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Proprietà aneugeniche e clastogeniche dei - Padis

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Proprietà aneugeniche e clastogeniche dei - Padis
Proprietà aneugeniche e
clastogeniche dei campi
magnetici a frequenze
estremamente basse (ELF)
PROPRIETÀ ANEUGENICHE E CLASTOGENICHE DEI CAMPI MAGNETICI A
FREQUENZE ESTREMAMENTE BASSE (ELF)
ION UDROIU
SCUOLA DI DOTTORATO IN IGIENE INDUSTRIALE E AMBIENTALE
DIPARTIMENTO DI BIOLOGIA ANIMALE E DELL’UOMO
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI ROMA “LA SAPIENZA”
COORDINATORE: PROF.SSA IRENE FIGÀ-TALAMANCA (DIPARTIMENTO B.A.U.)
TUTORE SCIENTIFICO PROF. MAURO CRISTALDI (DIPARTIMENTO B.A.U.)
DOCENTI ESAMINATORI:
PROF. BRUNO BERTOLINI (UNIVERSITÀ “LA SAPIENZA”)
PROF.SSA RENATA COZZI (UNIVERSITÀ “ROMA3”)
PROF. STEFANO MATTIOLI (UNIVERSITÀDI BOLOGNA)
Diversi studi hanno esaminato le proprietà genotossiche dei campi magnetici a frequenze
estremamente basse (ELF), ma la tesi che questi campi posseggano le suddette proprietà
risulta controversa. Lo scopo di questa ricerca è stato quello di individuare un eventuale
danno genotossico in topi neonati ed adulti. A tal fine, il test dei micronuclei con colorazione
CREST è stato eseguito su campioni prelevati da 15 topi adulti e da 38 neonati esposti per 21
giorni ad un campo magnetico di 50 Hz e 650 µT.
I risultati ottenuti nei neonati indicano un aumento delle frequenze medie di eritrociti
micronucleati, sia CREST-positivi che CREST-negativi. Nel sangue periferico, la frequenza
di eritrociti micronucleati CREST-positivi, pur rimanendo bassa in confronto a quelle indotte
da noti mutageni, mostra valori quattro volte superiori rispetto a quella di topi neonati non
esposti. Inoltre, è stata rilevata una diminuzione significativa di eritrociti policromatici.
Negli adulti, sebbene si sia osservato un valore maggiore delle frequenze di eritrociti
micronucleati rispetto a quello di topi non esposti, l’analisi statistica ha evidenziato che tale
differenza non è significativa. Si può suggerire che in relazione ai campi magnetici ELF, i topi
neonati sono più sensibili rispetto agli adulti, così come avviene per altri agenti mutageni.
Infine, questi risultati potrebbero indicare che i campi magnetici ELF influiscono attraverso
diverse vie sull’integrità del genoma. In particolare, i dati riguardanti i micronuclei CRESTpositivi evidenziano la necessità di ricercare la possibile relazione tra campi elettromagnetici
ed aneuploidia, un fenomeno chiave per capire l’inizio della cancerogenesi.
3
1. Introduzione
5
2. Le radiazioni elettromagnetiche
2.1.
L’elettromagnetismo
2.2.
Frequenze estremamente basse (ELF)
2.3.
Normativa
7
7
9
12
3. Gli effetti biologici
3.1.
Epidemiologia
3.2.
Ione Calcio
3.3.
Radicali liberi
3.4.
Promozione tumorale
3.5.
Proliferazione cellulare
3.6.
Espressione genica
3.7.
Attivazione enzimatica
3.8.
Teratogenesi
3.9.
Ematologia
3.10.
Genotossicità
13
13
15
18
19
20
22
23
24
25
25
4. Il test dei micronuclei
4.1.
Descrizione citologica
4.2.
Test dei micronuclei
4.3.
Midollo osseo
4.4.
Fegato fetale
4.5.
Milza
4.6.
Sangue periferico
4.7.
Individuazione di aneuploidia
28
28
28
29
30
30
30
31
5. Materiali e metodi
5.1.
Disegno sperimentale
5.2.
Ceppi utilizzati
5.3.
Esposizione
5.4.
Prelievi
5.5.
Colorazione CREST
5.6.
Colorazione May-Grünwald
5.7.
Analisi statistiche
34
49
34
34
36
36
37
37
6. Risultati
6.1.
Ratti Wistar neonati
6.2.
Topi CD1-Swiss neonati
6.3.
Topi CD1-Swiss adulti
38
38
39
41
7. Grafici
45
8. Discussione
74
9. Sommario / Abstract
77
10. Bibliografia
79
11. Pubblicazioni e congressi
96
4
1. INTRODUZIONE
L’esposizione a campi elettromagnetici non è un fenomeno nuovo. Ciononostante, durante il
ventesimo secolo, l’esposizione ambientale a radiazioni elettromagnetiche di origine
artificiale si è costantemente accresciuta, a causa della crescente domanda di elettricità, delle
continue innovazioni tecnologiche e dei cambiamenti nei comportamenti sociali. Il problema
della possibile pericolosità dei campi elettromagnetici non ionizzanti è sorto nel secondo
dopoguerra – da principio soprattutto in ambito militare – come conseguenza dell’aumento
dei dispositivi utilizzanti questo agente fisico. In seguito, la diffusione delle applicazioni civili
dei campi elettromagnetici e l’utilizzo di tecnologie che li producono e diffondono
nell'ambiente (come la trasmissione dell'energia elettrica) hanno prodotto un notevole
aumento della loro presenza, provocando successivamente preoccupazioni ed allarmi non più
nelle sole categorie professionalmente esposte, bensì nell’insieme della popolazione. Ciò si
lega anche ad una sensazione di scarsa tutela dovuta altresì alla differenza fra i limiti di
sicurezza previsti dalle normative vigenti e le soglie a cui sono associati alcuni effetti (gravi
ma non del tutto accertati) legati alle esposizioni croniche. Difatti, le norme di sicurezza sono
basate sugli effetti accertati ovvero sui soli effetti acuti: interferenze sulla percezione
sensoriale e sull'attività motoria (per le basse frequenze) e riscaldamento dei tessuti (per le
alte frequenze). Tuttavia, un crescente numero di studi epidemiologici indicherebbero la
presenza di un rischio cancerogeno legato ad esposizioni croniche, anche per valori molto
bassi. Inoltre, il fatto che i campi elettromagnetici non possano essere percepiti
sensorialmente – e quindi l’impossibilità di avvertire l’esposizione – produce un senso di
insicurezza. Sebbene i vantaggi sociali delle applicazioni dei campi elettromagnetici siano
generalmente riconosciuti, i soggetti esposti avvertono una distribuzione disomogenea del
rischio.
In risposta ai crescenti interrogativi sui possibili effetti dei campi elettromagnetici,
l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha avviato nel 1996 un grande piano di ricerca
multidisciplinare, il progetto internazionale PEH-EMF.
Sul piano sanitario, i primi effetti nocivi riferiti come conseguenza dell’esposizione ad intensi
campi elettromagnetici (cataratta, sterilità) erano indiscutibilmente di natura termica, essendo
ascrivibili al surriscaldamento di alcuni organi bersaglio particolarmente vulnerabili
(cristallino, gonadi). Dal punto di vista normativo, si delinearono ben presto due diversi
approcci. Il primo, proprio dei paesi occidentali, vedeva negli effetti termici l’unico
meccanismo di azione e determinava, cosi, normative volte a tutelare gli esposti da un
eccessivo riscaldamento locale o sistemico. Il secondo, presente in Unione Sovietica,
considerava l’esistenza di una casistica di effetti non termici, collegati principalmente ad
alterazioni del sistema nervoso attribuiti ad esposizioni prolungate a campi elettromagnetici di
livelli anche molto bassi; tale criterio determinava limiti decisamente più bassi di quelli
termici (anche 1000 volte, in termini di potenza). Oggi, mancando un accertamento
quantitativo degli effetti non termici, la seconda impostazione è venuta meno e le norme di
sicurezza vigenti si riferiscono unicamente agli effetti termici (per le alte frequenze) ed agli
effetti acuti dovuti alle correnti indotte (per le basse frequenze).
Nel dibattito sui campi elettromagnetici, si pone spesso la domanda se questi inducano effetti
biologici. E’ indiscutibile che quando un organismo si trova in un campo elettromagnetico, ha
luogo un’interazione tra le forze del campo e le cariche e le correnti elettriche presenti nei
tessuti dell'organismo. Tuttavia, per poter parlare propriamente di effetto biologico, si deve
verificare una variazione a livello superiore, citologico, istologico o sistemico. Alla luce delle
attuali proprietà accertate dei campi elettromagnetici (prima di tutto nell’ambito della
magnetoterapia), quindi, l’interrogativo che va posto non è se questi producano degli effetti
biologici, ma come variano gli effetti biologici dei campi elettromagnetici al variare dei loro
parametri fisici.
5
Lo scopo di questo lavoro è stato quello di valutare possibili effetti genotossici in Roditori
esposti a campi magnetici a frequenze estremamente basse (ELF). L’esposizione è stata
condotta in vivo, vista l’importanza di riprodurre condizioni simili all’esposizione umana, sia
su individui adulti che neonati, visto l’interesse e l’attenzione generalmente rivolti al possibile
legame tra campi elettromagnetici e leucemie infantili.
6
2. LE RADIAZIONI ELETTROMAGNETICHE
2.1. L’elettromagnetismo
L’elettromagnetismo è quella disciplina della fisica che studia sia i fenomeni elettrici che
quelli magnetici: dal XIX secolo, infatti, è appurato che elettricità e magnetismo sono
intimamente connessi, tuttavia – in alcuni casi (come quello oggetto di questa ricerca) – è
possibile indagare separatamente la componente elettrica e quella magnetica.
Il campo elettrico viene descritto mediante un vettore E che in ogni punto della regione di
spazio indica la direzione, l'intensità ed il verso della forza che agisce su una carica
puntiforme unitaria positiva che venga posta in quel punto; l'intensità del campo elettrico si
misura in volt al metro (V/m). Le principali relazioni che legano tra loro campo elettrico e
carica elettrica sono la legge di Coulomb, che determina il vettore campo elettrico ad una
distanza r da una carica puntiforme Q:
(1)
ed il teorema di Gauss:
(2)
In condizioni statiche, un campo magnetico è una regione di spazio estesa intorno ad un
oggetto percorso da corrente elettrica (detto sorgente del campo), nella quale si manifestano
forze su altri oggetti percorsi da corrente elettrica. Il campo magnetico può essere descritto
mediante un vettore B detto induzione magnetica (o densità di flusso magnetico) riconducibile
alla forza che in ogni punto della regione di spazio si manifesta su una corrente elementare
che venga posta in quel punto, ovvero il valore del campo magnetico in un materiale, tenendo
conto dei fenomeni di polarizzazione magnetica che il campo stesso vi provoca. Essa è
calcolata dall'equazione:
(3)
dove m è la permeabilità magnetica del materiale e H è l'intensità del campo magnetico
(misurata in A/m); l'intensità dell'induzione magnetica si misura in tesla (T). La principale
relazione che lega induzione magnetica e corrente elettrica è la legge di Biot-Savart in forma
differenziale, nota anche come prima formula di Laplace, che esprime il campo magnetico
generato alla distanza r da un conduttore elementare lineare di lunghezza dl percorso da
corrente I:
(4)
dove µ0 è la permeabilità magnetica assoluta dello spazio libero.
Una delle caratteristiche più importanti del campo magnetico variabile nel tempo, perlomeno
per l'interazione con organismi biologici, consiste nella sua capacità di provocare correnti
elettriche all'interno di oggetti conduttori dove in assenza di campo esse non erano presenti;
questa proprietà è descritta matematicamente dalla legge dell'induzione di Faraday:
(5)
7
dove la linea chiusa Γ delimita la superficie Σ. Per frequenze fino ad almeno alcune centinaia
di kHz, le normative internazionali di protezione dai campi elettromagnetici riconoscono nella
densità di corrente indotta nei tessuti il principale parametro con cui correlare l'esposizione
agli effetti biologici che si manifestano negli individui esposti; è quindi questo il parametro
che occorre determinare a partire dalle caratteristiche del campo e dalle modalità di
esposizione. Nel caso dell'interazione dei campi elettromagnetici di bassa frequenza con gli
organismi biologici, una semplificazione comunemente impiegata è la cosiddetta
approssimazione quasistatica, che consiste in pratica nello sfruttare le piccole dimensioni
dell'oggetto esposto rispetto alla lunghezza d'onda. È possibile far vedere che in questo caso i
problemi di accoppiamento al campo elettrico ed al campo magnetico sono disaccoppiati e
quindi possono essere impostati e risolti indipendentemente. Il limite superiore di frequenza
per l'applicabilità di questo approccio discende dalla necessità che siano soddisfatte le due
seguenti condizioni: i tessuti devono poter essere considerati buoni conduttori e le dimensioni
e le distanze coinvolte devono essere piccole rispetto alla lunghezza d'onda interna o –
equivalentemente – rispetto alla profondità di penetrazione del campo elettromagnetico nei
tessuti. Sebbene a rigore le due condizioni suddette (specie la seconda) siano applicabili fino a
non più di 50-100 kHz, spesso si trovano assunte valide fino a qualche megahertz ed oltre.
Nei casi in cui è possibile applicare l’approssimazione quasistatica, il problema
dell’accoppiamento viene affrontato in due passi. Nel primo passo si risolve il problema
esterno all'individuo esposto, omettendo dalle equazioni le derivate temporali (che in regime
armonico sono proporzionali alla frequenza), cioè ponendosi in condizioni perfettamente
statiche. Questo conduce ad una valutazione sufficientemente accurata del campo elettrico e
del campo magnetico all'esterno dell'individuo e della densità di carica sulla sua superficie.
Nel secondo passo si reintroducono nelle equazioni le derivate temporali e si prende in
considerazione l'effettiva struttura interna dell'organismo, in modo da poter determinare la
distribuzione del campo elettrico interno e quindi della densità di corrente indotta, a partire
dai risultati del passo precedente. Alle basse frequenze, fino al centinaio di kHz circa, i tessuti
si comportano sicuramente come buoni conduttori nei confronti dell'aria circostante
l'organismo esposto. Per questo motivo, il campo elettrico non penetra significativamente nei
tessuti: tra il campo interno ad essi e quello esterno (in aria) sussiste la seguente relazione,
deducibile applicando all'interfaccia aria/tessuto il teorema di Gauss e la legge di
conservazione della carica elettrica:
(6)
dove ε0 è la costante dielettrica assoluta dello
spazio libero. In questo modo è possibile considerare l'organismo esposto come un oggetto
omogeneo perfettamente conduttore. Il campo elettrico esterno è perturbato dalla presenza
dell'organismo, in modo tale che le linee di forza ne sono perpendicolari alla superficie; di
conseguenza, sulla superficie stessa viene indotta una distribuzione superficiale di carica
elettrica. La variazione temporale della carica superficiale induce delle correnti elettriche
all'interno dell'organismo, che lo attraversano completamente (scegliendo preferenzialmente i
percorsi a minor resistenza, cioè i tessuti a più alta conducibilità) fino a scaricarsi a terra
attraverso le piante dei piedi. Le correnti indotte costituiscono la principale conseguenza
dell'esposizione; la loro intensità è proporzionale alla frequenza ed all'ampiezza del campo
elettrico:
(7)
come valore tipico, la costante di proporzionalità AE, in unità del sistema internazionale, vale
circa 3x10-9 in distretti importanti come la testa o la regione cardiaca.
8
I tessuti biologici sono pressoché trasparenti al campo magnetico; questo induce però delle
correnti in essi, che possono a loro volta generare un campo magnetico secondario in grado di
perturbare il campo impresso. È possibile dimostrare che la perturbazione (che dipende dalla
frequenza, dalla conducibilità dei tessuti e dalle dimensioni dell’organismo esposto) nel caso
dell’uomo è trascurabile per frequenze fino all'ordine del centinaio di kHz. La distribuzione di
campo magnetico è pertanto uguale a quella che si avrebbe in assenza dell'individuo esposto e
la densità di corrente indotta dalla sua variazione temporale può essere determinata mediante
l'applicazione della legge di induzione di Faraday (equazione 5); in questo modo è facile, per
esempio, dedurre la seguente soluzione approssimata, valida per una geometria sferica o
cilindrica con dimensione caratteristica L:
(8)
2.2. Frequenze estremamente basse (ELF)
La lunghezza d’onda e la frequenza sono due grandezze fondamentali dei campi
elettromagnetici. I quanti (costituenti le onde elettromagnetiche) di frequenza più elevata
trasportano più energia di quelli di frequenza più bassa (e lunghezza d’onda maggiore).
Alcune onde elettromagnetiche trasportano un’energia tale da essere in grado di rompere i
legami tra molecole. Nello spettro elettromagnetico, i raggi gamma emessi dai materiali
radioattivi, i raggi cosmici ed i raggi X hanno questa proprietà e sono chiamati “radiazioni
ionizzanti”. Convenzionalmente, sono definite tali quelle radiazioni in grado di provocare (a
condizioni normali) l’idrolisi. I campi i cui quanti hanno energia insufficiente per rompere i
legami molecolari vengono invece chiamati “radiazioni non ionizzanti”. I campi
elettromagnetici prodotti da sorgenti artificiali, che svolgono un ruolo di primo piano nel
mondo industrializzato – elettricità, radioonde e campi a radiofrequenza – si trovano nella
regione dello spettro elettromagnetico a lunghezze d’onda relativamente grandi e frequenze
relativamente basse (figura 1), ed i loro quanti non sono in grado di rompere i legami chimici.
Figura 1 – Le onde elettromagnetiche (da: Rossi P, Grandi C, Benvenuti F. Le Scienze quaderni n.109, 8089)
Le correnti alternate (AC) invertono il loro verso ad intervalli regolari e producono campi
elettromagnetici variabili nel tempo. Nei paesi europei l’elettricità cambia verso ad una
frequenza di 50 cicli al secondo, o 50 hertz. Di conseguenza, anche i campi magnetici
9
cambiano il loro orientamento 50 volte al secondo. Nell’America settentrionale e in Giappone
– invece – l’elettricità ha una frequenza di 60 Hz. I campi elettromagnetici variabili nel tempo
prodotti dagli apparecchi elettrici sono un esempio di campi a frequenza estremamente bassa
(ELF, extremely low frequency). I campi ELF hanno generalmente frequenze fino a 300 Hz.
Altre tecnologie producono campi a frequenza intermedia (IF, intermediate frequency), con
frequenze tra 300 Hz e 10 MHz e campi a radiofrequenza (RF) con frequenze da 10 MHz a
300 GHz. Gli effetti dei campi elettromagnetici sul corpo umano dipendono non solo dalla
loro intensità, ma anche dalla loro frequenza. I sistemi che forniscono elettricità, e tutti gli
apparecchi che la usano, costituiscono le principali sorgenti di campi ELF; gli schermi dei
computer, i dispositivi anti-taccheggio e i sistemi i sicurezza sono le principali sorgenti di
campi IF; radio, televisione, radar, antenne per la telefonia cellulare e forni a microonde sono
le principali sorgenti di campi RF. Questi campi inducono nel corpo umano delle correnti
elettriche che, se di intensità sufficiente, possono produrre vari effetti come riscaldamento e
scosse elettriche, secondo la loro ampiezza e la loro frequenza. Campi elettrici a bassa
frequenza agiscono sul corpo umano, esattamente come agiscono su qualunque altro mezzo
composto di particelle cariche. Quando i campi elettrici agiscono su materiali conduttori,
influenzano la distribuzione delle cariche elettriche sulla loro superficie e provocano un flusso
di corrente attraverso il corpo, verso la terra (figura 2).
Figura 2
Figura 3
I campi magnetici a bassa frequenza provocano la circolazione di correnti all’interno del
corpo. L’intensità di queste correnti dipende dall’intensità del campo magnetico esterno. Se
sufficientemente elevate, queste correnti possono provocare la stimolazione di nervi e muscoli
o influenzare altri processi biologici. Sia i campi elettrici sia quelli magnetici inducono
differenze di potenziale e correnti nel corpo ma, anche nel caso in cui si sia immediatamente
al di sotto di una linea ad alta tensione, le correnti indotte sono piccolissime in confronto alle
soglie necessarie per provocare scosse ed altri effetti elettrici (figura 3).
L’elettricità viene trasportata su lunghe distanze attraverso linee ad alta tensione. I
trasformatori abbassano queste alte tensioni per la distribuzione locale ad abitazioni e uffici.
Gli impianti per la trasmissione e la distribuzione, nonché i circuiti degli edifici e gli apparati
domestici sono responsabili dei livelli di fondo di campo elettrico e magnetico a frequenza
industriale in casa. Nelle abitazioni non situate vicino ad elettrodotti il livello di fondo
dell’induzione magnetica può arrivare fino a circa 0,2 µT. Direttamente al di sotto delle linee i
campi sono molto più intensi. L’induzione magnetica al livello del suolo può arrivare fino a
diversi microtesla. I livelli di campo elettrico al di sotto degli elettrodotti possono raggiungere
i 10 kV/m. Comunque i campi (sia elettrici sia magnetici) decadono con la distanza dalla
linea. A distanze comprese tra 50 e 100 metri le intensità dei campi sono normalmente al
livello di quelle che si incontrano lontano dalle linee ad alta tensione. Inoltre, le pareti
dell’abitazione riducono sostanzialmente i livelli del campo elettrico rispetto a quelli che si
incontrano in aree analoghe, all’esterno delle case. Le massime intensità di campo elettrico a
potenza industriale si trovano solitamente al di sotto di linee ad alta tensione. Invece, i più
intensi campi magnetici a frequenza industriale si trovano nelle immediate vicinanze di
motori ed altri dispositivi elettrici, nonché in apparati specialistici come i tomografi a
10
risonanza magnetica utilizzati nella diagnostica per immagini. Nella tabella 1 vengono
indicati i valori tipici dell’esposizione domestica.
Tabella 1 - Tipiche intensità del campo magnetico prodotto da dispositivi domestici a varie distanze
(Fonte: Ufficio Federale per la Sicurezza dalle Radiazioni, Germania, 1999). Le distanze di normale
funzionamento sono indicate in grassetto
L’esposizione dei passeggeri dei treni deriva soprattutto dal sistema di alimentazione. I campi
magnetici nelle carrozze passeggeri possono raggiungere diverse centinaia di microtesla
vicino al pavimento, mentre nelle altre zone del compartimento presentano valori più bassi
(decine di microtesla). L’intensità del campo elettrico può raggiungere i 300 V/m. Le persone
che vivono vicino a linee ferroviarie possono essere soggette a campi magnetici dovuti alle
linee aeree di alimentazione; a seconda del paese, questi campi possono essere confrontabili
con quelli prodotti dalle linee ad alta tensione. Va infine sottolineato, che in alcune nazioni la
corrente utilizzata dai sistemi ferroviari ha una frequenza di 16⅔ Hz, pari alla frequenza di
risonanza ciclotronica dello ione calcio. Nella tabella 2 vengono illustrati i valori di alcune
esposizioni professionali.
Fotocopiatrice
Fax
Videoterminale
Processi elettrolitici
Forni a induzione
Frequenza (Hz) Induzione magnetica (µT)
50
1,2
50
0,4
50
0,7
0/50
1.000/10.000
1/10000
1.000/6.000
Tabella 2 – Esposizioni professionali
11
2.3. Normativa
La maggior parte delle normative nazionali sono basate sulle linee guida elaborate dalla
Commissione Internazionale per la Protezione dalle Radiazioni Non Ionizzanti (ICNIRP,
International Commission on Non Ionizing Radiation Protection). Questa organizzazione non
governativa, formalmente riconosciuta dall’OMS, valuta i risultati scientifici che provengono
da tutto il mondo. Sulla base di un’approfondita rassegna della letteratura, l’ICNIRP produce
linee guida che raccomandano dei limiti di esposizione. Queste linee guida vengono
periodicamente riviste e, se necessario, aggiornate. Nella tabella 3 vengono sintetizzate le
linee guide ICNIRP.
Frequenza industriale europea (50 Hz)
Campo elettrico (V/m) Induzione magnetica (µT)
Limiti per l’esposizione
del pubblico
Limiti per l’esposizione
professionale
5.000
100
10.000
500
Tabella 3 - Sintesi delle linee guida ICNIRP (1998)
Dopo i DPCM 23/4/92 e 28/9/95, l’ultimo provvedimento legislativo riguardante la
protezione dai campi elettromagnetici è il DPCM 8/7/03 che fissa i limiti di esposizione ed i
valori di attenzione e degli obiettivi di qualità per la protezione della popolazione dalle
esposizioni ai campi elettrici e magnetici alla frequenza di rete (50 Hz) generati dagli
elettrodotti. Nel caso di esposizione a campi della frequenza di 50 Hz generati da elettrodotti,
non deve essere superato il limite di esposizione di 100 µT per l'induzione magnetica e 5
kV/m per il campo elettrico, intesi come valori efficaci.
Nella progettazione di nuovi elettrodotti in corrispondenza di aree gioco per l'infanzia, di
ambienti abitativi, di ambienti scolastici e di luoghi adibiti a permanenze non inferiori a
quattro ore e nella progettazione dei nuovi insediamenti e delle nuove aree di cui sopra in
prossimità di linee ed installazioni elettriche già presenti nel territorio, ai fini della progressiva
minimizzazione dell'esposizione ai campi elettrici e magnetici generati dagli elettrodotti
operanti alla frequenza di 50 Hz, è fissato l'obiettivo di qualità di 3 µT per il valore
dell'induzione magnetica, da intendersi come mediana dei valori nell'arco delle 24 ore nelle
normali condizioni di esercizio.
Per quanto riguarda l’esposizione professionale il limite massimo consentito è di 2 T mediato
nel tempo su una giornata di lavoro.
12
3. GLI EFFETTI BIOLOGICI
3.1. Epidemiologia
Wertheimer & Leeper (1979) hanno per primi evidenziato un’associazione tra ELF e rischio
tumorale. Lo studio ha rilevato come i bambini esposti ad elevati valori di campo – misurati
indirettamente – presentavano un rischio di leucemia più che doppio rispetto a quello
registrato nel gruppo di controllo. Diverse ricerche eseguite nel decennio successivo hanno
ribadito nella maggior parte dei casi questo risultato, rilevando anche associazioni con altre
forme tumorali, tanto nell’adulto quanto nel bambino (Tomenius, 1986; Savitz et al., 1988;
London et al., 1991). Con gli studi effettuati negli anni ’90, caratterizzati da una maggiore
attenzione metodologica, sono stati raggiunti dati attendibili e riproducibili che hanno
permesso di escludere un’associazione significativa tra esposizione ai campi ELF e diversi
tipi di tumori nell’adulto (Fulton et al., 1980; Lin & Lu, 1989; Myers et al., 1989; Feychting
& Ahlbom, 1994; Vecchia, 1997), mentre resta incerta quella con i tumori cerebrali (Cocco et
al., 1998; Cocco et al., 1999; Kheifets et al., 1999; Kheifets, 2001), mammari (Kliukiene et
al., 1999) e alquanto problematica quella con le leucemie infantili e i linfomi degli adulti
esposti per motivi professionali (Severson et al., 1988; Youngson et al., 1991; Verksalo et al.,
1993). Molte delle prime ricerche, infatti, presentavano carenze metodologiche e la presenza
di fattori confondenti (condizione economica, abitudini sociali, esposizione ad altre fonti
elettromagnetiche), spesso sottovalutati (Washburn et al., 1994; Mc Cann et al., 1998). In
molti lavori il campionamento si è dimostrato inadeguato, specialmente per il numero troppo
esiguo di casi esaminati; in altri, è stata criticata la stima indiretta dell’emissione EM ed il
trascuramento delle distanze tra linee di trasmissione e centri di distribuzione. Il valore delle
conclusioni tratte è stato sminuito dall’utilizzo di misure indirette e dall’impossibilità di
valutare l’esposizione reale, ), come accade – invece – per le ricerche riguardanti altre forme
di inquinamento, oltre alla limitata significatività statistica dei risultati conseguiti (Levallois et
al., 1995). Viceversa, si è anche sviluppato l’atteggiamento opposto, cioè la tendenza di molti
studiosi (Campion, 1997) a considerare aprioristicamente nullo il rischio e ad interpretare in
questo modo studi che indicano una problematica complessa. Le conclusioni di Linet et al.
(1997) hanno aperto un dibattito che ha indicato l’assenza di un aumento significativo del
rischio per le leucemie infantili per esposizioni uguali o inferiori a 0,2 µT, una soglia –
tuttavia – soggettiva come evidenziato da studi metodologici antecedenti (Wartenberg &
Northridge, 1991). Per valori di esposizione pari a 0,3 µT o superiori (ma inferiori a 0.5 µT),
si riscontra una elevata e significativa probabilità di rischio, pari a 1,72. Inoltre, il rischio
aumenta decisamente per esposizioni comprese tra 0,4 e 0,49 µT, con un RR di 3,38 per i dati
non appaiati e di 6,41 per i dati appaiati. Sintetizzando i risultati ottenuti da Linet (1997),
Feychting et al. (1997) e Kheifets et al. (1997), si è valutato che l’esposizione ai campi ELF
comporti un incremento di rischio pari o superiore al 20%. Un limite non trascurabile ha
gravato – e continua tuttora a gravare – sugli studi epidemiologici: l’insufficiente
considerazione delle variazioni temporali dell’esposizione e delle possibili sovrapposizioni di
fonti diverse d’emissione. Questo limite, insieme all’eterogeneità di criteri per valutare le
emissioni – configurazione di rete, misura della distanza rispetto alla sorgente, misurazione
diretta dei campi, esposizione professionale per categorie lavorative – rende spesso
impossibile il confronto tra gli studi effettuati ed il rischio stimato varia clamorosamente a
seconda del parametro utilizzato. Sono esemplificativi a riguardo, gli studi di Feychting &
Ahlbom (1993) e Pool (1990), ove, per un valore di campo magnetico medio > 0,2 µT,
monitorato continuativamente nelle 24 ore, la correlazione con l’incidenza di leucemia
mieloide acuta risultava pari ad una Odds Ratio di 1,7; il rischio relativo, nei medesimi lavori,
risultava prossimo all’unità se la stima dell’emissione veniva sostituita con la determinazione
del campo effettuata ad intervalli randomizzati (spot measurements). D’altra parte, va
aggiunto che l’eventuale presenza di fattori confondenti e di elementi pregiudicanti la
13
credibilità dei risultati si indirizza unicamente contro l’esistenza di una possibile associazione
tra esposizione ai campi EM e leucemia infantile (Wartenberg, 2001), per cui un risultato
negativo non costituisce di per sé prova sufficiente e, come è stato suggerito, ci ricorda che
“l’assenza di prova non è una prova di assenza” (Altman & Bland, 1995).
Più in generale, per quanto riguarda le neoplasie infantili (soprattutto leucemie, ma anche
tumori cerebrali e linfatici), i rapporti citati indicano un incremento del rischio per quanti
risiedono in prossimità di linee elettriche ad alta tensione. Il rischio relativo (RR) è stimato
mediamente attorno a 1,5, il che comporta un aumento del 50% della probabilità di contrarre
la malattia per gli esposti rispetto alla popolazione non esposta, un valore simile a quello
rilevato da una meta-analisi condotta dalla National Academy of Sciences degli Stati Uniti
(NRC, 1997). Questo dato, per l’Italia, dovrebbe tradursi in un aumento di circa 30 casi/anno
di leucemie infantili, per un totale di 530 decessi rispetto ai 500 attesi. Livelli di rischio
paragonabili, con RR compreso fra 1,3 e 2, sono stati confermati da altre tre meta-analisi
recenti che hanno consentito, inoltre, di evidenziare come il monitoraggio continuativo
dell’esposizione, rispetto a misurazioni estemporanee (spot measurements), sia il parametro
maggiormente attendibile e meglio correlabile all’effetto atteso. Rimangono, invece,
incertezze nella definizione di un valore soglia del campo: sembra certo che per valori uguali
o inferiori a 0.2 µT non si registri alcuna significativa variazione nel Rischio Relativo, mentre
non è ancora chiaro se la maggiore probabilità di contrarre una leucemia si associ a valori di
campo superiori a 0,2 o a 0,4 µT (Lagorio & Comba, 1998). Uno studio condotto da Ahlbom
et al. (2000) relativo ai dati forniti da nove indagini epidemiologiche ha preso in
considerazione un ampio campione, rappresentato da 3203 casi (bambini affetti da leucemia)
e da 10.338 controlli. L’esposizione veniva valutata sia indirettamente, sulla base della
distribuzione delle reti elettriche, che direttamente, sulla base di misure estemporanee o di
monitoraggi continui per 24/48 ore. Determinando il valore di campo per mezzo del
monitoraggio continuo, il rischio relativo risultava prossimo allo zero per gli esposti a valori
di campo < 0,4 µT, mentre per la frazione di campione cronicamente esposta a valori ≥ 0,4 µT
il rischio relativo aumentava a 2 (OR 1,27-3,13, p < 0,002), confermando studi precedenti
(Michaelis et al., 1998), a fronte di un RR= 1,24 stimato per mezzo della distribuzione di
frequenza computata sulla base della sola configurazione delle reti elettriche; tale rilievo
evidenziava la necessità di disporre di dati realmente misurati, e non già presunti, per ottenere
stime di rischio attendibili. L’aggiustamento calcolato per eventuali variabili confondenti non
modificava i risultati ottenuti che permettevano agli autori del lavoro di concludere che, il
rischio determinato per la frazione esposta a valori ≥0,4 µT, “molto improbabilmente poteva
essere ascritto alla variabilità del caso”. Per quanto tale rischio possa essere basso, rispetto a
quello esplicato da altri fattori (fumo, alimentazione, inquinanti ambientali, etc.),
ciononostante non è nullo (Spurgeon, 1999) ed è presumibile, data l’ubiquitarietà delle
sorgenti elettromagnetiche, che la popolazione esposta sia sensibilmente più ampia di quanto
oggi non si ritenga e ciò determinerebbe un eccesso di casi di morte per leucemia rispetto a
quelli prudentemente preventivati tanto da far ritenere ormai ragionevole la rilevanza dei
campi ELF quali “probabili” cancerogeni (Rutter, 1998). Sarebbe utile osservare – inoltre –
come la “possibile relazione modesta” (Savitz, 2001) fra esposizione a campi magnetici ELF
e leucemia, sia caratterizzata da un rischio relativo dello stesso ordine di grandezza di quello
fra fumo passivo e cancro ai polmoni (Minder & Pfluger, 2001). Entrambe queste relazioni
sono di modesta entità, eppure solo la seconda è ritenuta valida pressoché da chiunque. E’ da
sottolineare, inoltre, come le stime attuali prendano in considerazione esclusivamente
l’associazione tra campi ELF e mortalità per leucemia, ma non affrontano affatto il rapporto
tra i questi campi e la morbilità per leucemia. Infine, non è da trascurare la possibile sinergia
tra campi ELF ed altri noti cancerogeni chimici (Kamedula & Kamedula, 1996) o radionuclidi
(Henshaw et al., 1996).
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3.2. Ione Calcio
L’ipotesi di una possibile relazione fra esposizione a campi magnetici e cancerogenesi
richiede – fra l’altro – una plausibile spiegazione biologica.
Per stimolare la replicazione delle cellule somatiche è necessario l’incremento dell’afflusso di
ioni calcio. Inoltre, molte proteine coinvolte nella regolazione del calcio sono implicate nella
cascata di segnali enzimatici necessaria per la regolazione della crescita cellulare. In base a
ciò, è stato ipotizzato che i campi ELF possano interferire con il funzionamento delle proteine
transmembrana e modulare l’affinità di legame per il calcio della calmodulina. Per sostenere
questa tesi, è stato proposto un modello secondo il quale un campo elettrico esterno oscillante
esercita una forza, anch’essa oscillante, su ogni ione situato sulle due facce della membrana
cellulare e che viene quindi spinto a muoversi dall’esterno verso l’interno. Se l’ampiezza della
vibrazione impressa allo ione dal campo ELF supera una soglia critica, lo ione oscillante può
trasmettere un falso segnale di “apertura”, oppure di “chiusura”, dei canali che sono regolati
da una differenza di potenziale elettrico (Panagopoulos et al., 2000).
I risultati dei primi studi sulla dinamica di flusso transmembranale dello ione calcio, condotti
principalmente su tessuti cerebrali, appaiono contraddittori: mentre Blackman et al. (1982)
hanno riscontrato un aumento del flusso di ioni calcio sotto l’effetto di un campo ELF, altri
ricercatori hanno rilevato l’effetto opposto (Bawin & Adey, 1976). Diversi studi hanno
utilizzato modelli cellulari semplici – come quello della diatomea Amphora coffeaeformis
(Smith et al., 1987) – monitorando aspetti morfo-funzionali facilmente rilevabili, come la
mobilità, in rapporto ad esposizioni di campo che consentissero di realizzare condizioni di
risonanza con la frequenza ciclotronica del calcio. La maggior parte di questi studi, tuttavia,
hanno prodotto risultati non riproducibili e poco convincenti; esiti positivi, invece, sono stati
ottenuti con colture di linfociti umani (Rozek et al., 1987), anche se i tentativi di replicare
questi risultati hanno avuto scarso successo (Prasad et al., 1991). L’ipotesi proposta
inizialmente da Liboff (1985) e Blackman (1985), e successivamente sviluppata anche sul
piano teorico da Zhadin & Novikoff (1998), ha ricevuto importanti conferme sul piano della
ricerca sperimentale e teorica, seppur limitata a studi di carattere fisico-chimico. Finora, però,
manca ancora un’efficace dimostrazione biologica di tale effetto. Nell’esperimento di Zhadin
& Novikoff, una cella di 8 cm3 contenente una soluzione 0,33 g/l di acido glutammico in
acqua e posta a temperatura ambiente viene mantenuta a pH opportuno e schermata da campi
magnetici esterni da una scatola di “Permalloy”. Due elettrodi d’oro , posti all’interno della
cella , sono mantenuti ad una differenza di potenziale di -80 mV (differenza di potenziale
propria della membrana di molte cellule animali). A causa di questa differenza di potenziale,
una corrente di 32 nanoAmpere fluisce tra i due elettrodi. Un solenoide posto nel fondo della
cella viene percorso da una corrente continua (DC) tale da produrre un campo magnetico
statico della dimensione del campo magnetico terrestre, mentre un solenoide ad esso coassiale
viene percorso da una corrente alternata (AC), capace di produrre campi variabili per intensità
e frequenza e paralleli quindi alla direzione del campo magnetico statico. Si osserva che se ad
un prefissato valore del campo statico, la frequenza del campo variabile coincide con la
frequenza ciclotronica dell’acido glutammico, qualora la sua intensità vari in un intervallo di
valori estremamente piccoli, per una durata di 15-20 secondi si produce un aumento
dell’intensità di corrente agli elettrodi del 30% circa. Frequenze diverse anche per frazioni di
Hz, non producono alcun effetto, mentre valori al di fuori dell’intervallo di intensità sopra
indicata non forniscono mutazioni del valore della corrente apprezzabili con il set
sperimentale utilizzato da Zhadin. L’esperimento, quindi, solleva un’importante problematica
nel campo della fisica. Infatti, a temperature distanti dagli 0° K, cioè nelle condizioni
sperimentali dell’esperienza citata, le forze lorenziane responsabili del moto ciclotronico degli
ioni, sono di almeno sette ordini di grandezza inferiori alle forze stocastiche agenti su di essi,
create dal moto browniano dell'ambiente che li circonda ed aventi intensità uguale a k*T
(dove k=costante di Boltzmann, T=temperatura in gradi kelvin), le quali si oppongono a tale
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moto. Tale paradosso, battezzato ‘Paradosso kT’, trova soluzione nell’approccio teorico
fondato sui principi dell’elettrodinamica coerente (Preparata, 1995). Nell’ambito di tale teoria
la materia condensata, è concepita come composta da due fasi che si compenetrano
spazialmente. Una fase coerente, in cui i componenti microscopici fondamentali (atomi,
molecole, ioni) oscillano in uno stato quantistico coerente (analogo a quello del laser) in
accordo di fase con specifici modi del campo elettromagnetico all’interno dei “domini di
coerenza”, domini spaziali detti “L.d.c.” , la cui estensione è inversamente proporzionale alla
frequenza dei modi risonanti. (nell’acqua L.d.c. è circa 500 Å); lo spazio governato da tale
condizione è talmente correlato che al suo interno la sua entropia , e quindi la sua temperatura
è nulla (Preparata, 2001). La seconda è la fase non coerente: essa è antagonista a quella
coerente, tanto più estesa percentualmente quanto più alta è la temperatura del sistema, capace
cioè di aggredire con il suo moto browniano le “isole” di coerenza. Essa si insinua negli
interstizi degli Ldc, comportandosi da un punto di vista fisico, come un gas imperfetto denso ,
dotato di entropia crescente al crescere della temperatura. Alla luce di tale teoria è stato
studiato e spiegato il comportamento anomalo della variazione di densità dell’acqua in
funzione della temperatura, nonché le sue proprietà di solvente in presenza di campi
magnetici (Arani et al., 1995). Gli studi teorici di sistemi di ioni condotti in conformità a tale
teoria hanno evidenziato che essi, in soluzioni acquose molto diluite, formano un sistema
perfettamente coerente anche a temperatura ambientale. Alla luce di questi modelli si aprono
interessanti prospettive per la comprensione dell’influenza dei campi magnetici nella cinetica
degli ioni e delle strutture polari organiche attraverso le membrane cellulari, e quindi sulla
loro influenza nei fenomeni omeostatici e sui ritmi circadiani (Novikov & Karnaukov, 1997).
Gli esseri viventi sono sottoposti al campo magnetico statico della terra (intorno ai 50 µT)
associato a campi ELF, variabili durante il tempo per intensità e frequenza. Una continua
sorgente di campi variabili è dovuta alle onde di Schumann (7,8 Hz) che si originano nella
ionosfera. Inoltre l’interazione tra vento solare e magnetosfera, modula campi magnetici
variabili, i cui parametri di frequenza e di intensità mutano nel corso della giornata, delle
stagioni e delle fasi lunari; tali campi sono di intensità e frequenze confrontabile con quelli
utilizzati da Zhadin nei suoi esperimenti e quindi entrambi i fenomeni producono frequenze
corrispondenti alle frequenze ciclotroniche di molti ioni e strutture polari organiche presenti
nel vivente e che quindi potrebbero essere fondamentali per l’equilibrio fisiologico degli
esseri viventi (Chiabrera, 1985). Va aggiunto, inoltre, che il sistema nervoso, come
documentato da recenti misure di magnetoencefalografia, è in grado di produrre campi
magnetici, le cui caratteristiche non sembrano essere semplicemente il “rumore di fondo”
dovuto all’attività bioelettrica ed è stata proposta l’ipotesi di una loro funzionalità organica
specifica (Rodriguez, 1999). A tuttora i pochi tentativi volti a raggiungere un riscontro
biologico del modello proposto si sono rivelati inconcludenti. Hendee et al. (1996), basandosi
sulla teoria di Liboff, ripresa da Lednev (1991) e dagli studi di Markov et al. (1993), hanno
verificato se l’affinità del calcio aumentasse per la calmodulina in presenza di un campo
statico e di uno variabile con valori di frequenza compresi nell’ambito del range di risonanza
ciclotronica dello ione. Il modello preso in considerazione era costituito dall’attivazione
calcio/calmodulina-dipendente della miosina-chinasi a catena leggera, già in precedenza
utilizzato negli studi di Lednev. Le modificazioni del complesso calcio/calmodulina venivano
monitorate registrando i cambiamenti ottici indotti dalla variazione di densità di un peptide
fluorescente capace di legarsi al complesso. Il sistema veniva esposto a due campi di 16 Hz
(corrispondente alla frequenza ciclotronica dello ione calcio anidro) con un valore di
induzione magnetica di 20,9 µT. Contrariamente a quanto osservato da Lednev non sono state
rilevate variazioni significative nella formazione dei complessi calcio/calmodulina. Anche la
teoria avanzata dalla scuola russa non sembra aver trovato conferme neanche quando
applicata ai canali ionici del potassio, rivestiti dal pentapeptide gramicidina A che circoscrive
uno spazio specifico per i cationi monovalenti. Diversi studi (Galt et al., 1993; Wang &
Hlandky, 1994a) hanno escluso che i campi ELF, modellati in modo tale da soddisfare alle
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condizioni di risonanza ciclotronica che prevedono l’associazione di un duplice campo statico
e variabile, possano interferire significativamente con i flussi cellulari del K+, pur
considerando un ampio range di valori di intensità magnetica (50-5000 µT) (Wang &
Hlandky, 1994b). Altri studi, invece, hanno prodotto risultati contraddittori. Esponendo
linfociti T Jurkat ad un campo di 50 Hz (con un’induzione magnetica variabile da 100 µT a
200 µT), si osservano infatti significative modificazioni nell’oscillazione spontanea dello ione
calcio il cui afflusso sale dai valori basali di 20-100 nM a 300-400 nM (Linstrom et al., 1993).
Tale effetto si accompagna ad un sostenuto aumento dell’inositolo 1,4,5-trifosfato (IP3) il cui
reclutamento costituisce una tappa primaria indispensabile nella cascata di reazioni che
consegue all’attivazione recettoriale dei linfociti T. I livelli di IP3 crescono da 2 a 40 picomoli
per milione di cellule molto precocemente, anche dopo brevi esposizioni al campo ELF, e tale
effetto richiede necessariamente la presenza di chelanti intracellulari per il calcio
(Korzhsleptsova et al., 1995). E’ tuttavia difficile poter quantificare esattamente i
cambiamenti che intervengono a carico del calcio intracellulare, dato che la proporzione di
cellule che sembrano rispondere al campo varia nei diversi studi che hanno replicato
l’esperimento in oggetto (Walleczek, 1992). E’ probabile che, come già rilevato in
precedenza, questo possa dipendere dallo stato di attivazione morfofunzionale in cui si trova il
tessuto o la cellula esposta al campo magnetico. Walleczek & Liburdy (1990) hanno osservato
come l’esposizione di linfociti a campi ELF (1-20 mT) per brevi periodi (30-60 minuti)
induca un aumento dell’afflusso di 45Ca2+, ma esclusivamente nelle colture pretrattate con
concanavalina A (ConA), una sostanza mitogena aspecifica ma di indubbia efficacia. Il flusso
dello ione era in questo caso strettamente correlato all’ampiezza del campo magnetico e a
quella del campo elettrico indotto, e dipendeva da un’afflusso attraverso i canali ionici e non
già dal rilascio dello ione da parte dei depositi intracellulari (Liburdy et al., 1993). La natura
dell’effetto varia altresì con le condizioni di esposizione e mostra un comportamento
paradossale: mentre l’apposizione di un campo sinusoidale (60 Hz, 6,5 mT) incrementa
l’afflusso dello ione di 4 volte nelle cellule trattate con ConA (di contro ad un aumento di 2
volte registrato nelle colture trattate con il solo mitogeno), quando le colture venivano
collocate in un campo rettangolare (3 Hz, 6.5 mT) l’ingresso dello ione veniva inibito nelle
cellule stimolate con ConA e che precedentemente erano risultate sensibili, mentre le colture
in precedenza refrattarie alla stimolazione con ConA presentavano un’aumentato afflusso di
calcio. Un risultato analogo è stato registrato da Conti et al. (1985a), che hanno bloccato
l’ingresso del 45Ca2+ nei linfociti umani stimolati con TPA o PHA, esponendo le colture a
campi di 3 Hz. Un più recente lavoro (Walleczek et al., 1994) ha ulteriormente confermato
come l’ingresso dello ioni calcio possa essere significativamente rilevato anche dopo
brevissime esposizioni e resti comunque intimamente dipendente dallo stato biologico della
cellula e specificamente dalla iniziale predisposizione ad un aumentato afflusso di Ca2+.
Livelli ancora maggiori di ingresso degli ioni calcio sono stati osservati in cellule ipofisarie
esposte a campi di 50 Hz (50 µT) per brevi periodi (30-180 minuti). Il calcio intracellulare
cresce da 180 nM a 350 nM, mentre per diversi valori di induzione magnetica (2, 10 o 250
µT) non si rileva alcun effetto (Barbier et al., 1996). L’effetto è limitato alle cellule lattotrope
ed è dipendente dalla disponibilità di Ca2+ extracellulare, un rilievo peraltro confermato da
altre ricerche che hanno permesso di accertare come l’integrità della pompa del calcio sia
indispensabile perché possa manifestarsi l’aumentato ingresso dello ione in presenza del
campo magnetico (Cho et al., 1999). Una interpretazione più sofisticata di questi risultati,
proposta recentemente (Lange, 2000), chiama in causa più direttamente il ruolo che alcune
proteine, come l’actina, rivestono nell’ambito dei trasferimenti ionici che avvengono non solo
a livello della membrana, ma anche nell’ambito dei diversi comparti intracellulari. I filamenti
di actina, che, tra l’altro concorrono a costituire il citoscheletro dei microvilli, presentano
proprietà di trasmissione non-lineare uniche, molte delle quali ricordano quelle dei
semiconduttori elettronici: i microfilamenti presentano un’elevata resistenza alla conduzione
dei cationi e questa resistenza viene sensibilmente attenuata da supplementi energetici forniti
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da campi termici, meccanici ed anche elettromagnetici. Poiché la trasmissione ionica è molto
lenta attraverso i polielettroliti lineari rispetto alla conduzione elettronica, solo campi
elettromagnetici a bassa frequenza possono interagire con i sistemi ionici condensati, un
effetto peraltro rilevato anche da altri autori che hanno documentato come i campi ELF
possano accelerare il trasferimento di elettroni (electronic tunnelling) nell’ambito dei sistemi
biologici complessi (Neshev & Kirilova, 1994). Le caratteristiche della conduzione ionica
studiate nei microvilli dei foto- ed audiorecettori depongono a sostegno di un fenomeno
accoppiato elettro-meccanico sensibile agli effetti dei campi ELF e tale da rendere ragione del
coinvolgimento dei flussi del Ca2+ nei processi che, a livello della superficie del microvillo,
regolano il trasposto di sostanze (glucosio, aminoacidi), la modulazione della differenza di
potenziale trans-membrana e la cascata di reazioni conseguente all’attivazione dei complessi
ormone-recettore.
3.3. Radicali liberi
Una spiegazione degli effetti biologici dei campi magnetici ELF si basa sulla ben nota
perturbazione della ricombinazione dei radicali liberi (Brocklehurst, 2002). Campi magnetici
con intensità pari o superiore a 1 mT esplicano effetti misurabili e significativi sulle reazioni
che coinvolgono radicali liberi con spin paralleli (radical pairs) interferendo sui ritmi di
precessione degli elettroni spaiati e quindi sulla durata della vita media dei radicali liberi. Una
reazione chimica può generare una coppia di radicali nello stato di tripletto con elettroni dotati
di spin parallelo. La coppia può interagire per dare luogo ad un prodotto non reattivo solo se
uno dei due radicali modifica il proprio stato adottando uno spin antiparallelo (rispetto a
quello dell’altro radicale) per rispettare il principio di esclusione di Pauli. Questa
trasformazione impone all’elettrone del radicale di disporsi attraverso le tre diverse condizioni
dello stato tripletto, ciascuna caratterizzata da un determinato livello energetico: T0, T-1 e T+1.
Per quanto i livelli energetici in questione siano “degenerati”, nell’ambito di un campo
magnetico statico le “degenerazioni” vengono rimosse e le differenze sono amplificate: se tale
intervallo è inferiore al valore soglia della reazione iperfina del sistema, i radicali creati nella
condizione di stato tripletto possono essere trasformati in radicali singoletti e quindi reagire
per dare luogo ad un prodotto caratterizzato da elettroni appaiati con spin antiparallelo. Se
l’intervallo è invece superiore al valore soglia, i radicali creati nello stato T-1 e T+1 non
possono interconvertirsi nello stato T0 e quindi reagire; la vita media del radicale finisce così
con l’aumentare considerevolmente e questo può sensibilmente incidere sulla cinetica delle
reazioni enzimatiche così come sulla produzione di altri radicali liberi. Tuttavia, se un campo
magnetico alternato – anche a bassa frequenza – viene sovraimposto al campo statico, il primo
è in grado di eccitare gli elettroni, cedendo loro un quantum energetico che consente di
conseguire lo stato singoletto e quindi di ricombinarsi per dare vita ad un prodotto non
reattivo (Batchelor et al., 1993). Campi magnetici, sia statici che alternati, ancorché
caratterizzati da bassi valori (da 0,1 µT a 1 mT), possono così interferire con reazioni
enzimatiche che utilizzano radicali liberi come intermedi, influenzandone il destino, la
produzione e la disponibilità. In effetti, diversi studi hanno provato l’esistenza di tali effetti
sia in sistemi in vitro che su cellule integre. Harkins & Grissom (1994) hanno dimostrato
come campi di intensità superiore a 50 mT possano indurre una significativa diminuzione (20%) del rapporto Vmax/Km dell’enzima B12 etanolammina liasi. Anche Taoka et al (1997)
hanno rilevato che gli enzimi vitamina B12-dipendenti possono essere influenzati
significativamente da campi elettromagnetici. Un altro lavoro ha mostrato come campi anche
di pochi mT possano interferire nella reazione del pirene con il dicianobenzene. In
quest’ultimo caso si producono consistenti quantità di radicali liberi che, nel momento in cui
si ricombinano, emettono fluorescenza: l’intensità della fluorescenza generata dalla reazione
fluttua in parallelo con le fluttuazioni del campo magnetico applicato alla soluzione (Hamilton
et al., 1988). Nelle micelle alchil-sulfonate e alchil-solfate, dove la fonte di radicali in stato
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tripletto veniva fornita dal benzofenone, l’applicazione un campo magnetico di un 1 mT
aumenta la concentrazione di radicali liberi che sfuggono dalla micella in misura correlabile
alla struttura ed al volume dello spazio in cui sono originariamente confinati; è probabile che
effetti maggiori possano essere osservati per radicali provenienti da precursori singoletti (e
non già tripletti), come avviene per la maggior parte delle reazioni biologiche (Eveson et al.,
2000). Sono meno evidenti, invece, i risultati conseguiti su cellule integre. Campi di 0,1 mT a
60 Hz non sembrano influenzare significativamente l’innesco delle reazioni respiratorie e la
produzione di radicali liberi nei linfociti di ratto, indotto dagli esteri del forbolo (Roy et al.,
1995); anche la produzione di ossido nitrico da parte di macrofagi di topo non è sembrata
essere influenzata da un ampio spettro di induzioni magnetiche (1-100 mT), anche se va
sottolineato che la frequenza prescelta (1 Hz) probabilmente era inadeguata (Mnaimneh et al.,
1996). Recentemente la scuola russa ha presentato i dati relativi al trattamento del germe di
grano, esposto, durante la fase di rigonfiamento, a campi ELF a bassa intensità (0,2-1 µT):
rispetto ai controlli, nel corso della fase finale del rigonfiamento, si osserva nei semi esposti al
campo elettromagnetico una significativa inibizione del rilascio proteico in soluzione ed un
sensibile ritardo di maturazione, probabilmente dovuto alla ricostituzione delle proteine di
membrana e sicuramente in relazione all’aumentato rilascio di radicali liberi ed
all’abbassamento del pH del mezzo (-0,4 pH), dovuto ad una accelerato trasferimento
protonico (Aksenov et al., 2000).
3.4. Promozione tumorale
Nella maggior parte dei casi, gli studi fin qui condotti non hanno consentito di rilevare un
chiaro effetto diretto dei campi ELF sugli acidi nucleici e la probabilità che possano indurre
una mutazione cromosomica tale da innescare direttamente l’attivazione di un qualche protooncogene sembra essere sprovvista di plausibilità, anche se l’effetto sulla cinetica di
produzione dei radicali liberi può rivestire un ruolo importante a riguardo, ma che deve essere
confermato e approfondito. E’ quindi sostenuto dalla maggior parte degli autori un ruolo
cocancerogeno, sostenuto dall’ipotesi che i campi ELF potrebbero interferire con il processo
di sviluppo neoplastico, aumentando le probabilità di proliferazione di cellule già in
precedenza trasformate. Rannug et al. (1993) hanno studiato i topi trattati con DMBA ed
esposti ad un campo sinusoidale di 50 Hz (con valori di induzione magnetica variabili da 50 a
500 µT), mantenuto per 20 ore al giorno per due anni. Nessun effetto cancerogeno è stato
rilevato, anche se, in animali sottoposti ad un campo intermittente è stata registrata una più
elevata, ma non significativa, comparsa di neoplasie cutanee. In ricerche successive (Mc Lean
et al., 1991), condotte su un modello murino molto simile, in cui gli animali venivano trattati
con DMBA e successivamente con TPA (un noto agente cocancerogeno), si è invece
registrato un più elevato indice di comparsa di neoplasie nella fase iniziale di induzione, ma
nessuna differenza rilevante nell’arco complessivo di tempo considerato. Risultati
contraddittori sono stati pubblicati da Mevissen et al. (1993), i quali hanno registrato sia
aumenti (+30%), sia diminuzioni nell’incidenza di tumori mammari in ratti esposti a campi di
50 Hz (30 mT) e trattati con DMBA. Va tuttavia sottolineato che le dimensioni ridotte dei
campioni di questi lavori rendono dubbi i risultati conseguiti. I lavori successivi dello stesso
gruppo, condotti con modelli metodologicamente più rigorosi, hanno confermato comunque
come l’esposizione a campi ELF possa favorire la crescita della ghiandola mammaria di ratto
(Loscher, 1993; Mevissen, 1996) e aumenti significativamente la frequenza di neoplasie
indotte da DMBA (Thun-Battersby et al., 1999), anche se tale agente veniva somministrato in
dosi subottimali, purché l’esposizione al campo (50 Hz, 100 µT) fosse adeguatamente
prolungata (24 ore al giorno, per ventisette settimane); in questo modello sperimentale, al
termine del trattamento con DMBA, l’incidenza di tumori mammari era del 64,7% nel gruppo
esposto al campo ELF, rispetto al 50,5% registrato nei controlli trattati esclusivamente con il
cancerogeno (p < 0,01).
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3.5. Proliferazione cellulare
L’ipotesi che i campi elettromagnetici possano influenzare la crescita e lo sviluppo di una
neoplasia, implica che tale effetto possa essere mediato da un insieme di interferenze che
coinvolgano una o più funzioni cellulari. Numerose ricerche sono state condotte per verificare
il possibile ruolo dei campi ELF a riguardo. L’esposizione di linfociti umani stimolati con
fitoemoagglutinina (PHA) a campi di 2,5 mT per sei ore (50 Hz) determina un maggiore
reclutamento delle cellule nella fase di replicazione con un aumento del tasso di duplicazione
del 20%; tale effetto, però, non si osserva se le stesse colture cellulari non vengono pretrattate
con il mitogeno (Cossarizza et al., 1989). L’incremento è molto alto per i linfociti prelevati da
soggetti adulti (+ 60%) ed ancora maggiore per i campioni prelevati da pazienti affetti da
leucemia linfocitica cronica (+ 100%). E’ importante sottolineare come tale risultato sia stato
confermato da uno studio indipendente che ha adottato le medesime condizioni sperimentali
(Rosenthal & Obe, 1989); nei lavori in cui l’esperimento è stato riprodotto modificando il
valore della frequenza (3 Hz) ed aumentando quello dell’induzione magnetica (4,5-6 mT), si è
paradossalmente registrata, invece, un’inibizione della replicazione linfocitaria (Conti et al.,
1985b; Mooney et al., 1986), suggerendo la probabile esistenza di una “finestra”, alquanto
ristretta e definita da ben determinati valori di intensità e periodo, entro i quali è lecito
attendersi un effetto promuovente sulla replicazione cellulare. Un effetto di promozione sulla
proliferazione cellulare è stato segnalato anche in altri tipi cellulari. Cain et al. (1993) hanno
osservato come esponendo colture di fibroblasti umani ad un campo di 60 Hz (0,1 mT) trattati
con TPA si ottiene un numero doppio di foci di moltiplicazione, con un incremento del
numero di cellule che entrano in mitosi del 200% circa. Un effetto promuovente la crescita di
cellule neoplastiche è stato osservato da Wei et al. (2000), i quali, esponendo cellule di
astrocitoma umano ad un campo di 60 Hz (3-12 mT per 3-72 ore), hanno amplificato la curva
di crescita della coltura; il campo induceva un significativo incremento della frazione
mitotica, valutandola sia in condizioni basali sia dopo somministrazione di due agonisti (il
carbacolo, un agonista muscarinico, e l’estere del forbolo, PMA), mentre nessun effetto
veniva esplicato su astrociti normali della corticale di ratto. La contemporanea aggiunta nel
mezzo di coltura di un inibitore specifico della proteina chinasi C (PCK), sopprimeva la
proliferazione indotta dal campo elettromagnetico, anche in presenza degli agonisti. Più
complesso e articolato è invece l’effetto prodotto da campi ELF sulla crescita e la
differenziazione degli osteoblasti umani. Lohmann et al. (2000) hanno osservato che
esponendo cellule umane osteblasto-simili (MG63) ad un campo magnetico pulsante di 15 Hz
si riduceva significativamente la proliferazione cellulare mentre, contemporaneamente,
aumentava la sintesi della fosfatasi alcalina, dell’osteocalcina, del TGFβ-1 e del collagene –
espressione inequivocabile di una più sostenuta differenziazione – rispetto a quanto rilevato
nelle colture di controllo non esposte al segnale. Al termine dei quattro giorni le colture
stimolate dal campo ELF presentavano piccole vescicole di matrice ossea, il che dimostra
chiaramente non solo come le cellule umane siano sensibili alla modulazione di un campo
elettromagnetico a bassa frequenza, ma anche come questo possa intervenire sui processi
differenziativi e replicativi interferendo sulla sintesi ed il successivo rilascio di numerosi
fattori enzimatici e di regolazione genica (come il TGFβ-1). In effetti, la capacità di stimolare
i processi differenziativi è stata esaminata in diversi sistemi cellulari che, in presenza di un
campo magnetico ad intensità crescente (da 0,1 µT a 0,1 mT) hanno mostrato una relazione
dose-risposta, valutata sulla base della sintesi e del rilascio di TGFβ-1, una delle più
importanti citochine preposte al controllo proliferativo ed alla differenziazione del fenotipo
cellulare (Aaron et al., 1999). Inoltre, i campi ELF sollecitano selettivamente e specificamente
l’espressione dei recettori di superficie dei linfociti e polimorfonucleati (PBMC) (Felaco et
al., 1999). L’effetto è maggiore nelle colture pretrattate con PHA e si accompagna ad un
maggior reclutamento in fase S dei PBMC. La differenza tra cellule esposte e non esposte è
minima se si prende in considerazione la densità di distribuzione dei recettori CD, ed è
20
massima se si analizza – invece – la sintesi de novo di mRNA codificante per alcuni
sottogruppi recettoriali, tra cui il CD4+ in primo luogo (Conti et al., 1999). I risultati prodotti
da queste indagini stimolano due considerazioni: la natura della stimolazione (inibizione o
promozione) esplicata sulla proliferazione cellulare dipende principalmente dalla frequenza e
dall’intensità di campo applicata; l’effetto è pressoché nullo nelle cellule normali quiescenti,
mentre è invece significativamente presente nelle cellule in replicazione fisiologica (come gli
osteoblasti) o in fase di duplicazione sotto stimolo mitogenico (come i linfociti e le cellule
tumorali). E’ pertanto probabile che l’effetto biologico esplicato dai campi ELF sia, da un
lato, rigidamente correlato alla natura e alla durata dell’esposizione (intensità, frequenza,
cronicità dello stimolo) e, dall’altro, dallo stato di attivazione funzionale dei tessuti esposti
(cellule in fase di replicazione attiva o iniziate per cancerogenesi). Sono presenti – in realtà –
effetti paradosso, riconducibili a differenze nei sottogruppi cellulari presi in considerazione,
come accade per esempio con le cellule di feocromocitoma PC12 trattate con NGF (Nerve
Growth Factor), o addirittura i campi elettromagnetici possono non produrre effetti rilevabili a
carico della replicazione o dell’apoptosi, come è stato osservato per una linea staminale
ematopoietica (FDPC) (Reipert et al., 1996; Reipert et al., 1997). E’ comunque importante
osservare che, nella maggior parte dei lavori citati, l’effetto esplicato sulla crescita dei tessuti
neoplastici è di tipo promovente e di intensità tale da sovrastare, in alcune condizioni,
l’inibizione farmacologica esplicata da antagonisti specifici. Infatti, in uno studio condotto
rigorosamente, in aderenza ad un modello semplice e riproducibile, Harland & Liburdy
(1994) hanno osservato come l’esposizione continua ad un campo di 60 Hz (1,2 µT) sia in
grado di sbloccare efficacemente l’inibizione citostatica esercitata dalla melatonina e dal
Tamoxifen sulla crescita di cellule di carcinoma mammario umano (MCF-7). Va aggiunto,
infine, come i campi ELF possano sensibilmente influire sulla replicazione mitotica e sul
destino differenziativo cellulare agendo sul delicato equilibrio che normalmente regola i
processi apoptotici. Campi magnetici statici a bassa intensità (0,6 mT – 6 mT) inibiscono in
modo dose-dipendente l’apoptosi farmacologicamente indotta da una varietà di agenti chimici
su diverse linee cellulari umane. L’effetto protettivo – che implica un rinvio indefinito della
cascata enzimatica che prelude all’attivazione dei processi apoptotici – è strettamente
dipendente dalla capacità del campo ELF di promuovere il trasferimento intracellulare di ioni
Ca2+ dal mezzo extracellulare ed è limitato a quei sistemi cellulari in cui è stato dimostrato
come l’afflusso di ioni Ca2+ abbia un ruolo anti-apoptotico. Sulla base di tali risultati, gli
autori concludono sottolineando come “il recupero delle cellule danneggiate può
rappresentare un meccanismo plausibile capace di spiegare come i campi magnetici, pur non
essendo di per sé mutageni, possano essere spesso in grado di aumentare la frequenza di
induzione di mutazioni e di tumori” (Fanelli et al., 1999). Uno studio successivo (Ghibelli et
al., 2000), ha confermato tale dato anche a carico dei tessuti tumorali coltivati in presenza di
agenti citotossici. L’esposizione a campi ELF (6 mT) di cellule di glioblastoma umano
multiforme trattate con etoposide riduce infatti drammaticamente la percentuale di morte
cellulare indotta dal farmaco: il tasso d’apoptosi passa dal 50% rilevato nelle colture non
esposte, al 27% registrato in presenza di campi ELF. Questa nuova linea di ricerche, per le
quali sono comunque necessarie conferme ed approfondimenti da parte di laboratori
indipendenti, offre un’interpretazione semplice a sostegno del possibile ruolo oncogenetico
dei campi elettromagnetici. La cautela è comunque d’obbligo, dato che anche in questo caso,
l’effetto esplicato sembra essere strettamente dipendente dallo stato iniziale di attivazione
della coltura cellulare considerata; uno studio condotto da Hisamitsu et al. (1997) ha infatti
osservato come i campi a bassa frequenza (50 Hz), mentre non inducevano alcuna sensibile
frammentazione dei nucleosomi a DNA (un marker biochimico dell’apoptosi) a carico di
linfociti umani e cellule polimorfonucleate circolanti, la stessa esposizione faceva invece
aumentare il tasso di apoptosi nelle cellule leucemiche (linee HL-60 e ML-1), già dopo un’ora
di stimolazione. Similmente, Santini et al. (2005) hanno osservato un aumento dei metaboliti
21
propri di processi apoptotici in cellule eritroleucemiche K562 esposte per due ore a campi
ELF di 1 e 5 mT.
3.6. Espressione genica
La possibilità che i campi ELF possano interferire con i meccanismi di regolazione e di
espressione genica ha sollevato grande interesse per le evidenti implicazioni derivanti da tale
ipotesi. Nelle cellule linfoblastoidi, l’esposizione ad un campo di 60 Hz (100 µT, per 30
minuti) induce quasi immediatamente un’accentuata trascrizione del gene FOS (da 2 a 5 volte
rispetto ai controlli) che torna a livelli normali dopo circa un’ora. Nello stesso esperimento
risultava maggiormente espresso il gene MYC, mentre il gene JUN presentava un
comportamento bifasico, caratterizzato da una ridotta espressione (-70%) nel corso dei primi
30 minuti, e da un incremento del 200-220% dopo circa un’ora. Queste modificazioni si
accompagnavano in parallelo ad un sostenuto incremento nel rilascio della PCK, i cui livelli
presentavano un picco tra i 15 e i 30 minuti dall’esposizione. La concatenazione di attivazione
genica sembra ricalcare fedelmente quanto avviene in corso di stimolazione mitogenica:
l’induzione del gene FOS è rapida e transitoria, quella del gene MYC consegue secondo un
ritmo analogo a quello osservato in corso di stimolazione con agenti proliferativi, sebbene
presenti livelli di espressione relativamente più piccoli. Questi dati, dunque, depongono a
favore dell’ipotesi per la quale i campi ELF possono innescare una cascata di segnali che
porta all’attivazione mitogena. Gli studi successivamente condotti in quest’ambito (Goodman
et al., 1994; Lin et al., 1994; Lin & Goodman, 1995) hanno di fatto sostanzialmente
confermato questi primi risultati. I due autori hanno rilevato, nelle cellule HL60, un
aumentato livello di trascrizione del gene MYC, della β-actina e dell’istone H2B, pari a tre
volte il valore normale, dopo esposizione per 20 minuti a cinque distinti tipi di segnale
elettromagnetico (45< ν <72, 0,5< µT < 570). E’ difficile correlare esattamente, secondo un
modello lineare, l’intensità della stimolazione esplicata dalle diverse esposizioni ad un
modello basato sulla curva dose-effetto, anche se risulta chiaro che la risposta viene ad
innescarsi dopo 4 minuti, per diventare quindi massima dopo circa 20 minuti e tornare a valori
di controllo dopo quattro ore. Un comportamento analogo è stato rilevato dagli stessi autori a
carico di numerosi altri tipi di cellule, esposte a campi a basse frequenze (60 Hz) e bassi
valori di induzione magnetica (5,7 µT – 1,1 mT): l’espressione genica viene stimolata nei
lieviti, nelle cellule di mieloma di topo e in tre distinti citotipi umani. In nessun caso sono
state osservate cellule insensibili agli effetti di tali campi. In studi più recenti, Tao &
Henderson (1999) hanno ulteriormente sottolineato l’importanza dei campi ELF nel
promuovere processi differenziativi a carico dello stesso citotipo (HL60) che, se esposto ad un
campo di 0,1 mT (60 Hz) anche per brevi periodi, acquisisce attività fagocitica così come
accade qualora la medesima sospensione cellulare viene ad essere trattata con sostanze
cocancerogeniche quali il TPA; il fatto che i campi ELF e concentrazioni sub-ottimali di TPA
esplichino congiuntamente un’azione additiva sulla differenziazione cellulare induce gli autori
a ritenere che entrambi i fattori condividano un comune target biochimico. L’importanza dei
risultati conseguiti da Goodman e Henderson ha riscosso grande interesse, ma ha anche
sollevato alcune perplessità, data l’assoluta univocità dei dati presentati. Gli studi finora
condotti da altri laboratori (Lacy-Hubert et al., 1995a; Lacy-Hubert et al., 1995b; Saffer &
Thurston, 1995a; Saffer & Thurston, 1995b) non hanno consentito di confermare i risultati dei
due autori, a dispetto del rigore e delle precauzioni che sono state adottate e che hanno
alimentato un articolato e prolungato dibattito. Riassumendo le posizioni assunte dai diversi
gruppi di ricerca, Berg (1999) ha recentemente stigmatizzato come esistano profonde
discrepanze tra i risultati conseguiti da non meno di sette distinti laboratori per quanto
riguarda rilevanti aspetti relativi agli effetti dei campi magnetici a bassa induzione (<0,05 mT)
sull’espressione genica (c-myc, c-fos, β-actina, istone 2B, URA-3) delle linee cellulari HL60,
elencando un’insieme di possibili cause: differenze nelle procedure di isolamento e
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frazionamento biochimico; fenomeni di interferenza mal controllabili nell’ambito dei campi
magnetici a bassissima intensità; parametri di campo di ampiezza eccessivamente limitata che
non consentono di costruire curve dose-risposta attendibili. Rimane, quindi, da chiarire se
esiste un ambito di parametri di campo per i quali possa essere supposta l’esistenza di un
nesso di causalità tra esposizione magnetica e fenomeni biologici osservati, qual’è il target
biochimico su cui si esplica principalmente l’azione dei campi ELF e, infine, qual’è il ruolo e
l’influenza che il “rumore” termico ed elettromagnetico proveniente da altre fonti esplica
sull’efficienza del campo ELF. A riguardo, sembrano più indicativi gli studi condotti
sull’attivazione dei proto-oncogeni e delle chinasi a questi correlate. Nel primo studio
realizzato da Uckun et al. (1995), l'attività della chinasi LYN espressa da una linea cellulare
di linfociti B è stata stimolata da un campo di 100 µT (60 Hz). L’effetto è risultato rapido (già
dopo 2 minuti dall’esposizione) e significativo. I risultati documentati dallo studio rivestono
un’importanza considerevole non solo per il rigore con cui sono stati condotti, ma anche
perché la linea cellulare presa in considerazione può costituire un ottimo modello di
prelinfoma. La LYN-chinasi è nota per essere innescata in seguito ad esposizione a radiazioni
ionizzanti (nelle cellule HL-60) e costituisce un marker di innesco di una reazione
proliferativa che può preludere alla trasformazione carcinomatosa. Anche altre proteine della
stessa famiglia (SRC, FIN e YES) sono note per la loro estrema sensibilità a condizioni di
stress biochimico e la loro attivazione si associa a quella del recettore per il PDGF, insieme al
quale concorrono ad innescare l’espressione del gene MYC. Un ampio studio condotto da
Loberg et al. (2000) sull’espressione di diversi oncogeni ha permesso di rilevare come
l’esposizione ai campi ELF possa esplicare un’azione selettiva e differenziata, sebbene non
sia possibile identificare uno specifico target genetico. Sono state prese in considerazione
colture di cellule umane normali (HME) e trasformate (HBL-100), così come cellule di
leucemia promielocitica, esposte per 24 ore ad un campo di 60 Hz, con valori variabili da 0,01
a 1 mT. L’attivazione di numerosi oncogeni è risultata significativamente influenzata dal
campo ELF, in alcuni casi con incrementi a carico della trascrizione pari al 150-250%, mentre
per altri geni è stata osservata una diminuzione anch’essa significativa (-50%). Tuttavia, non è
stata registrata alcuna differenza rilevante tra le tre diverse colture cellulari rispetto alla
stimolazione indotta, nel senso che le cellule in esame, tanto quelle normali, quanto quelle
“iniziate” o neoplastiche, hanno mostrato di rispondere nello stesso modo alla sollecitazione
messa in essere, senza che fosse possibile individuare una espressione specifica a carico di
una o più sequenze geniche. Questa considerazione, insieme al fatto che non è stata
individuata alcuna relazione dose-risposta tra intensità dello stimolo ed entità della risposta,
ha indotto gli autori a concludere che la ricerca non ha consentito di individuare per i campi
ELF un target genico plausibile. Uno studio più recente (Romano-Spica et al., 2000), condotto
assumendo come modello quello dell’interferenza dei campi ELF con la risonanza
ciclotronica del calcio, ha invece individuato un probabile oncogene – l’Est1 - che viene ad
essere attivato selettivamente in seguito ad esposizione alle onde elettromagnetiche.
Stimolando due distinte culture di cellule ematopoietiche e testicolari (cellule di Leydig), in
presenza di un campo a 50 MHz, modulato per l’80% a 16 Hz ortogonale al campo magnetico
statico, si è osservata una incrementata espressione dell’mRNA Ets1-correlato tanto nelle
cellule linfoblastoidi Jurkat, quanto nelle Leydig TM3. L’effetto è rilevabile esclusivamente
per un intervallo di valori ben definito (16 Hz, 0,2-0,4 µT con un campo costante di 45,7 µT);
ciò mette in rilievo come, probabilmente, gli effetti biologici dei campi ELF siano vincolati ad
un insieme di variabili di campo che individuano un codice informazionale a cui una o più
componenti della cellula sono sensibili.
3.7. Attivazione enzimatica
Numerose ricerche sono state condotte per evidenziare se e come i campi elettromagnetici a
bassa frequenza possano interferire con la sintesi e/o l’attivazione di un complesso di sistemi
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enzimatici coinvolti nei processi di replicazione e/o differenziamento cellulare. La ornitindecarbossilasi (ODC) è un enzima inducibile tanto da agenti mitogeni (come il TPA), quanto
da segnali intracellulari, e i suoi livelli aumentano velocemente in tutti i tessuti in fase di
attiva replicazione. Linee cellulari ottenute da linfomi umani, così come le cellule di mieloma
di topo, presentano valori di ODC 4-5 volte superiori rispetto alla norma, già dopo un’ora di
esposizione ad un campo di elettrico di 1 V/m (60 Hz) (Byus et al., 1987). Risultati simili
sono stati ottenuti su altre linee cellulari in condizioni di esposizione simili (Litowitz et al.,
1991; Litowitz et al., 1994), caratterizzate da valori di induzione magnetica non superiori a
poche decine di microtesla. Molti studi hanno evidenziato come i campi ELF stimolino sia
l’uptake della uridina da parte delle cellule, sia l’incorporazione di questa nella sintesi exnovo di RNA. Uno studio di Greene et al. (1991) ha evidenziato un incremento superiore al
60% nell’incorporazione di uridina da parte di cellule leucemiche HL-60 esposte ad un campo
di 1 mT (60 Hz) per 1 ora. Azadniv & Miller (1992), che hanno provato a replicare lo studio
nelle stesse condizioni, non hanno potuto rinnovare tale risultato, anche se conferme positive
sono venute dai lavori di Goodman et al. (1989) e Phillips et al. (1992). Il primo ha rilevato
una accentuata sintesi di mRNA nella ghiandole salivari esposte a campi di diversa intensità e
frequenza, senza riuscire tuttavia ad evidenziare come l’incorporazione di uridina costituisse
il target specifico della stimolazione magnetica, mentre il secondo ha evidenziato che i livelli
di uptake ed incorporazione della base azotata aumentano di 2-3 volte a seguito di brevi
esposizioni (2 ore) a campi pulsanti di 3,5 mT. In accordo con tali risultati, sono i dati prodotti
da Shvetsov et al. (1998), che hanno rilevato come esponendo virus del Sarcoma di Rous a
campi elettromagnetici alternanti, calibrati sulla frequenza di risonanza ciclotronica degli
amminoacidi ionizzati, si ottiene un’inattivazione funzionale della trascrittasi inversa.
3.8. Teratogenesi
Anche se la maggior parte degli studi finora condotti sono finalizzati ad indagare la possibile
associazione fra campi elettromagnetici e patologie neoplastiche, sono in costante aumento le
ricerche volte a rilevare eventuali proprietà teratogene (Brent, 1999; Levin, 2003). Furuya et
al. (1998), hanno rilevato come – esponendo topi a campi magnetici di 50 Hz con un’intensità
di 1 mT – si osservasse un aumento di testosterone nel siero a partire dal 13° giorno di
esposizione ed una riduzione della proliferazione e della differenziazione della spermatogonia
dal 26° giorno. Uno studio condotto sullo sviluppo in vitro di follicoli murini, inoltre, ha
evidenziato che i campi ELF potrebbero ridurre la capacità di questi di raggiungere uno stadio
di sviluppo, il che è un prerequisito essenziale per il successo riproduttivo (Cecconi et al.,
2000). Per quanto riguarda la teratogenesi vera e propria – ossia lo sviluppo di deformazioni e
anomalie durante la vita embrionale e fetale, nonché la presenza di aborti o riassorbimenti – i
numerosi lavori svolti hanno prodotto risultati contrastanti. Se da un lato ciò deve spingere ad
un più rigoroso disegno sperimentale (e, soprattutto, ad un aumento della popolazione
campionaria), dall’altro viene sollevato nuovamente il problema della confrontabilità degli
esperimenti. Questi, infatti, presentano una notevole eterogeneità, non solo per gli endpoint
studiati, ma soprattutto per le modalità di esposizione. A parte la natura del campo applicato
(frequenza e intensità), negli studi di teratogenesi è fondamentale il periodo di esposizione.
L’organogenesi, infatti, ha dei tempi precisi ed esposizioni durante tutta la gravidanza,
durante la sua ultima parte, oppure durante la vita embrionale o quella fetale, interesseranno
processi ontogenetici diversi.
Studiando le conseguenze dell’esposizione a campi magnetici ELF durante i primi 5-7 giorni
di gravidanza (in un modello murino), Svedenstål & Johanson (1995) non hanno rilevato
effetti né sulla frequenza di riassorbimenti, né sui livelli di calcio e progesterone nella madre.
Anche Ohnishi et al. (2002) e Huuskonen et al. (1998) non hanno riscontrato effetti per
quanto riguarda perdite di impianti, numeri di feti vivi, sex ratio, peso dei feti vivi, né sulla
frequenza di feti esternamente anomali; tuttavia, hanno rilevato un aumento della frequenza di
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feti con anomalie scheletriche e viscerali. Anche Mevissen et al. (1994) hanno riscontrato un
aumento significativo di anomalie scheletriche minori in ratti esposti a 30 mT durante la
gravidanza. Inoltre, Hassa et al. (1999), in seguito all’esposizione di ratte ad un campo
verticale di 50 Hz e orizzontale di 20 KHz, di 10 mG, per 8 ore al giorno per i primi 20 giorni
di gravidanza, hanno osservato anomalie maggiori e minori ed un ritardo dell’ossificazione
dei feti. Un altro studio (Lee et al., 2000), condotto esponendo continuamente tre generazioni
di topi a campi di 60 Hz a valori consentiti dalla normativa internazionale (0,5 mT), ha
rilevato nei feti della terza generazione frequenti anomalie del sistema cardiovascolare e del
cervello, in particolare cortecce cerebrali disorientate e primitive e frequenti segni di apoptosi
in questi tessuti.
E’ interessante aggiungere a questi studi anche quello effettuato da Rodriguez et al. (2003) su
vacche da latte, che ha evidenziato come l’esposizione a campi elettromagnetici possa
aumentare la durata del ciclo mestruale. Va infine ricordato, anche se non si tratta di
teratogenesi propriamente detta, lo studio di Freeman et al. (1999), che ha rilevato, nelle
foglie di piante di soia cresciute sotto tralicci da 675 kV, un maggiore livello di asimmetria
fluttuante rispetto alle piane distanti 100 metri.
3.9. Ematologia
I primi studi sugli effetti ematologici sono stati effettuati in Unione Sovietica su individui
professionalmente esposti: nel sangue di lavoratori impiegati in centrali di trasformazione da
500 kV sono stati osservate moderata trombocitopenia, leucocitosi, linfocitosi, monocitosi,
tendenza alla reticolopenia, diminuzione di emoglobina e del numero di eritrociti, ritardo nel
tasso di sedimentazione (Asanova et al., 1963). Recentemente, invece, Stelletta et al. (2004)
hanno riscontrato modificazioni degli antigeni sulla superficie dei linfociti T di mucche
allevate vicino a linee di trasmissione a 380 kV, con un’intensità di campo di 1,98-3,28 µT.
Studiando globuli rossi di coniglio, Fiorani et al. (1997) hanno rilevato – solo per valori
superiori a 500 µT – un aumento di metemoglobina. Un altro studio, condotto su ratti albini
(Ali et al., 2003) esposti per un mese ad un campo di 200 µT, ha riscontrato modifiche
strutturali nelle molecole di emoglobina, diminuzione di elasticità e permeabilità degli
eritrociti ed un deterioramento delle funzioni midollari.
Inoltre, Bonhomme-Faivre et al. (1998), hanno rilevato in topi esposti – dopo 20 giorni – una
diminuzione di leucociti, eritrociti, linfociti, monociti, emoglobina ed ematocrito; viceversa,
hanno registrato anche valori maggiori di MCV (volume corpuscolare medio) negli esposti
rispetto ai controlli, un dato che suggerisce un’anemia macrocitica forse dovuta a deficienza
di folato o vitamina B12. Taoka et al. (1997) hanno rilevato la soppressione di reazioni
enzimatiche vitamina B12-dipendenti, osservando emolisi e disturbi somiglianti ai sintomi di
deficienza da vitamina B12.
Merita attenzione, infine, l’esperimento di Vallejo et al. (2001) che, esponendo per due
generazioni topi OF1 (un ceppo con scarsa incidenza di leucemia) ad un campo di 50 Hz e 15
µT, hanno osservato un’alta incidenza di disordini leucoproliferativi, in particolare di
leucemie croniche e linfocitiche
3.10. Genotossicità
Diverse ricerche hanno indagato le proprietà genotossiche dei campi magnetici. Alcuni studi
sono stati compiuti su campioni prelevati da individui professionalmente esposti: sono stati
riscontrati aumenti delle frequenze di micronuclei ed aberrazioni cromosomiche in linfociti di
operatori di macchine fotocopiatrici (Iravathy Goud et al., 2004) e di addetti alle linee
elettriche e ferroviarie (Nordenson et al., 1984; Nordenson et al., 1988; Skyberg et al., 1993;
Valjus et al., 1993; Nordenson et al., 2001).
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Più numerosi sono gli studi condotti in laboratorio (soprattutto, in vitro). Diverse ricerche
hanno negato l’ipotesi che i campi magnetici ELF posseggano proprietà genotossiche (cfr.
Vijayalaxmi & Obe, 2005). Huuskonen et al. (1998) non hanno rilevato un aumento di
eritrociti micronucleati in topi adulti esposti per 18 giorni ad un campo magnetico di 13 µT; lo
stesso risultato è stato ottenuto da Svedenstål & Johanson (1998) con topi adulti esposti per
90 giorni ad un campo di 14 µT e da Abramsson-Zetterberg & Grawé (2001), usando un
campo della medesima intensità per 21 giorni, sia in topi adulti che neonati. Maes et al. (2000)
hanno esposto linfociti umani (a diverse intensità, fino a 2,5 T), senza trovare alcun effetto
significativo per quanto riguarda aberrazioni cromosomiche (CA), scambi di cromatidi fratelli
(SCE) e rotture del filamento singolo (SSB). Inoltre, Mc Namee et al. (2002) hanno riportato
un’assenza di effetti significativi sui livelli di rotture del DNA in cellule cerebellari di topi
immaturi esposti ad un campo magnetico di 60 Hz ed 1 mT per 2 ore; anche Testa et al.
(2004) non hanno rilevato danni al DNA (utilizzando molti saggi citogenetica) in emazie
umane esposte in vitro per 48 ore ad un campo magnetico di 50 Hz ed 1 mT.
D’altro canto, diversi studi hanno riscontrato risultati positivi solo in condizioni di coesposizione con altri agenti mutageni: campi magnetici statici (Tofani et al., 1995; Miyakoshi
et al. 2000), benzopirene (Cho & Chung, 2003; Moretti et al., 2005), raggi X (Ding et al.,
2003) e vinblastina (Verheyen et al., 2003). Questi risultati hanno prodotto una diffusa
opinione – ovviamente non da tutti condivisa – secondo la quale i campi magnetici ELF
sarebbero in grado di amplificare, ma non di iniziare, un evento mutageno.
Tuttavia, proprio in quest’ultimissimo periodo, stanno aumentando le pubblicazioni di
ricerche che rilevano proprietà genotossiche dei campi magnetici ELF in assenza di altri
agenti, sia in seguito ad esposizioni in vivo, che in vitro. Lai & Singh (1997a; 1997b; 2004),
esponendo ratti, sia per 2 che per 48 ore, a campi magnetici di 60 Hz, di 10, 100 e 500 µT
hanno rilevato aumenti di rotture al singolo ed al doppio filamento di DNA nelle cellule
cerebrali. Risultati simili sono stati ottenuti da Svedenstål et al. (1999) con cellule cerebrali di
topi CBA esposti per 14 giorni a 500 µT. Lai & Singh, inoltre, hanno dimostrato che il danno
al DNA veniva evitato pretrattando i ratti con melatonina, N-terz-butil-α-fenillnitrone (Lai &
Singh, 1997b), Trolox (un analogo della vitamina E) o 7-nitroindazolo (un inibitore della
sintetasi dell’ossido nitrico) – suggerendo quindi un coinvolgimento dei radicali liberi nel
meccanismo d’azione dei campi ELF – ed anche con il chelante deferiprone, indicando quindi
anche un coinvolgimento del ferro (Lai & Singh 2004). Anche Zmyslony et al. (2000) hanno
rilevato un aumento di rotture del DNA in linfociti di ratto esposti ad un campo di 50 Hz e 7
mT in presenza di cationi di ferro. Yokus et al. (2005) hanno invece evidenziato un aumento
significativo di 8-idrossi-2’-deossiguanosina (indicativo di un danno ossidativi al DNA) nel
plasma di ratti esposti a 970 µT per 50 giorni. Anche Wolf et al. (2005) hanno osservato in
cellule leucemiche HL-60, fibroblasti Rat-1 e fibroblasti diploidi WI-38 un picco di rotture
del DNA e di formazione di 8-idrossi-2’-deossiguanosina, dopo 24 e 72 ore di esposizione a
campi magnetici di 0,5 e 1 mT. Un altro studio, condotto su cellule murine m5S, ha
evidenziato un aumento significativo – e dose-dipendente – di aberrazioni cromosomiche di
tipo cromatidico per intensità di 5, 50 e 400 mT (Yaguchi et al., 2000). Ivancsits et al. (2002,
2003a, 2003b) hanno rilevato un aumento di rotture al singolo ed al doppio filamento di DNA
in fibroblasti umani esposti intermittentemente (5’ on/ 10’ off) ad un campo magnetico di 50
Hz ed 1 mT. Inoltre, Pasquini et al. (2003) hanno osservato un aumento nella frequenza di
micronuclei in cellule Jurkat esposte per 24 ore ad un campo di 5 mT e 50 Hz. Infine, Winker
et al. (2005) hanno rilevato un aumento, dipendente dal tempo, di micronuclei in fibroblasti
diploidi umani, che si è rivelato significativo dopo 10 ore di esposizione intermittente (5’ on/
10’ off) ad un campo magnetico con intensità di flusso di 1 mT.
Malgrado siano numerose le ricerche sui possibili danni prodotti dai campi magnetici
all’integrità genomica, pochissimi sono gli studi per quanto riguarda l’induzione di
aneuploidia, ovvero la perdita di interi cromatidi o cromosomi. Anche per quanto riguarda le
radiofrequenze, finora sono stati pubblicati solo tre studi, i quali hanno rilevato un aumento
26
significativo della monosomia per diversi cromosomi (Othman et al., 2001; Aly et al., 2002;
Mashevich et al., 2003). Sugli effetti aneugenici dei campi magnetici ELF, invece, le ricerche
pubblicate sono solo tre: due in condizione di co-esposizione con un noto veleno del fuso – la
vinblastina – ed un altro con i raggi X. In quest’ultimo, Ding et al. (2003) rilevarono che un
campo magnetico di 5 mT, a 60 Hz, induceva un aumento significativo di micronuclei
CREST-positivi in cellule CHO precedentemente esposte ai raggi X. Verheyen et al. (2003)
hanno riscontrato un aumento statisticamente significativo di micronuclei (senza però
discriminare fra quelli contenenti un intero cromosoma o un frammento di esso) in linfociti
umani esposti a 80 e 800 µT. Mailhes et al. (1997), infine, hanno rilevato un aumento
dell’iperploidia in oociti murini.
Si può affermare, quindi, che – malgrado la perdita di cromosomi sia correlata a sindromi
mielodisplastiche (Boultwood & Fidler, 1995; Wyandt et al., 1998), tumori solidi (Sandberg,
1990) e leucemia (Neben et al., 2003) – il problema dei possibili effetti aneugenici dei campi
magnetici ELF non è ancora stato preso seriamente in considerazione dalla comunità
scientifica.
27
4. IL TEST DEI MICRONUCLEI
4.1 Descrizione citologica
I micronuclei sono residui nucleari, contenenti cromosomi interi o frammenti di essi: hanno
1
1
forma rotonda o ovale, con un diametro che varia da /20 a /5 del diametro cellulare, a
seconda della quantità di cromatina contenuta. Tuttavia, alcuni micronuclei sono così piccoli
da poter essere rilevati solo con metodi di microscopia elettronica (Stich et al., 1990). Si
trovano nel citoplasma, fuori dal nucleo, a cui assomigliano per forma, struttura e
caratteristiche di colorazione. Queste inclusioni possono trovarsi pressoché in ogni tipo di
cellula, sia somatica che germinale. Un frammento di cromatidio, prodotto di un evento
clastogeno, non viene correttamente segregato all’anafase, essendo acentrico (cioè privo di
centromero) e quindi non verrà incluso in uno dei nuclei delle due future cellule figlie (Heddle
& Carrano, 1977). D’altronde se durante l’anafase il fuso subisce un danno (di tipo
aneugenico) sarà un intero cromosoma a venire malsegregato durante la cariocinesi. In questo
modo, nella cellula figlia, oltre al nucleo, si troverà anche un micronucleo. E’ possibile che
una cellula contenga più di un micronucleo, ma la presenza di questi in numero superiore o
pari a 3 viene considerato sintomo di apoptosi. Diversamente dai danni rilevabili solo nei
cromosomi visibili, cioè nelle cellule mitotiche, i micronuclei sono visibili in qualsiasi
momento del ciclo cellulare.
La presenza di micronuclei è più facilmente rilevabile negli eritrociti di mammiferi, essendo
questi delle cellule anucleate. Essi, infatti, sono noti da circa un secolo in ematologia (Howell,
1981; Jolly, 1907) come corpi di Howell-Jolly e non vanno confusi con altre inclusioni
intraeritrocitiche, come i corpi Heinz (precipitati di emoglobina dovuti a danni ossidativi), gli
anelli di Cabot (residui del fuso mitotico), i corpi di Pappenheimer (granuli ferrosi) o parassiti
(Plasmodium, Babesia, Anaplasma).
4.2 Test dei micronuclei
Le prime osservazioni su corpi citoplasmatici contenenti materiale nucleare e la cui origine fu
attribuita a danni cromosomici furono compiute su spermatozoi murini (Brenneke, 1937) e
cellule meristematiche (Thoday, 1951). Per la prima volta, l’induzione di micronuclei fu
dimostrata da Evans et al. (1959) su apici radicali di Vicia faba. Successivamente, Fliedner et
al. (1964) riportarono l’induzione di “cariomeri” (ovvero micronuclei) nel midollo di pazienti
irraggiati.
Successivamente, Schmid (Matter & Schmid, 1971) ha messo a punto il test dei micronuclei:
le proprietà genotossiche di una sostanza vengono valutate in base alla capacità di aumentare
la frequenza di eritrociti micronucleati nel midollo osseo di roditori di laboratorio. Il
conteggio avveniva sugli eritrociti policromatici (PCE), cioè su quei globuli rossi immaturi
(ma già anucleati) che ancora contengono Rna ribosomiale nel proprio citoplasma.
Successivamente, vista la relativa semplicità di questo test e la sua sensibilità, il numero di
specie utilizzato per questo saggio mutagenetico è costantemente aumentato. Oltre a quelle
vegetali (Guimarães et al., 2000), vanno segnalati i molluschi (Bolognesi et al., 2004), i pesci
(Ieradi et al., 1996a; Cavas & Ergene-Gozukara, 2005), gli anfibi (Zoll-Moreux & Ferrier,
1999), gli uccelli (Bhunya & Jena, 1996) e, ovviamente, i mammiferi. L’alto numero di specie
utilizzate è dovuto al fatto che il test dei micronuclei è stato spesso impiegato per studi di
biomonitoraggio. Tuttavia, anche in laboratorio, l’utilizzo di più specie è una buona prassi, in
quanto la sensibilità a diverse sostanze può essere specie-specifica (Friedman & Staub, 1977;
Madle et al., 1986). Il test dei micronuclei è stato applicato, sia in vivo che in vitro, su diversi
tipi di cellule di mammiferi: mucociti umani (Nersesyan & Adamyan, 2004), cellule uroteliali
(Basu et al., 2004), linfociti umani (Almassy et al., 1987; Crebelli et al., 2002), di bovini
(Scarfi et al., 1993; Piesova & Sivikova, 2003), di ovini (Sutiakova et al., 2004) e di cani
28
(Catena et al., 1994), eritrociti di ungulati (Ludewig et al., 1991; Balode, 1996; Cristaldi et al.,
2004), di gatti (Zuñiga-Gonzalez et al., 1998) e di conigli (Willems et al., 1982), e nei
roditori, su spermatidi (Allen et al., 2000), cellule epiteliali intestinali (Fenech & Neville,
1993), macrofagi alveolari (Voitovich et al., 2003), pneumociti (Whong et al., 1990), nefrociti
(Robbiano et al., 2004), epatociti (Uryvaeva, 1993), splenociti (Stephanou et al., 1998;
Sawant et al., 2001), ma, soprattutto, eritrociti. Infine, il test è stato validato nel 1997 (metodo
OECD TG 474, Mammalian Erythrocyte Micronucleus Test) e recepito nella legislazione
europea (Direttiva 2000/32/CE).
In questo modo è stato possibile sia il monitoraggio ambientale di siti più o meno contaminati,
sia lo studio delle proprietà mutagenetiche di un numero considerevole di sostanze: il test dei
micronuclei, dopo la sua validazione, è ormai uno dei saggi normalmente usati in tossicologia
per studiare i composti chimici o i nuovi prodotti farmaceutici. Fino ad oggi, esso è servito
per dimostrare gli effetti mutageni di numerosi composti chimici (Shelby et al., 1993;
Narayana et al., 1999), radionuclidi (Cristaldi et al., 1990; Cristaldi et al., 1991), raggi X
(Jenssen & Ramel 1978; Sutter et al., 1985), raggi gamma (Uma Devi et al., 1998).
E’ inoltre da sottolineare che il test dei micronuclei non consiste nella semplice osservazione
di cellule micronucleate, bensì nel rilevamento dell’aumento della frequenza di tali cellule
rispetto alla frequenza considerata normale per la specie utilizzata. A tale scopo, va ricordato
che la frequenza di eritrociti micronucleati aumenta in molte patologie legate ai tessuti
ematico e mieloide, quali mielodisplasia (List & Doll, 1999), anemia emolitica (Soderstrom &
Berg, 1970), perniciosa (Olinici et al., 1980) e megaloblastica (Knuutila 1979), leucemia
(Hogstedt et al., 1981), istiocitosi (Tatsumi et al., 1988) ed infezioni quali anaplasmosi e
babesiosi (Ormiston et al., 1989). Infatti, in quelle patologie in cui si assiste alla distruzione
degli eritrociti, l’accelerazione dell’eritropoiesi comporta un esaurimento delle scorte di acido
folico e di vitamina B12, la cui assenza – come dimostrato da Fenech (Fenech & Crott, 2002) –
induce un danno genotossico. Effetto che quindi può originarsi anche da una carenza
alimentare di queste due molecole essenziali per la formazione dei globuli rossi.
Va infine aggiunto, però, che aberrazioni simmetriche, come traslocazioni e inversioni, non
vengono rilevate in quanto non portano alla formazioni di micronuclei (Heddle et al., 1983).
4.3. Midollo osseo
Ad oggi, le cellule su cui è più facilmente applicabile il test dei micronuclei sono gli eritrociti
dei mammiferi. Questi possono essere prelevati dagli organi emopoietici: nella quasi totalità
dei mammiferi adulti, il principale tessuto emopoietico è il midollo osseo. La maggior parte
delle ricerche tossicologiche che fanno uso di questo test, utilizzano proprio il midollo osseo
dei roditori. Fra queste, numerosissime sono quelle svolte con campioni prelevati da Mus
domesticus (Matter & Schmid, 1971; Holden et al., 1997) e Rattus norvegicus (Matter &
Schmid, 1971; Holden et al., 1997), ma anche Cricetulus griseus (Matter & Schmid, 1971),
Mesocricetus auratus (Matter & Schmid, 1971; Friedman & Staub, 1977), Cavia porcellus
(Matter & Schmid, 1971), Mus spretus (Ieradi et al., 1998; Udroiu, 2002), Rattus rattus
(Cristaldi et al., 1985), Apodemus flavicollis (Abramsson-Zetterberg et al., 1997; Ieradi et al.,
2003), Apodemus sylvaticus (Abramsson-Zetterberg et al., 1997; Cristaldi et al., 1985),
Clethrionomys glareolus (Abramsson-Zetterberg et al., 1997; Ieradi et al., 2003), Microtus
agrestis (Abramsson-Zetterberg et al., 1997), Peromyscus leucopus (Meier et al., 1999),
Ctenomys torquatus (da Silva et al., 2000), Akodon montanus e Oryzomys nigripes (Bueno et
al., 2000). Restano ancora pochi, invece, gli studi condotti con campioni prelevati da specie di
altri ordini: Cryptoptis parva (Meier et al., 1999), Oryctolagus cuniculus (Willems et al.,
1982), Sus scrofa (Ludewig et al., 1991; Cristaldi et al., 2004), Bos taurus (Cristaldi et al.,
2004), Ovis aries (Cristaldi et al., 2004), Equus caballus (Cristaldi et al., 2004), Canis
familiaris (MacGregor et al., 1992), Uomo (Jensen & Huttel, 1976; Tanaka et al., 1984).
29
4.4. Fegato fetale
Durante l’ontogenesi dei mammiferi, altri organi svolgono la funzione emopoietica prima del
completo sviluppo del midollo osseo. Fra questi vi è il fegato, che partecipa alla produzione di
emazie durante la vita fetale (Sasaki & Matsumura, 1987; Keller et al., 1999; Rassokhin,
2002) e – in diverse specie – anche durante il periodo neonatale. In questo modo, Cole et al.
(1981) hanno attuato, su topi di laboratorio, una variante del test dei micronuclei noto come
‘trasplacentare’: questo prevede l’esposizione della madre e successivamente il rilevamento
della frequenza degli eritrociti micronucleati nel fegato dei feti. Gli autori hanno indicato
questo test come più sensibile del convenzionale test dei micronuclei sul midollo osseo, nel
rilevare un danno genotossico. Infatti, questo saggio può individuare le proprietà mutageniche
di sostanze risultate non mutagene con il test convenzionale dei micronuclei, in quanto alcune
classi di mutageni non vengono attivate nel midollo osseo (Trzos et al., 1978). E’ quindi
importante sottolineare che la grande sensibilità di questo test è dovuta al fatto che il fegato
(di feti e neonati) è l’organo in cui avvengono sia l’emopoiesi che l’attivazione dei
promutageni.
Il test dei micronuclei trasplacentare ha avuto una vasta applicazione in laboratorio, quasi
esclusivamente su topi (Chorvatovičova & Ujhazy, 1995; Goncharova et al., 2001), raramente
su ratti (Fumero et al., 1981; Maura et al., 1994) o su animali selvatici (Tommasi et al., 1990).
Inoltre, alcune ricerche sono state effettuate sui neonati, esposti durante la vita fetale (GomezMeda et al., 2004) o subito dopo la nascita (Kašuba et al., 2002; Bishop et al., 2004),
rilevando un’elevata sensibilità del test non solo a causa dell’emopoiesi epatica, ma anche
perché nel periodo neonatale si osserva un’accelerazione dell’eritropoiesi, condizione che
aumenta la sensibilità agli agenti mutageni (Bishop et al., 2004).
4.5. Milza
Nella maggior parte dei mammiferi, la funzione emopoietica della milza è confinata al
periodo perinatale (Tischendorf, 1969; Tanaka, 1998); in quest’organo, però, avviene la
maturazione degli eritrociti policromatici (Blue & Weiss, 1981), ovvero di quei globuli rossi
immaturi contenenti ancora il reticolo ribosomiale. Tuttavia, nei Roditori, sebbene il sito
principale della produzione di emazie sia il midollo, l’emopoiesi splenica continua anche
durante la vita adulta (Wolber et al., 2002). Per questo il test dei micronuclei, oltre che sugli
splenociti (Stephanou et al., 1998; Sawant et al., 2001), è applicabile anche a campioni di
eritrociti prelevati da milze murine. L’interpretazione dei dati, però, è problematica, in quanto
la milza non contiene solo i globuli rossi prodotti in situ, ma anche una porzione di quelli
circolanti.
Va infine aggiunto che quest’organo riveste una primaria importanza per l’applicabilità del
test dei micronuclei, in quanto – in molte specie (fra le quali l’uomo ed il ratto) – al suo
interno avviene la rimozione dei micronuclei dagli eritrociti circolanti (Chen & Weiss, 1973;
Schlegel & MacGregor, 1984). Quindi, l’utilizzo di una specie non adatta può determinare dei
falsi negativi (in quanto i micronuclei indotti non vengono osservati perché rimossi) oppure
dei falsi positivi se l’agente utilizzato è splenotossico (provocando, quindi, la mancata
rimozione dei micronuclei spontanei).
4.6. Sangue periferico
Mentre l’analisi delle frequenze di eritrociti micronucleati prelevati dagli organi emopoietici
permette di rilevare un danno recente, l’utilizzo di campioni di sangue circolante consente di
valutare gli effetti di un’esposizione prolungata o di un evento passato. In quest’ultimo caso
bisogna tener conto della durata della vita media degli eritrociti: questa – infatti – varia a
seconda della specie e nei roditori corrisponde a 30 giorni (Schlegel & MacGregor, 1982). In
30
seguito alla prima applicazione del test dei micronuclei su sangue periferico (MacGregor et
al., 1980), si è visto un notevole sviluppo di questa tecnica (Sutou, 1996). E’ possibile anche
l’utilizzo di specie nelle quali la milza rimuove i micronuclei, a patto – però – che vengano
conteggiati solo gli eritrociti policromatici (Grawe, 2005): tuttavia, in questo modo è
rilevabile solo un danno avvenuto recentemente. Oppure, si possono utilizzare individui molto
giovani, nei quali la milza non ha ancora sviluppato la funzione di rimozione dei micronuclei
(Udroiu et al., in stampa).
L’applicazione del test dei micronuclei a campioni di sangue periferico ha interessato molte
specie, anche con finalità di biomonitoraggio, visto che il prelievo non richiede
necessariamente il sacrificio dell’animale. Ad oggi sono stati condotti studi su: Microtus
oeconomus (Materiy & Maslova, 1978), Mus domesticus (Ieradi et al., 1996b), Mus spretus
(Ieradi et al., 1998; Udroiu, 2002), Rattus rattus (Parida & Mohapatra, 1986), Rattus
norvegicus (Abramsson-Zetterberg et al., 1999), Apodemus flavicollis (Abramsson-Zetterberg
et al., 1997; Ieradi et al., 2003), Apodemus sylvaticus (Abramsson-Zetterberg et al., 1997;
Cristaldi et al., 1985), Clethrionomys glareolus (Abramsson-Zetterberg et al., 1997; Ieradi et
al., 2003), Microtus agrestis (Abramsson-Zetterberg et al., 1997), Ctenomys torquatus (da
Silva et al., 2000), Ctenomys minutus (Heuser et al., 2002), Sus scrofa (Ludewig et al., 1991;
Cristaldi et al., 2004), Bos taurus (Balode, 1996; Volmer et al., 2001; Cristaldi et al., 2004),
Ovis aries (Cristaldi et al., 2004), Equus caballus (Cristaldi et al., 2004), Canis familiaris
(MacGregor et al., 1992)
4.7. Individuazione di aneuploidia
La presenza di un micronucleo è indicativa di un evento clastogeno – causante un’anomalia
strutturale del genoma – oppure di un evento aneugenico – causante un’anomalia numerica.
Per discernere fra queste due origini, in un primo momento venivano osservate le dimensioni
dei micronuclei (Yamamoto & Kikuchi, 1980; Valadaud-Barrieu, 1983). Tuttavia, questo
metodo – oltre che estremamente soggettivo – è anche concettualmente sbagliato, in quanto è
stata rilevata la possibilità che all’interno dei micronuclei avvenga sintesi di Dna, con
conseguente aumento delle dimensioni di questi (Thomson & Perry, 1988). Successivamente,
sono state messe a punto delle tecniche in grado di superare questi limiti, basate
sull’individuazione dell’eventuale presenza del centromero o del cinetocore (indicativa di un
passato evento aneugenico).
Il cinetocore, una struttura tri-lamellare presente su entrambi i lati della regione centromerica
(Jokelainen, 1967; Cherry et al., 1989), detta anche costrizione primaria, è composto da
proteine specializzate e si forma sulla superficie esterna del centromero durante la G2-profase
(Rattner et al., 1998). Sono stati identificati dominî strutturali distinti all’interno della regione
della costrizione primaria: un dominio esterno cinetocorico associato con la matrice fibrosa e
chiamato corona fibrosa; un domino centrale composto soprattutto da eterocromatina
centromerica; un dominio interno di appaiamento dove i cromatidi fratelli sono in contatto. Il
disco interno è l’unico ad essere associato con il DNA (Cooke et al., 1993). La regione
centromerica è composta da eterocromatina, si replica nella tarda fase S (Broccoli et al., 1989)
e la sequenza che specifica la locazione del centromero sul cromosoma è chiamata locus CEN
(Pluta et al., 1995). Diversamente dagli artropodi e dalle piante – caratterizzati da cromosomi
olocentrici ove il microtubulo si attacca su tutta la lunghezza del cromatidio – nei vertebrati il
centromero è il punto in cui il microtubulo si attacca al cinetocore ed è anche il luogo di
associazione fra cromatidi fratelli (Willard, 1990). Un’importante scoperta fu fatta da Moroi
et al. (1980) quando rilevarono che nel siero dei pazienti affetti dalla sindrome CREST (una
forma di sclerodermia autoimmune) erano presenti anticorpi contro antigeni cinetocorespecifici. In seguito, in diversi mammiferi (Uomo, Topo, Ratto, Criceto, Muntjac) sono state
individuate varie proteine del complesso centromero/cinetocore (Willard, 1990; Craig et al.,
1999). Nella tabella 4 vengono illustrate le principali proteine individuate.
31
Proteina
CENP-A
CENP-B
CENP-C
CENP-D
INCENPs
CLIPs
kDa
17-19
80
140
50
135 , 155
?
Sito
Centromero
Dominio centrale
Dominio cinetocorico
Dominio cinetocorico
Centromero interno
Dominio di appaiamento
Commenti
‘Istone’ centromero-specifico
Proteina legante Dna satellite
Specifico per centromeri attivi?
Associazione cromatidi fratelli
Legame cromatidi fratelli
Tabella 4 - Principali proteine centromeriche, da Willard (1990).
E’ stato dimostrato che uno o più antigeni CENP sono coinvolti, direttamente o
indirettamente, nella funzione del centromero con esperimenti in cui anticorpi iniettati in
colture di tessuti di mammiferi hanno interrotto sia la progressione dei cromosomi verso il
fuso alla prometafase, sia la transizione tra metafase e anafase. Va detto che vengono
continuamente scoperte nuove proteine centromeriche e che – solo fra quelle maggiormente
studiate – se ne annoverano almeno una dozzina. Fra queste, va ricordata CENP-A,
abbastanza simile all’istone H3.
Ancor più studiata è CENP-B, per le sue caratteristiche, ma anche per gli irrisolti enigmi che
continua a porre. Questa proteina – situata nel dominio centrale – sembra essere altamente
conservata in Topo, Uomo, Cercopiteco e Criceto (Stitou et al., 1999) e si lega ad una
sequenza specifica detta ‘box CENP-B’. Questo ‘box’ è lungo 17 bp (paia di basi) di cui 15
formano la sequenza canonica (5-TTCGNNNNANNCGGG-3) necessaria per il legame con la
proteina (Masumoto et al., 1993) ed è stato individuato nel Dna satellite α dell’Uomo e di altri
Primati (Haaf et al., 1995), nel Panda gigante (Wu et al., 1990), in Tupaia belangeri (Haaf &
Ward, 1995), Apodemus (Fukushi et al., 2001), Gerbillus nigeriae (Volobouev et al., 1995),
Acomys (Kunze et al., 1999) e nel Dna satellite minore di Topo domestico (Wong & Rattner
1988). Per diverso tempo, è stata opinione comune che il legame fra CENP-B ed il motivo
altamente conservato del CENP-B box avesse un’importanza funzionale per la formazione del
centromero nei mammiferi. Tuttavia, diversi dati stridevano fortemente con tale convinzione.
Questa sequenza, infatti, non è presente nei satelliti α di proscimmie, gibboni ed altre scimmie
(Haaf et al., 1995), non è presente nel Ratto (de Stoppelaar et al., 1997) ed è assente nel
cromosoma Y sia dell’Uomo che del Topo (Kapoor et al., 1998). Per fare chiarezza su questo
punto, Kapoor et al. (1998) hanno studiato il cinetocore di topi ai quali era stato cancellato il
gene cenpb (codificante l’omonima proteina) e visto che questo risultava normale e
perfettamente funzionale, sono giunti alla conclusione che CENP-B non è indispensabile. La
possibilità che cenpb sia un vestigio evolutivo viene scartata dagli autori, in quanto altamente
conservata (il che suggerisce una funzione altamente conservata che ha limitato la divergenza
della sequenza della proteina) e fa loro pensare che la funzione di CENP-B sia ridondante con
un altro polipeptide. Visto che strutturalmente CENP-B è simile alle trasposasi pogo-simili
(Kapoor et al., 1998), Kipling & Warburton (1997) hanno proposto che il box CENP-B sia
presente, non a causa di un qualche ruolo legato alla funzione del centromero, ma per il suo
possibile ruolo nel modulare l’evoluzione del genoma inducendo degli “hotspots” per la
ricombinazione. Va ricordata la posizione di Vig (1998), che indica nella conformazione
spaziale – e non nelle sequenze conservate – la caratterizzazione funzionale della costrizione
primaria.
Vi sono cambiamenti nella complesso delle proteine del centromero/cinetocore durante la
divisione cellulare che accompagnano l’assemblaggio e il disassemblaggio del cinetocore e la
condensazione/decondensazione del centromero. Le proteine centromeriche, quindi, possono
essere divise in costitutive – presenti in ogni momento della vita cellulare – e facoltative – che
si associano col centromero solo durante la mitosi (Brinkley et al., 1992). Fra queste ultime vi
sono: CENP-E, CENP-F, INCENPS MCAK, 3F3/2 (Weaver et al., 2003). Sono costitutive,
32
invece, CENP-A, -B, -C, -G (con struttura e localizzazione simile a CENP-B, ma presente
anche sul cromosoma Y) e CENP-I.
La scoperta fatta da Moroi et al. (1980), portò Brenner et al. (1981) ad utilizzare gli anticorpi
dei pazienti con sindrome CREST per individuare in situ – tramite immunofluorescenza
indiretta – i cinetocori. In seguito, questa tecnica è stata applicata al test dei micronuclei,
permettendo di distinguere fra micronuclei di origine clastogena e quelli di origine aneugenica
(Degrassi & Tanzarella, 1988; Miller & Adler, 1990). Diversi autori hanno seguito con
successo questo esempio, utilizzando diversi tipi cellulari, di diversi animali: uomo (Sgura et
al., 2001), topi di laboratorio (Gudi et al., 1990; Cicchetti et al., 1999), criceti (Sgura et al.,
2000), Topo selvatico dal collo giallo, Arvicola rossastra e Topo algerino (Degrassi et al.,
1999; Tanzarella et al., 2001), ed ovini (Degen et al., 1997). Vi sono stati anche tentativi –
senza successo – di utilizzare questo metodo su campioni di ratto. In uno studio sulla
genotossicità del tricloroetilene, l’analisi fallì a causa dell’ingente colorazione aspecifica di
fondo (Kligerman et al., 1994). De Stoppelaar et al. (1997) hanno usato sia siero di pazienti
con la sindrome CREST, sia anticorpi CREST commerciali, ma – dato che questi ultimi
diedero risultati insoddisfacenti – sono giunti alla conclusione che questa tecnica non è adatta
per cellule di ratto. Recentemente, invece, presso il Nostro laboratorio, sono stati colorati con
successo anche campioni di ratto (Udroiu et al., in stampa). Resta comunque aperta la
questione della sensibilità nel riconoscere i cinetocori di ratti: nel siero CREST sono infatti
presenti anticorpi anti-CENP-A, -B, -C ed –E. Quest’ultimo non è utile se non durante la
mitosi (quindi non dà risultati visibili nel test dei micronuclei); CENP-B – come già detto –
non è presente nel Ratto e gli anticorpi anti-CENP-A sembrano non reagire in questa specie
(Palmer et al., 1987).
Oltre alla colorazione CREST, esistono altre tecniche per riconoscere il contenuto di un
micronucleo, che si basano essenzialmente sull’individuazione del Dna centromerico o di
quello satellite. Ciò si può ottenere tramite la tecnica PRINS- Primed in situ Dna synthesis
(Russo et al., 1996; Basso and Russo, 2000). E’ stata inoltre messa a punto una tecnica per
compiere un’ibridazione immunofluorescente in situ (FISH) utilizzando sonde per specifiche
sequenze del DNA satellite I del Ratto (Hoebee & Stoppelaar, 1996; de Stoppelaar et al.,
1997) o di quello α dell’Uomo (Kirsch-Volders et al., 1996; Darroudi et al., 1996). Una
raffinata combinazione della colorazione CREST con quella FISH permette di distinguere i
micronuclei originati da un danno al fuso mitotico, CREST+/FISH+ (quindi ancora dotati di
cinetocore) e quelli CREST-/FISH+, originati da un danneggiamento del cinetocore stesso
(Sgura et al., 2001). Va infine ricordata un’altra, basata sull’individuazione di interi
cromosomi, chiamata SKY: spectral karyotyping (Komae et al., 1999).
33
5. MATERIALI E METODI
5.1. Disegno sperimentale
In un primo esperimento preliminare, è stato eseguito il test dei micronuclei con colorazione
CREST su campioni di fegato e sangue periferico prelevati da un gruppo di 10 ratti neonati,
esposti durante la vita intra-uterina ad un campo magnetico di 500 µT. Questi sono stati
confrontati con dei campioni prelevati da un gruppo di 12 ratti neonati non esposti.
L’esposizione (e la stabulazione del gruppo non esposto) è stata svolta dal gruppo di ricerca
del Dott. Settimio Grimaldi (Area della Ricerca TorVergata, CNR).
Successivamente, il test dei micronuclei con colorazione CREST è stato eseguito su campioni
di fegato e sangue periferico prelevati da un gruppo di 38 topi neonati provenienti dallo
stabulario del Dipartimento di Istologia ed Embriologia Medica, Università. "La Sapienza"
(resp. Prof.ssa Rita Canipari), esposti durante la vita intra-uterina ad un campo magnetico di
650 µT. Questi sono stati confrontati con dei campioni prelevati da un gruppo di 36 topi
neonati non esposti (sham). Su questi due gruppi è stato anche eseguito un confronto fra le
percentuali di eritrociti policromatici nel sangue periferico. Un terzo gruppo di 5 animali –
inoltre – è stato esposto a raggi X (3 Gy) ed utilizzato come controllo positivo per verificare la
validità della tecnica utilizzata.
Nell’ultimo esperimento, il test dei micronuclei con colorazione CREST è stato applicato su
campioni di midollo osseo e sangue periferico prelevati da un gruppo di 15 topi adulti, esposti
per 21 giorni ad un campo magnetico di 650 µT. Questi sono stati confrontati con dei
campioni prelevati da un gruppo di 15 topi adulti non esposti. Anche in questo caso, un terzo
gruppo di 6 animali è stato esposto a raggi X (3 Gy) ed utilizzato come controllo positivo.
5.2. Ceppi utilizzati
Gli animali utilizzati appartenevano alle specie Rattus norvegicus e Mus domesticus,
rispettivamente dei ceppi Wistar e CD-1 Swiss, provenienti dalla Charles Rivers Italia. Il
ceppo Wistar è di tipo outbred (ovvero prodotto da esoincroci) e fu selezionato per la sua
bassa incidenza di idronefrosi. In età avanzata, la principale causa di morte è la leucemia
linfocitica granulare. La gestazione dura 21-23 giorni e la figliata di solito è di 11-12
individui. Anche il ceppo CD-1 (ICR)BR Swiss è outbred ed è caratterizzato dall’assenza
degli antigeni CD-1. La gestazione dura 19-21 giorni e la figliata di solito è di 10-11
individui. Le frequenze di micronuclei non sembrano dipendere né dal sesso né dall’età e sono
simili a quelle degli altri ceppi (Sato et al., 1995)
5.3. Esposizione
La temperatura e l’umidità relativa dello stabulario sono state mantenute rispettivamente a 2022°C e 40-50% e l’illuminazione artificiale dalle 8 am alle 8 pm. Pellets ed acqua sono stati
disponibili ad libitum per tutto il periodo dell’esperimento.
Il campo magnetico di 650 µT è stato generato da solenoidi (figura 4), costruiti dall’Ing.
Angelico Bedini e dal CTER Raffaele Palomba (Ispesl), lunghi 90 cm e con un diametro di 25
cm, tenuti accesi per 24 ore al giorno e alimentati da corrente di frequenza industriale (50 Hz).
34
Figura 4 - Solenoidi
All’interno di un solenoide ideale di lunghezza infinita, il campo magnetico rimane costante;
in un solenoide reale – purché con una lunghezza maggiore del diametro – tale condizione è
vera nella sua parte centrale. La direzione del campo, inoltre, è perpendicolare alla sezione del
solenoide (figura 5); se quest’ultimo è percorso da una corrente alternata (come nel caso di
questo esperimento), il verso del campo cambia con la stessa frequenza della corrente.
Figura 5 – Campo magnetico generato da un solenoide
La temperatura e l’umidità relativa all’interno del solenoide erano pari a quelle del resto dello
stabulario. Il tempo totale dell’esposizione è stato di 21 giorni. I gruppi non esposti (controlli
negativi, ovvero sham) sono stati tenuti, nello stesso periodo in cui avveniva l’esposizione, in
dei solenoidi spenti.
La figura 6, mostra il periodo di esposizione dei neonati in relazione all’emopoiesi
embrionale, fetale e perinatale. Al giorno 7,5 della gestazione inizia l’emopoiesi nel sacco
vitellino (con eritropoiesi primitiva); nei giorni 8,5 e 9,5 l’emopoiesi diviene intra-embrionale
e ed è svolta dalla splancnopleura para-aortica (P-Sp); nel 10° giorno l’emopoiesi (adesso con
eritropoiesi definitiva) avviene nell’ aorta-gonade-mesonefro (AGM); quindi si sposta nel
fegato (giorno 11) e da qui una parte delle colonie emopoietiche si spostano nella milza
(Keller et al., 1999).
35
Figura 6 - Organi emopoietici e periodo di esposizione
Dopo la nascita, inizia l’emopoiesi nel midollo osseo; la milza mantiene la sua funzione di
organo eritropoietico secondario per tutta la vita dei murini (Wolber et al., 2002), mentre il
fegato cessa tale funzione intorno al 5° giorno dopo la nascita nel topo (Sasaki & Matsumura,
1987) ed intorno al 7° nel ratto (Rassokhin, 2002). L’esposizione è iniziata al 3° giorno di
gestazione (momento in cui viene confermata la gravidanza, tramite la verifica della presenza
del tappo vaginale) ed è terminata al 3° giorno dopo la nascita, quando è avvenuto il
sacrificio. In questo modo, al momento del prelievo dei campioni, verosimilmente tutti gli
eritrociti presenti negli animali si erano formati in presenza del campo magnetico.
Per quanto riguarda i controlli positivi l’esposizione ai raggi X invece è avvenuta il 3° giorno
dopo la nascita ed il sacrificio 24 ore dopo per i neonati. Topi adulti della stessa età del
gruppo esposto ai campi magnetici sono stati irraggiati e sacrificati 24 ore dopo.
L’esposizione ai raggi X è stata effettuata presso il laboratorio della Dott.ssa Francesca
Degrassi (Istituto di Biologia e Patologia Molecolari, CNR) grazie ad un apparato Gilardoni
(250 kV, 6 mA, filtro Al 3 mm) ad una dose di 0,5 Gy/min per 6 minuti.
5.4. Prelievi
Il prelievo dei campioni è avvenuto sotto la supervisione del docente guida Prof. Mauro
Cristaldi (Dipartimento di Biologia Animale e dell’Uomo, Università “La Sapienza”) e della
Dott.ssa Luisa Anna Ieradi (Istituto per lo studio degli Ecosistemi, CNR).
Il fegato (dei neonati) è stato rimosso e posto in un vetrino da orologio contenente una
soluzione di siero fetale bovino (80%) e ed una di EDTA 25 mM, quindi sminuzzato. Il
midollo rosso (degli adulti), invece, è stato prelevato dai femori, previa asportazione parziale
delle porzioni epifisarie prossimale e distale, inserendo nel canale midollare l’ago di una
siringa da insulina contenente la soluzione di siero fetale bovino ed EDTA. Le sospensioni
così ottenute (sia dal fegato che dal midollo osseo) sono state aspirate più volte con una
pipetta eparinizzata e successivamente centrifugate a 800 rpm per 5 minuti. A centrifugazione
avvenuta, è stato rimosso il sovranatante, il corpo di fondo è stato risospeso e quindi è stato
eseguito lo striscio. Il sangue è stato prelevato dalle vene giugulari. Gli strisci sono stati
lasciati ad asciugare a temperatura ambiente, fissati in metanolo a -20°C e conservati alla
medesima temperatura.
Sono stati inoltre prelevati campioni per il Comet test (Chiuchiarelli, 2004), l’analisi delle
anomalie delle creste palatali (Migliorini, 2005) e delle anomalie spermatiche (Bruckmann,
2005), facenti parte – insieme al presente eleborato – di un insieme di studi coordinati dal
Dott. Livio Giuliani e Prof. Mauro Cristaldi (ISPESL, Piano di attività, 2001).
5.5. Colorazione CREST
La colorazione a immunofluorescenza con anticorpi CREST è stata eseguita presso il
laboratorio della Prof.ssa Caterina Tanzarella (Dipartimento di Biologia, Università
“RomaTre”)
36
Durante la colorazione, come esposto più avanti, verranno utilizzati più volte nei lavaggi dei
vetrini il tampone fosfato (PBS) con siero di albumina bovina (BSA) ed il PNM. Per
prepararne 500 ml, si aggiungono a 400 ml di acqua, 100 ml di tampone fosfato (pH 8), 2,5
ml di Nonidet (Igepal), 0,1 g. di sodio azide e 25 g. di latte in polvere non grasso. Quindi si
lascia incubare a 37° C, a bagnomaria, per 2 ore, per poi conservarlo a 4° C.
Gli strisci vengono rifissati in metanolo assoluto per 30’, quindi lavati in PBS-Tween20
(0,01%) per 4’ e successivamente in PNM per 5’. In seguito viene applicato (30 µl per
vetrino) l’anticorpo CREST anticinetocore (Antibodies Inc.) diluito 1:1 in PBS-Tween20
(0,1%), si copre il vetrino con parafilm e si lascia incubare overnight a 37°C in camera umida.
L’indomani si effettuano 3 lavaggi di 5’ in PBS-BSA (1%) ed uno in PNM per 5’. Viene
quindi applicato il secondo anticorpo (Rabbit anti-human IgA + IgG + IgM(H+L) FITC
coniugato, Sigma Immunochemicals) diluito 1:80 in PBS-BSA (1%), si copre il vetrino con
parafilm e si lascia incubare per 45’ in camera umida a 37°C.
Poi si eseguono nuovamente 3 lavaggi di 5’ in PBS-BSA (1%) ed uno in PNM per 5’. A
questo punto, si applica il terzo anticorpo (Goat anti-Rabbit IgG(H+L) FITC coniugato, ICN)
diluito 1:150 in PBS-BSA (1%) si copre il vetrino con parafilm e si lascia incubare per 40’ in
camera umida a 37°C.
Successivamente, si effettuano 5 lavaggi di 3’ in PBS-BSA (1%) e 2 lavaggi di 5’ in PBS
freddo. In seguito i vetrini vengono colorati per 10’ in una choplin al buio contenente
2,5µg/ml di 4’-6’-diamidino-2-fenilindolo (DAPI; Sigma-Aldrich) diluito in PBS e poi
risciacquati in PBS per 1’.
Infine, si colora con ioduro di propidio (1 µg/ml per il sangue, 2,5 µg/ml per midollo e fegato)
in soluzione Antifade (Vector Laboratories), si coprono gli strisci con vetrini coprioggetto
24x50mm, per poi smaltarli e refrigerarli a +4°C, per almeno 1 ora prima di poterli osservare.
I micronuclei sono stati individuati con un microscopio Zeiss Axiophot con luce UV e quindi
classificati in base alla reazione dell’anticorpo anticinetocore. Le frequenze di micronuclei
sono state determinate contando 2000 eritrociti per animale.
5.6. Colorazione May-Grünwald
Il colorante May-Grünwald viene filtrato con un filtro Whatman GF/A. Gli strisci vengono
quindi colorati per 3’ e successivamente viene rimosso il colorante in eccesso. Quindi, si
colora con May-Grünwald diluito (1:1) in acqua bidistillata. La percentuale di eritrociti
policromatici nel sangue periferico è stata analizzata in 40 topi neonati (20 controlli e 20
esposti) contando 1000 eritrociti per animale.
5.7. Analisi statistiche
Dall'analisi delle distribuzioni dei micronuclei con il test di Shapiro-Wilk, è emerso che i dati
non sono distribuiti normalmente e che non lo erano neanche dopo averli trasformati con la
funzione di Cox (xtr = x1/2). E’ stato, quindi, utilizzato il test di Kolmogorov-Smirnov
(Mitchell & Brice, 1986) per calcolare i livelli di significatività delle differenze fra le
frequenze medie di eritrociti micronucleati totali (ME), eritrociti micronucleati CRESTpositivi (ME+), eritrociti micronucleati CREST-negativi (ME-) dei diversi gruppi.
Le distribuzioni delle percentuali di eritrociti policromatici, invece, sono risultate normali; per
l’analisi di questi dati è stato quindi utilizzato il test t di Student.
Sono state considerate significative quelle differenze con p < 0,05.
37
6. RISULTATI
6.1. Ratti Wistar neonati
La tabella 5 ed il grafico 1 indicano le frequenze di eritrociti micronucleati osservate nei
campioni di fegato. La frequenza media del gruppo esposto ai campi magnetici (x = 0,15 ±
0,55) non è risultata significativamente più elevata della frequenza media del gruppo non
esposto (x = 0,17 ± 0,25).
Tabella 5 - Test dei micronuclei su fegato di ratti neonati: frequenze medie di eritrociti micronucleati
Sham
ELF
n
12
9
ME/1000 E
0,17
0,17
Dev. Std
0,58
0,25
Err. Std.
0,18
0,08
Tutti i micronuclei che sono stati individuati nei campioni di fegato, sia quelli prelevati dagli
individui esposti che quelli prelevati dagli individui non esposti, erano Crest-negativi, come si
può osservare nella tabella 6.
Tabella 6 - Test dei micronuclei su fegato di ratti neonati: frequenze medie di eritrociti micronucleati
CREST-negativi
Sham
ELF
n
12
9
ME-/1000 E
0,17
0,17
Dev. Std
0,58
0,25
Err. Std.
0,18
0,08
La tabella 7 ed il grafico 2 indica le frequenze di eritrociti micronucleati osservate nei
campioni di sangue periferico. La frequenza media del gruppo esposto ai campi magnetici (x
= 1,50 ± 1,05) non è risultata significativamente più elevata della frequenza media del gruppo
non esposto (x = 1,46 ± 1,62). Anche nel caso degli eritrociti micronucleati Crest-negativi
(tabella 8, grafico 3), la frequenza media del gruppo esposto ai campi magnetici (x = 1,50 ±
1,05) non è risultata significativamente più elevata della frequenza media del gruppo non
esposto (x = 1,42 ± 1,59).
Tabella 7 - Test dei micronuclei su sangue periferico di ratti neonati: frequenze medie di eritrociti
micronucleati
Sham
ELF
n
12
10
ME/1000 E
1,46
1,50
Dev. Std
1,62
1,05
Err. Std.
0,51
0,33
Tabella 8 - Test dei micronuclei su sangue periferico di ratti neonati: frequenze medie di eritrociti
micronucleati CREST-negativi
Sham
ELF
n
12
10
ME-/1000 E
1,42
1,50
Dev. Std
1,59
1,05
Err. Std.
0,50
0,33
Inoltre, per quanto riguarda gli eritrociti micronucleati Crest-positivi (tabella 9, grafico 4), si
è riscontrato che la frequenza media del gruppo esposto ai campi magnetici (x = 0) era minore
della frequenza media del gruppo non esposto (x = 0,04 ± 1,44), ma tale differenza non è
38
risultata statisticamente significativa. Nella tabella 10, infine, vengono indicate le percentuali
di eritrociti micronucleati Crest-positivi.
Tabella 9 - Test dei micronuclei su sangue periferico di ratti neonati: frequenze medie di eritrociti
micronucleati CREST-positivi
Sham
ELF
n
12
10
ME+/1000 E
0,04
0
Dev. Std
1,44
0
Err. Std.
0,04
0
Tabella 10 - Test dei micronuclei su sangue periferico di ratti neonati: percentuali di eritrociti
micronucleati CREST-positivi
Sham
ELF
n° eritrociti
24.000
20.000
ME
35
15
ME+
1
0
% ME+
2,86%
0%
6.2. Topi CD1-Swiss neonati
La tabella 11 ed il grafico 5 indicano le frequenze di eritrociti micronucleati osservate nei
campioni di fegato. Le frequenze medie del gruppo esposto ai campi magnetici (x = 0,76 ±
0,38) e di quello esposto ai raggi X (x = 25,40 ± 4,02) sono risultate significativamente più
elevate (rispettivamente, p < 0,005 e p < 0,001) della frequenza media del gruppo non esposto
(x = 0,42 ± 0,33). Il grafico 6 mostra le distribuzioni delle frequenze di eritrociti
micronucleati.
Tabella 11 - Test dei micronuclei su fegato di topi neonati: frequenze medie di eritrociti micronucleati
Sham
ELF
Raggi X
n
36
38
5
ME/1000 E
0,42
0,76 **
25,40 ***
Dev. Std
0,33
0,38
4,02
Err. Std.
0,05
0,06
1,80
*: p < 0.025; **: p < 0.005; ***: p < 0.001
Per quanto riguarda gli eritrociti micronucleati Crest-negativi (tabella 12, grafico 7), le
frequenze medie del gruppo esposto ai campi magnetici (x = 0,63 ± 0,36) e di quello esposto
ai raggi X (x = 23,70 ± 3,17) sono risultate maggiori di quella del gruppo non esposto (x =
0,36 ± 0,33), ma la differenza è risultata statisticamente significativa solo nel caso del gruppo
esposto ai raggi X (p < 0,005). Il grafico 8 mostra le distribuzioni delle frequenze di eritrociti
micronucleati Crest-negativi.
Tabella 12 - Test dei micronuclei su fegato di topi neonati: frequenze medie di eritrociti micronucleati
CREST-negativi
Sham
ELF
Raggi X
n
36
38
5
ME-/1000 E
0,36
0,63
23,70 **
*: p < 0.025; **: p < 0.005; ***: p < 0.001
39
Dev. Std
0,33
0,36
3,17
Err. Std.
0,05
0,06
1,42
Anche nel caso degli eritrociti micronucleati Crest-positivi (tabella 13, grafico 9), l’analisi
statistica ha evidenziato una differenza statisticamente significativa (p < 0,001) solo
confrontando il gruppo non esposto (x = 0,05 ± 0,16) con quello esposto ai raggi X (x = 1,70 ±
1,40) e non con quello esposto ai campi magnetici (x = 0,13 ± 0,22). Il grafico 10 mostra le
distribuzioni delle frequenze di eritrociti micronucleati Crest-positivi. Nella tabella 14,
inoltre, vengono indicate le percentuali di eritrociti micronucleati Crest-positivi.
Tabella 13 - Test dei micronuclei su fegato di topi neonati: frequenze medie di eritrociti micronucleati
CREST-positivi
Sham
ELF
Raggi X
n
36
38
5
ME+/1000 E
0,05
0,13
1,70 ***
Dev. Std
0,16
0,22
1,40
Err. Std.
0,03
0,04
0,62
*: p < 0.025; **: p < 0.005; ***: p < 0.001
Tabella 14 - Test dei micronuclei su fegato di topi neonati: percentuali di eritrociti micronucleati CRESTpositivi
Sham
ELF
Raggi X
n° eritrociti
72.000
76.000
10.000
ME
30
58
254
ME+
4
10
17
% ME+
13,33%
17,24%
6,69%
La tabella 15 ed il grafico 11 indicano le frequenze di eritrociti micronucleati osservate nei
campioni di sangue periferico. Le frequenze medie del gruppo esposto ai campi magnetici (x
= 4,42 ± 2,66) e di quello esposto ai raggi X (x = 31,60 ± 3,83) sono risultate
significativamente più elevate (p < 0,001) della frequenza media del gruppo non esposto (x =
2,07 ± 1,68). Il grafico 12 mostra le distribuzioni delle frequenze di eritrociti micronucleati.
Tabella 15 - Test dei micronuclei su sangue periferico di topi neonati: frequenze medie di eritrociti
micronucleati
Sham
ELF
Raggi X
n
36
38
5
ME/1000 E
2,07
4,42 ***
31,60 ***
Dev. Std
1,68
2,66
3,83
Err. Std.
0,28
0,43
1,71
*: p < 0.025; **: p < 0.005; ***: p < 0.001
Anche nel caso degli eritrociti micronucleati Crest-negativi (tabella 16, grafico 13), le
frequenze medie del gruppo esposto ai campi magnetici (x = 3,76 ± 2,63) e di quello esposto
ai raggi X (x = 30,50 ± 3,94) sono risultate significativamente più elevate (rispettivamente, p
< 0,001 e p < 0,025) della frequenza media del gruppo non esposto (x = 1,92 ± 1,76). Il
grafico 14 mostra le distribuzioni delle frequenze di eritrociti micronucleati Crest-negativi.
40
Tabella 16 - Test dei micronuclei su sangue periferico di topi neonati: frequenze medie di eritrociti
micronucleati CREST-negativi
Sham
ELF
Raggi X
n
36
38
5
ME-/1000 E
1,92
3,76 ***
30,50 *
Dev. Std
1,76
2,63
3,94
Err. Std.
0,29
0,43
1,76
*: p < 0.025; **: p < 0.005; ***: p < 0.001
Inoltre, anche per quanto riguarda gli eritrociti micronucleati Crest-positivi (tabella 17,
grafico 15), le frequenze medie del gruppo esposto ai campi magnetici (x = 0,66 ± 0,51) e di
quello esposto ai raggi X (x = 1,10 ± 0,42) sono risultate significativamente più elevate
(rispettivamente, p < 0,025 e p < 0,001) della frequenza media del gruppo non esposto (x =
0,15 ± 0,26). Il grafico 16 mostra le distribuzioni delle frequenze di eritrociti micronucleati
Crest-positivi. Nella tabella 18, infine, vengono indicate le percentuali di eritrociti
micronucleati Crest-positivi.
Tabella 17 - Test dei micronuclei su sangue periferico di topi neonati: frequenze medie di eritrociti
micronucleati CREST-positivi
Sham
ELF
Raggi X
n
36
38
5
ME+/1000 E
0,15
0,66 *
1,10 ***
Dev. Std
0,26
0,51
0,42
Err. Std.
0,04
0,08
0,19
*: p < 0.025; **: p < 0.005; ***: p < 0.001
Tabella 18 - Test dei micronuclei su sangue periferico di topi neonati: percentuali di eritrociti
micronucleati CREST-positivi
Sham
ELF
Raggi X
n° eritrociti
72.000
76.000
10.000
ME
149
336
316
ME+
11
50
11
% ME+
7,38%
14,88%
3,48%
Confrontando le percentuali di eritrociti policromatici (tabella 19), la media del gruppo
esposto ai campi magnetici (x = 14,44 ± 3,15) è risultata significativamente inferiore (p <
0,025) di quella del gruppo non esposto (x = 17,47 ± 4,43).
Tabella 19 – Percentuali di eritrociti policromatici nel sangue periferico di topi neonati
Sham
ELF
n
20
20
% PCE
17,47
14,44 *
Dev. Std
4,43
3,15
Err. Std.
0,99
0,70
*: p < 0.025; **: p < 0.005; ***: p < 0.001
6.3. Topi CD1-Swiss adulti
La tabella 20 ed il grafico 17 indicano le frequenze di eritrociti micronucleati osservate nei
campioni di midollo osseo. Le frequenze medie del gruppo esposto ai campi magnetici (x =
1,27 ± 0,56) e di quello esposto ai raggi X (x = 22,75 ± 7,10) sono risultate maggiori di quella
del gruppo non esposto (x = 1,03 ± 0,67), ma la differenza è risultata statisticamente
41
significativa solo nel caso del gruppo esposto ai raggi X (p < 0,001). Il grafico 18 mostra le
distribuzioni delle frequenze di eritrociti micronucleati.
Tabella 20 - Test dei micronuclei su midollo osseo di topi adulti: frequenze medie di eritrociti
micronucleati
Sham
ELF
Raggi X
n
15
15
6
ME/1000 E
1,03
1,27
22,75 ***
Dev. Std
0,67
0,56
7,10
Err. Std.
0,17
0,14
2,90
*: p < 0.025; **: p < 0.005; ***: p < 0.001
Anche nel caso degli eritrociti micronucleati Crest-negativi (tabella 21, grafico 19), l’analisi
statistica ha evidenziato una differenza statisticamente significativa (p < 0,001) solo
confrontando il gruppo non esposto (x = 0,90 ± 0,66) con quello esposto ai raggi X (x = 21,83
± 6,83) e non con quello esposto ai campi magnetici (x = 1,10 ± 0,51). Il grafico 20 mostra le
distribuzioni delle frequenze di eritrociti micronucleati Crest-negativi.
Tabella 21 - Test dei micronuclei su midollo osseo di topi adulti: frequenze medie di eritrociti
micronucleati CREST-negativi
Sham
ELF
Raggi X
n
15
15
6
ME-/1000 E
0,90
1,10
21,83 ***
Dev. Std
0,66
0,51
6,83
Err. Std.
0,17
0,13
2,79
*: p < 0.025; **: p < 0.005; ***: p < 0.001
Per quanto riguarda gli eritrociti micronucleati Crest-positivi (tabella 22, grafico 21), le
frequenze medie del gruppo esposto ai campi magnetici (x = 0,17 ± 0,31) e di quello esposto
ai raggi X (x = 0,92 ± 0,38) sono risultate maggiori di quella del gruppo non esposto (x = 0,13
± 0,23), ma la differenza è risultata statisticamente significativa solo nel caso del gruppo
esposto ai raggi X (p < 0,025). Il grafico 22 mostra le distribuzioni delle frequenze di
eritrociti micronucleati Crest-positivi. Le percentuali di eritrociti micronucleati Crest-positivi
sono indicate nella tabella 23.
Tabella 22 - Test dei micronuclei su midollo osseo di topi adulti: frequenze medie di eritrociti
micronucleati CREST-positivi
Sham
ELF
Raggi X
n
15
15
6
ME+/1000 E
0,13
0,17
0,92 *
Dev. Std
0,23
0,31
0,38
Err. Std.
0,06
0,08
0,15
*: p < 0.025; **: p < 0.005; ***: p < 0.001
Tabella 23 - Test dei micronuclei su midollo osseo di topi adulti: percentuali di eritrociti micronucleati
CREST-positivi
Sham
ELF
Raggi X
n° eritrociti
30.000
30.000
12.000
ME
31
38
273
ME+
4
5
11
42
% ME+
12,90%
13,16%
4,03%
La tabella 24 ed il grafico 23 indicano le frequenze di eritrociti micronucleati osservate nei
campioni di sangue periferico. Le frequenze medie del gruppo esposto ai campi magnetici (x
= 1,87 ± 0,81) e di quello esposto ai raggi X (x = 9,17 ± 1,40) sono risultate maggiori di
quella del gruppo non esposto (x = 1,63 ± 0,72); tuttavia, la differenza è risultata
statisticamente significativa solo nel caso del gruppo esposto ai raggi X (p < 0,001). Il grafico
24 mostra le distribuzioni delle frequenze di eritrociti micronucleati.
Tabella 24 - Test dei micronuclei su sangue periferico di topi adulti: frequenze medie di eritrociti
micronucleati
Sham
ELF
Raggi X
n
15
15
6
ME/1000 E
1,63
1,87
9,17 ***
Dev. Std
0,72
0,81
1,40
Err. Std.
0,18
0,21
0,57
*: p < 0.025; **: p < 0.005; ***: p < 0.001
Anche nel caso degli eritrociti micronucleati Crest-negativi (tabella 25, grafico 25), l’analisi
statistica ha evidenziato una differenza statisticamente significativa (p < 0,001) solo
confrontando il gruppo non esposto (x = 1,50 ± 0,60) con quello esposto ai raggi X (x = 8,75
±1,21) e non con quello esposto ai campi magnetici (x = 1,57 ± 0,65). Il grafico 26 mostra le
distribuzioni delle frequenze di eritrociti micronucleati Crest-negativi.
Tabella 25 - Test dei micronuclei su sangue periferico di topi adulti: frequenze medie di eritrociti
micronucleati CREST-negativi
Sham
ELF
Raggi X
n
15
15
6
ME-/1000 E
1,50
1,57
8,75 ***
Dev. Std
0,60
0,65
1,21
Err. Std.
0,15
0,17
0,49
*: p < 0.025; **: p < 0.005; ***: p < 0.001
Per quanto riguarda gli eritrociti micronucleati Crest-positivi (tabella 26, grafico 27), le
frequenze medie del gruppo esposto ai campi magnetici (x = 0,30 ± 0,32) e di quello esposto
ai raggi X (x = 0,42 ± 0,58) sono risultate maggiori di quella del gruppo non esposto (x = 0,13
± 0,23), ma le differenze non sono risultate statisticamente significative. Il grafico 28 mostra
le distribuzioni delle frequenze di eritrociti micronucleati Crest-positivi. Le percentuali di
eritrociti micronucleati Crest-positivi sono indicate nella tabella 27.
Tabella 26 - Test dei micronuclei su sangue periferico di topi adulti: frequenze medie di eritrociti
micronucleati CREST-positivi
Sham
ELF
Raggi X
n
15
15
6
ME+/1000 E
0,13
0,30
0,42
Dev. Std
0,23
0,32
0,58
Err. Std.
0,06
0,08
0,24
Tabella 27 - Test dei micronuclei su sangue periferico di topi adulti: percentuali di eritrociti micronucleati
CREST-positivi
Sham
ELF
Raggi X
n° eritrociti
30.000
30.000
12.000
ME
49
56
110
ME+
4
9
5
43
% ME+
8,16%
16,07%
4,54%
Per confrontare i dati dei topi adulti con quelli dei neonati (grafico 29), è possibile comparare
solo le frequenze di eritrociti micronucleati rilevate nel sangue periferico (tabella 28). Tutte
le medie, sia degli esposti ai campi magnetici che dei non esposti, per ogni tipo di micronuclei
(Crest-positivi, Crest-negativi e totali), sono risultate maggiori nei neonati rispetto agli adulti.
Tuttavia, confrontando le frequenze medie di eritrociti micronucleati dei topi neonati non
esposti con quelle degli adulti, le differenze non sono risultate statisticamente significative né
per quanto riguarda i micronuclei Crest-negativi (rispettivamente, x = 1,92 ± 1,76 e x = 1,50 ±
0,60), né per i Crest-positivi (rispettivamente, x = 0,15 ± 0,26 e x = 0,13 ± 0,23), né per i
micronuclei totali (rispettivamente, x = 2,07 ± 1,68 e x = 1,63 ± 0,72). Diversamente,
confrontando le frequenze medie di eritrociti micronucleati dei topi neonati esposti con quelle
degli adulti, la differenza è risultata statisticamente significativa (p < 0,01) per quanto
riguarda i micronuclei Crest-negativi (rispettivamente, x = 3,76 ± 2,63 e x = 1,57 ± 0,65); non
è risultata significativa per i Crest-positivi (rispettivamente, x = 0,66 ± 0,51 e x = 0,30 ± 0,32),
mentre lo è stato (p < 0,001) per quanto riguarda i micronuclei totali (rispettivamente, x =
4,42 ± 2,66 e x = 1,87 ± 0,81).
Tabella 28 - Test dei micronuclei su sangue periferico di topi neonati e adulti
Sham
Neonati
Adulti
ELF
Neonati
Adulti
n
ME-/1000 E
ME+/1000 E
ME/1000E
36
15
1,92 ± 1,76
1,50 ± 0,60
0,15 ± 0,26
0,13 ± 0,23
2,07 ± 1,68
1,63 ± 0,72
38
15
3,76 ± 2,63
1,57 ± 0,65*
0,66 ± 0,51
0,30 ± 0,32
4,42 ± 2,66
1,87 ± 0,81***
*: p < 0.025; **: p < 0.005; ***: p < 0.001
44
ME / 1000 E
45
0
0,05
0,1
0,15
0,2
0,25
0,3
0,35
0,4
Sham
Grafico 1: Frequenze di ME nel fegato di ratti neonati
ELF
7. GRAFICI
46
ME / 1000 E
0
0,5
1
1,5
2
2,5
Sham
Grafico 2: Frequenze di ME nel sangue periferico di ratti neonati
ELF
47
ME- / 1000 E
0
0,5
1
1,5
2
2,5
Sham
Grafico 3: Frequenze di ME- nel sangue periferico di ratti neonati
ELF
48
ME+ / 1000 E
0
0,01
0,02
0,03
0,04
0,05
0,06
0,07
0,08
0,09
Sham
Grafico 4: Frequenze di ME+ nel sangue periferico di ratti neonati
ELF
49
ME / 1000 E
0
5
10
15
20
25
30
Sham
ELF
Grafico 5: Frequenze di ME nel fegato di topi neonati
Raggi X
50
n° individui
0
2
4
6
8
10
12
14
16
18
20
0
ME / 1000 E
0,5
1
1,5
Grafico 6: Distribuzione delle frequenze di ME nel fegato di topi neonati
sham
ELF
51
ME- / 1000 E
0
5
10
15
20
25
30
Sham
ELF
Grafico 7: Frequenze di ME- nel fegato di topi neonati
Raggi X
52
n° individui
0
2
4
6
8
10
12
14
16
18
20
0
ME- / 1000 E
0,5
1
1,5
Grafico 8: Distribuzione delle frequenze di ME- nel fegato di topi neonati
sham
ELF
53
ME+ / 1000 E
0
0,5
1
1,5
2
2,5
Sham
ELF
Grafico 9: Frequenze di ME+ nel fegato di topi neonati
Raggi X
54
0
5
10
15
20
25
30
35
0
ME+ / 1000 E
0,5
1
1,5
Grafico 10: Distribuzione delle frequenze di ME+ nel fegato di topi neonati
n° individui
sham
ELF
55
ME / 1000 E
0
5
10
15
20
25
30
35
Sham
ELF
Grafico 11: Frequenze di ME nel sangue periferico di topi neonati
Raggi X
56
n° individui
0
1
2
3
4
5
6
7
0
0,5
1
1,5
2
2,5
3
3,5
4
4,5
5,5
6
ME / 1000 E
5
6,5
7
7,5
8
8,5
9
9,5
Grafico 12 - Distribuzione delle frequenze di ME nel sangue periferico di topi neonati
10
10,5
11
11,5
sham
ELF
57
ME- / 1000 E
0
5
10
15
20
25
30
35
Sham
ELF
Grafico 13: Frequenze di ME- nel sangue periferico di topi neonati
Raggi X
58
n° individui
0
1
2
3
4
5
6
7
0
0,5
1
1,5
2
2,5
3
3,5
4
4,5
5,5
6
ME- / 1000 E
5
6,5
7
7,5
8
8,5
9
9,5
10
10,5
Grafico 14 - Distribuzione delle frequenze di ME- nel sangue periferico di topi neonati
11
11,5
sham
ELF
59
ME+ / 1000 E
0
0,2
0,4
0,6
0,8
1
1,2
1,4
Sham
ELF
Grafico 15: Frequenze di ME+ nel sangue periferico di topi neonati
Raggi X
60
0
5
10
15
20
25
30
0
ME+ / 1000 E
0,5
1
1,5
sham
ELF
Grafico 16: Distribuzione delle frequenze di ME+ nel sangue periferico di topi neonati
n° individui
61
ME / 1000 E
0
5
10
15
20
25
Sham
ELF
Grafico 17: Frequenze di ME nel midollo osseo di topi adulti
Raggi X
62
n° individui
0
1
2
3
4
5
6
0
0,5
ME / 1000 E
1
1,5
2
2,5
Grafico 18: Distribuzione delle frequenze di ME nel midollo osseo di topi adulti
sham
ELF
63
ME- / 1000 E
0
5
10
15
20
25
30
Sham
ELF
Grafico 19: Frequenze di ME- nel midollo osseo di topi adulti
Raggi X
64
0
1
2
3
4
5
6
0
0,5
ME- / 1000 E
1
1,5
2
sham
ELF
Grafico 20: Distribuzione delle frequenze di ME- nel midollo osseo di topi adulti
n° individui
65
ME+ / 1000 E
0
0,2
0,4
0,6
0,8
1
1,2
Sham
ELF
Grafico 21: Frequenze di ME+ nel midollo osseo di topi adulti
Raggi X
66
0
2
4
6
8
10
12
0
ME+ / 1000 E
0,5
1
sham
ELF
Grafico 22: Distribuzione delle frequenze di ME+ nel midollo osseo di topi adulti
n° individui
67
ME / 1000 E
0
2
4
6
8
10
12
Sham
ELF
Grafico 23: Frequenze di ME nel sangue periferico di topi adulti
Raggi X
68
n° individui
0
1
2
3
4
5
0
0,5
1
ME / 1000 E
1,5
2
2,5
3
3,5
Grafico 24: Distribuzione delle frequenze di ME nel sangue periferico di topi adulti
sham
ELF
69
ME- / 1000 E
0
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
Sham
ELF
Grafico 25: Frequenze di ME- nel sangue periferico di topi adulti
Raggi X
70
n° individui
0
1
2
3
4
5
6
0
0,5
ME- / 1000 E
1
1,5
2
2,5
Grafico 26: Distribuzione delle frequenze di ME- nel sangue periferico di topi adulti
sham
ELF
71
ME+ / 1000 E
0
0,1
0,2
0,3
0,4
0,5
0,6
0,7
Sham
ELF
Grafico 27: Frequenze di ME+ nel sangue periferico di topi adulti
Raggi X
72
0
2
4
6
8
10
12
0
ME+ / 1000 E
0,5
1
sham
ELF
Grafico 28: Distribuzione delle frequenze di ME+ nel sangue periferico di topi adultti
n° individui
73
ME / 1000 E
0
0,5
1
1,5
2
2,5
3
3,5
4
4,5
Sham
Sangue
ELF
Neonati
Sham
Fegato
ELF
Sham
Adulti
Sangue
ELF
Sham
Grafico 29 - Frequenze di eritrociti micronucleati in topi neonati e adulti
Midollo
ELF
CREST-
CREST+
8. DISCUSSIONE
Lo scopo di questo lavoro è stato quello di valutare l’ipotesi che i campi magnetici a
frequenze estremamente basse (ELF) possano produrre danni genotossici. A tal fine, il test dei
micronuclei con colorazione CREST è stato applicato su campioni prelevati da Roditori
(neonati ed adulti) esposti cronicamente a tali campi.
In un primo esperimento preliminare, sono stati utilizzati campioni prelevati da ratti neonati
impiegati in un’altra sperimentazione svolta dal gruppo di ricerca del dott. Grimaldi.
L’esposizione durante la vita intra-uterina ad un campo magnetico di 500 µT non ha prodotto
un danno genotossico: non sono stati rilevati – infatti – aumenti significativi nelle frequenze
di eritrociti micronucleati, né nel fegato, né nel sangue periferico.
Un’esposizione durante la vita intra-uterina ad un campo di intensità maggiore (650 µT) ha
prodotto, invece, un danno genotossico in topi neonati. La diversità di risultati può essere
dovuta a vari elementi: differenze nella sensibilità specie-specifica, nello sviluppo
dell’emopoiesi e nei tempi dell’ontogenesi. I risultati ottenuti nei topi neonati, inoltre,
contrastano con quanto osservato da Abramsson-Zetterberg & Grawé (2001). Tuttavia – oltre
ad alcune disuguaglianze nel disegno sperimentale e nei protocolli usati – le due differenze
principali sono l’intensità del campo (14 µT nel lavoro del 2001) ed il momento del prelievo; i
due autori, infatti, dopo un’esposizione di 18 giorni in utero, hanno atteso 35 giorni – un
tempo superiore alla vita media degli eritrociti murini – prima di sacrificare gli animali.
Il danno genotossico è stato osservato sia nel fegato che nel sangue periferico. Il fatto che le
frequenze di eritrociti micronucleati siano risultate più elevate nel sangue circolante indica un
accumulo di questi ultimi nella circolazione periferica. Grazie a questo fenomeno, l’effetto
mutageno è ancor più evidente.
Diversamente, l’esposizione – sempre di 21 giorni – al medesimo campo magnetico non ha
prodotto un danno genotossico rilevabile nei topi adulti. Questo risultato è in accordo con
quanto osservato da Huuskonen et al. (1998), Svedenstål & Johanson (1998) e AbramssonZetterberg & Grawé (2001), i quali hanno utilizzato campi di intensità ben minore (13 e 14
µT). La differenza fra topi neonati e adulti nei risultati ottenuti in questo lavoro potrebbe
avere diverse cause. Si può ipotizzare che nel caso dell’esposizione a campi magnetici – così
come avviene per molti agenti mutageni – gli individui che sono nella fase di sviluppo siano
più sensibili rispetto a quelli adulti. Un risultato in accordo con tale ipotesi è stato ottenuto da
Chiuchiarelli (2004) eseguendo il Comet test su campioni prelevati dagli animali utilizzati in
questo lavoro. E’ comunque provato che un’accelerazione dell’emopoiesi induca un aumento
nella produzione di micronuclei (Suzuki et al., 1989) – a causa della deficienza di folato
dovuta al massiccio impiego di questo nell’eritropoiesi – e che, per questo motivo, individui
molto giovani presentino frequenze di eritrociti micronucleati più alte degli adulti (Bishop et
al., 2004). Ciò, nondimeno, è vero anche per le altre specie di mammiferi (Feldman et al.,
2000) e può rappresentare una condizione sensibilizzante nei confronti dei mutageni. Altre
ipotesi, quali un coinvolgimento del metabolismo materno-fetale, sebbene suggestive, non
possono essere avanzate sulla base di questi dati.
E’ interessante notare, inoltre, come nei neonati si sia rilevata una diminuzione di eritrociti
policromatici (o reticolociti). Vista l’entità di tale riduzione non si può parlare di
reticolopenia, tuttavia questo fenomeno, di tipo ematologico, potrebbe condividere la propria
origine con l’aumentata micronucleogenesi. Alcuni studi hanno dimostrato l’influenza dei
campi magnetici sugli enzimi vitamina B12-dipendenti (Harkins & Grissom, 1994; Taoka et
al., 1997) e questa potrebbe essere la spiegazione per sintomi simili alla deficienza di tale
vitamina in seguito all’esposizione a campi ELF osservati da alcuni autori (Asanova et al.,
1963; Taoka et al., 1997; Bonhomme-Faivre et al., 1998). Tale effetto sulla vitamina B12,
quindi, potrebbe influenzare sia l’eritropoiesi – e determinare i livelli di reticolociti osservati
74
– sia la produzione di micronuclei, tramite l’accumulo di omocisteina e conseguente aumento
di radicali liberi (figura 7), ovvero di specie reattive dell’ossigeno (ROS).
Figura 7 - Possibili cause degli effetti osservati nei topi neonati esposti
Il coinvolgimento dei radicali liberi nell’interazione fra campi magnetici e DNA continua a
guadagnare consensi nella comunità scientifica, grazie a contributi di natura sia teoretica, sia
sperimentale. L’ipotesi che i campi magnetici ELF possano aumentare la durata della vita
media dei radicali liberi (Brocklehurst, 2002) – e quindi incrementarne la concentrazione
all’interno della cellula – sembra trovare riscontro nei risultati ottenuti da Lai & Singh
(1997b; 2004), i quali hanno osservato l’induzione di un danno genotossico dopo
l’esposizione ai suddetti campi e – inoltre – che tale danno non si produceva in presenza di
anti-ossidanti. Tramite lo stesso approccio, è stato dimostrato il coinvolgimento del ferro
(Zmyslony et al., 2000; Lai & Singh, 2004). A riguardo, è importante sottolineare che nel
nucleo si trovano concentrazioni di ferro maggiori che nel citoplasma, a causa di una pompa
ATP-asica (Meneghini, 1997), che atomi di ferro sono intercalati nel DNA e che complessi
DNA-ferrosi catalizzano la produzione di radicali idrossilici meglio del ferro (Floyd, 1981).
Oltre ai danni che possono arrecare al DNA, è importante ricordare che i radicali liberi hanno
– per certo – effetti pleiotropici, che possono variare da risposte citotossiche a mitogene, a
seconda della concentrazione, della durata dell’esposizione e del tipo di cellula o tessuto
interessato (Davies, 2000). L’aumento significativo di eritrociti micronucleati CRESTpositivi, osservato nei topi neonati, è indicativo di un evento aneugenico, ovvero di un danno
al fuso mitotico. Schuessler & Schilling (1984) hanno indicato che l’interazione fra ROS e
fuso mitotico può produrre aneuploidia. E’ stato poi evidenziato che anche alterazioni
dell’omeostasi del calcio intracellulare possano indurre aneuploidia (Mailhes et al., 1997). Ciò
ha una notevole importanza alla luce delle numerose prove prodotte a favore dell’ipotesi che i
campi magnetici ELF aumentino l’afflusso di ioni Ca++ (Lacy-Hulbert et al., 1998). In effetti,
già Livingston et al. (1986) suggerirono che i campi magnetici possono intervenire nella
formazione del fuso e – ancor prima – Chiabrera et al. (1984) proposero che variazioni delle
concentrazioni citoplasmatiche di ioni Ca++ indotte dai campi magnetici stimolano la
depolimerizzazione della tubulina (il principale componente dei microtubuli del fuso). Diversi
lavori, anche se non rivolti al rilevamento di danni genotossici, indicano effetti dei campi ELF
sull’apparato mitotico (Bardasano et al., 1986; Mailhes et al., 1997; Rapley et al., 1998;
Dattilo et al., 2005). Anche Lenzi (1966; 1983) indicò – oltre ad effetti sul ciclo cellulare
75
suggestivamente simili a quelli delle radiazioni ionizzanti – anomalie durante la mitosi con
conseguente malsegregazione cromosomica. Si può congetturare anche di un possibile effetto
diretto (cioè non mediato dallo ione calcio o dai ROS) dei campi magnetici ELF sul fuso
mitotico. Non in base a fenomeni di risonanza – la cui frequenza cade nello spettro delle
radiofrequenze per i microtubuli (Pokorný, 2004) – bensì, tramite un’influenza sui
magnetosomi attaccati al citoscheletro (Binhi, 2004), oppure sulla matrice elettro-densa dei
centrosomi. Tuttavia, fino ad ora, non esistono indicazioni né sul piano sperimentale né su
quello modellistico.
Riassumendo, la figura 7 mostra i molteplici meccanismi d’azione che possono spiegare gli
effetti osservati nei topi neonati esposti ai campi magnetici ELF. Anche se, in termini assoluti,
i livelli di micronuclei indotti non sono alti quanto quelli causati da noti mutageni, questi
risultati – se confermati da altri studi – possono indicare che i campi magnetici possiedono
differite capacità di danneggiare l’integrità del genoma. E’ importante notare che, in questo
esperimento, l’esposizione cronica ai campi ELF ha causato un aumento di due volte degli
eritrociti micronucleati CREST-negativi e di quattro volte di quelli CREST-positivi.
Alla luce di questi dati – dunque – e dell’assenza di danno rilevata nei topi adulti, si possono
trarre alcune conclusioni. Innanzitutto, sull’importanza di condurre in questo campo ricerche
in vivo; già Barnothy (1964) aveva indicato come fosse necessario, per ottenere lo stesso
effetto, usare intensità maggiori in singole cellule o tessuti rispetto all’intero organismo. Ciò
indica, innanzitutto, un effetto di amplificazione che va di pari passo con l’aumentare della
complessità del sistema (Adey, 1980). “Si è visto che gli interi organismi sono i più sensibili
ai campi elettromagnetici, organi isolati e cellule lo sono meno e soluzioni di macromolecole
lo sono ancor meno […] La presenza di un’aumentata sensibilità ai campi elettromagnetici
solo in sistemi biologici complessamente organizzati può essere considerata come una delle
manifestazioni della specifica natura della vita – la sua organizzazione” (Presman, 1970).
E’ altrettanto importante presupporre che le proprietà da indagare possano variare, anche
radicalmente, al variare del soggetto o campione che si studia. Non solo l’età – quindi – ma
anche il tessuto o tipo cellulare in esame può determinare la rilevabilità di un effetto. Il fatto
che alcuni tessuti ed organi, quali il cervello (Kirschvink et al., 1992), il midollo osseo e la
milza (Attia & Yehia, 2002), presentino quantità importanti di ferro è un elemento importante
da tener presente. A questo va aggiunto che diverse cellule possono avere diverse sensibilità e
che tale sensibilità può variare durante la vita cellulare.
Infine, l’indicazione più originale che emerge da questo lavoro è la necessità di investigare a
fondo il possibile legame tra esposizione ai campi magnetici e aneuploidia. I numerosi studi
epidemiologici condotti finora hanno investigato la relazione fra campi ELF e cancerogenesi;
in base a ciò, numerose ricerche si sono concentrate sulle possibili proprietà clastogene di tali
campi. Tuttavia, anche l’aneuploidia viene considerata con sempre maggiore interesse, quale
fenomeno coinvolto nello sviluppo della cancerogenesi. Perfino, alcune recenti teorie vedono
l’aneuploidia come l’unico evento scatenante delle malattie neoplastiche (Li et al., 2000).
Inoltre, è stato evidenziato come eventi aneugenici – determinanti un’instabilità cromosomica
– durante la vita intra-uterina possano portare a leucemie e sindromi mielodisplastiche dopo la
nascita (Plumb et al., 1997; Nakanishi et al. 1999).
Maggiori ricerche in questo senso potranno permettere progressi sia nel campo della
magnetoterapia oncologica (utilizzando i campi magnetici in funzione antiblastica), sia nel
settore dell’igiene pubblica ed industriale, contribuendo a fornire le basi per l’individuazione
– e successivamente la valutazione – del rischio per quei gruppi ambientalmente e
professionalmente esposti.
76
9. SOMMARIO
Negli ultimi 20 anni sono state eseguite numerose ricerche per indagare la possibile relazione
tra cancerogenesi ed esposizione ai campi elettromagnetici. Diversi studi hanno esaminato le
proprietà genotossiche dei campi magnetici a frequenze estremamente basse (ELF), ma – ad
oggi – la tesi che questi campi posseggano le suddette proprietà risulta controversa.
Lo scopo di questa ricerca è stato quello di individuare un eventuale danno genotossico in topi
neonati ed adulti. A tal fine, il test dei micronuclei è stato eseguito su campioni prelevati da
15 topi adulti esposti per 21 giorni ad un campo magnetico di 50 Hz e 650 µT. Inoltre quattro
femmine gravide sono state esposte durante la gravidanza ed i 38 neonati sono stati sacrificati
al terzo giorno dopo la nascita (per un’esposizione totale di 21 giorni). Per distinguere quei
micronuclei contenenti un intero cromosoma da quelli contenenti un frammento, è stata
utilizzata la colorazione con anticorpo CREST. Il test è stato eseguito su eritrociti prelevati da
sangue periferico (sia adulti che neonati), fegato (neonati) e midollo osseo (adulti).
I risultati ottenuti nei neonati indicano un aumento delle frequenze medie di eritrociti
micronucleati, sia CREST-positivi che CREST-negativi. Nel sangue periferico, la frequenza
di eritrociti micronucleati CREST-positivi, pur rimanendo bassa in confronto a quelle indotte
da noti mutageni, mostra valori quattro volte superiori rispetto a quella di topi neonati non
esposti. Inoltre, è stata rilevata una diminuzione significativa di eritrociti policromatici.
Negli adulti, sebbene si sia osservato un valore maggiore delle frequenze di eritrociti
micronucleati rispetto a quello di topi non esposti, l’analisi statistica ha evidenziato che tale
differenza non è significativa. Si può suggerire – quindi – che in relazione ai campi magnetici
ELF, i topi neonati sono più sensibili rispetto agli adulti, così come avviene per altri agenti
mutageni.
Infine, questi risultati potrebbero indicare che i campi magnetici ELF influiscono attraverso
diverse vie sull’integrità del genoma. In particolare, i dati riguardanti i micronuclei CRESTpositivi evidenziano la necessità di ricercare la possibile relazione tra campi elettromagnetici
ed aneuploidia, un fenomeno chiave per capire l’inizio della cancerogenesi.
Abstract
Aneugenic and clastogenic properties of extremely low frequencies (ELF) magnetic
fields
In the last 20 years, several studies have been carried out in order to investigate the possible
relation between carcinogenesis and electromagnetic fields exposure. Several studies have
examined the genotoxic properties of extremely low frequencies (ELF) magnetic fields, but
until now, the hypothesis that these fields are genotoxic is controversial.
The aim of this work was to detect a potential genotoxic damage in newborn and adult mice.
In order to do this, the micronucleus test have been performed on samples taken from 15 adult
mice exposed for 21 days to a 50 Hz, 650 µT magnetic field. Moreover, four pregnant mice
were exposed during the whole pregnancy and the 38 newborn were sacrificed 3 days after
birth (for a total exposure time of 21 days). CREST staining was used to distinguish between
micronuclei containing a whole from chromosome and those containing a fragment. The
micronucleus test have been performed on erythrocytes sampled from peripheral blood (both
from adults and newborns), liver (newborns) and bone marrow (adults).
Results obtained in newborn mice show an increase of both CREST-positive and CRESTnegative micronuclei mean frequencies. In peripheral blood, the mean frequency of CRESTpositive micronuclei, is four times higher than that of the non-exposed newborn mice, even
though its value is low in comparison with the frequencies induced by known mutagens.
Moreover, a significant decrease of polychromatic erythrocytes has been detected.
77
In adults, even if the mean frequencies of micronucleated erythrocytes were higher than those
of the non-exposed mice, the statistical analysis revealed that this difference was not
significant. Therefore, it may be suggested that in relation to ELF magnetic fields like for
other mutagenic agents, newborn mice are more sensitive than adults.
Finally, these results may indicate that ELF magnetic fields influence through different ways
on the genome integrity. In particular, the data concerning CREST-positive micronuclei stress
the need to investigate the possible link between electromagnetic fields and aneuploidy, a
key-phenomenon to understand the start of carcinogenesis.
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