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PIOVANI, LA RELIGIONE E LA STORIA
di Fulvio Tessitore
1. Perché ripubblicare a quasi quarant’anni di distanza dal suo primo apparire Da un temporalismo
all’altro di Pietro Piovani? E perché farlo ad apertura di un fascicolo di questo «Archivio» sempre,
tenacemente e testardamente, fedele al proprio programma di essere un luogo di ragionamenti
kulturgeschichtlichen e solo kulturgeschichtlichen?
Non intendo, certo, tradire l’intenzione e la sostanza argomentativa delle acute, appassionate,
graffianti pagine del Piovani concentrate – e ne fornirò, ancora una volta, una inedita
documentazione – su una tormentata definizione, e ricerca, del religioso nella modernità e nella
contemporaneità, che Piovani leggeva senza alcuna concessione alla chiacchierologia del “postmoderno” e connessa “fine della storia” o peggio, come oggi sembra dirsi, fine della civiltà
occidentale, guerra di civiltà, scontri di religione: tutte forme di negazione del moderno e fors’anche
del post-moderno, almeno quanto a intenzione dei suoi stessi più seri corifei, tuttavia anch’essi
interessati all’apparire piuttosto che all’essere.
Il discorso di Piovani fu, è e deve rimanere un discorso filosofico pur occasionalmente
provocato, un discorso di filosofia della religione, se si vuole di “filosofia pratica” o, come io
preferisco, un discorso etico-politico. Ma proprio perché fu tale e tale deve rimanere, del discorso di
Piovani non va smarrita la lucida preveggenza, che, com’è di tutte le indagini confortate dalla
consapevolezza del presente, sa sfidare la contingenza perché è, rispetto a questa, “severamente
inattuale”. Piovani, ragionando con impegno storiografico sul significato di Porta Pia nella storia
d’Italia e della chiesa di Roma a un secolo dall’evento epocale, apparve forse, anzi senz’altro fu,
riduttivo nella lettura del Concilio Vaticano II e però fu lucido scrutatore delle possibilità di
rinnovamento che si sarebbero aperte per la vecchia chiesa se avesse saputo essere degna del
coraggio del grande pontefice Giovanni XXIII, che, come pochi allora, avvertì il significato
profondo dei “segni dei tempi” che egli scrutava con autenticità di fede e con chiarezza di ragione,
coniugando, come pochi, il difficile, talvolta fin drammatico convivere di “verità” e storia. Allo
stesso modo, con non minore forza d’introspezione, Piovani capì le resistenze e le chiusure che lo
«scotimento» del Concilio avrebbe provocato nella vecchia chiesa impaurita, disperata dalla messa
in gioco della sua avidità di potere, fosse pure soltanto – come poche volte è stato – il potere della
organizzazione della fede, della guida delle coscienze religiose, insomma la gestione della religione,
di questa scegliendo con determinazione l’etimologia proposta da Lattanzio, da religare nel senso
del “vincolo” di pietà che unisce a dio (Divinae institutiones, IV, 28) con forte sottolineatura
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dell’obbligo connesso alla relazione, e lasciando da parte l’etimologia ciceroniana (De natura
deorum, II, 28) da relegere le cose che concernono il culto degli dei, col forte rilievo della
responsabilità personale nella relazione tra l’uomo e il suo dio. In altri termini Piovani avvertiva che
– ignara delle possibilità offertele dal crollo del temporalismo orizzontale del Papa-re; incapace di
vedere nel papa l’austera grandezza del manzoniano «re delle preci» – la chiesa di Roma, «non per
eccesso ma per difetto di mondanizzazione», rischiava, come ha sempre rischiato – e più ancora
rischia dinanzi alle sconvolgenti novità della secolarizzazione, che non sa leggere ma solo
condannare – di compromettere l’esperienza del cristianesimo nel senso (e il discorso – come si
vede – è coniugato al positivo) di sclerotizzare «l’umanizzazione della più ideale delle idee» nella
ossificazione della ripetuta tradizione contro l’evenienza della storia. In questo rischio Piovani
scorgeva tutta la grandezza, ma anche tutta la miseria del destino della Chiesa di Roma che, nel
proprio costitutivo trionfalismo, appariva incompatibile col carattere di «comunità etica tra
comunità etiche», che le sarebbe toccato di assumere, anche in ragione della via prescelta per
svolgere la propria vocazione sociale. Piovani, come scriveva in una lettera del 21 ottobre 1970, di
poco successiva alle pagine di Da un temporalismo all’altro, sapeva bene che la fiducia, la speranza
nella suddetta trasformazione, cristiana e non cattolica, potevano toccare «a chi sta nell’eresia», non
«a chi sta dentro la chiesa». E continuava, con una pagina di tormentata, assillante, drammatica
profondità. «La chiesa per il suo essere ha compiti e strutture riformabili ma irrinunciabili; anche se
si angustia nelle storiche crisi, deve pensare a superarle, deve augurarsi (trionfalisticamente o no) il
trionfo, la propagazione. Chi sta dentro la chiesa non può pensarla novamente catacombale, persino
se (…) ne rinnega secoli e secoli di grandiosa storia. Che chi, come me, sta fuori, può fare a meno
di rinnegare, anzi ammirare nella convinzione che le chiese non possono essere che chiese e le
eresie vere non possono essere che solitarie. Rosmini? È una mia prova: frettolosamente riesumato
tra gli affannosi respiri di una agonia istituzionale, rischia di ottenere l’applauso degli avversari non
convertiti che a parole; ma, inascoltato, condannato, grandeggia. La dialettica della vita religiosa –
mi disse una volta Capograssi – sta nel contrasto permanente tra il Papa e il Santo. Per mio conto io
ammiro solo il Santo, riconoscendolo proprio da questo: dall’essere incompreso dal Papa. Questa
incomprensione è ai miei occhi la condizione della sua santità. Non per niente, nel Vangelo, Pietro è
il Fondatore e al tempo stesso, il Rinnegatore, il Debole, il Disconoscente dopo avere per primo
riconosciuto. La logica della Chiesa è, inevitabilmente, una logica “temporale” in qualunque
“tempo”. La fine del temporalismo – in questo senso – non può essere che la fine della Chiesa,
l’avvento di una pluralità di libere e competitive istituzioni. A me è dato – magari – auspicarne
l’avvento, a lei, come cattolico, non è dato».
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Piovani aveva capito, pur dinanzi al Concilio, che la chiesa cattolica, appunto perché
cattolica, poteva essere capace di negazioni non di rinnegamenti, tanto da dover dire, con
spietatezza, che «una chiesa che nel giro di pochi decenni rifiuta o emargina l’originalità
speculativa di un Newman, di un Rosmini, di un Blondel è un’istituzione invincibilmente
autocondannata». È una chiesa costretta a trascorrere dal «temporalismo orizzontale» al
«temporalismo verticale», perseguendo e sviluppando la propria cattolicità, il proprio cattolicesimo
fattosi sempre più incompatibile con la cristianità, col cristianesimo. Ma così siamo al centro del
significato piovaniano di religione e di fede, che è il presupposto delle sue pagine del 1970 e
l’enunciazione della sua speranza, contrastante col suo realismo storico e storicistico, forse col
difetto di presbiopia, mai col peccato di miopia.
2. Che significa religione per Piovani?
Giova partire, pur in un rapido resoconto, da una pagina di vertiginosa altezza. In
Oggettivazione etica e assenzialismo (il libro postumo del 1981 che, con andamento forse
volutamente circolare, conclude la piovaniana trilogia della morale) si legge ciò che va inteso per
Exodus, 3, secondo la lettura di Eckhart. Scrive Piovani: «i pericoli del naturalismo tomistico sono
tanti da autorizzare il sospetto che tutto il Tomismo sia un tipico errore di lettura dell’Esodo. È il
sospetto che Maestro Eckhart insinua con tanto sottile acume da regalare per secoli all’intelligenza
cattolica più sensibile il dubbio che tutta la teologia positiva della Scolastica, per dimostrare troppo,
nonostante le sue fortune ecclesiali (o grazie ad esse) sia uscita fuori dall’orbita del Cristianesimo.
Per Eckhart esse est Deus significa che l’essere è soltanto di Dio, il solo che possa possederlo in
proprio: “Quod solus Deus ens proprie est, patet Exodi 3; ego sum qui sum”. Poiché l’essere è
diverso in dio e nelle creature, Dio come essere è, rispetto all’altro da sé, terminus principalis».
Questa pagina, complessa e superba, presuppone alcune fondamentali riflessioni del Piovani sul
valore e significato della filosofia del Cristianesimo. Una prima considerazione è relativa alla
persona (quella che York, in dialogo con Dilthey, definiva una «parola cristiana», ossia un concetto
cristiano). Tra V e VI secolo Boezio del De duabus naturis definisce la «persona (…) rationalis
naturae individua substantia», a cui si affianca il Cassiodoro dell’Expositio in Psalterium, secondo
cui «persona hominis est substantia rationalis individua sui proprietatibus a consubstantialibus
coeteris segregata». Partendo da qui, la tradizione del Cristianesimo poteva rintracciare nella
«incommunicabilis existentia» della persona le virtù, i pericoli e i rischi della autonoma
esistenzialità personale intesa quale individualità collegante umano e divino, mobile punto di
incontro tra esistenzialità individuata e razionalità universale. In altri termini, nella dichiarazione
con cui l’Essere afferma di essere perché è si può da un lato scorgere l’inutilità di chiedere perché
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l’Essere sia e dall’altro la naturalizzazione del pensiero e la razionalizzazione della natura, che
sottraggono alla molteplicità delle autonome persone ogni spazio di autonomia. Di ciò avvertito
Tommaso semplificò il problema e ne scansò i rischi con una ripresa del tema antico («Omne
individum rationalis naturae dicitur persona»), precisando subito che «Persona significat id quod est
perfectissimum in tota natura». Col che l’inquietante concetto, collegante l’umano e il divino, viene
sistemato dentro l’ordine ordinato della natura da cui tutto, fisicamente e metafisicamente, dipende.
Come precisamente dice Piovani «il concetto filosofico di persona è incasellato dentro un
ordinamento che, innovando e conservando, restaura l’universo dell’onniabbracciante tradizione
ellenica ed ellenistica. Così che la persona non è più un arduo problema da meditare ma una chiara
soluzione da commentare: è solo l’apprezzabile grado di uno sviluppo cosmico che
teleologicamente attesta la bontà di Dio distribuita nel creato». Da qui i ricordati «pericoli del
naturalismo tomistico» contestato da Eckhart. Il prezzo dei pericoli evitati (o almeno evitati finora,
e, in votis, evitandi in avvenire) è stato assai alto e non meno lo sarà in futuro. Per Piovani il
tomismo metteva in discussione quella che egli riteneva la «novità perturbante» narrata dal «più
tormentato passo del più tormentato degli Evangeli» ossia l’incarnazione del Verbo, la
Menschwerdung, il Dio fatto uomo, che è «la più storicizzata delle idee», la «più radicale
disintellettualizzazione
di
idee
del
mondo».
Per
tal
via
«col
cristianesimo,
veniva
disintellettualizzata la più eccelsa delle idee, l’idea di Dio, la quale, per perfezionare il suo essere
ideale, per completarsi soddisfacendo il suo bisogno di esistenza, esce dalla sfera dell’essere puro,
esistenzializzandosi». Secondo Piovani il tomismo a tutto ciò non sapeva restare fedele, se quella
disintellettualizzazione ed esistenzializzazione significa riconoscere «il valore sconvolgente della
presenza escatologica dell’umanizzazione di dio nel mondo», che «frantuma l’universalità
dell’ordine logico-fisico per pretendere che, nel mondo umano, i figli del Figlio dell’uomo si
facciano personalmente in grado di trovare, ognuno per se stesso, la propria universalità come
finitudine bisognosa di infinito». Chi vuole restare fedele a tutto ciò deve, leggendola con
originalità, riconoscere nella demitizzazione bultmaniana la vera “rivoluzione” nel cristianesimo,
nel senso che la parola evangelica è tirata fuori dalla mitologia vetro-testamentaria inessenziale alla
mitologia neo-testamentaria. Viene così negata la concezione del cosmo come luogo naturale e
sovrannaturale contenente l’uomo. Ossia si inaugura il «percorso dal Dio al Cristo», dove «il Cristo
rifiutato come aspetto di una mitologia cosmica decaduta è accolto come possibile decisione di ogni
individuo nella storia: contro l’imposizione includente dell’ordine sta ora la razionale responsabilità
dell’individuale decisione di ognuno». Si può dire che in tal modo Piovani sembra accogliere la
lettura marcionistica di Paolo (quale fu “storicisticamente” investigata da Harnack) che rende
inconciliabile il Dio irato e giustiziante dell’Antico Testamento e il Cristo dell’amore salvifico del
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Nuovo Testamento. Il Vangelo viene riferito all’individuo quale soggetto credente e conoscente che
si oppone, in termini immediati (la non “mediatizzazione” della storia rankiana) al Dio trascendente,
in modo da non essere costretto a considerare come parola ultima l’antitesi tra «grazia» (nuovo
spirito e libertà) e «mondo» (compresa la morale), come ha scritto Harnack in un punto importante
del suo Marcion. Das Evangelium vom fremdem Gott. In Piovani tutto ciò si riassume nel
fermentante intimismo cristiano, operante tra contrasti ed attacchi sempre crescenti, a partire da
Agostino. La conclusione è quella riassunta in una sua pagina suprema, che ha ragionato tutte le
ricchezze e tutte le miserie dell’umanesimo moderno e dell’umanismo contemporaneo, già presaga
degli sconvolgimenti della massificazione globalizzante. «L’uomo nevrotizzato, che ignora armonie
e si riconosce nell’angoscia come idea dominante, vive sotto il segno dell’Anticristo, in attesa più o
meno messianica del suo avvento, però, grazie all’angoscia, si risveglia nell’orto di Gethsemani,
vicino come non mai alla solitudine addolorata del Cristo. Morto il Dio di tutte le cosmogonie
teologizzanti, rinasce, nella comunanza sacrificale dell’agonia, il Figlio dell’uomo condannato
all’infamia della Croce, indelebilmente segnato da essa, contrassegno di tutte le contraddizioni»,
anche e soprattutto quella dell’uomo contemporaneo al quale il Vaticano II voleva, doveva, avrebbe
voluto e dovuto guardare, secondo la ispirazione giovannea, ossia secondo «il candore
ardimentoso» di colui che Piovani chiama, con eleganza partecipe, «l’uomo di buona volontà assiso
brevemente sul soglio pontificale», tanto brevemente che «non ha fatto in tempo neppure a toccare i
problemi religiosi del cattolicesimo moderno», e che, tuttavia, per la «sua intelligenza pastorale», ha
scosso da vir religiosus «l’albero decrepito perché almeno si liberi dei rami più secchi». Cosa che
ha terrorizzato i suoi successori, solleciti restauratori del Tomismo onde scansare i “pericoli” del
descritto processo della religione quale Piovani l’ha ricostruito. Ma prima di venire a questi
successori e a questo ritornante timore, bisogna domandarsi, appunto per toccare questi e questo
seguendo la lucida denuncia di Da un temporalismo all’altro, se la centralità del Cristo, la
cristologia piovaniana sia una cristologia della salvezza, ossia se è un abbandono della centralità
dell’uomo, dell’etica dell’uomo per aprirsi al dominio del religioso come rinnovata ultima forma di
teologia politica. Per farlo, per così ritenere bisognerebbe trasformare la piovaniana dialettica
dell’opposizione in dialettica della conciliazione. Bisognerebbe fare della «disperazione» per le
sofferenze e i dolori connessi all’incarnazione «una semplice introduzione alla speranza»,
disconoscendo «la drammaticità di ogni eventuale salvezza». Ma l’eventuale, non certa salvezza
non è quella del riscatto totale, indiscriminato d’una storia in sé soterica. L’eventuale salvezza,
«nonostante il contrario parere di alcune filosofie della storia di ispirazione cristiana», è salvezza
nella storia, quella, in fondo, ben scarsamente salvifica, dell’impegno umano che sa di non dovere
perché non può scansare sofferenze e dolori, una volta accettato il peso dell’esistenza sopportato
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sino alla fine, senza beatitudini, sconti, scorciatoie. Nella visione del Piovani la rappresentazione
del Figlio dell’uomo crocifisso indica «una crocifissione tanto dolorosa che nemmeno il
trionfalismo ottimistico della resurrezione riesce a riscattarla integralmente». Nella Croce, che si
staglia sul cielo celeste, simbolo di abominio, segno di imperfezione, «il patimento dell’uomo
condannato al tormento servile, flagellato, deriso, piagato, ucciso», si scorge l’esempio e il conforto
della vita morale e civile di ognuno. Si potrà dire che il Cristo di Piovani è il Christus patiens? Sì,
purché si sappia che questo Cristo non si carica né del peccatum mundi, né dei peccata in mundo
perché «la salvezza cristiana non riguarda, esteriormente, l’umanità nella sua generalità, ma,
interiormente, ogni individuo come rappresentante di quella umanità per cui persino Dio si è fatto
uomo», si è sacrificato, è stato deriso, umiliato, flagellato ed è morto. Ciò significa che la religione,
la piovaniana “religione dello storicismo”, confluisce nell’etica, è storicismo etico in quanto per lui
l’etica è l’oggettivazione che fa dell’individuo un universale. Vale a dire non è, non può essere una
religione mondanizzata (che, al contrario, è quella prescelta dalla Chiesa cattolica, ansiosa di
trascorrere da un temporalismo all’altro), per cui «l’ascensione al cielo per la conoscenza di Dio
avviene nella discesa agli inferi nella conoscenza dell’uomo». La chiesa mondanizzata non può farsi
«comunità etica tra comunità etiche», col che la cristologia di Piovani si confronta con la cristologia
del suo maestro, Giuseppe Capograssi, il quale – interpretando a suo modo il dio di Pascal e il dio di
Vico, che anche Piovani aveva, a suo modo, interrogato – scorgeva nella preghiera la suprema
esperienza dell’uomo, quella che fa nascere il «rapporto umano» tra i «protagonisti del dramma
umano» e tra loro e Dio stesso nel segno della pietà, che «Dio stesso ha bisogno di pietà, che alla
fine egli è come un mendicante, anzi il vero il solo mendicante che vi sia». Però in Capograssi
l’azione suprema della preghiera serve alla salvezza che riscatta la disperazione del finito, la
dimenticanza di Cristo propria dei moderni a loro volta abbandonati da dio. Ragion per cui, certo,
anche per Capograssi, la croce è il destino della vita, la legge della vita in quanto conclusione di una
tragedia che Paolo di Tarso aveva temuto e però pensando che di essa non sarebbe venuto il tempo:
Evacuata est crux Christi. Per Capograssi la croce non va “evacuata”, va vissuta nella salvezza,
quale che sia il costo di sofferenze e sacrifici della mondanizzazione della chiesa. Il contrario di
Piovani. Il quale, se vuolsi tentare una sintesi interpretativa di un discorso analiticamente complesso
e culturalmente raffinato, intendeva salvare, per dir così, la fede nella religione e della religione
compiendo un duplice movimento, uno lucidissimo, l’altro tanto rapido da apparire ingiusto
ermeneuticamente, e tuttavia entrambi coraggiosi. Da una parte, infatti, Piovani è convinto che la
chiesa cattolica, per preservare se stessa secondo le linee della sua secolare e grandiosa tradizione
(quella che le consente negazioni ma non rinnegamenti), non poteva non mancare l’occasione della
propria trasformazione, come aveva fatto nel 1870 con la risposta del Vaticano I a Porta Pia e come
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non poteva non fare col Vaticano II, del quale, perciò, egli sottovalutava fino a trascurare
l’attenzione prestata alle dimensioni istituzionali della chiesa riformanda: un’attenzione che rendeva
ingiusto Piovani perché l’avvertiva destinata al fallimento nel post-concilio, smarrito l’ardimento
religioso di Giovanni XXIII che, secondo la testimonianza indiscutibile della suprema parola,
ancora sul letto di morte, mostrava di aver capito ciò che andava capito: «non è il Vangelo che
cambia, siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio», attraverso la capacità di intendere i
rinnovati rapporti tra religione e società. D’altra parte, Piovani lasciava intendere che senza “la
religione dello storicismo” (un’espressione non sua) non poteva essere compreso il significato del
rapporto tra storia e religione, dello storicismo etico e critico-problematico in quanto chiamato a
riformare e rivoluzionare il significato di assoluto, seguendo Meinecke e Troeltsch, che ci hanno
insegnato come al vecchio “concetto di assoluto” non può affidarsi l’esigenza di garanzia e di
certezza se non nel senso di intenderlo come un cammino continuo di verificazione delle proprie
responsabilità (vogliamo dire, del proprio stato di grazia razionalmente imperscrutabile). In altri
termini si trattava, come si tratta, di superare l’esigenzialismo onto-teleologico dell’assoluto grazie
a un teleologismo senza telos, in quanto incapace di comprendere nel proprio destino il fine della
storia (ma proprio per questo, in grado di confermare il nesso tra divinità e mondo). In Piovani, in
termini sensibili alla religiosità pietistico-luterana, si trattava di scorgere nel Deus absconditus la
validità volta a volta particolare di un assoluto sconosciuto, che, pur persistendo, lasciava spazio al
mondo storico vivente la propria autonomia, senza cedere all’indifferentismo etico, bensì, al
contrario, rafforzando la responsabilità della scelta che non trova garanzie sicure se non in sé, nel
proprio effettuarsi. Al di qua di Weber e del nuovo storicismo fondabile sul pluralismo e
prospettivismo della weberiana «storia universale della cultura» che rivendica la “condizione del
relativo”, Piovani conservava fiducia nella religione monistica della religione dello storicismo
classico (diciamo così). Nel che vanno scorti i limiti del suo stesso storicismo. Questo però è altro
discorso, che qui non tocca, perché qui va soltanto rilevato, come si è tentato di fare finora, che cosa
sottintende la denuncia del “temporalismo”, irrinunciabile dal cristianesimo cattolico, dalla Chiesa
cattolica; che cosa significa la scelta di Piovani di essere cristiano ma non cattolico; che cosa
significa il passaggio da un temporalismo all’altro erede dell’antica sistemazione tomistica.
Ed oggi, l’oggi che stiamo vivendo, non mostra fino in fondo la lucidità presbite, se si vuole,
mai miope, del grande saggio di Piovani? Sono convinto di sì, perché esso, tra l’altro, è retto dalla
implicita consapevolezza della straordinaria trasformazione culturale (di categorie epistemologiche,
di valori etici, di regole comportamentali) che noi oggi vediamo, o dovremmo vedere, in tutta la sua
eccezionale forza rivoluzionaria, che può essere distruttiva qualora la si rifiuti o si cerchi di
utilizzarla con indotta semplificazione o tracotante strumentalizzazione ottusa, meschina,
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miserevole. Al contrario quella trasformazione può essere ed è costruttiva se la si ragioni con mente
pura, come Piovani (ed anche Capograssi) faceva.
3. Oggi la Chiesa cattolica dà ragione alla diagnosi di Piovani, che leggeva il Vaticano II in base
alle scelte del Vaticano I, e ne elude anche le residue speranze. E lo fa, con un singolare, avveduto
fino ad essere astuto, espediente dialettico.
Oggi il magistero della chiesa, per scongiurare i rischi rivoluzionari del Vaticano II, che le
avrebbe imposto rinnegazioni e non soltanto negazioni, chiude in una blindata parentesi il
rinnovamento istituzionale tentato dal Concilio e punta su una teologia priva di storia, imbellettando
le proprie grandi radici tomistico-medievali per disconoscere il farsi storico della verità, delle verità.
Non a caso, nel timore che la «propaganda conciliare» portasse a ritenere che «la chiesa non può
insegnare nulla che non sia rintracciabile nelle Sacre Scritture», il magistero della chiesa diffida
fino a condannare, ancora una volta come aveva fatto per secoli e fino alla persecuzione del
modernismo, la filologia, il metodo storico, convinto della «indeterminatezza» e «mutabilità» delle
«ipotesi storiche», entrambe inconciliabili con il presupposto che la chiesa ha in serbo la verità una
ed unica, la vera religio. Per dir di questa la teologia non può che essere discorso di verità e sulla
verità, che non può che essere unica e univoca, fondata sulla sintesi tra ragione e fede, che la
teologia deve dimostrare rinnegando, in virtù di un agostinismo tomisticheggiante, ogni
giustificazione della fede che derivi da una funzione diversa dalla «realtà del divino», dalla
distinzione tra conoscenza razionale e ordine cultuale. Al contrario, saldando tomisticamente il
cristianesimo consolidato nell’idea di dio che è tale «per natura» e ritenendo con la filosofia classica
di soddisfare così le «esigenze della razionalità filosofica», la religione fonda e si fonda sul nesso
indissolubile tra ragione e fede. «La fede cristiana rappresenta oggi come ieri l’opzione per la
priorità della ragione e del razionale», vede, come nell’Antico Testamento, dio precedere la natura e
spiega questa precedenza come non può avvenire né in base ad argomenti scientifico-naturalistici,
né grazie a ragionamenti filosofici, che prescindano dalla fede nell’«opzione cristiana
fondamentale», che ha assunto la razionalità nella religione. Siffatta assunzione ha davvero
completato il Logos classico traducendo la materialità della natura greca in natura compiutamente
logica, così da vincere il dualismo e consacrare il monismo dell’Essere razionale, a sua volta
rafforzato dal collegamento con l’ethos, come amore di creatore fino al punto di divenire
compassione nei riguardi delle creature, vale a dire pietas razionalmente e non emotivamente
fondata. Ogni tentazione di limitare, non dico negare, questa ellenizzazione del cristianesimo in
grado di fondare un «illuminismo cattolico» nel senso di una razionalità assoluta in quanto
assolutizzazione della fede nel Logos divino, significa rottura della religio vera. La rottura l’ha
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tentata l’illuminismo laico, riconoscendo il primato della razionalità scientifica che condanna al
relativismo etico per eccessiva concessione alla conoscenza come funzione, sviluppata dal Kant
della ragione critica, consapevole dei propri limiti. L’ha tentata il cristianesimo liberale, da Harnack
a Troeltsch e dopo Troeltsch, che non ha esitato a ridurre il cristianesimo come religione tra altre
religioni, negandone l’assolutezza consacrata dal principio che «la nostra ragione», la ragione
dell’uomo, «il nostro senso del vero e del bene» sono e non possono non essere «lo specchio di dio»,
che «è ragione» perché se così non fosse, sarebbe un «dio arbitro», il quale, come nel monoteismo
islamico, può persino contraddire la propria parola in virtù della propria assolutezza senza residui.
Vale a dire che la questione religiosa oggi sta nel recupero pieno del nesso ragione-fede, nell’uso
razionale della fede, che impone il «recupero» della presenza di dio nella vita degli Stati e nella
società fino al punto di riconoscere che persino l’Islam (da cui l’Europa cristiana deve, tuttavia,
difendersi) offre «una base spirituale valida per la vita dei popoli», «contro a un’Europa che rinnega
le sue fondamenta religiose e morali». Lo fa, lo ha fatto perché ha preteso di rompere il nesso
ragione-fede, facendo della libertà umana la misura della modernità (così sfociando nel relativismo
ridotto a indifferentismo etico) e tradendo lo stesso «Stato laico», che è un risultato della «decisione
cristiana fondamentale» quando afferma la «relatività dello Stato e il diritto proprio della ragione»
purché sussistano dentro l’equilibrio garantito dalla religione, a connotato essenziale della fede
cristiana, dentro l’ordine ordinato del tomismo. In altre parole si tratta di superare i limiti del
monoteismo propri del cristianesimo che ha conosciuto il significato sconvolgente della
incarnazione. Per tal via si può negare, forse, la «teocrazia politica» ma a condizione di affermare la
«teologia politica» nel senso di riconoscere che spetta alla chiesa definire e insegnare agli uomini le
regole del loro operare, affinché insieme razionale e fideistica sia la vita pubblica e la pubblica
moralità. Deriva da qui l’esile, volutamente e consapevolmente esile, distinzione opportunistica tra
«laicità positiva» e «laicità negativa», la quale dovrebbe servire a negare, senza suscitare il timore
non infondato provocato dalla nuova teocrazia politica conseguenza del temporalismo verticale, la
laicità «come esclusione della religione dai vari ambiti della società e come suo confine nell’ambito
della coscienza individuale». Negazione tradotta in moniti severi: «la laicità si esprimerebbe nella
totale separazione tra lo Stato e la Chiesa, non avendo quest’ultima titolo alcuno a intervenire su
tematiche relative alla vita e al comportamento dei cittadini: la laicità comporterebbe addirittura
l’esclusione dei simboli religiosi dai luoghi pubblici destinati allo svolgimento delle funzioni
proprie della comunità politica: da uffici, scuole, tribunali, ospedali, carceri, eccetera. In base a
queste molte maniere di concepire la laicità si parla oggi di pensiero laico, di morale laica, di
scienza laica, di politica laica. In effetti, alla base di tale concezione, c’è una concezione a-religiosa
della vita, del pensiero e della morale: una visione, cioè, in cui non c’è posto per Dio, per un
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mistero che trascenda la pura ragione, per una legge morale di valore assoluto, vigente in ogni
tempo e in ogni situazione. Soltanto se ci si rende conto di ciò, si può misurare il peso dei problemi
sottesi a un termine come laicità, che sembra essere quasi diventato l’emblema qualificante della
post-modernità, in particolare della moderna democrazia».
È una pagina assai chiara, che nasconde il forse involontario accoglimento dell’idea del «dio
tappabuchi» di Bonhoeffer. «Gli uomini religiosi – aveva scritto il teologo protestante – parlano di
dio quando le conoscenze umane (talvolta per pigrizia) si urtano nei propri limiti o quando le forze
umane fanno difetto – in fondo è sempre un deus ex machina che essi fanno apparire, ora per
risolvere apparentemente problemi insolubili, ora per farlo intervenire come la forza capace di
sopperire all’impotenza umana: per dirla in breve, essi (gli uomini religiosi) sfruttano la debolezza e
i limiti dell’uomo. Evidentemente questo modo di fare ha delle chances di durare fino al giorno in
cui gli uomini, con le loro forze, sposteranno in avanti i loro limiti e il deus ex machina diverrà
superfluo», quando la fede sarà diventata la traduzione etica di un impegno esistenziale, una
vocazione rivolta al mondo delle decisioni responsabili di uomini maturi, capaci di servirsi della
religione fino al punto di dare una «interpretazione non religiosa dei concetti biblici», nel senso di
non cercare e trovare altra garanzia che la propria fede. Idee alle quali, a differenza di Ratzinger,
avrebbe potuto sentirsi vicino Piovani. Ad ulteriore chiarimento della sua originale lettura del
cristiano convivere di religione e storia.
Appare qui – e può in ciò concludersi il confronto tra Piovani e la chiesa post-conciliare alla
ricerca della “normalizzazione” del Concilio per dare spazio al nuovo temporalismo – la grande
linea di discrimine, che è, per tanti versi, quella che passa nella lettura di Paolo, accomunando
quanti sono convinti che la “nuova alleanza” paolina si traduca in una teologia politica che non
intende abbandonare, ma al contrario conservare e mantenere più solido – come in Carl Schmitt – il
puntello di un ordinamento pubblico rappresentativo legittimato della sovranità di dio. Si tratta, in
sostanza e in altre parole, ancor più necessarie ad essere dette, della scarsa fiducia nell’autonomia
dell’individuo, nell’autonomia della persona fuori dell’ordine in cui la sistemò il naturalismo
tomistico, l’autonomia non garantita, anche se la teologia politica anziché essere affermata, in
termini apocalittici, dall’alto, si tenti di costruirla dal basso (con l’appello «passons aux barbares»
del nuovo temporalismo verticale, combattuto dal Piovani). Anche questa è una sottile negazione
dell’autonomia dell’individuo da cui è nata l’idea moderna del diritto e dello Stato, uno Stato al
tutto diverso da quello incapsulato dal primato della religione sostenuto dal Ratzinger, l’idea
moderna dei limiti della ragione, da Lutero a Pascal, dall’Illuminismo a Kant, da Vico
all’Historismus e alla Liberalität. Si tratta di riconoscere che ogni forma di teologia politica è
intrinsecamente, costitutivamente totalitaria, sia il totalitarismo politico o il totalitarismo
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fondamentalistico o il totalitarismo della storia assolutizzata nel neo-metafisico esclusivismo dello
spiritualismo assoluto. Lo storicismo critico di Piovani, la religione dello storicismo sono la più
netta negazione di siffatto totalitarismo in ogni sua immagine, che è sempre immagine e simbolo del
volto demoniaco del potere. Contro di questo lo storicismo critico, la religione dello storicismo
sono disposti a sfidare le grandi questioni della relatività nella consapevolezza della varietà del reale,
della pluralità dei veri e dei loro saperi: si tratta del rifiuto della smania dell’assoluto e
dell’ontologia in ogni sua configurazione. E tutto ciò nella consapevolezza della rifondazione
epistemologica dei criteri del conoscere, dei principi etici e delle regole comportamentali, che sono
le sfide dell’oggi e del domani, il compito dei nuovi saperi.
Ed allora, dinanzi alla tragica grandezza della restaurazione disperata dell’antica chiesa, che
costringe non il teologo ma il papa ad un contraddittorio andirivieni di negazioni e susseguenti
aggiustamenti verbali1, e a qualche scivolosa concessione al conservatorismo più becero sconfinante
nel razzismo; dinanzi al non meno grande e tormentato discorso della piovaniana “religione dello
storicismo”, non è d’uopo fermarsi sulla paccottiglia di pasticciati ripensamenti, ora timidi ora
tracotanti, del tipo di quelli che si arrovellano su credere e pensare, o sull’impossibile
identificazione di cristianesimo, cattolicesimo e laicità, per giocare strumentalmente con la
incompresa profondità del crociano «perché non possiamo non dirci cristiani», ridotto a manifesto
di “atei devoti” o, peggio, di reazionari camuffati. Fermarsi su ciò significherebbe inquinare un
discorso importante, destinato ad incidere, ora positivamente ora negativamente, sul modo d’essere
di un presente inquieto e inquietante, ricco di possibilità e povero di realizzazioni, gravido di futuro
e pesante di tradizioni decadute. Ad esso bisogna guardare con occhio lucido ed esperto, con mente
pura e onesta. Il contrario sarebbe blasfemia, ignorante, miserevole, impietosa. La blasfemia che
non sa suggerire il silenzio, il silenzio della preghiera che i nuovi cattolici, fedeli al magistero
pontificio, non sanno esercitare neppure dinanzi alla morte e al dolore che costa la morte, se questo
parlare può essere usato a vantaggio del temporalismo verticale. Miscredenti!
***
Ho preferito non dare nel corso del testo le precise collocazioni tipografiche delle citazioni
compiute anche nella speranza che inducano ad avvicinare direttamente i libri del Piovani e del
Bonhoeffer. Qui mi limito a ricordare di Pietro Piovani i libri a cui mi sono riferito:
1
Esemplare e clamoroso il caso della revoca della scomunica ai lefebvriani, seguito, non lo si trascuri, alla
reintroduzione del Missale Tridentino (quello della preghiera pro perfidis iudeis, per intenderci) e della successiva
ritrattazione con la giustificazione penosa che il Papa non sapeva delle posizioni negazionistiche dei lefebvriani. Una
giustificazione che è ancora peggio del grave antisemitismo del fatto in sé. Ma come, il Papa non conosceva le
condizioni della revoca di una scomunica? Ed allora che ne è della Chiesa trionfante ? Se fosse come è stato detto
bisognerebbe pensare che aveva ancor qui ragione Piovani quando parlava di «agonia istituzionale» della Chiesa. Che
possa vedersi al positivo in questo sfascio curiale una smentita delle fosche previsioni del Piovani nel senso di una crepa
nel temporalismo, anche quello orizzontale? Non potremmo che gioirne come liberali rispettosi della fede, in barba ai
poveri catafratti teo-dem.
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Giusnaturalismo ed etica moderna (1961; 2000); Filosofia e storia delle idee (1966); Conoscenza
storica e coscienza morale (1966; 1972); Princìpi di una filosofia della morale (1972; 1989);
Oggettività etica e assenzialismo (1981); Posizioni e trasposizioni etiche (1989); Indagini di storia
della filosofia (2007). Di Dietrich Bonhoeffer ho ricordato Resistenza e resa (1947; tr. it. 1965) e
Sequela (1937; tr. it. 1971). Di Joseph Ratzinger ho citato i saggi Verité du christianisme? (1999),
Europa. I suoi fondamenti spirituali ieri, oggi e domani (2004); L’Europa nella crisi della cultura
(2005); Rapporto sulla fede (1985); Glauben und Vernunft. Die Regensburger Vorlesung (2006).
Ho sempre tenuto presente l’informato e penetrante libro di G. Miccoli, In difesa della fede. La
chiesa di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI (2007). Ovvio è il riferimento ai miei lavori storicistici
dei quali mi limito a ricordare: Contributi alla storia e alla teoria dello storicismo (5 voll., 19952000); Nuovi contributi (2002) e Altri contributi (2007); Interpretazione dello storicismo (2006);
Contributi alla storiografia arabo-islamica in Italia tra Otto e Novecento (2008), e l’ancora inedito
Per la religione dello storicismo.
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