La
truffe blanche, commentò gelido Bocuse, une patate.
Mi parve eccessivo, e siccome non era pensabile che non
conoscesse i tartufi bianchi, commentai che mi sembrava una
dichiarazione piuttosto sciovinista.
Les italiens, concluse sarcastico e più sciovinista che mai il
grande cuoco: grandi gelatai.
Raccontai questo battibecco nella mia intervista pubblicata sull’“Europeo” e qualche mese dopo, inattesa, mi arrivò
una grande soddisfazione. Mario Soldati andò anche lui, per
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Tre mazzi
C’erano due bambini.
Uno era molto povero,
l’altro molto ricco.
Giocavano insieme, ma
il bambino ricco
prendeva gusto
a umiliare
il bambino povero.
Che cosa hai mangiato?, gli chiedeva quasi ogni giorno.
E il bambino povero rispondeva: Cicoria.
Io, diceva il bambino ricco, ho mangiato rotolo di carne
ripieno e poi un dolce.
E l’indomani: Che cosa hai mangiato?
Indivia, rispondeva il povero, la cui dieta era quasi esclusivamente composta da verdure selvatiche che la madre raccoglieva all’alba per venderle in paese, casa per casa.
Io, diceva il bambino ricco, ho mangiato pollo arrosto.
La cosa durò molto tempo. Il bambino povero ne soffriva.
Ne parlò con la madre.
Tu fai così, gli disse lei: domani, quando te lo chiede, rispondi che hai mangiato filetto.
Il giorno dopo il bambino ricco ricominciò: Io ieri ho
mangiato aragosta, e tu che cosa hai mangiato?
Ho mangiato filetto, rispose pronto il bambino povero.
Davvero?, commentò il bambino ricco, e quanto ne hai
mangiato?
Il bambino povero esitò, e poi con sicurezza disse: Tre mazzi.
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L’anatra di Parigi, il pane dello Yemen,
il pesce sul giornale
Non disdegno di certo
i ristoranti prestigiosi.
Specialmente
quelli di grande tradizione.
Mi picco persino
di saper apprezzare
le raffinatezze
che qualche
volta offrono.
Ma soprattutto mi affascina e mi diverte la liturgia del mangiare. Le luci, gli ambienti. Moltissimo anche i costumi codificati
dei maître e dei camerieri, le rigorose gerarchie dei ruoli. Non
posso nascondere che il mio sguardo è sempre impastato di
una certa ironia.
Mi è capitato un paio di volte di mangiare in uno di quei
ristoranti francesi che servono anatre numerate, a partire da
una qualche data di un qualche ipotetico Settecento.
Arriva, accompagnata da due giovanotti che spingono un
carrello immacolato, dal primo cameriere e dal maître in frac,
la canonica anatra, coperta dalla sua inevitabile cupola d’argento. Il maître scoperchia lentamente e il capolavoro si concede
nella sua bruna bellezza diffondendo perfetti profumi. Il primo
cameriere si avvicina con i suoi scintillanti strumenti e aggredisce teatralmente la crosta dorata del nobile animale. Al primo
infausto colpo uno schizzo di sugo fuoriesce dall’incisione.
Il maître ha un trasalimento come se quella coltellata avesse lacerato il suo, di costato. Con un balzo si avvicina, S’il
vous plaît!, esclama togliendo d’autorità le posate dalle mani del
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I gelsi neri
cameriere. Assistiamo dal vivo a un’impressionante operazione di altissima classe gastronomica, degna, per precisione e
sicurezza, dell’intervento di un grande chirurgo che si addentra con raffinatissimi bisturi nei meandri di un cervello umano. Distribuite le porzioni ai commensali, dell’animale non
rimane che la carcassa intera, perfettamente scarnificata. Sono
tentato di tributare un applauso scrosciante. Al cameriere, il
maître non lascia che l’umile compito di trasferire quello scheletro nella acconcia macchina che lo schiaccia fino a distillarne i meravigliosi succhi, destinati ad arricchire le delicate,
profumate carni del pregiato gallinaceo.
Bella esperienza e gratificante ricordo.
E però non più gratificante, nella mia memoria, di uno
splendido pesce del Mar Rosso mangiato in Yemen in una
stamberga con griglia per arrostire. Il pane, preparato all’istante attaccando la pasta sulla parete di un forno a pozzetto dal quale veniva staccato al formarsi delle prime bolle di
cottura. Siccome ero straniero, sul nudo legno del tavolone al
quale mi ero seduto fu steso in funzione di ecologico piatto
uno stropicciato foglio di giornale.
Niente posate, naturalmente, ma il pesce e il pane erano
memorabili.
Di poche cose ero più ghiotto
da bambino,
come oggi continuo a esserlo,
che dei gelsi neri.
In estate,
per le strade del paese
passava il venditore ambulante
e lanciava il suo grido meraviglioso:
A ’st’ura v’arrifriscanu!
Avevano fama di essere altamente rinfrescanti i gelsi neri,
specialmente se consumati di prima mattina. Ma non era certo per passione salutistica che io mi precipitavo da mia madre
ad avvertirla che passava il venditore con i suoi panieri foderati da fragranti foglie di fico. Veniva chiamato e versava nel
piatto quella meraviglia di squisiti gelsi che già sanguinavano
di succulenti umori. Attento, raccomandava mia madre, ché
le macchie non si tolgono. Bisogna strofinargli sopra more
verdi perché vengano via, e dove le troviamo le more verdi?
Ma a me piaceva prenderli con le mani, le dita rimanevano
squisitamente macchiate di rosso per giorni e io continuavo a
succhiarmele illudendomi di sentire ancora il sapore.
Un nostro vicino di campagna aveva, da me invidiatissimo, un gigantesco, o così nell’invidia mi sembrava, albero di
gelsi neri. Ogni tanto arrivava il sospirato invito ad andarne
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Il cibo votivo
a cogliere. Era un rito. Mia madre mi faceva indossare la più
vecchia e malandata canottiera di cui disponeva, venivo munito di panierino e mi avviavo ad arrampicarmi sull’albero
delle meraviglie. Ci passavo la mattina. Il panierino non lo
riportavo mai pieno, ma la pancia rischiava di esplodermi. Al
ritorno, immancabilmente venivo accolto da finti rimproveri
scandalizzati. Ma guarda come ti sei ridotto, un santo Lazzaro! Che in effetti, non solo la canottiera, ma il corpo intero era
completamente e deliziosamente insanguinato. Ci volevano
grandi strigliate per farmi tornare presentabile.
A proposito, la granita di gelsi neri, fatta come Dio comanda è, giuro, la più sublime che si possa desiderare. Fatta
eccezione per le altre, si capisce.
Nella memoria di un bambino non credo ci sia niente di
paragonabile a queste scorpacciate di frutta arrampicati sugli
alberi.
Su un grande fico che torreggiava in mezzo al limoneto, in
agosto praticamente ci abitavo e ricordo ancora con delizia la
sensazione di bruciore che mi lasciava sulla pelle il latticello
dei frutti e delle foglie. E che dire di quelle perine piccole,
dalle guancette rosse, così succulente se consumate direttamente dal ramo? Il guaio è che la memoria di queste meraviglie gioca qualche volta brutti scherzi. Non sono molti anni
che trovandomi davanti a un irresistibile albero di fico carico
di frutti maturi con la camicetta sfardata, cioè con la pelle un
po’ crepata dal gonfiore della maturazione, detto fatto, pur
con qualche sforzo, volli salirci sopra a rinnovare gli antichi
fasti. Purtroppo l’albero non si dimostrò tollerante del mio
greve peso come il gelso lo era stato di quello lieve della mia
infanzia. È successo quello che doveva succedere.
Son caduto giù dal fico.
Ovunque nel mondo,
il cibo accompagna i riti religiosi
del popolo.
A conferma che tra gli umili
e i poveri
il sentimento religioso
poco ha a che fare con finezze
teologiche e metafisiche
e molto con la durezza
della lotta quotidiana
e collettiva per la vita
e con l’incombere
della morte.
Il cibo è stare insieme, esorcizzare la paura della fame, condividere con gli altri, compresi santi e dèi, fare offerte, impetrare aiuto.
Numerosissimi gli esempi che si affacciano alla memoria
della mia infanzia e in viaggi per il mondo.
Con grande anticipo, in vista della Settimana santa i bambini in Sicilia preparano i laureddi. Si semina del grano in vasi
e lo si fa germogliare al buio. Ne vengono fuori piccoli boschi di steli di un delicato colore gialloverde, che decorati con
nastri variopinti vanno poi ad adornare, il Giovedì santo, la
prigione di Gesù. La rendono meno triste quella prigione, ma
soprattutto l’offerta in modo trasparente allude all’augurio di
un buon raccolto, all’attesa della trionfante resurrezione pasquale, annuncio della primavera che risveglia la terra e prepara i suoi frutti.
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Assai simili sono le offerte preparate per il grande pellegrinaggio primaverile nell’isola di Bali. Anche lì grano pallido,
frutti, cibi portati sulla sommità del capo da donne vestite a
festa, in fila indiana sulle impervie scalinate dei templi.
A Racalmuto, per la festa della Madonna del Monte gli
uomini salgono di corsa, in groppa a muli o cavalli, la ripida
scala fin dentro la chiesa, dove offrono sacchetti di grano
alla Madonna. Le donne, a piedi, i candidi sacchi sui quali è
cucita un’immagine sacra, li portano, come a Bali, in equilibrio sulla testa, in pellegrinaggio alla Vergine madre.
Nella processione del Venerdì santo di Collesano ognuno degli incappucciati confratelli porta un simbolo, il sole,
la luna, i tre chiodi della croce, la scala, la borsa dei trenta
denari di Giuda, tutti facilmente decifrabili. Ma ce n’è uno,
particolarmente suggestivo, di cui ignoro il significato: un’arancia, trafitta da un coltello.
In casa, per Pasqua, si preparano i pupi con l’uovo. Pasta
dolce farcita di uova intere complete di guscio. Si abbozzano
canestri, cuori, che poi si scambiano con i fidanzati, floride
fanciulle che sempre suscitano risate maliziose a causa delle
uova che le dotano di iperboliche tette. Tutto decorato di
barocchi fili d’argento, di glassa bianca, di palline colorate.
Ma soprattutto, le pasticcerie si riempiono di agnelli di
pasta di mandorle. Tutte le famiglie, ma proprio tutte, per
il pranzo pasquale ne mettono a tavola uno. Ce ne sono di
piccolissimi e poverissimi, ma anche di sontuosi e monumentali. Si può dire che ciascuna provincia, ciascun paese, lo faccia in modo diverso l’agnello pasquale. Soprattutto cambiano le farciture, dove prevalgono la marmellata di
cedro, la pasta di pistacchio e la zuccata, ma anche vari tipi
di confettura, cannella, pezzetti di cioccolato, secondo la
fantasia e la tradizione del luogo e del singolo pasticciere.
Molto diverse sono anche le forme: innanzitutto ce n’è di
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curcati, cioè sdraiati, e di assittati, cioè seduti. Poi, alcuni sono
lavorati con grandissima arte, secondo la tradizione che fa
pensare ai Matera e ai grandi scultori di figure da presepe del
Settecento napoletano, mentre altri sono solo grossolanamente abbozzati. Ma è la decorazione che la fa da padrona,
a cominciare dai cestini variamente intrecciati, a simulare
recinti, dentro cui sono presentati, per continuare con i confetti dorati o argentati, i cioccolatini, i nastri, le rose scarlatte di sfoglia d’ostia. E su ciascuno, infilzato nella tenera
pasta, un rosso stendardo.
A volte sono così belli che piange il cuore a rovinarli per
mangiarli. Come il bel paladino a cavallo – a mia sorella toccava di solito una ballerina – di zucchero colorato che ricevevo in regalo per la festa dei Morti. Lo rompevo a pezzettini, a poco a poco, da dietro, in modo che frontalmente non
se ne vedesse l’inesorabile erosione. Quanto più era bello,
tanto più cercavo di farlo durare. Finché qualche settimana
dopo il nobile paladino, a forza di essere sistematicamente
sbrecciato e sgranocchiato, non stava più in piedi, crollava, e
con mio grande sollievo gli si poteva dare il colpo di grazia.
I pupi di zucchero li ho trovati anche in Messico, l’unico
altro paese al mondo dove il 2 di novembre è anche grande e
felice festa di bambini e di dolci. Là soprattutto prevalgono
teschi e ossa di morti, che ci sono anche in Sicilia. Non c’è
niente di triste in tutto questo. Anzi, credo sia un modo di
fare uno sberleffo alla morte e di sottolineare una saggia
continuità con quanti ci hanno preceduto e che raggiungeremo. Da noi, persino le castagne secche, gialle e rugose, sono
chiamate cruzziteddi, teschiolini.
Cruzziteddi allessi, teschiolini bolliti.
A Kami, sulle Ande boliviane, ho visto molte volte frotte
di persone, amici e familiari andare a consumare cibi speciali
al cimitero, sulle tombe dei loro cari. Una piccola festa tra le
croci. Di ogni cibo, una porzione va al morto. A ogni giro di
bevute di chicha, bevanda fermentata della quale gli uomini
sono quasi in permanenza ubriachi, una bella dose viene versata sulla tomba perché il congiunto beva insieme a loro.
In Sicilia per i morti ci sono anche i mostaccioli
e la sussa di miele – una sorta di pan pepato che
sa di cannella e chiodi di garofano –, nel Siracusano i tenerissimi totò. Ma è anche l’occasione
per fare i buccellati, le ruote barocche ripiene di
fichi secchi, messi ad asciugare in agosto, noci,
mandorle, pistacchi.
L’11 novembre non possono mancare i biscotti di San Martino, appunto, che non ho mai
amato, duri, un po’ terrosi, sanno vagamente di
anice. Li sopporto solo se intinti in mosto di
vino, che è peraltro il modo canonico di consumarli.
A carnevale le sfince, le zeppole, naturalmente, come in tutta Italia. A Mamoiada, in Sardegna, per la festa di Sant’Antonio, nella città rosseggiante di fiamme e assordata dai campanacci dei Mamuthones le donne offrono ai ballerini che
intorno ai fuochi ritmano in cerchio la loro monotona danza
e a tutti i passanti vassoi colmi di dolcetti ripieni istoriati di
cabalistiche decorazioni.
Ma la festa che da bambino amavo di più per le sue promesse gastronomiche era Santa Lucia, il 13 dicembre. Già
almeno una settimana prima cominciavamo a fremere.
Tra pochi giorni è Santa Lucia, bisogna pensare alla cuccìa.
Si racconta che in tempi antichi, di non precisata antichità, vi fu in Sicilia una terribile, lunghissima carestia. Uomini, donne, bambini, animali morirono a migliaia, di fame
e delle malattie che la denutrizione provocava. Finalmente,
dopo mesi e mesi di disperazione e devastazione, nel giorno
di Santa Lucia arrivarono al porto di Palermo miracolose
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navi a portare l’agognato grano. Il grano cominciò a essere
distribuito, ma l’attesa sarebbe stata troppo lunga per andare ai mulini, macinarlo quel grano, ridurlo in farina e poi
impastarla e infornarla per farne pane. Troppo impellente
e terribile la fame. Allora si decise di bollirlo e di
mangiarlo subito.
Questo è la cuccìa, grano bollito. Lo stesso che
si usa a Napoli per la pastiera.
A Santa Lucia, per ricordare quel fausto giorno, non si mangia pasta né pane.
Quanto a risparmio di tempo, è da vedere.
Perché riesca bene, il grano, bel grano grosso, va
messo a bagno almeno quarantott’ore prima. E
poi bollito a lungo, circa quattro ore, finché rilascia abbondante amido. Una volta pronta la cuccìa,
la fantasia si sbizzarrisce. Per essere la ricorrenza di una
scampata morte da fame, bisogna riconoscere che le lussuose varianti sono davvero numerose.
Si va dalla preparazione minimalista, quella preferita da
mio nonno, appena condita con un filo d’olio e un po’ di
pepe, alle più lussuose ed elaborate. La si può mescolare a
zucchero e latte. Si può annegare in budini di latte o cioccolato. In creme di ricotta. La si può condire con il miele.
Insomma, esistono mille varianti succulente. Dovunque io
sia vissuto e viva, il giorno di Santa Lucia non è per me concepibile se non mi preparo una bella cuccìa.
Ma non c’è solo quella. Purché non ci sia pane o pasta,
tutto è consentito. Inevitabili sono le scorpacciate di panelle
e panelle. Ossia sandwich di caldissime panelle fritte tra due
panelle crude. Ma soprattutto gli arancini. Il giorno di Santa
Lucia è in ogni famiglia il trionfo degli arancini. Le mitiche
palle di riso ripiene di ragù di cui in ogni casa si segue una
ricetta diversa, quasi tutte sublimi. Lasciatemelo dire.
A Palermo c’è una friggitoria dove preparano degli arancini da almeno mezzo chilo che costituiscono, io penso, l’arma risolutiva per sconfiggere ogni eventuale carestia e fame
presente e da venire.
Per anni, tornando in Sicilia in treno, durante la traversata in traghetto, il rito di riappropriazione identitaria era andare sul ponte, comprare un arancino al bar e mangiarselo,
ancora assonnati, appoggiati al parapetto, mentre la Sicilia
si andava avvicinando, favolosamente avvolta nelle dorate
luci dell’alba.
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I sapori mai provati
Almeno fino agli anni
cinquanta, l’universo
del cibo in Italia era quello
che oggi si chiamerebbe
a chilometro zero.
Nei paesi,
soprattutto al Sud,
la vita era ancora immersa
nella cultura contadina.
I cibi arrivavano dalla campagna e dagli allevamenti che circondavano i paesi, se non direttamente dall’orto e dal pollaio
di casa. Oggi, che non si sa più da dove arrivano i cibi che si
comprano al supermercato e può anche capitare di trovare
arance spagnole persino a Catania, lo si ricorda con rimpianto. Ma quell’epoca forse è stata un po’ mitizzata anche a forza
di piuttosto stucchevole nostalgia alla Citati per quei pomodori da giardino dell’Eden. Si dimentica che, per quanto fossimo molti di meno, di tantissimi cibi, se non di pomodori,
c’era penuria, e la parola fame non aveva ancora perduto nel
mondo contadino il suo duro peso di concreta esperienza,
per acquistare il valore di semplice metafora che fortunatamente ha oggi.
Ma anche se non tutti soffrivano la penuria, è vero che il
numero dei cibi di cui si poteva avere esperienza era piuttosto
limitato. O perché prodotti in luoghi lontani da quelli in cui
si viveva, o perché potevano permetterseli soltanto i ricchi.
Non dico la banalissima banana, che mi veniva comprata
solo nei giorni di convalescenza da qualche sfibrante febbre.
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(La propaganda fascista negli anni della breve avventura coloniale pretendeva che una banana avesse la sostanza di due
uova.) Penso a cibi mitici e lontani come il salmone, il tartufo, il caviale, il foie gras, che non solo non avevamo mai visto
né assaggiato, ma che nella fantasia collettiva erano soltanto
suoni letterari che accompagnavano scene di sontuosi ricevimenti in scintillanti palazzi dove danzavano donne bellissime
in abiti lunghi e spalle nude e si brindava a champagne, anche
quello mai visto né assaggiato. Ricchezza e peccato, insomma,
inaccessibili.
Penso anche a oggi trivialissimi condimenti: la maionese,
per esempio, chi l’aveva mai vista? Non altrettanto mitica del
caviale da Vedova allegra, certo, ma che a me evocava immagini
di borghesia agiata, dai costumi e gusti anche quelli, se non altrettanto soffusi di leggenda, comunque altrettanto sconosciuti.
Me lo ricordo, il mio primo incontro con la maionese.
In prima media, tra i miei compagni c’era anche uno dei
rampolli di un piccolo industriale della pasta di Santa Flavia,
un paese vicino dove ogni mese andavo a comprare la pasta
nei bei pacchi da cinque chili di carta blu insieme a mio nonno, con l’asino e il carretto. Quel bambino e io diventammo
amici. Una volta mi invitò a pranzo a casa sua e andai con lui,
nella macchina con autista che tutti i giorni lo portava a scuola e tornava a riprenderlo. Casa impressionante, con stanze
grandi, piene di quegli oggetti bellissimi e inutili che per me
erano il segno della ricchezza.
Ci sedemmo a tavola, grande, ovale, il padre a capotavola, stoviglie di porcellana antica decorate con fiori bellissimi.
Ci serviva un cameriere col gilet di rigatino. Io ero terrorizzato all’idea di usare le posate sbagliate e di come le impugnavo
e appoggiavo sul piatto. Una volta già, qualche anno prima,
ospiti del padrone del magazzino di tessuti dove lavorava mio
padre, un altro cameriere mi aveva portato via da sotto il naso
un piatto di pasta buonissima che avevo appena cominciato
perché, pare, avevo appoggiato la forchetta in modo sbagliato, un modo che voleva dire, e che ne sapevo io?, che non ne
volevo più. Ma quando mai! Io ne volevo ancora, eccome!
Una pasta buonissima anche questa volta, con un saporito
ragù, diverso da quello che preparava mia madre. Più fine,
pensai. Poi arrivò, e fu messo trionfalmente in centro alla
tavola, un enorme merluzzo lesso, circondato da fettine di
limone e ciuffetti di prezzemolo. Nel nostro codice familiare
merluzzo lesso voleva dire insipida convalescenza, ché altrimenti si fa alla matalotta, con aglio e pomodoro. Quello, però,
era proprio bellissimo da guardare. Il cameriere me ne diede
una porzione abbondante e mentre aspettavo – mia madre
mi aveva raccomandato di cominciare a mangiare dopo tutti
gli altri – ripassò con un curioso recipiente allungato pieno di
una crema giallastra dall’aria equivoca. Assomigliava precisa
alla cacchetta della mia sorellina. Mi urgeva di servirmene,
e siccome esitavo me ne schiaffò una grande cucchiaiata accanto al merluzzo. Ero molto inquieto. Cominciai a mangiare
il pesce facendo grande attenzione a non contaminarlo con
quella crema sospetta. Ma non riuscii a scamparla. La mamma del mio amico, che seguiva ogni mio movimento con sollecitudine, mi chiese perché non mangiavo la maionese. Ecco
che cos’era! E mi invitò a provarla dicendo che Maria – la
cuoca, immagino – la preparava con le uova freschissime del
loro pollaio e i limoni del giardino.
Chilometro zero anche quella.
La provai, con minimalista circospezione. Mentirei se dicessi che mi entusiasmò.
Insomma, la nostra generazione ha assaggiato per prima i
sapori di quei cibi leggendari. Perché abbiamo cominciato a
viaggiare, sia noi che i cibi, perché abbiamo potuto permetterceli. Direi anzi che negli ultimi anni le cose sono girate
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Il rito dei tagliarini
in modo che i prezzi hanno di nuovo allontanato dai nostri
palati certi cibi: il caviale, per esempio. In ogni caso, i loro
nomi e i loro sapori si sono separati dal mito di lusso peccaminoso al quale li avevamo associati. Ricordo quando, eravamo nel 1968, offrii ai miei genitori, che per la prima volta
erano venuti a trovarmi a Milano, del salmone affumicato.
Mio padre mostrò di apprezzarlo, mia madre invece confessò
che secondo lei una buona aringa affumicata, con l’uovo, da
fare in insalata con le prime arance acidule di ottobre, era
molto più saporita. Mio padre la trattò da contadina dai gusti
rozzi. Questo salmone, disse, è cosa molto più fine. Del resto, aggiunse, sono sicuro che costa molto di più dell’aringa.
Quanto?
Io tergiversavo. Insistette. Glielo dissi. Smise subito di
mangiarlo.
E tu cretino che butti via i soldi così!, fu il suo commento.
Poco tempo dopo la morte del
padre, di poco sopravvissuto,
vecchio e solo,
alla scomparsa della moglie,
il mio amico Marcello
prima di chiudere la casa dei
suoi genitori
mi invitò a prendere
quello che poteva servirmi.
Uscivo da una vita verso una nuova. Feci un mezzo trasloco.
Ancora oggi, trent’anni dopo, se qualche residuo bicchiere si
rompe la cosa mi dà pena pensando che magari era quanto
rimaneva di un regalo di nozze dei genitori del mio amico, ora
morto anche lui. Tra le cose che avevo scelto c’era una tavola
di legno chiaro, stanca per l’uso, un poco incavata al centro,
pallida per i residui di farina che la incipriavano. Il mio amico
mi disse che su quella tavola, il tagliere, per cinquant’anni, o
almeno da quando lui poteva ricordare, la sua mamma romagnola ogni giorno della sua vita aveva mescolato farina e uova
per fare la pasta. Le mani di sua madre avevano incavato il
legno come nei secoli le labbra dei pellegrini il marmo del ginocchio della statua a Santiago de Compostela. Quell’oggetto
così vissuto, come si dice, mi commosse.
Fotografo di irritante sentimentalismo, sono spesso commosso dagli oggetti dove sono impresse tracce di vita, di lavoro, di fatica. Ho a casa un tavolo dove rimangono alcune
forti bruciature da ferro da stiro dimenticato da chissà quale
stiratrice di chissà quale paese in chissà quale tempo.
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Quelle bruciature ne avvilivano il prezzo, ma io l’ho comprato proprio perché quelle bruciature mi avevano attratto.
Il tagliere di quella signora romagnola non è mai arrivato a
casa mia. Si è perso per strada. Forse era piaciuto anche al trasportatore. Non so. Forse non aveva voluto essere museificato
in casa d’altri e aveva deciso di raggiungere la sua padrona.
Ma il mio interesse era scattato soprattutto a causa del fatto
che una spianatoia simile, sulla quale impastavano mia madre
e mia nonna, io me la ricordo. Si chiamava scanaturi, ma non
aveva affatto un uso quotidiano. Lo aveva avuto, mi raccontava mia madre, negli anni difficili della guerra, durante i quali ogni giorno vi si impastava la farina difficilmente macinata
dal grano ancora più difficilmente trovato al mercato nero. Su
quello scanaturi si erano impresse memorie di fatica e stenti che
non appena la situazione lo permise lo fecero accantonare senza rimpianti. Mia madre aveva finito con il detestare la pasta
fresca. Lo scanaturi veniva tirato fuori di tanto in tanto, e solo
in occasioni di feste e di grandi riunioni conviviali nelle quali
il rito centrale era una gran mangiata di tagliarini, tagliatelle di
grano duro, alte, carnose. Se ne impastavano quantità gargantuesche. Si cuocevano in grandi pentoloni di rame stagnato e
dovevano bollire in acqua abbondante e a ritmo d’inferno col
fuoco a legna della fornacella. Appena pronte venivano scolate
e versate direttamente sullo scanaturi dove erano state impastate,
oppure, se i commensali erano molto numerosi, sulle enormi
maidde, i tavoloni che erano serviti per seccare al sole il sugo
di pomodoro da ridurre in estratto per l’inverno. Inondate di
sugo, basilico, formaggio pecorino, i mangiatori vocianti, seduti attorno a questa rossa piramide egizia di pasta, ne tiravano
grandi quantità dalla loro parte, senza posate, con le mani, costruendosi davanti piste di tagliatelle che poi venivano risucchiate con la bocca, il naso, la faccia e inviate, dritte com’erano,
senza praticamente masticare, direttamente nello stomaco.
Scena da rituale tribale, esorcismo, rivincita su memorie di
fame atavica, simile a quella resa immortale da Totò ed Enzo
Turco in Miseria e nobiltà, ma più truce, nel mio ricordo, più
allegramente disperata.
La gran mangiata si trasformava invariabilmente in una
sorta di competizione suicida. La bocca insanguinata di sugo
si sollevava dal tavolone solo quando era impossibile inzeppare ulteriormente lo stomaco e la milza avvertiva di essere
prossima all’esplosione. Mangiare a crepapelle non era più
un’espressione metaforica. Ma il peggio veniva dopo, quando
i tagliarini cominciavano a gonfiarsi dentro i ventri dilatati.
Stravaccati all’ombra di un albero, per terra o su pericolanti sedie a sdraio, gli occhi strabuzzati, si respirava a piccoli
bocconi d’aria per lo spazio limitatissimo che la pancia aveva
lasciato ai polmoni e durante alcune ore si giocava l’incerta
partita tra il digerire e il morire.
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La granita di gelsomino
Da giugno a settembre
andavamo in villeggiatura.
Andare in villeggiatura
significava che la famiglia
si spostava dalla casa in paese
a un ampio casotto
che normalmente serviva
per riporre gli attrezzi di lavoro
per il limoneto.
Il piccolo limoneto si trovava alla periferia di Bagheria, a poche centinaia di metri dalla vecchia e scomoda casa in paese.
Ma comunque andavamo in villeggiatura, ed era un grande
privilegio. Mio nonno caricava sul carretto quattro materassi,
sei sedie e qualche pentola e ci trasferivamo in campagna.
All’inizio ci accampavamo alla meno peggio nel piccolo spazio che di fatto serviva solo per dormire, dato che le attività
e soprattutto i frenetici ozi della giornata si svolgevano tutti
all’aperto, comprese le necessità igieniche. Non c’era la corrente elettrica. Illuminavamo con lumi a petrolio, poi a gas:
avevano come bruciatore una calzina bianca, che bisognava
cambiare spesso. Negli anni, a poco a poco, a quel casotto
si sono aggiunte altre stanze fino a trasformarlo in una casa
spartana ma piuttosto confortevole. Di quei mesi di villeggiatura mi rimangono molti ricordi felici, marcati dagli odori
della zagara e del gelsomino.
Abbarbicata attorno alla tettoia c’era infatti una gigantesca
pianta di gelsomino. Mai ne ho trovata una altrettanto grande,
ricca, rigogliosa, generosa di una inimmaginabile quantità di
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profumatissimi fiori. Tanto che quotidianamente mia madre
doveva scopare via quelli secchi, che cadevano in quantità.
Un paio di volte a estate, su pressante richiesta mia e di mia
sorella, mia madre faceva la granita di gelsomino. Era una
preparazione lunga, alla quale partecipavamo tutti: la sera,
all’imbrunire, bisognava raccogliere i fiori che cominciavano
ad aprirsi e che si sarebbero schiusi il giorno successivo. Solo
quelli erano adatti, perché ancora contenevano nel turgido
bocciolo tutti i succhi e i profumi che ne sarebbero sprigionati. Noi bambini li riconoscevamo perché erano gli stessi che ci
piaceva succhiare. Bisognava, per raggiungere i più alti, salire
su delle sedie o arrampicarsi su una scaletta di legno e in un
paio d’ore, facendo attenzione a non danneggiarli, ne raccoglievamo tanti da riempire una larga bacinella di zinco. Forse
esagero, ma secondo me arrivavamo a mezzo chilo.
Dalla bacinella veniva su un profumo stordente. Sui fiori
si versava acqua fino a ricoprirli appena, poi sulla bacinella si
stendeva un panno immacolato e i fiori si lasciavano a riposare tutta la notte, fuori dalla tettoia, che prendessero la rugiada.
La mattina dopo si tiravano via i gelsomini, strizzandoli un
poco – con delicatezza, altrimenti, diceva mia madre, veniva
fuori l’amaro. Una parte dell’acqua di infusione si metteva in
una marmitta e vi si faceva sciogliere a caldo lo zucchero, con
l’aggiunta di un poco di succo di limone, fino a ottenere uno
sciroppo; poi si aggiungeva l’acqua rimasta.
Prima che arrivasse l’elettricità, la marmitta con l’acqua di
gelsomino la portavo alla fabbrica del ghiaccio, poco distante da casa. Mi piaceva gironzolare alla fabbrica del ghiaccio.
C’era un vai e vieni di carretti, di moto Ape che caricavano
scintillanti blocchi di ghiaccio avvolti in coperte e sacchi di
iuta per portarli a Porticello, dove, macinati, servivano per il
pesce della giornata. Oppure ai ristoranti, o alla bottega del
ghiaccio.
Quando eravamo in paese andavo anch’io, nelle giornate
più calde, a comprare un quarto di blocco di ghiaccio al vicolo
della Neve, così si chiamava, per i nostri usi di casa. A mio
padre e a mia nonna, specialmente, piaceva l’acqua freddissima, anche se non diventava mai deliziosamente gelata come
quella che si comprava a bicchieroni al chiosco dell’acquaiolo
di corso Umberto, dove con una bottiglia a beccuccio lungo
la si insaporiva con una nuvoletta di anice unico dei fratelli
Tutone, il profumato zammù.
Il proprietario della fabbrica del ghiaccio, il gentile signor
Calì, me la metteva in un posto speciale la marmitta con
l’acqua di gelsomino, a gelare. Una specie di pozzetto dove
spesso lasciavamo a galleggiare anche le angurie. Alle angurie
bastava poco per diventare fredde, per la granita ci voleva
più tempo. Dopo un paio d’ore tornavo, toglievo il coperchio
alla marmitta e con un cucchiaione di legno giravo l’acqua di
gelsomino, che cominciava a solidificare. E poi di nuovo, per
un’altra oretta almeno, ogni dieci minuti: finché la granita era
a punto. Appena pronta me la portavo di corsa a casa.
Qualche volta il signor Calì accettava che gliene riempissi un boccale, come mia madre mi raccomandava sempre di
fare. In seguito, quando arrivarono i frigoriferi, queste operazioni si cominciò a farle nello scomparto freezer, e più avanti
ancora nelle primitive gelatiere, il cui filo usciva fuori dal frigo e si collegava a una presa elettrica a parte.
Ma la granita di gelsomino, chissà perché, poi non si fece più.
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La geografia della spesa
Comprare il cibo
in un paese
agricolo siciliano
come quello nel quale sono
vissuto da ragazzo
può essere
una faccenda
topograficamente
e culturalmente complicata.
Non è che uno va dal verduraio o dal panettiere, o dal macellaio e compra quello che gli serve. Eh, no! Se uno ha esigenze da
gourmet per comporre i suoi menu – e tutti, da quelle parti, si
atteggiano a puntigliosi buongustai –, o anche soltanto per fare
la spesa scegliendo la varietà migliore e il prodotto più fresco
e saporito, la competenza, frutto di radicata e continuamente
aggiornata esperienza, dev’essere vasta e puntuale.
Il pane, per esempio. C’è forno e forno, c’è pane e pane, c’è
panettiere e panettiere. E ci sono anche le mode. Un certo pane
paesano, denso, fatto con farine rimacinate o integrali, cotto a
legna con sarmenti d’ulivo o di limone, per un po’ di anni non
era stato di moda. Il gusto, che si voleva aggiornare verso sapori
più cittadini, si era mosso verso pani più bianchi, più morbidi,
anche se magari diventano elastici e immangiabili dopo poche
ore. E aveva fatto preferire più anodine cotture elettriche, complici anche i deliri pseudo-igienici della Commissione europea
che per anni ha fatto la guerra ai forni a legna e al buon pane.
Oggi la tendenza si è radicalmente invertita. Davanti ai forni
tradizionali si trovano di nuovo code di clienti che aspettano
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l’ultima sfornata, beandosi dei meravigliosi profumi che sprigionano dal pane caldo. Pani rotondi, mafalde, morbidissimi
muffuletti – il pane arabo, ideale per le panelle (l’ideale è sempre
mobile) o, caldissimo, ripieno di ricotta, sugna, sale, pepe e pecorino –, filoncini ricoperti di sesamo, dalla crosta duretta e
croccante, e altre forme, le più diverse, per soddisfare ciascun
gusto o ghiribizzo.
Ma il panettiere non fa solo pane. Fa anche gli sfincioni, e
non è affatto detto che il fornaio di cui ti piace molto quel filoncino integrale con il sesamo sia anche quello che fa lo sfincione
migliore, o i migliori muffuletti. Dunque, per il pane si va da un
certo fornaio, per gli sfincioni da un altro, e per i biscotti regina, coperti di giuggiulena, da un altro ancora. Non importa se i
forni si trovano in strade lontanissime tra loro. Vale il viaggio,
dicono le guide gastronomiche. Il fatto è che la stessa molteplicità geografica si ritrova anche per le verdure. I cavolfiori,
per esempio. I cavolfiori, dice mia sorella, vanno comprati dal
contadino di via Milazzo.
In paese, molti contadini che hanno piccoli appezzamenti
coltivati a orto vendono direttamente i prodotti che coltivano.
Mettono fuori dalla porta di casa una sedia con sopra la verdura
raccolta la mattina, oppure parcheggiano davanti alla porta un
Ape o un furgoncino con la merce in vendita, in modo che la
gente sappia che c’è roba fresca da comprare. Il contadino di
via Milazzo è specialista in cavolfiori e finocchi. Sarà la terra,
sarà la sua particolare perizia nel coltivarli, fatto sta che sono
speciali, turgidi e al tempo stesso morbidi, che basta un bollore
per ritrovarseli da sciogliersi in bocca, profumatissimi, saporitissimi, ottimi conditi con un filo d’olio buono come per le
eccellenti minestre o le più sofisticate ricette. Come imbattibili
sono i carciofi di un altro contadino, quello di via Sant’Antonino, coltivati in collina, pieni, tenerissimi, senza un’ombra
di barba, dolcissimi da mangiare semplicemente bolliti, oppure
cucinati ammuttunati, ripieni di pan grattato, cipolla, spezie, con
un tappo di uovo battuto fritto a blindarne il sapore prima di
cucinarli in salsa di pomodoro. (Piatto mitico di mia madre.)
Anche per ognuna delle verdure di montagna, raccolte all’alba
in collina e che vanno a ruba in poche ore
– cicorie, borragini, tenerumi, cavuliceddi,
sinape, una verdura amarognola che trovo
solo in Sicilia –, si va da un certo contadino e non da un altro, ognuno ha la sua
specialità. Il finocchietto invece bisogna
comprarlo dal vecchio che si mette vicino
alla posta, che sa dove trovare il più tenero e profumato. Mentre le uova si prendono, freschissime, da una signora che vende
anche qualche meravigliosa gallina allevata in campagna.
E i macellai. C’è quello che ha i migliori capretti, e l’altro
che ti prepara davanti la salsiccia tagliata a coltello, mettendoci
gli ingredienti che preferisci – formaggio, pomodoro, aglio; ma
a me piace semplice, classica: sale, pepe e semi di finocchio.
Per non parlare della ricotta. Ordinata il giorno prima da quel
pizzicagnolo al quale la porta ogni mattina, fumante, morbida,
saporitissima e ancora immersa nel suo siero, un certo pecoraio
che viene giù dagli stazzi dei vicini paesi di collina. Sui pasticcieri, poi, le diatribe sono violente. Ciascuno giura sul proprio,
e nessuno è disposto ad ammettere che la sua cassata preferita,
che magari va apposta a comprare in un paese vicino, o i suoi
cannoli preferiti, che naturalmente vanno riempiti di crema di
ricotta al momento e mangiati subito, pena il letale ammosciamento della cialda croccante, possano essere anche soltanto paragonati ad altri, dei quali si elencano, con grande competenza
e lusso di acrimoniosi dettagli, i difetti e le approssimazioni, sia
nelle materie prime che nell’esecuzione.
Insomma, fare la spesa implica grandi deambulazioni per il
paese e conoscenza dettagliata della geografia dell’eccellenza.
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Poi, a tavola, immancabilmente, l’erotica pratica del mangiare
assaporando è accompagnata dal compiacimento verbale per
la scelta. Quella ricotta, quella salsiccia, quel cavolfiore, sono
proprio “un’altra cosa”.
Insomma, non si mangia mai quello che si sta mangiando, si
mangia sempre “un’altra cosa”.
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Sale
Di una pietanza senza sale
si dice che è insipida,
se è una minestra
la definiamo una brodaglia.
Persino di un uomo,
se non è intelligente diciamo
che non ha sale in zucca,
ed è senza sale
la prosa di uno scrittore sciatto.
Molte delle cose che mangiamo
possono essere saporite anche senza sale,
ma nelle cose cucinate
l’apporto del sale è determinante.
Questo spiega l’alta considerazione di cui ha sempre goduto
nella storia.
In Italia per molto tempo è stato monopolio dello stato,
e tutti ricordiamo le insegne, a volte pregevolmente dipinte,
delle privative di Sali&Tabacchi.
Beninteso, l’uso del sale implica equilibrio. Una pietanza
troppo salata può essere immangiabile, come indigesto è un
conto troppo salato.
Numerose sono le metafore morali e culturali che hanno
per oggetto il sale. Padre Dante ci ha detto come sa di sale lo
pane altrui. Insomma, con il sale abbiamo quotidianamente
molto a che fare. Molto a che fare ci ho avuto anch’io nella
mia vita di fotografo. Spesso l’ho incrociato nei luoghi in cui
si produce. Luoghi familiari nella mia Sicilia o in Andalusia,
luoghi spettacolari in lontanissimi paesi.
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Intanto, c’è il sale marino e c’è quello di miniera, il salgemma. In Sicilia ci sono entrambi, ed entrambi li ho esplorati.
Per insaporire i cibi preferisco il sale di mare, così ricco dello
iodio di cui tanto mi piace riempirmi anche i polmoni.
Il sale di mare si coltiva, con antica sapienza. Queste grandi coltivazioni sono suddivise in vasche dove, a mano a mano
che l’acqua di mare si asciuga, si formano paesaggi lagunari
fantastici, ricchi di colori e riflessi, al cui centro stanno spesso arcaici e pittoreschi mulini a vento. Lavoro duro che si
conclude con la raccolta del prezioso minerale – una volta
con carriole, ora con nastri trasportatori –, che si accumula in
bianche piramidi, poi ricoperte di coppi di terracotta gialloverdastri per proteggerlo dalle intemperie.
A Marsala, a Trapani. Poi ritrovate, le saline, affascinanti
e arcaiche, a Cervia e a Cabo de Gata, nell’altra piccola patria
eletta nel Sud dell’Andalusia.
La salina più bella di Marsala si chiama Imperatore, si trova di fronte all’isola di Mozia e mi piaceva particolarmente
andarci anche per conversare con il suo custode-poeta.
Spettacolari sono le miniere di salgemma di Petralia, che
non appaiono cupe come quelle di zolfo o di carbone, o quelle boliviane di tungsteno, ma assomigliano a vaste cattedrali
barocche dove le luci dell’acetilene moltiplicano gli scintillii e
sottolineano le fantasiose curvature scavate dalle frese.
Adesso è un lavoro di macchine quello delle miniere, ma
in passato i salinari, di cui Leonardo Sciascia ha raccontato
la fatica fisica e morale, vi scontavano una vita durissima, di
sfruttato lavoro.
In Bolivia, all’altro capo del mondo, ho scoperto l’immenso
salar di Uyuni. Un lago secco, grande come l’Umbria, che lo
choc dei continenti ha sollevato, non so quante centinaia di
migliaia di anni fa, ai quattromila metri di altitudine della cordigliera delle Ande, nel Sud del pese, quasi ai confini con il Cile.
Quando piove, il salar diventa uno specchio d’acqua dove
ogni cosa perfettamente si raddoppia. Ma è quando l’acqua
evapora che il paesaggio si trasforma in qualcosa di assolutamente straordinario, una delle meraviglie del mondo: una sterminata superficie di un bianco che sembra
ghiaccio, e invece è sale, tramato di un’infinita successione di larghi esagoni, come
una allucinata coperta all’uncinetto.
A Uyuni, operai dall’aspetto di galeotti,
con cappucci di lana e scurissimi occhiali da sole per proteggersi dall’abbacinante
biancore, tagliano da quella superficie compatta, con lunghe
asce affilate, parallelepipedi di sale da una quindicina di chili.
Per secoli, un mattone sul fianco destro e uno sul sinistro,
interminabili carovane di lama hanno trasportato il preziosissimo sale per venderlo nei diversi mercati del paese. Del salar di Uyuni mi avevano parlato i tecnici dell’Organizzazione
mondiale della sanità, che avevano invitato dei giornalisti per
illustrare il loro progetto di lotta contro il gozzo in Bolivia.
In Bolivia, il gozzo è un’endemica malattia nazionale. Ne
soffre oltre la metà della popolazione. Paese tagliato fuori
dal mare, nella dieta degli abitanti manca completamente
lo iodio. Noi è soprattutto dal consumo di pesce che assumiamo iodio, e dal sale naturalmente, soprattutto quello
marino, che ne è ricco.
L’Oms, per indurre in maniera capillare il consumo di iodio
in Bolivia e cercare di debellare il gozzo, aveva saggiamente
escogitato di introdurlo nel sale prima che fosse immesso nel
mercato. Lo recuperavano da Uyuni, lo tritavano, lo arricchivano di iodio e lo mettevano in vendita. Ma scoprirono che
non funzionava. I boliviani erano abituati a comprare il sale
in grossi mattoni tagliati direttamente nel salar. Popolo di pastori, le loro abitudini nomadi rendevano quelle forme di sale
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più comode da trasportare e da consumare. Non rischiava di
disperdersi e per l’uso bastava grattarne un po’.
Insomma, i tecnici della iodizzazione del sale furono costretti a ricompattarlo nei lingotti tradizionali per persuadere
i boliviani a comprarlo.
È questa affascinante storia che mi ha indotto a visitare
il magico salar di Uyuni. Quei lingotti di sale sui fianchi dei
lama li ho ritrovati in diversi mercati, ma non sempre erano
quelli industrialmente arricchiti del salvifico iodio.
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Ragnatele di fame
Era un’epoca, quella,
che spegnevamo i lumi
con gli sbadigli da fame.
Nel pentolone
ormai ci campavano
le ragnatele.
Tutte le notti andavo
a mare con la barchetta
per totani o polpi.
Puh,
marina di merda!
Manco una boga.
Le budella mi si attorcigliavano.
Da quindici giorni mangiavamo verdura che andavamo a raccogliere in montagna. In casa, tutti la pancia scombussolata
avevamo. La verdura, da sola, non ti ci tiene in piedi. Alla
bottega di zu Pietro a Santa Flavia non ci potevamo andare a
comprare il mangiare a credito. Non ce ne dava più. Il libro
nero dove segnava il nostro debito, grosso come il Vangelo
della messa era. Il conto, più lungo di una lenza di palamitara. Alle prime ore del mattino me ne andavo al mercato per
vedere di capitare qualche pesce sgarrato. Ma pure quello era
difficile. Troppo assai eravamo a cercare. Pure contro i gatti
facevamo guerra. Più magri di noi erano, e selvaggi erano diventati. Che dovevo fare? Mi venne una pensata.
Mi feci imprestare una cassetta di sardine e me le strofinai
addosso dalla testa ai piedi e subito subito me ne andai di corsa alla bottega di zu Pietro. Scostai la rete e mi misi a gridare:
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Zu Pe’, zu Pe’, ora ora sono tornato, nella barca di Nofrio
Argento ero, sette cantara di sarde abbiamo preso, domattina
la parte prendo. Buona sarà, zu Pe’. Sulla testa dei bambini,
appena li prendo i soldi prima di tutti per vossia sono, che con
noi è stato buono e paziente. Per la buonanima di mio padre,
che come un fratello lo stimava, vossia lo sa. Si passasse una
mano sulla coscienza, zu Pe’, tre chili di pasta e tre chili di fagioli mi deve dare. A casa stanno allampando tutti dalla fame.
Se non torno con qualche cosa m’ammazzano. Zu Pietro mi
guardò per un pezzo. Neanche una parola diceva. Poi uscì da
dietro il bancone e mi si avvicinò a portata di naso.
Mi annusava la canottiera tutta unta, la faccia; proprio addosso mi stava, mi girava intorno. Un cane cirneco pareva.
Non si fidava, le squame erano assai, l’odore era di sarda fresca, ma il conto da pagare era vecchio e infradicito. Non si
voleva fare fottere, zu Pietro. Io lo sapevo che fottere a zu
Pietro non era facile. E però, alla fine, il Signore mi volle aiutare. Larenzo, mi disse, speriamo che la Madonna del Lume si
sia decisa a posarci la sua mano su quella casa. Qua ci sono la
pasta e i fagioli. Domani ti aspetto, guai a te, non ti scordare,
e salutami a tua madre. Mi misi a baciargli le mani: Il Signore
ce lo paga, zu Pe’!, Mill’anni di purgatorio ci deve abbuonare
per il cuore che ave vossia!, mill’anni di purgatorio.
Afferrai i due coppi e mi buttai per la strada che l’avevano
asfaltata e cilindrata che era poco. Come un pazzo correvo
verso casa, un cavallo parevo, niente guardavo, niente vedevo,
che magari presi una pietra maligna e puntuta che mi spaccò
il piede una pietà. E meno male che non avevo le scarpe, che
se no questa volta ce le lasciavo, per come è vero Dio. A quattrocento metri dalla casa già gridavo: Ma’, ma’, piglia la legna,
metti la pignata, il mangiare ho!
Le donne si affacciavano alla porta per vedere chi gridava così. Mia madre la trovai che piangeva. La notizia prima
di me le era arrivata. Già stava sventagliando la legna nella
fornacella sotto il pentolone di rame. I fagioli assai ci vuole per cuocere, mi disse. Mangiamoci prima la pasta, diceva.
Ma io non ci volli sentire, la pasta non ci basta per tutti, dissi,
la fame è troppo assai, anche noi siamo troppo assai.
E intanto sventagliavo pure io. La pignata taliata non bolle
mai, si dice, ma quell’acqua pareva di ghiaccio. Ogni momento sollevavo il coperchio. Lo sapevo che era peggio, ma non
mi davo pace. Appena appena che l’acqua cominciò a muoversi ci buttai dentro i fagioli. Mezza cipolla c’era, anche se
vecchia, e ci cacciai dentro pure alcune foglie mezze ammuffite di alloro. Che a me, nei fagioli mi ci piace l’alloro. Tempo
ci voleva. Uscii per cercare di svagarmi. Ma non c’era verso.
La testa sempre alla pignata ce l’avevo. Ogni cinque minuti
tornavo. La pignata continuava a bollire forte con quell’inferno di fuoco che mia madre non faceva placare. Ma quei
maledetti fagioli non cuocevano mai. Ogni momento li assaggiavo. Sempre duri come le corna erano. È che bisognava
metterli a mollo una nottata, diceva mia madre. Sì, una nottata! Come se potevamo aspettare una nottata.
Uscivo, rientravo. Uscivo, rientravo. Un’anima in pena ero.
Più tempo passava, più fame mi si scatenava. Non la sentivo più nella pancia; la fame ora la testa mi svuotava.
Ci pensavo. E più ci pensavo e meno mi parevano, quei
fagioli. Troppo assai siamo. Il tempo si avvicinava che sarebbero tornati tutti a casa. Non ci bastano quei fagioli, pensavo.
Ci ragionavo. E più ci ragionavo, meno bastavano. E più sapevo che non bastavano e più la fame mi riempiva la testa e
mi svuotava gli occhi. I fagioli si stavano cuocendo e la mia
testa pure. Io lo sapevo quello che dovevo fare. Tornai a casa
di corsa e mi misi a gridare: Ma’, ma’, sciarra di donne; a tua
figlia Lucrezia se la stanno squartando alla fontana! Mia madre si mise le mani nei capelli: Bella Madre del Lume, aiutaci!,
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disse, e partì verso la fontana. Io entrai e misi ferro e catenaccio. Buttai dentro la pasta e cominciai a fare vento alla fornacella. Il fuoco più grande, però, ce l’avevo dentro la testa.
A mano a mano che la pasta si andava cuocendo, io me la andavo mangiando. Direttamente dal pentolone me la mangiavo.
Come il fuoco bruciava. Ma io non smettevo. Col cucchiaione
grande di legno me la mangiavo. Dopo un poco mia madre
tornò con mia sorella grande, poi arrivò anche la sorella piccola, picchiavano alla porta e urlavano: Larè, apri Larè, disgraziato! Poi arrivò anche mio fratello Peppino, tutti picchiavano
alla porta, tutti urlavano.
Quello che urlava di più era zu Tommasino, che per quanto vecchio e magro pareva un leone. La porta voleva abbattere. Per come è vero Dio, urlava, appena entro ti ammazzo, grandissimo cornuto! Io di lui soprattutto avevo paura.
Ma non perché mi poteva ammazzare. Quello non solo urlava
come un leone, come un leone pure mangiava. Lo sapevamo
tutti. Mia madre e le mie sorelle piangevano. Adesso mi urlavano anche i vicini di casa. Anima dannata, mi dicevano: apri
a tua madre! Io manco li sentivo. Mangiavo, mangiavo. Poi la
pasta e i fagioli si misero a non andare più direttamente nella
testa, cominciai a sentire che andavano nella pancia. Lo sentii
perché non ce ne entravano più. Ero disperato, con tutta la
fame che ancora sapevo di avere, in quella stupida pancia non
ce ne entravano più. Mi dovetti fermare.
Si era fatta notte. Io guardavo nel buio con gli occhi di
fuori. Pure sugli occhi premevano la pasta e i fagioli. Si gonfiavano da dentro. Respiravo a sorsi piccoli. Non c’era spazio
per l’aria nei polmoni. Ogni respiro un rantolo. Avevo paura
che mi si crepasse la pancia. Nel letto non ci potevo stare.
Mi allungai per terra. Alla porta non picchiavano più. Mio zio
e Peppino se n’erano dovuti andare a mare. Le mie sorelle da
una zia nostra che stava alla marina. Io mi trascinai ad aprire
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El molino de chocolate
la porta e poi mi buttai sul letto. Dopo un poco entrò mia
madre. Piangeva. Nemmeno si avvicinò alla pignata. Gemeva
che non finiva più. Si mise nel letto e continuava a piangere.
Io non potevo dormire. Gli occhi mi lampeggiavano nel buio
come il faro di Capo Zafferano. La testa ce l’avevo alla pignata. Ancora bene di Dio c’era là dentro. Nelle prime ore della
mattina capii che ce la potevo fare. Mi avvicinai silenzioso
e cominciai a mangiarmi il resto. Quella pasta e quei fagioli erano diventati come la calce che impastavo con la sabbia
quando andavo a muratore. Ma mi mangiai tutto lo stesso.
Quando non ce ne fu più uscii, mi chiusi la porta alle spalle
e sparii per tre anni.
Oaxaca,
difficile non soccombere
alla sua seduzione.
Ci sono stato due volte
e vorrei tornarci ancora,
anche se degli amici
mi dicono che anche lì
fanno di tutto per
distruggere l’incanto.
Una luce e un’aria impareggiabili, un contesto artigianale
straordinario per ricchezza e fantasia, i colori delle case, dei
vestiti delle donne, dei mercati, la musica che sembra venire
fuori dalla terra stessa.
Uscivamo dal ristorante La Coronilla, luogo di delizie
per il suo saporito guacamole, le croccanti chapulines, le cavallette fritte, il mole di pollo, e per finire un mezcal col gusano,
il vermetto che viene introdotto nelle bottiglie più pregiate
a renderne perfetto l’aroma. A passeggio dopo un pranzo
ragguardevole, eravamo stati raggiunti da una tiepida brezza profumata di cioccolato. Molto profumata, irresistibile.
Usando il naso come bussola ci eravamo addentrati nelle
viuzze del centro per capire da dove sprigionasse un tale
intenso profumo, sempre più intenso quanto più ci avvicinavamo alla fonte.
Fu così che scoprimmo el molino de chocolate.
Una grande stanza che aveva in effetti l’aria di un mulino.
Sacchi di baccelli di cacao, zucchero di canna, cannella,
stecche di vaniglia, zenzero, peperoncini vari, altre spezie.
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Mangiare, parlare
Donne e bambini con in mano pentolini, sacchetti di plastica, secchi di zinco, aspettavano il proprio turno. Quando
arrivava il momento davano la loro ricetta, ognuna diversa,
con piccole variazioni, nelle quantità di zucchero, cannella,
spezie, cacao. Il tutto veniva pesato, mescolato e introdotto
attraverso un imbuto dentro una specie di macina dove, una
volta che il composto era diventato una spessa farina, veniva
aggiunta dell’acqua: mescolata energicamente, questa produceva una fluida crema che i clienti raccoglievano in basso da
un bocchettone d’uscita nel proprio recipiente.
A casa, una volta freddo, se ne scalpellano dei pezzi da
mangiare direttamente o da sciogliere per farne bevanda.
Sapore meraviglioso e granuloso, che con mia grande sorpresa ho riconosciuto come familiare. L’evocazione è stata
immediata: la cioccolata preparata a freddo dalla pasticceria
Bonajuto di Modica che tanto piaceva a Leonardo Sciascia.
I Bonajuto dicono che la ricetta, tramandata di padre in
figlio, risalirebbe nientemeno che ai primi anni successivi alla
scoperta dell’America, quando il cacao arrivò in Europa e si
impose come bevanda prediletta dalle signore della nobiltà.
Da Oaxaca a Modica, una ricetta e un sapore che hanno
attraversato indenni secoli e oceani.
Nel divertente romanzo,
Il più grande uomo scimmia
del Pleistocene,
lo scrittore inglese Roy Lewis
racconta le paradossali vicende
di un gruppo di uomini
scimmia vissuti in Africa
più o meno un paio di milioni
di anni fa.
Il romanzo racconta antiche vicende che continuamente e
ironicamente alludono alle nostre convinzioni scientifiche e
sociali.
Il protagonista, Edward, è una specie di scienziato evoluzionista che affronta scoperte cruciali per la vicenda umana. E non sempre i suoi nuovi punti di vista sono facilmente
accettati dal gruppo del quale è il leader. Come sempre ne
nascono drammi anche molto violenti. Ernest, il figlio, nella inevitabile contrapposizione ideologica e di potere con il
padre finisce persino, con la complicità del fratello, per ucciderlo con le nuove armi per la caccia che il padre stesso aveva
inventato. La grande, rivoluzionaria novità fu soprattutto la
scoperta del fuoco.
Lo ricordo qui perché mi aveva molto divertito, e persuaso,
il racconto delle conseguenze di quella capitale scoperta sulla
vita quotidiana di quegli uomini scimmia e del modo di sfruttarla. Formidabili cambiamenti. Tanto per cominciare, il fuoco, acceso davanti alle caverne dove gli uomini scimmia abitavano, era un enorme progresso nella sicurezza delle loro notti.
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Sugo finto, uomo finto
Finalmente potevano dormire tranquilli senza l’angoscia che
bestie feroci venissero a sbranarli durante il sonno.
Ma enorme era anche il progresso nelle pratiche alimentari. La carne degli animali cacciati e uccisi dagli uomini scimmia, si scoprì, diventava molto più tenera e quindi molto più
facile da smembrare, trasportare e masticare, se non persino
più saporita. Trascinata, cotta e fatta a pezzi, poteva essere
consumata collettivamente e in santa pace nelle case caverna.
Nasceva così il pranzo di gruppo, il rito conviviale. Rito che
non è mai cessato fino ai nostri giorni.
Ma l’ipotesi affascinante di Lewis è che, nel consumare
questi pasti familiari e tribali, i grugniti di compiacimento
per la soddisfazione della fame siano stati i primi embrioni del
linguaggio. Mi persuade. Mi sembra verosimile che la necessità di comunicare con gli altri sia nata da quell’altra primaria
necessità condivisa: cucinare e mangiare.
In Sicilia,
il sucu,
piatto invernale essenziale,
su cui ha scritto pagine
fini e spassose
Luisa Adorno
nel suo L’ultima provincia,
si prepara con l’estratto della salsa
di pomodoro fatta asciugare
sui tavoloni di legno che in
agosto invadono le strade del paese.
In certe famiglie, la domenica, la pasta con il sugo è pietanza
fissa, rituale come l’obbligo di andare a messa. La preparazione è faccenda complessa. Oltre al classico soffritto, occorrono
carni varie, di manzo, di maiale, cotenne, puntine, salsicce
con i semi di finocchio, profumi di terra, in quantità e proporzioni decise insindacabilmente dalla cuoca di casa, secondo
regole tramandate di madre in figlia e solo raramente suscettibili di minime e discusse variazioni. Con la giusta quantità di
estratto, naturalmente, sciolto a fare spessa la salsa.
La cottura, a fuoco bassissimo, è lunga e lenta.
Solo così si otterrà quel sapore speciale, unico, che per
sempre, per tutti i componenti della famiglia, diventerà inamovibile pietra di paragone per giudicare il vero e autentico
sucu, anche se diverso da come viene preparato da una zia o da
una vicina. Nel tempo, e nella diaspora, quel sapore si trasformerà in mito. Piatto ricco, come si vede, per la sua dovizia di
carni, e per questo, negli anni della mia infanzia, raramente
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Ferran Adrià
alla portata di tutte le famiglie. Ma non poter comprare le
carni necessarie non significava che ci fossero famiglie che
rinunciavano al sucu domenicale. Se ne facevano semmai versioni meno ricche. L’estratto, comunque, con il pomodoro
maturo, saporito e a buon mercato di agosto, ogni famiglia
lo preparava. E in casi di più severa povertà c’era sempre la
soluzione del sucu fintu. I formaggiai, nel vendere i profumati
pecorini, i magnifici ragusani stagionati dalla scorza dura,
come li vantavano i venditori ambulanti, tagliavano e mettevano da parte le unte cortecce. A prezzo infimo venivano
comprate dai più poveri ed erano queste scorze di formaggio
invecchiato che davano forza e sapore alle comunque immancabili rosse spaghettate.
Come spesso succede, le ricette nate dal bisogno hanno
finito col produrre sapori speciali che si sono imposti per
bontà e nobiltà. I poveri preparavano solo ogni tanto il sucu
tradizionale con la carne, gli altri, più spesso, il sucu finto
lo facevano per gusto e piacere. Anche del sugo per la pasta con le sarde, del resto, esiste una versione ironicamente
detta con le sarde a mare, senza i pesci, buonissima anche
quella. Io ne vado matto. Specialmente mi piace anche il sucu
finto, per il suo forte aroma di scorze di robusti formaggi.
È quello, semmai, che oggi è diventato una leccornia rara.
Dove le trovi, per abbondanza e qualità, le scorze di formaggi che servono?
Il sucu finto torna in modi di dire che dall’universo del
mangiare entrano nel parlare comune. Di un uomo o di
qualcosa di molta apparenza e poca sostanza si dice per
esempio che è un sucu finto. Come di un’illusoria autoconsolazione si dice che è amore e brodo di ceci. (La minestra di
ceci, con molta acqua e pochi legumi, con buona volontà
può essere consumata illudendosi che si tratti di un ricco e
nutriente brodo di carne.)
Ho letto
che il ristorante
El Bulli,
per anni
forse il più famoso
del mondo,
lo chiudono.
Io c’ero andato per fotografare lui, Ferran Adrià, da molti
anni il più celebre cuoco, il più discusso e contestato, il più
stellato, il più.
Adrià diceva che al Bulli non si andava per mangiare, ma
per vivere un’esperienza. Io, però, ci ho anche mangiato. Benissimo. Tra tutti i pasti consumati in tutti i ristoranti nei quali sono stato, quello al Bulli, se non il migliore in assoluto,
rimane il più memorabile. Provare la cucina di Ferran Adrià
è in effetti un’esperienza speciale. Lui dice che più che un
cuoco si considera un designer di piatti, uno sperimentatore
di nuove possibilità tecniche e culturali per produrre sapori.
Al Bulli, Adrià non cucinava; si faceva vedere. Rilasciava
interviste. Più di trecentocinquanta all’anno, mi ha detto, almeno una al giorno, per i principali giornali del mondo. A cucinare c’era un piccolo esercito di cuochi, oltre quaranta, quasi
quanti i coperti dei clienti. Due tavoli davano sulla cucina,
che era come un palcoscenico dove ogni giorno si metteva in
scena il balletto delle ventiquattro portate che cambiavano da
stagione a stagione, il menu che ricchi clienti da tutto il mondo,
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con prenotazioni spesso da un anno all’altro, venivano a consumare. Magari arrivando con voli charter dal Giappone o
dal Brasile.
Da uno di quei due tavoli di proscenio ho assistito al rito
spettacolare. Rito di precisione militare, eleganza e velocità.
Un balletto, in effetti, che invece che dalla musica veniva ritmato dagli ordini esatti del direttore di cucina, vorrei dire
d’orchestra.
Adrià si mostrava, filosofeggiava, si faceva fotografare.
Poi, magari a un certo punto gli veniva fame, afferrava una
banalissima pera e se la divorava a morsi.
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La pasta di donna Provvidenza
Da sempre,
e a dire il vero
ancora adesso,
quando sento invocare
la provvidenza
inevitabilmente
penso alla pasta.
So benissimo perché.
Da bambino ho vissuto quel periodo di interregno tra la pasta
fatta quotidianamente in casa, o comunque la pasta fresca, e la
pasta secca, quella confezionata, la pasta di fabbrica.
In realtà in casa mia, salvo che in particolari ricorrenze, o
quando si preparavano le abbuffate di tagliarini, la pasta fresca non la si faceva più.
Durante la guerra farla in casa era inevitabile, sempre che
con difficoltà e pericolo si fosse riusciti a trovare del frumento
e con rischio ancora maggiore a clandestinamente macinarlo,
e allora forse quel quotidiano fare le pasta aveva finito col
diventare tutt’uno con i brutti ricordi di troppi momenti difficili. Però la pasta fresca la mangiavamo spesso. La domenica
quasi sempre. La compravamo, come moltissimi altri baarioti,
già fatta, e precisamente da donna Provvidenza.
Andare a comprare la pasta era spesso compito mio. Mia
nonna, mia madre, mi davano i soldi, non riesco a ricordare
quanti, e mi facevano l’ordinazione: spaghetti, bucati, bucatini, tagliatelle, lasagne, margherite, ziti, mezzi ziti, maccheroni, maccheroni rigati, bastarda, che stava, la bastarda, un
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Le sarde, il limone, il fico d’India
formato che mi piaceva molto, tra i capelli d’angelo, la tria
fina e gli spaghetti. Si comprava quasi esclusivamente la pasta
lunga. La pasta corta, che si usava per le minestre con legumi
e verdure, era già quella confezionata, oppure la si otteneva
rompendo quella lunga, spaghetti e tagliatelle, soprattutto.
Mia madre la faceva a pezzi grossolanamente: la avvolgeva in
un panno pulito a fare un fagotto e poi la frantumava con il
palmo della mano, col pestello del mortaio o con il batticarne.
Io faccio ancora così.
Il negozio di donna Provvidenza mi piaceva. C’era sempre
grande animazione, e un buonissimo profumo. Lei era energica ed efficiente, con i capelli bianchi raccolti sulla nuca, a
crocchia. Bianco, del resto, nel ricordo, mi pare che fosse tutto là dentro. Compreso il figlio, col grembiule bianco, la camicia e i pantaloni bianchi, e io me lo ricordo bianchissimo pure
in faccia, come se avesse finito col prendere il colore della
farina che impastava. Soltanto la pasta, che pendeva a seccare
dal soffitto su varie file di canne, aveva un bel colore biondo.
Ricevuta l’ordinazione sganciavano una canna, la inclinavano con grande perizia per fare scivolare la quasi sempre
esatta quantità di pasta direttamente sulla bilancia, la avvolgevano, larga, che non si attaccasse, in un bel foglio di carta
paglierina, porosa e profumata anche quella, mi sembrava, e
me la mettevano sulle braccia aperte.
Attento che non si apra il pacco! E io, con le braccia tese a
reggere e il naso sopra a godermi il profumo, me ne correvo
a casa.
Cibi totem,
alberi paesaggio,
sapori memoria,
della mia memoria
di siciliano e di quanti altri
uomini e donne
hanno vissuto e vivono
in luoghi del sud
del Mediterraneo.
Quando si concludeva la raccolta dei limoni, mio padre faceva
una festa con la famiglia e i raccoglitori. La festa consisteva
soprattutto in una grande mangiata di sarde. Aveva fatto costruire apposta dal fabbro una graticola enorme. Ci si potevano allineare cinque chili di sarde. Occorrevano due uomini
per collocarla e ritirarla dalla carbonella ardente, e molta arte
per girare le sardine e andarle bagnando durante la cottura
con il salmoriglio preparato con olio, aglio, limone sparso sui
pesci con uno scopettone di origano fresco. Quel fumo oleoso di legna di limone e sarmenti di vite e di ulivo spandeva un
aroma appetitoso che sembrava avere virtù esilaranti, tanto
suscitava allegria.
Zu Rosario, decano dei contadini, che negli ultimi anni
della sua vita camminava ad angolo retto a forza di fare andare la zappa corta sotto gli alberi di limone bassi, era il maestro
di cerimonie di queste sardinate. Con la sua roncola lucente
staccava dalla siepe che saliva alta contro il muro di cinta del
campo alcune grosse pale di fico d’India, le foglie più larghe
e carnose, scegliendo quelle un po’ concave, le liberava dalle
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spine, le sciacquava, ed ecco pronto un verde servizio di piatti. Con il coltello arcuato da innesto, tagliava in alto alcuni
grossi limoni, li svuotava del succo e della polpa che andava
ad arricchire il salmoriglio, tagliando il cocuzzolo in modo
che stessero in piedi, ed ecco pronto un servizio di profumati
bicchieri. Con mezze cannette aperte a metà e dentellate in
cima faceva eleganti ed efficacissime forchette.
Mangiare le sardine roventi e l’insalata di pomodori e cipolle fresche nel piatto di fico d’India, infilzarle con le forchette di canna, bere l’acqua, o quel tremendo vino di casa a
diciotto gradi, nel bicchiere di limone, che a tutto aggiungeva
dolcezza e profumo speciali. Ecco una memoria di giubilo
personale e collettivo che mai mi ha abbandonato negli anni.
Ma certe memorie sono anche una bussola dell’esperienza.
Le sardinadas le ho ritrovate, riti fondamentali, nell’Andalusia, dove oggi sto scrivendo queste pagine e dove ho trovato
un mio altrove della memoria, che tanti cerchiamo e qualche
rara volta troviamo nelle molte false fughe della vita. Non
c’è romería che si rispetti, in Andalusia, senza la sua omerica
sardinata. Non c’è chiringuito, nelle spiagge del Palo di Malaga,
senza la graticola per le sardine da cui si alza il profumo penetrante della mia infanzia.
Anche di fronte alla casetta andalusa dove vado in vacanza
c’è una siepe di fico d’India. In estate vi raccolgo gli squisiti
chumbos, non senza averne prima staccato i fiori secchi, di un
giallo così vivo in primavera, con i quali preparo infusioni
nelle cui virtù diuretiche, come mio padre, nutro fede assoluta. Dolcissimo, singolare sapore di deserto, quello dei fichi
d’India. Più esotico di tanti esotici frutti. Gusto forte e discriminante e per questo fonte di nostalgie, anche se adesso,
al seguito degli emigranti, i fichi d’India si trovano ovunque,
anche nei mercati di Milano o di Parigi. Chi non li conosce,
al primo assaggio non solo dal sapore rimane sorpreso, ma
soprattutto dall’abbondanza dei semi di cui è piena la polpa
e che istintivamente tende a sputare. Sulle conseguenze che
possono avere quei semi in quantità, per chi per piacere o
fame da miseria mangia troppi fichi d’India, abbondano al
mio paese truci racconti popolari.
Ogni volta che assisto a questa reazione, di sputare quasi
istintivamente i semi dei fichi d’India, non posso fare a meno
di rievocare la scena esilarante della commedia L’aria del continente, scritta da Nino Martoglio, nella quale il protagonista
professore siciliano, tornato dal continente in Sicilia sposato
con una donna nordica e dalle idee liberalissime, specie in
fatto di costumi sessuali, al punto da considerare arcaico e
reazionario retaggio la terronica gelosia, scopre che la moglie
non solo è fuggita con un suo amico, ma che per giunta non
del Nord libero e liberale era originaria, bensì dell’arretrato
e sicilianissimo paese di Caropepe. Era carrapipana!, esclama infuriato il professore, e sputava l’ossa dei fichi d’India!
(Prova inconfutabile, e in questo caso fornita in malafede, di
settentrionalità.)
Qualche anno fa, la direttrice creativa di un’agenzia pubblicitaria londinese, che pretendeva che abbandonassi in pieno agosto il mio eremo andaluso per andare a parlare con lei
di un progetto, sorprendentemente decise, di fronte al mio
rifiuto, di venire lei stessa. Si presentarono in tre, dopo un avventuroso viaggio di coincidenze mancate. Li invitai a cena.
Quando arrivammo a casa già faceva notte e i fari dell’automobile con cui ero andato a prenderli all’aeroporto illuminarono la mia cara siepe di fico d’India. La signora, che era
molto direttrice creativa e molto londinese, dovette pensare di
essere arrivata in piena Africa. Alla fine della cena che avevo
preparato per lei e i suoi collaboratori offrii dei fichi d’India.
What is this?, chiese lei diffidente. Le spiegai che erano i frutti
di quei cactus che aveva visto arrivando. Li assaggiò, sputò
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abbondantemente e ripetutamente i semi, e commentò gelida:
Strange fruit.
Non ho avuto quel lavoro.
Col succo un po’ vischioso dei fichi d’India – filtrato, si capisce, dei fatidici semi – si prepara un magnifico sorbetto. Eppure ogni volta, godendomelo, penso con un qual senso di colpa
che ridurlo a raffinato sorbetto è una sorta di violenza culturale
perpetrata nei confronti di quella selvaggia essenza di cactus,
aliena figlia del deserto; un modo per renderla accessibile e accettabile alle non carrapipane figlie delle schizzinosità urbane.
Mi pare più aderente alla cultura materiale del mondo contadino, se esiste, l’uso totale che del fico d’India fanno i messicani.
Con le foglie più tenere, per esempio, preparano molti piatti, anche se io, che le ho assaggiate arrostite, non sono andato
matto per la loro dolciastra bavosità. Preparano fritte croccanti
persino le povere bucce del frutto, naturalmente liberate dalle
molte fastidiose pungenti setole.
Chi le ha provate mi dice che ricordano le squisite melanzane.
201
Vino, ricotta, cannoli
Un mio cugino aveva
alla periferia di Calatafimi
un grosso magazzino per
un commercio di vino
che aveva ereditato dal padre.
La sua casa era a Palermo,
ma a Calatafimi era costretto a
una specie di eremitaggio per
cinque giorni la settimana.
Gli faceva piacere che gli amici andassero a distoglierlo da
un avvitamento solitario che qualche volta, confessava, aveva
l’impressione che gli riuscisse fin troppo bene.
Andavo ogni tanto, con un paio di compagni, a passare
da lui due o tre giorni. Erano strane gite, durante le quali
sembrava che andassimo, più o meno inconsapevolmente, a
sperimentare, a immagazzinare, certe sensazioni primarie.
Mio cugino naturalmente ci faceva assaggiare con orgoglio il
suo vino. I diversi vini, anzi, che si producevano nella zona,
famosa per i vigneti. Ai miei amici piacevano.
Non sono mai stato un bevitore. Anzi. Detesto la pur piacevole sensazione di perdita di controllo che dà l’alcol. Mi
sono ubriacato solo un paio di volte nella vita e non ne ho un
bel ricordo. Mi irrita molto non aver conservato memoria di
che cosa ho vissuto di così eccitante prima della nausea e del
mal di testa del giorno dopo, meritato contrappasso, mi pare,
e che ricordo benissimo.
Altre ebbrezze mi interessano, di cui posso, pur nell’abbandono, analizzare in ogni istante tutte le sfumature.
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Il vino, però, per quanto ne beva poco, mi piace molto.
Non quelli che allora ci faceva assaggiare mio cugino, che
come suo padre ne vantava soprattutto la genuinità e l’altissima gradazione. Bevande impossibili, violente mi sembravano,
come impossibile e violenta mi sembrava la Sicilia che non
sapeva elaborare la sua genuinità e la sua alta gradazione oltre
una sorta di autenticità brutale. Anni dopo i siciliani hanno
trovato il modo di imbrigliare quella forza, che per tanto tempo era stata esportata a buon mercato per aggiungere corpo
a pregiati ma anemici vini del Nord Italia o di Borgogna, e
hanno imparato anche loro a usare i sofisticati metodi tecnici,
le raffinate ipocrisie della cultura per fare il vino, grandi vini,
anzi, che hanno conquistato il mondo.
Sparavamo.
Mio cugino aveva fucili, i fucili di suo padre, che era stato
appassionato cacciatore. Lui non lo era, ma i fucili li aveva
conservati, come badava ai tre cani che aveva ereditato insieme alle armi e ai quali era molto affezionato. Li teneva, cani
e fucili, per prudenza, così diceva, visto che la casa in cui viveva, adiacente al magazzino, era piuttosto isolata. Prudenza
inutile, pensavo, in caso di veri malintenzionati. In realtà i
cani gli facevano compagnia e lui si divertiva, ogni tanto, a
fare del tirassegno con gli amici nel grande cortile. Bottiglie
vuote, scatole di latta. Sono state le uniche volte nella mia vita
in cui ho sparato. Se si eccettuano i fucili da caccia subacquea.
Ma quella è un’altra faccenda.
Di quelle sparatorie ho un ricordo fortissimo. Le esplosioni assordanti. Una sensazione inquietante, come di potenza colpevole, una forte scarica di adrenalina. Una sensazione
primaria, in un certo senso simile a quella che dava al palato
il micidiale vino a diciotto gradi, ne bastavano poche sorsate
perché mi desse alla testa. La mattina all’alba, altro rito, andavamo dal pecoraio di Segesta.
Segesta era a pochissimi chilometri. Il turismo di massa
non era ancora cominciato. Non c’era ancora l’autostrada da
Palermo a Trapani. Il paesaggio era immacolato. Probabilmente identico al tempo in cui erano stati costruiti il tempio
e il teatro, situato un po’ più in alto. Il sole, sorgendo, rivelava
d’improvviso il tempio magnifico dipingendolo d’oro.
L’emozione era straordinaria.
Dentro mi riecheggiavano i versi, forse di Vicente Aleixandre, mai più ritrovati, dedicati a Segesta, nati dalla stessa emozione, nella quale il poeta spagnolo cantava il miracolo di un
gesto di architettura che si fa numero, senso, bellezza.
Tra il tempio e il teatro c’era lo stazzo del pecoraio. Che
a quell’ora, con suo figlio, preparava la ricotta. Gesti esatti,
antichi, silenziosi. Alla fine dava a ciascuno di noi una tazza colma di ricotta caldissima e profumata, che galleggiava
nel suo siero verdino. Ce la godevamo fuori dalla capanna,
con l’odore forte dello stazzo, nel silenzio che parlava solo
attraverso il belato delle pecore, con negli occhi il mistero del
paesaggio che cominciava a definirsi e sembrava miracolosamente convergere nel punto esatto dove il tempio splendeva.
Allo stesso modo, tutto quanto sembrava convergere anche
nel sapore di quella ricotta che ci inondava il palato come la
luce inondava gli alberi, le foglie, le colonne.
Il tempo era come se non esistesse più.
Si può descrivere il sapore di quella ricotta? Ogni volta che
mi capita, qualche rara volta ancora mi capita, di assaggiare
una ricotta, una buona ricotta, ancora calda, mi sembra che
la sensazione di quel sapore, così essenziale, così primario appunto, soprattutto mi serva a tentare di recuperare l’emozione
di quella ricotta mangiata all’alba davanti al tempio di Segesta.
Oggi quello stazzo non c’è più. È stata la prima cosa che
hanno fatto fuori quando hanno “sistemato” l’area per renderla funzionale al turismo di massa.
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Castrato con le zucchine
al matrimonio di Tinherir
Non era decente, hanno detto, quella cacca di pecore in
un luogo così meraviglioso, non era igienico. Ed era invece la
cosa più straordinariamente coerente. Adesso davanti al tempio c’è uno spazio cementato per farci parcheggiare i pullman
e le automobili, c’è un orribile casotto per vendere i biglietti.
C’è l’autostrada, in fondo. C’è insomma tutto quello che occorre, tutto, tranne l’incanto. Come al Partenone di Atene,
come alle piramidi del Cairo. Né magia, né ricotta.
Nostalgia? No. Indignata presa d’atto di quello che ci dicono inevitabile.
Tornando a casa andavamo quasi sempre a mangiare un
cannolo in un piccolo bar pasticceria di Dattilo, un paesino
non lontano da Castellammare del Golfo. Un cannolo straordinario, una specie di protocannolo, secondo me. Credo li
facciano ancora, sono un po’ di anni che non ci torno. Intanto
è enorme, peserà mezzo chilo, una cosa per saziare oltre che
per dare piacere. Da giorno di festa di gente affamata. E poi
ha un sapore brutale, selvaggio. La preparazione della crema
di ricotta è ancora primaria, niente da spartire con la finezza
talvolta eterea dei cannoli delle migliori pasticcerie palermitane, dove la crema è passata attraverso le raffinate tecniche
dei pasticcieri svizzeri chiamati a Palermo nel Settecento per
soddisfare i palati sofisticati della nobiltà. Mangiando quel
cannolo si sente ancora la pecora, il sapore aspro del latte profumato dalle erbe stente di cui si nutrono le bestie, persino
i belati. La scorza, croccante e spessa, sa dell’olio fruttato e
profumato nel quale è stata fritta.
Il ritorno alle origini popolari, contadine, insomma, di una
fortunata invenzione di pasticceria.
In viaggio
in Marocco
con Roberto Leydi.
Non ricordo più per quale storia
o pretesto di quelli che Roberto
sapeva inventarsi
per andare dietro
alle sue curiosità
etnologiche e musicali
e dalle quali sapeva
comunque cavare
affascinanti articoli.
Per me giorni felici.
In viaggio con il mio amico maestro, in un paese meraviglioso, con gli occhi anche più aperti dalle parole e dagli
insegnamenti di Roberto.
Arriviamo la sera a Tinherir, vasta oasi, piantagione di
palme, incastonata in un paesaggio bruno e rossastro, antico
come un racconto orientale.
Ci sistemiamo nel piccolo ostello. Ci giungono ondate di
musica e canti. Leydi scatta come una molla. Prende il suo
registratore Uher, io le macchine fotografiche, e seguiamo il
sentiero della musica. È in corso una festa di matrimonio.
In realtà le feste sono due, una per gli uomini e una per le
donne. Quella degli uomini si svolge in una stanza al primo
piano di una costruzione di fango.
Una piccola stanza, umida e fumosa, appena illuminata
da due lampade a petrolio, stipata di gente che suona, canta,
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Cibi di strada
balla, suda. Ci incorporiamo alla festa, subito accolti con
grande ospitalità e gentilezza.
E immediatamente ci mettono in mano dei bicchieri colmi di rovente tè alla menta, con le belle foglie verdi, troppo
dolce, come deve essere, i bordi decorati da una fitta corona
di mosche. Le cacciamo e beviamo. Non ci lasciano mai con
il bicchiere vuoto. Roberto tira fuori il microfono, io comincio a fotografare. C’è un ragazzino che suona il piffero
con un virtuosismo da grande jazzista. Si forma un cerchio,
al centro alcuni anziani ballano facendo volteggiare scialli
colorati trapunti d’argento.
Da un’altra stanza non lontana giungono le grida e i canti
della festa delle donne, a noi preclusa. Poi arriva un ragazzo
con un grande piatto fumante di cibo, una pietanza di carne
in salsa. Viene messo al centro e tutti si siedono attorno con
il loro pane non lievitato. Ne strappano dei pezzi e con quelli raccolgono carne e sugo dal grande piatto. Naturalmente
siamo invitati anche noi. Prendo il mio boccone usando il
pane come pinza e cucchiaio e lo assaggio. Uno choc: è il castrato con patate, pomodoro e zucchine che preparava mia
madre. Identico non solo l’aspetto, ma anche il sapore.
Lo spazio e il tempo si annullano di colpo. Ritrovo un
pezzo della storia culturale del Mediterraneo, l’inequivocabile filo arabo della mia identità siciliana. Sono a casa.
Dovunque mi sia trovato nel mondo,
da New York
a La Paz,
da Monaco di Baviera
a Benares,
a Timbuctù,
a Shibam,
una delle prime cose che faccio
è assaggiare
qualcosa da mangiare
nelle friggitorie di strada.
Ce ne sono dappertutto; purché quello che friggono o lessano
o arrostiscono assomigli anche un poco a rascature, melanzane, panelle, cazzilli (le crocchette di patate), stigghiole, callo. Mi
sembra di capire meglio la gente e il mondo che mi circonda,
di poterli meglio vedere e interpretare se in bocca ho lo stesso
sapore che hanno loro.
Se dall’autobus che dall’aeroporto di Palermo vi porta
verso la città vedete ai bordi della strada levarsi alte colonne
di fumo, non pensiate che siano segnali indiani. Quel fumo
denso è provocato dal grasso delle stigghiole che si scioglie sui
carboni roventi di enormi graticole. Gli avventori fanno cerchio intorno aspettando che siano cotte per mangiarle ancora
roventi, bruciandosi dita e palato. La stigghiola è uno dei tipici
cibi di strada del Palermitano. Come il meraviglioso lampredotto toscano, è fatta con le trippe. È una specie di involtino
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Uccidere, mangiare
in cui frammenti di trippe sono avvolte insieme a cipolla nel
budello del capretto, o, di sapore ancora più brutale, in quello
di castrato. Si trovano un po’ in tutta la Sicilia, ma nella provincia di Caltanissetta, per esempio, alle trippe si aggiungono
erbe aromatiche e spezie che le rendono saporitissime.
Non solo in Sicilia, però, le ho mangiate; praticamente
identiche sono vendute, sotto forma di salsicce arrostite, nei
mercati marocchini e tunisini, o, in fagottini, anche in Puglia.
Sono parenti, forse antenate, di quella gloria gastronomica
francese che è l’andouillette.
A Palermo il cibo di strada è una maniera del mangiare
veloce che ha poi trionfato come fast food nel mondo intero.
Sono cibo di strada le focacce con la milza, il pane e panelle,
le vastedde con le melanzane fritte, il polpo bollito, il callo (piedi
interi di manzo o di maiale preparati in antri infernali e poi
venduti per strada sotto forma di grossi nervetti mangiati a
stricasale, col sale grosso).
Dovunque vada nel mondo, sono un adepto convinto delle
meraviglie cibarie che si comprano e consumano per strada.
I churros in Spagna, gli hot dog in America, i bratwurst in Germania, i kebap in tutto il Medio Oriente, come i meravigliosi
spiedini che si vendono sulle gradinate delle plazas provvisorie allestite per le corride in Colombia, come le zuppe e i fritti
indiani. Impossibile ricordarli e inventariarli tutti.
Ma mi è sempre sembrato che quei cibi, quei sapori, fossero una lingua popolare straordinaria, che mentre definisce
l’identità di un paese getta un efficacissimo ponte di comunicazione con ogni visitatore straniero.
Una lingua che si comprende al volo, senza bisogno di traduzione.
Vedranno mai
gli uomini
il giorno
in cui non uccideranno più
per mangiare?
Chissà, forse quel giorno coinciderà con il tempo, in un’isola-che-non-c’è, in cui non uccideranno più per paura, per
desiderio di potenza, di ricchezza, di dominio, per orgoglio
ferito, per pura arroganza – per amore persino, dicono.
Diventeremo tutti vegetariani?
Hitler era vegetariano.
E se scoprissimo, come già sappiamo fingendo di non
saperlo, che anche le piante, esseri viventi, hanno sensibilità,
provano dolore?
Ci sono animali vegetariani. Per motivi di coscienza?
Si sente spesso ripetere, e qualche volta vorrei crederlo,
che a differenza degli uomini gli animali uccidono solo per
necessità di sopravvivenza, e che non si conoscono animali
che abbiano progettato e realizzato eccidi di massa. Forse
perché il futuro degli animali non va oltre il tempo di un
istante, di un giorno o di una stagione – la fame della tigre. Persino gli animali sociali, api, formiche, castori, hanno
un futuro che, benché socialmente organizzato, ci appare
chiuso. Ma quella scienza di politica pura che è la zoologia,
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l’osservazione e lo studio degli animali, ci mostra uccisioni
crudeli, spesso politicamente machiavelliche, di altri esseri
viventi più deboli.
Mi ha sempre colpito che i bambini siano tanto appassionati di certi terribili documentari sugli animali.
In quel mondo non esiste la coscienza, quindi non esiste
nemmeno il concetto di male, il peccato, il delitto. La ferocia
viene chiamata istinto, la politica di potenza, difesa del territorio. Noi, normalmente, sistematicamente, industrialmente,
spesso sadicamente, uccidiamo esseri viventi per divorarli.
E ipocritamente, anche. Uomini in strutture apposite lo fanno per noi, con discrezione che arriva alla dura censura. La
bistecca, avvolta nel cellophane dei supermercati, arriva sulla
nostra tavola il più possibile sterilizzata dalla sua natura di
frammento di vittima assassinata.
Ma basta avvicinarsi solo un poco ai macelli industriali,
alle strutture d’allevamento e sterminio di massa degli animali di cui ci cibiamo, per rimanerne sconvolti. Del resto, non è
facile avvicinarsi, ottenere permessi per visitare, o peggio per
fotografare, i macelli industriali.
Una volta ne ho visitato uno in Argentina. Mi hanno mostrato, a fatica, solo l’ingresso e l’uscita dell’impianto. Ma
all’ingresso gli animali sono vivi, e all’uscita sono carne. È in
mezzo che si consuma il rito anonimo, il sacrificio sempre più
tecnologico, pare, ma assai concreto. Mi ha impressionato che
la struttura, architettonicamente, logisticamente, obbedisce
agli stessi criteri e alle stesse esigenze dei campi di sterminio.
I macelli industriali sono il modello dei campi di sterminio.
Di tutti i campi di sterminio.
Dopo quella visita sono stato vegetariano per un mese.
Poi, appunto, un programma di zoologia umana mi ha ricordato che Hitler era vegetariano.
Ho visto altri macelli, a cielo aperto. Nell’Isola di Pasqua,
i cavalli, di cui è, o era?, ricca l’isola li ho visti uccidere senza
alcun tentativo di occultamento da un ometto che li faceva
fuori con un unico, infallibile colpo di mazza in mezzo alla
fronte. A Kami, in Bolivia, dove ogni tanto, in uno slargo
del villaggio veniva macellata una vacca.
A Baghdad, lungo il fiume, la sera, ho visto placide famigliole scegliere con allegria tra i grossi pesci vivi dentro
un bidone quello della loro cena, che veniva subito ammazzato sbattendogli ripetutamente la testa su un banco prima
di pulirlo e metterlo sulla graticola. Nemmeno nel mondo
contadino nel quale sono cresciuto c’erano ipocrisie e occultamenti. Non ho mai sentito nessuno, che mi ricordi, porsi
questo problema in maniera eticamente inquieta. Mia nonna
diceva: Domani facciamo il brodo di gallina. Mio nonno andava nel pollaio, sceglieva una gallina tra quelle che non facevano più uova e le tirava il collo, con naturalezza. Io, piccolino, assistevo a tutta l’operazione, poi portavo la gallina,
che ancora tremava, a mia nonna e la aiutavo a spennarla.
Con i miei amici catturavamo uccellini con il vischio e
le reti e quelli non canterini finivano fritti o arrosto. Del
resto, le esche per prenderli erano vermetti vivi di cui quegli
uccellini andavano ghiotti.
Succede spesso nettando i pesci di trovarvi in pancia altri
pesci più piccoli non ancora del tutto digeriti. Una volta ne
ho trovato uno ancora vivo. In stagione di caccia, uno zio
o un amico di famiglia arrivavano spesso con un coniglio
sanguinolento o una spiedonata di quaglie. Ed era una festa.
Spesso capretti, maiali, agnelli venivano macellati
dagli stessi allevatori davanti all’acquirente.
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Il figlio del macellaio vicino a casa nostra era un mio compagno di giochi. Spesso lo accompagnavo al macello da dove
tornava con pesanti secchi colmi di vischioso sangue. Gli piaceva. Lo beveva caldo, direttamente dal secchio, inginocchiato, con gusto. Cercava in tutti i modi di persuadermi a berne anch’io.
È buono, diceva, pare latte, provalo! Non ce l’ho
mai fatta. Ma mi fa più orrore oggi il ricordo della
sua bocca sanguinolenta di quanto non mi impressionasse allora la sua proposta.
Il sanguinaccio, del resto, che suo padre preparava con quel sangue e vendeva la sera, davanti
alla macelleria che dava sulla piazzetta delle Anime Sante, fumante e odoroso su un tavolone, mi
piaceva molto e moltissimo ancora mi piace, specialmente sotto forma di squisita morcilla spagnola.
Una delle esperienze gastronomiche più straordinarie che
ho vissuto risale a non molti anni fa a Mamoiada, in Sardegna, per la festa di Sant’Antonio, con fuochi, Mamuthones
e tutto, comprese grandi bevute e grandi mangiate di specialità locali. In un sordido garage, dentro un ex bidone di
benzina, fu messo a bollire uno stomaco di pecora intero,
pieno di sangue, spezie e vari condimenti e poi accuratamente ricucito. Lunga cottura, a intervalli regolari interrotta per
manipolazioni ed esperti schiacciamenti dell’impressionante
e fumante recipiente, per evitare che il sangue che conteneva
si raggrumasse. Una volta pronto e squarciato quel primitivo
contenitore, ne veniva estratto e distribuito in scodelle uno
spesso, profumato, saporito, misterioso, indimenticabile budino. Altro che rito arcaico e truculento. Sofisticatissima e
raffinata operazione gastronomica, che a parer mio in quella
occasione sfiorò, forse raggiunse, le vette dell’arte.
È questa cosa qui, la gastronomia: una grande metafora
della cultura, forse dell’intera condizione umana. Unica specie
animale, gli uomini pretendono di riscattare persino l’assassinio degli animali che mangiano mediante la forma estetica.
Nella lotta tra angeli e demoni, che come si sa si sono spartiti il mondo, anch’io come Milan Kundera credevo da bambino che il mondo migliore fosse quello
in cui ci sono solo angeli. Un mondo, quindi, tra le
altre cose, senza macelli, senza i budini di Mamoiada, e senza risate.
Ché le risate sempre presuppongono il demone.
Dopo abbiamo capito (o abbiamo, rassegnati,
accettato?) che forse il vero, difficilissimo ideale è
l’equilibrio tra i due. Se tutto va bene, leggermente,
utopicamente, squilibrato a favore dell’angelo.
Siamo sicuri che saremmo disposti a pagare il
prezzo della rinuncia a Mozart, Piero della Francesca, Dante
per non avere più Hitler, Stalin, Nabucodonosor, Tamerlano?
Che faremmo a meno delle salsicce con il finocchio, della pasta con le sarde, del sugo di maiale, del mole di pollo messicano, delle risate, per eliminare dal nostro orizzonte i macelli,
questi rimossi Buchenwald quotidiani?
Siamo sicuri che potremmo farlo, e che facendolo sopravvivremmo?
Non intendo come corpi. Intendo come uomini, quella
specie ambigua, terribile, non banale alla quale apparteniamo.
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Colombia di frutta e coccodrilli
Facevo un giro fotografico
in Colombia.
Scoprivo
un paese martoriato
dalla violenza
mafiosa e terroristica,
ma straordinario
per varietà e bellezza.
La suggestione dei paesaggi del Rio delle Amazzoni, Leticia de
las Tres Fronteras, una cittadina dove convergono le frontiere di
tre paesi. Con le sue banchine da dove partono le navi che fanno sognare Fitzcarraldo e che costeggiando il fiume immenso
raggiungono luoghi di cui bastano i nomi per farti sentire personaggio di un romanzo d’avventure: Puerto Nariño, Ramón
Castilla, Tabatinga. Lungo il fiume un brulichio di marinai,
scaricatori, vocianti venditori di spettacolosi pesci colorati, di
frutti sconosciuti. Mi feci accompagnare da un barcaiolo in un
giro per il fiume solenne e i suoi mille bracci, dove la foresta
si specchia così perfettamente da offrire un mondo doppio nel
quale gli alberi svettano verso il cielo allo stesso modo in cui
sprofondano verso l’abisso. La guida mi portò dentro un’ansa
buia dove per un attimo fu possibile indovinare attraverso il
velo melmoso dell’acqua, terribile e gigantesca, l’anaconda. Tirò
fuori una canna rudimentale e si mise a pescare pirañas, striati
e coloratissimi, con denti feroci, aguzzi e spaventosi.
Su una fornacella poi preparò un piccolo fuoco e mangiammo pirañas arrostiti. Non sono male, anche se sono pieni di
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spine e lasciano in bocca un sapore di fiume, denso e limaccioso come il grande Rio. Poi mi portò in un villaggio dove mi disse che avremmo forse potuto incontrare dei cacciatori di frodo
di coccodrilli. Li trovammo che ne stavano arrostendo uno a
pezzi su un largo letto di braci. Conoscevano il mio accompagnatore, e così fummo invitati a pranzo. Un ragazzo aveva
svuotato una zampa e la indossava orgoglioso come un guanto
unghiato e inquietante. Mi fecero vedere il cranio, già perfettamente ripulito dalla carne. Non era un animale enorme, ma
furono necessari due giovani per aprirgli la bocca e mostrarmi
i denti micidiali. La bistecca era eccellente, aveva un sapore che
mi è sembrato una via di mezzo tra il pesce e il pollo.
Ma la Colombia è molte altre cose.
È Bogotá, vivissima e molto pericolosa, non si stancavano
di mettermi in guardia, soprattutto la notte e in certi quartieri,
dove dopo il tramonto non si avventura nemmeno la polizia.
È Cartagena de Indias, dove si ritrova intatto il fascino dei
tempi dei Conquistadores.
Sono Las Islas del Rosario, molte delle quali microscopiche,
che ospitano una sola casa o una capanna, disseminate in un
arcipelago che è uno stereotipo tropicale, paradiso di mare blu
e spiagge di un bianco accecante.
Sono i siti archeologici precolombiani, come San Agustín,
immacolati, non ancora paesaggisticamente e culturalmente distrutti dalle orde del turismo di massa.
Ci accompagnava Alberto, un autista innamorato del suo
paese e appassionatissimo della sua frutta. Lungo le strade, ci
fece scoprire, ci sono posadas esclusivamente dedicate alla frutta, dove i viaggiatori si fermano per riposarsi consumando
succhi e frullati che mescolano una varietà di frutti dai sapori
fiabeschi. Durante quel viaggio, grazie alla competenza e alla
passione di Alberto, credo di avere assaggiato per la prima volta
almeno una dozzina di frutti che solo da poco cominciano ad
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Prima salsiccia alla festa della Milicia.
Gli azeruoli
arrivare, e non tutti, nei nostri più sofisticati negozi europei di
Delikatessen. Tra questi, il prelibatissimo, per loro, durien, forse
il frutto più caro al mondo. Assomiglia un poco a un ananas e
puzza, almeno per il nostro olfatto occidentale, talmente tanto
che è persino proibito trasportarlo in aereo se non è avvolto in
almeno tre strati di fogli metallici.
Era il 31 di dicembre. Guardando la carta avevo scoperto
che non eravamo lontanissimi da un villaggio che si chiamava
Palermo. Decisi che avrei passato il mio capodanno tropicale a
Palermo di Colombia, e ci andammo. Era un villaggio davvero
minuscolo. Fu una fine d’anno speciale, con brindisi a base di
succo di frutto della passione.
Il giorno dopo consumavamo la nostra colazione di latte di
cocco e altra frutta sui gradini dell’ostello, dove avevamo trovato da dormire in una grande stanza dal cui soffitto penzolavano
varie amache.
Si avvicinò un bambino che portava tra le braccia un enorme canestro colmo di chirimoyas. Adesso è facile trovarle anche
da noi, le chirimoyas. Ma io le avevo scoperte pochi giorni prima.
Sembrano pigne, e avevo imparato che sotto le scaglie in apparenza durissime si nascondevano cremose, profumate dolcezze.
Il bambino ce le offriva con un timido sorriso.
Quanto costano?, chiesi. Tre pesos, mi rispose. Era comunque un prezzo irrisorio. Tre pesos ciascuna?, chiesi con una
faccia teatralmente scandalizzata.
Il bambino sbarrò gli occhi stupefatto: No, señor, tres pesos toda
la canasta!
I frigoriferi hanno cambiato
il rapporto con il cibo.
Quando ero ragazzo,
a Bagheria,
conservare la carne,
i pesci, la frutta, la ricotta,
diventava problematico
quando arrivava
il caldo.
E da giugno in poi il caldo poteva diventare davvero forte,
specialmente nei giorni in cui soffiava il vento di scirocco e
l’aria sembrava uscire dalla bocca di un forno. Il refrigerio si
conquistava a forza di immobilità e di ghiaccio.
In paese c’era il venditore di ghiaccio. Era in una stradina
che per l’appunto si chiamava vicolo della Neve, in ricordo di
tempi, da me non conosciuti salvo che in vecchie fotografie,
in cui si vendeva la neve raccolta in inverno sulle Madonie e
poi trasportata e conservata sottoterra. Le fabbriche di ghiaccio industriale cambiarono le tecniche di conservazione e i
piaceri, soprattutto nel consumo delle bevande. Vicinissimo
alla nostra casetta di campagna ce n’era una e le domeniche
d’estate, quando eravamo ancora in paese, mi mandavano a
comprare un quarto di blocco di ghiaccio. Avvolto in un panno, lo portavo a casa correndo. Si metteva, insieme a poca acqua, in un grande recipiente di zinco dove venivano immerse
bottiglie d’acqua, vino, aranciate, angurie. Il tutto ricoperto da
una spessa coperta di lana per mantenerne più a lungo la temperatura. Pochi avevano la ghiacciaia: macellai, pescivendoli.
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Quando eravamo in campagna, invece, con la scusa della
granita e delle angurie da raffreddare, me ne stavo ore alla
fabbrica del ghiaccio a guardare i caricatori che riempivano
carretti e camioncini con i blocchi candidi tirati fuori dalla
camera ghiaccia. Questo mio piacere fu interrotto da un incidente del quale ho ben vivo e ancora terrorizzato ricordo.
Era una di quelle giornate di scirocco terribile, da boccheggiare. Ero lì con la mia canottierina a bearmi delle freschissime folate di refrigerio che uscivano dalla grande ghiacciaia
quando, non visto, mi ci infilai dentro. Immediatamente dopo,
completato il lavoro, i caricatori chiusero la pesante porta blindata. Mi ritrovai al buio e incapace di aprire da dentro la pesantissima porta. Nessuno sentì le mie grida. Per fortuna pochi minuti dopo ci fu da fare un altro carico, i caricatori aprirono la ghiacciaia e, con raccapriccio, mi ci trovarono dentro
tremante e in lacrime. Don Antonino, il proprietario, si mise
a bestemmiare e a urlare contro tutti come un ossesso. Le mie
scorribande alla fabbrica del ghiaccio finirono per sempre.
La difficoltà, in estate, di conservare i cibi costringeva a
regole molto precise.
Per esempio, da luglio in poi non si vendeva più la ricotta
fresca, non si facevano cassate, cannoli e altri dolci con quella
crema, non si macellavano più i maiali. Il consumo di certi
cibi era dunque stagionale, e diventava rituale.
Le cassate e i cannoli ritornavano a settembre e a settembre pure, per la festa della Madonna, si faceva la prima salsiccia di maiale. L’occasione era la festa di Altavilla Milicia, meta
di un enorme pellegrinaggio, molto spesso a piedi scalzi, verso il santuario della Madonna nera. Io, quando fui più grandino, accompagnavo mia madre e mia nonna; da piccolissimo
andavo con mio nonno, sul carrettino tirato dall’asino Ciccio,
con il quale poi tornava tutta la famiglia. Mi piaceva molto
quel pellegrinaggio, lo aspettavo con ansia. C’erano tante ban-
carelle colorate che vendevano giocattoli di legno, tamburini,
girandole. Sempre me ne regalavano uno. Era pure l’occasione per comprare brocche, pentole di terracotta e i meravigliosi
bummuli, dove l’acqua si manteneva così fresca e prendeva un
sapore speciale. Ma il “viaggio” alla Madonna della Milicia rimane per me legato
a due sapori. Mio padre, immancabilmente, comprava un gran cartoccio di azeruoli,
frutto che si trovava solo in quella occasione, di sapore dolce e acidulo. Io ne andavo
matto, e ancora adesso quando mi capita
di trovarne li compro per sentire di nuovo nel palato il sapore
infantile di quella festa. Le strade di Altavilla erano invase
da lunghi tavoloni, a ogni angolo c’erano enormi griglie dove
energicamente si sventolava la carbonella per arrostirvi grandi
ruote della prima salsiccia. Tutto il paese era invaso dal fumo
profumato, speziato e dolciastro di quella gigantesca grigliata.
Ogni festa aveva i suoi sapori. I pupi di zucchero e le ossa
dei morti per il 2 novembre. Festa grande per i bambini.
I regali, infatti, non era Gesù Bambino o Babbo Natale a portarli. Li portavano i morti. Li scoprivamo con emozione sotto
il letto. Piccoli, poveri regali, ma anche dolcetti, mostaccioli,
cavalieri e damine di zucchero colorato.
Per la festa di San Giuseppe c’erano le bancarelle con il
torrone di campagna. Un torrone contadino sostanzialmente
fatto di zucchero e mandorle. Il sapore non mi incantava, né
la consistenza sabbiosa, ma moltissimo mi piacevano i colori
duri e improbabili delle fette di torrone artisticamente disposte nelle bancarelle, sotto grandi immagini del santo, come
piccoli Mondrian rivisti da Klee.
Poi c’erano i caliari, con i loro spettacolari banchi colorati, impennacchiati e dipinti. In grosse fornacelle facevano la
calia tostando i ceci dentro la sabbia. Con lo stesso metodo
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si arrostivano in inverno le castagne nella cenere. Poi c’erano i semi di zucca e di melone tostati e ricoperti di sale – la
simenza –, arachidi, mandorle. Lo scacciu era una mescolanza
variamente composta di questi elementi, comunque con prevalenza di simenza e calia. Se ne compravano grossi cartocci.
Ognuno aveva il suo, oppure ce n’era uno enorme per tutta
la famiglia, e tutti vestiti a festa la sera si faceva cento volte
lo struscio avanti e indietro per il corso, in mezzo a una folla
inestricabile, aspettando l’ora tarda dei fuochi d’artificio. Era
un’occasione importante per le ragazze delle famiglie contadine, che raramente uscivano di casa, per mostrarsi ai giovani del paese nella speranza che da brevi ma intense occhiate
assassine nascessero amori, o richieste di fidanzamento. Tutti
quanti ruminavano la calia e rompevano i semi con un abile
colpo di denti per poi sputarne le buccine salate. All’alba, sul
corso ce n’era un compatto tappeto.
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Cucinare
Non c’è niente che mi rassereni come cucinare. Per me è quasi
come ascoltare musica: mette in moto razionalità ed estetica.
Ti stimola a trovare un equilibrio tra la tua identità, la tua
tradizione, e l’identità e la tradizione della gente che incontri,
e così facendo ti sollecita la creatività.
È regola codificata, da rispettare con grande scrupolo artigianale, e nello stesso tempo possibilità di sperimentazione.
Da bambino ero sempre tra i piedi quando mia madre cucinava. La sua era una cucina di tradizione. I piatti che preparava non erano numerosissimi, ma li eseguiva con precisione
e scrupolo. Li aveva imparati da sua madre, che a sua volta li
aveva imparati dalla sua. Ma non era ripetitiva, perché seguiva
le stagioni. Specialmente nell’uso delle verdure, era infatti il
loro ritorno stagionale a determinare le pietanze che arrivavano in tavola. I piselli, per esempio, le zucchine, non c’erano
tutto l’anno, c’erano quando era il loro tempo.
Non esistevano i cibi surgelati e mia madre non usava mai
cibi in scatola. Il pomodoro c’era soltanto nei mesi estivi e le
passate o l’estratto si preparavano per l’inverno nel momento
della massima maturazione. Ma i sughi fatti con l’estratto non
avevano niente a che fare con le altre preparazioni in cui entrava il pomodoro fresco, e neanche la passata delle bottiglie
produceva condimenti identici a quelli che si facevano d’estate.
Tutte queste cose le imparavo nella quotidianità. Quello che mi
stupiva era che la salsa di pomodoro per la pasta che preparava mia madre, per esempio, per quanto fosse fatta secondo un
procedimento che a me sembrava identico, non aveva lo stesso
sapore di quella di mia nonna, ancora meno di quella delle mie
zie. Ciascuna aveva il suo stile, la sua sfumatura particolare.
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All’inizio, quando adolescente cominciai a giocare-sperimentare in cucina, la spinta era provare cose diverse, in cui
gli ingredienti erano assemblati e trattati in maniera diversa,
trasgressiva, rispetto a quella, canonica, con cui mia madre
preparava le sue pietanze. Nella maggior parte dei casi, i catastrofici risultati erano frutto di cervellotiche sperimentazioni.
Mia madre commentava disgustata che combinavo dei pasticci. Ma anche quando difendevo i miei pasticci, il gusto mi
faceva capire che ogni sovvertimento dei canoni e delle regole
deve avere come scopo la costruzione di nuovi canoni e nuove regole, non basta sovvertirli. Al tempo stesso, scoprivo che
le regole rimanevano astratte se prive di sapienza interpretativa. Ogni volta che ho cercato di farmi trasferire da mia madre
la ricetta esatta per preparare una pietanza mi sono reso conto
di quanto l’impresa fosse difficile, se non impossibile. Quanto
aglio, quanta cipolla? Quella che occorre, è di solito la risposta di mia madre. Quanto a lungo bisogna friggere una fetta
di melanzana? Finché vedi che è pronta. Già. Ma poi dipende
dall’aglio: fresco o conservato?, e la melanzana, fritta dopo
averla messa a bagno in acqua e sale? Di stagione, o prodotta in serra? E il basilico? Dipende dal profumo, dal tipo, da
quando è stato colto. Il finocchietto, è stato raccolto fresco
in collina la mattina? Mio padre sosteneva che le minestre
cambiavano completamente sapore se le verdure erano state
colte la mattina stessa o il giorno prima. Renato Guttuso mi
aveva raccontato che suo padre era contrarissimo a cuocere la
pasta con la fiamma del gas, sosteneva che il sapore cambiava
radicalmente se la si cuoceva nella fornacella a fuoco di legna,
e se cercavano di coglierlo in castagna non sbagliava mai.
Fanatismi? Forse.
Non ho mai sacrificato a certi fondamentalismi. Ma ne rispetto il senso culturale. E ho capito che è molto più difficile
ottenere una pasta con le sarde rigorosamente eseguita, che
È stato così che il fascino del cucinare ha cominciato a sedurmi.
Un po’ più o un po’ meno di olio per il soffritto, tenuto un
po’ più a lungo nella padella prima di mettervi i pomodori,
l’aggiunta di un poco di aglio, di basilico a foglia piccola o a
foglia larga, le arbitrarie quantità e i vaghi tempi di cottura
erano altrettante varianti che si aggiungevano alle differenze
sottili ma concrete delle materie prime. La regola era ferrea,
eppure l’individualità artigiana con la quale veniva interpretata, producendo risultati magari leggermente diversi ma comunque diversi, spalancava le porte a ogni possibile invenzione. Assomigliava, questa scoperta, all’altra, stupefacente,
del linguaggio. Anche nel linguaggio c’era accumulo di variatissimi ingredienti, le parole, e di regole esatte e complesse
con cui usarli. Con il paradosso che il sistema delle regole non
limitava la libertà d’uso. Anzi, la moltiplicava.
(Ricordo lo stupore della mia figlia maggiore quando scoprì che la parola cane e la parola pane, pur così simili, designavano cose tanto diverse. Il cane poteva mangiare il pane,
ma non viceversa. Si poteva però immaginare una favola in
cui, in un mondo diverso, quello della fantasia, questo diventava possibile.)
Andavo insomma scoprendo che la cucina, come il linguaggio, era frutto di una storia lunga e variegata, della geografia, della natura, degli scambi, delle infinite sperimentazioni che avevano portato a quelle regole, a quei canoni. E che
nel linguaggio, come nel cucinare e nel mangiare, ogni invenzione, ogni fantasia, era consentita, a condizione di conoscere
quei canoni e quelle regole, pena la gratuità di ogni trasgressione, la babele di ogni possibilità di comunicare, l’incapacità
di riconoscere e rispettare le regole degli altri, le loro idee e i
loro gusti, come il fatto che mangiassero cose a te sconosciute, cucinate in maniere diversissime e magari ripugnanti per il
codice culturale nel quale eri cresciuto.
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tenti di essere all’altezza dei miei ricordi e dei miei canoni di
gusto, che compiacersi di una sperimentazione cervellotica,
anche se magari qualche volta riuscita, che non ha bisogno
di corrispondere, nel gusto tuo e degli altri, a regole stabilite
nel tempo e condivise. Mi servo spesso, nel tentare di definire
e comunicare le regole cui mi riferisco per il mio lavoro di
fotografo, di paragoni culinari. Una fotografia, un reportage,
un libro, un racconto devono essere cucinati come si deve. La
lingua dev’essere sempre rispettata. Non certo per ripetere
all’infinito il già fatto e il già detto, ma per cercare di dare senso e consapevolezza culturale alle necessarie sperimentazioni.
Cucinare è pratica eminentemente umana, profondamente
culturale. Cucinare è vivere, è pensare, è intuire. Cucinare mi
ha fatto capire la metafora utilizzata da Federico De Roberto
nell’Imperio, a proposito della difficoltà della politica, quando
considera che anche in politica, come in cucina, per ottenere
una pietanza degna bisogna spesso sporcarsi le mani. In cucina ho riflettuto sulla nostra forse inevitabile natura di feroci
predatori. Vázquez Montalbán ha scritto che gli uomini sono
i soli animali che hanno trasformato l’assassinio in una delle
belle arti. In cucina si medita incessantemente sulla bellezza
della natura, sulla varietà dei sapori, dei colori, dei cibi e degli
ingredienti che usiamo e sulla possibilità, e la difficoltà, che
sono poi il fondamento di ogni gesto culturale, di trasformare
tanti elementi in qualcosa di nuovo e diverso. Di costruire
altri specchi della nostra verità umana.
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Finito di stampare nel mese di aprile 2013, presso EBS, Verona.
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