...

Uno, nessuno, centomila: Chi incontra Chi in terapia?

by user

on
Category: Documents
19

views

Report

Comments

Transcript

Uno, nessuno, centomila: Chi incontra Chi in terapia?
Uno, nessuno, centomila:
Chi incontra Chi in terapia?
Laura Pomicino
Secondo anno
Abstract
Partendo da una forte esperienza personale, nel seguente elaborato ho cercato di analizzare il
tema del transfert e del controtransfert per evidenziarne criticità e punti in sospeso.
Il tentativo di "fare esperienza" di ciò che implica essere un "buon" terapeuta mi ha portato a
riflettere sulla relazione che si sviluppa all'interno della stanza della terapia e su quanto i ruoli
di ciascuno siano reciprocamente strettamente influenzati.
Questo si è poi tradotto in una riflessione sul mio operato professionale, riconoscendone i
limiti.
Laudisi: Non gli dia retta! E' sicura anche lei di toccarmi come mi vede? Non può dubitare di
lei. Ma per carità, non dica a suo marito, né a mia sorella, né a mia nipote, né alla signora qua
come mi vede, perché tutt'e quattro altrimenti le diranno che lei s'inganna. Mentre lei non
s'inganna affatto. Perchè io sono realmente come mi vede lei! Ma ciò non toglie che io sia
anche come mi vede suo marito, mia sorella, mia nipote e la signora qua, che anche loro non
s'ingannano affatto.
Signora Sirelli: E come, dunque, lei cambia dall'uno all'altro?
Laudisi: Ma sicuro che cambio, signora mia! E lei no, forse? Non cambia?
Signora Sirelli (precipitosamente): Ah no no no no no. Le assicuro che per me io non cambio
affatto!
Laudisi: E neanch'io per me, creda! E dico che voi tutti v'ingannate se non mi vedete come mi
vedo io! Ma ciò non toglie che non sia una bella presunzione tanto la mia che la sua, cara
signora.
[Pirandello, 1918, atto primo, scena seconda]
Suona il citofono di un pomeriggio qualunque. Fa caldo, l'estate non rallenta la sua corsa. Vado
ad aprire. Attendo, con la porta spalancata. Sento il rumore dei passi. “Non ha preso
l'ascensore, sarà uno sportivo”. Nel breve intervallo che mi separa da lui, provo ad immaginare
il suo volto. So che è giovane, poco più grande di me. Ha tradito la moglie, ripetutamente. L'ha
picchiata, le ha fatto male. So che tiene molto alla sua persona. “Sarà bello?”. Mi spaventa che
io mi stia ponendo questo quesito. Perchè? Cambierebbe qualcosa per me? Cosa implica il fatto
che si tratti di un uomo? Cosa sapere che è un uomo violento? Ho paura.
Nel frattempo, eccolo dinanzi a me. Stringo la sua mano, con energia, e sorrido sicura, come a
sottolineare un rapporto paritario, da subito.
Lo faccio accomodare fuori. Rientro nella mia stanza. Provo rabbia. Non avrei dovuto accettare
questo incarico. E' troppo difficile. Chi è lui per me? Cosa sto vedendo in lui? Cosa non mi
permetto di vedere? Cosa cerco? E' una persona. Io, anche. Due persone, un incontro. Come
un paesaggio guardato da angolature differenti. Camminare fino a lui è un'opportunità, per me
una scelta. Sono disposta a farla? A scoprire nuove sfumature, differenti ombre nel quadro che
sto osservando?
Faccio capolino nella sala d'aspetto, lo invito ad entrare.
Ecco, l'avventura ha inizio, alziamo il sipario e che ognuno reciti il suo copione non scritto. E' il
teatro dell'assurdo. Ma io ho un compito preciso, devo “insegnare al cliente come essere un
cliente”, come trarre il “massimo beneficio dalla terapia” [Epting, 1990, p. 97].
Ho studiato. So cosa fare? Come una ballerina, sono entrata in scena conoscendo con
esattezza la sequenza dei passi ma senza sapere quelli che farà chi ballerà al mio fianco. E si
tratta di un passo a due, non di un assolo. Mi chiedo cosa cambierebbe se potessi anticipare
esattamente cosa farà l'altro. Niente, la danza si vivrebbe comunque in quell'unico istante che
fugge su di una melodia irripetibile.
Ricordo
una
scena
di
un
film
che
ho
molto
amato,
“The
doctor”
(http://www.youtube.com/watch?v=hj_3bmfAyag). William Hurt interpreta un medico
efficiente e cinico che affronta una profonda transizione di minaccia a causa di una grave
malattia. Improvvisamente, si trova “dall'altra parte”. Ad un certo punto, decide di far
sperimentare ai suoi colleghi ciò di cui lui ha fatto esperienza facendoli vivere come dei “veri
ammalati” per un giorno intero:
I dottori passano un sacco di tempo a studiare nomi latini delle malattie che i pazienti hanno.
Devono imparare qualcosa di più semplice. I pazienti hanno tutti un nome, e si sentono
impauriti, imbarazzati e vulnerabili, insomma sì, sono malati. Quello che vogliono è soprattutto
guarire ed è per questo che affidano ai medici la loro vita!
E' il mio turno. Devo provare. Altrimenti non posso pretendere di chiedere a chi mi si siede di
fronte di fare con me una nuova esperienza della sua sofferenza, tantomeno di mostrarmela.
Ho paura, tremo. E' così che si sente un paziente la prima volta che varca la mia soglia?
No, ti prego, non ora
Credo che non sarebbe mai arrivato il momento giusto, avrei protratto l'attesa per un tempo
indefinito. Ma sentivo che non era ancora scoccata la mia ora, avevo bisogno di prendere
ancora un po' di aria prima di restare senza fiato. E' stato un istante, accogliere quella che ho
costruito come una provocazione, “prima o poi ce la dovrai raccontare la tua lettera scarlatta”,
le parole che sono uscite violente, senza che potessi controllarle. Improvvisamente, il vuoto
intorno a me, dentro me. I loro occhi mi guardano, li odio uno ad uno. Perchè devo mostrare
questo? Chi siete voi? Spettatori inermi, che non si alzano per difendermi, che stanno lì,
immobili, proprio come allora. Ricominciano le immagini, vorrei fermarle ma non ci riesco. Lui
è sopra di me, sento il suo odore, quella puzza acre di sudore. Il respiro si fa affannoso, non si
ferma. Io vorrei gridare ma la voce non mi esce, sto lì sotto immobile. Proprio come voi
adesso. Sono io? Siete voi? Chi è la vittima, chi il colpevole? Sento le voci, altri al piano terra si
divertono, stanno festeggiando. Sto piangendo ma lui non se ne accorge. Ha finito, si pulisce.
Io resto lì, ferma. Sono morta. Non ci sono più. Niente sarà più come prima. Chi sono, ora, io?
E voi, cosa state vedendo di me? Chi sono io per voi? Un'amica sfigata? Quella che dice sempre
bugie? Mi credete? Io mi credo? Domande come coltelli, sento la lama fredda dentro la pancia.
Un'altra volta, lui mi uccide. Ancora. Mi rimetto la mia gonna blu, a pieghe. E' ancora nel mio
armadio, non l'ho più indossata. Scendiamo. Il silenzio ci accompagna. Tutto è normale.
Nessuno si accorge di niente. Un morto che cammina. Io non ci sono più. Voi mi vedete? Cosa
vedete? Cosa riesco a vedere io di voi?
Restano i pezzetti, frammenti di una vita che devo ricomporre, per l'ennesima volta, solo con
maggiore urgenza e minore energia.
Rientrando in stanza...
Kelly sosteneva che il terapeuta deve rappresentare “il meglio della natura umana” per il
cliente in modo che questi possa validare il proprio sistema di costrutti attraverso il confronto
con lui (Kelly, 1991, p.27). Deve essere “creativo” e “audace” all'interno di una “relazione di
reciproca influenza” (Epting, 1990, pp.12-15).
Ma Chi sta incontrando Chi, mi domando, all'interno della stanza della terapia. Dove inizia e
dove porta il percorso che guida verso l'incontro? Approcciandosi alla psicologia, nel contesto
accademico, uno dei primi termini che si sente pronunciare è quello di transfert, accompagnato
sempre dal suo buon amico controtransfert. Solitamente, viene presentato come qualcosa di
vago e indefinito, in quanto non prevedibile, nei termini di una disciplina che, definendosi
scienza, ambisce all'oggettività e alla quantificazione persino dei sospiri di un'anima che soffre.
Lo avvolge sempre un'area di temuto mistero, come qualcosa di tanto inevitabile quanto
pericoloso.
Detto anche “traslazione”, il transfert designa in generale la condizione emotiva che
caratterizza la relazione del paziente nei confronti dell'analista, e in senso specifico il
trasferimento sulla persona dell'analista delle rappresentazioni inconsce proprie del paziente. Il
transfert dell'analista sul paziente è comunemente denominato “controtransfert”.
[Galimberti, 1999]
Qualcosa che uno passa all'altro, come un pallone in un campo di calcio con due unici giocatori
senza squadra né punteggio. La relazione non c'è. E' come se ciò che il paziente “sposta” sul
terapeuta prescindesse da questi, dalla stanza in cui si incontrano, dall'inflessione della sua
voce, dal modo in cui lo ha salutato la prima volta che lo ha incontrato. Difficile a credersi.
Kelly (1991, p. 75) sostiene che il concetto corrispondente a quello di transfert non sia poi
tanto dissimile all'interno della Psicologia dei Costrutti Personali, tanto da spingerlo a non
cercare un nome alternativo ma ad adottare il medesimo per descrivere questo processo. Pur
comprendendo chiaramente ciò che Kelly vuole evidenziare, la costruzione che ne ho è,
tuttavia, molto differente. Nel primo caso, riconosco un'accezione sempre negativa, qualcosa
che va “controllato” dal terapeuta, che non deve lasciarsene sovrastare. Nel secondo, come lo
stesso Kelly sottolinea, questo costrutto e quelli che ne conseguono, possono rappresentare
“sia mezzi che ostacoli al processo terapeutico” (Kelly, 1991, p.76). Vanno utilizzati come
terreno per definire nuovi esperimenti, perchè il cliente possa fare nuova esperienza. In questo
ambito, il transfert viene descritto come il processo attraverso cui un paziente adotta sistemi di
costrutti forgiati per altre persone come pezzi di un puzzle immodificati per costruire il
terapeuta e la relazione con lui (Fransella, 2005; Epting, 1990). Parte del lavoro del terapeuta
consiste proprio nel comprendere come il cliente lo sta costruendo, nel qui ed ora, che potrà
essere diverso da ieri e da come sarà domani: una continua evoluzione, attraverso cui e per
mezzo del quale la terapia stessa si evolve e si realizza (Fransella, 1995). Si gioca all'interno di
costrutti di ruolo, che permettono o inibiscono l'espressione della socialità all'interno della
relazione. Ecco perchè è necessario che il terapeuta abbia ben chiaro cosa sta accadendo nella
stanza della terapia, verso dove sta tendendo il cammino comune. Kelly (1991) ha sottolineato
come questo aspetto sia centrale anche perchè strettamente connesso con i costrutti di
dipendenza della persona. Se verrà utilizzato quello che Kelly ha definito transfert primario, di
tipo prelativo e quindi fortemente strutturante, sarà molto difficile per il terapeuta far entrare
realmente il cliente nel suo laboratorio. Si fermerà sospettoso sulla soglia, convinto che quello
che c'è oltre quel varco lui lo conosce già, attraverso le sue anticipazioni, e non lo metterà in
discussione. Per poter utlizzare più produttivamente il processo di transfert, è auspicabile che il
cliente impieghi “il transfert proposizionale o secondario, dove vengono trasferite solo
selezionate caratteristiche, impiegate come costruzioni provvisorie” (Epting, 1990, p.101). Ma
che ruolo gioca il terapeuta per il paziente? E viceversa? E' rischioso il caso in cui diventi colui
che provvede a tutti i bisogni del cliente (Epting, 1990, p.101-102): è necessario che il
paziente, all'interno della stanza di terapia, sperimenti se stesso come individuo che dipende
da diverse persone e dal quale altri, a loro volta, dipendono, in un'equilibrata distribuzione di
dipendenza.
Da queste ultime riflessioni, inizia a farsi strada maggiormente l'immagine del terapeuta come
persona che, nella stanza del colloquio, forte dei sortutti professionali acquisiti, cerca di
districarsi fra i costrutti altrui, come all'interno di un roveto dove è necessario passare per
andare oltre. Si ferisce anche lui, ogni volta in modo diverso perchè diverso è l'incontro che
avrà avuto luogo. Nel capitolo dedicato all'incontro con l'altro, all'interno del testo curato da
Winter & Viney (2008), vari autori mettono l'accento sulla difficoltà, per il terapeuta, di
individuare prima, e mantenere poi, la “giusta distanza”, perchè la diade che forma con il
paziente non divenga né quella di due “stranieri in terapia” né tantomeno quella di una “unità
terapeutica”, caratterizzata da eccessiva fusione. Si fa riferimento qui al controtransfert già
citato in precedenza, a come il terapeuta costruisce il paziente e la relazione. Un esempio
clinico riportato in quelle pagine offre una chiara dimostrazione delle conseguenze che può
avere sull'intero percorso terapeutico un processo di transfert e controtransfert in cui entrambi
sono stati scarsamente riconosciuti e mal gestiti: il paziente se ne va, molla, non torna o
dilaziona le sedute. Come sarebbe andata a finire se non ci fosse stata la svolta decisiva
descritta nel testo?
Qualche nota stonata
Le letture svolte mi hanno permesso di comprendere più a fondo il significato di un termine, e
di ciò a cui fa riferimento, fino ad oggi per me poco chiaro e nebuloso. Tuttavia, ciò che a livello
razionale ho compreso e “assimilato” non risuona in ciò che provo all'interno dei colloqui
terapeutici che sto svolgendo. In cosa, mi domando, il mio modo di costruire l'altro, la persona
che ho di fronte, implica un processo diverso da quello del paziente che sta costruendo la
persona che appaio ai suoi occhi? Nell'accezione di controtransfert percepisco come una
reazione a ciò che il paziente mi rimanda, in un gioco di ruoli che ha luogo nella stanza di
terapia. Come se non nascesse dal terapeuta, ma fosse conseguenza di quello specifico
paziente. Ma cosa cerco, io, nella persona che entra nella mia stanza? Il nostro entrare in
relazione ha luogo in quel preciso momento ma io porto con me, nel mio bagaglio, le mie
costruzioni di ruolo rispetto ad altri significativi, che ricerco o rifuggo o temo in chi mi trovo di
fronte, ad un livello di consapevolezza che è spesso faticoso riuscire ad elicitare a me stessa
per prima. La teoria rappresenta il paracadute che talvolta mi trae in salvo, ma la relazione è
qualcosa che si costruisce e si gioca a molti livelli, e se la carte in tavola non sono tutte
scoperte, per il terapeuta, è probabile sbagliare la puntata.
Nella mia esperienza di tirocinio, inoltre, assisto quotidianamente a strutturazioni rigide dei
pazienti da parte dei singoli operatori, al punto che vengono identificati attraverso la sigla del
disturbo divenuto improvvisamente il loro soprannome. Ho cominciato a chiedermi quanto
questo dipenda dal servizio pubblico in cui lavoro, quanto dalla particolare tipologia di utenza
alla quale risponde, quanto dalla storia di ogni singolo che vi opera. A volte, durante le riunioni
d'équipe, restando in ascolto di quanto ciascuno racconta, ho come la sensazione che stiano
parlando di persone diverse, o di piccoli brani dello stesso cd: la melodia di fondo è la stessa,
ma ognuno la arrangia a suo modo, ognuno vi inserisce un pezzo proprio o toglie una nota che
gli sembra stonata. Nel rapportarsi poi alla singola persona, ciascuno proporrà la sua versione,
in una miscellanea di luci ed ombre che spesso rischia di oscurare ciò che l'altro può ancora
scegliere di essere.
Fino ad oggi, quando sentivo parlare di transfert e controtransfert, visualizzavo una partita di
tennis: una rete, due giocatori, una palla che viene rimbalzata da una parte all'altra, con esiti
diversi a seconda dell'effetto dato dall'uno e dall'altro. Un po' come se non potesse esserci
l'uno senza l'altro, un botta e risposta continuo e mutevole.
Oggi mi sembra di vivere qualcosa di più simile alle enormi arterie americane, con una
moltitudine di auto che sfrecciano a diverse velocità e in entambe le direzioni,
contemporaneamente. Questo implica che mentre guardo a me, non devo perdere di vista
l'altro, e viceversa.
Sono ancora lì
Il gruppo C7, a scuola, non è un gruppo terapeutico, ma un insieme di colleghi in formazione
che, come me, stanno imparando a comprendere come fare al meglio il lavoro di terapeuta,
proprio come auspicato da Kelly(1991). Tuttavia, tutte queste riflessioni nascono da quel week
end, da come mi sono sentita e da come tutto, da quel momento in poi, è cambiato per me e
intorno a me in quel contesto, e non solo. Ho fatto esperienza di cosa vuol dire “investire”
qualcuno dei propri costrutti, quasi a non vederlo più, e sperimentare poi cosa significa
scoprire che può andare diversamente e che quello che stai provando non era quello che avevi
anticipato. Ho sentito il freddo dentro me, la solitudine di essere in mezzo a volti costruiti
improvvisamente come estranei incapaci di fare niente per proteggermi ma con i quali, dopo,
ho potuto parlare e comprendere, e sono rimasti inermi solo in parte “come gli altri, allora”. Ho
visto che avevano in comune solo una parte, potevo vedere un tutto diverso. Ho sperimentato
su di me cosa vuol dire quando poi la luce si spegne, esci da quel posto protetto, e ti tovi sola
e hai di nuovo voglia di scomparire, proprio come allora. E ho capito quanto anticipare sempre
le stesse cose, anche di fronte a continue invalidazioni, mi abbia sempre fatto girare a vuoto,
ma rischiare di perdersi poteva essere troppo per chi voleva tenere ancora per un po' gli occhi
chiusi e la bocca serrata. Ho imparato che la sofferenza non ha voce non perchè non ci siano le
parole per dirla, ma perchè il silenzio che spesso la accompagna distrugge l'anima che ne è
testimone.
Chi ero io lì? E chi siete stati voi, per me?
Sono tornata da una paziente che vedo, dopo. Ho provato a chiedermi chi sono stata io per lei,
in questo lungo anno trascorso assieme, ma mi sono anche interrogata su chi fosse LEI per
me.
E' stato come incontrarla per la prima volta.
Riferimenti bibliografici
Epting, F.R. (1990). Psicoterapia dei costrutti personali. Introduzione alla teoria e metodica
operativa della tecnica terapeutica. Firenze: G.Martinelli & C.
Fransella, F. (1995). George Kelly. London: Sage Publications Ltd.
Fransella, F. (2005). The Essential Practictioner's handbook of Personal Construct Psychology.
London: John Wiley & Sons.
Galimberti, U. (a cura di, 1999). Le Garzantine: Psicologia. Torino: Garzanti.
Kelly, G. (1991). The Psychology of Personal Constructs. Volume two: Clinical Diagnosis and
psychotherapy.London: Routledge.
Pirandello, L. (1918). Così è (se vi pare). Milano: Fratelli Trevis Editori.
Winter, D.A., Viney, L.L. (2008). Personal Construct Psychotherapy. Advances in Theory,
Practice and Research. London: John Wiley and Sons.
Fly UP