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CAPITOLO TERZO
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LE SINGOLE FATTISPECIE DI CONCORRENZA SLEALE
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Sommario: 1. Atti di confusione. - 2. Denigrazione e appropriazione di pregi. - 3. Atti
contrari alla correttezza professionale.
1. ATTI DI CONFUSIONE
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L’art. 2598 c.c., al n. 1, dispone che compie atti di concorrenza sleale
chiunque «usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i
nomi o i segni distintivi legittimamente usati da altri, o imita servilmente i
prodotti di un concorrente, o compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a
creare confusione con i prodotti o con l’attività di un concorrente».
Carattere comune alle fattispecie contemplate da questa norma è l’idoneità a produrre confusione con i prodotti e con l’attività di un concorrente, ossia l’idoneità a convincere i consumatori che un prodotto e/o un’attività provengono da un certo imprenditore mentre in realtà sono da ricondurre ad un imprenditore diverso (VANZETTI-DI CATALDO).
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A) Atti di confusione e segni distintivi
La prima delle tre fattispecie previste dall’art. 2598, n. 1, c.c. è quella di
chi «usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o
con i segni distintivi legittimamente usati da altri».
È evidente che la norma è da intendersi riferita ai segni distintivi nella
loro accezione più ampia (segni denominativi, emblematici, figurativi) comprendente sia i segni tipici, (aspetto questo che pone problemi di compatibilità con la tutela già approntata per essi) sia qualsiasi altro segno atipico
(sigla, emblema etc.) che possa essere adottato in un’attività di impresa.
Non esistendo, per i segni distintivi atipici, un sistema di registrazione e,
quindi, una presunzione di «validità» del segno, l’onere di provare la presenza in esso dei requisiti di tutelabilità graverà, secondo i principi generali,
su colui che ne invoca la tutela.
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Parte Prima - Principi generali e norme sulla concorrenza
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Peraltro, per essere protetto dalla norma in esame, il segno distintivo
imitato deve essere:
— dotato di capacità distintiva, ossia idoneo a distinguersi dalle indicazioni generiche del prodotto o dell’attività;
— dotato di novità, in quanto capace di differenziarsi dai segni anteriormente utilizzati da altri per prodotti o attività dello stesso genere;
— concretamente utilizzato nel mercato.
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Come va misurata la confondibilità di un segno distintivo o di un prodotto?
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La confondibilità di un prodotto o di un segno distintivo va accertata in relazione alle conseguenze che l’atto concorrenziale possa avere sul c.d. consumatore medio dotato di ordinaria
diligenza, tenendo conto che questi di regola, non effettua le proprie scelte in base a mirate e
documentate valutazioni comparative fra prodotti, bensì confrontando la realtà con il ricordo
di precedenti esperienze attraverso una stima complessiva che prescinde da elementi marginali
di differenziazione rilevabili solo ad un esame attento. Quando l’atto concorrenziale sia in
grado di ingenerare confusione nel consumatore medio esso sarà dunque perseguibile.
Va tuttavia precisato che il consumatore medio a cui si fa riferimento, va individuato tenendo conto anche
della destinazione abituale di un prodotto con la conseguenza che se la cerchia dei destinatari è particolarmente qualificata sul piano professionale ciò può portare ad escludere la potenzialità confusoria dell’atto.
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Si discute, però, se tra i segni menzionati dall’art. 2598 c.c. debbano realmente rientrare anche quelli tipici, come la ditta, l’insegna ed il marchio registrato posto che, come abbiamo accennato, questi sono già tutelati dalla legge: in altri termini, ci si chiede se una contraffazione di ditta o di marchio
registrato, già sanzionata specificamente dal Codice della proprietà industriale, costituisca anche atto di concorrenza sleale ai sensi dell’art. 2598, n. 1, c.c.
La stessa norma, facendo salve le disposizioni che concernono la tutela dei
segni distintivi, sembra ammettere la possibilità di un concorso delle due tutele.
Tuttavia va precisato che:
— per il marchio la sua contraffazione non costituisce sempre e comunque
anche un atto di concorrenza sleale confusoria.
Mentre, infatti, il Codice protegge il marchio su tutto il territorio nazionale, a prescindere dall’uso di esso e dall’estensione di tale uso, l’art. 2598
c.c., invece, fa dell’uso anteriore del segno e della sua sovrapposizione
territoriale con quello dell’imitatore, due fatti costitutivi dell’illecito.
Ne consegue che non si potrà agire in concorrenza sleale quando il marchio contraffatto non sia stato usato o quando il suo uso sia territorial-
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Capitolo Terzo - Le singole fattispecie di concorrenza sleale
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mente limitato in modo da non creare una sovrapposizione (VANZETTI
- DI CATALDO);
— per la ditta, la fattispecie contemplata dall’art. 2564 c.c. in tema di ditta
regolare, ossia la confondibilità «per l’oggetto dell’impresa e per il luogo in cui questa è esercitata», corrisponde con quella dell’imitazione
confusoria prevista dall’art. 2598, n. 1, c.c.
Le due norme, sono però diverse dal punto di vista delle sanzioni.
L’art. 2564 c.c., infatti, si limita ad imporre integrazioni o modifiche
idonee a differenziare la ditta del contraffattore; l’art. 2599 c.c., invece, in
tema di concorrenza sleale, prevede l’inibitoria, l’emanazione di opportuni
provvedimenti per rimuovere gli effetti dell’atto confusorio, il risarcimento
del danno e la pubblicazione della sentenza.
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Esiste una tutela specifica per il domain name?
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L’uso di un domain name su Internet che riproduca un marchio registrato da altra società e da
essa stessa utilizzato quale domain name per la fornitura di servizi sulla rete telematica, oltre
ad integrare la fattispecie di contraffazione del marchio, costituisce atto di concorrenza sleale
ed è pertanto illegittimo, in quanto attività idonea a creare confusione tra gli utenti limitatamente ai servizi resi da entrambi i soggetti nel medesimo settore di attività (in tal senso si è
espressa la giurisprudenza prevalente; v. da ultimo Cass. 28-5-2001, n. 2794).
Accanto all’ipotesi di uso abusivo di un marchio come nome di dominio, si deve considerare
l’ipotesi di utilizzo di segni distintivi appartenenti ad altra azienda, mediante la diffusione di
messaggi allocati in siti Internet. Questo è un modo per ingenerare nella clientela confusione
sulla effettiva provenienza dei prodotti e sulla identità personale dell’imprenditore, determinando
sicuramente perdita e sviamento di clientela data la capillare diffusione del sistema telematico.
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B) L’imitazione servile
L’art. 2598, n. 1, c.c. contempla, come seconda delle tre fattispecie, la
c.d. imitazione servile, sancendo che compie atti di concorrenza sleale chiunque «imita servilmente i prodotti di un concorrente».
Tale formula che, ad una prima lettura, sembrerebbe vietare qualsiasi
imitazione degli altrui prodotti, purché fedele e pedissequa, è stata nel tempo oggetto di interpretazioni sempre più restrittive.
Un primo limite concerne le parti del prodotto la cui imitazione può definirsi
illecita. Considerando, infatti, che l’imitazione servile è inserita in un contesto che
tratta della concorrenza confusoria, deve ritenersi vietata dalla norma soltanto
l’imitazione delle parti appariscenti, esterne del prodotto in quanto solo l’imitazione di esse può, appunto, ingenerare confusione in chi guarda il prodotto.
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In questa sede interessa soprattutto considerare la registrazione di disegni
e modelli ed il brevetto per modello di utilità, in quanto riguardano essenzialmente la forma del prodotto e cioè proprio l’oggetto della tutela contro
l’imitazione servile. Orbene: la durata della registrazione per modello e disegno industriale è di cinque anni (prorogabile fino ad un massimo di venticinque), mentre quella del brevetto per modello di utilità è di dieci anni.
Superati questi limiti di tempo, le forme dei prodotti in cui consistono le
innovazioni, possono essere liberamente imitate da chiunque, in quanto di
pubblico dominio.
L’art. 2598, n. 1, c.c., invece, concede contro l’imitazione servile una tutela potenzialmente perpetua; pertanto, chi adotta una forma distintiva per il
proprio prodotto potrà vietare a chiunque di imitarla senza limiti di tempo.
Per evitare, allora, una totale disapplicazione delle norme sui brevetti, si
è affermata la necessità di interpretare restrittivamente il divieto di imitazione servile, nel senso di escludere dal suo ambito applicativo tutte le forme,
funzionali (quelle che conferiscono una particolare funzionalità a macchine, utensili etc.) ed ornamentali (quelle destinate a migliorare l’estetica dei
prodotti), idonee a costituire oggetto di protezione brevettuale e, come tali,
già tutelate nei limiti temporali stabiliti dalla legge. In particolare si è giunti
a sostenere che l’accoglimento della domanda di concorrenza sleale sia subordinato all’accertamento che la forma imitata non sia suscettibile di tutela
brevettuale e che le forme suscettibili di costituire oggetto di registrazione
come modello o disegno industriale o di brevettazione come modello di
utilità sono liberamente imitabili ove non siano state registrate o non lo
siano più per la scadenza del relativo brevetto.
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C) Gli «altri mezzi» idonei a creare confusione
La terza fattispecie dell’art. 2598, n. 1, c.c., reprimendo gli «altri mezzi»
con cui si compiano atti confusori, rappresenta una norma di chiusura con la
quale il legislatore intende escludere la liceità di qualsiasi atto confusorio.
Poiché, però, gli atti confusori richiedono, per compiersi, l’uso di segni
distintivi confondibili e sono perciò riconducibili alla prima parte della norma, l’applicazione giurisprudenziale della fattispecie in esame è estremamente rara e concerne di solito ipotesi di appropriazione di segni distintivi
inusuali, quali ad esempio:
— l’uso, sui furgoni per la distribuzione dei prodotti, di colori identici a
quelli utilizzati dal concorrente;
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Capitolo Terzo - Le singole fattispecie di concorrenza sleale
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— l’imitazione delle caratteristiche esteriori degli altrui stabilimenti;
— l’uso di fotografie di prodotti altrui nel proprio materiale pubblicitario;
— la copiatura di cataloghi o dépliant.
2. DENIGRAZIONE E APPROPRIAZIONE DI PREGI
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Il n. 2 dell’art. 2598 c.c. disciplina due diverse ipotesi di concorrenza sleale:
— la denigrazione;
— l’appropriazione di pregi.
Secondo la norma in esame, infatti, compie atti di concorrenza sleale
chiunque «diffonde notizie ed apprezzamenti sui prodotti e sull’attività di
un concorrente, idonei a determinarne il discredito, o si appropria dei pregi
dei prodotti o dell’impresa di un concorrente».
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A) La denigrazione
La denigrazione, consiste nella diffusione di notizie ed apprezzamenti
sui prodotti e sull’attività di un concorrente, idonei a determinarne il «discredito» (vale a dire la perdita o la diminuzione della fiducia di cui un’impresa ed i suoi prodotti godono sul mercato) e a procurare, così, «un danno
concorrenziale» (dovuto ad es. alla perdita di clientela o addirittura dei dipendenti, a difficoltà di rapporti con i fornitori etc.).
Per diffusione di notizie e di apprezzamenti negativi non deve intendersi
solo la divulgazione di questi ad una pluralità di soggetti, ma anche la comunicazione ad un solo soggetto o ad «una cerchia ristretta di persone»,
sempreché ne derivi un danno concorrenziale (rileva, a tal proposito, anche
la perdita di un singolo affare se è la conseguenza di una notizia screditante)
(VANZETTI-DI CATALDO).
Rientrano in tale nozione anche notizie sullo stato di dissesto o di difficoltà economiche dell’impresa concorrente (perché possono determinare per quest’ultima un danno concorrenziale) oppure notizie attinenti alla personale reputazione del concorrente nel caso possano avere riflessi concorrenziali.
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È ammissibile la diffusione di notizie vere, per quanto screditanti?
Secondo la dottrina dominante (VANZETTI-DI CATALDO, GHIDINI) e gran parte della giurisprudenza, la diffusione di notizie vere, anche se comporti il discredito del concorrente, può ritenersi lecita,
sempre che si tratti di notizie ed apprezzamenti non soltanto rigorosamente veri ma anche esposti in
modo obiettivo poiché suffragano il diritto del consumatore alla formazione di un giudizio completo.
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I casi più frequenti di denigrazione si legano al fenomeno della pubblicità comparativa. La comparazione consiste nel raffronto del proprio prodotto con quello di un concorrente, con una valutazione positiva del primo e
una conseguente valutazione negativa (anche implicita) del secondo.
Il Codice del consumo (D.Lgs. 6 settembre 2005 n. 206), recependo
quanto già disposto dal D.Lgs. n. 67/2000 disciplina la pubblicità comparativa, ritenendo ammissibile tale forma pubblicitaria a determinate condizioni di liceità.
La pubblicità comparativa è ritenuta lecita qualora siano soddisfatte, le
seguenti condizioni:
— non sia ingannevole;
— confronti beni o servizi che soddisfano gli stessi bisogni o si propongono gli stessi obiettivi;
— confronti obiettivamente una o più caratteristiche essenziali, pertinenti,
verificabili e rappresentative, compreso eventualmente il prezzo, di tali
beni e servizi;
— non ingeneri confusione sul mercato fra l’operatore pubblicitario ed un
concorrente o tra i marchi, le denominazioni commerciali, altri segni
distintivi, i beni o i servizi dell’operatore pubblicitario e quelli di un
concorrente;
— non causi discredito o denigrazione di marchi, denominazioni commerciali, altri segni distintivi, beni, servizi, attività o circostanze di un concorrente;
— per i prodotti recanti denominazione di origine, si riferisca in ogni caso
a prodotti aventi la stessa denominazione;
— non tragga indebitamente vantaggio dalla notorietà connessa al marchio,
alla denominazione commerciale o ad altro segno distintivo di un concorrente o alle denominazioni di origine di prodotti concorrenti;
— non rappresenti un bene o servizio come imitazione o contraffazione di
beni o servizi protetti da un marchio o da una denominazione commerciale depositati.
Anche nelle magnificazioni dei propri prodotti, prive di riferimenti
espliciti a quelli altrui, può essere implicito un messaggio denigratorio (ad
es. quando si presenti il proprio prodotto o la propria impresa con il superlativo relativo, lasciando così intendere la sua unicità); tuttavia, la giurisprudenza tende ad essere indulgente verso tale specie di magnificazione e a
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Capitolo Terzo - Le singole fattispecie di concorrenza sleale
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considerarla lecita se si presenta come generica o palesemente iperbolica (il
mio prodotto è «migliore», «il più moderno», «il panettone M non è un
panettone, ma Il panettone»).
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B) L’appropriazione dei pregi
L’art. 2598 c.c., al n. 2, afferma che compie atti di concorrenza sleale
anche chi «si appropria di pregi dei prodotti o dell’impresa di un concorrente».
Per pregi si intendono non delle entità materiali appartenenti all’impresa aggredita ma delle qualità dell’impresa stessa o dei suoi prodotti; più
precisamente, costituiscono pregi «tutti i fatti riguardanti i caratteri dell’impresa, i risultati da essa conseguiti o le qualità dei prodotti o dei servizi
che per il pubblico rappresentino o possano rappresentare motivi di apprezzamento positivo e quindi di preferenza dell’impresa e delle sue prestazioni
rispetto alle altre imprese».
Con l’espressione appropriarsi di pregi deve, inoltre, intendersi l’autoattribuzione di qualità e caratteristiche positive che in realtà non si posseggono e che sono invece presenti nei prodotti o nell’impresa di un concorrente (VANZETTI - DI CATALDO). Rientra nella fattispecie in esame, ad
esempio, il caso di chi si dichiari concessionario o distributore ufficiale di
una celebre marca, pur non essendolo a differenza di altri; o il caso di chi
dichiari di sottoporre i suoi prodotti al controllo di un istituto specializzato,
pur non facendolo; o il caso di chi affermi la presenza nei propri prodotti di
una determinata materia prima pregiata che in realtà non impiega, a differenza di altri.
Sempre nell’ambito dell’«appropriazione di pregi», si parla di agganciamento alla notorietà altrui, quando chi si propone al pubblico lo fa
equiparandosi in modo esplicito ad un concorrente noto o ai suoi prodotti,
approfittando, così, del frutto dell’altrui lavoro o investimento (ossia della
conoscenza e del credito di cui quel prodotto o quell’impresa sono giunti a
godere sul mercato stesso): si comprende bene come caratteristica principale di tale fattispecie sia proprio la sua natura parassitaria.
Esempi classici di agganciamento sono:
— l’impiego sul proprio prodotto, oltre che del proprio marchio, del marchio altrui preceduto dalla parola «tipo» o «modello» o simili (scarpe
«tipo Tod’s», automobile «tipo Fiat»);
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Parte Prima - Principi generali e norme sulla concorrenza
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— l’immissione sul mercato di un nuovo prodotto con una forma analoga a
quella di un prodotto già noto, anche se con un marchio denominativo
del tutto diverso.
Altri casi di appropriazione dei pregi sono:
— la presentazione, come realizzazione propria, di un manufatto realizzato, invece, da un concorrente (ciò si verifica, ad esempio, con la pubblicazione o distribuzione di dépliant e cataloghi con fotografie di prodotti
altrui presentati come propri);
— l’impiego di una falsa denominazione di origine alla quale vengono ricondotte determinate caratteristiche e pregi del prodotto.
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3. ATTI CONTRARI ALLA CORRETTEZZA PROFESSIONALE
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Il n. 3 dell’art. 2598 c.c. costituisce, come abbiamo anticipato, una clausola
generale che definisce come concorrenza sleale «tutti gli atti non conformi ai
principi della correttezza professionale e idonei a danneggiare l’altrui azienda».
La funzione di tale clausola dovrebbe essere quella di consentire la classificazione di fattispecie diverse da quelle previste nei nn. 1 e 2 dell’art.
2598 c.c.; tuttavia, data la rarità di fattispecie «inedite» da classificare, il n.
3 dell’art. 2598 c.c., come sostiene parte della dottrina (VANZETTI-DI CATALDO), funge da «contenitore» di fattispecie tipizzate, già individuate
(almeno in gran parte) prima dell’entrata in vigore del codice, che vengono
ricondotte alla norma in esame per trovare una loro collocazione. Altresì,
l’elasticità del disposto normativo consente di adeguare la disciplina della
concorrenza all’evoluzione della vita economica e allo svilupparsi di tecniche concorrenziali sempre più affinate.
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A) I messaggi ingannevoli
Tra le fattispecie di concorrenza sleale ricondotte al n. 3 dell’art. 2598
c.c., il mendacio concorrenziale è senza dubbio una delle più importanti.
Nonostante se ne parli spesso con riferimento ad una sua particolare ipotesi,
ovvero alla pubblicità menzognera, l’illiceità si estende a qualsiasi comunicazione, qualsiasi messaggio rivolto ai potenziali consumatori o fruitori di
determinati prodotti o servizi, che non corrisponda a verità, e che sia idoneo
ad ingannare i suoi destinatari e a provocare, così, un danno concorrenziale.
Il mendacio concorrenziale si distingue dall’appropriazione di pregi in
quanto non colpisce un concorrente determinato, mentre in quest’ultima
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Capitolo Terzo - Le singole fattispecie di concorrenza sleale
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fattispecie alla falsa attribuzione di un pregio corrisponde la sottrazione dello
stesso ad un soggetto determinato, che subisce, in conseguenza, un pregiudizio.
La condizione di illiceità del messaggio ingannevole è rappresentata dalla
sua idoneità a ingannare, ossia dall’idoneità ad indurre i destinatari della
comunicazione in errore. In base a quanto detto è possibile distinguere:
— le menzogne innocue, che vengono sottratte alla qualifica di illiceità perché inadatte ad indurre in errore il destinatario;
— le affermazioni iperboliche, le palesi esagerazioni, le vanterie da un lato,
e le affermazioni generiche, prive di significato preciso, dall’altro, che
sono da ritenersi anch’esse inadatte ad ingannare;
— le mezze verità, le comunicazioni ambigue, i messaggi in cui siano omesse
notizie essenziali o in cui ci sia inganno sulla composizione materiale
del prodotto o sull’origine di esso, che sono, invece, da ritenersi fattispecie vietate (sempre che possano indurre il consumatore in errore).
È da rilevare, inoltre, che per giudicare l’attitudine di un determinato
messaggio ad ingannare è bene considerare:
— le modalità della sua diffusione presso il pubblico.
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Per il messaggio diffuso con una campagna pubblicitaria l’attitudine ad ingannare sarà
maggiore rispetto a quella di un messaggio diffuso attraverso la stampa qualificata, diretta
cioè ad un pubblico particolarmente esperto;
— il tipo di prodotto interessato dal messaggio.
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Il giudizio di valutazione dell’idoneità ad ingannare sarà più severo per affermazioni mendaci riguardanti i prodotti di maggior consumo.
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B) Le manovre sui prezzi: i ribassi e le vendite sottocosto
In generale non si potrebbe negare la liceità dei ribassi di prezzo senza
negare il concetto stesso di libera concorrenza; tuttavia, in certi casi, tale
manovra può produrre effetti negativi sul mercato.
Si devono considerare lecite le violazioni di prezzi imposti dal produttore al rivenditore (anche se tale tipo di ribasso può sembrare scorretto e perciò concorrenzialmente illecito) in seguito all’entrata in vigore della legge
italiana antitrust (L. n. 287/1990) che all’art. 2, 2° comma, lett. a) vieta
quelle intese che fissano «direttamente o indirettamente i prezzi di acquisto
o di vendita». Viene, così, negata la validità dello stesso patto che impone il
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Parte Prima - Principi generali e norme sulla concorrenza
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prezzo, e ciò elimina in radice la possibilità di configurare un illecito concorrenziale.
Sono ritenuti leciti anche quei casi di vendita sottocosto (vendita fatta
ad un prezzo inferiore sia al costo del prodotto per l’impresa venditrice, sia
al costo medio del prodotto per gli altri imprenditori), giustificata da esigenze dell’impresa e limitata nel tempo (ad es.: campagne promozionali,
liquidazioni di fine stagione, vendite volte a limitare le perdite in un periodo
di crisi di mercato).
Si devono, invece, considerare illeciti i casi di vendita sottocosto, caratterizzati da un fine monopolistico (volti, quindi, ad eliminare dal mercato
l’impresa concorrente) e posti in essere con continuità temporale.
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Si ricordi che tali orientamenti giurisprudenziali e dottrinali vanno ora coordinati, per
quanto riguarda gli esercenti il commercio, con le disposizioni in materia di vendite sottocosto
poste dal D.Lgs. 31-3-1998, n. 114 (Riforma della disciplina del commercio).
Ai sensi dell’art. 15, 7° comma, in particolare, le vendite sottocosto sono quelle effettuate
ad un prezzo inferiore a quello risultante dalle fatture di acquisto maggiorato dell’imposta sul
valore aggiunto e di ogni altra imposta o tassa connessa alla natura del prodotto e diminuito
degli eventuali sconti o contribuzioni riconducibili al prodotto stesso e documentati. In particolare il D.P.R. 6 aprile 2001, n. 218 stabilisce che la vendita sottocosto va sempre comunicata
al comune dove è ubicato l’esercizio almeno dieci giorni prima dell’inizio e che può essere
effettuata solo tre volte nel corso dell’anno; ogni vendita sottocosto non può avere una durata
superiore a dieci giorni ed il numero delle referenze oggetto di ciascuna vendita sottocosto non
può essere superiore a cinquanta.
Non può essere effettuata una vendita sottocosto se non è decorso almeno un periodo pari
a venti giorni, salvo che per la prima vendita sottocosto dell’anno.
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C) Lo storno dei dipendenti
Lo storno dei dipendenti consiste nel sottrarre i dipendenti ad un concorrente, di solito istigandoli a dimettersi per poi assumerli. Si tratta di una
pratica che, considerata prima assolutamente scorretta, oggi viene accettata
anche dalla giurisprudenza, in quanto un suo divieto assoluto interferirebbe
in modo consistente sul funzionamento del mercato e sulla libertà dei dipendenti. Tuttavia, la giurisprudenza ha sostenuto, ed ancora sostiene, che
lo storno dei dipendenti sia illecito se attuato con l’intento di disgregare o
disorganizzare l’azienda del concorrente anche senza portare un concreto
vantaggio a chi lo attua, se attuato, cioè, con «animus nocendi».
Nella prassi giurisprudenziale si è giunti di volta in volta a desumere
l’animus da una serie di circostanze che qualificano lo storno come illecito.
Tra le più importanti vi sono: la qualificazione tecnica dei dipendenti stor-
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Capitolo Terzo - Le singole fattispecie di concorrenza sleale
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nati, il loro numero, il fatto di valersi, per realizzare lo storno, di una «talpa
interna», la preordinazione dello storno al fine di sottrarre segreti aziendali
al concorrente. È, inoltre, evidente che per parlare di storno, l’iniziativa
deve provenire dal concorrente e non dal dipendente.
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D) La sottrazione di segreti aziendali
La fattispecie della sottrazione di segreti aziendali viene spesso collegata a quella dello storno, perché la complicità di chi fa o ha fatto parte di
un’azienda è praticamente indispensabile per conoscere i suoi segreti. Infatti, se non si tratta di storno, e neanche di spionaggio industriale, la sottrazione di segreti aziendali si realizza con l’impiego di «talpe», ossia dipendenti
infedeli del concorrente.
Difficile è stabilire quando un’informazione rappresenti un «segreto industriale», così da ritenerne l’appropriazione un atto concorrenzialmente
illecito. La giurisprudenza ha esteso la nozione di «segreto industriale» oltre che alle informazioni «tutelate» anche alle «notizie che, pur senza essere
dei veri e propri segreti, l’impresa concorrente non abbia messo, né ritenga
di mettere a disposizione del pubblico».
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Un problema particolare sorge quando l’informazione sia rivelata da un ex dipendente. In
questo caso, infatti, l’esigenza di tutela del segreto si scontra con il principio secondo cui l’ex
dipendente ed il suo nuovo datore di lavoro possono utilizzare le cognizioni tecniche acquisite
dal primo nella sua precedente attività. Per riscontrare l’illecito, quindi, le informazioni utilizzate dovranno presentare una forte caratterizzazione in termini di segretezza.
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E) La concorrenza parassitaria
La concorrenza parassitaria consiste nell’imitazione sistematica delle
iniziative imprenditoriali altrui.
Se da una parte, la giurisprudenza è costante nel giudizio di slealtà di
tale comportamento, dall’altra c’è una oscillazione continua sui requisiti
richiesti perché si possa passare dall’imitazione occasionale (lecita) a quella sistematica, «parassitaria».
I confini di tale fattispecie, infatti, sono stati di volta in volta ristretti,
precisando che si ha concorrenza parassitaria solo quando l’imitazione riguarda «tutto o quasi tutto quello che fa il concorrente»; solo quando l’imitazione concerne, oltre i prodotti del concorrente, anche i suoi comportamenti imprenditoriali (ad esempio iniziative organizzative, pubblicitarie etc.);
solo quando l’imitazione sistematica avviene a breve distanza di tempo,
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A
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Parte Prima - Principi generali e norme sulla concorrenza
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S.
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oppure, secondo altri, solo quando questa avviene in un arco di tempo consistente.
Tali rigorose delimitazioni hanno confinato la fattispecie della concorrenza parassitaria in uno spazio piuttosto limitato e fatto sì che il suo divieto
venisse violato in pochi casi.
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Quali sono gli orientamenti della giurisprudenza per la concorrenza operata via Internet?
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Glossario
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I recenti sviluppi delle tecnologie informatiche hanno posto la giurisprudenza di fronte al problema dell’ammissibilità di forme di concorrenza sleale realizzate attraverso questi mezzi e in
particolare attraverso Internet.
In particolare è stato sostenuto che la diffusione di un messaggio promozionale via Internet che
si sostanzi: nell’uso di segni distintivi appartenenti ad altra azienda, in forma tale da ingenerare
confusione sulla effettiva provenienza dei prodotti; nella attribuzione ai propri prodotti di qualità appartenenti in via esclusiva ai prodotti di un concorrente; nella presentazione, come proprio, di un catalogo di fotografie appartenenti ai prodotti di un concorrente; infine, nella diffusione di notizie riservate, concernenti l’organizzazione e i metodi di produzione dell’impresa
concorrente è attività di concorrenza sleale, sia sotto il profilo confusorio, sia sotto il profilo
dell’appropriazione di pregi altrui, sia sotto il profilo della violazione dei principi della correttezza professionale. In sostanza la “rete Internet”, quale sistema internazionale di interrelazione tra piccole e grandi reti telematiche, è equiparabile ad un organo di stampa e ciò anche sotto
il profilo dell’applicabilità dell’art. 2598 c.c., ed anzi la giurisprudenza ha affermato che se
costituisce atto di concorrenza sleale l’uso di segni distintivi di altra azienda all’interno di
messaggi promozionali in quanto idoneo a ingenerare nella clientela confusione sulla effettiva
provenienza dei prodotti e sull’identità personale dell’imprenditore, a maggior ragione se la
diffusione del messaggio è realizzata attraverso un sistema telematico complesso e capillarmente diffuso nel mondo quale Internet l’idoneità allo sviamento della clientela risulta ancora
più evidente.
yr
Inibitoria: è l’azione mediante la quale si chiede la cessazione di un comportamento lesivo
di un interesse giuridicamente rilevante. Si tratta, quindi, di uno strumento di tutela preventivo, volto ad impedire o quanto meno a far cessare il comportamento lesivo.
C
op
Onere della prova: è il principio in base al quale i diritti ricevono protezione giurisdizionale solo se ed in quanto chi li fa valere in giudizio fornisce la prova dei fatti sui quali si
fondano. Secondo un’antica massima, non provare il proprio diritto equivale a non averlo
(Actore non probante, reus absolvitur). Chi fa valere in giudizio un diritto, ossia l’attore,
deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento. Chi, all’opposto, contrasta la pretesa dell’attore, ossia il convenuto, deve a sua volta provare i fatti su cui si fonda l’eccezione.
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