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Esperimenti “Classici” in Fisica Moderna
Esperimenti “Classici” in Fisica Moderna Università degli Studi Dell'Insubria Esperimenti “Classici” in Fisica Moderna Ricardo Gabriel Berlasso Indice Introduzione......................................................................................................1 Ringraziamenti.................................................................................................5 Misura della velocità della luce.....................................................................7 L'esperimento............................................................................................12 Procedura sperimentale.....................................................................14 Misura del rapporto carica / massa per l'elettrone..................................17 L'esperimento............................................................................................19 L'apparecchiatura...............................................................................20 Procedura sperimentale.....................................................................22 Il calcolo del rapporto carica/massa................................................24 Biografia....................................................................................................27 Corpo nero.......................................................................................................29 Planck e i “quanti”...................................................................................32 L'esperimento............................................................................................33 La lunghezza d'onda..........................................................................35 Calcolo della temperatura della lampada......................................36 L'apparecchiatura...............................................................................37 Calibrazione........................................................................................39 Misura..................................................................................................41 Biografia....................................................................................................44 Effetto fotoelettrico........................................................................................45 Einstein e i “quanti”.................................................................................46 L'esperimento............................................................................................47 Biografia....................................................................................................50 Diffrazione di elettroni.................................................................................51 i Introduzione............................................................................................51 L'esperimento.........................................................................................53 Misura della distanza tra gli atomi...............................................56 Biografie..................................................................................................59 Spettri atomici..............................................................................................61 Introduzione............................................................................................62 L'esperimento.........................................................................................64 Biografie..................................................................................................67 Esperienza di Franck-Hertz.......................................................................69 Introduzione............................................................................................69 L'esperimento.........................................................................................71 Biografie..................................................................................................75 Effetto Zeeman.............................................................................................77 I livelli atomici.......................................................................................78 Le regole di selezione......................................................................83 L'esperimento.........................................................................................84 Biografia..................................................................................................90 Misura della costante di Planck................................................................91 Introduzione............................................................................................91 Semiconduttori ................................................................................92 Semiconduttori “drogati”, giunzioni e diodi...............................95 LED.....................................................................................................98 L'esperimento.......................................................................................100 Bibliografia.................................................................................................103 ii Introduzione Il passaggio dalla cosiddetta meccanica classica (cioè da una visione di un universo continuo e prevedibile) alla meccanica quantistica (dove tutto si produce “a salti” e si può soltanto parlare di probabilità) è stato un processo lungo che ha richiesto l'intervento di numerose menti brillanti che sapessero guardare aldilà delle apparenze. Attualmente noi siamo abituati a sentir parlare di atomi, fotoni, anche di “quanti”, nonostante sia passato appena un secolo da quando il (per noi) semplice concetto di una materia formata da atomi e molecole fu universalmente accettato. Infatti, uno dei lavori che resero famoso Albert Einstein insieme alla sua teoria della relatività e all'effetto fotoelettrico (di cui parleremo più avanti) fu la sua descrizione del “moto browniano”, che si basava appunto sull'idea che la materia non fosse continua. E stiamo parlando del 1905... In questo manuale saranno presentati alcuni degli esperimenti che si sono susseguiti nella lunga strada verso la fisica moderna, e verrà descritto come riprodurli con materiale di laboratorio. Ogni esperimento è preceduto da una introduzione con le basi teoriche e con alcuni dettagli storici. Sono stati incluse anche alcune indicazioni sulla vita dei personaggi responsabili di queste scoperte. L'ordine nel quale gli esperimenti sono presentati non rispetta la sequenza temporale: tutte queste scoperte furono fatte in un periodo 1 2 Introduzione relativamente breve mentre la loro elaborazione teorica spesso è arrivata parecchi anni dopo. Per esempio, l'effetto Zeeman fu scoperto nel 1896, ma la sua spiegazione ha dovuto aspettare concetti che si sarebbero sviluppati molti anni dopo e pertanto in questo manuale viene descritto come uno degli ultimi esperimenti. Questa “raccolta di esperimenti” inizia con il meno “moderno” di tutti: la misura della velocità della luce. Nonostante l'uso di un laser, questo esperimento può essere realizzato e capito tramite concetti classici. L'averlo inserito tra gli esperimenti che abbiamo chiamato moderni è merito del fatto che il valore di questa costante nel vuoto non dipende dalle condizioni nelle quali è misurata: in altre parole, ci troviamo di fronte alla base della teoria della relatività. L'esperimento successivo è la misura del rapporto carica-massa per l'elettrone, il primo passo verso la fisica atomica. La radiazione del corpo nero e l'effetto fotoelettrico ci dimostrano come fosse necessario considerare la radiazione elettromagnetica, che dai tempi di Maxwell (1831-1879) si pensava fosse un fenomeno ondulatorio, come costituita da un insieme di particelle; la diffrazione di elettroni a sua volta dimostra come quelle che crediamo essere particelle abbiano in realtà le caratteristiche di un'onda. Gli spettri atomici sono un altro esempio di esperienze che hanno dovuto attendere per ricevere una spiegazione teorica: l'esperienza di Franck-Hertz ci permetterà di toccare anche questo campo. Il libro si chiude con due aspetti noti sin dall'inizio della storia della meccanica quantistica: l'effetto Zeeman (a cui abbiamo già accennato) e la misura della costante di Planck h. La costante di Planck ha l'onore di chiudere questo manuale in quanto il metodo che noi useremo per misurarla, per quanto semplice nella pratica, ha bisogno di concetti presi in prestito dalla fisica dello stato solido. In tutto il manuale si è cercato di dare più importanza ai concetti fisici che a formule e derivazioni, che sono presenti solo quando strettamente necessarie per l'esperimento. Introduzione 3 Quindi mettiamoci al lavoro! Buon divertimento! Como, Ottobre 2007 Ringraziamenti Prima di tutto, vorrei ringraziare l'Università degli Studi dell'Insubria che mi ha dato l'opportunità di preparare questo materiale didattico: non dobbiamo dimenticare che la scienza senza la comunicazione nulla sarebbe. Nel processo di composizione di questo testo (come in tutto il resto), è stato di fondamentale importanza l'aiuto della mia compagna di vita, Marina Marta Iglesias, che ha letto e commentato ogni parola di ogni revisione con una cura eccezionale. Uno speciale ringraziamento per il dottor Daniele Faccio e le dottoresse Chiara Cappellini e Michela Prest per il loro accurato lavoro di lettura, “caccia di errori” e dettagliati commenti: è soltanto mia la responsabilità per qualsiasi errore che sia rimasto. 5 Misura della velocità della luce La velocità della luce è stato argomento di grande dibattito nella storia della scienza. Empedocle sosteneva che la luce fosse un “qualcosa” in moto, che quindi richiedeva tempo per il suo viaggio. Aristotele dal canto suo diceva che “la luce è dovuta alla presenza di qualcosa, però non è moto”. Un'antica teoria della visione sosteneva che la luce fosse emessa dagli occhi, invece di entrarne provenendo da una sorgente. Erone di Alessandria usò quest'idea per argomentare che la velocità della luce doveva essere infinita: gli oggetti lontani come le stelle apparivano appena si aprivano gli occhi. Da quei tempi, diversi filosofi hanno sostenuto entrambe le posizioni fino ai primi tentativi (nel Seicento) di misurare tale velocità. Galileo fu uno dei primi a proporre un esperimento con due osservatori separati da una grande distanza, però all'epoca non c'erano strumenti abbastanza precisi per misurare una differenza. La prima misura quantitativa della velocità della luce è del 1676. Ole Rømer studiava il moto di una delle lune di Giove, Io, e si rese conto di una “irregolarità troppo regolare”. I tempi nei quali Io veniva nascosta alla Terra da Giove si susseguivano in modo molto regolare 7 8 Misura della velocità della luce (ogni 42.5 ore) quando la Terra si trovava nel suo punto di massima vicinanza a Giove (H, nel disegno originale di Rømer riportato in figura). Usando queste misure per fare una predizione dell'eclissi successiva, Rømer si rese conto che, man mano che la Terra e Giove si allontanavano (L e K) si produceva un ritardo, il quale era massimo nelle condizioni di massima separazione tra i due pianeti (E) e diminuiva progressivamente quando si avvicinavano nuovamente (F e G), fino a coincidere col valore previsto quando entrambi pianeti erano ancora una volta alla distanza minima. Rømer concluse che quel ritardo era dovuto al tempo in più di cui aveva bisogno la luce per percorrere la maggiore distanza tra la Terra e Giove, distanza uguale al diametro dell'orbita della Terra quando il ritardo era massimo. Rømer misurò questo ritardo massimo ottenendo un valore di circa 22 minuti (il valore oggi accettato è di 16 minuti e 36 secondi), e dato che il valore dell'unità astronomica (una unità astronomica è uguale al raggio dell'orbita della Terra) era stimato all'epoca intorno ai 146.5 milioni di chilometri (il valore reale è di circa 150 milioni di chilometri), calcolò un valore per la velocità di 222000 chilometri al secondo. Dato che il valore atteso (come oggi lo conosciamo) è di 299792.458 chilometri al secondo, Rømer effettuò una misura di solo (pensate al periodo!) il 26% inferiore al valore atteso. Nel 1728 James Bradley propose un'altra misura astronomica. Bradley calcolò che, a causa del moto della Terra nella sua orbita, la luce delle stelle doveva arrivare con un piccolo angolo, il quale dipendeva della direzione nella quale la Terra si muoveva. Misurando l'angolo di una stella lungo tutto il corso dell'anno (e con diversi ragionamenti matematici), riuscì a calcolare una velocità della luce di circa 298000 chilometri al secondo, valore molto simile a quello atteso. Il primo esperimento “terrestre” ad avere successo fu quello di Misura della velocità della luce 9 Hippolyte Fizeau nel 1849. L'esperimento di Fizeau era concettualmente molto simile ad alcune proposte precedenti, come quella di Galileo: un fascio di luce veniva diretto verso uno specchio a grande distanza facendolo passare (sia all'andata che al ritorno) attraverso i denti di un ingranaggio rotante. La luce che passava all'andata poteva trovarsi di fronte a un dente al ritorno a seconda del tempo del percorso e della velocità dell'ingranaggio. Regolando perciò la velocità di rotazione in modo tale che il fascio non fosse bloccato, si poteva calcolare il tempo necessario alla luce per andare e tornare, e quindi anche la sua velocità. Fizau ottenne una velocità di 313000 chilometri al secondo. Il suo metodo venne successivamente migliorato da Marie Alfred Cornu (1872) e Joseph Perrotin (1900). Leon Foucault migliorò il metodo di Fizeau sostituendo l'ingranaggio con uno specchio rotante, ottenendo nel 1862 il valore di 298000 chilometri al secondo in aria.1 Il suo metodo fu utilizzato da Simon Newcomb e Albert A. Michelson (anche lui rivestì un ruolo importante per la nascita della relatività). Il sistema di Michelson (del quale noi useremo una piccola variazione) è presentato in Figura 1. La sorgente luminosa S produce attraverso la lente L, la cui distanza focale è f, passando per lo specchio N, un'immagine S' su uno specchio piano fisso R. La distanza tra S e L (considerando N) è uguale a quella tra L e R, ed è uguale a due volte la distanza focale della lente L.2 1 Riuscì anche a misurare la velocità in acqua, dimostrando che era minore di quella in aria, come previsto dalla teoria ondulatoria. 2 In questo modo la distanza tra l'oggetto S e l'immagine S' è minima, in modo di ridurre al massimo l'ingombro del dispositivo. 10 Misura della velocità della luce 2·f – a Schermo ω N S P Specchio rotante a L Specchio fisso 2 ·f S' R Figura 1: Il dispositivo di Michelson. Se lo specchio N rimanesse fisso, la luce rifarebbe all'indietro lo stesso percorso dell'andata; dati che lo specchio N ruota con una velocità angolare ω si sarà spostato di un angolo ω·Δt nel tempo Δt impiegato dalla luce per andare a R e ritornare. Se indichiamo con c il valore assoluto della velocità della luce, questo tempo sarà t = 2 a4 f c (1) Misura della velocità della luce 11 Trovando lo specchio in un altra posizione, il fascio che ritorna verrà deviato, rispetto alla linea che unisce la sorgente S con lo specchio N, di due volte l'angolo ω·Δt. Ne risulta che la luce al ritorno si sposterà rispetto a S di una quantità δ pari a (stiamo considerando angoli piccoli, in modo tale che la tangente dell'angolo sia approssimativamente uguale all'angolo): = 4 4 f 2−a 2 c (2) Perciò misurando δ si può ottenere il valore di c. Dobbiamo tener presente gli ordini di grandezza delle distanze di cui stiamo parlando: se ω ha un valore di circa 1000 radianti al secondo (approssimativamente 9550 giri al minuto), f di 5 metri ed a di 1 metro, δ sarà di circa 1.3 millimetri; con spostamenti così piccoli, è difficile distinguere la sorgente dall'immagine che si forma al ritorno. In Figura 1 è disegnata una riga a 45º indicata con P: si tratta di una lastra di vetro che si usa per semplificare l'osservazione. Deviando una parte della luce che ritorna su uno schermo, è possibile vedere di quanto si sposta il fascio di ritorno rispetto alla sua posizione quando lo specchio è fermo. In altre parole, con lo specchio rotante fermo e il tutto allineato in modo tale che il fascio ritorni esattamente per la stessa strada di andata, si vedrà un punto sullo schermo che poi si sposta non appena lo specchio comincia a girare: come si vede in Figura 2, misurando lo spostamento sullo schermo si ottiene il valore δ.3 3 Dato che gli angoli in gioco sono così piccoli (meno di un centesimo di grado), si può considerare che sulla lastra i fasci di ritorno con specchio fermo e specchio rotante siano paralleli (altrimenti la distanza tra i punti non sarebbe esattamente uguale a δ). 12 Misura della velocità della luce δ Schermo Fascio senza deviare (specchio fermo) Fascio deviato P δ S Figura 2: Misura dello spostamento del fascio di ritorno. Soltanto dopo la seconda guerra mondiale, i progressi tecnologici hanno permesso una misura più precisa della velocità della luce che venne standardizzata soltanto nel 1983, durante la 17 th Conférence Générale des Poids et Mesures. In questa stessa conferenza venne standardizzato anche il valore del metro usando proprio la velocità della luce come riferimento. L'esperimento L'esperimento replica fondamentalmente modificato da Michelson. l'apparato di Fizeau Come si vede in Figura 3, è stato aggiunto uno specchio nel punto O in modo tale da rendere il setup più compatto. Le distanze indicate sono tutte espresse in unità di distanza focale della lente. In questa configurazione si ottiene che a = f; pertanto, considerando l'espressione 2 risulta c = 12 f 2 (3) Misura della velocità della luce 13 f Schermo N Laser P 1 2 f Fotodiodo f L O Oscilloscopio R 3 f 2 S' Figura 3: Schema del dispositivo sperimentale. Importante!!! Grazie allo schema in Figura 3 si ottiene un'espressione compatta per il valore di c; il setup sperimentale però non è facile da realizzare. Se si modificano le distanze tra gli oggetti, la formula per calcolare c deve essere rivista! In generale, se indichiamo con D la distanza N-S' (passando per O), sarà t = 2cD , e se L è la distanza tra 4D L il laser e N, risulterà c = . 14 Misura della velocità della luce Le distanze devono essere misurate nel modo più accurato possibile! Altra considerazione sul montaggio: tanto l'inclinazione iniziale di N quanto l'orientazione di O non sono importanti, dipendendo soltanto delle vostre limitazioni di spazio. La variazione più importante rispetto agli esperimenti di Fizeau e Michelson è l'utilizzo del laser al posto della lampada incandescente S: essendo una sorgente molto brillante, semplifica enormemente la misura dello spostamento delle “macchie” sullo schermo. Procedura sperimentale Attenzione! Anche se di bassa potenza, la luce emessa dal laser è altamente “brillante”: si deve fare attenzione ad evitare riflessi non desiderati che possano arrivare agli occhi. Si devono utilizzare occhiali protettivi ed evitare di indossare anelli, orologi o qualsiasi cosa che possa dare una riflessione non controllata. Lo specchio rotante è controllato da un potenziometro. Il fotodiodo e l'oscilloscopio in Figura 3 servono a misurare la frequenza di rotazione dello specchio. Il fotodiodo deve essere posto sul percorso del fascio in uscita: la frequenza di rotazione viene ricavata dal segnale alternato osservato sull'oscilloscopio. Notate che lo specchio ha due facce riflettenti, e pertanto ci sarà segnale due volte per ogni suo giro: la frequenza ω “vera” sarà pertanto la metà di quella misurata sull'oscilloscopio! Quando il motore è fermo, si può controllare la direzione dello specchio rotante con un piccolo cacciavite che accompagna il motore, il quale torna utile anche per trovare l'allineamento migliore. Misura della velocità della luce 15 Attenzione!!! Non lasciare il cacciavite inserito quando si fa partire il motore!!! Invece di segnalare i punti di ritorno a specchio fermo e a specchio rotante per misurare la loro distanza, lo schermo che si utilizza in quest'esperienza ha una riga di riferimento e viene montato su di una vite micrometrica graduata: centrando il fascio a specchio fermo con la riga di riferimento, basta misurare di quanto si deve spostare lo schermo quando lo specchio sta girando. Per tenere sotto controllo il sistema, conviene che la distanza tra lo schermo e la lastra di vetro P sia la stessa che tra vetro e laser. Figura 4: La misura dello spostamento. Va anche tenuto in considerazione che la lastra di vetro P non produce una riflessione ma due, come si vede in Figura 5: essendo la lamina a facce parallele, ci sarà una riflessione per ogni sua faccia. L'operatore che misura lo spostamento del fascio deve scegliere quale delle due usare come riferimento. Due considerazioni anche sul motore dello specchio rotante: soprattutto a basse frequenze, il motore non è stabile e pertanto è necessario Figura 5: Le due riflessioni sul misurare ripetutamente la frequenza vetro. sull'oscilloscopio effettuando una media; durante l'operazione il motore vibra e se non è ben fissato al tavolo si sposta con il tempo, richiedendo di ripetere l'allineamento 16 Misura della velocità della luce più volte. Un suggerimento: ripetete la misura della velocità della luce per diverse frequenze del motore per poter fare una “statistica” dei risultati, calcolando un valore medio ed un errore. Misura del rapporto carica / massa per l'elettrone. Nel 1860 William Crookes, lavorando con un tubo di Geissler e inserendovi due lamine metalliche collegate ad un generatore di corrente continua ad elevato potenziale (circa 30000 V), scoprì che, in funzione del gas che usava, otteneva luce di diversi colori. Questa luce “partiva” dal catodo (elettrodo negativo) e fluiva verso l'anodo (elettrodo positivo). Questi raggi vennero chiamati raggi catodici e si scoprì che avevano carica elettrica negativa. J. J. Thomson nel 1895 lavorò sui raggi catodici applicando campi magnetici ed elettrici, con i quali fu capace di calcolare il rapporto tra la carica elettrica e la massa. Si rese conto che il valore era indipendente delle condizioni sperimentali, chiara indicazione che i raggi catodici erano particelle identiche tra loro. Successivamente tali particelle vennero chiamate elettroni. Esperimenti precedenti avevano fallito nel tentativo di deviare i raggi catodici; Thomson scoprì che questo era dovuto alla densità non sufficientemente bassa del gas nel tubo e ne sviluppò uno a vuoto spinto. All'estremo del tubo mise uno strato di materiale fosforescente che brillava quando il fascio lo colpiva: questo gli permise di vedere di quanto i raggi erano stati deviati e di calcolare il rapporto tra la carica e la massa della particella. Il valore ottenuto suggeriva che le particelle fossero leggere oppure che la carica fosse alta. 17 18 Misura del rapporto carica / massa per l'elettrone. Se i raggi catodici vengono accelerati tra un catodo ed un anodo, come fanno ad arrivare su uno schermo posto oltre l'anodo? Potremmo definirlo il trucco dell'esperimento: generalmente la differenza di potenziale tra anodo e catodo si applica in modo tale da avere l'anodo a massa (in questo modo il campo dopo l'anodo è nullo). Se nell'anodo viene fatto un foro o si realizza un'anodo con una griglia metallica, alcuni degli elettroni che arrivano riescono a passarlo, procedendo a velocità costante. È su questi elettroni “eccedenti” che Thomson (e noi tra poco) applicò i suoi campi elettrici e magnetici per studiare le loro proprietà. In altre parole abbiamo una sorta di “cannone di elettroni” che spara gli elettroni in traiettorie controllate che finiscono contro uno schermo fluorescente, dando un segnale luminoso... Notate qualcosa di familiare in questo disegno? È proprio come un monitor CRT o una TV tradizionale! Thomson non lo sapeva, però oltre a misurare il rapporto carica massa dell'elettrone ed inventare lo spettrometro di massa, in un certo senso sviluppò le basi di una delle invenzioni più influenti del ventesimo secolo! Thomson trasse le seguenti conclusioni: i raggi catodici sono fatti da particelle (lui le chiamò “corpuscoli”) generate dagli atomi degli elettrodi (il che significa che questi atomi sono in realtà divisibili, cosa che all'epoca non era ancora stabilito). Thomson immaginò gli atomi come un brulichio di elettroni in un mare di carica positiva: il “modello a panettone” (plum pudding model, dove le uvette sono proprio gli elettroni). Sebbene questo modello si sia dimostrato sbagliato (grazie al lavoro di Rutherford, uno dei suoi studenti), in qualche modo questa scoperta può essere considerata l'iniziò della fisica subatomica. Misura del rapporto carica / massa per l'elettrone. 19 Nel 1909, Robert Millikan calcolò la carica elettrica dell'elettrone con il famoso esperimento della goccia d'olio (valore che, unito a quello di Thomson, permise di calcolare anche la massa), completando la caratterizzazione della particella. L'esperimento Si usa un sistema della TELTRON, consistente in un'ampolla a bassa pressione (nel nostro caso, contenente He a 0.01 Torr) a forma di “lampadina gigante” il cui schema semplificato si vede in Figura 6. Nell'estremo più stretto si trova un “cannone di elettroni”4 che emette un fascio. Il tubo viene messo tra due bobine che generano un campo Vista dall'alto Bobine per generare il campo magnetico “Cannone” di elettroni Ampolla Anelli di riferimento Vista dal laterale Figura 6: Schema del sistema per la misura del rapporto carica / massa dell'elettrone. 4 Una coppia catodo-anodo con l'anodo forato per far passare gli elettroni. 20 Misura del rapporto carica / massa per l'elettrone. magnetico che può essere calcolato considerando il valore della corrente immessa (per i dettagli si veda più avanti). La sfera dell'ampolla ha due anelli di riferimento fusi nel vetro: come vedremo dopo, questi riferimenti servono per calcolare il rapporto tra la carica dell'elettrone (qe) e la sua massa (me). L'apparecchiatura Il sistema si può vedere in Figura 7. Figura 7: L'apparecchiatura. Per costruirlo sono necessari quattro generatori: 1. Un generatore di tensione continua variabile che generi 30 V e fino a 2A. 2. Un generatore di tensione continua variabile che generi da 0 V a 200 V. 3. Un generatore di tensione alternata. Misura del rapporto carica / massa per l'elettrone. 21 4. Un generatore di tensione continua variabile che generi da 0 V a 7V. Con questi generatori (e molti cavi) dobbiamo montare due circuiti: uno per le bobine e l'altro per l'ampolla. Per quest'ultimo circuito, dovete riferirvi ai nomi dei connettori sulla base nella quale si monta l'ampolla. Questi nomi si possono vedere in Figura 8. Osservazione importante: l'ampolla ha una serie di contatti (in gergo pin) che devono essere connessi nel modo giusto. Siccome c'è un unico modo di connetterli, non sbagliate! Figura 8: I connettori. I circuiti da montare sono schematizzati in Figura 9. I generatori VA e VP danno una tensione continua, mentre VF quella alternata. Le tensioni vanno monitorate tramite un voltmetro (indipendentemente da cosa c'è scritto sul potenziometro). ATENZIONE!!! Durante il montaggio, fare attenzione al senso di circolazione della corrente nelle bobine: se le correnti risultano opposte il campo magnetico risultante sarà zero e non si vedrà l'effetto! La distanza tra le bobine non è casuale (torneremo su questo dopo): sulla base dove vanno montate, due “H” indicano la loro posizione.5 5 H sta per “Helmholtz”. 22 Misura del rapporto carica / massa per l'elettrone. A1 G7 C5 F4 F3 Bobine V + VA 0 – 200 V c.c. – VF 6,3 V c.a. + VP 0–6V c.c. – + 30 V 0–2A c.c. – Figura 9: Schema dei circuiti da montare. Di tutti i generatori in gioco in questi due circuiti, gli unici importanti per il nostro lavoro sono VA, che serve ad accelerare gli elettroni (è la differenza di potenziale tra catodo e anodo), e l'alimentatore delle bobine, il quale da una corrente indicata con IH. Degli altri due, VF serve a riscaldare il catodo per provocare l'emissione di elettroni, mentre VP permette di migliorare la qualità del fascio. Procedura sperimentale Per un processo descritto nel capitolo dedicato a Franck-Hertz, alcuni elettroni cedono la loro energia cinetica agli atomi del gas, i quali immediatamente la rilasciano emettendo luce di un colore azzurro, rendendo quindi visibile il percorso degli elettroni. Un esempio di quello che si vede durante l'esperienza è mostrato in Figura 10. Misura del rapporto carica / massa per l'elettrone. 23 Figura 10: Il fascio di elettroni curvato dal campo magnetico. La procedura sperimentale è la seguente: 1. Per vedere meglio il fascio, l'illuminazione dell'ambiente. conviene abbassare 2. Iniziando con un valore di VP = 0, si fa salire in modo adagio il valore di VA fino a quando il fascio riesce ad attraversare la sfera. Attenzione!!! Non far salire troppo il potenziale VA. Se siete a valori di VA maggiori di 100 V e ancora non c'è traccia del fascio, sicuramente qualche collegamento nel circuito sarà sbagliato! 24 Misura del rapporto carica / massa per l'elettrone. 3. Variando il valore di IH la traiettoria degli elettroni inizierà a curvare. Proseguire fino a quando il fascio passa per uno degli anelli di riferimento e prendere nota di IH. 4. Continuare a variare il valore di IH fino a che il fascio passa per il secondo degli anelli di riferimento e prendere nota di IH. 5. Dati questi valori, carica/massa. provare a calcolare il rapporto Se il fascio non è nitido si può provare a cambiare VP, però si deve tener presente che il suo valore può modificare leggermente la traiettoria degli elettroni, e pertanto è meglio non esagerare: mai andare con VP oltre ai 6 V. Nel limite del possibile, si dovrebbe anche monitorare la corrente data per VF, la quale non dovrebbe mai essere maggiore di 30 mA. Il calcolo del rapporto carica/massa I calcoli che seguono si basano sulla possibilità di considerare il campo magnetico generato dalle bobine come uniforme. Questa approssimazione è abbastanza buona intorno all'asse delle bobine in quella che è chiamata la “configurazione di Helmholtz”: due bobine identiche, separate da una distanza uguale al loro raggio. Non entreremo nel merito del calcolo del campo magnetico in una tale configurazione. Il risultato per le bobine utilizzate è, indicando con B il valore assoluto del campo magnetico e misurandolo in tesla (T), con la corrente IH in ampere (A): B = 4,17 ·10−3 T ·I A H (4) Siccome il campo magnetico generato dalla coppia di bobine è diretto lungo il loro asse comune e la velocità degli elettroni è perpendicolare Misura del rapporto carica / massa per l'elettrone. 25 a questa direzione, sugli elettroni agisce una forza perpendicolare alla direzione della loro velocità, il cui valore assoluto è ∣F ∣ = qe v B (5) dove v è il valore assoluto della velocità degli elettroni. Siccome la forza è perpendicolare alla velocità, il moto degli elettroni sarà circolare, con un'accelerazione centripeta che in valore assoluto sarà v2/R, con R raggio del cerchio descritto dagli elettroni. Combinando questo con la seconda legge di Newton, si ottiene qe v = me B·R (6) Per conoscere v, basta ricordare che la velocità degli elettroni si può ricavare dalla loro energia potenziale (grazie a VA) data da qe·VA. Pertanto avremo qe·VA = ½ me v2, da cui: qe 2V = 2 A2 me B ·R (7) Per calcolare il valore di R si usano gli anelli di riferimento: le definizioni sono indicate in Figura 11 (utilizzate un calibro per verificarle). Lascio a voi il compito di applicare il teorema di Pitagora ai triangoli per trovare i raggi delle due traiettorie e dimostrare la seguente espressione: R = x 2y 2 2y (8) 26 Misura del rapporto carica / massa per l'elettrone. dove x è la distanza tra l'uscita del cannone di elettroni e l'anello preso in considerazione, e y è il raggio di tale anello. In altre parole y = 51 mm per entrambi gli anelli di riferimento, x = 2 mm per l'anello di riferimento di sinistra (riferitevi ancora una volta alla Figura 11) mentre x = 82 mm per quello di destra. 2 mm 102 mm 80 mm Figura 11: Definizioni delle distanze per il calcolo di R. Il valore tabulato di qe/me è 1.7588·1011 Coulomb/kg. Misura del rapporto carica / massa per l'elettrone. 27 Biografia Premio Nobel per la fisica nel 1906, Sir Joseph John Thomson (1856-1940) fu uno scienziato inglese che tra gli altri lavorò con il premio Nobel John William Strutt (meglio conosciuto come Rayleigh) e che tra i suoi studenti annovera Ernest Rutherford, William Henry Bragg e William Lawrence Bragg, tutti e tre premi Nobel per la fisica. Oltre ai lavori con i quali dimostrò che l'elettrone era una particella, Thomson fu l'inventore dello spettrometro di massa, con il quale fu capace di scoprire l'esistenza degli isotopi, cioè di atomi con le stesse caratteristiche chimiche che però hanno una massa diversa. Suo figlio, George Paget Thomson, fu anche lui premio Nobel per la fisica: di lui parleremo nel capitolo sulla diffrazione degli elettroni. Corpo nero Lo studio di Plank sulla radiazione del corpo nero segna l'inizio della meccanica quantistica, gettando le basi non solo della fisica moderna ma anche della tecnologia attuale. Tutti i corpi scambiano energia col mezzo circostante per raggiungere l'equilibrio. È proprio la temperatura di un corpo ad indicare se questo è, o meno, all'equilibrio con l'ambiente circostante: se il corpo si trova a una temperatura maggiore (minore) di ciò che lo circonda, emetterà (assorbirà) più velocemente di quanto assorbe (emette), finché le temperature siano le stesse e si arrivi all'equilibrio. I modi in cui l'energia può essere scambiata tra i corpi e il mezzo circostante sono diversi: per contatto diretto o per “contatto indiretto” attraverso le correnti d'aria (pensate ai ventilatori) o la radiazione elettromagnetica. Nell'analisi che segue, noi ci “dimenticheremo” dell'energia scambiata “per contatto”, sia diretto o indiretto, con altri corpi: infatti ci interessa soltanto l'energia scambiata (il “calore”) sotto forma di radiazione elettromagnetica. In questa prospettiva (che non è altro che quella della termodinamica) l'energia scambiata sotto forma di radiazione elettromagnetica viene indicata con il termine “radiazione termica”. Il modo in cui la radiazione interagisce con la materia è molto complesso. Della radiazione che arriva su di un corpo, una parte viene 29 30 Corpo nero assorbita, una parte viene riflessa e un'altra viene trasmessa. Inoltre, i corpi emettono energia per il semplice fatto di essere ad una certa temperatura: è sufficiente avvicinare le mani ad una pentola contenente acqua bollente per sapere che sta emettendo radiazione (in questo caso, nell'infrarosso), o vedere un ferro di colore rosso intenso per rendersi conto che la sua temperatura è molto elevata. La radiazione emessa dai corpi è in genere una funzione molto complessa della temperatura, della loro forma e dei materiali di cui sono costituiti. Per semplificare lo studio teorico della radiazione termica era stato introdotto il concetto di “corpo nero”: un corpo nero è un corpo che assorbe tutta la radiazione che gli arriva senza riflettere o trasmettere nulla, indipendentemente dalla sua frequenza o intensità, e che poi emette per raggiungere l'equilibrio indipendentemente dal materiale di cui è costituito. Studiando sperimentalmente i sistemi che più assomigliano a questo ideale, era stato scoperto che l'emissione termica di un corpo nero ha delle caratteristiche molto precise, che dipendono solo dalla sua temperatura. Disegnando un grafico della densità di energia emessa (energia per unità di tempo, di lunghezza d'onda e di area) in funzione della lunghezza d'onda, si ottiene una curva come quella in Figura 12. La posizione del massimo della curva dipende soltanto dalla temperatura del corpo: tanto maggiore è la temperatura tanto minore è la lunghezza d'onda a cui si trova il picco e tanto maggiore è l'area sottesa dalla curva. Indicando con I(T) l'energia totale emessa dal corpo nero per unità di tempo e di area, e con λmax(T) il massimo della curva per una temperatura T, si ottengono due leggi. Corpo nero 31 Figura 12: Emissione del corpo nero per diverse temperature. Legge di Stefan-Boltzman I T = T 4 dove σ = 5,6697 · 10–8 W m2 K4 (9) è la costante di Stefan-Boltzmann.6 Legge dello spostamento di Wien max T T = 0.002898 m⋅K (10) Queste due leggi furono ottenute mescolando considerazioni di tipo classico e risultati sperimentali. 6 Questa legge vale per corpi neri ideali. In genere, i corpi emettono radiazione con minore efficienza di un corpo nero ideale. Questo può esprimersi modificando la legge di Stefan-Boltzman nel seguente modo: I(T) = ε σ T4, dove ε è l'emittanza del materiale, che può dipendere anche dalla temperatura, e 0 < ε < 1. 32 Corpo nero Planck e i “quanti” Nel 1894 Planck iniziò a lavorare sul problema della radiazione di corpo nero. La legge di Rayleigh-Jeans, derivata dalla meccanica classica, non riusciva a spiegare l'andamento a piccole lunghezze d'onda, dove predice un risultato non fisico per cui la densità di energia diventa infinita: la cosiddetta “catastrofe dell'ultravioletto”. Wilhelm Wien propose la cosiddetta “approssimazione di Wien” (da non confondere con la “legge dello spostamento di Wien” vista sopra), che spiega nel modo giusto l'andamento a piccole lunghezze d'onda ma che non funziona a lunghezze alte. In altre parole le uniche leggi sul corpo nero che “funzionavano” erano la legge di Stefan-Boltzmann e la legge dello spostamento di Wien (espressioni 9 e 10). Alla fine del 1900, Planck elaborò un modello teorico per spiegare quanto osservato sperimentalmente e unificare le leggi di StefanBoltzmann e Wien. Egli suppose che l'energia elettromagnetica può soltanto essere emessa dai corpi in “pacchetti” o “quanti” di valore definito, cioè, l'energia emessa da un corpo può soltanto essere un multiplo intero del valore fondamentale E = hν, dove h è la cosiddetta costante di Planck e ν è la frequenza della luce (la frequenza ν della luce è legata alla lunghezza d'onda λ attraverso la relazione c = ν · λ, dove c è la velocità della luce). Lavorando su questo concetto, Planck ottenne la seguente espressione per la densità di energia (u): 2 c 2 h u = 5 [ exp ] ch −1 kBT (11) dove kB = 1.381·10-23 J/K è la costante di Boltzman. Con questa espressione Planck riuscì a spiegare le leggi di Stefan-Boltzman e dello spostamento di Wien, e considerando i dati sperimentali, ad ottenere per h il valore di7 6.626·10–34 J·s. 7 Il valore ottenuto da Planck fittando i dati sperimentali con la sua curva teorica non fu tanto preciso. La prima misura accurata del valore di h fu Corpo nero 33 L'esperimento L'esperienza presentata in questo capitolo consiste nella verifica della caratteristiche di un corpo nero. Il corpo nero ideale può essere approssimato in due modi diversi: ● con un corpo cavo, con una piccola apertura che mette in comunicazione l'esterno con la cavità, con l'interno oscurato per assorbire al meglio possibile la luce e con una superficie rugosa in modo tale da evitare qualsiasi possibile riflessione. Figura 13: Modello di corpo nero. In effetti, l'apertura avrà la proprietà di assorbire tutta la radiazione che arriva, senza riflettere nulla. La radiazione che eventualmente esce sarà quella emessa dalle pareti interne del corpo. ● un corpo non in equilibrio con il mezzo circostante che emetta molto di più rispetto a quanto assorbe o (principalmente) di quanto riflette, in modo tale che tutte le altre componenti siano trascurabili rispetto alla radiazione emessa. Un tale corpo potrebbe essere semplicemente una lampadina incandescente o una stella. Basti ricordare che uno dei modi per calcolare la temperatura della superficie del Sole è proprio quello di considerarlo come un corpo nero. Nell'esperienza presentata in questo capitolo, si userà questa seconda approssimazione. L'idea è quella di misurare l'intensità (che è proporzionale all'energia dell'onda elettromagnetica) per ogni lunghezza d'onda emessa per una lampada incandescente utilizzando un prisma, un sensore di luce e un sensore di rotazione. realizzata da Millikan molti anni dopo. 34 Corpo nero Come si può vedere in Figura 14, la luce passa attraverso un prisma il quale separa le componenti di colore (cioè le diverse lunghezze d'onda) mentre un fotodiodo misura l'intensità di ognuna. Il prisma è montato in modo tale che rimanga fermo, mentre il fotodiodo è montato su una piattaforma che si può far ruotare in modo da intercettare i diversi colori sempre alla stessa distanza. Il sensore di rotazione permette di misurare la rotazione della piattaforma per ricavare l'angolo di osservazione e calcolare la lunghezza d'onda in funzione delle caratteristiche del prisma utilizzato. Prisma Lampada Piattaforma Lente Fenditura Lente Fenditura Fotodiodo Sensore di rotazione Figura 14: Schema dell'esperimento. Le fenditure e le lenti servono a “collimare” il fascio, per far sì che la luce arrivi al prisma senza divergenza e con una larghezza ridotta, altrimenti non sarebbe possibile calcolare la lunghezza d'onda misurando l'angolo di deviazione. Corpo nero 35 La lunghezza d'onda Come si vede in Figura 14, il prisma utilizzato è equilatero ed è messo in modo tale che la parte posteriore sia perpendicolare alla direzione del fascio di luce incidente. In questo modo il fascio arriva alla superficie del prisma con un angolo (misurato dalla perpendicolare ad essa) di 60º. Se indichiamo con (Figura 15) θ2 l'angolo di trasmissione del fascio nella prima superficie (anche questo misurato dalla perpendicolare alla superficie), θ3 l'angolo con il quale il fascio arriva alla seconda superficie e θ l'angolo con il quale il fascio esce del prisma, si può dimostrare la seguente relazione: 23 = 60º (12) Usando la legge di Snell si ottiene che: sin 60º = 3 = n sin 2 (13) 2 n sin 3 = sin (14) 60° θ θ2 θ3 Figura 15: Trasmissione del prisma. 36 Corpo nero dove n è l'indice di rifrazione del vetro del prisma, il cui valore, come in tutti i mezzi trasparenti, dipende dalla lunghezza d'onda. Mettendo tutto insieme (usando relazioni trigonometriche e il fatto che cos 60º = ½ ), si arriva a: n = 2 2 1 3 sin 2 4 3 (15) La relazione tra n e la lunghezza d'onda (λ) è data dalla legge di Cauchy: n = A B 2 (16) dove A e B sono due costanti che caratterizzano il vetro di cui è fatto il prisma, e che nel nostro caso valgono A = 13900 nm2 e B = 1.689 (dati forniti dal fabbricante). Mettendo insieme le espressioni 15 e 16 e usando i valori di A e B, si ottiene: = 13900 nm 2 2 2 1 3 sin −1,698 2 4 3 (17) Calcolo della temperatura della lampada La temperatura di una lampadina incandescente si può calcolare se si conosce la sua resistenza elettrica R0 ad una temperatura di riferimento T0, che può essere per esempio la temperatura ambiente (circa 300 K). Senza dimostrarlo, l'espressione che da la temperatura è la seguente: T = T 0 1 R T −1 0 R 0 (18) Corpo nero 37 dove R(T) è la resistenza elettrica alla temperatura T e α0 è una costante caratteristica del materiale, che nel nostro caso (tungsteno) ha un valore di α0 = 4.5 · 10-3 /K. R(T) può essere determinata semplicemente misurando la caduta di tensione nella lampada (V) e la corrente (I) e usando la nota relazione V = I · R. Dato che il valore a temperatura ambiente è R0 = 0.84 Ω (dato dal fabbricante), si ottiene: T = 300 K K V −1 −3 I⋅0,84 4,5⋅10 (19) L'apparecchiatura L'esperienza sarà realizzata con materiale della Pasco, controllato con un software appositamente sviluppato (DataStudio). La Figura 16 presenta il dispositivo sperimentale. Prisma Generatore di tensione Fotodiodo Interfaccia con il pc Lenti Lampada Piattaforma ruotante Fenditure Sensore di rotazione Figura 16: Dispositivo sperimentale. Binario ottico 38 Corpo nero Si deve fare attenzione a dove si collocano le lenti, per far sì che la luce sia ben collimata. La lente prima del prisma deve essere messa ad una distanza dalla prima fenditura esattamente uguale alla sua distanza focale, che nel nostro caso è di 10 cm. Sul braccio della piattaforma rotante è segnata la posizione della seconda lente. Il sistema è interfacciato al PC tramite la porta seriale; l'interfaccia va collegata e accesa prima di avviare il computer. Come si vede nella Figura 17 l'interfaccia ha cinque porte d'ingresso che si usano per collegare i dispositivi di misura. Da sinistra a destra, le prime due porte vengono etichettate “digitali” e riceveranno i due cavi del sensore di rotazione, mentre le altre tre porte sono le “analogiche” A, B e C, e riceveranno, rispettivamente, il sensore di corrente, il fotodiodo e i due cavi che misurano la Figura 17: L'interfaccia al caduta di potenziale nella computer. lampada. Il circuito da montare è schematizzato in Figura 18. Al cavo rosso dell'analogico C Al cavo nero dell'analogico C Lampada + – Sensore di corrente Figura 18: Schema di montaggio. All'analogico A Corpo nero 39 Una volta preparato il setup, bisogna aprire il file “CorpoNero.ds” con il programma DataStudio. Il file è già completamente configurato. L'interfaccia grafica offerta per il programma “DataStudio” si può vedere in Figura 19. Figura 19: Interfaccia del programma DataStudio. Il tasto “Riassunto” fa comparire la barra di sinistra, dove sotto la voce “Dati” vengono elencate tutte le raccolte dati effettuate fino a quel momento mentre sotto “Visualizzazioni” si trovano tutte le possibilità offerte dal programma, che sono anche accessibili dai menù. Il tasto “Imposta” presenta un'immagine dell'interfaccia di acquisizione dati, indicando dove collegare i diversi sensori. Il tasto “Avvia” fa partire una misura, mentre del tasto “Calcola” ne parleremo in seguito. Calibrazione L'espressione 17 lega l'angolo di deviazione della luce da parte del 40 Corpo nero prisma con la lunghezza d'onda. La prima operazione da fare è definire qual'è “l'angolo zero”. Senza montare il prisma, il sistema deve essere allineato in modo che la luce della lampada arrivi direttamente sul sensore. Iniziando una misura in DataStudio, si deve prendere nota del valore angolare rilevato dal sistema: questo dato deve essere inserito al posto della variabile “Init” nella seguente espressione che si trova nella casella di definizioni del calcolatore di DataStudio, il quale si apre col tasto “Calcola” (è possibile che ci sia già un valore scritto: dovete cambiarlo): Wavelength = filter (0,8000, (13900/(((1.1547*sin Angle)/Ratio))^2 + 0.75)^0.5 – 1.689))^0.5) ((Init – Figura 20: Il "calcolatore" di DataStudio. “Angle” è l'angolo misurato direttamente dal sistema, mentre “Ratio” è il numero di giri del sensore di rotazione per un giro della piattaforma. Molto probabilmente quest'ultimo dato sarà già configurato nel file che userete, però se si volesse misurarlo basta usare DataStudio per misurare la variazione dell'angolo dopo un giro completo della piattaforma, e dividere per 360 (o 2π se si usano radianti): quel numero sarà esattamente “Ratio”. In questo modo si Init− Angle avrà = Ratio . Corpo nero 41 Il fotodiodo ha nella sua parte superiore un tasto chiamato “tare”, la cui funzione è quella di stabilire il valore zero della misura. Per utilizzarlo si deve spegnere la lampada usata nell'esperienza, lasciando tutte le altre sorgenti luminose nelle stesse condizioni: in questo modo viene valutato il contributo della luce ambiente che costituisce il “fondo” della nostra misura. Il tasto “gain” invece fornisce il guadagno del dispositivo e serve per amplificare il segnale ricevuto. Per questo esperimento è meglio lasciarlo a 100. Misura Sia tramite Esperimento → Aggiungi visualizzazione → Grafico, o attraverso un doppio click sopra l'icona corrispondente nella barra di sinistra, si aprirà un grafico. Gli assi possono essere cambiati semplicemente cliccando sui nomi degli assi stessi e scegliendo tra le opzioni. Il grafico più utile per noi sarà quello dell'intensità in funzione della lunghezza d'onda. Per fare una misura, si preme il tasto “Avvia” e si fa girare lentamente il fotodiodo intorno al prisma per acquisire la luce dispersa. Premendo ancora lo stesso tasto, si ferma la misura. Un esempio di misura si trova in Figura 21. Bisogna fare attenzione al modo in cui si muove il sistema. Se il sensore di rotazione non è perfettamente in contatto con la piattaforma o se il fotodiodo non è perfettamente allineato le misure potrebbero non essere attendibili. 42 Corpo nero Figura 21: Un esempio di misura. Ad esempio, guardate il grafico in Figura 22, dove dopo una scansione angolare si è ritornati all'inizio facendo il percorso al contrario. Figura 22: Alcuni esempi di misure problematiche. Corpo nero 43 Le curve più in alto e più in basso mostrano chiaramente un andamento non atteso: a meno che non ci sia stata una variazione nella lampada (cosa poco probabile), indicano che c'è stato un problema con il sensore di rotazione per cui l'allineamento era stato perso (grafico più in basso) e la luce non entrava più nel fotodiodo (grafico più in alto). Solo la curva in mezzo è accettabile, con i dati che coincidono nelle due prese dati (andata e ritorno). 44 Corpo nero Biografia Max Planck (1858-1947). Fisico tedesco, è uno dei padri della meccanica quantistica. Premio Nobel per la fisica nel 1918, fu allievo di Gustav Ludwig Hertz (anche lui premio Nobel), e tra i suoi studenti vanno annoverati Max von Laue e Walther Bothe, entrambi premi Nobel. Un suo professore gli aveva detto di non studiare fisica perché “in questo campo, quasi tutto è già stato scoperto”. Fortunatamente, lui non prese questo consiglio sul serio e nel 1874 iniziò i suoi studi di fisica presso l'università di Monaco con professori come Hermann von Helmholtz e Gustav Kirchhoff e il matematico Karl Weierstrass. In principio, Planck considerò che la quantizzazione era soltanto “un'assunzione puramente formale” e per molto tempo cercò una spiegazione alternativa, finché si rese conto che in realtà quella era l'unica spiegazione possibile. Max Born scrisse di lui: “Lui era per natura e per tradizione familiare conservatore, avverso alle novità rivoluzionarie e scettico a riguardo delle speculazioni. Però la sua fede nel potere del pensiero logico basato sui fatti era così forte che non dubitò nell'esprimere concetti in contraddizione con la tradizione, perché lui era convinto che non c'era un'altra possibilità”. Effetto fotoelettrico L'effetto fotoelettrico consiste nell'emissione di elettroni da una superficie, solitamente metallica, quando questa viene colpita dalla radiazione elettromagnetica, come ad esempio la luce visibile o la radiazione ultravioletta. Tale effetto, oggetto di studi da parte di molti fisici, è stato fondamentale per comprendere la natura quantistica della luce. Il problema non era che l'effetto ci fosse o meno (un campo elettromagnetico certamente può muovere cariche elettriche), ma il fatto che le sue caratteristiche non corrispondevano a quelle previste dall'elettromagnetismo classico. L'elettromagnetismo classico prevede che, all'aumentare dell'intensità della luce aumenti il campo elettromagnetico e la forza sulle cariche, e di conseguenza l'energia cinetica degli elettroni emessi. Invece, sperimentalmente si osservava che aumentava solamente il numero degli elettroni, i quali avevano un'energia cinetica massima indipendente dall'intensità della luce e dipendente soltanto dalla sua frequenza. Un altro problema era il tempo di emissione degli elettroni: facendo i calcoli con l'elettromagnetismo classico, i tempi di cui si avrebbe bisogno per l'estrazione dell'ordine dei minuti, mentre gli esperimenti dimostrarono che l'effetto fotoelettrico è quasi istantaneo. Inoltre, esiste una frequenza della luce minima, che dipende del 45 46 Effetto fotoelettrico materiale utilizzato, al di sotto della quale non c'è estrazione di elettroni. L'elettromagnetismo classico non era in grado di fornire una spiegazione. Einstein e i “quanti” Generalizzando le idee di Planck sulla radiazione di corpo nero, Einstein propose che non solo l'emissione di radiazione da parte dei corpi è quantizzata, ma anche il campo elettromagnetico è composto da “quanti di luce”. L'ipotesi di Einstein è che il campo elettromagnetico è formato da particelle di energia E = hν, chiamate fotoni. Vediamo adesso come questo spiega gli esperimenti. In generale, per estrarre un elettrone da un materiale è necessario realizzare un certo lavoro, solitamente indicato con il termine “funzione lavoro” e con il simbolo ϕ. Questa funzione lavoro dipenderà (oltre che dal materiale utilizzato) da dove si trova l'elettrone all'interno del materiale, con un valore minimo (ϕmin) per gli elettroni sulla superficie. Questo spiega l'esistenza di un'energia cinetica massima E mass come funzione della frequenza: l'energia c massima con la quale può uscire un elettrone sarà l'energia del fotone meno la funzione lavoro minima: E mass = h −min c (20) Chiaramente questa espressione dipende soltanto della frequenza della luce. Una maggiore intensità produrrà un numero maggiore di fotoni, e perciò un numero maggiore di elettroni emessi, però non potrà cambiare l'energia massima che ogni singolo elettrone può raggiungere. Notate che questa espressione spiega anche l'esistenza di una Effetto fotoelettrico 47 frequenza minima per l'effetto fotoelettrico: dato che l'energia cinetica deve per forza essere positiva, si ha che: min h (21) Inoltre, dato che l'energia della luce è divisa in pacchetti, l'interazione tra l'elettrone e il fotone deve essere veloce: o quest'ultimo ha l'energia per estrarre l'elettrone oppure no, e se ha l'energia giusta la rilascia “in un colpo unico”. Rimane un'ultima verifica sperimentale. L'espressione 20 indica che l'energia cinetica massima degli elettroni è una funzione lineare della frequenza della luce incidente. Nel 1916 Millikan (lo stesso Millikan dell'esperimento della goccia d'olio con il quale per la prima volta si ottenne il valore della carica dell'elettrone) esegue la verifica sperimentale, ottenendo anche il primo valore accurato per la costante h. I suoi lavori sull'effetto fotoelettrico valsero ad Einstein il premio Nobel per la fisica nel 1921. L'esperimento L'esperienza viene schematizzata in Figura 23. Una lampada di mercurio viene “filtrata” con l'utilizzo di filtri spettrali che lasciano passare soltanto una ben precisa lunghezza d'onda. La luce arriva ad un fotocatodo il quale emette elettroni per effetto fotoelettrico. Questi elettroni avranno una certa distribuzione di energia cinetica che, come abbiamo visto prima, ha un valore massimo ben definito in funzione della frequenza della luce incidente. Se applichiamo tra fotocatodo ed anodo un potenziale Vf (detto potenziale ritardante) per fermare gli elettroni, soltanto quelli che hanno un'energia cinetica superiore a qeVf riusciranno ad arrivare all'anodo: misurando la corrente tra fotocatodo ed anodo in funzione del potenziale ritardante, è possibile conoscere l'energia cinetica massima degli elettroni. 48 Effetto fotoelettrico Anodo Fotocatodo Lampada di mercurio A Filtro spettrale Amperometro Sorgente di tensione variabile Figura 23: Dispositivo sperimentale. In effetti, aumentando il potenziale diminuisce la corrente fino ad arrivare al valore zero, il quale indica che nessun elettrone è in grado di raggiungere l'anodo: il valore minimo del potenziale per il quale la corrente è zero, V min f , fornisce l'energia cinetica massima degli elettroni per la lunghezza d'onda data dal filtro spettrale utilizzato. Quest'energia massima risulta E mass = q e V min c f (22) Dalle espressioni 20 e 22 si arriva a V min f = h min − qe qe (23) dove è stata esplicitata la dipendenza del potenziale minimo dalla frequenza. Ripetendo la misura di V min per i diversi filtri in dotazione f all'esperimento, è possibile costruire la retta (V min in funzione di ν) f dall'espressione 23, notando inoltre che per alcuni filtri (quelli che permettono di far passare una frequenza il cui valore è sotto il valore Effetto fotoelettrico 49 minimo per l'effetto fotoelettrico) la corrente è sempre nulla. Notate che dalla pendenza dell'espressione 23 si può ricavare il valore h/qe, mentre dall'intercetta con l'asse verticale si ottiene ϕmin/qe. Quando Millikan riuscì a fare gli esperimenti che dimostrarono che Einstein aveva ragione, egli aveva già realizzato il suo lavoro per misurare qe, e pertanto fu capace di ottenere il valore di h. La Figura 24 presenta il dispositivo sperimentale e un particolare della coppia fotocatodo-anodo (l'anodo è il filamento). Figura 24: Dispositivo sperimentale (sinistra) e fotocellula (destra) che si trova all'interno del tubo come indicato dalla freccia. 50 Effetto fotoelettrico Biografia Albert Einstein (1879 – 1955) è un fisico, matematico e filosofo tedesco naturalizzato svizzero, e in seguito statunitense. Oltre ad essere uno dei più celebri fisici e matematici della storia della scienza, fu un grande pensatore e attivista in molti altri ambiti (dalla filosofia alla politica). Per il suo complesso apporto alle scienze e alla fisica in particolare è indicato come uno dei più importanti studiosi del XX secolo. Conosciuto soprattutto per le sue teorie sulla relatività ristretta e sulla relatività generale, diede anche importanti contributi alla nascita della meccanica quantistica e alla critica dei suoi fondamenti, alla meccanica statistica e alla cosmologia. Ricevette il Premio Nobel per la Fisica nel 1921 grazie alla sua spiegazione dell'effetto fotoelettrico e “per i suoi contributi alla fisica teorica”. Diffrazione di elettroni Dopo il lavoro di Planck ed Einstein che dimostrava che la luce, che era ovviamente un'onda elettromagnetica, doveva anche essere considerata come particella per poter spiegare certi fenomeni (la radiazione di corpo nero e l'effetto fotoelettrico), Louis-Victor-PierreRaymond de Broglie, presentò nella sua tesi di dottorato in fisica l'idea opposta: che le particelle dovevano comportarsi come onde sotto certe condizioni. Come nel caso della luce il cui aspetto corpuscolare necessita di esperimenti dedicati per essere apprezzato, anche nel caso delle particelle la loro caratteristica ondulatoria può essere messa in luce solo con setup dedicati. L'ipotesi di de Broglie è anche nota come “dualità onda-particella”, e fu confermata per gli elettroni con l'osservazione della diffrazione in due esperimenti indipendenti. Nell'università di Aberdeen (Inghilterra), George Paget Thomson fece passare un fascio di elettroni attraverso una lamina sottile di metallo, osservando la figura di diffrazione. Nei Bell Labs, Clinton Joseph Davisson e Lester Halbert Germer puntarono un fascio di elettroni lenti contro un cristallo di nichel, ottenendo lo stesso risultato. Introduzione De Broglie studiò dal punto di vista della teoria della relatività 51 52 Diffrazione di elettroni ristretta di Einstein quali dovrebbero essere le caratteristiche di un'onda per poter rappresentare una particella. Iniziò con l'ipotesi che anche per le particelle doveva essere valida l'espressione E = h·ν,8 dove E era l'energia relativistica della particella, ν la frequenza dell'onda che lui cercava, la cui lunghezza d'onda è λ, e h la costante di Planck. Con queste considerazioni ottenne: = h p (24) Quando gli elettroni sono accelerati a potenziali elevati (per esempio, nei microscopi elettronici) la differenza tra la quantità di moto definita nella meccanica classica e quella della relatività speciale diventa importante, ed è proprio quest'ultima che deve essere utilizzata. Non è così nella “vita quotidiana”, ma a volte neanche nella fisica subatomica: la maggior parte degli esperimenti di diffrazione di particelle si fanno a bassa energia, proprio per avere un valore piccolo di p che permetta di ottenere un valore per λ “ragionevole”. In questi casi, la quantità di moto nell'espressione 24 può essere considerata classicamente. Dato il piccolo valore della costante h, si ottiene che la lunghezza d'onda per oggetti “quotidiani” è piccolissima: infatti, spingendo una palla da 1 kg ad una velocità di 5 metri al secondo risulta una lunghezza d'onda λ ≈ 1.3·10–34 m! Questo valore è di molti ordini di grandezza inferiore al raggio del nucleo atomico, e perciò non è possibile vedere un effetto associato. Però, nel mondo subatomico è 8 Il ragionamento di de Broglie parte con il considerare la validità di questa relazione in un sistema di riferimento fisso rispetto alla particella, per poi estendere il risultato (usando le trasformazioni relativistiche del sistema di coordinate) a tutti i sistemi di riferimento. In questo processo, l'espressione 24 ne consegue naturalmente. Diffrazione di elettroni 53 possibile avere valori di p piccoli in modo da ottenere valori di λ maggiori e misurabili sperimentalmente. Ad esempio, se consideriamo un elettrone che viene accelerato in un potenziale ΔV = 4000 V, avremo che la sua energia cinetica finale è Ec = qe· ΔV = ½ me v 2, (qe e me sono la carica e la massa dell'elettrone, rispettivamente, e v la sua velocità finale) e pertanto la sua quantità di moto finale sarà p = 2m e · q e · ΔV ; combinando queste espressioni, si ottiene una λ ≈ 0.02 nm, paragonabile alla lunghezza d'onda dei raggi X. Dato che la distanza caratteristica tra gli atomi in un cristallo è intorno a qualche decimo di nanometro, ci si dovrebbe aspettare di osservare la diffrazione per elettroni di quest'energia che passano attraverso un materiale cristallino. La diffrazione di raggi X in cristalli era già stata studiata dai Bragg (padre e figlio) e von Laue molti anni prima, pertanto il formalismo matematico era già pronto per interpretare i dati sperimentali di Davisson-Gelmer e di Thomson. L'esperimento Come si vede in Figura 25, l'apparecchiatura per questo esperimento è molto simile a quella utilizzata per l'esperienza della misura del rapporto carica massa dell'elettrone. “Cannone” di elettroni Ampolla Campione di carbonio grafitizzato Schermo fosforescente Figura 25: Schema del dispositivo sperimentale. 54 Diffrazione di elettroni Il tubo utilizzato è diverso nel senso che il vuoto praticato nel suo interno è molto più spinto in modo tale da non perturbare la traiettoria degli elettroni. Metà della sfera alla fine del tubo è anche coperta di materiale fosforescente e davanti al cannone di elettroni si trova un campione cristallino di grafite che serve a far diffrangere gli elettroni stessi. Importante!!! Il campione di grafite è molto fragile, e può danneggiarsi se il bombardamento degli elettroni è eccessivo. Si deve pertanto controllare che non inizi a brillare: questo significherebbe che si sta riscaldando troppo e che bisogna fermare l'esperimento per lasciarlo raffreddare. Il circuito elettrico è molto più semplice di quello montato per il calcolo di qe/me, e si può vedere in Figura 26 (per la nomenclatura dei connettori, riferitevi alla Figura 8 a pagina 21). A1 G7 C5 F4 F3 V VA 0–4500 V + c.c. VF 6,3 V c.a. – Figura 26: Schema del circuito elettrico. VF riscalda il catodo per emettere elettroni, mentre VA serve ad accelerare questi ultimi contro il campione di grafite. Diffrazione di elettroni 55 Importante!!! Non far salire il valore di VA oltre il valore indicato di 4500 V! Altrimenti il campione verrebbe danneggiato. Il risultato dell'esperienza si vede come una serie di cerchi concentrici sullo schermo fosforescente, assieme al punto brillante in centro che indica il cosiddetto “ordine zero”, cioè, gli elettroni che non vengono deviati. La Figura 27 presenta una fotografia di questo fenomeno. Figura 27: La figura di diffrazione. Attenzione! Non prolungare per troppo tempo l'esperienza, altrimenti il punto intenso in centro lascerà un segno nel materiale fluorescente, danneggiando permanentemente il sistema. Qualche secondo è più che sufficiente per vedere l'effetto. Questa distribuzione può soltanto essere spiegata considerando la diffrazione degli elettroni attraverso il cristallo di grafite, e dimostra la natura ondulatoria della materia. Inoltre, modificando il potenziale VA cambia l'energia cinetica degli elettroni e pertanto la loro quantità di moto, il che si traduce in un cambiamento della lunghezza d'onda: siccome il “reticolo di diffrazione” formato dagli atomi è sempre lo stesso, al cambiare della lunghezza d'onda cambiano gli ordini di diffrazione, e pertanto 56 Diffrazione di elettroni cambieranno i diametri degli anelli. Questo effetto è chiaramente visibile variando anche di poco il potenziale VA. Misura della distanza tra gli atomi Studiando la diffrazione di raggi X in cristalli, i Bragg si resero conto che per trovare gli ordini di diffrazione si poteva considerare il cristallo come un insieme di piani paralleli contenenti gli atomi. Siccome esistono diversi modi di tracciare questi piani, si ottiene che la figura di diffrazione finale è la sovrapposizione delle figure di diffrazione di ogni gruppo di “piani di Bragg”. d10 d11 Figura 28: Due gruppi di "piani di Bragg" per la graffite. La grafite forma un reticolo esagonale, come rappresentato in Figura 28, assieme a due gruppi di “piani di Bragg”. Seguendo lo schema dei Bragg, per trovare un massimo di diffrazione si deve avere la condizione (per angoli piccoli) Diffrazione di elettroni ≈ 57 d (25) con d distanza tra i piani e θ definito in Figura 29. Ampolla D 2 θ Campione di carbonio grafitizzato Raggio “corretto” dell'anello L Figura 29: Distanze caratteristiche del sistema. θ è l'angolo di deviazione degli elettroni dopo la diffrazione, L è la distanza tra il campione di carbonio e lo schermo e D il diametro degli anelli di diffrazione. Per l'indicazione sul raggio “corretto”, vedere la nota 9. Quindi, i due gruppi di piani d10 e d11 indicati in Figura 28 daranno massimi ad angoli diversi. Per ogni anello di diametro D, l'angolo θ sarà ≈ D 2L (26) con L distanza tra il cristallo e lo schermo, che nel nostro caso è di 130 mm.9 Ancora una volta possiamo calcolare la lunghezza d'onda λ, sapendo che 9 Come si può vedere in Figura 29, questo sarebbe vero soltanto per uno schermo piatto, mentre noi abbiamo uno schermo curvo. Considerando che la sfera ha un raggio di 66 mm, si dovrebbe fare una piccola correzione proiettando gli anelli su un piano posto a contatto con la sfera. 58 Diffrazione di elettroni = h h 1 = ; q e V A = me v 2 p mv 2 (27) h 2 q e me V A (28) 2L h D 2 q e me V A (29) Risulta = da cui d ≈ Misurando pertanto il diametro di un anello in funzione del potenziale d'accelerazione, si può ottenere la distanza d tra i piani del cristallo!10 Per la grafite si sa che d11 = 0.123 nm e che d10 = 0.213 nm. 10 Usando i valori delle costanti fondamentali, e misurando D in millimetri, 1/ 2 1/ 2 318.87 V · mm · nm 1.226 V · nm si può scrivere ≈ e d≈ . D V A V A Diffrazione di elettroni 59 Biografie Louis-Victor-Pierre-Raymond, settimo duca de Broglie, generalmente noto come Louis de Broglie (1892-1987), fu un fisico francese noto come uno dei precursori della meccanica quantistica. Iniziò la sua carriera come umanista, con una laurea in storia. Successivamente, probabilmente grazie al fratello che era un fisico sperimentale, si interessò alla fisica e alla matematica. Durante la prima guerra, servì nell'esercito aiutando lo sviluppo delle comunicazioni via radio. La sua tesi di dottorato nel 1922 “Recherches sur la théorie des quanta” (ricerche sulla teoria dei quanti) è l'introduzione della sua teoria sulle caratteristiche ondulatorie degli elettroni. Tale tesi include la teoria della dualità onda-particella della materia basata sulle teorie di Einstein e Planck e si conclude con l'ipotesi che ad ogni particella che si muove si può associare un'onda. Questo fu l'inizio della cosiddetta “meccanica ondulatoria” che gli valse il premio Nobel per la fisica nel 1929, prima persona nella storia a ricevere il premio Nobel per una tesi di dottorato. Clinton Joseph Davisson (sinistra, 1881-1958) e Lester Halbert Germer (destra, 1896-1971) furono due scienziati americani che alla fine degli anni '20 lavoravano ai Bell Labs e che fecero l'esperimento che oggi porta il loro nome, e che dimostrò l'ipotesi di De Broglie sulla natura ondulatoria della materia. 60 Diffrazione di elettroni Il loro premio Nobel, nel 1937, fu condiviso con George Paget Thomson (1892-1975), fisico inglese, figlio di J. J. Thomson, che portò avanti un esperimento simile in modo indipendente da loro. Va notato che J. J. Thomson (il padre) vinse il premio Nobel dimostrando che gli elettroni erano particelle, mentre G. P. Thomson (il figlio) lo vinse dimostrando il loro comportamento ondulatorio! Spettri atomici Già da tempo si sapeva che riscaldando un elemento chimico puro molto “diluito” (per esempio, un gas a bassissima pressione) questo emette luce a certe lunghezze d'onda, solitamente molto precise e ben definite, caratteristico di ogni elemento della tabella periodica. Questo gruppo di “righe spettrali” (che possono essere misurate con l'utilizzo di prismi o reticoli di diffrazione, e il cui spettro può estendersi sia nell'infrarosso che nell'ultravioletto) può essere utilizzato per sapere se un certo composto contiene un certo elemento chimico o meno; gli astrofisici in particolare lo usano per sapere di cosa sono composte le stelle e le nebulose. Ad esempio, in Figura 30 sono presentati gli spettri di emissione dell'idrogeno e del ferro. (a) (b) Figura 30: (a) Spettro dell'idrogeno. (b) Spettro del ferro. Va notato che avere un elemento chimico “diluito” (o meglio, rarefatto) implica che i singoli componenti che lo formano non 61 62 Spettri atomici interagiscono tra loro, e pertanto questo spettro a righe risulta caratteristico dell'emissione degli atomi. Infatti, quando si ha un solido o un liquido gli elementi “strutturali” (le interazioni tra gli atomi o le molecole, le vibrazioni, ecc.) fanno sì che lo spettro di emissione sia continuo, come nel caso del corpo nero studiato prima. Per molto tempo è stato un mistero il perché gli atomi emettessero soltanto con determinate righe spettrali e non in tutto lo spettro elettromagnetico. Si è dovuto aspettare l'arrivo della meccanica quantistica per trovare una spiegazione. Introduzione Nel 1885, Balmer, studiando lo spettro di emissione dell'idrogeno, trovò una relazione sperimentale per la lunghezza d'onda di un gruppo di righe (espressa in nanometri, nm): m = 364.6 m2 [nm ] m 2 −4 (30) con m = 3, 4, 5, 6, ... Questo gruppo di righe venne indicato con il termine “serie di Balmer”. Questa “legge” era completamente empirica, però dimostrava l'esistenza di “ricorrenze”, per le quali bisognava trovare una spiegazione. Poco dopo, Rydberg e Ritz trovarono una formula più generale che riproduceva le lunghezze d'onda di più righe dell'idrogeno, e che, con minore accuratezza, funzionava anche per altri elementi: 1 1 1 = R 2− 2 n m n (31) con m numero naturale fisso, n > m anch'esso numero naturale e R una costante che dipendeva del materiale studiato, chiamata costante Spettri atomici 63 di Rydberg. Un passo importante per la comprensione di questo fenomeno avvenne nel 1910: studiando la radiazione dell'uranio e come questa interagisce con la materia, Rutherford riuscì a capire per la prima volta che gli atomi sono formati da un nucleo molto piccolo e massivo di carica positiva circondato da elettroni. Anche in questo caso la fisica classica non aiutava l'interpretazione: l'unico modo in cui una configurazione del genere poteva esistere era che gli elettroni (di carica negativa) “orbitassero” intorno al nucleo, attratti dalla forza di Coulomb, ma questo implicava una serie di conseguenze: 1. Gli elettroni sono accelerati nelle loro orbite, e perciò avendo una carica devono emettere radiazione elettromagnetica in modo continuo, aspetto che non era mai stato osservato (altrimenti gli elettroni alla fine collasserebbero contro il nucleo e la materia non sarebbe stabile!) 2. Gli elettroni orbitando intorno al nucleo possono assorbire o emettere energia cambiando orbita; secondo l'elettromagnetismo classico le orbite potevano essere qualsiasi, il che significava generare uno spettro di emissione e assorbimento continuo, non composto da righe! Il primo a presentare un modello (abbastanza ad hoc) che spiegasse le osservazioni sperimentali fu Neils Bohr nel 1913. Bohr propose che gli elettroni non emettono radiazione quando si trovano in orbite il cui valore assoluto del momento angolare L (classicamente, il momento angolare è il prodotto ―vettoriale― tra il momento lineare e il raggio dell'orbita) è un multiplo intero n della costante di Planck divisa due volte pi greco, cioè: L = n h ≡ nℏ 2 (32) 64 Spettri atomici Secondo Bohr, queste orbite risultavano stabili ed erano le uniche possibili. Questa “quantizzazione” del momento angolare implicava una quantizzazione tanto dei raggi delle orbite quanto delle energie associate. Siccome, per emettere (o assorbire), gli elettroni dovevano cambiare orbita, questo significava che l'energia emessa sotto forma di luce (secondo la relazione di Einstein, E = hν) poteva soltanto essere uguale ai salti di energia tra un'orbita e l'altra... ed ecco le righe! Lavorando su questi concetti, Bohr riuscì a fornire un'espressione analitica non solo per le righe spettrali che si conoscevano (quelle di Balmer, per esempio) ma anche a prevedere accuratamente le righe che non erano ancora state misurate. L'ipotesi di de Broglie, della quale abbiamo parlato nel capitolo sulla diffrazione degli elettroni, supportò in seguito il modello di Bohr: infatti, le orbite di Bohr erano tali che il loro perimetro era un multiplo intero della lunghezza d'onda di de Broglie per gli elettroni, il che voleva dire che le onde in quelle orbite erano “stazionarie”. Avere onde stazionarie giustificava il fatto che gli elettroni non emettono radiazione finché sono confinati sull'orbita. Il modello di Bohr non era esente da problemi: non riusciva a dare un'espressione per l'intensità relativa delle righe e, a dire il vero, funzionava bene solo per l'idrogeno. Si è dovuto aspettare il lavoro di Heisenberg e Schrödinger per completare la struttura teorica della meccanica quantistica, ed ottenere le soluzioni analitiche per gli elettroni nell'atomo d'idrogeno (e soluzioni approssimate per gli altri atomi) che spiegano al dettaglio l'andamento delle righe spettrali. L'esperimento L'esperienza in questione sarà più “qualitativa” che quantitativa: non verranno ricercati valori sperimentali caratteristici ma ci si limiterà a riprodurre il fenomeno descritto. Spettri atomici 65 Si userà uno spettrometro a prisma simile in concetto (ma non in forma) a quello utilizzato nell'esperimento del corpo nero. Lo schema è presentato in Figura 31 e in foto in Figura 32. Variabile Prisma Lampada Va r Fenditura Lente ia bi le Telescopio Figura 31: Schema dello spettrometro. Per “mettere a punto” il sistema prima dell'esperienza, si deve guardare attraverso il telescopio un oggetto molto lontano (“all'infinito”), e regolare la distanza tra le sue lenti in modo tale da ottenere un'immagine chiara. Fatto questo, si allinea il telescopio con l'altro braccio dello spettrometro e si regola la distanza tra lente e fenditura in modo tale da avere un'immagine chiara della fenditura attraverso il telescopio. Figura 32: Dispositivo sperimentale. Anche la larghezza della fenditura può essere regolata: più è larga e più luminose risulteranno le “righe”, però 66 Spettri atomici saranno anche meno definite e righe molto vicine potrebbero confondersi. Si hanno a disposizione diverse lampade per diversi elementi, il che permette di paragonare qualitativamente i diversi spettri caratteristici. Attenzione!!! Le lampade si riscaldano molto durante l'uso, non toccarle ed aspettare che si raffreddino prima di cambiarle! Inoltre la tensione tra gli estremi della lampada è molto elevata; non si devono assolutamente toccare i terminali quando il sistema è alimentato! Figura 33: Al centro dell'immagine, due righe del mercurio viste attraverso l'oculare dello spettrometro, e sulla sinistra la lampada utilizzata. Spettri atomici 67 Biografie Johann Jakob Balmer (1825-1898) fu un matematico svizzero che visse a Basilea. In realtà non è ricordato per nessun lavoro in questo campo, ma per la sua legge empirica, formulata all'età di sessant'anni, che descrive le righe spettrali nel visibile dell'atomo d'idrogeno. Inghilterra. Niels Bohr (1885-1962), fisico danese vincitore del premio Nobel per la fisica nel 1922 “per i suoi servizi nell'indagine sulla struttura degli atomi e della radiazione che emana da loro”. Laureato al Trinity College di Cambridge, fece il dottorato all'università di Copenhagen. Studiò anche con Ernest Rutherford (lo stesso Rutherford che aveva scoperto che gli atomi erano formati da un nucleo piccolo circondato da elettroni) all'Università di Manchester, Sebbene fosse consulente del progetto Manhattan nel quale venne sviluppata la bomba atomica, era cosciente del pericolo legato agli ordigni nucleari e per questo credeva che i segreti della fisica atomica dovessero essere condivisi fra tutta la comunità scientifica, e tentò invano di convincere Roosevelt e Churchill a condividere le ricerche con i Russi. Dopo la guerra lottò per l'uso pacifico dell'energia nucleare. Uno dei suoi studenti più famosi fu Werner Heisenberg, che ebbe un ruolo fondamentale nello sviluppo della meccanica quantistica. Esperienza di Franck-Hertz L'esperimento di Franck-Hertz fu il più importante lavoro a conferma del modello atomico di Bohr (di cui abbiamo già parlato nel capitolo precedente sugli spettri atomici). Nel 1914, i fisici tedeschi James Franck e Gustav Ludwig Hertz dimostrarono che l'energia degli elettroni all'interno degli atomi poteva infatti avere soltanto certi valori discreti. Introduzione L'esperimento consisteva in un tubo contenente vapori di mercurio a bassa pressione, limitato agli estremi da due elettrodi e contenente, vicino all'elettrodo a massa, una griglia metallica per accelerare gli elettroni. La procedura consisteva nel misurare la corrente tra gli elettrodi variando il potenziale tra loro (in realtà, tra il primo elettrodo e la griglia metallica, più avanti daremo una descrizione più accurata). Franck e Hertz ottennero i seguenti risultati: ● A potenziali fino a 7 V, la corrente attraverso il tubo cresce continuamente con la differenza di potenziale: all'aumentare del voltaggio, aumenta anche il campo elettrico nel tubo e pertanto gli elettroni sono accelerati. ● Quando si arriva a 7 V, la corrente diminuisce bruscamente, quasi arrivando a valore zero. 69 70 Esperienza di Franck-Hertz ● Aumentando ancora il voltaggio, la corrente inizia a salire ancora, fino ad arrivare a 11.9 V (7 V + 4.9 V). ● A 11.9 V ancora una volta la corrente diminuisce quasi a zero. ● La serie di crescite e diminuzioni della corrente ogni 4.9 V continua fino a potenziali di ∼100 V. L'andamento in altri gas è simile: cambia solamente il valore dei salti di potenziale (nel neon è di circa 19 V). Franck e Hertz riuscirono a spiegare questo fenomeno in termini di collisioni elastiche ed anelastiche ed utilizzando i concetti di Bohr secondo i quali gli elettroni all'interno degli atomi possono avere soltanto certi valori di energia ben definiti. Prima di entrare nel merito di questa spiegazione, però, dobbiamo differenziare gli elettroni che escono del catodo, che chiameremo elettroni “liberi”, da quelli all'interno degli atomi, che chiameremo elettroni “legati”. A bassi potenziali, gli elettroni liberi acquistano soltanto una piccola quantità di energia cinetica la quale non è sufficiente a cambiare lo stato degli atomi con cui urtano, e pertanto fanno soltanto urti elastici che gli permettono di arrivare all'altro elettrodo senza perdita di energia. Inoltre, più alto è il potenziale maggiore è l'energia degli elettroni liberi che escono dal catodo e pertanto più alta è la corrente. Aumentando ancora il potenziale, si arriva al punto in cui gli elettroni liberi che sono quasi arrivati al secondo elettrodo hanno un'energia sufficiente per una collisione non elastica con gli elettroni legati, a cui cedono la loro energia cinetica. Non avendo più energia sufficiente, non possono arrivare al secondo elettrodo e si registra un netto calo nella corrente misurata. Se il potenziale viene aumentato ancora, gli elettroni liberi acquistano prima l'energia necessaria per eccitare gli elettroni legati, e dopo aver perso tutta la loro energia cinetica nella collisione saranno accelerati ancora una volta verso il secondo elettrodo dando nuovamente un segnale di corrente che sarà più alto man mano che aumenta il potenziale. L'aumento nella corrente si registra finché gli elettroni Esperienza di Franck-Hertz 71 liberi hanno ancora una volta energia sufficiente per eccitare gli elettroni legati, facendo un secondo urto anelastico e perdendo per una seconda volta tutta la loro energia. Se indichiamo con Eecc l'energia necessaria per eccitare gli elettroni legati, ogni volta che il potenziale viene aumentato di Eecc/qe (qe è la carica dell'elettrone) gli elettroni liberi acquistano l'energia necessaria per eccitare gli elettroni legati, la perdono negli urti anelastici, non passano la seconda griglia, quindi non arrivano al secondo elettrodo e la corrente misurata diminuisce fortemente. È importante rimarcare che questo funziona soltanto perché le energie per eccitare gli elettroni legati è quantizzata, altrimenti l'andamento della corrente sarebbe monotono. L'esperimento Il sistema è schematizzato in Figura 34, e rappresentato in Figura 35. Il generatore di tensione UH serve a far emettere elettroni al filamento K. Gli elettroni sono poi accelerati verso la griglia G 1 dal potenziale del generatore U1, il quale è a tensione continua con un valore fisso tra 0 V e 5 V. Il generatore U2, di tensione continua variabile tra 0 V e 80 V, accelera gli elettroni verso la griglia G2, mentre un potenziale U3, non maggiore di 10 V, porta gli elettroni che sono arrivati a G2 verso l'anodo A, chiudendo il circuito la cui corrente è misurata con l'amperometro I. Il circuito è chiaramente disegnato sul coperchio del dispositivo (Figura 35) e pertanto non ci sono problemi col suo montaggio. 72 Esperienza di Franck-Hertz G1 G2 K A I + – UH – + – + + – U1 U2 U3 Figura 34: Schema del dispositivo sperimentale. Nell'introduzione abbiamo parlato degli elettroni che perdono energia e degli atomi del gas che la guadagnano, però una volta eccitati gli atomi non possono restare così per sempre e finiranno per emettere quanto guadagnato nell'urto anelastico: questo “rilassamento” si produce di solito con l'emissione di fotoni, la cui frequenza sarà correlata con l'energia scambiata nell'urto attraverso l'espressione E = h·ν. Nel caso del neon, che è il gas contenuto nel dispositivo sperimentale a disposizione, questo rilassamento si produce Figura 35: Il dispositivo sperimentale. con l'emissione di due fotoni (vedere la nota nel riquadro a continuazione), uno dei quali ha una lunghezza d'onda intorno ai 620 nm, cioè nello spettro del visibile: la zona dove gli urti anelastici si producono sarà perciò resa visibile con l'apparizione di un colore rosso-arancione, e all'aumentare del potenziale vedremo proprio come questa zona si sposti verso il catodo e come compaiano Esperienza di Franck-Hertz 73 più righe quando il potenziale è sufficientemente elevato da produrre più urti per ogni elettrone. Le due prime energie di eccitazione del neon sono 16.7 eV e 18.7 eV (1 eV = 1.6022·10–19 J, che è l'energia guadagnata da un elettrone in una differenza di potenziale di un volt). Si può dimostrare che per urti anelastici è più probabile eccitare il secondo livello che il primo. Un elettrone eccitato in questo secondo livello si “rilassa” in due fasi: prima decade al primo livello emettendo un fotone di 2 eV, e solo dopo decade al livello fondamentale “emettendo” gli altri 16.7 eV. La lunghezza d'onda è λ = c/ν = c·h/E. Per un'energia di E = 2 eV si ottiene λ = 619.92 nm (lo spettro visibile è tra 400 nm ―violetto― e 700 nm ―rosso―) mentre per E = 16.7 eV risulta λ = 74.24 nm. Quest'ultima lunghezza d'onda si trova nell'ultravioletto e pertanto non risulta visibile ad occhio nudo. Due delle zone luminose descritte, prodotte da due urti anelastici consecutivi, si possono vedere in Figura 36. Figura 36: Zone luminose prodotte da due urti anelastici consecutivi nel neon. 74 Esperienza di Franck-Hertz Siccome la distanza tra le griglie G1 e G2 è piccola, bisogna fare attenzione ad abbassare l'illuminazione della stanza per vedere l'effetto. La procedura sperimentale è semplice: bisogna prendere nota del valore della corrente per ogni ΔU valore del potenziale U2, e I realizzare con questi dati un grafico di corrente in funzione del potenziale come schematizzato in Figura 37. Si ottiene un grafico a forma di dente di sega; dalla distanza tra i picchi si può ottenere l'energia di eccitazione del Ne, U2 ricordando che quell'energia è Figura 37: Il grafico dei dati l'energia cinetica degli sperimentali. elettroni. Considerando tutto questo, se indichiamo con ΔU la distanza in potenziale tra i picchi, l'energia di eccitazione sarà qeΔU. Bisogna fare un po' di prove per trovare i valori “ottimali” di U1 e U2 che permettano di avere un grafico ben definito. Esperienza di Franck-Hertz 75 Biografie James Franck (1882-1964), fisico tedesco, ottenne il dottorato all'Università di Berlino nel 1906. Nel 1920 divenne professore di fisica sperimentale nell'Università di Göttingen, dove lavorò in fisica quantistica con Max Born. Nel 1925 condivise il premio Nobel per la fisica con Gustav Ludwig Hertz per il loro lavoro del 1914 sulle caratteristiche degli urti tra elettroni e atomi. Gustav Ludwig Hertz (1887 – 1975), nipote di Heinrich Rudolf Hertz, nacque ad Amburgo. Fu allievo di Max Planck e pubblicò numerosi lavori sullo scambio di energia tra elettroni e atomi, e sulla separazione degli isotopi. Effetto Zeeman Nel 1896, tre anni dopo la sua tesi di dottorato sull'effetto Kerr, Zeeman scoprì quello che poi divenne noto come effetto Zeeman. Come approfondimento della sua tesi di ricerca, iniziò a studiare l'effetto di un campo magnetico su di una sorgente di luce e scoprì che una linea spettrale viene separata in più componenti sotto l'effetto del campo magnetico stesso. Lorentz sentì parlare per la prima volta delle osservazioni di Zeeman sabato 31 ottobre 1896, all'Accademia Reale delle Arti e delle Scienze di Amsterdam, dove questi risultati vennero annunciati da Kamerlingh Onnes. Il lunedì seguente, Lorentz chiamò Zeeman nel suo ufficio e gli propose una spiegazione delle sue osservazioni, basata sulla sua teoria della radiazione elettromagnetica, e gli disse che le linee spettrali dovevano separarsi in componenti con polarizzazione diversa, predizione che fu successivamente dimostrata. Lorentz fu tra i primi a parlare di materia formata da elementi con carica elettrica, e a sostenere che nelle oscillazioni di queste cariche si trovava l'origine della radiazione elettromagnetica emessa dai corpi; dalla sua teoria abbinata alle misure di Zeeman usciva un valore del rapporto tra carica e massa di questi “elementi” molto simile a quello che ottene Thomson per l'elettrone. L'importanza della scoperta di Zeeman divenne presto evidente: si trattava della prima conferma delle predizioni di Lorentz sulla polarizzazione della luce emessa in presenza di un campo magnetico. La teoria di Lorentz però si dimostrò sbagliata: mancavano alcuni 77 78 Effetto Zeeman anni ancora per la nascita della meccanica quantistica e non si disponevano di tutti gli elementi per una spiegazione accurata; nonostante questo mostrava un buon accordo numerico con gli esperimenti e significò un passo importante nello sviluppo della teoria atomica. I livelli atomici Le teorie di de Broglie e Bohr sulla struttura atomica continuarono ad evolvere fino al lavoro di Erwin Schrödinger, che nel 1926 presentò quella che è nota come l'equazione di Schrödinger. Quest'equazione descrive l'andamento della cosiddetta “funzione d'onda” che rappresenta gli oggetti fisici, come ad esempio gli elettroni all'interno dell'atomo. Ora non si può più parlare di “traiettorie” nel senso classico: le particelle non hanno più una posizione o una quantità di moto definita ma una probabilità di trovarsi in certa zona e avere una certa quantità di moto. Questa probabilità, che è matematicamente determinata dalla funzione d'onda (in realtà, dalla sua ampiezza, ma noi non entreremo in questi dettagli), dipende da molti parametri, ad esempio l'esistenza di campi esterni e il tipo di particella: gli elettroni non hanno le stesse caratteristiche dei fotoni, e pertanto si comportano in modo diverso. Il punto più importante è che questa funzione d'onda (e da lì il suo nome) evolve proprio in forma ondulatoria: la probabilità di trovare un elettrone che passa attraverso un cristallo ha la forma di una figura di diffrazione, ed è per quello che facendo passare un gran numero di elettroni si trova che la loro distribuzione su uno schermo ha dei massimi e dei minimi. Effetto Zeeman Determinista o casuale? Nella meccanica classica, conoscendo i parametri iniziali di un sistema fisico si può calcolare accuratamente la sua evoluzione. Ad esempio, se si vuole studiare il moto di una particella in un campo gravitazionale si può ottenere un'espressione per la sua posizione in funzione del tempo che dipende solo dalla posizione e velocità iniziali. Nella meccanica quantistica questo non è più possibile: si può ottenere soltanto la probabilità di trovare la particella in una certa posizione ad un certo tempo. Vuol dire che abbiamo perso la causalità nella fisica? A rischio di entrare nel campo filosofico, dobbiamo dire proprio di no: l'equazione di Schrödinger è un'equazione determinista per la funzione d'onda. L'evoluzione della funzione d'onda è perfettamente determinata conoscendo tutti i parametri iniziali del problema (cosa che di solito non è possibile, ricordatevi che siamo sul confine della filosofia). L'indeterminazione che caratterizza i fenomeni quantistici è legata al fatto che la funzione d'onda non fornisce la posizione della particella, ma permette di ottenere la probabilità di trovare quella particella nell'intorno di una certa posizione al momento di misurare dov'è. In questo senso, l'equazione di Schrödinger è tanto determinista quanto l'equazione di Newton, la differenza sta negli oggetti a cui queste equazioni vengono applicate: una quantità direttamente misurabile nel caso di Newton, la probabilità di trovare un certo risultato in una certa misura nel caso di Schrödinger. 79 80 Effetto Zeeman La soluzione dell'equazione di Schrödinger per un elettrone nell'atomo descrive il suo stato in funzione di certi “numeri quantici”: ogni gruppo di numeri quantici definisce un valore di energia disponibile per l'elettrone. Noi definiremo i livelli dell'elettrone nell'atomo dicendo che ogni valore di energia possibile corrisponde ad un livello. I numeri quantici per un elettrone in un atomo sono i seguenti: 1. Il “numero quantico principale”, che può essere associato ai livelli energetici della teoria di Bohr. 2. Il momento angolare “orbitale” degli elettroni. Questo numero è associato al valore del momento angolare orbitale che nel modello di Bohr gli elettroni avevano orbitando intorno al nucleo. 3. Il numero quantico associato alla proiezione del momento angolare su di un asse. A questi tre si deve aggiungere il momento angolare intrinseco dell'elettrone, noto come spin, e le sue proiezioni. Si può dimostrare che ci sono “momenti magnetici” nell'atomo proporzionali ai momenti angolari descritti sopra (classicamente, il momento magnetico si ottiene considerando le orbite degli elettroni come piccole spire nelle quali circola corrente). È importante notare che sebbene il momento angolare orbitale abbia un corrispettivo classico (che si ottiene considerando una particella che gira intorno al nucleo), il momento angolare intrinseco dell'elettrone è completamente diverso e non può essere associato a nessun tipo di rotazione: l'idea classica di una particella che gira su se stessa non è appropriata, e pertanto lo spin è una quantità puramente quantistica. Effetto Zeeman 81 Però, anche se non si può parlare di una rotazione, al momento angolare dello spin si associa anche un momento magnetico, il quale può interagire non solo coi campi esterni, ma anche con gli altri momenti magnetici dell'atomo. Queste interazioni danno un'enorme complessità all'atomo. Torneremo (molto brevemente) su questo. Tutti i numeri quantici sono “quantizzati”, e pertanto possono avere soltanto certi valori definiti. Inoltre, gli elettroni hanno una proprietà chiamata “principio di esclusione di Pauli”, che nega la possibilità che due elettroni in un atomo abbiano gli stessi numeri quantici. Nell'atomo di idrogeno “non perturbato” si ha, in prima approssimazione, che l'energia dell'elettrone dipende soltanto dal numero quantico principale. Dato che l'energia dipende solo da un numero quantico, si ottiene che esiste più di uno stato consentito con la stessa energia, cioè, più di uno stato consentito nello stesso livello. Questa “degenerazione” del livello, come viene di solito chiamata, è all'origine dell'effetto Zeeman. Se abbiamo due livelli degeneri con due energie diverse, ognuno con il suo gruppo di stati consentiti, le transizioni degli elettroni tra qualsiasi stato del primo livello e qualsiasi altro stato del secondo livello daranno sempre la stessa differenza di energia, che vuol dire che in uno spettro di emissione tutte le transizioni possibili tra questi due livelli daranno un'unica riga. Abbiamo prima detto che alcuni dei numeri quantici che rappresentano lo stato dell'elettrone sono legati al momento magnetico e alle sue proiezioni; perciò, cosa succede se accendo un campo magnetico intorno all'atomo? Gli elettroni che si trovano in stati con diversi valori del momento angolare subiranno 82 Effetto Zeeman un'interazione diversa col campo, che si traduce in variazioni nell'energia di ogni stato: gli stati che si trovavano insieme in un livello degenerato si separeranno, dando livelli con energie leggermente diverse a quelle originarie. Adesso, le transizioni tra i diversi stati del primo e del secondo livello daranno luogo ad energie leggermente diverse, che a loro volta genereranno righe spettrali differenziate: proprio come aveva visto Zeeman, certe righe spettrali in presenza di un campo magnetico si suddividono in più righe.11 Storicamente, l'effetto Zeeman viene diviso in due parti: la prima, chiamata semplicemente effetto Zeeman, o effetto Zeeman normale legata al terzo numero quantico (la proiezione del momento angolare su di un asse che sarà quello dato dalla direzione del campo magnetico esterno), mentre la seconda parte ha la sua origine nello spin degli elettroni. Questo secondo effetto, chiamato effetto Zeeman anomalo è più difficile da misurare (da lì il nome di anomalo: è stato scoperto molto dopo l'altro), però non è più “strano” del primo: entrambi sono originati dall'interazione del momento magnetico dell'atomo con un campo magnetico esterno. Dobbiamo introdurre adesso un po di “nomenclatura”. Il numero quantico principale si identifica generalmente con n. Il momento angolare degli elettroni nelle loro orbite, chiamato anche primo numero quantico orbitale, viene identificato con l e i suoi valori possibili sono l = 0, 1, ..., n – 1. Per motivi storici, i valori di l sono indicati con lettere alfabetiche, secondo la seguente tabella 11 Come accennato nel riquadro sopra, a volte non c'è bisogno di campi esterni per rompere la degenerazione di certi livelli: anche negli atomi isolati l'interazione interna tra il momento magnetico intrinseco dell'elettrone (proporzionale allo spin) e quello “orbitale” (proporzionale al numero quantico del momento angolare) da luogo ad un sdoppiamento di alcune righe spettrali. Questo fenomeno viene chiamato “struttura fine”. Effetto Zeeman 83 l=0 s l=1 p l=2 d l=3 f ... ... e via di seguito in ordine alfabetico.12 Il terzo numero quantico, chiamato anche secondo numero quantico orbitale o numero quantico magnetico viene identificato con ml, e i suoi valori possibili sono ml = – l, – l + 1, ..., 0, ..., l – 1, l. Il momento angolare intrinseco degli elettroni, o spin, ha valore s = ½, e le sue proiezioni ms possono soltanto avere i valori –½ e ½. Per fare un'analisi completa dell'effetto Zeeman, però, si deve considerare il momento angolare totale dell'atomo, chiamato J, e non solo le singole componenti: si deve pertanto “sommare” il momento orbitale totale (L) con quello di spin totale (S). Questo, però, è una procedura abbastanza complessa, dato che in meccanica quantistica la somma di due momenti angolari non è la semplice somma algebrica di due numeri. Aldilà di queste complicazioni (nelle quali non entreremo), si può dimostrare che le proiezioni di J, che chiameremo MJ, assumono come prima i valori –J , ..., J – 1, J. Nell'effetto Zeeman normale, che è quello del quale si occupa questo esperimento, il valore dello spin non cambia durante la transizione. Le regole di selezione Un punto importante è che non tutte le transizioni tra i livelli sono possibili: esistono delle “regole di selezione” che “vietano” alcune 12 “s” sta per “sharp”, “p” per “principal” e “d” per “diffuse”, nomi con cui in spettroscopia si descrivevano alcuni gruppi di righe spettrali prima che si conoscesse la loro origine. 84 Effetto Zeeman transizioni. Queste regole di selezione si ottengono dalle proprietà della funzione d'onda dell'elettrone nell'atomo, e dalla sua interazione con un campo elettromagnetico in quello che viene chiamato “transizione dipolare elettrica”. La regola di selezione che serve nel nostro caso è la seguente: M J = 0, ±1 (33) Non approfondiremo di più questo argomento. L'esperimento Come si vede in Figura 38, una lampada di cadmio è posizionata tra i poli di un elettromagnete costituito da due bobine ed un nucleo di metallo. Il campo magnetico è “guidato” verso la lampada da due blocchi di metallo che finiscono in forma conica e che sono bucati lungo il loro asse in modo da permettere alla luce di uscire non solo perpendicolarmente alla direzione del campo (la quale è data dall'asse comune dei due blocchi), ma anche parallelamente Figura 38: Configurazione della lampada. ad essa: questo permette di vedere tanto l'effetto Zeeman perpendicolare al campo magnetico come quello parallelo (vedremo subito che sono diversi), semplicemente girando di 90º le bobine. Per distinguere la separazione delle righe, si userà un interferometro Frabry-Perot, il quale è schematizzato in Figura 39. Si tratta di una lamina con due facce parallele, ed entrambi i lati coperti da uno strato sottile di alluminio che permette di far passare solo una piccola Effetto Zeeman 85 percentuale della luce incidente, riflettendo il resto. Se la luce arriva sul Frabry-Perot con un certo angolo, genererà multiple riflessioni interne leggermente spostate l'una rispetto all'altra, e di ognuna ne uscirà solo un po'. Tutti i fasci che escono interferiscono tra di loro dando un massimo in una ben precisa direzione che dipenderà dalla lunghezza d'onda. Siccome Figura 39: Il Frabryil sistema è simmetrico intorno all'asse ottico, Perot. questo darà luogo ad uno schema di anelli concentrici, ognuno dei quali rappresenterà una lunghezza d'onda ben definita. Ed è proprio per questo che si ottengono non righe spettrali, ma anelli spettrali! Le bobine vengono alimentate con un generatore di corrente che non deve mai superare i 10 A: con 3 A l'effetto è già perfettamente visibile. Si studierà una riga particolare del Cadmio, quella con lunghezza d'onda λ = 643.8 nm. La transizione è nel livello con numero quantico principale n = 5, ed è tra gli stati con J = 2 e J = 1. Nel campo magnetico gli stati con J = 2 si separano in 5 livelli equidistanti, mentre quelli con J = 1 si separano in tre. Come detto prima, non tutte le transizioni però sono possibili. Disegnando uno schema di livelli in funzione dell'energia, si ottiene un diagramma delle transizioni consentite come quello che si vede in Figura 40, dove le transizioni sono raggruppate secondo il loro valore di energia. Le tre transizioni del gruppo chiamato π hanno la stessa energia della transizione senza campo magnetico, mentre quelle del gruppo σ– hanno un'energia minore e quelle del gruppo σ+ un'energia maggiore: questo significa che la riga singola che si ha senza campo in principio si dividerà in tre quando il campo magnetico viene applicato. 86 Effetto Zeeman MJ = 2 MJ = 1 MJ = 0 MJ = -1 MJ = -2 Energia J=2 λ = 643,8 nm MJ = 1 MJ = 0 MJ = -1 J=1 ΔMJ = -1 ΔMJ = 0 σ– π ΔMJ = 1 σ+ Figura 40: Transizioni consentite. Perché in principio? Non entreremo nel merito dei calcoli quantistici, però questi tre gruppi di transizioni, σ– , π e σ+, hanno polarizzazione diversa tra loro ed anche una diversa distribuzione angolare della radiazione emessa. Questo fa sì che le tre transizioni, tutte con polarizzazione lineare, si vedano contemporaneamente soltanto quando il campo magnetico è perpendicolare alla direzione della luce emessa, mentre se il campo magnetico è parallelo se ne vedranno soltanto due, e con polarizzazioni circolari opposte. La luce con polarizzazione lineare si può rivelare utilizzando soltanto un filtro polarizzatore, mentre per distinguere le polarizzazioni circolari occorre prima utilizzare una lamina di quarto d'onda per cambiare la polarizzazione circolare in lineare e in seguito usare il polarizzatore. Il dispositivo sperimentale per misurare queste caratteristiche è descritto in Figura 41. Effetto Zeeman 87 (a) ① ② ③ ④ ⑤ ⑥ 72 83 (b) ⑦ 0 26 90 95 Figura 41: Disposizione degli elementi nelle due configurazioni: (a) con campo magnetico perpendicolare alla luce emessa; (b) con campo magnetico parallelo alla luce emessa. ①: lente di 150 mm di focale; ②: filtro polarizzatore; ③: Fabry-Perot; ④: lente di 150 mm di focale; ⑤: filtro spettrale per 643.8 nm; ⑥: oculare graduato; ⑦: lamina di quarto d'onda. La scala sotto (in centimetri) è solo indicativa delle posizioni degli oggetti sul binario ottico per un corretto montaggio, ma devono essere aggiustate in ogni caso particolare. La posizione degli elementi ottici dev'essere aggiustata in modo tale da avere gli anelli chiaramente definiti e centrati nella scala graduata dell'oculare. Attenzione! Le bobine sono abbastanza pesanti, e perciò si deve fare attenzione a maneggiarle. La Figura 42 presenta tre fotografie che mostrano gli anelli senza campo magnetico, con campo magnetico parallelo alla direzione di emissione (due anelli) e con campo magnetico perpendicolare alla direzione di emissione (tre anelli). 88 Effetto Zeeman Figura 42: Da sinistra a destra: senza campo magnetico, con campo magnetico parallelo alla direzione di emissione (due anelli), con campo magnetico perpendicolare alla direzione di emissione (tre anelli). La “procedura sperimentale” è abbastanza libera: quando tutto è finalmente allineato, si “gioca” con il polarizzatore e la lamina di quarto d'onda per misurare le caratteristiche qualitative indicate sopra, con entrambe le orientazioni del campo magnetico. Lo scopo di quest'esperienza è principalmente dimostrativo, però è importante sottolineare come con una calibrazione accurata della scala graduata dell'oculare si potrebbe misurare la differenza in energia tra le diverse transizioni, e da lì ottenere una quantità nota come “magnetone di Bohr” che è proporzionale al prodotto tra la costante h di Planck e il rapporto carica-massa dell'elettrone. Tutto è correlato con tutto! Il dispositivo sperimentale si può vedere in Figura 43. Effetto Zeeman 89 Figura 43: Dispositivo sperimentale. 90 Effetto Zeeman Biografia Pieter Zeeman (1865-1943), fisico originario dei Paesi Bassi, nel 1902 divise il Premio Nobel per la Fisica con Hendrik Lorentz per la sua scoperta dell'effetto Zeeman. Zeeman studiò fisica all' Università di Leiden, dove ebbe come professori Heike Kamerlingh Onnes e Hendrik Lorentz. Grazie alla sua scoperta, a Zeeman venne offerta la carica di lettore ad Amsterdam nel 1897, e nel 1900 venne promosso professore di fisica all'Università di Amsterdam. Alcuni anni dopo il premio Nobel, nel 1908 succedette a Van der Waals come professore ordinario e Direttore del Physics Institute di Amsterdam. Per il resto della sua carriera continuò ad interessarsi ai fenomeni magneto-ottici, ma studiò anche la propagazione della luce nei mezzi in movimento, argomento diventato di interesse centrale nella fisica dopo la formulazione della relatività ristretta di Albert Einstein. Più tardi nella sua carriera s'interessò anche di spettrometria di massa. Misura della costante di Planck In questo capitolo si presenterà una misura “non tradizionale” della costante di Planck h. Solitamente, per misurare h si utilizza l'effetto fotoelettrico o altri fenomeni che richiedono apparecchiature specifiche e procedure sperimentali complesse, ma qui useremo dei dispositivi molto economici che si trovano in commercio, i LED. Introduzione I LED (Light Emitting Diode) sono dispositivi semiconduttori che emettono luce di una lunghezza d'onda ben definita, caratteristica del materiale del quale sono costruiti.13 Conoscendo la lunghezza d'onda λ alla quale questi LED emettono (che si può misurare con uno spettrometro o leggere nelle specifiche di produzione), e sapendo che i fotoni che formano la radiazione elettromagnetica possono soltanto avere un'energia E = h·ν (ν = c/λ, c la velocità della luce), se riuscissimo a misurare in qualche modo l'energia emessa per il LED avremo in automatico il valore h. 13 Sebbene la lunghezza d'onda sia ben definita, non è infinitamente ben definita: i LED emettono in un “range” di lunghezze d'onda che generalmente è molto stretto, non più di qualche decina di nanometri intorno al valore centrale. Per lo scopo dell'esperimento che vedremo in questo capitolo, un range del genere è sufficientemente stretto. 91 92 Misura della costante di Planck Arrivare però a questa espressione per E non è tanto semplice. Vediamo prima, molto brevemente, alcuni concetti sui semiconduttori e sui diodi. Semiconduttori Nei capitoli sugli spettri atomici e sull'effetto Zeeman è stato introdotto il fatto che gli elettroni negli atomi possono avere soltanto valori discreti d'energia; cioè, che nessun elettrone può avere un'energia diversa dai così detti “livelli”. Qualora gli atomi interagiscano tra di loro per formare un materiale solido, questi livelli vengono “disturbati” dagli altri atomi e nuove strutture di livelli si formano. Per non entrare in dettagli che andrebbero oltre lo scopo di questo libro, diremo che i livelli più “vicini” al nucleo del atomo rimangono quasi invariati (in inglese si chiamano livelli di “core” o nucleo), mentre i livelli più esterni si aggruppano in una “giungla” che, in maggiore o minore misura a seconda del materiale, coinvolge tutto il solido. Questi livelli “esterni” possono raggrupparsi, confondendosi tra di loro in una struttura a tratti continua (o quasi...) che si definisce come “struttura a bande” perché al fare un grafico dei loro valori d'energia ci troviamo con una struttura proprio a bande, più o meno larghe. Come già detto nel capitolo sull'effetto Zeeman, gli elettroni hanno delle proprietà quantistiche particolari che vietano d'avere un numero arbitrario di elettroni in un certo livello, per tanto ognuna di queste bande avrà un numero massimo di elettroni consentito. Quando una banda è parzialmente piena gli elettroni in essa “possono muoversi” (si, proprio tra virgolette... vedere più avanti), il che vuol dire che questi elettroni producono una corrente elettrica quando una differenza di potenziale viene applicata. Al contrario, quando la banda è piena gli elettroni “non si muovono” (non prendere troppo sul serio questa frase... vedere il riquadro seguente) e non producono corrente quando una differenza di Misura della costante di Planck 93 potenziale viene applicata. Dato che gli elettroni tenderanno ad occupare i livelli più “bassi” (riguardo al valore d'energia), si crea una gerarchia nella quale le bande più basse sono piene mentre che quelle più alte sono vuote. Quelle in mezzo sono le “più interessanti”... Banda di conduzione Energia La più alta banda completamente piena si chiama “banda di valenza”, mentre la banda seguente, che può essere parzialmente piena o vuota a seconda del materiale, si chiama “banda di conduzione”. Si definisce Eg il salto in energia tra il valore più alto della banda di valenza e quello più basso della banda di conduzione, e si suol chiamare questo salto “banda proibita”: nessun elettrone può avere un'energia al interno di questa banda proibita. Eg Banda di valenza Figura 44: Schema semplificato delle bande in un semiconduttore. Nei solidi, quando la banda contenente elettroni più alta (in energia) è solo parzialmente piena si ha un conduttore: un materiale che di fronte ai campi elettromagnetici risponde dando una corrente elettrica. Se la banda è completamente piena e c'è un gran salto in energia prima di arrivare alla banda seguente (vuota), si dice che si ha un materiale isolante. Per ultimo, se questa “distanza” in energia tra la banda piena e quella vuota è relativamente piccola si ha un “semiconduttore”. Ma, come si fa a dire che il salto è grande o piccolo? In tutti questi ragionamenti si deve sempre considerare l'energia “termica”, legata alla temperatura del corpo (T ). Dalla termodinamica, sapiamo che questa energia è del ordine del valore kBT, dove kB è la costante di Boltzmann (kB = 1,38065·10–23 J/K). Se il salto in energia Eg tra le bande di valenza e di conduzione è dell'ordine di qualche volte kBT, ci sarà una probabilità non trascurabile di avere un elettrone che passa alla banda di conduzione spontaneamente, è pertanto non potremmo 94 Misura della costante di Planck considerare un tale materiale come un buon isolante. Pertanto, quanto “grande” o “piccolo” sia il salto Eg lo si deve misurare in funzione del valore kBT. Sulla mobilità degli elettroni Avere una corrente elettrica significa che gli elettroni si muovono di preferenza in una direzione, che non è altra che quella definita per il campo elettrico. Questo movimento, però, implica una energia cinetica in più rispetto dello stato degli elettroni senza il campo, e pertanto implica che gli elettroni per dare una corrente dovranno avere un'energia più alta. Ma l'elettrone può cambiare d'energia soltanto se c'è un livello libero più alto nel quale andare: evidentemente, se l'elettrone si trova nella banda di valenza dove tutti i livelli sono occupati, per egli non sarà possibile cambiare la sua energia e pertanto non darà una corrente. Questo non vuol dire che gli elettroni siano “fermi” ma che non possono “cambiare stato”: continueranno a muoversi come prima che ci fosse il campo. Soltanto gli elettroni nella banda di conduzione, che per essere “semi piena” da la libertà di cambiare il valore dell'energia, daranno una corrente. Un concetto importante quando si parla di semiconduttori è quello di “buco” o “lacuna”. Le bande possono contenere un gran numero di elettroni, e studiare le loro proprietà può diventare un problema molto complesso. Però, si può dimostrare che quando mancano pochi elettroni per completare la banda, questo complicatissimo problema è equivalente ad un problema di un piccolo numero di “buchi” di carica positiva muovendosi nella banda, uno per ogni elettrone che manca Misura della costante di Planck 95 per completarla.14 Se un elettrone in un semiconduttore viene “promosso” dalla banda di valenza a quella di conduzione (ad esempio, per energia termica o per un voltaggio applicato sul materiale) lascia dietro di se un “buco”, e può tornare al suo stato di energia più bassa in diversi modi, uno dei quali è la emissione di un fotone di energia (più o meno) uguale al salto Eg tra le bande. Questo processo di “rilassamento” è alla base del funzionamento dei LED, però mancano ancora alcuni concetti per spiegare il loro funzionamento. Semiconduttori “drogati”, giunzioni e diodi Le proprietà delle bande di conduzione e di valenza possono essere alterate “in laboratorio” aggiungendo delle impurezze (atomi convenientemente scelti tra gli altri elementi della tabella periodica) al materiale in un processo chiamato “doping”. Se l'impurezza aggiunta ha più elettroni di valenza di quanti ne ha un atomo del materiale puro, questi elettroni “in più” saranno più vicini in energia alla banda di conduzione, e si dirà che l'impurezza funziona come “donatore” di elettroni, perché aiuterà il materiale ad avere elettroni nella banda di conduzione. Un semiconduttore dopato in questo modo sarà chiamato “di tipo n”.15 Se l'impurezza aggiunta ha invece meno elettroni di valenza dell'atomo del materiale puro, tenderà a “prenderli”, estraendoli dalla 14 Avete mai giocato con quei panelli quadrati suddivisi in tasselli mobili ai quali manca un tassello? Cancellate le immagini sui tasselli, in modo tale che non sia possibile distinguere l'uno dall'altro, ed avrete un'idea su come funziona questo: quando un tassello si muove a destra il buco “si muove” a sinistra. 15 n sta per “negativo”. In un semiconduttore puro, il numero di lacune è sempre uguale al numero di elettroni, perciò il motivo di questo nome è che in un semiconduttore dopato con donatori di carica il numero di elettroni è maggiore del numero di lacune. 96 Misura della costante di Planck Libelli donatori Banda di valenza Banda di conduzione Energia Energia Banda di conduzione Libelli accettori Banda di valenza (a) (b) Figura 45: rappresentazione schematica dei livelli aggiunti dalle impurezze per (a) un semiconduttore tipo n, (b) un semiconduttore tipo p. banda di valenza e generando dei “buchi”. In questo caso si dirà che l'impurezza è “accettora” e il semiconduttore dopato sarà di tipo p. In quest'ultimo caso quando un campo viene applicato al materiale gli elettroni della banda di valenza potranno “muoversi” perché la banda non è più piena. Usando il concetto di “buchi”, si dirà che i “portatori di carica”, cioè, quelli che definiscono la corrente elettrica, saranno proprio le lacune che hanno carica positiva e non gli elettroni.16 Quando si mettono a contatto due semiconduttori drogati, uno di tipo n e l'altro di tipo p, si ottiene quella che è chiamata giunzione p-n. Gli elettroni di conduzione della parte tipo n tenderanno a muoversi verso la parte p, mentre i buchi della parte p tenderanno ad andare nel senso opposto. Questi movimenti generano una “corrente di diffusione” idiff che va dalla parte n alla p. In questa situazione, gli elettroni di conduzione nel lato n potranno perdere energia per andare in banda di valenza grazie ai buchi provenienti dall'altra parte, mentre gli elettroni che sono passati potranno “combinarsi” con i buchi già esistenti nel lato p. 16 Da qui la p : sta per “positivo”. Misura della costante di Planck 97 A causa di questi movimenti i due semiconduttori rimarranno carichi e si genererà un campo elettrico E0 attraverso la giunzione opposto al movimento delle cariche, perciò i portatori di carica che si “diffondono” devono avere l'energia sufficiente per poter passare. Inoltre, il processo di ricombinazione degli elettroni con le lacune fa si che la regione intorno alla giunzione venga “svuotata” di portatori di carica. Questa situazione evidentemente non può durare, qualcosa deve accadere per equilibrare la corrente di diffusione. Abbiamo detto che i portatori di carica maggioritari nei semiconduttori tipo n sono gli elettroni, però questo non vuol dire che non ci siano “portatori minoritari” in forma di lacune “naturali”, che saranno favorite dal campo E0 e si muoveranno dando una corrente “di campo” o “di migrazione” icam opposta a idiff. Lo stesso (scambiando lacune ed elettroni) accade per la parte p dando correnti dello stesso segno. Così, a regime stazionario, una giunzione p-n completamente isolata sviluppa una differenza di potenziale tra le sue estremità V0 = E0 /qe, con qe la carica dell'elettrone. Inoltre, una regione (quasi) priva di portatori di carica intorno alla giunzione è generata, insieme a due correnti, quella di diffusione e quell'altra di migrazione, che si bilanciano tra di loro. Questa regione senza portatori di carica funziona in certo modo come un “isolante” tra i due semiconduttori, nel senso che fa più difficile il transito di una corrente. Se noi adesso applichiamo un potenziale con la stessa polarità (lo stesso segno) del potenziale interno generato nella giunzione, sarà ancora più difficile che un portatore di carica attraversi la giunzione, mentre se il potenziale esterno si oppone a quello interno le cariche potranno passare più semplicemente: in sintesi, se si applica un potenziale esterno con lo stesso segno di quello interno (situazione nota come “polarizzazione inversa”) non c'è corrente, mentre che se il potenziale esterno è opposto all'interno si 98 Misura della costante di Planck (“polarizzazione diretta”). Un dispositivo del genere è chiamato diodo raddrizzatore. LED Applicando agli stremi di una giunzione p-n un potenziale esterno polarizzato “diretto”, ci sarà una corrente attraverso di essa e ad entrambi lati ci saranno elettroni che si “ricombinano” con buchi, perdendo energia. Quando il meccanismo principale di perdita d'energia degli elettroni è l'emissione di fotoni, ci troviamo di fronte ad un LED. Trovare teoricamente un'espressione per l'energia dei fotoni, e relazionare questa energia con le altri variabili del sistema (la corrente attraverso la giunzione ed il potenziale esterno) è abbastanza complesso e richiede nozioni di fisica dello stato solido. I concetti fondamentali però non sono altro che quelli enunciati finora, e pertanto possiamo passare direttamente ai risultati: 1. L'energia dei fotoni è E ≈ Eg.17 2. Se I è la corrente attraverso la giunzione e V il potenziale esterno applicato, si ha che: − I V = A e E kB T e qeV kB T −1 (34) dove kB è la costante di Boltzmann, T è la temperatura espressa in Kelvin, qe è la carica dell'elettrone e η è un “fattore d'idealità”, il cui valore varia tra 1 e 2 ed è una caratteristica dei materiali utilizzati, mentre che A è una costante di proporzionalità che può dipendere della temperatura. Considerando T come la temperatura ambiente, si 17 Il fatto che sia “approssimativamente uguale” è il responsabile che la lunghezza d'onda della luce emessa abbia un'indeterminazione, ma come si ha già detto, questa indeterminazione è molto piccola. Misura della costante di Planck 99 kBT tiene che q ≡ V T ≈ 25,7 mV: questo valore viene di solito chiamato “potenziale termico della giunzione”. e Per valori tipici delle variabili (stiamo considerando valori di V q V positivi e vicini al 1 V), exp k T ≈ 1015 , e perciò si può trascurare l'unità nell'espressione 34: [ I V = A e e B q e V −E kB T ] = Ae V −E / q e V T (35) Però, noi sappiamo che E = h = hc (36) Importante!!! I ragionamenti che seguono sono validi soltanto se i valori di A e η sono uguali per tutti i LED considerati. Questo può essere soltanto un'approssimazione, non semplice da giustificare senza uno studio approfondito di tutti i LED,18 però in vista dei risultati che si ottengono si può dire che è un'approssimazione abbastanza buona! Se diversi diodi, ognuno con la sua lunghezza d'onda, sono attraversati dalla stessa corrente I0 (ad esempio, se sono messi in serie in uno stesso circuito) possiamo dire che: 18 Questo studio implica mettere alla prova l'espressione 34 (non la 35), misurando per ogni singolo LED tensione V e corrente I in un ampio “range” di valori. Approssimando i dati sperimentali con una funzione esponenziale, si può ottenere il valore reale di η mentre A è il valore (molto piccolo) al quale si stabilizza la corrente per potenziali V negativi. Notare che una volta ottenuto A ed η si può anche calcolare di questa espressione il valore di E per ogni LED! Questo sarebbe un metodo più accurato (ma più laborioso) di misurare h. 100 Misura della costante di Planck I B ≡ 0 = e A V −hc /q e V T (37) dove B è una costante. Prendendo il logaritmo di quest'ultima espressione si arriva a: V = hc 1 D qe (38) con D costante. Facendo perciò un grafico della caduta di potenziale in ogni LED in funzione di 1/λ otterremo una retta la cui pendenza è proporzionale a h! L'esperimento La Figura 46 mostra una successione di LED montati su di una basetta per circuiti, assieme ad una resistenza elettrica che serve per regolare la corrente del circuito. Tutti i LED e la resistenza sono messi in serie ed alimentati con un generatore esterno di corrente continua. Nel caso mostrato, si usano LED che emettono a 400 nm, 488 nm, 565 nm, 586 nm, 610 nm, 660 nm, 880 nm e 950 nm (questi ultimi due emettono nell'infrarosso). Figura 46: Il circuito per misurare la costante di Planck. La Figura 47 presenta una sintesi dell'esperienza: sulla sinistra si vede un diagramma semplificato del circuito19 (non è necessario 19 Il triangolo con la barretta è il simbolo tradizionale per i diodi, e serve ad Misura della costante di Planck V1 V2 V3 101 Vn Vn λ1 λ2 λ3 λn V3 V2 V R V1 1 1 1 2 1 3 1 n Figura 47: Schema dell'esperimento. misurare la caduta di potenziale simultaneamente in tutti i LED, è più semplice prenderne una alla volta) per “n” LED che emettono nelle lunghezze d'onda λ1, λ2, λ3, ... λn, e nei quali si produce una caduta di potenziale V1, V2, V3, ..., Vn, rispettivamente, mentre a destra si vede il grafico ottenibile con i dati sperimentali. La resistenza serve a controllare la corrente, altrimenti i LED risulterebbero danneggiati. La funzione che meglio approssima i dati sperimentali è una retta della forma 1 (39) V = P · D I valori di P e D possono essere ottenuti con una regressione lineare dei dati sperimentali, anche se, come già detto, soltanto il primo è di interesse.20 Confrontando questa espressione con l'espressione 38, si ottiene: indicare il senso in cui la corrente può transitare. 20 Tutti i fogli di calcolo moderni includono una funzione per calcolare la regressione lineare di una serie di dati, e pertanto potete utilizzare i programmi che sicuramente avrete nel vostro computer. Troverete tutto nella documentazione del vostro foglio di calcolo. 102 Misura della costante di Planck P ·q e (40) c L'esperienza può ripetersi per diversi valori di corrente, in modo da poter stimare l'errore sperimentale di h dai diversi valori ottenuti. h = Bibliografia Anche se può sembrare contraddittorio, per un testo di carattere generale come questo è difficile trovare una letteratura specifica: ai libri sotto elencati si dovrebbero aggiungere gli appunti presi durante i miei corsi di laurea, la mia esperienza come insegnante, conversazioni con altri docenti... Il primo testo elencato è stato utilizzato per l'esperienza della misura della velocità della luce. Il secondo testo è un “classico” dell'insegnamento di fisica nei primi anni dell'università, mentre il terzo (sfortunatamente, il meno conosciuto) è nella mia opinione uno dei migliori testi di fisica mai scritti.21 Emilio Acerbi: Sperimentazioni di fisica, terza edizione, 1997. Città Studi Edizioni. Resnick, Halliday, Krane: Fisica, quarta edizione, 1992. Casa editrice Ambrosiana. Robert B. Leighton: Principles of modern physics, international student edition, 1959. McGraw-Hill Book Company. Per le biografie: http://en.wikipedia.org/ 21 Insieme al “Feyman's lectures on physics” e alla “Mecánica elemental” di Juan Roederer, libri che però non ho utilizzato qui. 103