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Neuropsichiatria dei disturbi dell`umore

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Neuropsichiatria dei disturbi dell`umore
L’UMORE
provare piacere porta a disinteresse per il mondo circostante e
solitudine. La risonanza dolorosa che tale consapevolezza evoca è stata definita da Ey dolore morale.
All’umore depresso può correlarsi l’aumento di irritabilità,
ansia e rabbia. Accanto alla depressione malinconica, alla forma atipica (con irritabilità, iperfagia, ipersonnia e peggioramento serotino anziché mattutino) e a quella con manifestazioni psicotiche, vi è la depressione agitata o ansiosa. Esistono
forme in cui la deflessione timica è mascherata dai sintomi fisici o interpretata come la conseguenza del disturbo fisico.
Nella mania l’umore è elevato, euforico, senza incertezze,
con sensazioni di potenza e di gioia immotivata. L’euforia è
instabile, e può rapidamente mutare in irritabilità e rabbia.
Parallelamente è presente labilità emotiva: si possono avere
repentini cambiamenti di umore e momenti di commozione
per episodi anche banali, l’autostima è elevata.
Quando l’umore è connotato contemporaneamente da manifestazioni depressive e maniacali si parla di stato misto.
Nella mania depressiva l’umore è depresso, mentre motricità e ideazione sono sul versante maniacale.
Nella depressione agitata e nella depressione con fuga delle idee l’umore è depresso, ma nella prima l’ideazione è depressiva e la motricità maniacale, mentre nella seconda l’ideazione è maniacale e la motricità è depressiva.
Nello stupor maniacale, nella mania improduttiva, nella
mania con inibizione motoria l’umore è sul versante maniacale
con ideazione e motricità depressive nel primo caso, ideazione
depressiva e motricità maniacale nel secondo caso, ideazione
maniacale e motricità depressiva nel terzo caso.
Nella metà dei casi sono presenti caratteristiche psicotiche
(fenomeni allucinatori, deliri, allentamento dei nessi associativi).
Il paziente appare, disorientato di fronte all’alternanza di
coloriture affettive così discordanti e dissonanti.
Neuropsichiatria dei
disturbi dell’umore
14.2
Carlo Blundo
con la collaborazione di
Antonio Daniele e Sandro Fagioli*
ORGANIZZAZIONE GERARCHICODINAMICA DEI DISTURBI DELL’UMORE
Quando uno stato emotivo si presenta come un persistente disturbo della regolazione dei sistemi edonici di base (che regolano le emozioni di fondo “benessere-malessere”) si parla di
umore anziché di emozione e se l’umore è patologico, si parla
di disturbi dell’umore (Damasio, 1999). A tale riguardo, la depressione e la mania sono disturbi dell’umore, generati da una
disfunzione dei sistemi edonici di base associati a modificazioni
del sistema endocrino, viscerale, muscolo-scheletrico, variabili
*
A. Daniele ha curato i paragrafi Depressione post-ictus e Depressione
e malattie dei gangli della base; S. Fagioli ha curato il paragrafo
Depressione nell’anziano.
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per durata e intensità, nei quali l’emozione della tristezza o viceversa della gioia si prolunga per molto tempo, spesso in misura abnorme e senza un’apparente motivazione. Naturalmente
diverse emozioni possono prendere parte a un disturbo dell’umore, per esempio, oltre alla tristezza, la colpa e la vergogna
possono caratterizzare un disturbo depressivo e accompagnarsi
a disturbi cognitivi, in sintonia con l’intonazione negativa di
queste emozioni ma, spesso, senza un’appropriatezza contestuale. La teoria gerarchica strutturale-funzionale del sistema
nervoso centrale descritta nel Capitolo 3 permette di ipotizzare
che le diverse espressioni sintomatologiche che caratterizzano
il variegato insieme dei disturbi dell’umore riflettano la disfunzionalità dei diversi livelli strutturali del sistema nervoso. È
possibile, quindi, delineare, attraverso la correlazione tra complessi sintomatici e disfunzioni dei diversi livelli strutturalifunzionali del sistema nervoso centrale, un’interpretazione patogenetica dei disturbi dell’umore che tenga conto delle diverse
componenti, somatiche, emotive, cognitive dell’umore stesso e
dell’organizzazione gerarchico-dinamica che le sostiene.
Di seguito è riportata un’analisi neuropsicopatologica del
disturbo depressivo maggiore, partendo dalla disfunzionalità
dei livelli energetici e dei meccanismi motivazionali (descritti
nella prima parte del capitolo), mediati dal cervello omeostatico (rettiliano) (Ceccarelli, 2004).
Lo stretto e diretto rapporto fra strutture rettiliane e sistemi omeostaticoendocrino-vegetativi comporta, in caso di disfunzione da depressione maggiore, la primaria alterazione dei comportamenti connessi ai ritmi dell’attività biologica di base, in particolare del ciclo sonno-veglia, di quello
alimentare (anoressia o iperfagia) e di quello sessuale (ipo- o iperattività).
Sul piano squisitamente emotivo, se le strutture rettiliane sostengono i
sistemi edonici di base (le “emozioni di fondo”, cfr. Damasio, 1999: benessere-malessere), la loro alterazione dovrebbe esprimersi con l’accentuazione
di intensità delle stesse, che può accompagnarsi alla scomparsa della percezione della loro soggettività (visto il carattere “prepersonale” di tale livello
strutturale) per acquisire lo statuto di elemento caratterizzante la percezione
del mondo. Secondo quest’ottica, le emozioni primarie e secondarie non sarebbero direttamente interessate dal processo (appartenendo ai livelli strutturali relativi al sistema limbico e a quello neocorticale) ma, semplicemente, a
causa dell’alterazione delle emozioni di fondo su cui si strutturano, non si
porrebbero le condizioni per il loro fisiologico esercizio. L’attribuzione, quindi, di termini quali “tristezza”, “colpa”, “gioia”, tanto da parte del soggetto
quanto da parte degli osservatori, sarebbe il risultato del tentativo, sia dell’uno
sia degli altri, di comunicare sul piano interpersonale ciò che, per sua natura
squisitamente intrapersonale è, in sé, incomunicabile.
Considerazioni simili, relative alle emozioni semplici e alle emozioni
complesse, possono valere anche per i processi cognitivi (livello neocorticale), la cui eventuale alterazione, sotto forma di “idee prevalenti” e di
“deliri”, sarebbe da intendere come effetto secondario alla primaria disfunzione edonica, come tentativo di darsi e di dare un “senso” (prodotto proprio della dimensione sovrapersonale) a ciò che, in sé, “senso” non ha. Sul
piano dei contenuti, si dovrebbe rilevare la povertà degli stessi, cioè la loro
ridotta articolazione, in contrasto con la loro pervasività (percezione del
mondo).
Tali considerazioni sono in accordo con le riflessioni psicopatologiche
di molti autori, da Bleuler ad Akiskal (cfr. Poli et al, 1999). Ciò nondimeno, è possibile rintracciare, tanto per l’espressione delle emozioni semplici e di quelle complesse, quanto per i processi cognitivi, elementi che
rinviano alla storia del soggetto, alla sua persona, e ciò in quanto, sebbene
all’interno dell’attività di destrutturazione propria del processo morboso,
gli elementi appartengono pur sempre al soggetto.
Sul piano relativo all’attività motoria, la stretta correlazione tra sistemi
edonici e sistema sensomotorio dovrebbe comportare, in caso di disfunzionalità dei primi, l’alterazione dei secondi (inibizione o eccitazione
sensomotoria).
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PARTE II
PSICOPATOLOGIA FUNZIONALE E NEUROPSICHIATRIA
Sul piano relazionale, essendo tale livello preposto alla regolazione
del mondo intrapersonale, si dovrebbe rilevare la scarsa responsività, sia
in senso negativo sia positivo, delle dinamiche interpersonali e di quelle
sovrapersonali sull’affettività del soggetto e, conseguentemente, anche
sull’ambito cognitivo e comportamentale.
Infine, la fisiologica attivazione di tipo “ciclico” delle strutture rettiliane,
nonché il fisiologico accoppiamento di tale attivazione con i cicli della natura,
dovrebbero comportare il rilievo di una durata limitata, eventualmente stagionale, del disturbo dell’umore avente le caratteristiche psicopatologiche e cliniche sopra descritte, nonché la possibilità del periodico ripresentarsi, nello
stesso soggetto, di episodi della stessa natura (non necessariamente dello stesso tipo polare). Inoltre, nei periodi intercritici, dovrebbe rilevarsi una restitutio
ad integrum delle condizioni complessive dello stato mentale del soggetto.
In conclusione, secondo una modellizzazione patogenetica fondata sulla
teoria gerarchico-strutturale, una disfunzione delle strutture relative al livello rettiliano del sistema nervoso centrale sarebbe responsabile di quel tipo di
quadro psicopatologico e clinico che, nosograficamente, rientra nell’ambito
dei disturbi dell’umore classificati, secondo il DSM-IV-TR, come Disturbo
Depressivo Maggiore e Disturbo Bipolare. Tale tipo di modellizzazione può
valere, comunque, per comprendere il profilo psicopatologico clinico di altri
disturbi dell’umore la cui disfunzione “primaria”, localizzata in altri livelli
strutturali del sistema nervoso, determinerà una secondaria “riorganizzazione” funzionale di tutti i livelli, anche di quelli integri.
La teoria gerarchico-strutturale del sistema nervoso centrale
permette quindi di ipotizzare che le diverse entità morbose che
costituiscono il variegato insieme dei disturbi dell’umore siano
l’espressione di percorsi patogenetici diversi all’interno di un
unitario modello fisiopatologico. In modo specifico, la diversità
patogenetica sarebbe da ascrivere alla disfunzionalità dei diversi
livelli strutturali del sistema nervoso. Se ciò è vero, allora nei
disturbi neuropsichiatrici si dovrebbero rilevare, essendo essi
espressione di alterazioni focali dei suddetti livelli, manifestazioni cliniche e psicopatologiche “parziali” e “miste” rispetto ai
classici disturbi psichiatrici dell’umore, come sembrano confermare l’osservazione clinica e i dati di neuroimaging.
Un’organizzazione gerarchico-dinamica dei disturbi dell’umore si concilia
con un modello neuropsichiatrico integrato – strutturale e funzionale – della
depressione, formulato da Cummings (1993) sulla base di dati provenienti da
studi clinici e morfofunzionali. In questo modello, le diverse manifestazioni
sintomatologiche dei pazienti con depressione primaria o secondaria, sono
correlate alla disfunzione di differenti livelli strutturali sulla base di modificazioni metaboliche regionali riscontrate alla PET e alla RM funzionale. In
tal modo, la tristezza e la disforia sarebbero la conseguenza di un’alterazione
della normale risposta allo stress prodotta da lesioni limbiche; la diminuzione di interesse rifletterebbe una caduta dei meccanismi di rinforzo positivo
correlati a strutture implicate nei processi motivazionali, quali le aree del
cingolo e alcune aree sottocorticali tra cui soprattutto l’ipotalamo e il mesencefalo; i sentimenti di autosvalutazione e di colpa, come pure la riduzione
dell’iniziativa ideomotoria, sarebbero espressione di una riduzione delle capacità volitive e decisionali e di un aumento della dipendenza dall’ambiente,
disturbi mediati da una disfunzione prefrontale e del caudato; i disturbi del
controllo emozionale sarebbero legati a una disfunzione di aree limbiche e
del tronco dell’encefalo; il rallentamento motorio, in alcuni casi simile a
quello parkinsoniano, dipenderebbe da una compromissione dei gangli della
base; i segni vegetativi da una disfunzione a livello ipotalamico.
APPROCCIO NEUROPSICHIATRICO
AI DISTURBI DELL’UMORE
VALUTAZIONE DEGLI STATI DEPRESSIVI
La valutazione dello stato emozionale nei pazienti neuropsi-
288 chiatrici è spesso ricca di fattori che possono essere fonte di
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confusione diagnostica. Ross e Rush (1981) hanno elaborato
alcune linee guida per la diagnosi di depressione nei pazienti
con lesioni cerebrali. Come sottolineano questi due Autori, un
primo fattore da tenere in considerazione è la possibilità che
aspetti neurologici somatici e cognitivi possano interferire sui
segni e i sintomi della depressione. Per esempio, la presenza
di afasia può rendere complicato o impossibile raccogliere dal
paziente la storia e i pensieri associati al suo stato depressivo;
la presenza di anosognosia (associata prevalentemente a lesioni emisferiche destre) può portare il paziente ad avere uno
stato di inconsapevolezza dei propri disturbi e a negare verbalmente, per esempio, un progetto suicidario mentre esprime
stati d’animo consoni con questo; la presenza di reazioni
inappropriate o di tipo euforico, osservabili soprattutto nei
soggetti con lesioni cerebrali emisferiche destre, può anche
mascherare uno stato depressivo. Di fatto, i soggetti con danni
cerebrali, ritardo mentale oppure demenza frequentemente
hanno una distorta consapevolezza dei propri disturbi affettivi, per cui la diagnosi deve basarsi principalmente sulle osservazioni comportamentali e sulla presenza dei segni neurovegetativi (alterazioni del ritmo del sonno, dell’appetito e del
peso, del livello di energia fisica, dell’interesse sessuale, delle
attività sociali e dei momenti di svago) che comunemente accompagnano la depressione o la mania. Per esempio, un paziente con esiti di ictus emisferico destro può riferire di sentirsi bene e niente affatto depresso nononostante siano presenti
anergia, abulia, difficoltà di concentrazione, irritabilità, apatia, anedonia, insonnia e anoressia. In questi casi, il più delle
volte, un trattamento antidepressivo porterà a un significativo
miglioramento del tono dell’umore. È un punto ancora aperto
alla discussione, e di notevole interesse in neuropsichiatria,
stabilire se questi pazienti abbiano una sindrome depressiva
mascherata da un perdita della consapevolezza emotiva, abbiano cioè un’anosognosia per la depressione, oppure se questo appiattimento emozionale costituisca il fenotipo della loro
depressione. Indipendentemente dai meccanismi fisiopatologici implicati, il clinico deve tuttavia impegnarsi nella ricerca
di quei sintomi-bersaglio suscettibili di essere trattati mediante farmaci antidepressivi. L’identificazione di fattori psicosociali scatenanti la depressione e potenzialmente trattabili,
come il dolore, le disabilità cognitive e motorie, l’isolamento
sociale, le perdite economiche e di altro tipo, rivestono ovviamente un valore eziopatogenetico molto importante.
I disturbi della comunicazione emozionale possono anche
interferire sulla diagnosi dei disturbi depressivi nei soggetti
neuropsichiatrici. Infatti, la presenza di aprosodia, la mancanza di gestualità emotiva, la riduzione dell’espressione emozionale facciale, possono occultare un disturbo dell’umore
sottostante; al contrario, a un’espressione emozionale apparentemente “piatta” può non corrispondere una riduzione del
tono dell’umore. Per esempio, un disturbo depressivo può
venire sottostimato in pazienti depressi con lesioni focali dell’emisfero destro, se insieme al disturbo dell’umore è presente un’aprosodia motoria che rende affettivamente inadeguata
la comunicazione verbale dei loro contenuti depressivi (Ross
e Stewart, 1987). Ugualmente, i pazienti con una lesione frontale possono mascherare uno stato depressivo per un disturbo
dell’espressione emotiva oppure, per la mancanza di spontaneità che spesso si associa alle lesioni frontali, non comunicare i loro contenuti depressivi.
Fenomeni di labilità emotiva possono essere presenti in
pazienti con lesioni cerebrali simulando così un disturbo del-
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L’UMORE
l’umore. Clinicamente questi comportamenti di iperemotività
sono caratterizzati da una risposta emozionale esagerata a
stimoli emotivi anche scarsamente significativi e da improvvisi e transitori episodi di pianto irrefrenabile. Alcune osservazioni preliminari di Gainotti (1983; 1972) hanno messo in
evidenza come pazienti con lesioni cerebrali a sinistra e con
afasia di Broca potessero presentare episodi inaspettati di incontinenza emotiva di questo tipo. House et al (1989) hanno
riscontrato lesioni focali localizzate nelle regioni anteriori
dell’emisfero sinistro in pazienti con fenomeni di “emozionalismo” post-ictus. Anche pazienti emotivamente labili con
demenza di Alzheimer possono riferire di sentirsi molto tristi
e scoppiare improvvisamente in lacrime quando vengono interrogati sullo stato del loro umore (oppure quando si chiede
di una persona cara deceduta), salvo mostrarsi subito dopo
allegri se vengono distratti da discorsi più piacevoli.
I processi attraverso cui un danno cerebrale può influire sui
meccanismi di controllo dell’espressione emotiva non sono
ancora completamente conosciuti. È noto che alla base del
pianto e del riso vi sono pattern motori “innati” di natura riflessa per cui i neonati sono in grado, subito alla nascita, di
piangere e nelle settimane successive di sorridere (Frindlund
e Loftis, 1990). Successivamente, i processi di maturazione
cerebrale e le variabili legate al sesso, all’educazione e alla
cultura rendono un individuo, nel corso del suo sviluppo,
sempre più capace di inibire le proprie espressioni emotive. È
stato ipotizzato, quindi, che l’emisfero sinistro e in particolare
le aree frontali abbiano la superiorità rispetto all’emisfero destro nel controllo dei processi emozionali, per cui si ritiene
che una lesione di queste aree, verosimilmente insieme a
componenti psicologiche che ampliano la risonanza dello stimolo emotivo, alteri i meccanismi inibitori di controllo della
risposta emozionale (per un’informazione più dettagliata sulle ipotesi della dominanza dell’emisfero sinistro nel controllo
emozionale cfr. Gainotti, 2001; 1996; Gainotti et al, 1993).
Un’altra manifestazione emozionale che può confondere nella
diagnosi di depressione è rappresentata dai disturbi dell’espressione affettiva. L’espressione affettiva (intesa come espressione
esterna del proprio stato emozionale, denominata affect nella lingua anglosassone) e l’umore (usualmente definito come l’esperienza di un proprio stato emozionale per un periodo protratto, per
esempio di giorni o settimane) possono essere nei pazienti neuropsichiatrici dissociati l’una dall’altro. Gli stati di alterata regolazione dell’espressione affettiva sono per lo più secondari a lesioni cortico-bulbari bilaterali (dovuti a ictus bilaterali, sclerosi
multipla, sclerosi laterale amiotrofica), le quali producono una
disinibizione dei nuclei del tronco dell’encefalo che coordinano i
movimenti facciali e vocali motori implicati nell’espressione
emozionale, determinando il cosiddetto pianto pseudobulbare
(oppure il riso). In questi casi il pianto è spesso stereotipato ed
esagerato, simile a quello di un fanciullo e può essere fonte di
notevole imbarazzo per molti pazienti. Per questi soggetti è spesso
rassicurante sentire che il fenomeno può venire spiegato come
una conseguenza biologica della loro malattia e che può venire
facilmente trattato con una terapia a base di antidepressivi o anticomiziali.
Gli scoppi di riso e pianto patologici dei pazienti pseudobulbari, rispetto ai fenomeni di iperemozionalismo prima descritti (nei quali non vi è dissociazione tra l’esperienza emozionale
interna e la sua espressione esterna), sono generalmente più
stereotipati, inappropriati e immotivati. Questi pazienti possono avere scoppi di riso o di pianto o alternare entrambe le
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Tab. 14.1 Condizioni associate a riso e pianto patologici
Da alterata regolazione
Cause mediche
Sclerosi laterale amiotrofica
Sclerosi multipla
Malattie cerebrovascolari
Encefalopatia anossica
Encefaliti
Sindrome di Angelman
Sindromi extrapiramidali
Mielinolisi pontina centrale
Malattia da accumulo dei lipidi
Atrofia olivo-ponto-cerebellare
Cause strutturali
Gliomi e amartomi dell’ipotalamo
Tumori del terzo ventricolo
Tumori ipofisari
Tumori della fossa cranica posteriore
Tumori del lobo temporale
Traumi
Aneurismi
Malformazioni vascolari
troncoencefaliche
Cordomi del clivus
Tumori del tronco dell’encefalo
Da iperattivazione Crisi gelastiche
Crisi comiziali ictali di pianto
(Da Shaibani et al, 1994.)
manifestazioni senza sentirsi né tristi né felici. Fenomeni di
incontinenza emotiva di diversa intensità sono stati descritti in
numerose patologie neurologiche di varia natura a carattere
focale o diffuso, causate da un disturbo della regolazione o da
un’iperattivazione dei meccanismi di controllo del riso e del
pianto (tab. 14.1).
Diversi meccanismi fisiopatologici sono stati riconosciuti
alla base di queste “false” manifestazioni affettive. Uno dei
meccanismi più conosciuti è quello, come abbiamo detto, della
paralisi pseudobulbare, sindrome caratterizzata da lesioni bilaterali a carico della zona dell’opercolo frontale, dei gangli della base e delle vie sopranucleari dirette ai nuclei motori bulbari,
che producono uno “sganciamento” delle strutture sottocorticali coinvolte nella regolazione dell’espressione emozionale dal
controllo delle aree corticali (Besson et al, 1991). Un altro
meccanismo responsabile di fenomeni di “incontinenza emotiva” è quello correlato a lesioni unilaterali o bilaterali delle aree
limbiche temporali e del proencefalo basale, che attraverso il
diencefalo e alcune strutture troncoencefaliche influenzano
l’attività dei motoneuroni alfa (Ross e Stewart, 1987). A tale
proposito, sono stati descritti casi di pazienti con lesioni di diversa eziologia oppure con focus epilettico localizzato in queste strutture, le cui manifestazioni cliniche consistevano in fenomeni di riso o pianto patologico (Shaibani et al, 1994).
Manifestazioni improvvise e inappropriate di pianto sono state
descritte da Ross e Stewart (1987) in pazienti con depressione
maggiore e con lesioni unilaterali frontali inferiori destre senza
paralisi pseudobulbare. Gli Autori hanno spiegato questi fenomeni emozionali come il risultato di un’interazione tra la lesione strutturale emisferica destra e la depressione di tipo endogeno di cui erano affetti i pazienti, suggerendo così che, in alcuni
casi, un disturbo della regolazione emozionale senza una concomitante paralisi pseudobulbare può indicare la presenza di un
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sottostante disturbo depressivo (Ross e Stewart, 1987).
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PARTE II
PSICOPATOLOGIA FUNZIONALE E NEUROPSICHIATRIA
Nella diagnosi differenziale tra la depressione e le altre sindromi in pazienti neuropsichiatrici, l’apatia deve venire distinta dalla riduzione del tono dell’umore, condizioni che
possono entrambe trovarsi associate in numerosi disturbi del
comportamento secondari a lesioni cerebrali oppure presentarsi come sindromi distinte. Una corretta diagnosi è in questi
casi importante essendo la terapia di queste due sindromi diversa (cfr. Capitolo 10).
Come descritto nel paragrafo Depressione nell’anziano, la
depressione che insorge in età avanzata è diversa dalle forme a
insorgenza precoce, sia per il quadro clinico sia per l’eziologia,
i substrati anatomici e la prognosi. Sono maggiormente presenti sintomi somatici, deficit cognitivi, anormalità cerebrali e
vascolari (Variend e Gopal, 2008). I fattori genetici hanno minore importanza nella depressione della tarda età, mentre vi è
una maggiore associazione con anormalità strutturali cerebrali
agli esami di immagine.
Deliri somatici relativi all’alterazione o perdita di funzioni o
parti del corpo (che possono essere del tutto bizzarri del tipo
«ho perso il mio cervello o il mio cuore»), di povertà, di perdita della stima di sé, di rovina, di colpa (talora associati a paura
di essere perseguitati), preoccupazioni per le funzioni escretorie, intense ruminazioni e irrequietezza motoria (in assenza di
un’acatisia farmaco-dipendente) sono condizioni che possono
sostenere una diagnosi di depressione post-ictus o una sindrome apatica associata a demenza. Le richieste di aiuto attraverso
pianti e grida possono costituire un indizio di uno stato depressivo in un soggetto con una grave demenza che sia incapace di manifestare il suo umore e di esprimere le sue preoccupazioni somatiche. Ipersonnolenza e aumento di peso sono
fenomeni comunemente associati a sindromi apatiche ma possono essere anche segni di una depressione atipica.
Infine, si devono ricordare alcune altre condizioni che non
di rado possono confondere o, al contrario, se opportunamente valutate, aiutare nella diagnosi di depressione in neuropsichiatria.
L’esordio di un disturbo depressivo secondario a un danno
neurologico può, come sottolineano Ross e Rush, essere rappresentato, in alcuni pazienti con danno cerebrale, da riduzione e fluttuazione dei processi di recupero delle informazioni
mnesiche, da deficit neurologici, da incapacità di collaborare
al processo di riabilitazione, da deterioramento clinico di sintomi neurologici in precedenza stabili.
Un altro aspetto molto importante ai fini diagnostici è rappresentato, come è stato prima menzionato, dai gravi disturbi
vegetativi che spesso accompagnano la depressione e possono
costituire gli unici o i più importanti segni di questa sindrome.
È importante quindi sapere dal paziente se si sono verificate
modificazioni della sfera vegetativa (come i cambiamenti dell’appetito, delle abitudini sessuali, del sonno). In molti casi è
necessario estendere l’intervista anche ai familiari perché i
pazienti con danno cerebrale talora negano molti o tutti i segni
e i sintomi della depressione, pur essendo depressi. Inoltre,
non si deve dimenticare come i sintomi depressivi possano,
almeno in parte, non essere legati a un effetto diretto della
lesione cerebrale sull’umore ma rappresentare una risposta
psicologica del paziente alle menomazioni fisiche prodotte
dalla malattia neurologica e alle sue conseguenze sul piano
lavorativo e sociale. Infine, i farmaci che il paziente assume
per i suoi sintomi somatici possono influire negativamente sul
tono dell’umore (cfr. oltre tab. 14.2) producendo uno stato
290 depressivo che non sarà quindi direttamente correlato alla le-
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sione cerebrale. Nel 2008 la FDA (Food and Drug Administration) ha emesso un alert sui farmaci antiepilettici che dopo
una ricerca svolta dall’Agenzia stessa, sono risultati in
relazione a un rischio quasi raddoppiato di depressione. In
particolare alcuni farmaci, soprattutto quelli con proprietà
GABAergiche sono risultati “a rischio” di comportamento autolesionistico e/o suicidario: i barbiturici, il levetiracetam, il topiramato e il vigabatrin, mentre la lamotrigina, il pregabalin,
il gabapentin e il trileptal non hanno mostrato un aumento
del rischio. La relazione tra depressione e comportamenti autolesionistici e suicidari è tuttavia un argomento ancora non
chiarito e poiché il rischio correlato alla non assunzione dei
farmaci antiepilettici è superiore a quello legato alla loro assunzione, prima di prescriverli dovrà essere effettuata un’attenta anamnesi neuropsichiatrica e, durante la terapia, andrà
eseguito un monitoraggio dei possibili effetti negativi sul
comportamento (vedi Hesdorffer et al, 2010).
Un dato importante nella valutazione degli stati depressivi
nei pazienti neuropsichiatrici è rappresentato dalla scarsa utilità dei criteri del DSM-IV-TR per la loro diagnosi. Facendo
riferimento a questo sistema di classificazione si osserva che
alcuni dei criteri della classificazione dell’Episodio Depressivo Maggiore tendono a sovrapporre la sintomatologia psichiatrica con quella neurologica. Il rallentamento psicomotorio (criterio 5), la faticabilità o la mancanza di energia (criterio
6), la marcata diminuzione di interesse per le attività quotidiane (criterio 2), la ridotta capacità di pensiero e concentrazione
(criterio 8) e le alterazioni neurovegetative collocano il disturbo depressivo secondario a patologie neurologiche all’interno
di uno spettro di quadri clinici ai cui estremi vi sono, da un
lato le forme depressive conclamate e dall’altro il disturbo
cognitivo grave. L’ulteriore specificazione – «i sintomi causano disagio clinicamente significativo o compromissione del
funzionamento sociale, lavorativo, o di altre aree importanti»
– non aiuta in questa distinzione.
In sintesi, quando si valutano i disturbi dell’umore all’interno
di malattie neurologiche, sono frequenti i casi di pazienti con un
“nucleo” depressivo severo ma che non hanno i criteri richiesti,
oltre alla deflessione dell’umore o alla perdita di interesse, per
la diagnosi di depressione maggiore o minore. Emblematico è il
caso di depressioni mono- o paucisintomatiche, dove tutto il
quadro clinico è costituito dall’insonnia e da una severa ideazione suicidaria, che vanno considerati una malattia dell’umore
pur non rientrando in un episodio depressivo maggiore.
I disturbi dell’umore spesso si manifestano in corso di malattie internistiche di varia eziologia, in seguito ad assunzioni
di farmaci o in associazione a diverse lesioni focali o diffuse
del sistema nervoso (tab. 14.2).
Nel DSM-IV-TR (1994), il termine Sindromi Organiche dell’Umore, presente nelle precedenti versioni, è stato sostituito
con quello di Disturbo dell’Umore Dovuto a una Condizione
Medica Generale, quando una condizione medica sia la causa
fisiologica diretta delle alterazioni dell’umore. L’inclusione di
questa categoria di disturbi nella sezione dei disturbi dell’umore ha permesso di definirne la gravità e la durata temporale e di
specificare (nel caso, per esempio, di un disturbo depressivo) se
le manifestazioni depressive soddisfino i criteri per una forma
depressiva maggiore, oppure per un disturbo distimico o un disturbo dell’adattamento con umore depresso. Parallelamente al
DSM-IV, l’ICD-10 (1992) definisce questa categoria di disturbi
come «altri disturbi mentali attribuibili a un danno cerebrale, a
una disfunzione e a una malattia fisica».
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L’UMORE
Tab. 14.2
14
Condizioni mediche generali e sostanze che causano disturbi dell’umore
Malattie neurologiche
Patologie cerebrovascolari
Patologie extrapiramidali
Demenza
Neoplasie
Patologie infiammatorie
Idrocefalo normoteso
Ematoma sottodurale
Epilessia
Sclerosi multipla
Traumi cranici
Malattie metaboliche ed endocrine
Deficienza di B12
Iper- e ipotiroidismo
Ipo- e iperparatiroidismo
Porfiria
Ipo- e iperadrenocorticismo
Malattie epatiche e renali
Malattie autoimmuni
Lupus
Artrite reumatoide
Infezioni virali
Epatite
Mononucleosi
HIV
Neoplasie
Carcinoma del pancreas
Farmaci
Anestetici
Alcool
Barbiturici
Benzodiazepine
Butirrofenoni
Fenotiazine
Antiepilettici
Anoressizzanti
Alfa-metildopa
Reserpina
Beta-bloccanti
Calcio-antagonisti
Digitale
FANS
Miorilassanti
Contraccettivi orali
Depressione
Amfetamine e altri stimolanti
Dopaminoagonisti
L-dopa
anti-MAO
Steroidi
Antidepressivi (> triciclici)
Mania
Intossicazione o astinenza da sostanze
Alcool
Allucinogeni
Amfetamine
Cocaina
Feniciclina
Oppiacei
Sedativi
Ipnotici
Metalli pesanti e tossine
Biossido di carbonio
Gas nervini
Insetticidi organofosfati
Monossido di carbonio
Sostanze volatili (come benzina e vernici)
(American Psychiatric Association, 1994.)
291
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PARTE II
PSICOPATOLOGIA FUNZIONALE E NEUROPSICHIATRIA
I criteri diagnostici del DSM-IV e dell’ICD-10 sono a tutt’oggi l’unica classificazione codificata dei disturbi dell’umore, sia di quelli che caratterizzano le sindromi psichiatriche
“primarie”, sia di quelli associati a una condizione medica.
Non vi è tuttavia ragione di ritenere che tali classificazioni
possano coprire tutto lo spettro dei disturbi dell’umore prodotto da patologie di diversa eziologia. In particolare, i criteri
per la diagnosi dei “disturbi dell’umore secondari a una condizione medica” sono scarsi e non sono affatto specifici per
questi disturbi. Per tale ragione, la maggior parte delle ricerche su pazienti neurologici con disturbi dell’umore utilizza i
criteri del DSM, ma osservazioni cliniche e studi controllati
hanno dimostrato che questi criteri possono non essere validi
per l’analisi dei disturbi dell’umore associati a lesioni cerebrali. Infatti, un approccio di tipo categoriale (basato su un set
di criteri diagnostici specifici) ai disturbi dell’umore associati
a malattie neurologiche è possibile solo per alcuni disturbi
neuropsichiatrici (come, per esempio, la depressione, l’apatia
e la psicosi nella demenza). L’assenza di criteri diagnostici
categoriali nella neuropsichiatria dei disturbi dell’umore, giustifica, quindi, l’inserimento in questo capitolo di quadri depressivi con sintomi eterogenei e spesso atipici rispetto alle
classiche forme psichiatriche descritte nel DSM-IV.
VALUTAZIONE DEGLI STATI MANIACALI
Rispetto allo stato depressivo, l’accertamento di uno stato
maniacale in un paziente neurologico presenta di solito minori problemi. Infatti, mentre uno stato depressivo si può manifestare, come prima è stato detto, anche senza un’appropriata
espressione esteriore di tristezza, è poco probabile che un
comportamento di “tipo maniacale” non sia accompagnato da
reazioni di felicità o euforia, oppure da manifestazioni di irritabilità o ansia, iperattività motoria e ideoverbale, che possono arrivare all’agitazione psicomotoria e al delirium. Un
esempio di dissociazione tra uno stato emotivo interno “normale” e una manifestazione esterna di apparente elevazione
del tono dell’umore è rappresentato dagli scoppi di riso patologico, che sono comunque episodici e transitori.
Krauthammer e Klerman (1978) introdussero il termine mania
secondaria per indicare le sindromi maniacali che complicano vari tipi di patologie neurologiche, endocrine o tossicometaboliche. Questi Autori, per essere sicuri di non trovarsi
semplicemente di fronte a una variante della “psicosi tossica”,
esclusero i pazienti con evidente stato confusionale, come
pure, per confermare la diagnosi di mania secondaria, esclusero i soggetti con anamnesi positiva per disturbi affettivi.
Essi conclusero che i pazienti affetti da mania secondaria erano indistinguibili sul piano fenomenologico dai pazienti con
mania primaria, tranne che per l’età di esordio più elevata rispetto alle forme primarie. Per tale motivo, in un paziente con
un esordio tardivo di sintomi maniacali e con un’anamnesi
personale e familiare negativa per pregressi episodi di disturbi
dell’umore, la possibilità che lo stato di eccitamento sia «secondario a una condizione medica generale o indotto da sostanze» (secondo la terminologia del DSM-IV) deve essere
sempre tenuta in considerazione nella diagnosi differenziale.
Una serie di ricerche ha affermato che tra le manifestazioni
cliniche delle forme maniacali primarie e secondarie esiste una
stretta somiglianza (Robinson et al, 1988; Starkstein et al,
1987b). Quando l’analisi dei disturbi maniacali è stata effettua292 ta con scale strutturate, che applicano rigorosamente i diversi
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criteri diagnostici dello stato maniacale confrontandoli con
quelli delle forme psichiatriche primarie, questa diagnosi è risultata molto rara nei pazienti con lesioni cerebrali; in alcuni
casi, nel corso di ricerche su gruppi di pazienti cerebrolesi non
è stato trovato alcun paziente con tale sintomatologia (House,
1996; House et al, 1990).
Clinicamente, i pazienti neurologici con disturbi similmaniacali presentano comportamenti “da disinibizione” di tipo
motorio, istintuale, emozionale, del pensiero o della sfera percettiva. Si possono così manifestare diversi sintomi, isolati o
più frequentemente tra loro associati, come l’agitazione psicomotoria, i disturbi sessuali e dell’alimentazione, l’aggressività,
l’euforia, l’irritabilità, i deliri, prevalentemente di grandezza,
le allucinazioni visive e uditive.
In conclusione, la caratterizzazione dello stato maniacale nei
soggetti con lesioni neurologiche appare clinicamente ancora
poco definita rispetto alle forme descritte nel DSM-IV. Nella realtà clinica, fenomeni di tipo disinibitorio, con aspetti patogenetici
e sintomatologici in parte sovrapponibili, caratterizzano diversi
disturbi del comportamento che vengono variamente designati
con termini quali “sindrome del lobo frontale”, “sindrome pseudopsicopatica”, “sociopatia acquisita”, “mania secondaria”.
DEPRESSIONE E MALATTIE
CEREBROVASCOLARI
I disturbi dell’umore frequentemente si associano a vasculopatie cerebrali acute e croniche (Robinson, 1997). Infatti, già
nel 1921, Kraepelin osservò che esisteva un’associazione tra
malattie cerebrovascolari e stati depressivo-maniacali, mentre
Bleuler nel 1951 riportò che dopo un ictus poteva comparire
uno «stato di melanconia di lunga durata» (Bleuler, 1951).
Negli ultimi quindici anni la comorbilità tra ictus e depressione è stata oggetto di numerosi studi sistematici ed è stato
riconosciuto come questa sindrome debba precocemente venire diagnosticata e curata, per migliorare la qualità di vita del
paziente e del caregiver e impedire che essa ostacoli il processo riabilitativo. In questo paragrafo verranno descritte dapprima le manifestazioni depressive legate a lesioni ischemiche
croniche (depressione vascolare) e successivamente verrà
trattata la depressione post-ictus che insorge, invece, dopo un
evento vascolare acuto.
DEPRESSIONE VASCOLARE
Dalla fine del XIX secolo, quando Binswanger suggerì che le
lesioni vascolari della sostanza bianca sottocorticale, senza
una rilevante compromissione corticale, potevano essere associate a demenza e a disturbi del comportamento (entità clinicopatologica che Alzheimer nel 1902 denominò appunto come
“malattia di Binswanger”), numerose evidenze cliniche hanno
dimostrato che la depressione è un sintomo che frequentemente si associa a stati di sofferenza cerebrale cronica. Numerosi
studi controllati hanno confermato l’associazione in soggetti
anziani, con fattori di rischio cardiovascolare ma senza una
storia di precedenti disturbi dell’umore, tra depressione e aree
di iperintensità sottocorticale (IS), localizzate alla RM nella
sostanza bianca prevalentemente frontale e nei nuclei grigi sottocorticali del talamo e dei gangli della base (fig. 14.6).
Questa sindrome depressiva è stata etichettata con il termine
di sindrome depressiva vascolare. Le aree di IS si presentano
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L’UMORE
Fig. 14.6 Quadro RM di encefalopatia vascolare
sottocorticale con estese e confluenti aree di iperintensità
della sostanza bianca periventricolare e sottocorticale. Paziente
di 73 anni, iperteso, con grave depressione esordita da circa
6 mesi, rallentamento psicomotorio, apatia, iniziali deficit cognitivi.
nelle scansioni TC come aree di ipodensità e come aree iperintense nelle immagini di RM T2-dipendenti, a densità protonica
o in modalità FLAIR localizzate in sede periventricolare, sottocorticale o nella profondità della sostanza bianca (vedi
fig. 14.6). Queste lesioni risparmiano la corteccia, le fibre a
“U” sottocorticali, il mesencefalo, il cervelletto, tutte regioni
irrorate da arteriole brevi o con circoli collaterali che proteggono questi territori dall’ipoperfusione. Le aree di IS sono
l’espressione di focolai ischemici cronici indicativi di demielinizzazione perivasale o di infarti incompleti da ipoperfusione
su arterie perforanti e midollari. La morfologia va da aree puntiformi (inferiori a 5 millimetri) a chiazze (patchy) irregolari
superiori a 10 millimetri. Queste lesioni ischemiche croniche
vengono anche denominate “aree di iperintensità della sostanza bianca” (altri termini usati sono leucoaraiosi o leucoencefalopatia vascolare) ma il termine non è esatto in quanto, come è
stato già detto, esse non sono limitate alla sostanza bianca
sottocorticale ma si ritrovano anche nella sostanza grigia dei
nuclei basali e possono interessare il tronco dell’encefalo.
Sul piano clinico, i pazienti con depressione vascolare, in
genere di età superiore ai 50-60 anni, senza una storia precedente di disturbi dell’umore e senza apparenti stressor psicosociali,
manifestano, oltre a una perdita di interessi e a una riduzione
del tono dell’umore, un marcato rallentamento ideativo, apatia,
perdita dell’insight, tutti sintomi indicativi di un danno cerebrale a livello delle vie striato-pallido-talamo-corticali (Alexopoulos et al, 1997). In particolare, sono compromesse le funzioni
esecutive e i soggetti presentano, quindi, una notevole riduzione
della loro autonomia nello svolgimento delle attività di vita
quotidiana, compromissione della fluenza verbale, difficoltà
nell’esecuzione di compiti che richiedono abilità di programmazione, pianificazione, problem solving e scelte decisionali. A
differenza della depressione associata a demenza vascolare, i
segni di deterioramento mentale sono assenti o comunque scarsi (Alexopoulos et al, 1997). In sintesi, questi pazienti hanno
una disfunzione esecutiva della tarda età che altera la loro vita
più dei sintomi depressivi. Si possono associare sintomi paranoidei lievi che dipendono dalla disfunzione frontale e dalla
relativa incapacità di organizzare il pensiero.
Questi casi sono anche caratterizzati da una minore risposta
alla terapia con antidepressivi e da una maggiore incidenza di
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ictus cerebrali rispetto a soggetti di controllo con aree di IS
ma senza depressione. La prevalenza delle aree di IS nelle
regioni frontali suggerisce, come meccanismo fisiopatologico
della depressione vascolare, una disconnessione dei circuiti
fronto-striato-pallido-talamo-corticali con compromissione
delle vie serotoninergiche e adrenergiche che, com’è stato
detto nel Capitolo 2, svolgono un importante ruolo nella regolazione del comportamento emozionale.
Ulteriori studi sono necessari per definire meglio il profilo
clinico di questa sindrome e le differenze, rispetto anche alle
modalità di trattamento, tra questo tipo di depressione e la depressione non vascolare. Nonostante la relazione causale tra
depressione e alterazioni vascolari cerebrali necessiti di ulteriori conferme, il concetto di depressione vascolare appare comunque interessante per spiegare l’insorgenza di quadri depressivi
tardivi in soggetti anziani che non avevano mai prima sofferto
di disturbi dell’umore. A tale riguardo, è interessante rilevare
che una conferma indiretta dell’importanza patogenetica di una
vasculopatia sottocorticale cronica in soggetti anziani con depressione è data dalla mancanza di una storia di familiarità per
disturbi dell’umore nella maggior parte di questi soggetti.
Da alcuni anni a questa parte si è cominciato anche a considerare la depressione come fattore di rischio per le malattie vascolari. A tale riguardo, la prospettiva emergente è che la depressione da un lato può costituire il prodromo di un evento
vascolare e dall’altro può essere una conseguenza di lesioni vascolari. La depressione è stata infatti associata a diverse alterazioni fisiopatologiche che possono facilitare l’insorgenza di una
patologia cerebrovascolare analogamente agli effetti negativi
che la depressione, come è ormai documentato, esercita sul sistema cardiovascolare. Studi controllati hanno dimostrato che la
depressione può indurre alterazioni della funzionalità piastrinica (aumento dell’attivazione piastrinica con conseguente iperaggregabilità), produrre una disfunzione immunitaria, causare
alterazioni ormonali (ipercortisolemia) e modificazioni a livello
neurotrasmettitoriale che determinano uno stato ipertensivo,
tutti elementi che insieme costituiscono importanti fattori di rischio cerebrovascolare (Musselmanm et al, 1998). Per un altro
verso, numerosi studi controllati hanno evidenziato, in soggetti
non anziani con depressione maggiore o sindrome bipolare, una
significativa associazione tra il disturbo affettivo e la presenza di
lesioni vascolari. Alla luce di queste evidenze, negli ultimi anni
si è iniziato a considerare la comorbilità tra depressione e aree
di IS non come una semplice associazione ma come l’espressione di una relazione patogenetica, ancora in gran parte sconosciuta, che reciprocamente lega disturbi dell’umore, fattori di
rischio vascolare e lesioni ischemiche croniche sottocorticali.
In conclusione, se è ormai un dato acquisito che esiste una
reciproca relazione tra lesioni ischemiche croniche e depressione, rimangono ancora da chiarire molti dei meccanismi fisiopatologici che dalle lesioni vascolari conducono alla depressione e viceversa. Il significato clinico di queste lesioni,
oggi frequentemente riscontrabili nei pazienti soprattutto anziani, data la diffusione degli esami con la TC o la RM, deve
essere tuttavia valutato con prudenza, sulla base dei dati
dell’esame obiettivo generale e neurologico, del profilo dei
sintomi cognitivi e psicopatologici, dei parametri biochimici e
dei fattori di rischio vascolare del paziente. Aree di IS sono
infatti riscontrabili anche in soggetti anziani asintomatici (anche se per lo più di limitata estensione), nei pazienti con demenza di Alzheimer e demenza vascolare e in altre patologie
293
infiammatorie e non infiammatorie.
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14
PARTE II
PSICOPATOLOGIA FUNZIONALE E NEUROPSICHIATRIA
DEPRESSIONE POST-ICTUS
Forme cliniche, prevalenza e fattori di rischio
In seguito a un ictus, è frequente osservare la comparsa di sindromi depressive (Post-Stroke Depression, PSD), che possono
manifestarsi con quadri clinici eterogenei. Sono state identificate una forma maggiore di PSD, analoga al disturbo depressivo maggiore, e una forma minore di PSD, analoga al disturbo
distimico (Robinson et al, 1984; Starkstein et al, 1989a). Nella pratica clinica, le sindromi depressive che compaiono in
seguito a un ictus possono avere manifestazioni variabili, essendo non sempre riconducibili ai quadri paradigmatici delle
forme maggiori e minori.
Secondo una recente revisione sistematica della letteratura
(Hackett et al, 2005), la prevalenza complessiva di PSD in
pazienti con storia di pregresso ictus si aggira intorno al 33%,
qualora vengano prese in esame casistiche di pazienti esaminati sia a breve sia a più lunga distanza dall’esordio dell’ictus.
Secondo alcuni studi, la prevalenza di PSD avrebbe un picco
nei primi 6 mesi dall’esordio dell’ictus (Townend et al, 2007),
rimanendo comunque elevata fino a circa 3 anni dall’ictus.
Il decorso della PSD può essere assai variabile, in quanto la
sintomatologia depressiva può persistere da pochi mesi ad alcuni anni: nella forma minore di PSD, la sintomatologia depressiva perdura in media alcuni mesi, mentre nella forma
maggiore si protrae in media per circa 1 anno (Morris et al,
1990; Robinson et al, 1987). È stato inoltre osservato che il
decorso della PSD è in media più breve nei pazienti in cui la
PSD compare a breve distanza dall’esordio dell’ictus, mentre
risulta in media più lungo in pazienti in cui la PSD compare
più tardivamente rispetto all’ictus (Astrom et al, 1993).
Sono stati identificati numerosi possibili fattori di rischio
per la comparsa di PSD, quali il grado di disabilità fisica del
paziente, la presenza di deficit cognitivi, il sesso femminile,
una storia di pregressi episodi cerebrovascolari, una storia
personale o familiare di pregressi episodi depressivi (Hackett
et al, 2005; Paolucci et al, 2006).
Per quanto concerne il ruolo della disabilità fisica come
fattore di rischio per PSD, è stato rilevato che in pazienti con
disabilità fisica secondaria a patologie ortopediche è possibile
osservare sindromi depressive di minore gravità e con una minore frequenza, rispetto a pazienti affetti da ictus (Folstein
et al, 1977). Tale osservazione suggerisce che in molti pazienti affetti da PSD, i fattori psicologici possano avere un peso
relativamente scarso nella genesi della depressione.
Alcuni studi hanno rilevato in casistiche di pazienti con ictus affetti da afasia una più elevata prevalenza di PSD in pazienti affetti da afasie non fluenti, rispetto a pazienti affetti da
afasie fluenti, mentre altri studi suggeriscono che la presenza
di afasia in pazienti con ictus non costituisca un fattore di rischio per PSD (Robinson e Benson, 1981; Robinson et al,
1984; Starkstein e Robinson, 1988).
Sintomatologia e diagnosi
Nei pazienti affetti dalla forma maggiore di PSD (Lipsey et al,
1984; Robinson et al, 1983), in aggiunta all’ideazione depressiva sono stati descritti vari sintomi (idee di suicidio, riduzione dell’appetito e del peso, risvegli mattutini precoci, variazioni circadiane del tono dell’umore con massima flessione al
mattino), considerati comunemente indicatori di una sindrome depressiva endogena, ovvero non scatenata da eventi lut294 tuosi. I risultati di uno studio di confronto fra pazienti con
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depressione maggiore primaria e pazienti affetti dalla forma
maggiore di PSD (Lipsey et al, 1984) avevano d’altro canto
suggerito che il profilo sintomatologico possa essere simile
nei due gruppi.
Come già accennato, la forma minore di PSD, che secondo
alcuni autori sarebbe spesso associata a lesioni parieto-occipitali destre o sinistre (Starkstein et al, 1989a), presenta spesso
sintomi simili a quelli che caratterizzano il disturbo distimico.
Al fine di una più approfondita valutazione della sintomatologia depressiva in pazienti affetti da PSD (Gainotti et al,
1997; 1995), è stata validata la scala di valutazione Post-Stroke
Depression Rating Scale (PSDRS). La PSDRS (fig. 14.7) prende in esame i sintomi tipici della depressione endogena (imputabili a una disfunzione monoaminergica), i sintomi imputabili a una reazione del paziente alla disabilità fisica e al
disadattamento psicosociale indotti dall’ictus, i sintomi imputabili agli effetti diretti del danno cerebrale.
È stato osservato che nei pazienti con PSD associata a lesioni
dell’emisfero sinistro sarebbero più frequenti una maggiore compromissione cognitiva e una risposta meno favorevole al trattamento farmacologico (Downhill e Robinson, 1994; Robinson
et al, 1984); nei pazienti con PSD associata a lesioni dell’emisfero destro sarebbero invece più frequenti disturbi vegetativi e
una migliore risposta alla terapia con farmaci antidepressivi. Alcuni pazienti con PSD associata a lesioni dell’emisfero destro
possono presentare sindromi depressive con caratteristiche atipiche rispetto alla forma maggiore, quali una tendenza alla sonnolenza diurna (in assenza di risvegli mattutini precoci) e una tendenza all’aumento (anziché alla diminuzione) dell’appetito e del
peso corporeo. In tali pazienti, è frequente rilevare astenia, essendo spesso assente l’esperienza soggettiva di tristezza: i pazienti
negano di sentirsi tristi, anche se i familiari e i terapisti sono
convinti che essi siano depressi. Tale tendenza a minimizzare i
propri sintomi è in linea con la frequente tendenza di pazienti con
lesioni emisferiche destre a minimizzare o ignorare i propri sintomi.
Uno studio in cui sono stati esaminati mediante la PSDRS
(Gainotti et al, 1997; 1995) sia pazienti affetti da PSD (forma
maggiore o forma minore) sia pazienti affetti da depressione
maggiore (non associata a lesioni cerebrali) suggerisce che
nei pazienti affetti dalla forma maggiore di PSD una parte dei
sintomi depressivi non abbia caratteri “endogeni”, ma sia imputabile agli effetti della lesione cerebrale o alla reazione psicologica ai problemi fisici ed economico-sociali indotti dal
danno cerebrale. I risultati di tale studio indicano, inoltre, che
nella forma maggiore e nella forma minore di PSD vi possa
essere un profilo sintomatologico simile, suggerendo che fra
la forma maggiore e la forma minore vi siano differenze sintomatologiche quantitative, ma non qualitative.
Patogenesi
Nella patogenesi della PSD, possono intervenire molteplici
fattori, in quanto possono giocare un ruolo critico sia i fattori
psicologici e sociali, sia gli effetti delle lesioni cerebrali che
compaiono in seguito all’ictus. Occorre comunque sottolineare il fatto che il ruolo dei fattori psicologici e sociali è difficilmente distinguibile dagli effetti della lesione cerebrale.
Nell’ambito dei fattori psicologici e sociali che potrebbero
favorire la comparsa di PSD (Astrom et al, 1993), sembrano
giocare un ruolo critico fattori quali gli effetti psicologici della
disabilità fisica indotta dall’ictus, uno scarso supporto da parte
dei familiari del paziente, una riduzione dei contatti sociali.
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L’UMORE
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Sezione 1: UMORE DEPRESSO
Punteggio
Umore equilibrato. A volte più allegro, a volte più preoccupato, ma non modificato rispetto a prima della malattia.
0
Umore un po’ più triste e preoccupato di come era prima: (a) in quanto teme di non tornare come prima; (b) in generale,
anche senza relazione con la malattia.
1
Umore chiaramente più orientato alla tristezza e al pessimismo rispetto a prima della malattia: (a) in quanto teme
di non tornare come prima; (b) in generale, anche senza relazione con la malattia.
2
Umore chiaramente più orientato alla tristezza e al pessimismo, con qualche crisi di pianto di tanto in tanto,
ma parlando al paziente è possibile tirarlo su.
3
Umore molto triste e abbattuto, piange piuttosto spesso e per lunghi periodi; anche parlando al paziente si fa fatica
a farlo smettere.
4
Umore nero e cupo, piange continuamente e non c’è modo di confortarlo, oppure così depresso e cupo che non riesce
nemmeno più a piangere.
5
TOTALE
Sezione 2: SENTIMENTI DI COLPA
NOTA: cercare sempre di precisare se per colpa si intende (a) indegnità morale o (b) responsabilità
per comportamenti (fumo, abusi sessuali, abusi alimentari) ritenuti responsabili della malattia
Punteggio
Buon livello di autostima. Convinzione di avere avuto una vita sostanzialmente positiva, senza motivi per cui
rimproverarsi.
0
Livello di autostima accettabile, ma con qualche rimprovero in alcune aree limitate (per esempio, una delle tre seguenti
aree: famiglia, amici, lavoro).
1
Livello di autostima piuttosto basso, con qualche rimprovero (non particolarmente grave) in diverse aree.
2
Poca stima di se stesso e molti sensi di colpa; non pensa comunque che la malattia sia una giusta punizione.
3
Pochissima stima di se stesso e molti sensi di colpa. Pensa che la malattia sia una giusta punizione.
4
Anche senza porgli quesiti specifici, verbalizza spontaneamente gravi espressioni di autoaccusa, di indegnità, di colpa.
5
TOTALE
Sezione 3: SUICIDIO
NOTA: appurare sempre se le eventuali tendenze suicidarie sono (a) comparse solo dopo la malattia o (b)
sono in rapporto con le conseguenze della malattia.
Punteggio
Pensa che la vita valga sempre la pena di essere vissuta.
0
Pensa che la vita valga la pena di essere vissuta soltanto se le condizioni di salute, affettive ed economiche sono
accettabili.
1
Pensa che la vita in genere non valga la pena di essere vissuta, ma non ha mai pensato di togliersela.
2
Oltre a pensare che la vita sia un peso, ha avuto negli ultimi tempi idee generiche di autosoppressione.
3
Negli ultimi tempi ha avuto spesso idee ricorrenti di suicidio, pur senza elaborare piani specifici, né mettere in atto
tentativi concreti.
4
Ha elaborato piani dettagliati o messo in atto seri tentativi di suicidio negli ultimi tempi.
5
TOTALE
Sezione 4: DISTURBI VEGETATIVI
NOTA: sommare i punteggi relativi ai disturbi del sonno (0-3) e dell’appetito (0-2)
0
Disturbi del sonno: qualche difficoltà di addormentamento o frequenti risvegli notturni; efficacia dei farmaci.
1
Disturbi del sonno: si sveglia nelle prime ore del mattino ed è incapace di riaddormentarsi; scarsa efficacia
dei farmaci.
2
Fig. 14.7
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Punteggio
Disturbi del sonno: nessuno.
Post-Stroke Depression Rating Scale (range di punteggio: 0-47).
(Segue)
295
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14
PARTE II
PSICOPATOLOGIA FUNZIONALE E NEUROPSICHIATRIA
Disturbi del sonno: disturbi importanti di tutte le fasi del sonno: non lascia dormire gli altri durante la notte; farmaci
del tutto inefficaci.
3
Disturbi dell’appetito: nessuno.
0
Disturbi dell’appetito: chiara perdita di appetito, ma non di peso.
1
Disturbi dell’appetito: completa perdita di appetito, associata a perdita di peso.
2
TOTALE
Sezione 5: APATIA/ABULIA/DISINTERESSE
NOTA: sommare i punteggi relativi ai seguenti parametri
Punteggio
Interesse nei confronti degli altri pazienti e del proprio stato di salute: adeguato (si interessa, chiede informazioni,
cerca di rendersi utile).
0
Interesse nei confronti degli altri pazienti e del proprio stato di salute: piuttosto scarso, sia nei confronti degli altri
pazienti sia della propria condizione morbosa.
1
Interesse nei confronti degli altri pazienti e del proprio stato di salute: del tutto assente.
2
Interesse nei confronti dei familiari e degli amici: adeguato (attende con impazienza le loro visite, si informa
su persone e situazioni dell’ambito familiare, reagisce adeguatamente a eventi emozionalmente signifi cativi).
0
Interesse nei confronti dei familiari e degli amici: piuttosto scarso (chiaramente ridotto rispetto a prima
della condizione morbosa).
1
Interesse nei confronti dei familiari e degli amici: del tutto assente.
2
Interesse nei confronti delle situazioni sociali: adeguato e corrispondente ai livelli premorbosi per quanto riguarda
gli avvenimenti pubblici e gli eventi politici.
0
Interesse nei confronti delle situazioni sociali: chiaramente ridotto rispetto a prima della condizione morbosa.
1
TOTALE
Sezione 6: ANSIA
NOTA: sommare i punteggi relativi all’ansia psichica (0-2), all’ansia somatica (0-2) e all’agitazione psicomotoria (0-1)
Punteggio
Ansia psichica: abbastanza tranquillo; raramente teso, nervoso o apprensivo.
0
Ansia psichica: appare piuttosto teso, nervoso, irritabile; esprime talvolta timori e preoccupazioni.
1
Ansia psichica: appare spesso nervoso, apprensivo, irritabile; esprime con frequenza timori per la propria condizione;
ha spesso bisogno di essere rassicurato.
2
Ansia somatica: non presenta alcun segno somatico di ansia, né lamenta cefalea, tremori o tachicardia.
0
Ansia somatica: lamenta abbastanza spesso cefalea, tremori, palpitazioni o altri disturbi somatici gastro-intestinali
o urinari.
1
Ansia somatica: è spesso pallido, sudato; lamenta quotidianamente cefalea, dolori diffusi, senso di oppressione
precordiale o altri sintomi somatici.
2
Agitazione psicomotoria: assente.
0
Agitazione psicomotoria: oltre a presentare segni di ansia somatica o psichica, presenta anche una marcata
irrequietezza o una vera e propria agitazione psicomotoria.
1
TOTALE
Sezione 7: REAZIONE CATASTROFICA
NOTA: valutazione eseguita da parte di chi esegue la valutazione neuropsicologica, oppure in collaborazione
con chi esegue la valutazione neuropsicologica
296
Punteggio
Reazione ben controllata alle eventuali difficoltà incontrate nel corso dell’esame.
0
Reazione abbastanza controllata, ma con qualche segno di impazienza, irritazione o irrequietezza.
1
Più evidenti manifestazioni ansiose o aggressive; frequenti imprecazioni o espressioni di sconforto.
2
Fig. 14.7 — (Seguito)
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L’UMORE
Chiare manifestazioni d’ansia a livello somatico e/o vegetativo, ma senza crisi di pianto.
3
Chiari segni di ansia, con sporadiche crisi di pianto o rifiuto di continuare la prova.
4
Prova praticamente ineseguibile per la gravità della disorganizzazione comportamentale e delle crisi di pianto.
5
14
TOTALE
Sezione 8: DIFFICOLTÀ NEL CONTROLLO EMOZIONALE
Punteggio
Il paziente riesce a controllare normalmente le proprie reazioni emotive.
0
Il paziente negli ultimi tempi si emoziona un po’ più del solito.
1
Al paziente a volte viene da ridere o da piangere anche per stimoli lievi, oppure non riesce a interrompere la scarica
emotiva provocata da uno stimolo appropriato.
2
Il paziente reagisce spesso in modo emotivamente eccessivo, con crisi di pianto o di riso; rimane però capace
di controllarsi in presenza di estranei.
3
Anche in presenza di estranei, al paziente capita di scoppiare in crisi di riso o di pianto e gli riesce difficile interrompere
tali crisi.
4
Il paziente è completamente incapace di controllare le proprie reazioni emotive.
5
TOTALE
Sezione 9: ANEDONIA
NOTA: sommare i punteggi relativi ai due parametri A e B e di un terzo parametro a scelta fra i parametri C, D, E,
in base al sesso e agli interessi premorbosi del paziente
A. La vista di amici o parenti (o il ricevere buone notizie
che li riguardano)
B. Un pasto migliore del solito (per esempio, qualcosa
portato da casa)
C. Se la mia squadra ha vinto
D. La vista di una scena erotica in TV
E. La vista di un bel bambino
Punteggio
Mi dà piacere come prima della malattia
0
Mi dà piacere meno di prima della malattia
1
Non mi dà nessun piacere
2
Mi dà piacere come prima della malattia
0
Mi dà piacere meno di prima della malattia
1
Non mi dà nessun piacere
2
Mi fa piacere come prima
0
Non mi interessa più
1
Mi fa piacere come prima
0
Non mi fa nessun effetto
1
Mi rallegra come prima
0
Non mi dà nessun piacere
1
TOTALE
Sezione 10: VARIAZIONI DIURNE
Punteggio
Il momento in cui mi sento più depresso: è sempre al mattino presto quando mi sveglio e ho davanti a me tutta
la giornata inutile da riempire.
−2
Il momento in cui mi sento più depresso: varia da un giorno all’altro, ma di solito è peggio al mattino presto quando
mi sveglio.
−1
Il momento in cui mi sento più depresso: mi sento sempre più o meno depresso allo stesso modo.
0
Il momento in cui mi sento più depresso: non c’è una regola, ma di solito mi sento depresso quando succede
qualcosa che mi fa sentire handicappato.
1
Il momento in cui mi sento più depresso: sempre quando la situazione mi fa sentire menomato e incapace di fare
cose elementari, come…. (inserire un esempio congruo con il deficit del paziente)
2
Fig. 14.7 — (Seguito)
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297
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14
PARTE II
PSICOPATOLOGIA FUNZIONALE E NEUROPSICHIATRIA
Per quanto concerne gli effetti imputabili alle lesioni cerebrali che compaiono in seguito all’ictus, è stato ipotizzato che
nella patogenesi della PSD (in particolare nelle forme maggiori) possano giocare un ruolo critico le lesioni cerebrali in grado
di danneggiare i sistemi di proiezione serotoninergici che originano nei nuclei del rafe, i sistemi di proiezione noradrenergici,
che originano nel locus coeruleus, i sistemi di proiezione dopaminergici, che originano nell’area tegmentale ventrale del mesencefalo. In seguito a una disfunzione di tali sistemi di proiezione, che inviano importanti afferenze alla corteccia cerebrale,
è possibile osservare una deplezione di tali neurotrasmettitori,
implicati nella regolazione del tono dell’umore, in specifiche
aree limbiche della corteccia frontale e temporale o nei gangli
della base (Robinson et al, 1984). Nei pazienti con lesioni localizzate nei gangli della base in cui è presente PSD, studi condotti mediante PET hanno evidenziato un quadro di ipometabolismo nella corteccia orbito-frontale, in quella temporale anteriore
e nel giro cingolato (Mayberg, 1994). Questi studi di neuroimaging suggeriscono che nella patogenesi di tali disturbi dell’umore siano coinvolti meccanismi di diaschisi (da interruzione delle
vie ascendenti monoaminergiche dirette alla corteccia, in corrispondenza della zona di transito situata anteriormente alla testa
del nucleo caudato), con conseguente riduzione dell’attività metabolica in aree corticali frontali e temporali distanti dalla sede di
lesione (Baron, 1989).
Nella figura 14.8, è riportata un’immagine RM relativa a un paziente con
una lesione ischemica acuta del nucleo caudato, nel quale, immediatamente dopo l’ictus, comparve una grave sindrome depressiva. In tale paziente, un esame SPECT cerebrale (eseguito a distanza di 1 mese dall’ictus) mostrò un quadro di ipometabolismo della corteccia frontale sinistra,
interpretabile come fenomeno di diaschisi remota.
(Osservazione di Blundo, 2002.)
È stato inoltre ipotizzato che nella genesi della PSD un ruolo
critico possa essere giocato, nell’ambito di una risposta infiammatoria indotta da eventi ischemici acuti, dalle citochine
298
Fig. 14.8 RM cerebrale del paziente con lesione
ischemica del nucleo caudato sinistro.
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proinfiammatorie (IL-1, IL-6, IL-8, IL-18, TNF-alfa), che potrebbero a loro volta avere effetti sulla neurotrasmissione in
varie strutture limbiche, fra le quali alcuni nuclei ipotalamici
(Spalletta et al, 2006).
Numerosi studi hanno preso in esame altri fattori che potrebbero giocare un ruolo critico nella genesi della PSD, ovvero l’emisfero cerebrale sede di lesione, la sede intraemisferica
di lesione e l’intervallo di tempo trascorso dall’ictus.
Alcuni studi hanno suggerito che la prevalenza di PSD sia
significativamente più elevata in pazienti con lesioni dell’emisfero cerebrale sinistro (anche quando non è presente un quadro di afasia) rispetto a pazienti con lesioni dell’emisfero destro (Morris et al, 1996; Robinson et al, 1984; Starkstein et al,
1987a), essendo la PSD più frequentemente osservabile in
pazienti con lesioni in strutture situate nelle porzioni anteriori dell’emisfero sinistro, ovvero in aree prefrontali dorsolaterali e nei gangli della base (putamen o caudato). Il dato di una
più elevata prevalenza di PSD in pazienti con lesioni emisferiche sinistre è stato tuttavia messo in discussione da altri studi
(Gainotti et al, 1995; House et al, 1990).
Numerosi studi hanno preso in esame il possibile ruolo
critico della sede emisferica di lesione nella patogenesi della
PSD. È stato ipotizzato che vi possa essere una correlazione
fra la gravità della PSD e la distanza della lesione dal polo
frontale dell’emisfero sinistro, essendo stata osservata una
tendenza a sviluppare quadri di PSD di maggiore gravità in
pazienti con lesioni nelle porzioni più anteriori dell’emisfero
sinistro, ovvero in prossimità del polo frontale sinistro (Morris et al, 1990; Provinciali e Coccia, 2002; Robinson e Szetela, 1981). Tale ipotesi è stata tuttavia messa in discussione da
altri studi, che hanno invece ipotizzato che quadri di PSD di
maggiore gravità siano presenti in pazienti con lesioni di aree
parietali e occipitali dell’emisfero destro (House et al, 1990;
Synior et al, 1986).
Nel tentativo di spiegare la più elevata prevalenza di PSD
nei pazienti con lesioni nelle porzioni anteriori dell’emisfero
sinistro rilevata da alcuni studi, è stato ipotizzato che le lesioni
ischemiche nell’emisfero destro (Robinson et al, 1984) possano indurre una maggiore deplezione di sistemi monoaminergici (rispetto alle lesioni ischemiche nell’emisfero sinistro), essendo tuttavia possibile nei pazienti con lesioni cerebrali a
destra una più efficace up-regulation di recettori serotoninergici, che determinerebbe un migliore compenso. Nei pazienti
con lesioni cerebrali a sinistra, vi sarebbe invece una minore
deplezione di sistemi monoaminergici, che sarebbe tuttavia associata a una meno efficace up-regulation di recettori serotoninergici, con conseguente maggiore probabilità di comparsa di
quadri di PSD. Tale ipotesi è in accordo con uno studio PET,
che documentava una disfunzione dell’emisfero cerebrale sinistro in pazienti affetti da sindromi depressive non associate a
lesioni cerebrali (Travella e Robinson, 1993).
Per quanto concerne, infine, il fattore intervallo di tempo
fra l’insorgenza dell’ictus e la comparsa di PSD, una correlazione tra la gravità della PSD e la vicinanza delle lesioni al
polo frontale sinistro o destro è stata osservata solo nei primi
3-6 mesi successivi all’ictus, mentre a più lungo termine i pazienti con lesioni emisferiche destre in prossimità del polo
occipitale presenterebbero una sintomatologia depressiva più
grave (Shimoda e Robinson, 1999).
L’ipotesi che suggerisce che pazienti con lesioni nelle porzioni più anteriori dell’emisfero sinistro possano sviluppare
quadri di PSD di maggiore gravità (Robinson e Szetela, 1981)
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L’UMORE
è stata messa in discussione da vari studi (Gainotti, 1992;
1989; Gainotti et al, 1995; House, 1996; House et al, 1990). È
stato inoltre sottolineato che, nell’ambito dei differenti pattern
di risposta emozionale osservabili in pazienti con lesioni dell’emisfero destro rispetto a pazienti con lesioni dell’emisfero
sinistro (Gainotti, 1972), in pazienti con lesioni emisferiche
sinistre è possibile osservare reazioni catastrofiche con comportamenti di iperemozionalismo, che possono essere interpretate talora erroneamente come sindromi depressive (Gainotti, 1989; Gainotti et al, 1995; House et al, 1990; 1989).
Alcuni autori ipotizzano che non vi siano significative correlazioni fra sede ed estensione della lesione cerebrale e probabilità di comparsa di PSD (Carson et al, 2000), essendo
stati riportati quadri di PSD in pazienti con lesioni vascolari in
molteplici strutture dell’encefalo (Kim e Choi-Kwon, 2000).
Rimane quindi da chiarire il possibile ruolo critico nella
genesi della PSD di fattori quali l’emisfero cerebrale sede di
lesione, la sede intraemisferica di lesione e l’intervallo di tempo trascorso dall’ictus. È stato sottolineato il fatto che gli studi sulla PSD presentino spesso limitazioni metodologiche,
essendo nella maggior parte dei casi studi retrospettivi su
campioni limitati di pazienti, nei quali non è stata valutata
quantitativamente l’estensione della lesione e non sono state
utilizzate scale appropriate di valutazione della depressione
(Gainotti et al, 1995; House et al, 1990).
In conclusione, ulteriori studi sono necessari per chiarire il
ruolo critico dei molteplici fattori potenzialmente coinvolti
nella patogenesi della PSD (in particolare, nella forma maggiore), inclusi sia i fattori psicologici e sociali sia gli effetti
imputabili alle lesioni cerebrali che compaiono in seguito
all’ictus. Ciascuno di tali fattori può avere un peso differente
da paziente a paziente, in relazione anche a variabili quali
l’intervallo di tempo fra l’esordio dell’ictus e la comparsa della PSD. È stato ipotizzato che nella genesi delle sindromi depressive che compaiono a breve distanza di tempo dall’esordio dell’ictus possano giocare un ruolo più critico gli effetti
imputabili alle lesioni cerebrali, mentre nella genesi delle sindromi depressive che compaiono a più lunga distanza di tempo dall’esordio dell’ictus (in fasi in cui il paziente acquista
maggiore consapevolezza della propria disabilità), siano i fattori psicologici e sociali a poter avere un ruolo più critico
(Herrmann et al, 1995).
DEPRESSIONE E MALATTIE
DEI GANGLI DELLA BASE
I molteplici circuiti neurali cortico-striato-talamo-corticali che
collegano in via afferente ed efferente i gangli della base alla
corteccia cerebrale (Alexander et al, 1986; Rodriguez-Oroz
et al, 2009), oltre a essere implicati in funzioni di controllo
motorio, svolgono un ruolo cruciale in numerose funzioni cognitive e comportamentali, come suggerito da evidenze sia
cliniche sia sperimentali (Daniele e Albanese, 1996; Dubois
et al, 1995).
Nell’ambito dei sintomi non motori della malattia di Parkinson (Parkinson’s disease, PD), è possibile osservare la
comparsa di disturbi cognitivi e comportamentali, che sono in
gran parte riconducibili alle molteplici manifestazioni cliniche della PD, in parte secondari all’assunzione di terapie farmacologiche o a trattamenti neurochirurgici, quali la stimolazione cerebrale profonda (Deep Brain Stimulation, DBS). Nei
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14
pazienti affetti da PD, la presenza di disturbi cognitivi e comportamentali può assumere particolare rilievo, influendo negativamente sulle attività della vita quotidiana e sulla qualità
della vita dei pazienti e dei loro familiari.
Nei pazienti affetti da PD, possono essere osservati deficit
delle funzioni cognitive (deficit di funzioni esecutive, di memoria episodica, di memoria procedurale, deficit visuospaziali), che possono essere di grado lieve (configurando un quadro
di mild cognitive impairment) o di gravità tale da interferire in
modo significativo con le attività lavorative e sociali, configurando un quadro clinico di demenza (vedi Capitolo 16).
Nei pazienti affetti da PD è inoltre possibile osservare molteplici disturbi comportamentali, quali sindromi depressive,
apatia, allucinazioni e deliri, stati confusionali, sindromi ansiose (incluse sindromi ossessivo-compulsive), disturbi della
sfera sessuale (ipersessualità, riduzione della libido, impotenza), disturbi del sonno (insonnia, sonnolenza diurna, sogni
vividi, vocalizzazioni notturne). Inoltre, in alcuni di questi
pazienti può essere osservata la presenza di un quadro di disregolazione omeostatica edonistica, caratterizzato dalla tendenza all’abuso di farmaci dopaminergici e alla dipendenza
da tali farmaci (Giovannoni et al, 2000; vedi Capitolo 12).
In pazienti con PD trattati mediante DBS del nucleo subtalamico, è possibile osservare la comparsa di vari disturbi comportamentali transitori o persistenti, inclusi apatia e disturbi
dell’umore quali episodi maniacali (Romito et al, 2002) e sindromi depressive (Bejjani et al, 1999), talora associate a rischio di suicidio.
MALATTIA DI PARKINSON
Sindromi depressive
Dal punto di vista epidemiologico è stato stimato che la prevalenza di sindromi depressive nella PD possa arrivare al 45%
(Burn, 2002), essendo stato riportato che il 40-50% dei pazienti sviluppa depressione durante il periodo di malattia (Rejinders et al, 2008). Tali discrepanze nei tassi di prevalenza
delle sindromi depressive nella PD sono in gran parte dovute
alla variabilità degli strumenti utilizzati per la diagnosi delle
sindromi depressive nei diversi studi. Nei pazienti affetti da
PD, la prevalenza di sindromi depressive è più elevata rispetto
a soggetti di controllo di età comparabile (Santamaria et al,
1986). Nella PD è stato rilevato un tasso di incidenza di sindromi depressive pari a 1,86% per anno di osservazione (Dooneief et al, 1992).
Alcuni studi epidemiologici si sono proposti di verificare
l’esistenza di possibili correlazioni fra depressione e vari potenziali fattori di rischio (età anagrafica del paziente al momento dell’osservazione, sesso, età di esordio della PD, durata della malattia, stadio della malattia, lato di esordio dei
sintomi motori, presenza di specifici sintomi motori, presenza
di deficit cognitivi, storia clinica familiare o personale di depressione).
La prevalenza di sindromi depressive nella PD non sembra
essere significativamente correlata all’età anagrafica del paziente al momento dell’osservazione (Brown e McCarthy,
1990). Alcuni studi hanno rilevato una più elevata prevalenza
di depressione in pazienti parkinsoniani di sesso femminile
(Brown e McCarthy, 1990; Brown et al, 1988), dato non confermato da altri studi (Huber et al, 1990).
Appare inoltre controversa l’esistenza di una significativa
correlazione fra prevalenza di sindromi depressive ed età di 299
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PARTE II
PSICOPATOLOGIA FUNZIONALE E NEUROPSICHIATRIA
esordio della PD: la maggior parte degli studi non documenta
una correlazione fra depressione ed età di esordio della PD
(Dooneief et al, 1992); alcuni studi hanno invece rilevato una
correlazione significativa tra presenza di depressione ed esordio precoce della PD (Santamaria et al, 1986; Starkstein et al,
1989b), essendo stato osservato che pazienti con PD a esordio
precoce (Starkstein et al, 1989b) presentavano sintomi depressivi di maggiore gravità, nonostante avessero un minore grado
di disabilità e più lievi sintomi motori (acinesia e tremore).
La maggior parte degli studi non documenta una correlazione fra prevalenza di sindromi depressive e durata della malattia
(Gotham et al, 1986); in uno studio, è stata tuttavia rilevata una
durata di malattia significativamente maggiore in pazienti con
PD associata a depressione maggiore, rispetto sia a pazienti
con PD che non presentavano depressione, sia a pazienti con
PD e depressione minore (Starkstein et al, 1992).
Risulta inoltre controversa l’esistenza di una possibile correlazione fra prevalenza di sindromi depressive e stadio di
malattia. È stato riportato che la prevalenza di depressione
(Starkstein et al, 1990a) risulta elevata nello stadio I della
Scala di Hoehn & Yahr, diminuisce nello stadio II, aumenta
nuovamente nello stadio III e, ancor più, nello stadio IV (in
cui la prevalenza di depressione raggiunge i valori massimi),
diminuendo poi nello stadio V. Altri studi non hanno invece
rilevato alcuna significativa correlazione fra tali sindromi depressive e lo stadio della malattia (Huber et al, 1990).
Nei pazienti affetti da PD la prevalenza di depressione sembra significativamente correlata con il lato di esordio dei sintomi motori, essendo più elevata nei pazienti in cui i sintomi
motori sono comparsi inizialmente nell’emisoma destro, rispetto ai pazienti in cui i sintomi motori sono esorditi nell’emisoma sinistro (Starkstein et al, 1990a).
In uno studio condotto su un campione di 88 pazienti con
PD (Cubo et al, 2000), la prevalenza di depressione risultava
più elevata sia nei pazienti affetti da deficit cognitivi (che presentano bassi punteggi alla Mini-Mental State Examination),
sia nei pazienti in cui prevalevano specifici sintomi motori
(bradicinesia assiale, associata a instabilità posturale e a disturbi della deambulazione).
Alcuni studi indicano che una pregressa storia clinica personale di depressione possa costituire un fattore di rischio per
la comparsa di una sindrome depressiva dopo l’esordio dei
sintomi di PD (Mayeux et al, 1981; Starkstein et al, 1990a). In
pazienti con PD, una storia familiare di depressione non sembra invece essere associata a una più elevata prevalenza di depressione (Mayeux et al, 1981; Starkstein et al, 1990a).
Nella patogenesi delle sindromi depressive associate alla
PD possono giocare un ruolo critico molteplici fattori, ovvero
i fattori neurobiologici, psicologici e sociali.
L’influenza dei fattori psicologici e sociali è suggerita da
studi che hanno documentato nei pazienti affetti da PD l’esistenza di una correlazione fra la gravità dei sintomi motori e
la gravità dei sintomi depressivi (Gotham et al, 1986), supportando l’ipotesi che, nella genesi delle sindromi depressive associate alla PD, possano giocare un ruolo critico i meccanismi
innescati dalla reazione psicologica del paziente a una malattia cronica causa di disabilità motoria, almeno in alcuni casi
(Brown e Jahanshahi, 1995).
D’altro canto, il fatto che in alcuni pazienti con PD la sintomatologia depressiva possa precedere anche di alcuni anni
la comparsa dei sintomi motori (Aarsland et al, 2009) è in
300 accordo con l’ipotesi che i fattori neurobiologici possano gio-
C0070.indd 300
care un ruolo critico nella genesi delle sindromi depressive
associate alla PD, in quanto i sintomi depressivi possono essere una manifestazione clinica precoce della PD. L’importanza
di fattori neurobiologici nella genesi delle sindromi depressive associate alla PD è stata suggerita sia da studi che hanno
messo in evidenza alterazioni dei sistemi neurotrasmettitoriali monoaminergici in pazienti affetti da PD, sia da studi di
neuroimaging funzionale.
Alterazioni di sistemi neurotrasmettitoriali dopaminergici,
serotoninergici e noradrenergici sono presenti in fasi precoci
della PD (Braak et al, 2004) e possono essere implicate nella
genesi delle sindromi depressive associate a questa malattia.
Studi neuropatologici hanno rilevato in pazienti parkinsoniani con disturbi dell’umore associati a disturbi cognitivi una
marcata degenerazione di neuroni dopaminergici dell’area
tegmentale ventrale (Torack e Morris, 1988), che proiettano
ad aree corticali orbito-frontali. È pertanto ipotizzabile che
nella genesi delle sindromi depressive associate alla PD un
ruolo critico possa essere svolto dalla degenerazione di tali
neuroni dopaminergici dell’area tegmentale ventrale, con
conseguente riduzione dell’attività metabolica in aree corticali orbito-frontali.
Alcuni studi suggeriscono invece che nella patogenesi della
depressione associata alla PD possano essere implicate alterazioni dei sistemi serotoninergici a partenza dai nuclei del rafe
(Paulus e Jellinger, 1991). In pazienti con PD e depressione,
sono stati rilevati ridotti livelli liquorali di acido 5-idrossi-indolacetico, metabolita della serotonina, rispetto a pazienti con
PD non associata a depressione (Mayeux et al, 1984). In pazienti con PD e depressione, un miglioramento dei sintomi
depressivi può essere indotto sia dalla somministrazione di
farmaci SSRI (McCance-Katz et al, 1992), sia dalla somministrazione di L-triptofano, precursore della serotonina che può
indurre un aumento dei livelli liquorali di acido 5-idrossi-indolacetico.
Le alterazioni dei sistemi noradrenergici a partenza dal locus coeruleus potrebbero giocare un ruolo critico nella genesi
delle sindromi depressive associate alla PD. Poiché la prevalenza di depressione risulta elevata in pazienti in cui prevalgono sintomi motori scarsamente responsivi ai farmaci dopaminergici (instabilità posturale e disturbi della deambulazione), è
stato ipotizzato che in alcuni pazienti con PD le alterazioni dei
sistemi noradrenergici possano giocare un ruolo critico nella
genesi sia di tali sintomi motori, sia delle sindromi depressive
(Cubo et al, 2000). È stato inoltre osservato che in pazienti con
PD e depressione i farmaci antidepressivi (nortriptilina) con
prevalenti effetti nordadrenergici possono risultare più efficaci
degli antidepressivi serotoninergici (Menza et al, 2009).
In uno studio PET con il tracciante 18F-desossiglucosio, sono
stati confrontati due gruppi di pazienti affetti da PD non dementi, ovvero pazienti con PD associata a depressione e pazienti con
PD non depressi (Mayberg et al, 1990). Nel gruppo di pazienti
con PD affetti da depressione, è stata rilevata una riduzione bilaterale dell’attività metabolica regionale nel nucleo caudato,
nella corteccia orbitale e frontale inferiore e nelle regioni temporali anteriori, essendo stata osservata una correlazione fra
grado di severità della depressione e severità dell’ipometabolismo nella corteccia orbitale e frontale inferiore (Mayberg et al,
1990). Tale studio suggeriva che nella genesi delle sindromi depressive associate alla PD possa giocare un ruolo critico una
disfunzione di circuiti fronto-striatali, che coinvolgono il nucleo
caudato e la corteccia orbitale e frontale inferiore.
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L’UMORE
È stato ipotizzato che, in pazienti con PD affetti da depressione, la degenerazione di neuroni dopaminergici dell’area tegmentale ventrale (da cui originano proiezioni mesocorticali e
mesolimbiche dirette alla corteccia prefrontale e orbito-frontale)
potrebbe dare luogo a una riduzione dell’attività metabolica nella corteccia orbito-frontale (Mayberg e Solomon, 1995). Poiché
dalla corteccia orbito-frontale originano proiezioni dirette a neuroni serotoninergici dei nuclei del rafe (che proiettano diffusamente alla corteccia cerebrale), una ridotta attività metabolica
nella corteccia orbito-frontale potrebbe dare luogo a una degenerazione secondaria dei nuclei del rafe con conseguente riduzione delle afferenze serotoninergiche che proiettano diffusamente alla corteccia cerebrale (Mayberg e Solomon, 1995).
Nella PD è possibile osservare sindromi depressive maggiori (disturbo depressivo maggiore) e sindromi depressive
minori (disturbo distimico).
Secondo i criteri diagnostici del DSM-IV-TR, la diagnosi di
Disturbo Distimico può essere formulata nei pazienti in cui
sia stata rilevata la frequente presenza, per almeno due anni,
di umore depresso e di almeno due dei seguenti sintomi:
1. riduzione o aumento dell’appetito;
2. insonnia o ipersonnia;
3. astenia;
4. ridotta autostima;
5. ridotta capacità di concentrazione o difficoltà nel prendere decisioni;
6. sensazione di disperazione.
La diagnosi di Disturbo Depressivo Maggiore, secondo i criteri diagnostici del DSM-IV-TR, può essere formulata dove siano
presenti, per almeno due settimane, cinque o più dei seguenti
sintomi, di cui almeno uno dei primi due sintomi elencati:
1. umore depresso;
2. marcata riduzione dell’interesse o del piacere;
3. significative variazioni (aumento o diminuzione) del peso
corporeo o dell’appetito;
4. insonnia o ipersonnia;
5. rallentamento o agitazione psicomotoria;
6. astenia;
7. sensazione di non valere o inappropriato senso di colpa;
8. indecisione o ridotta capacità di pensiero o concentrazione;
9. ricorrenti pensieri di morte o ricorrenti pensieri suicidi.
Nei pazienti affetti da PD e depressione, sono poco frequenti
alcuni sintomi, quali la tendenza ad autobiasimarsi o ad avere
un inappropriato senso di colpa (Brown et al, 1988; Starkstein
et al, 2008) o la tendenza a commettere tentativi di suicidio,
benché ne abbiano ricorrenti pensieri (Cummings, 1992). Tali
osservazioni sono in accordo con l’ipotesi che le sindromi depressive associate alla PD possano avere caratteristiche cliniche peculiari (Cummings, 1992).
Uno studio condotto su un campione di 105 pazienti affetti da PD, con l’obiettivo di indagare la prevalenza di sindromi
depressive sulla base dei criteri diagnostici del DSM-III
(1980), rilevava che il 21% dei pazienti presentava un disturbo depressivo maggiore, mentre il 20% presentava un disturbo distimico (Starkstein et al, 1989b). Tale osservazione è in
accordo con i risultati di una meta-analisi (Cummings, 1992),
in cui si rilevava che, nell’ambito di pazienti con PD e depressione, il 54% dei casi presentava una sindrome depressiva maggiore, mentre il 45% presentava una sindrome depressiva minore.
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In uno studio prospettico con follow-up di 30 mesi (Mayeux
et al, 1988), è stato esaminato un campione di 49 soggetti con
PD, costituito da 21 pazienti che risultavano all’osservazione
iniziale affetti da depressione e da 28 pazienti che risultavano
non depressi all’osservazione iniziale: a distanza di 30 mesi
dall’osservazione iniziale, nessun nuovo caso di depressione
veniva osservato nel sottogruppo di pazienti che non erano depressi al momento dell’osservazione iniziale, mentre fra i 21
pazienti che risultavano depressi all’osservazione iniziale, solo
in 4 casi si osservava una remissione dei sintomi depressivi.
Sulla base di tale osservazione, è stato ipotizzato che nei pazienti con PD associata a sindromi depressive i sintomi depressivi tendano a persistere a lungo nel tempo (Cummings, 1992).
Alcuni studi hanno rilevato nei pazienti affetti da PD che
presentano depressione maggiore una maggiore compromissione delle funzioni cognitive (rispetto ai pazienti parkinsoniani che non presentano depressione), essendo rilevabile nei
pazienti parkinsoniani con depressione una maggiore compromissione di funzioni cognitive mediate dai lobi frontali
(Starkstein et al, 1989b).
Apatia
Nei pazienti affetti da PD, è frequente osservare la comparsa di
apatia, ovvero di una riduzione dell’interesse o della motivazione
nello svolgimento di attività quotidiane finalizzate al raggiungimento di un certo scopo, con conseguente tendenza a una riduzione di varie attività. Nella PD, è stata rilevata da studi diversi
una prevalenza di apatia variabile fra il 17 e il 70% (Leentjens
et al, 2008; Pedersen et al, 2009).
In alcuni pazienti con PD, il sintomo apatia è presente nel
contesto di una sindrome depressiva, mentre in altri pazienti
può essere un sintomo isolato (Pedersen et al, 2009), ovvero
non associato a sintomi di depressione. Nei pazienti con PD,
può risultare non facile la diagnosi differenziale fra una sindrome depressiva e un quadro caratterizzato dalla presenza di
apatia, in assenza di altri sintomi di depressione (Marsh,
2000). I familiari di pazienti affetti da PD che manifestano
apatia tendono spesso a percepire l’apatia come manifestazione di depressione, anche qualora siano assenti altri sintomi di
depressione (Marsh, 2000). Alla luce di ciò, nei pazienti affetti da PD è necessaria un’attenta valutazione clinica dei sintomi presentati da ciascun soggetto, al fine di formulare una
corretta diagnosi di sindrome depressiva. In uno studio condotto su un campione di pazienti con PD, nel 12% dei casi era
presente apatia in assenza di altri sintomi depressivi, mentre
nel 30% dei pazienti l’apatia era una delle manifestazioni di
una sindrome depressiva (Starkstein et al, 1992).
Benché i meccanismi patogenetici alla base dei quadri di
apatia osservabili nei pazienti affetti da PD siano tuttora poco
noti, è probabile che nella genesi dell’apatia in questi pazienti
possa essere implicata una disfunzione dei circuiti che connettono i gangli della base con specifiche aree corticali. In particolare, nella patogenesi dei quadri di apatia associati alla PD
un ruolo critico potrebbe essere svolto da una disfunzione del
circuito “di autoattivazione” dei gangli della base che coinvolge lo striato ventrale, la corteccia orbito-frontale mediale e la
porzione anteriore del giro cingolato (vedi Capitolo 10).
In pazienti affetti da PD in cui era comparso un quadro di
apatia in seguito a DBS del nucleo subtalamico, è stato osservato
un miglioramento dell’apatia dopo un trattamento con farmaci
301
dopaminergici (Czernecki et al, 2008).
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PARTE II
PSICOPATOLOGIA FUNZIONALE E NEUROPSICHIATRIA
PARKINSONISMI ATIPICI
E ALTRI DISTURBI DEL MOVIMENTO
Atrofia multisistemica
L’atrofia multisistemica è una sindrome su base neurodegenerativa che si manifesta clinicamente come sindrome parkinsoniana atipica, caratterizzata da un punto di vista sintomatologico dalla comparsa di un parkinsonismo scarsamente
responsivo alla L-dopa, associato a segni di disfunzione autonomica (sindrome di Shy-Drager) o segni di disfunzione cerebellare (atrofia olivo-ponto-cerebellare) o di disfunzione
piramidale.
È stato osservato che in pazienti affetti da atrofia multisistemica sono frequenti sindromi depressive e sindromi ansiose, essendo la prevalenza di tali sindromi più elevata rispetto
a quanto osservato in soggetti di controllo di età comparabile
(Balas et al, 2010; Schrag et al, 2010; Starkstein et al, 1990b;
1990c).
Paralisi sopranucleare progressiva
La paralisi sopranucleare progressiva (PSP), altrimenti denominata malattia di Steele- Richardson-Olszewski (Steele et al, 1964),
è una sindrome su base neurodegenerativa che si manifesta
clinicamente come sindrome parkinsoniana atipica (acinesia e
rigidità, prevalentemente al collo), associata a instabilità posturale con cadute a terra, a oftalmoplegia sopranucleare (paralisi dei movimenti oculari prevalentemente verticali), a paralisi pseudobulbare (disartria e disfagia). Nella PSP è, inoltre,
frequente un quadro di deterioramento cognitivo, caratterizzato da deficit prevalentemente a carico di funzioni esecutive
mediate dai lobi frontali, con evoluzione verso quadri di demenza con le caratteristiche di una demenza sottocorticale.
Studi di neuroimaging funzionale con PET hanno evidenziato
nei pazienti con PSP una ridotta attività metabolica in aree
frontali bilateralmente (Bhatt et al, 1991).
In uno studio condotto in pazienti affetti da PSP (Litvan
et al, 1996), sono stati rilevati numerosi sintomi comportamentali, quali apatia (91% dei casi), disinibizione (36% dei
casi), disforia (18% dei casi) e ansia (18% dei casi), mentre
erano solitamente meno frequenti sintomi quali irritabilità o
episodi di agitazione. I risultati di un recente studio confermano l’elevata prevalenza di sindromi depressive e sindromi ansiose in pazienti affetti da PSP (Schrag et al, 2010).
Corea di Huntington
La corea, o malattia, di Huntington (Huntington’s Disease, HD)
è una patologia neurodegenerativa a trasmissione autosomica
dominante con penetranza completa, che si manifesta clinicamente con la comparsa di movimenti involontari (movimenti coreici o atetosici, distonia), associati a disturbi psichiatrici e a un
quadro di deterioramento cognitivo (McDowell et al, 1985). L’età
di esordio varia tra i 15 e i 65 anni, con una media di 35. Il quadro
di deterioramento cognitivo presenta un decorso ingravescente,
essendo associato a una progressiva riduzione dell’autonomia del
paziente nelle attività quotidiane (Mayeux et al, 1986).
Per quanto concerne i disturbi psichiatrici (Caine e Shoulson, 1983; Van Duijn et al, 2007), in pazienti affetti da HD è
possibile osservare quadri caratterizzati da disturbi dell’umore
(depressione maggiore, disturbo distimico, disturbo bipolare),
psicosi schizofreniformi, disturbi di personalità, sindromi an302 siose (fra le quali anche il disturbo ossessivo-compulsivo).
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Nella HD è stata riportata una prevalenza di sindromi depressive pari al 43%, con quadri di depressione maggiore nel
29% dei casi e quadri di depressione minore nel 14% dei casi
(Leroi et al, 2002).
È stato osservato che in una casistica di pazienti affetti da
HD la comparsa di disturbi affettivi precedeva frequentemente (in 23 casi su 34) sia la comparsa di movimenti coreici, sia
la comparsa di deterioramento cognitivo (Folstein et al, 1983).
I casi di suicidio sono più frequenti tra i pazienti con HD e
disturbi dell’umore, rispetto a quelli che non presentano disturbi dell’umore. Più della metà dei suicidi si verifica in pazienti affetti da HD che non hanno ancora ricevuto una diagnosi (Schoenfeld et al, 1984).
In uno studio PET, in pazienti con HD associata a depressione, è stata rilevata una riduzione dell’attività metabolica nel
talamo e in aree corticali orbito-frontali e prefrontali inferiori,
rispetto a pazienti con HD non associata a depressione (Mayberg et al, 1992). Tale osservazione suggerisce che nella genesi dei quadri di depressione associati alla HD possa giocare un
ruolo critico una disfunzione di circuiti fronto-striato-talamocorticali e limbico-baso-temporali, implicati anche nella patogenesi della PSD e delle sindromi depressive associate alla PD
(Mayberg, 1994).
In pazienti affetti da HD, è possibile osservare la comparsa
di disturbo bipolare e di episodi maniacali tipici (Folstein et al,
1986) o, più frequentemente, di episodi ipomaniacali. Nei
pazienti con HD, gli episodi maniacali spesso durano alcune
settimane, per poi regredire e lasciare il campo a un successivo episodio depressivo. Episodi di ipomania sono presenti nel
10% dei pazienti con HD e sono di solito di durata abbastanza
breve, con tendenza alla risoluzione spontanea.
Nella HD (Van Duijn et al, 2007), è stata riportata un’elevata prevalenza di irritabilità (in percentuale variabile fra il
38 e il 73%) e un’elevata prevalenza di apatia (in percentuale
variabile fra il 34 e il 76%). L’irritabilità (riduzione dell’autocontrollo con outbursts verbali o fisici) può condizionare significativamente le interazioni sociali del paziente con HD e
può essere associata ad altri tratti psicopatologici preesistenti
o essere un sintomo associato a disturbi dell’umore. In pazienti affetti da HD, è possibile osservare quadri di apatia “situazionale”, caratterizzati da uno stato di inattività e mancanza di interazione spontanea con l’ambiente, che può tuttavia
migliorare se altre persone interagiscono con il paziente.
Con il progredire della HD, i disturbi psichiatrici e il quadro di deterioramento cognitivo tendono a sovrapporsi.
Morbo di Wilson
Conosciuto anche come degenerazione epato-lenticolare, è un
disturbo del metabolismo del rame a trasmissione autosomica
recessiva (Scheinberg e Sternlieb, 1994). La prevalenza è di 30
casi per milione.
Il gene responsabile per la malattia è stato localizzato sul
cromosoma 13 ed è coinvolto nell’alterata escrezione del rame
da parte del fegato. L’eccesso di rame si accumula prima nel
fegato, quindi nell’encefalo e in altri organi. L’esordio clinico
è di solito nella seconda o terza decade di vita.
Le manifestazioni iniziali possono essere neurologiche,
psichiatriche, epatiche, oculari, renali o articolari. Il danno
neurologico iniziale si manifesta con tremore, rallentamento
nelle prestazioni motorie, disartria, disfagia, movimenti coreici o distonici.
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L’UMORE
Con la progressione della malattia compaiono rigidità,
fissità mimica, tremore a “battito d’ali” e grave bradicinesia.
Le alterazioni neuropatologiche coinvolgono primitivamente, anche se non esclusivamente, il nucleo lenticolare. Sono
state descritte alterazioni nel caudato, nel talamo, nel nucleo
subtalamico, nei nuclei pontini e nella circostante sostanza
bianca.
Il morbo di Wilson si può presentare con un quadro psichiatrico nel 10-65% dei casi (Dening e Berrios, 1989). Sintomi comportamentali, cambiamenti di personalità e disturbo dell’umore
sono gli esordi più frequenti. Il disturbo psicotico è invece relativamente raro. I disturbi psichiatrici persistenti sono associati più
frequentemente con disartria, disturbi del comportamento e sintomi epatici. Quando la progressione della malattia non viene
arrestata dalla terapia con i farmaci chelanti, compaiono i sintomi
conclamati della demenza sottocorticale che aggravano i disturbi
emozionali e del comportamento del soggetto.
Morbo di Fahr
Il morbo di Fahr è una patologia idiopatica bilaterale dei nuclei della base sporadica o familiare, a verosimile trasmissione autosomica dominante, caratterizzata da calcificazioni dei
nuclei della base (fig. 14.9). Tale patologia non deve venire
confusa con le calcificazioni dei gangli della base, comunemente localizzate nel globo pallido bilateralmente, che si riscontrano usualmente nell’1,2% degli esami TC e che non
hanno un’eziologia definita.
La sintomatologia del morbo di Fahr è caratterizzata da disturbi del movimento (parkinsonismo, tic, sintomi cerebellari,
Fig. 14.9 La figura mostra la TC di una paziente affetta
da morbo di Fahr con disturbi attentivo-mnesici, sintomi
dello spettro DOC e sindrome depressiva. Sono presenti
multiple grossolane formazioni calcifiche in corrispondenza
dei nuclei della base, in particolare a livello del nucleo
lenticolare, del nucleo caudato e del talamo bilateralmente.
Ulteriori formazioni calcifiche sono presenti nella sostanza bianca
biemisferica sottocorticale. (Osservazione di Blundo, 2010.)
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atassia, disartria distonie) e disturbi psicopatologici di diverso
tipo (König, 1989). Le manifestazioni neuropsichiatriche meglio studiate sono la demenza e la psicosi; spesso sono anche
presenti stati depressivi, mentre sono stati descritti solo pochi
casi di mania. Si possono manifestare anche disturbi dello spettro ossessivo-compulsivo-impulsivo, comportamenti “frontali”, apatia, comportamenti di punding (vedi Capitolo 12). In
alcuni casi coesistono crisi comiziali. In sintesi, i diversi sintomi (non sempre e non tutti presenti) del morbo di Fahr riconoscono come comune elemento patogenetico una disfunzione
dei circuiti fronto-striatali (vedi Capitolo 2 e Capitolo 12).
DEPRESSIONE ED EPILESSIA
Forme cliniche e sintomatologia
Gli stati depressivi si associano frequentemente a epilessia e
già Ippocrate documentò che questi due ordini di fenomeni
potevano essere tra loro correlati. La depressione, come le manifestazioni di ansia e di psicosi associate all’epilessia (cfr.
Capitoli 11 e 15), è correlata prevalentemente all’epilessia del
lobo temporale e rappresenta un “modello di malattia” in cui
gli aspetti neurologici sono strettamente connessi con gli aspetti psichiatrici. La depressione associata all’epilessia spesso
non viene riconosciuta e trattata e il tasso di suicidio è più alto
rispetto alla popolazione generale, per cui la possibile presenza di ideazione suicidaria dovrebbe essere sempre regolarmente valutata nei pazienti epilettici.
La depressione può manifestarsi nel periodo prodromico
preictale, in quello postictale o nell’intervallo interictale dell’epilessia (Kanner, 2003; Robertson et al, 1987).
È importante differenziare gli stati prodromici preictali
dalle aure. In generale i prodromi si verificano ore o anche
giorni prima di un attacco mentre le aure sono già esse stesse
dei fenomeni comiziali parziali semplici. In questo periodo i
pazienti possono modificare il tono dell’umore, divenire taciturni oppure irritabili e disforici, senza un’apparente correlazione con eventi esterni, sintomi che spesso scompaiono nel
momento in cui esordisce la crisi comiziale.
La depressione ictale, dopo l’ansia, è la manifestazione psichiatrica più comune in corso di crisi epilettica e può comparire sia come una crisi parziale semplice isolata sia immediatamente prima di una crisi parziale complessa o di una crisi
convulsiva generalizzata. La depressione ictale è stata descritta con una frequenza variabile dall’1 al 13% circa senza una
prevalenza di lato. Anche nella depressione ictale, le modificazioni dell’umore si verificano improvvisamente e non sono
correlate a eventi esterni. L’intensità e le caratteristiche della
depressione variano da lievi sentimenti di tristezza e malinconia a un profondo stato di disperazione, di colpa e di anedonia
con idee e talora anche tentativi di suicidio. I fenomeni epilettici di pianto e riso sono abbastanza rari ma possono essere
confusi con i fenomeni di iperemozionalismo a esordio ictale.
Nella maggior parte dei casi, tuttavia, il comportamento depressivo ictale è caratterizzato da brevi frammenti di esperienza emotiva che terminano nel momento in cui la crisi
epilettica progredisce e raramente conducono a comportamenti aggressivi o autolesionistici (Williams, 1956). In breve,
l’esperienza affettiva è assai minore rispetto a quella delle
crisi interictali, in accordo con le caratteristiche neurologiche
degli eventi comiziali ictali che sono tipicamente fenomeni 303
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PARTE II
PSICOPATOLOGIA FUNZIONALE E NEUROPSICHIATRIA
“non emozionali” come le assenze o gli automatismi delle
crisi parziali.
La depressione postictale segue sia le crisi parziali sia quelle generalizzate e, in contrasto con altri sintomi postictali, spesso dura giorni o anche settimane (Kanner et al, 2004). La distinzione tra sintomi ictali e postictali può essere difficile,
tuttavia la descrizione dei casi indica che lo stato depressivo
non è una semplice reazione emotiva alla crisi ma appare
strettamente legato ai meccanismi della crisi comiziale. Hurwitz et al (1985) descrissero il caso di una paziente con due
foci epilettici localizzati nelle regioni temporali rispettivamente dell’emisfero destro e sinistro. L’attivazione del focus
epilettico destro determinava comportamenti ipomaniacali e
scoppi di riso, mentre l’attivazione di quello sinistro determinava afasia, irritabilità e depressione.
Le manifestazioni depressive interictali sono le sindromi
più frequentemente associate all’epilessia, riscontrandosi fin
nell’80% dei pazienti con epilessia (Robertson et al, 1987).
Numerosi fattori possono contribuire all’insorgenza dei sintomi depressivi e i fattori biologici insieme a quelli psicologici partecipano alla genesi di questi disturbi. Mendez et al
(1986) hanno descritto diversi casi di depressione interictale
e hanno concluso affermando che un focus epilettico temporo-limbico provoca profonde modificazioni della personalità
che, a loro volta, generano conflitti emozionali, false aspettative e atteggiamenti idealistici che possono dare luogo a depressione. I disturbi depressivi interictali sembrano così il
risultato dell’associazione di fattori biologici e di elementi
psicologici. Nelle crisi interictali la “destrutturazione” affettiva è assai più complessa che non nelle crisi ictali e a differenza di queste, le modificazioni comportamentali durano
assai più a lungo. La fenomenologia clinica delle crisi depressive interictali è alquanto polimorfa dato che può assumere gli aspetti della depressione maggiore, come l’anedonia, l’astenia, i disturbi del sonno e dell’appetito, talora così
gravi da indurre il paziente al suicidio (Robertson et al,
1987). In altri casi, sono presenti solo tratti distimici, e in
questo caso il disturbo depressivo ha un decorso più protratto
nel tempo (Mendez et al, 1986). I disturbi depressivi prolungati possono verificarsi dopo uno stato di male epilettico parziale semplice (Wells, 1975).
In linea generale, i sintomi della sindrome depressiva interictale sono una combinazione di disturbi cognitivi ed emozionali solitamente non presenti nelle forme depressive idiopatiche (per esempio, irritabilità associata a religiosità) (Mendez
et al, 1986). Il profilo delle sindromi depressive interictali appare così solo in parte sovrapponibile a quello delle sindromi
psichiatriche primarie classificate nel DSM-IV. Blumer (Blumer et al, 1998) ha coniato il termine di disturbo disforico interictale per descrivere manifestazioni epilettiche interictali
atipiche, presenti in circa un terzo dei pazienti con disturbo
dell’umore ed epilessia. Queste manifestazioni, spesso misconosciute nella pratica clinica, sono caratterizzate da una sintomatologia cronica simile alla distimia ma nella quale i sintomi
si presentano in modo intermittente, frammisti a brevi periodi
di umore euforico, con scoppi di irritabilità, crisi di ansia,
sintomi somatoformi (anergia, insonnia, dolori atipici).
Eziopatogenesi
L’eziologia della depressione nell’epilessia è multifattoriale e
può essere correlata a modificazioni strutturali patologiche del
304 sistema nervoso associate all’epilessia, agli effetti dei farmaci
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anticomiziali, e allo stress determinato dalla cronicità della malattia. Tra i fattori correlati alle caratteristiche delle crisi, nessuna
variabile come il tipo delle crisi, la frequenza, la durata dell’epilessia è risultata significativamente associata alla comparsa di
depressione. Una prevalenza di depressione interictale ed epilessia è stata riportata nell’epilessia del lobo temporale e, rispetto
alla lateralità del focus epilettico, è stata osservata un’incidenza
maggiore nelle localizzazioni emisferiche sinistre.
Un fattore patogenetico importante nel determinismo della
depressione (come anche di stati psicotici in corso di epilessia, cfr. Capitolo 15) è quello della normalizzazione forzata
descritto da Landolt (1958). Questo Autore osservò per primo
che i disturbi affettivi tendevano a comparire nei soggetti con
epilessia dopo che le crisi si arrestavano, e questo evento si
associava a una completa o relativa “normalizzazione” del
tracciato elettroencefalografico. Il concetto della “normalizzazione forzata”, sul piano neurofisiologico, costituisce un
sostegno all’interpretazione, proposta da alcuni autori, dei disturbi psichici dell’epilessia come il risultato di un’attività
inibitoria che progressivamente si sviluppa conseguentemente
all’attività epilettica (Stevens, 1975). Sul piano clinico questa
ipotesi spiegherebbe anche la comparsa dei fenomeni emozionali non prima di due anni dall’insorgenza delle crisi epilettiche e la correlazione positiva con la frequenza delle crisi
stesse, frequenza che deve essere abbastanza elevata, e non
occasionale, per indurre l’attività inibitoria.
In base a queste considerazioni, è stato ipotizzato che l’inibizione dell’attività elettrica associata alla soppressione delle
crisi (spontaneamente e sotto l’azione dei farmaci) sia la causa della comparsa di disturbi affettivi in pazienti affetti da
epilessia cronica (Blumer et al, 1995).
Diversi studi hanno dimostrato l’efficacia di una terapia con farmaci antidepressivi triciclici (da soli o associati agli SSRI) in pazienti con manifestazioni depressive interictali (Blumer et al, 1995; Harden e Godstein,
2002). L’efficacia terapeutica di questi farmaci sarebbe legata alla loro
azione proconvulsivante, in grado di diminuire l’attività inibitoria soppressiva delle crisi e responsabile dell’insorgenza dei disturbi neuropsichiatrici. Altri farmaci, in primo luogo il fenobarbitale, innalzano notevolmente la soglia convulsivante e tendono quindi a scatenare o a
peggiorare i disturbi affettivi associati a epilessia cronica (Blumer et al,
1995). Nella scelta dei farmaci antidepressivi in pazienti epilettici, si dovrà quindi effettuare un “bilancio” tra quelli con maggiore azione proconvulsivante e quelli nei quali questa azione è minore dato il diverso impatto sugli effetti antidepressivi e su quelli epilettogeni Antidepressivi con
maggiore azione proconvulsivante, oltre ai triciclici, sono la maprotilina
e il bupropione; il citalopram, l’escitalopram, la fluvoxamina, la mirtazapina e la fluoxetina hanno invece un minore effetto epilettogeno.
DISTURBI DELL’UMORE
NELLA SCLEROSI MULTIPLA
INTRODUZIONE
Il famoso psichiatra francese Charcot nel 1898 riferì che durante il decorso della sclerosi multipla (SM), potevano essere
presenti sia sintomi di deterioramento della sfera cognitiva e
sia sintomi psichiatrici, in particolare i disturbi dell’umore.
Una classificazione organica con una descrizione dei quadri
psicopatologici nella SM risale a Cottrell e Wilson (1926), i
quali affermarono che tra i sintomi più importanti della SM
dovessero venire considerati i disturbi dell’umore, quelli del-
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L’UMORE
l’espressione emozionale e i disturbi somatoformi. I disturbi
dell’umore comprendono la depressione, l’euforia, i fenomeni
di iperemozionalismo, l’alexitimia, i disturbi bipolari (DiazOlavarrieta et al, 1999; Ford e Naismith, 2006).
Il tasso di prevalenza di depressione in corso di SM, riportato
da vari studi, varia dal 27 al 54% (Minden e Schiffer, 1990) e le
stime di prevalenza della depressione maggiore nel corso della
vita del paziente si avvicinano al 50% (Patten et al, 2003).
Si è visto da tempo che l’incidenza di episodi depressivi in
pazienti con SM è maggiore in confronto sia alla popolazione
generale sia a pazienti con malattie internistiche o neurologiche non demielinizzanti ad andamento cronico invalidante
(Minden et al, 1987; Whitlock e Siskind, 1980). Questo dato,
insieme alla possibilità che i disturbi depressivi precedano
l’esordio di quelli neurologici, ha portato a ritenere che almeno una parte dei disturbi dell’umore associati a SM sia dovuta
all’effetto diretto della patologia demielinizzante.
Sintomatologia clinica
Come nella PD, anche nella SM i sintomi neurologici si possono sovrapporre a quelli della depressione e complicare la
diagnosi della malattia. Sintomi neurologici e depressivi in
comune nella SM sono i disturbi del sonno, il ritardo psicomotorio, il deficit cognitivi e la fatica (Arnett, 2005).
Le caratteristiche cliniche della depressione sono prevalentemente incentrate su sentimenti di rabbia, preoccupazione,
irritabilità piuttosto che riduzione dell’autostima, autocritica,
ritiro sociale e mancanza di interessi (Minden et al, 1987).
L’incidenza di suicidi portati a termine è significativamente
più elevata nei pazienti con SM rispetto ad altri con malattie
neurologiche croniche invalidanti o controlli normali (Scott
et al, 1996).
La depressione è un frequente effetto collaterale della terapia
con interferone ed è più comune in pazienti con una storia precedente di depressione o con una familiarità per disturbi dell’umore. Alcuni studi non hanno tuttavia dimostrato un aumento
di tale disturbo nei pazienti trattati (Zhephir et al, 2003).
La fatica, un frequente sintomo neurologico della SM, può
coesistere con la depressione, peggiorandola, oppure in sua
assenza può essere erroneamente confusa con questa patologia. La fatica si associa a depressione nel 70-90% dei casi e
peggiora la qualità di vita (Ford e Naismith, 2006).
Fra i disturbi depressivi associati alla SM possiamo distinguere essenzialmente i seguenti quadri clinici (DSM-IV, 1994).
Il primo, definibile come distimia, depressione minore o
disturbo dell’adattamento con umore depresso (l’antica depressione reattiva o secondaria), si presenta in stretta relazione temporale con la comunicazione della diagnosi al paziente
o con la comparsa di nuovi deficit neurologici invalidanti. Su
questa modalità di malattia si allineano gli studi in cui non è
stata riscontrata una significativa differenza d’incidenza depressiva tra pazienti affetti da SM e gruppi di controllo affetti
da altre patologie (Surridge, 1969).
La seconda possibilità è quella di un episodio depressivo
maggiore determinato dalle lesioni demielinizzanti del sistema nervoso centrale (Whitlock e Siskind, 1980). Questa ipotesi assimila l’episodio di malattia psichiatrica a una poussée
neurologica, e come tale può inserirsi come un aggravamento
nell’ambito di una malattia demielinizzante già definita, oppure addirittura precedere il quadro neurologico. Infatti, Whitlock e Siskind (1980), esaminando 30 pazienti con SM, hanno riscontrato un episodio depressivo nella metà del campione
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e, in 5 di essi, questo aveva preceduto lo sviluppo della patologia demielinizzante con sintomi neurologici. Concordano
con questa osservazione anche i risultati degli studi di Schiffer
et al (1983) i cui pazienti con lesioni cerebrali da SM tendevano a sviluppare un disturbo depressivo più frequentemente di
quelli senza coinvolgimento encefalico. A favore dell’ipotesi
biologica dei quadri psichiatrici, e contro una semplice coincidenza di un disturbo psichiatrico e neurologico, deporrebbe
l’assenza di anamnesi personale e familiare probante per disturbi dell’umore. Un’altra possibilità è, tuttavia, quella di una
concomitanza temporale tra un disturbo depressivo maggiore
e deficit neurologici in corso di SM, dove l’evento psicopatologico, pur potendo essere influenzato dal danno biologico in
certi suoi aspetti di esordio o decorso clinico, si manifesta però
indipendentemente.
Globalmente, a tutt’oggi, un episodio depressivo maggiore
in pazienti con SM non può essere predetto né dalle manifestazioni organiche del sottostante processo di malattia, durata
dei sintomi o pattern di decorso, né da una storia familiare o
personale di malattia.
Un’altra manifestazione di disturbo del tono dell’umore è
rappresentata dall’alexitimia. La definizione inglese no words
for mood si riferisce a una peculiare difficoltà dei pazienti nel
riconoscere e verbalizzare emozioni e sentimenti, ed è stata
descritta per la prima volta da Sifneos (1973) nel suo studio
sulle malattie psicosomatiche. Il riscontro di alexitimia è frequente in pazienti con SM, pur non essendo specifico della
malattia (Montreuil e Lyon-Caen, 1993).
Il paziente alexitimico presenta un pensiero estremamente
“concreto”, privo di insight e fantasia. Di conseguenza appare
incapace di esprimere verbalmente sensazioni, vissuti ed
emozioni, con una globale impossibilità di connotazione affettiva. Concomita una mancanza di progettualità e di aspettative dal futuro, e la descrizione di sintomi fisici sostituisce
l’espressività delle emozioni. Tale sintomo clinico può essere
rilevato in pazienti con danni a diversa eziologia del sistema
nervoso centrale che coinvolgano il corpo calloso.
Nonostante i diversi quadri clinici con cui la depressione può
presentarsi nella SM, dal punto di vista prognostico e terapeutico la valutazione più importante è comunque quella di differenziare tra una forma depressiva con caratteristiche di “endogenicità” come la depressione maggiore e lo stato depressivo
delle forme di minore gravità e durata (disturbo dell’adattamento, depressione minore, distimia). Come in altre patologie
neuropsichiatriche, è tuttavia verosimile che i profili sintomatologici della depressione nella SM non siano direttamente assimilabili a quelli delle categorie psichiatriche definite dal
DSM-IV-TR, in quanto i sintomi dipendono in parte dai problemi psicologici e fisici legati alla malattia e, in parte, da alterazioni neurologiche, strutturali e funzionali, secondarie al
processo di demielinizzazione.
Altri disturbi dell’umore in corso di SM
In corso di malattia demielinizzante sono stati documentati
altri quadri clinici come euforia, incontinenza emotiva in forma di riso o pianto patologico, iperespressività emozionale,
disturbo bipolare (Minden e Schiffer, 1990).
L’euforia (Surridge, 1969) è un sintomo riportato già nelle
prime descrizioni della SM sebbene alcuni dei sintomi interpretati come maniacali possano derivare da una disfunzione
esecutiva secondaria alla demielinizzazione di aree della so- 305
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PARTE II
PSICOPATOLOGIA FUNZIONALE E NEUROPSICHIATRIA
stanza bianca frontale. L’euforia è uno dei sintomi del disturbo
bipolare che può essere presente nella SM anche se in percentuale minore rispetto alla depressione (13% circa). Schiffer
et al (1986) nel loro campione hanno trovato un’incidenza
doppia di disturbo bipolare rispetto alla popolazione generale.
In tutti i soggetti esaminati la comparsa di sintomi di SM precedeva di almeno un anno l’esordio del primo episodio affettivo. Va tenuto conto che il trattamento con corticosteroidi può
determinare l’insorgenza di una moderata euforia, di comportamenti ipomaniacali oppure scatenare un franco episodio maniacale. In corso di SM l’euforia deve essere vista anche come
sintomo a sé stante, al di fuori del disturbo bipolare, sebbene
faccia parte del corteo sintomatologico dello stato maniacale.
Può essere definita come uno stato prolungato di allegria, felicità e sollievo, nel quale il paziente appare sereno e felice, riferisce di sentirsi in forma e prova un ottimismo per il futuro,
inclusa la certezza di un recupero fisico totale, che appare fuori luogo e incongrua (Cottrell e Wilson, 1926). L’euforia è raramente presente durante gli stadi precoci di SM ma, quando
compare, tale tratto si integra permanentemente nell’assetto di
personalità del paziente. Vi è una piena dissociazione tra la
performance cognitiva ed emozionale: il paziente è pienamente consapevole del disturbo neurologico ma non mostra la risposta emozionale congrua con il suo stato. Vi è ampio consenso nel ritenere che l’euforia sia uno stato emotivo con un
substrato neurologico prodotto dal processo di demielinizzazione e non da un’elaborazione psicologica. Di solito l’euforia
è associata con severa inabilità fisica, lunga durata di malattia,
variante cronica progressiva e danno cognitivo.
Analogamente all’euforia, il riso e il pianto patologico sono
sintomi riferibili a un danno neurologico (Surridge, 1969).
A differenza di uno stato misto dell’umore e a genesi unicamente psichiatrica, la sindrome da alterata regolazione emozionale della SM coinvolge solo la manifestazione affettiva
esterna del soggetto, non lo stato emozionale soggettivo esperito dal paziente. I pazienti possono piangere o ridere al minimo stimolo, senza nessuna connessione con il loro attuale
stato dell’umore. Tali sintomi si possono unire all’euforia, ma
più spesso sono autonomi. Le percentuali di incidenza vanno
dal 7 al 10% (Surridge, 1969) al 95% (Cottrel e Wilson, 1926)
e sono presenti solo dopo molti anni di malattia. Il riso e il
pianto patologico rispondono al trattamento con antidepressivi, inclusi i triciclici, a dosi inferiori rispetto a quelle impiegate nella depressione.
Simile al riso e al pianto spastico è l’iperespressività emozionale (Minden e Schiffer, 1990), che è però più comune (la
prevalenza è intorno al 30% dei pazienti) e si manifesta durante le prime fasi di malattia. È caratterizzata da un’improvvisa e incontrollata manifestazione di uno stato emotivo, che
si può ripetere molte volte in un breve periodo di tempo.
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L’ampia varietà di disturbi neuropsichiatrici è correlata alle aree cerebrali
che potenzialmente possono essere sedi di demielinizzazione. Sono state
descritte correlazioni significative tra quadri psicopatologici di alterazioni
dell’umore e lesioni cerebrali rilevate alla risonanza magnetica, sebbene
sia necessaria una certa cautela nell’interpretazione localizzatoria nel
contesto di una malattia come la SM, caratterizzata da un’abituale disseminazione delle lesioni. Honer et al (1987) hanno segnalato un maggiore
numero di placche nei lobi temporali. Un altro gruppo ha riportato una
significativa correlazione tra umore depresso e placche periventricolari e
frontali (Reischies et al, 1988). Inoltre, è stato sottolineato come la severità dei sintomi depressivi sia correlata con lesioni della sostanza bianca,
prevalentemente dell’emisfero sinistro (George et al, 1994).
DISTURBI DELL’UMORE
NEI TRAUMI CRANICI
I disturbi emotivo-comportamentali di diverso tipo costituiscono, insieme a eventuali deficit cognitivi, frequenti sequele
neuropsichiatriche dei traumi cranici.
Tra questi disturbi sono frequenti le alterazioni dell’umore
in senso sia depressivo (Fedoroff et al, 1992; Silver et al, 1991)
sia maniacale. La depressione conseguente a un trauma cranico viene frequentemente diagnosticata nei pazienti durante la
fase di guarigione dal trauma e può manifestarsi con profili
clinici diversi, dalla depressione maggiore ai disturbi dell’adattamento con umore depresso.
Oltre ai danni anatomici di specifiche aree cerebrali, possono contribuire alla sintomatologia depressiva anche fattori di
tipo psicosociale e psicodinamico.
Si possono associare fenomeni di iperemozionalismo legati
al danno neurologico e spesso possono essere presenti disturbi
vegetativi, talora in assenza di evidenti sintomi depressivi.
Le manifestazioni similmaniacali si associano spesso anche ai traumi cranici, soprattutto nel primo anno, a causa del
frequente interessamento, in questa patologia, della corteccia
orbito-frontale e temporo-basale dell’emisfero destro o di lesioni del caudato o del talamo di destra (Jorge et al, 1993;
Starkstein et al, 1987b). In una rassegna sulle sindromi bipolari post-traumatiche, Wright et al (1997) sottolineano come
l’incidenza di queste sindromi sia molto minore rispetto a
quella delle forme unipolari depressive post-traumatiche e
come un ruolo importante nell’insorgenza della mania in pazienti con trauma cranico sia rappresentato da una vulnerabilità genetica verso i disturbi dell’umore, da preesistenti segni
di atrofia a livello frontale e diencefalico e dalla concomitante
presenza di epilessia post-traumatica.
Altre manifestazioni a carattere disinibitorio che si possono
associare a trauma cranico sono le allucinazioni “da rilascio”
e la sindrome di Kluver-Bucy (cfr. Capitolo 6).
La diagnosi differenziale della depressione dopo un trauma
cranico deve prendere in considerazione una sindrome apatica
(vedi Capitolo 10) un rallentamento ideativo e cognitivo (legato a lesioni a focolaio frontali, dei gangli della base, a una
sindrome da ipertensione endocranica come nel caso di un
ematoma sottodurale, a un idrocefalo normoteso in formazione); un comportamento negativista (come talora si osserva nei
disturbi psicotici post-traumatici associati a lesioni frontali
dorsolaterali); un disturbo depressivo preesistente al trauma e
del quale il trauma stesso può rappresentare quindi una complicazione.
DISTURBI DELL’UMORE
NEI TUMORI CEREBRALI
I disturbi depressivi sono stati descritti in associazione a tumori cerebrali e spesso costituiscono gli unici sintomi d’esordio della presenza del tumore. I sintomi neuropsichiatrici associati a un tumore dipendono dal lato emisferico e dalla sede
della lesione, ma il loro valore in senso localizzatorio è alquanto limitato, per gli effetti sul parenchima cerebrale legati
alle caratteristiche istopatologiche delle neoplasie, produzione di edema, caratteristiche infiltranti ecc., e per fattori aspecifici come una sindrome da ipertensione endocranica. Per tali
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L’UMORE
ragioni, si può spesso verificare che neoplasie localizzate in
strutture diverse ma appartenenti a circuiti che mediano le
stesse funzioni emozionali diano origine a disturbi neuropsichiatrici simili.
Tra i diversi tipi istologici di tumori, i meningiomi sono
quelli che più comunemente causano sintomi neuropsichiatrici, sia per la tendenza di questi tumori a svilupparsi in prossimità dei lobi frontali sia per il loro accrescimento lento,
spesso non associato a deficit cognitivi e/o a segni neurologici
somatici, per cui il disturbo comportamentale del paziente
può venire facilmente scambiato per un disturbo psichiatrico
primario (Fahy et al, 1995). I pazienti con meningiomi parasagittali del terzo anteriore della falce o della convessità anteriormente alla scissura di Rolando possono presentare apatia
o disturbi dell’umore che somigliano al comportamento dei
pazienti con depressione primaria ma, molto spesso, senza il
“vissuto” di tristezza o di angoscia e senza i correlati cognitivi
di autosvalutazione o di colpa che quasi sempre accompagnano la depressione idiopatica.
Il profilo neuropsicologico è spesso quello della “sindrome
abulica” da compressione monolaterale o più spesso bilaterale delle regioni mesiali frontali oppure della cosiddetta “pseudodepressione”, descritta da Blumer e Benson nel 1975, da
compressione della regione prefrontale dorsolaterale (Capitolo 2).
Sebbene i disturbi affettivi siano di più frequente riscontro
nei tumori del lobo frontale e i disturbi di tipo psicotico in
quelli localizzati nel lobo temporale, sintomi di umore depresso, apatia, perdita di interessi, irritabilità possono essere
presenti anche in pazienti con neoplasie del lobo temporale a
causa delle strette interconnessioni tra le strutture limbiche
temporali e quelle frontali.
Le neoplasie del lobo parietale e di quello occipitale determinano disturbi neuropsichiatrici con una frequenza assai
minore di quelle localizzate in sede frontale o temporale. Disturbi affettivi furono riscontrati da Schlesinger (1950) solo
nel 16% dei pazienti con neoplasie del lobo temporale.
Tumori localizzati nelle strutture profonde della linea mediana (talamo, ipotalamo, terzo ventricolo), compromettendo
strutture e circuiti del sistema limbico, frequentemente determinano disturbi affettivi o di tipo psicotico. Disturbi depressivi e apatia sono stati descritti in pazienti con cisti colloide del
terzo ventricolo (Burkle e Lipowsky, 1978). I tumori della
regione ipofisaria sono spesso associati a disturbi neuropsichiatrici a causa della loro estrinsecazione in alto, verso il
diencefalo.
Disturbi depressivi, apatia, perdita di interesse sono sintomi spesso associati ai craniofaringiomi e già descritti da Cushing (1932). Inoltre, i pazienti con lesioni tumorali diencefaliche possono presentare una sintomatologia caratterizzata
da ipersonnia-iperfagia che può venire confusa, e quindi non
diagnosticata, con una variante clinica della depressione
idiopatica (Spence et al, 1995). I tumori dell’ipofisi sono
spesso alla base di anomalie endocrine che, a loro volta, possono generare disturbi neuropsichiatrici di tipo depressivo,
com’è stato descritto negli adenomi basofili associati a sindrome di Cushing o in rari casi di adenomi acidofili associati
ad acromegalia (Avery, 1973). I tumori del corpo calloso, soprattutto del ginocchio e dello splenio, in un’alta percentuale
di casi determinano disturbi neuropsichiatrici, tra cui apatia e
depressione, per il coinvolgimento delle adiacenti aree frontali mesiali (Schlesinger, 1950).
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I sintomi di disinibizione possono costituire un segno di
tumori cerebrali localizzati in aree diverse, prevalentemente
dell’emisfero destro – frontali, temporo-parietali, temporooccipitali – oppure a livello del talamo, del cervelletto o delle
aree peripotalamiche (teratomi dell’ipotalamo, gliomi diencefalici) (Starkstein et al, 1988). Nonostante questi comportamenti di disinibizione conseguano a una varietà di tumori localizzati in strutture cerebrali diverse, la similarità della
sintomatologia neuropsichiatrica si spiega in virtù delle interconnessioni funzionali di queste strutture con le aree limbiche
orbito-frontali e baso-temporali che svolgono una funzione
inibitoria sui processi cognitivi ed emozionali (Starkstein e
Robinson, 1997).
Infine, si deve sottolineare come in un disturbo affettivo
associato a una neoplasia cerebrale, oltre alla componente
neurobiologica legata al tumore, si possano associare fattori
più propriamente psicologici, come precedenti aspetti della
personalità del paziente o una reazione depressiva conseguente alla scoperta della neoplasia, che interferiscono, in modo
spesso inestricabile, con le modificazioni emozionali indotte
dal tumore.
In linea generale è raccomandabile che qualsiasi paziente
con un’età superiore ai 40 anni, che cominci a presentare disturbi emozionali come perdita di interessi, apparente riduzione del tono dell’umore, associati eventualmente a segni di una
sindrome disesecutiva frontale, senza una storia precisa di
antecedenti ansioso-depressivi e senza una correlazione con
eventi stressanti, che eventualmente non abbia risposto a un
tentativo di trattamento con antidepressivi, venga sottoposto
ad accertamenti con esami di neuroimaging.
DEPRESSIONE NELL’ANZIANO
Nella pratica clinica, molto spesso si osservano pazienti anziani con un disturbo dell’umore che viene confuso con un deterioramento mentale e che ricevono quindi l’etichetta diagnostica di demenza di Alzheimer o di altro tipo. Non si fa qui
riferimento ai quadri conclamati di demenza da depressione,
né all’episodio depressivo che si può associare a una vera demenza, ma piuttosto a quei quadri di depressione maggiore
che, nell’anziano, si possono presentare in modo atipico, possono associarsi a elementi psicotici importanti e che spesso
sono stabili da diverso tempo. In questi casi, anche quando
non sono presenti significativi deficit cognitivi (tali da far pensare appunto a una demenza da depressione), il comportamento abulico del paziente spesso misto a sintomi psicotici, eventuali insuccessi terapeutici (anche se spesso si ricostruiscono
trattamenti inadeguati o scarsa compliance alla terapia da parte del paziente) e il reperto di un’atrofia alla TC o alla RM
(reperto spesso aspecifico!) fanno orientare il giudizio diagnostico verso una forma di demenza. Un errore diagnostico di
questo tipo, ovviamente, conduce a una persistenza, o addirittura a un peggioramento, della sintomatologia del paziente che
viene privato del razionale trattamento per il disturbo dell’umore e avviato invece verso un trattamento con farmaci inibitori
dell’acetilcolinesterasi, senza effetto sul suo reale disturbo.
Una premessa fondamentale, prima di descrivere alcuni importanti criteri clinici per diagnosticare una depressione nell’anziano e distinguerla da una demenza, è che l’episodio depressivo spesso si presenta con caratteristiche non tipiche ed è
costituito da segni e sintomi variamente articolati nel singolo 307
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PARTE II
PSICOPATOLOGIA FUNZIONALE E NEUROPSICHIATRIA
individuo. Nell’anziano, in maniera più frequente rispetto all’adulto, si assiste a mascheramento, sovrapposizione, “diluizione” di tali sintomi a seconda delle patologie concomitanti,
della capacità espressiva del singolo soggetto, delle terapie
farmacologiche già in atto per patologie diverse, dei cambiamenti fisiologici in alcuni parametri e, infine, della consapevolezza che il soggetto ha di essere nell’ultima parte del proprio
arco temporale di vita.
In base a ciò e per giungere a un corretto inquadramento
diagnostico e, quindi, a una razionale ed efficace terapia farmacologica, vanno tenuti presenti i sottoindicati fattori.
Anamnesi familiare
Va eseguita con specifico riferimento ai disturbi dell’umore.
Si deve indagare sui familiari di primo o secondo grado con
diagnosi accertata di patologia dell’umore (depressione unipolare, disturbo bipolare), ma anche con disturbi d’ansia comunque connotati. È bene sempre chiedere specificatamente
se vi sono stati casi di etilismo o di altre patologie d’abuso, a
volte correlati a sottostanti alterazioni dell’umore, come pure
se vi sono stati casi di suicidio o di tentato suicidio.
Anamnesi personale
Va eseguita con specifico riferimento a precedenti episodi depressivi nella vita del soggetto, a subeccitamenti o franchi
eccitamenti o, ancora, a episodi misti. Si deve considerare che
spesso, se presenti, tali episodi sono molto lontani nel tempo,
e il paziente va aiutato a ricostruirli. Hanno valore clinico episodi della durata di settimane o mesi, e non di pochi giorni,
soprattutto se con precisa influenza nella vita del soggetto (per
esempio, interruzione temporanea degli studi o prolungate assenze lavorative, ritiro sociale, dimagrimenti e insonnia prolungati senza una causa organica definita ecc.). Il paziente e i
familiari tendono a dare più facilmente importanza a eventuali episodi depressivi, mentre di rado riferiscono spontaneamente periodi di subeccitamento pregressi, pertanto vanno
aiutati a ricordare se vi sono stati (per esempio, periodi di insonnia senza recupero diurno del sonno, spese eccessive, agitazione, aggressività e ostilità inconsuete per il carattere della
persona, eccessi comportamentali di vario tipo ecc.).
Presenza di patologie concomitanti
I disturbi della sfera cognitiva (memoria, attenzione, concentrazione) sono sintomi quasi sempre presenti nell’episodio depressivo dell’anziano. La diagnosi differenziale rispetto a patologie
degenerative (malattia di Alzheimer, demenza multinfartuale
ecc.) passa attraverso un’attenta valutazione neuropsicologica,
l’esecuzione di esami di imaging cerebrale (RM, SPECT) e, in
ultima analisi, come criterio ex adiuvantibus, attraverso il tipo di
risposta terapeutica dopo una razionale terapia antidepressiva.
Quest’ultima, infatti, molto spesso riesce a separare, con il ripristino di uno stato normale dell’umore, i segni psichiatrici da
quelli più specificamente neurologici, chiarendo la diagnosi finale. Il rallentamento motorio, con una minore iniziativa nei
compiti quotidiani, dai più semplici ai più complessi, è presente
nella maggior parte degli episodi depressivi. Anche qui va fatta
una diagnosi differenziale rispetto alla presenza di disturbi motori, e in particolare rispetto alla PD, tenendo presente che alcune terapie antiparkinsoniane con agonisti dopaminergici sono
308 efficaci anche come antidepressivi nell’anziano. Il tremore, an-
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ch’esso di rilievo frequente, può essere ascrivibile a genesi extrapiramidale, ansiosa, tiroidea, costituire un tremore essenziale
o senile, o infine essere anche iatrogeno e provocato specificamente da farmaci antidepressivi a dosaggi medi o elevati. Il dimagrimento può rientrare nel corteo depressivo, riferibile a una
patologia medica o chirurgica misconosciuta, ed essere espressione di una patologia tiroidea. Particolare attenzione va posta
alle somatizzazioni (sfera gastro-intestinale, cardiologica, otovestibolare e dell’equilibrio, episodi di emicrania ecc.) che, se nel
giovane e nell’adulto sono più facilmente ascrivibili ai sintomi
somatici dell’ansia che accompagna l’episodio depressivo, nell’anziano richiedono un’attenta valutazione. L’astenia che spesso
accompagna l’episodio depressivo va valutata su scala più ampia, tenendo presente la possibilità che vi siano disturbi ematologici (per esempio, anemie da sanguinamento del tubo gastroenterico, provocate da analgesici assunti cronicamente dal
paziente per ovviare a patologie dolorose o infiammatorie croniche), una patologia tiroidea (per esempio, ipotiroidismo), effetti
iatrogeni (per esempio, deplezione elettrolitica data dagli stessi
antidepressivi SSRI; concomitante uso di neurolettici ecc.).
Assunzione concomitante di farmaci
Una delle situazioni più frequenti è il mascheramento e la distorsione dei sintomi da parte di farmaci assunti per la stessa
o per altre patologie. È piuttosto frequente l’utilizzo di farmaci ad alto potere anticolinergico (per esempio, la promazina)
per disturbi del comportamento nell’anziano o per l’insonnia,
con il risultato di un ulteriore peggioramento dei sintomi della
sfera cognitiva, comunque determinati (depressione o malattia
degenerativa). Lo stesso discorso vale per l’utilizzo di benzodiazepine nell’anziano, che possono dare effetti paradossi con
un aumento dell’agitazione e la comparsa di veri stati confusionali. L’utilizzo di neurolettici tradizionali provoca rapidamente una sindrome extrapiramidale iatrogena, che peggiora
il rallentamento motorio e l’astenia. Spesso un episodio depressivo con severa ansia generalizzata provoca un peggioramento nei valori della pressione arteriosa con necessità di revisione posologica della terapia antipertensiva.
Presenza di sintomi psicotici
Nell’anziano con patologia neuropsichiatrica sono presenti con
una certa frequenza sintomi psicotici, quali deliri a tematiche
persecutorie, mistico-religiose, di rovina, di negazione, di controllo, furto e inserzione del pensiero ecc., nonché dispercezioni
sensoriali della sfera più frequentemente uditiva e visiva (ma a
volte anche olfattiva e somestesica). Anche il comportamento
può mostrare un profilo prevalentemente apatico-abulico o, al
contrario, essere ostile e aggressivo, spesso associato a insonnia, sino a una totale disorganizzazione comportamentale. È
solo parzialmente vero che i segni e i sintomi psicotici sono
indistinguibili tra patologia psichiatrica primitiva da una parte e
patologia neurologica degenerativa dall’altra, se si tengono
presenti i punti precedenti. La distinzione, a un occhio attento,
può essere fatta sulla strutturazione del delirio (più disorganizzata, mutevole e fluttuante nel tempo nel malato neurologico,
rispetto a quello primitivamente psichiatrico), sui contenuti dei
deliri (più spesso incongrui con l’umore nel paziente neurologico), sull’influenza di questi ultimi sul comportamento (meno
prevedibile, più bizzarro e incostante nel paziente neurologico),
sul tipo di allucinazioni (più classicamente uditive nella patologia primitivamente psichiatrica).
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L’UMORE
DISTURBI MANIACALI ASSOCIATI
A PATOLOGIE NEUROLOGICHE
Le manifestazioni maniacali delle patologie neurologiche
spesso hanno le caratteristiche cliniche delle sindromi da disinibizione. Rispetto alla depressione, gli stati maniacali si presentano con una frequenza molto minore in corso di ictus,
valutata da Robinson intorno all’1% (Robinson et al, 1988)
dei pazienti con ictus, e sono invariabilmente legati a lesioni
vascolari delle aree della corteccia orbito-frontale o temporale-basolaterale dell’emisfero destro oppure di strutture sottocorticali correlate al circuito orbito-frontale come la testa del
caudato e il talamo (Benke et al, 2002; Cummings e Mendoza,
1984).
Come nella patogenesi della depressione cosiddetta “vascolare”, infarti cerebrali “silenti”, documentati con la RM
sono stati associati alla comparsa di mania “tardiva” in soggetti con età superiore ai 50 anni che non avevano mai prima
sofferto di disturbi affettivi (Fujikawa et al, 1995).
I disturbi similmaniacali colpiscono, anche se meno frequentemente della depressione o di altri disturbi psichiatrici,
i pazienti con malattie dei gangli della base come la HD
(Folstein, 1983) e, più raramente, pazienti con PD (Cannas
et al, 2002). In letteratura sono descritti casi di pazienti con
PD che hanno sviluppato mania dopo un intervento di DBS
del nucleo subtalamico (Raucher-Chéné et al, 2008). Episodi di mania possono insorgere dopo somministrazione di
pramipexolo o ropinirolo in pazienti con PD (Singh et al,
2005).
Nei pazienti anziani con demenza, i disturbi similmaniacali
si osservano più di frequente nelle forme vascolari che non
nella malattia di Alzheimer, nella quale in uno studio pubblicato da Burns et al (1994) solo il 3,8% dei pazienti alzheimeriani presentava un’esaltazione dell’umore. Questa bassa incidenza di sintomi maniacali nella malattia di Alzheimer è stata
spiegata in termini patogenetici con il maggiore e più frequente coinvolgimento in questa sindrome delle regioni posteriori
temporo-parietali anziché delle aree ventrali orbito-frontale e
baso-temporale (Lyketsos et al, 1995). Nei pazienti con Alzheimer, rimane comunque difficile la diagnosi di una mania
secondaria, per la presenza spesso di altri disturbi del comportamento oltre a quelli cognitivi e per la possibilità che questi pazienti possano avere in passato sofferto di disturbi primari dell’umore.
I disturbi depressivi si trovano spesso nei pazienti epilettici, mentre le manifestazioni maniacali sono state riscontrate
solo molto raramente in corso di epilessia (Robertson e Trimble, 1983). Tra le rare segnalazioni in letteratura, Barczak
et al (1988) hanno descritto 3 pazienti con un focus epilettico
temporale destro affetti da ipomania nelle fasi intercritiche
in concomitanza con un aumento della frequenza delle crisi
e altri casi sono stati riportati in letteratura (Lyketsos et al,
1993).
I pazienti con lesioni orbito-frontali congenite o acquisite
nell’età dello sviluppo possono presentare una sindrome da
disinibizione caratterizzata da mancanza di giudizio etico e
sociale, irritabilità, tendenze antisociali, comportamenti disadattivi, simili a quelli dei soggetti con sociopatia idiopatica
(Lapierre et al, 1995).
Le lesioni temporali sopratutto dell’emisfero destro si possono associare a manifestazioni maniacali.
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CASO CLINICO 1
UNA PAZIENTE CON MANIA
SECONDARIA
Una giovane donna di 29 anni venne ricoverata per un’intensa cefalea
esordita acutamente. La RM evidenziò in sede temporale profonda anteriore destra un processo neoformato di 4 × 3 centimetri con associati segni di recente sanguinamento (fig. 14.10). Una panangiografia non mise
in evidenza malformazioni vascolari. Sottoposta a intervento neurochirurgico, venne asportato un ematoma nel cui contesto fu riscontrato un
tessuto neoformato che risultò all’esame istologico un cavernoma. Subito
dopo l’intervento la paziente cominciò a presentare un’eccessiva espansività affettiva anche verso gli estranei, associata a un comportamento abbastanza euforico e disinibito, incongruente con la sua personalità premorbosa riservata e introversa. Questa reazione, di cui la paziente fu
sempre consapevole, perdurò circa 2 settimane, scomparendo nell’arco di
1 mese, senza associarsi ad altri difetti cognitivi o comportamentali.
L’esame neuropsicologico effettuato dopo l’intervento e a distanza di 1
mese risultò normale.
(Osservazione di Blundo, 2002.)
I disturbi maniacali o ipomaniacali sono stati descritti in pazienti
con encefalite erpetica in fase acuta, a causa dell’affinità del virus erpetico per la regione basale temporale, l’insula e la corteccia orbito-frontale mediale (Fisher, 1996). È verosimile che nella
fase acuta della malattia, il disturbo dell’umore, se presente, venga nascosto dalle alterazioni dello stato di coscienza o da altri
disturbi del comportamento, mentre nella fase di esito è possibile
che i pazienti presentino modificazioni in senso espansivo dell’umore.
Abbiamo osservato un comportamento ipomaniacale in due soggetti giovani guariti senza importanti sequele cognitive da un episodio di encefalite
erpetica tipica (aspetti clinici, reperti RM e liquorali patognomonici per
questa infiammazione) che erano stati subito sottoposti all’inizio della
Fig. 14.10 RM cerebrale della paziente affetta da mania
secondaria a un sanguinamento di un processo neoformato
in sede temporale profonda anteriore destra.
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PARTE II
PSICOPATOLOGIA FUNZIONALE E NEUROPSICHIATRIA
malattia a trattamento con aciclovir (osservazione di C. Blundo, 19972001). In entrambi i casi, le lesioni a livello dei lobi temporali erano bilaterali ma nettamente prevalenti in ambito emisferico destro.
Il primo paziente, senza una storia di disturbi dell’umore in anamnesi,
cominciò a presentare una sintomatologia francamente maniacale alcuni
mesi dopo la dimissione dall’ospedale, preceduta da uno stato depressivo
insorto dopo la fase acuta dell’encefalite, risoltasi poi spontaneamente
nel giro di alcune settimane. I sintomi maniacali durarono circa 3 mesi e
progressivamente andarono riducendosi, lasciando uno stato di lieve irritabilità, difficoltà di autocontrollo, impulsività, residuati almeno fino a 1
anno dopo, quando il paziente venne per l’ultima volta controllato.
Nel secondo soggetto, subito dopo la fase acuta della malattia, i familiari si accorsero di un cambiamento della personalità. Il paziente, prima
piuttosto introverso e con un eccessivo controllo dei suoi comportamenti,
cominciò a manifestare una condotta più estroversa, una maggiore comunicazione affettiva, una tendenza a “perdere il controllo” se contrariato,
un umore lievemente espanso, una maggiore facilità rispetto a prima a
indulgere verso piccole spese o verso eventi gratificanti.
Disturbi bipolari intesi come ricorrenti episodi solo maniacali o intervallati con episodi depressivi sono stati descritti in pazienti con lesioni vascolari, traumatiche, neoplastiche (Berthier et al, 1996; Starkstein et al, 1991). Nella
maggior parte dei pazienti, i disturbi bipolari sono associati
a lesioni emisferiche destre. Tuttavia, mentre nei pazienti
con soli disturbi maniacali le lesioni sono prevalentemente
localizzate nella corteccia orbito-frontale e baso-temporale,
nei disturbi bipolari con fasi maniacali e depressive le lesioni sono state riscontrate nell’emisfero destro, prevalentemente a livello sottocorticale in sede talamica o nella testa
del nucleo caudato (Starkstein et al, 1991). Una possibile
spiegazione dell’insorgenza, in seguito a lesioni sottocorticali, di disturbi dell’umore misti, è stata data da Pappata
et al (1987), i quali hanno prospettato che le lesioni in questa sede determinino modificazioni metaboliche anche nelle
aree controlaterali dell’emisfero sinistro responsabili dell’insorgenza di disturbi depressivi.
Infine, diverse patologie tossico-metaboliche o alcuni farmaci di frequente utilizzo nella terapia neurologica (L-dopa,
isoniazide, bromocriptina, steroidi, amfetamine, anticomiziali)
possono indurre manifestazioni maniacali interferendo sulla
trasmissione monoaminergica.
CASO CLINICO 2
UN PAZIENTE CON DISTURBO BIPOLARE
E LESIONE DIENCEFALICA
Un uomo di 49 anni, senza precedenti psichiatrici e senza familiarità per
depressione, circa due anni prima del ricovero iniziò a presentare una
sintomatologia depressiva caratterizzata da ansia, riduzione dell’iniziativa
e dell’interesse verso il lavoro e la famiglia, associata a contenuti cognitivi di ridotta stima di sé, di critica del proprio lavoro e della relazione con
la moglie. In due periodi, della durata di alcuni mesi, apparì invece piuttosto irritabile, con spunti deliranti di grandezza, comportamento abbastanza iperattivo ma poco coerente e finalizzato. In questi due anni, sia
pure con andamento fluttuante, comparvero episodi di cefalea, prima assenti, e periodi in cui il paziente riferiva di avere scarsa concentrazione e
memoria. In diverse visite psichiatriche, l’uomo ricevette la diagnosi di
sindrome depressiva o di disturbo bipolare e per tale motivo iniziò una
Fig. 14.11 La TC evidenzia un processivo espansivo
del terzo ventricolo aggettante nei ventricoli laterali.
terapia con serotoninergici e stabilizzanti dell’umore e intraprese una
psicoterapia, trattamenti che risultarono però solo parzialmente efficaci.
Un giorno, improvvisamente, il paziente presentò cefalea molto intensa,
vomito, confusione mentale, per cui fu trasportato al Pronto soccorso
dove fu sottoposto a TC cerebrale (fig. 14.11) che evidenziò un processo
espansivo a partenza dal terzo ventricolo e aggettante nei ventricoli laterali associati a un cospicuo idrocefalo. Il paziente, sofferente ma con
esame neurologico somatico negativo, fu sottoposto a intervento neurochirurgico di svuotamento endoscopico della lesione e posizionamento di
catetere endoventricolare. Dall’esame istologico risultò un tumore disembriogenetico con caratteri di benignità. Nelle settimane successive all’intervento il paziente fu sottoposto a un esame neuropsicologico che risultò
nei limiti della norma a eccezione di una moderata compromissione della
memoria a lungo termine e dell’attenzione secondaria alla lesione del
fornice e agli esiti dell’idrocefalo.
La storia clinica del paziente, inquadrabile verosimilmente in un disturbo bipolare di marca neuropsichiatrica, è caratterizzata tuttavia da una
sintomatologia cognitivo-comportamentale abbastanza articolata e da
un’evoluzione temporale relativamente protratta (prima del repentino
scompenso) che certamente era più suggestiva per un disturbo psichiatrico
primario che non per un disturbo “neurologico” (vedi il Capitolo 3, il paragrafo Continuità e discontinuità tra disturbi neuropsichiatrici e psichiatrici). Seguendo una modellizzazione gerarchico-strutturale del sistema
nervoso (vedi Capitolo 3), è ipotizzabile che la lesione, per il suo carattere
cronico e a lento accrescimento, localizzata in una struttura critica per la
regolazione della funzione umore quale è il diencefalo (vedi testo e Capitolo 2), abbia potuto nel tempo destrutturare componenti anatomiche e
circuiti dei sistemi edonici di base con conseguente riverbero funzionale
sui livelli strutturali superiori, rendendo il paziente vulnerabile all’insorgenza di una patologia dell’umore, con componenti emotive e cognitive
abbastanza complesse rispetto a quelle meno strutturate che si osservano
nei disturbi neuropsichiatrici sostenuti da lesioni con carattere di acuzie.
(Osservazione di Blundo, 2011.)
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