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tesi soccorso in valanga

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tesi soccorso in valanga
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI BRESCIA
Dipartimento di Specialità Medico Chirurgiche,
Scienze Radiologiche e Sanità Pubblica
CORSO DI LAUREA IN INFERMIERISTICA
ELABORATO FINALE:
SALVATAGGIO E TRATTAMENTO DEL PAZIENTE IPOTERMICO TRAVOLTO DA
VALANGA
Referente: Dott. Rainiero Rizzini
Studente:
Jennifer Gazzoli
Matricola 81449
Anno Accademico 2012/ 2013
Autrice Jennifer Gazzoli
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0
INDICE
INTRODUZIONE
pag. 3
1. LA VALANGA
1.1. La neve
pag. 5
1.2. La stabilità del manto nevoso
pag. 6
1.3. La classificazione
pag. 8
1.4. La tipologia
pag. 10
1.5. Le cause
pag. 13
2. L’IPOTERMIA
2.1. La termoregolazione
pag. 17
2.1.1 Impulsi afferenti
2.1.2 Regolazione centrale
2.1.3 Risposta efferente
2.2. L’ipotermia accidentale
pag. 21
2.2.1 La classificazione
2.3. Gli effetti dell’ipotermia sui sistemi corporei
pag. 23
2.4. Le misure di primo soccorso per il trattamento dell’ipotermia
pag. 26
3. LA RICERCA DEL DISPERSO E IL TRATTAMENTO SANITARIO
3.1. L’autosoccorso
pag. 30
3.1.1 Sequenza operativa
3.2. Il soccorso organizzato
pag. 35
3.3. Il trattamento sanitario del paziente
pag. 40
3.4. Le cause di morte del paziente ipotermico
pag. 41
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1
3.5. L’intervento sanitario
pag. 43
3.6. Il trattamento per ogni stadio dell’ipotermia
pag. 44
4. LA VALANGA CIMA CALOTTA 18/05/2013
4.1. La gestione dell’intervento in valanga
pag. 47
CONCLUSIONI
Bibliografia
Ringraziamenti
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INTRODUZIONE
L’argomento scelto come elaborato finale nasce dal mio interesse per la neve. La passione
sciistica e l’amore per la montagna mi hanno accompagnato durante tutta la vita e credo
mi indirizzeranno anche nella futura scelta lavorativa. Gli incidenti da valanga coprono una
buona percentuale degli interventi effettuati dalla Centrale Operativa del 118 di Brescia
durante il periodo invernale e primaverile. Queste missioni richiedono maggior
specializzazione nelle competenze degli infermieri, che si dimostrano professionisti
sanitari capaci di lavorare in un ambiente extraospedaliero ed ostile. Gli infermieri
dell’elisoccorso sono parte attiva sul fronte della valanga e collaborano con i volontari del
CNSAS (Corpo Nazionale Soccorso Alpino Speleologico), supporto fondamentale per le
conoscenze tecniche e nel garantire la sicurezza della scena in montagna. Da quanto ho
appreso durante questi studi, il fattore tempo è ciò che può fare la differenza sull’esito del
soccorso e scelta primaria della Centrale Operativa ricade nell’ inviare sul fronte della
valanga il mezzo avanzato più rapido, quindi l’équipe di Elisoccorso ed il personale
CNSAS (cinofili, OSA, TESA, TE, medici ed infermieri) della stazione più vicina al luogo
dell’evento; queste figure collaborano e lavorano cercando di salvare le vittime coinvolte.
Nel primo capitolo viene trattato l’evento valanghivo in generale, considerata la
classificazione delle valanghe, studiate le cause e le forze fisiche coinvolte nel fenomeno
ed
inoltre contestualizzato l’evento che descriverà lo scenario d’intervento dove
opereranno gli infermieri. Nel secondo capitolo viene riportato l’argomento cardine di
questa discussione che coincide con l’ipotermia accidentale, problema clinico principale
riportato dalle vittime seppellite da valanga, danno che l’infermiere, con il resto
dell’équipe, cerca di controllare per salvare la vita del paziente. Descritta la
termoregolazione che regola la temperatura corporea, viene spiegata cosa sia l’ipotermia,
facendo particolare riferimento agli stadi dell’ipotermia accidentale e agli effetti dannosi
sui sistemi corporei. Nel terzo capitolo prende avvio la parte di intervento infermieristico;
inizialmente vengono delineate le linee guida di come si procedere nell’Autosoccorso (prearrivo dei soccorsi), poi viene spiegato in cosa consiste il Soccorso Organizzato. Vengono
descritti i metodi di ricerca utilizzati dai tecnici del Soccorso Alpino e Speleologico e dagli
infermieri specializzati per ricercare il disperso. Trovato il disperso dal CNSAS, i
professionisti sanitari, medico e infermiere dell’elisoccorso, collaborano con i tecnici ed il
personale sanitario del CNSAS per stabilizzare il paziente e poterlo trasferire al centro
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ospedaliero adeguato alle sue esigenze. Disseppellita la vittima viene identificato quale sia
lo stadio specifico di ipotermia e a seconda della gravità viene eseguito l’intervento
sanitario più appropriato. Nel quarto capitolo è descritto un caso clinico reale riguardante
una missione del 18 maggio 2013, coordinata dalla Centrale Operativa del 118 di Brescia,
dalla ricerca al ritrovamento, la stabilizzazione sul posto e il trasporto del paziente. Infine
viene preso in considerazione
l’inserimento del Protocollo AREU sulla Gestione
dell’intervento in valanga.
Questo Elaborato Finale è una revisione della letteratura e le fonti utilizzate per la sua
stesura sono tratte letterarie da libri e materiale multimediale come SISSI “Società Italo
Svizzera Studi Ipotermia” www.ipotermia.org, AINEVA “ Associazione Interregionale
Neve e Valanga ” www.aineva.it , il Sito Ufficiale del Corpo Nazionale Soccorso Alpino e
Speleologico www.cnsas.it .
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3. LA VALANGA
Le origini dei nostri attuali termini “valanga” e “slavina” sono da ricercarsi nella lingua
latina. Nei testi antichi erano chiamate “labinae” o “lavanchiae”. Lavanchiae è
probabilmente di origine pre-latina, forse ligure, ed ha la stessa radice di “lave” che
significa scorrere di fango o lava. Molto più tardi la confusione con il vocabolo francese
“aval” (che significa “verso valle, all’ingiù”) produsse l’attuale vocabolo “avalanche”,
usato in inglese e francese, da cui deriva “valanga” in italiano. Il termine si potrebbe
applicare alla caduta di qualunque materiale, ma quando lo si usa senza specificazioni ci si
riferisce sempre alla caduta di neve.
L’altro vocabolo latino labinae deriva da “labi” che significa “slittare, scivolare giù”. In
seguito la parziale intercambiabilità delle lettere b, v e u originò molti termini propri di
particolari regioni alpine come lauie, lavina, lauina e infine l’attuale vocabolo tedesco
lawine, introdotto nell’uso corrente da Schiller e Goethe, da cui deriva il termine italiano
“slavina”.
Gli Uffici Valanghe Italiani dell’AINEVA hanno concordato di utilizzare un termine
unico: quando si parla di una massa di neve in movimento lungo un pendio, piccola o
grande che sia, si parla di valanga.
3.1. La neve
La presenza di temperature negative all'interno delle nubi determina la costruzione del
cristallo di neve: esso prende origine dalla sublimazione delle goccioline di vapore acqueo
attorno a minuscoli nuclei di congelamento. Ancora nell'atmosfera la temperatura ed il
grado di umidità influenzano lo sviluppo del cristallo secondo direttrici diverse: verso
l'alto, sui lati oppure sugli angoli, determinando la formazione di diverse tipologie di
cristalli. Questi, turbinando nell'aria, possono combinarsi tra loro formando i ben visibili
fiocchi di neve. Difficilmente i cristalli arrivano indenni al suolo: già durante la caduta la
loro forma può essere assai modificata soprattutto per effetto del vento. La loro vita al
suolo è poi soggetta ad altre trasformazioni, dette metamorfismi, determinate dalle
variazioni della temperatura dell'aria che influenza il manto nevoso:
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- temperatura dell'aria prossima agli 0 °C mantiene temperature simili anche all'interno del
manto favorendo l'arrotondamento dei cristalli e l'assestamento della neve (metamorfismo
distruttivo);
- temperatura dell'aria fortemente negativa determina la formazione di strati più freddi
all'interno del manto in prossimità della superficie e strati con temperature prossime allo
zero in profondità. Questa differenza di temperatura della neve, in rapporto allo spessore
del manto stesso, viene definita gradiente. Quanto più esso è elevato, tanto più è favorita la
costruzione di cristalli sfaccettati, o a calice, negli strati basali ed intermedi (metamorfismo
costruttivo). In superficie, invece, con questa temperatura abbiamo la cristallizzazione
dell'umidità dell'aria e la formazione di brina;
- il raggiungimento di temperature di 0° C del manto nevoso, dovuto a radiazione solare,
irraggiamento geotermico, vento o altri fattori determina la fusione dei grani e dei cristalli
di neve (metamorfismo da fusione). Le precipitazioni nevose si sovrappongono
cronologicamente le une alle altre formando degli strati con caratteristiche fisiche e
meccaniche differenti e tendono a sviluppare forze e tensioni che, sui pendii ripidi, non
sempre si controbilanciano: ecco allora che i legami si indeboliscono ed è la valanga.
3.2. La stabilità del manto nevoso
Per manto nevoso si intende il deposito al suolo di tutti i cristalli di neve e ghiaccio
formatisi in atmosfera e successivamente precipitati per effetto della forza di gravità: una
combinazione di ghiaccio e aria. I cristalli, sia in atmosfera sia al suolo, sono soggetti a
continue trasformazioni, ed a seconda delle condizioni fisiche e climatiche dell'ambiente in
cui si trovano, possono modificare la loro struttura, aggregarsi fra loro, variare i volumi e
le forme. Di conseguenza anche le caratteristiche fisiche e meccaniche, e quindi la stabilità
del manto nevoso stesso, mutano nel tempo. La "materia" neve, una volta depositata al
suolo, non ha una struttura sempre uguale nel tempo e nello spazio, ma come una specie di
"torta", presenta numerose stratificazioni, con caratteristiche anche molto diverse fra di
loro, indice di formazione e successive trasformazioni avvenute in condizioni "climatiche"
ed ambientali diverse. Anche se alla semplice vista può sembrare un corpo rigido, il manto
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nevoso in realtà ha un comportamento simile a quello di un fluido viscoso, molto denso, le
cui proprietà meccaniche dipendono principalmente dalla temperatura e dalla velocità con
cui intervengono le sollecitazioni.
Le sollecitazioni e i movimenti
Le sollecitazioni a cui il manto è sottoposto sono essenzialmente compressione, trazione e
taglio. Ovviamente la capacità di reazione è molto diversa: mentre è relativamente buona
per la compressione, possiamo ritenerla piuttosto scarsa, se non pessima, a seconda del tipo
di neve e della velocità di sollecitazione, rispettivamente per trazione e taglio. Se la
sollecitazione è applicata molto lentamente si hanno delle deformazioni viscose , poiché il
manto ha la capacità di assorbire e dissipare la sollecitazione stessa, mentre se
l'applicazione è veloce sono molto probabili delle fratture elastiche; pensiamo ad esempio
al peso di una nuova nevicata che pur rappresentando una notevole sollecitazione, può
avere sul manto l'effetto di assestamento, mentre il sovraccarico dovuto al passaggio di uno
sciatore potrebbe significare il distacco di una valanga. In realtà i movimenti lenti del
manto nevoso, e cioè quelli che in ogni momento lo interessano e che determinano le
deformazioni tipiche della neve, oltre all’assestamento, comprendono anche lo scorrimento
e lo slittamento. Lo scorrimento, a causa degli attriti fra manto nevoso e terreno e fra gli
strati stessi, risulta più marcato nelle zone più superficiali; anche lo slittamento, cioè lo
scorrimento dell'intero manto nevoso rispetto al terreno, dipende principalmente dall'attrito
fra base del manto e terreno stesso, ma è fortemente influenzato dall'angolo di inclinazione
del pendio.
La stabilità
Il manto nevoso è soggetto alla forza di gravità che si manifesta con movimenti e
deformazioni più o meno evidenti a seconda della velocità e dell'intensità delle forze che
entrano in gioco. Con l’applicazione di queste forze su un piano orizzontale, l'effetto
risultante nel tempo è l'assestamento, cioè la riduzione di spessore e di volume con
conseguente aumento della densità della massa nevosa e la diminuzione dell'altezza del
manto. Quando il piano è inclinato, la forza T, componente parallela al terreno della forza
peso P, determina una sollecitazione tale da causare il movimento lungo il pendio. Se
questa sollecitazione è veloce e non controbilanciata da attriti e forze resistenti avremo il
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fenomeno valanga. I principali fattori che influenzano la stabilità del manto nevoso sono
quindi l'inclinazione dei pendii e l'altezza del manto che, con il loro aumento, accrescono
la componente della forza peso parallela al pendio.
Possiamo quindi introdurre il concetto di grado di stabilità S, definendolo come rapporto
fra le forze resistenti R, cioè quelle che si oppongono al movimento, e le forze propulsive
T, cioè quelle parallele al pendio che tendono a muovere il manto:
S = R/T
E pertanto:
-se R>T sarà S >1 e si avranno condizioni di stabilità;
-se R=T sarà S=1 e si avranno condizioni di equilibrio precario;
-se R< 1 sarà S<1 e si avranno condizioni di instabilità (valanga).
Non dobbiamo comunque dimenticare che nella realtà molto spesso la situazione è più
complessa a causa dell'estrema variabilità del manto nevoso, che a sua volta è legata alla
variabilità di terreno, vegetazione, quota, esposizione eccetera. Nel manto infatti possiamo
avere, anche in spazi ridotti, una estrema varietà di situazioni con zone caratterizzate da
tensioni molto forti e zone con resistenze molto deboli.
3.3. La classificazione
In ogni tipo di valanga è possibile riconoscere una zona di distacco, una di scorrimento ed
una terminale di accumulo o arresto. La zona di distacco è il luogo dove si origina il
fenomeno. Sovente è collocata in prossimità delle creste dorsali, al di sopra del limite della
vegetazione forestale o dove la neve, a seguito di nuove precipitazioni o del trasporto
eolico, si accumula. Qui la neve instabile si frattura e comincia a muoversi. Perché una
valanga si inneschi è necessaria un’inclinazione del pendio di almeno 30°; sotto tale valore
il distacco risulta estremamente raro. Altri fattori influenzano il distacco: la morfologia del
terreno, la quota, l’esposizione, la copertura vegetale ed il sovraccarico esterno. La zona di
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scorrimento è l’area compresa tra la zona di distacco e quella di arresto; è qui che la
valanga raggiunge la sua massima velocità. Tale zona, spesso, è caratterizzata, oltre che da
elevate pendenze, dalla quasi totale assenza di vegetazione arborea o dalla presenza di
specie arboree differenti o di età diversa rispetto alle zone limitrofe. La zona di accumulo è
il luogo dove la massa nevosa rallenta progressivamente fino a fermarsi. Può essere un
ampio ripiano, un fondovalle o il versante opposto di una vallata. Qui le valanghe possono
essere deviate anche da piccoli ostacoli, come gli alberi di un bosco.
Da sempre gli abitanti delle montagne e gli studiosi hanno cercato di classificare le
valanghe, ma, date le notevoli variabili che entrano in gioco (tipo di distacco, tipo di neve,
posizione del piano di scorrimento ), qualsiasi classificazione è risultata insufficiente per
cogliere tutti gli aspetti. L’unico modo per caratterizzare inequivocabilmente un evento
valanghivo è definire una serie di criteri:
-Tipo di distacco
Si possono verificare due modalità di innesco di un fenomeno valanghivo: il distacco
puntiforme che genera una valanga di neve a debole coesione ed il distacco lineare che dà
luogo ad una valanga a lastroni.
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-Posizione della superficie di slittamento
Se la rottura avviene all’interno del manto nevoso si ha una valanga di superficie, mentre
se avviene a livello del terreno la valanga è detta di fondo.
-Umidità della neve
In base al diverso contenuto in acqua possono essere osservate valanghe di neve umida e
valanghe di neve asciutta; queste ultime possono anche essere polverose o nubiformi.
-Forma del percorso
Quando la valanga scorre all’interno di un canale o di una gola è detta incanalata, quando
invece scorre su un pendio aperto è detta di versante.
-Tipo di movimento
Se il moto della valanga avviene a contatto della superficie questa viene detta radente, se
invece la valanga si sviluppa sotto forma di nuvola di polvere di neve viene detta
nubiforme. Le valanghe miste abbinano entrambi i moti.
-Causa innescante
In base a tale caratteristica si distinguono infine le valanghe spontanee e le valanghe
provocate .
3.4. La tipologia
- Valanghe a di neve a debole coesione: nelle valanghe a debole coesione il movimento si
origina a partire da una o alcune particelle di neve incoerente, e durante la caduta si
propaga ad altra neve, formando una traiettoria via via più larga, di forma triangolare detta
anche a “pera”. Per consentire la propagazione del moto queste valanghe richiedono
pendenze superiori a quelle sulle quali si sviluppano normalmente le valanghe a lastroni; è
stato osservato che la maggior parte di esse si formano su pendii con inclinazione
compresa tra 40° e 60° (fig.9). La neve a debole coesione, quando è polverosa, è molto
leggera, ha una densità inferiore a 100 Kg/m3 e la sua temperatura è sempre inferiore a 0°
C. Valanghe di neve a debole coesione, alle nostre latitudini, si formano generalmente in
inverno, con temperature dell’aria basse e dopo abbondanti nevicate. Se la pendenza del
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versante non è molto elevata la distanza percorsa da queste valanghe è breve e non si
raggiungono elevate velocità. Anche l’estensione in larghezza risulta complessivamente
ridotta rispetto alle valanghe a lastroni. Tuttavia le valanghe a debole coesione possono
essere anche di neve bagnata; in questo caso la neve ha una densità nettamente superiore
con valori prossimi anche ai 300-500 Kg/m3 e temperature vicine agli 0° C. Queste sono
molto lente e si innescano su pendii anche inferiori ai 30°.
- Valanghe di neve a lastroni: le valanghe a lastroni sono dovute al distacco improvviso di
un intero lastrone di neve coerente, a partire da un fronte più o meno esteso. In esse la neve
si stacca a lastre e solo durante il movimento queste si spezzano in frammenti di minori
dimensioni. Perché si formi un lastrone è necessario che all’interno della coltre nevosa ci
siano strati con una coesione sufficientemente elevata da consentire la trasmissione delle
sollecitazioni a grande distanza e che ci sia una scarsa legame tra il lastrone e lo strato
sottostante. Ciò avviene, per esempio, per l’azione del vento che determina una
frantumazione meccanica dei cristalli di neve con conseguente compattazione dello strato e
scarsi legami tra lo strato rimaneggiato e quello sottostante (si parla in questo caso di
lastroni da vento caratterizzati da una densità superiore ai 200 Kg/m3). Le valanghe a
lastroni possono essere di superficie o di fondo a seconda che si muovano solo alcuni strati
superficiali o l’intero manto nevoso. Le prime sono le più comuni: in esse uno strato più
fragile funge da piano di distacco e su di esso slitta uno strato più o meno spesso di neve
asciutta che generalmente viene apportata dal vento. Ma il lastrone, talvolta, può essere
costituito da neve soffice (la densità in questo caso può essere anche prossima ai 100
Kg/m3). Le valanghe a lastroni si formano con maggior frequenza su pendii aventi
inclinazione variabile tra 30° e 50°, tuttavia si possono avere distacchi anche con pendenze
più basse.
Nella maggior parte dei casi il distacco avviene per un aumento del carico sul manto
nevoso dovuto al passaggio di sciatori; le valanghe in questo caso vengono dette
“provocate”. Esse possono raggiungere velocità elevate in spazi brevi, presentando una
forte accelerazione. In condizioni di versante particolarmente accidentato i lastroni, durante
il moto, possono addirittura frantumarsi dando origine a valanghe di tipo nubiforme.
- Valanghe di neve umida: si definisce neve umida o bagnata quella che contiene acqua
allo stato liquido ed ha una temperatura di 0 °C. È più pesante di quella asciutta (con
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densità variabile mediamente fra 300 e 400 Kg/m3). Le valanghe di questo tipo, che nella
zona di distacco possono essere sia puntiformi (a debole coesione) sia a lastroni (a elevata
coesione) con distacco per linee spezzate, si formano dopo un forte rialzo termico: sono
quindi tipiche, anche se non esclusive, del periodo primaverile. Si possono rilevare anche
d’inverno dopo una circolazione sciroccale che abbia instaurato una fase di disgelo o
apportato piogge in quota per più giorni. Sono caratterizzate da una velocità di scorrimento
piuttosto modesta (30-50 Km/h), e, data la loro elevata densità, travolgono e spingono a
valle tutto ciò che incontrano.
Seguono percorsi preferenziali determinati dalla morfologia del terreno, quali canaloni o
impluvi del reticolo idrografico. Caratteristiche di queste valanghe sono le striature che
talvolta lasciano lungo il percorso, dovute a incisioni sul fondo e sui fianchi del versante
operate dai massi e dal materiale detritico trasportati dalla massa nevosa.
- Valanghe di neve asciutta e valanghe di neve mista: se invece la valanga si sviluppa
lungo versanti molto acclivi, la neve si mescola all’aria e forma una nube, un aerosol di
piccole particelle di neve fredda e asciutta, che scende a velocità molto elevate, anche oltre
i 300 Km/h. Si parla in questo caso di valanga nubiforme. La possibilità di formazione di
valanghe di questo tipo è legata al distacco di un lastrone di neve asciutta che, scorrendo su
un pendio particolarmente scosceso e accidentato, si spezza in blocchi e frammenti ed
ingloba grandi quantità d’aria. Se la velocità supera i 100 Km/h, le particelle di neve
asciutta si disperdono in una nube (di densità compresa tra 3 e 15 Kg/m3) che scorre a
velocità elevatissima, con altezza di scorrimento anche di alcune decine di metri. Essa non
segue percorsi preferenziali, ma scorre dritta lungo il versante superando qualsiasi ostacolo
morfologico o strutturale; pertanto lo spazio di arresto risulta di molto superiore a quello
delle valanghe radenti. Queste valanghe sono caratterizzate dallo sviluppo di un soffio,
ovvero un’onda di pressione d’aria che sopravanza il fronte visibile della valanga ed ha un
enorme potere distruttivo. La maggior parte dei fenomeni osservabili sono tuttavia
costituiti da valanghe miste, nelle quali i blocchi più grossi si muovono scorrendo radenti
alla superficie del pendio, mentre le particelle più piccole vengono trasportate dall’aria.
Generalmente su pendii ripidi le componenti radente e polverosa procedono alla stessa
velocità, mentre su pendii meno acclivi la componente polverosa precede quella radente,
percorrendo spazi maggiori.
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3.5. Le cause
Le cause scatenanti delle valanghe dipendono dalle caratteristiche del manto nevoso e da
altri fattori.
Tra le cause naturali si annoverano:

sovraccarico nevoso al di sopra di un pendio: aumenta la gravità che agisce contro
la forza di coesione dei cristalli di ghiaccio; tale rischio aumenta con la pendenza e
nei versanti sottovento per l'accumulo eolico di neve come ad esempio nei
canaloni. Questo tipo di fattore di rischio dà spesso luogo a valanghe di fondo.

precipitazioni nevose su un pendio innevato ghiacciato o già fortemente
consolidato: la ridotta coesione tra i due strati formatisi determina una
disomogeneità o discontinuità del profilo di coesione del manto nevoso che facilita
lo slittamento e scorrimento a valle della massa nevosa superficiale (effetto scivolo
e valanghe di superficie); tali valanghe superficiali sono comunemente dette
slavine; tale rischio aumenta se la qualità della neve superficiale è resa pesante da
alta umidità dell'aria.

precipitazione piovosa su un pendio abbastanza innevato: aumenta il carico
gravitazionale e riduce contemporaneamente anche la forza di coesione; si
accompagna spesso all'innalzamento termico.

innalzamento termico: favorisce l'instabilità del pendio innevato diminuendo la
forza di coesione; se provoca anche la fusione parziale del manto nevoso il rischio
aumenta ancor di più; tale rischio aumenta nei versanti esposti a sud per via della
maggiore insolazione, nelle ore centrali della giornata e nel periodo primaverile
di disgelo.

vento: agisce meccanicamente aumentando localmente il carico gravitazionale o
diminuendo le forze di coesione fino al raggiungimento e superamento del carico di
rottura; tale rischio aumenta con l'intensità del vento e nei versanti sopravvento.
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Tra le cause artificiali ovvero umane si annoverano essenzialmente:

passaggio di uno o più sciatori o alpinisti su un pendio a rischio ovvero vicino alla
soglia limite di rottura: l'azione scatenante è impartita anche solo attraverso il peso
dello sciatore, spesso amplificato dal moto verso valle dello stesso e da manovre
brusche o del tutto errate o sconsigliate come la traversata longitudinale del pendio
a rischio;

cariche di esplosivo volutamente e debitamente piazzate per produrre una valanga
artificiale e diminuire così il rischio connesso all'instabilità conclamata del pendio.
Possono essere fattori mitigatori del rischio l'eventuale geomorfologia del pendio (pendio
fortemente sconnesso cioè sassoso e ruvido), la presenza di vegetazione sufficiente,
condizioni meteorologiche favorevoli come freddo intenso.
La probabilità di una valanga aumenta quindi proporzionalmente con l'accumulo nevoso, la
pendenza e la particolare geomorfologia del pendio (luoghi particolarmente a rischio
risultano i canaloni per l'accumulo eolico di neve), condizioni meteorologiche sfavorevoli,
la temperatura e il vento. Si suole spesso assegnare una pendenza critica al pendio per la
generazione di valanghe, ma episodi valanghivi possono verificarsi anche su pendii non
considerati a rischio per la pendenza quando gli altri fattori di rischio menzionati agiscono
in combinazione tra loro o in discesa da pendii superiori oltre tale criticità.
Spesso le valanghe sono più frequenti nel periodo primaverile quando si sommano molti
dei fattori di rischio sopraesposti, ovvero in corrispondenza di nevicate particolarmente
abbondanti con neve molto umida su pendio già molto assestato o ghiacciato e maggior
rischio dovuto ai repentini e accentuati sbalzi termici per la maggiore insolazione.
In genere le valanghe sono più frequentemente causate da un fattore scatenante di tipo
umano al di sopra di un pendio già a rischio ovvero fattori naturali e umani si legano
insieme tra loro.
In generale dunque per diminuire il rischio di incorrere in una valanga e procedere in
condizioni di relativa sicurezza, dopo un periodo particolarmente nevoso, occorre attendere
l' assestamento del manto nevoso, processo che passa generalmente attraverso una fase
critica di rischio, durante la quale è altamente sconsigliata l'attività escursionistica. Questa
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fase è caratterizzata da metamorfismo dei cristalli di ghiaccio favorito da condizioni
avverse quali aumento termico e/o precipitazioni piovose in grado di provocare fusione e
successivo ricongelamento e/o eventuali distacchi spontanei e, superata la quale, il manto
trova condizioni di maggiore equilibrio per aumentata coesione.
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4. L’IPOTERMIA
L'ipotermia si definisce come un abbassamento della temperatura corporea al di sotto dei
35° C. A questa temperatura, il sistema responsabile della termoregolazione si indebolisce
perché la risposta fisiologica compensatoria, per ridurre la perdita di calore, è parzialmente
inibita.
Possiamo distinguere un’ipotermia accidentale o primaria, a seguito di permanenza in un
ambiente freddo senza un’adeguata protezione, e un’ipotermia secondaria. Quest’ultima
può rappresentare la complicanza di una patologia che influisce sul controllo centrale o
periferico della termoregolazione.
Le cause dell’ipotermia secondaria sono la diminuzione della produzione di calore per
insufficienza endocrinologia e alimentazione insufficiente; l’aumento della perdita di
calore per esposizione ambientale o per vasodilatazione indotta dall’assunzione di alcool e
droghe. Si possono riconoscere altre cause nei danni ai centri della termoregolazione per
accidenti cerebrovascolari o per neuropatie.
I segni clinici evidenti dell’ipotermia sono:

brividi

difficoltà motoria

cute e mucose bluastre

riduzione della frequenza cardiaca e della frequenza respiratoria

sonnolenza

alterazione dello stato di coscienza
L’ipotermia viene distinta in quattro gradi:
Grado 1: Brivido, sensazione di freddo, non alterazioni della coscienza. 35°-32° C
Grado 2: Stato soporoso, nessun brivido. 32°-28°C
Grado 3: Incoscienza, parametri vitali rilevabili. 28°-24°C
Grado 4: Assenza di segni vitali. <24°C
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2.2. La termoregolazione
L’essere umano è un organismo omeotermo che, a differenza degli organismi poichilotermi
o pecilotermi che si adattano all’ambiente climatico esterno, necessita di una temperatura
corporea interna costante. La termoregolazione ha il compito di mantenere una temperatura
corporea centrale attorno ai 37°C con possibilità di variazione di alcuni decimi di gradi
centigradi. Il mantenimento di una temperatura interna costante, permette all’organismo lo
svolgimento delle proprie funzioni vitali, come l’attività cardio – circolatoria, il
metabolismo cellulare o l’omeostasi dell’equilibrio acido – base.
La termoregolazione fisiologica viene garantita tramite l’elaborazione di impulsi termici
afferenti, la risposta centrale a tale informazione e l’attivazione di meccanismi periferici,
indotti da impulsi efferenti.
2.2.1 Impulsi afferenti
La rilevazione della temperatura corporea avviene con l’ausilio di cellule termicamente
sensibili centrali e periferiche distribuite sul corpo. Responsabili di tale rilevazione sono
due tipi di cellule, le une sensibili al freddo e le altre sensibili al caldo, differenti tra loro
nella forma anatomica e nel funzionamento fisiologico. Sia i recettori del caldo che quelli
del freddo reagiscono a modificazioni della temperatura (interna ed esterna), aumentando
la propria attività in relazione ad un aumento o ad una diminuzione della temperatura. Le
informazioni del freddo vengono condotte in prevalenza attraverso fibre nervose Aδ,
mentre quelle del caldo attraverso fibre nervose amieliniche C. Le fibre nervose C
percepiscono e conducono inoltre sensazioni dolorifiche; una sensazione di calore intenso
non è distinguibile da una sensazione di dolore acuto e pungente. La maggior parte delle
informazioni termiche ascendenti, attraversano il tratto spinotalamico nel midollo spinale
anteriore, in assenza tuttavia di un fascio del tratto spinale responsabile della conduzione
termica. Solo una lesione completa del midollo spinale provoca la perdita della risposta
termoregolatoria.
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2.2.2 Regolazione centrale
La temperatura è regolata a livello centrale principalmente dall’ipotalamo, che confronta
gli impulsi termici provenienti dai vari tessuti con i valori soglia predeterminati. Molte
rilevazioni termiche sono analizzate nel midollo spinale ed in altre parti del sistema
nervoso centrale. Modificazioni della temperatura corporea centrale richiedono una
risposta termoregolatoria e l’intensità di essa è direttamente proporzionale alla
modificazione della temperatura corporea. L’efficacia della risposta termoregolatoria alle
modificazioni termiche risulta dalla temperatura corporea centrale misurata e dalle misure
termoregolatorie adottate. La temperatura corporea varia secondo un ciclo giornaliero
(ciclo circadiano) ed inoltre nella donna è soggetta mensilmente a variazioni derivanti dal
ciclo mestruale (variazioni di circa 0,5°C). La soglia ideale della temperatura può subire
modificazioni in seguito a numerosi altri fattori, sia interni che esterni: l’esercizio fisico,
l’alimentazione, le infezioni, l’ipo- e ipertiroidismo, gli anestetici e altre sostanze.
La risposta del sistema neurovegetativo avviene per l’80% dalle informazioni provenienti
dalle strutture centrali, mentre la risposta comportamentale (ad esempio l’attività fisica,
l’uso di indumenti idonei, etc.) avviene inseguito ad informazioni dalla superficie cutanea.
Il range intersogliare, denominato anche “zona nulla”, descrive la soglia di temperatura
compresa tra quella della sudorazione e quella della vasocostrizione. In questa fascia di
temperatura non avvengono risposte autonome. La sudorazione e la vasocostrizione sono i
due meccanismi che regolano questo range. La termoregolazione centrale può infine subire
delle alterazioni anche a causa dell’età.
2.2.3 Risposta efferente
Il corpo risponde ad alterazioni dei livelli ideali della temperatura corporea attraverso
meccanismi effettori, aumentando la produzione di calore per via metabolica oppure
modificando le perdite di calore verso l’ambiente circostante.
I meccanismi termoregolatori attivati dal corpo dipendono dalla temperatura rilevata e
conducono alla produzione o conservazione del calore secondo la necessità. Un’inibizione
degli effettori specifici, come avviene farmacologicamente con la somministrazione di
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miorilassanti, altera le possibilità di compensazione dell’organismo per il mantenimento
dell’omeostasi della temperatura corporea.
L’organismo utilizza due tipi di risposta ad eventuali cambiamenti della temperatura
corporea: la risposta neurovegetativa e la risposta comportamentale.
La risposta comportamentale è il meccanismo effettore più importante. La copertura del
corpo con indumenti appropriati, la modificazione della temperatura ambientale (ad
esempio all’interno dei luoghi di soggiorno o di abitazione) ed il movimento attivo sono
esempi di questo tipo di risposta.
La risposta neurovegetativa comprende la vasocostrizione e la vasodilatazione dei vasi
sanguigni, l’erezione pilifera, i brividi, la sudorazione e la termogenesi metabolica.
La vasocostrizione è la risposta neurovegetativa maggiormente usata dall’organismo e
permette di ridurre efficacemente la perdita di calore attraverso la convezione e la
radiazione. Il circolo sanguigno a livello della cute si distingue in una componente
nutrizionale (prevalentemente capillare) ed una termoregolatrice (prevalentemente shunt
arterovenosi), differenti tra loro sia anatomicamente che funzionalmente. Gli shunt
arterovenosi sono usati come un sistema “on” – “off” e vengono attivati in seguito a
variazioni di alcuni decimi di grado centigrado della temperatura corporea centrale. Circa il
10% della gittata cardiaca attraversa gli shunt arterovenosi. Quindi una vasocostrizione
degli shunt arterovenosi comporterà un incremento della pressione arteriosa media di 15
mmHg.
-La termogenesi non muscolare aumenta la produzione di calore mediante metabolismo.
Il metabolismo è controllato dalla norepinefrina, rilasciata a sua volta da terminazioni
nervose adrenergiche. Le maggiori fonti per la produzione di calore non muscolare
nell’adulto sono la massa muscolare scheletrica ed il grasso bruno.
-Il tremore (brivido), aumenta la produzione di calore metabolica del 50% – 100%. La
produzione di calore è molto superiore se indotta da esercizio fisico (500%).
-La sudorazione è mediata da terminazioni colinergiche ed è uno dei più efficaci
meccanismi di cui dispone il corpo umano per disperdere calore verso l’ambiente. Con
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0.58 kcal/g di sudore evaporato, questo meccanismo è un elemento indispensabile della
termoregolazione.
-La perdita di calore è inoltre ottenuta tramite la vasodilatazione, meccanismo
apparentemente attivato dal monossido di azoto (NO). L’effetto è minore della
sudorazione.
Caratteristiche fisiopatologiche dell’ipotermia (secondo PHTLS)
C° Caratteristiche
37.6 Temperatura rettale normale
37.0 Temperatura orale normale
36.0 Aumento del metabolismo basale e della pressione sistolica e tono muscolare prebrivido
35.0 Temperatura urina 34.8°C, massima termogenesi da brivido
34.0 Amnesia, disartria e scarso giudizio, comportamento mal adattativo, normale
pressione arteriosa, massimo stimolo respiratorio, tachicardia, poi progressiva bradicardia.
33.3 Atassia e apatia; depressione lineare del metabolismo cerebrale, tachipnea,
poi progressiva diminuzione del volume respiratorio minuto, diuresi da freddo.
32.0 Stupor, riduzione del consumo d’ossigeno del 25%
31.0 Termogenesi da brivido estinta
30.0 Fibrillazione atriale e altre aritmie, poichilotermia, pupille e gittata cardiaca
due terzi del normale, insulina inefficace
29.0 Decremento progressivo di livello di coscienza, polso e respiro; pupille dilatate;
svenimento paradosso
28.0 Diminuita soglia di fibrillazione ventricolare; consumo d’ossigeno e polso diminuiti
del 50%; ipoventilazione
27.0 Perdita di riflessi e del movimento volontario
26.0 Gravi disturbi acido-base; nessun riflesso o risposta al dolore
25.0 Flusso ematico cerebrale un terzo del normale; perdita dell’autoregolazione cerebrale;
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gittata cardiaca ridotta del 45%; può comparire edema polmonare.
24.0 Ipotensione e bradicardia significativa.
23.0 Assenza di riflesso corneale od oculocefalico; areflessia
22.0 Massimo rischio di fibrillazione ventricolare; consumo d’ossigeno ridotto del 75%
20.0 Minimo recupero d’attività cardiaca elettromeccanica; polso al 20% del normale
19.0 Silenzio elettroencefalografico
18.0 Asistolia
15.0 Sopravvivenza più bassa dell’ipotermia accidentale del bambino
13.7 Sopravvivenza più bassa dell’ipotermia accidentale nell’adulto
10.0 Riduzione del consumo d’ossigeno del 92%
9.0 Sopravvivenza più bassa dell’ipotermia terapeutica
2.5. L’ipotermia accidentale
Per ipotermia accidentale (IA) si intende una riduzione non programmata della temperatura
centrale al di sotto dei 35°C. L’IA non riconosciuta, trattata o adeguatamente gestita,
rappresenta una condizione morbosa gravata da elevata mortalità. Si hanno ripercussioni
sul sistema cardiocircolatorio, sul sistema nervoso centrale, sull’apparato respiratorio,
sull’equilibrio idro-elettrolitico ed acido-base, sulla coagulazione, che divengono
progressivamente irreversibili. La gestione logistica ed il trattamento medico del paziente
affetto da IA si fonda sull’interazione interdisciplinare di diverse competenze atte ad
ottimizzare le prime cure in loco, il trasporto presso strutture attrezzate, le manovre
rianimatorie opportune all’accoglimento, il riscaldamento esterno ed interno del soggetto.
Nei Paesi a clima freddo l’ipotermia accidentale severa rappresenta un problema frequente
e clinicamente impegnativo che richiede un trattamento medico rapido e l’utilizzo di
tecniche specialistiche.
Può essere una condizione primitiva, conseguente ad immersione in acqua fredda o ad
incidenti alpinistici (caduta in crepaccio, seppellimento da valanga, esposizione prolungata
a basse temperature), o essere la complicanza di stati patologici quali disturbi metabolici,
disturbi del sistema nervoso centrale, intossicazione da alcool e/o farmaci.
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L’organismo umano è definito omeotermo perché mantiene costante la sua temperatura
centrale al variare della temperatura ambiente, grazie all’equilibrio tra termogenesi e
termolisi.
La termogenesi viene determinata dall’attività metabolica dei tessuti sotto l’influenza di
diverse variabili, aumento tono muscolare fino al brivido, regolazione del tono vasale
(vasocostrizione) e della portata cardiaca, aumento del metabolismo basale. La termolisi
consiste, invece, nella dispersione del calore, prevalentemente tramite la cute grazie ai
meccanismi di evaporazione, radiazione, convenzione e conduzione. L’equilibrio tra i due
sistemi è sotto controllo del sistema nervoso centrale: l’ipotalamo.
2.5.1 La classificazione
Secondo ICAR Medicom ( Commissione Medica Internazionale del Soccorso Alpino ) vi è
una classificazione di V stadi correlati alla temperatura (esofagea-timpanica) ed ai sintomi.
Ipotermia
Trauma
Non
Trauma
Lieve
- HT I
34-36 C°
35-32 C°
Moderata - HT II
34-32 C°
32-28 C°
Severa
< 32 C°
28-20 C°
- HT III
Profonda - HT IV
24-13,7
C°
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Estrema
- HT V
< 13,7 C°
STADI DELL’IPOTERMIA
Stadio I: paziente cosciente, tachicardico, tachipnoico,
iperteso, brivido, tende alla
centralizzazione del calore (temperatura centrale inferiore 35°-32°C)
Stadio II: paziente sonnolento, senza tremore muscolare, rigidità muscolare, alterazioni
ECG (rischio aritmie fatali) 32°C ; perdita di coscienza, PA non rilevabile, bradicardico,
bradipnoico con ipoventilazione, broncorrea 30°C ;
MORTE apparente: muscolatura flaccida, cute rosea, mediamidriasi, ROT assenti,
diminuzionescomparsa attività respiratoria e circolatoria 28°C.
Stadio III: paziente incosciente
(temperatura centrale inferiore 28°-20°C)
Stadio IV: arresto cardiorespiratorio
(temperatura centrale inferiore 20°-13,7°C)
Stadio V: Morte < 13,7°C
2.6. Gli effetti dell’ipotermia sui sistemi corporei
In base al grado di ipotermia il paziente presenta diversi sintomi che si vanno aggravando
con l’abbassamento della temperatura fino alla perdita di coscienza, all’arresto
cardio/respiratorio ed infine alla morte o morte “apparente”. Esistono infatti diversi casi di
soggetti con temperature centrali ben inferiori a 20°C che, con le adeguate manovre di
rianimazione e riscaldamento, hanno avuto un ottimo outcome senza riportare danni
neurologici o fisici.
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La diminuzione della temperatura corporea determina delle manifestazioni cliniche relative
al grado di classificazione.
L’emoglobina fredda non può rilasciare ossigeno ai tessuti così velocemente come si ha in
normotermia, problema rilevante per un traumatizzato in debito di O2 ,derivato soprattutto
da emorragie, ipotensione e shock. L’ipotermia induce alla coagulopatia, promovendo
ulteriori emorragie.
Le funzioni cardiache sono depresse dal freddo, così come quelle ventilatorie, renali,
epatiche e del sistema nervoso centrale.
SISTEMA TC
LIEVE 36 - 34
MODERATA 34 -
SEVERA <30
30
SNC
Confusione
Letargia
Declino EEG
mentale
Allucinazioni
Coma
Amnesia
Perdita del riflesso
Perdita del riflesso
pupillare
oculare
Anomalie EEG
CARDIOVASCOLARE
Tachicardia
Bradicardia
Diminuzione della
Aumento attività
progressiva
PA
cardiaca e
(non rispondente
e dell’attività
resistenza
alla
cardiaca.
vascolare
somministrazione
Fibrillazione
di atropina)
ventricolare (se TC
Diminuzione
< 28° C), asistolia
dell’attività
(se TC < 20°C)
cardiaca e
della PA.
Aritmia atriale e
ventricolare.
Onda J (Osborn)
all’ECG.
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RESPIRATORIO
Tachipnea
Ipoventilazione
Edema polmonare
Broncorrea
(diminuzione RR
Apnea
e tidal volume)
Diminuzione del
consumo di O2 e
della
produzione di
CO2 Perdita del
riflesso della
tosse.
Aumento della
RENALE
Oliguria
Diminuzione della
diuresi
perfusione renale e
della GRF
Oliguria
MUSCOLO
Aumento del
Diminuzione del
Paziente
brivido
brivido( <32°C)
apparentemente
Rigidità
morto,
muscolare.
“pseudo – rigor
SCHELETRICO
mortis”
Aumento dell’ematocrito; diminuzione conteggio piastrine e
EMATOLOGICO
globuli bianchi; coagulopatia; CID
Pancreatite; disfunzioni epatiche
GASTROENTERICO
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Iperglicemia
Diminuzione del metabolismo
METABOLICO
Aumento metabolismo
basale;
ENDOCRINO
Basale
iper o ipoglicemia.
2.7. Le misure di primo soccorso per il trattamento dell’ipotermia
Ipotermia I – II (reagisce)

Evitare movimenti importanti.

Riparazione dal vento.

Involucro termico.

Bevande calde senza alcool.
Ipotermia III (non reagisce)

Evitare grandi movimenti.

Riparazione dal vento.

Involucro termico.

Osservazione rigorosa, controllo del polso e della respirazione.

Misurazione della temperatura centrale (termometro timpano).

Inalazione di ossigeno.

Trasporto in elicottero in un ospedale dotato di personale medico e infermieristico
con esperienza nel campo dell’ ipotermia.
Ipotermia IV (arresto cardiocircolatorio)

Rianimazione cardiopolmonare senza interruzioni.
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
Trasporto in elicottero in un ospedale dotato di apparecchiature per circolazione
extracorporea.
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4.
LA RICERCA DEL DISPERSO E IL TRATTAMENTO SANITARIO
La morte in valanga avviene per il 65% dei casi a causa di asfissia acuta, per il 25% in
seguito ad asfissia ritardata associata ad ipotermia e per il 10% circa a causa di ferite letali.
Una riduzione della mortalità può essere ottenuta soltanto migliorando l’autosoccorso con
l’obiettivo di accrescere il numero dei salvataggi entro i primi 15 minuti. Il destino dei
travolti dipende essenzialmente dall’efficienza dei soccorsi prestati immediatamente dopo
il distacco della valanga.
Le premesse per un salvataggio immediato ed efficace sono:
1. la presenza di compagni rimasti illesi;
2. la conoscenza dell’uso dell’ARTVA = Apparecchio Ricerca Travolti VAlanga
(strumento trasmettitore-ricevitore su onde
lunghe 457 Mhtz per la rilevazione e localizzazione del travolto);
3. l’uso della pala e della sonda;
4. una certa esperienza nelle tecniche basali di rianimazione.
La profondità media di seppellimento è di 1 metro, solamente pochi soggetti si trovano a
una profondità maggiore di 2 metri. Vi è una stretta correlazione tra la profondità e la
durata del seppellimento: quanto più profonda è la vittima, tanto più tardi viene recuperata.
Entro i primi 15 minuti dal seppellimento le probabilità di ritrovare persone in vita sono
del 93%. Su 100 travolti, 7 persone non sopravvivono a causa delle lesioni mortali subite
durante il travolgimento stesso.
Tra i 15 e i 45 minuti dal seppellimento, si osserva un forte calo delle probabilità di
sopravvivenza, che passano dal 93% al 25% circa. Durante tale periodo subentra la morte
per asfissia acuta per tutti i sepolti che non dispongano di una cavità d’aria in prossimità
delle vie aeree superiori.
Tra i 45 e i 90 minuti dal seppellimento, una piccola percentuale dei travolti (circa il 20%)
sopravvive se dispone però di una certa quantità d’aria e gode di una sufficiente “libertà
toracica” per i movimenti respiratori. In seguito, tra i 90 e i 130 minuti, si muore per
ipotermia, la temperatura diminuisce di circa 4,5 °C fino a raggiungere la temperatura
critica di 33°C considerando la velocità media di raffredamento ipotizzata in 3°C/h
(Locher e Walpoth 1996 - a partire dalla quale si manifesta il rischio di fibrillazione
ventricolare).
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Numerose relazioni indicano che in presenza di tipi di neve molto porosa (neve fresca e
polverosa) una cavità per respirare, anche se relativamente piccola, rende possibile una
sopravvivenza prolungata senza causare così al travolto dei danni permanenti.
L’aspettativa di sopravvivenza è limitata nel tempo perché i sepolti non solo possono
diventare ipotermici, ma contemporaneamente asfittici.
Dallo studio si suppone che la morte di questi pazienti sia dovuta a tre fattori:
1. diminuzione della concentrazione di ossigeno (PO2)
2.
aumento dell’anidride carbonica (PCO2)
3. diminuzione della temperatura centrale
Inoltre, alcuni dati statunitensi hanno recentemente rilevato che i pazienti con una cavità
respiratoria chiusa presentano elevatissimi livelli di PCO2 (fino a 60 mmHg).
Quest’ipercapnia, tramite la concomitante acidosi, renderebbe vulnerabile il miocardio e
provocherebbe aritmie gravi fino alla fibrillazione ventricolare. Non si conosce ancora
quale dei tre fattori sia quello principale e dunque responsabile del decesso.
Coloro che dispongono di una cavità respiratoria aperta verso l’esterno, possono
sopravvivere tempi anche estremamente lunghi senza che la temperatura centrale
raggiunga valori critici. Da ciò si può dedurre che un sufficiente apporto di ossigeno
rappresenta la migliore protezione dall’ipotermia. La quota di successo di tutte le misure
terapeutiche sui pazienti ipotermici dopo l’estrazione dalla neve, dipende soprattutto dal
grado e dalla durata dell’asfissia nel periodo di seppellimento. Il lasso di tempo tra il
recupero ed il ricovero in ospedale, pur non essendo compreso statisticamente nello studio,
rappresenta comunque un rischio elevato per i seguenti motivi:
1. durante il disseppellimento vi è il pericolo di distruzione della cavità
respiratoria;
2. il pericolo dell’after drop (improvviso arresto cardiaco se masse di sangue
freddo raggiungono bruscamente il cuore dalla periferia corporea);
3. il pericolo dell’arresto cardio circolatorio (ACC);
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3.2. L’autosoccorso
Dalle statistiche appare abbastanza evidente come per il problema valanghe la migliore
protezione sia la prevenzione, e cioè la messa in atto di tutte quelle precauzioni in modo da
evitare nella maniera più assoluta di essere travolti. Ma nel caso che ugualmente si
verifichi un incidente, i tempi utili per avere delle possibilità di sopravvivenza sono
estremamente ridotti, ed allora dobbiamo essere in grado di effettuare quello che viene
definito l’autosoccorso, cioè le azioni di soccorso messe in atto immediatamente dai
componenti stessi del gruppo che ha subito l'incidente. L’ autosoccorso è definito come
“un complesso di procedure immediatamente poste in atto dai superstiti od anche da altre
persone sopraggiunte, ma non organizzate allo scopo e finalizzate alla ricerca e
disseppellimento dei travolti disponendo delle sole usuali attrezzature proprie dello sci
alpinista”.
Presupposto a tutto questo è che ovviamente non si deve mai essere soli nello svolgimento
di qualsiasi attività potenzialmente a rischio che si svolga sulla neve, e che nel gruppo,
mettendo in atto tutte le misure preventive, ci sia almeno una persona che rimanga indenne.
A questo punto entrano in gioco semplici strumenti elettronici che, correttamente indossati
ed accesi, permettono a chi è allenato nel loro utilizzo, di trovare in pochi minuti i propri
compagni muniti di apparecchi simili. Questi piccoli apparecchi prendono il nome di
ARTVA , e cioè Apparecchi di Ricerca in Valanga, ed il loro funzionamento è molto
semplice.
L’acronimo ARTVA deriva dal francese e significa “Appareil Recherce
Victimes Avalanches” (Apparecchio di Ricerca Travolti da Valanga); si tratta di uno
strumento trasmettitore-ricevitore su onde lunghe (457 Mhtz) portatile e leggero (10 cm x
15 cm) che consente una precoce rilevazione e localizzazione del sepolto. Ogni
escursionista dovrebbe portarlo al collo: è dinamico, si modifica, risponde ai segnali che
riceve e che è necessario saper riconoscere. Per poterlo utilizzare correttamente, ci vuole
addestramento, continua formazione ed aggiornamento.
Se la persona è completamente sepolta, la ricerca con ARTVA rappresenta l’unico metodo
per la localizzazione rapida. Inoltre se si considera che anche una persona esperta, in
condizioni ideali, è in grado di localizzare un sepolto al più presto dopo 3-5 minuti ed
utilizzando la pala impiega ulteriori 10 minuti per recuperare una persona dalla profondità
media di un metro. Anche la durata media di seppellimento si differenzia in modo
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significativo: con l’uso dell’ARTVA la durata media di seppellimento è pari a 35 minuti,
senza ARTVA è invece di 120 minuti. A seconda del tipo di strumento e delle nostre
capacità, è possibile una ricerca sistematica e molto sicura che viene detta "per linee
perpendicolari", oppure una più veloce e più evoluta detta "direzionale" poiché ci porta
vicini all'apparecchio cercato in modo quasi diretto. Non bisogna però dimenticare che
l'apparecchio ARTVA da solo non basta a salvare un travolto da valanga perché, una volta
localizzato il segnale con sufficiente precisione sulla superficie della valanga, bisogna
disseppellirlo. Per questo motivo è di vitale importanza avere al seguito una pala
sufficientemente robusta ed una sonda: per spalare un metro cubo di neve con la pala sono
necessari alcuni minuti. Senza, ammesso di riuscirci, almeno un'ora.
3.1.1 Sequenza operativa
1. Stima dei superstiti, nomina di un direttore della ricerca e analisi generale
dell’evento:
a) Individuazione di un coordinatore, cha possiede lucidità d’azione e rapidità di
decisione che gestirà la ricerca: in genere colui che tra gli esperti è rimasto meno
“shockato” dall’evento. Raccoglie le idee e si attiva per stimolare l’inizio delle
ricerche.
b) Stima della sicurezza del luogo: l’escursionista “responsabile” si preoccupa di
portare in luogo idoneo e sicuro i superstiti dove costituirà anche il deposito zaini e
materiali. Verifica il numero delle persone presenti e stima quante persone sono
rimaste sepolte o ferite. Raccoglie eventuali testimoni dell’accaduto tutte le
informazioni utili per pianificare al meglio l’intervento di autosoccorso: come è
stata provocata la valanga, quante persone sono state coinvolte, il punto di
travolgimento e scomparsa dei travolti, se le persone travolte hanno in dotazione
l’ARTVA.
c) Ordine di spegnimento di tutti gli ARTVA: il responsabile ordina di spegnere
tutti gli apparecchi ARTVA, verificando con il proprio che l’ordine sia eseguito.
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Nel frattempo si preparano le pale e si montano le sonde. Verificare la disponibilità
del telefono cellulare e del suo funzionamento.
2. Ricerca “vista-udito” intesa come l’attenta osservazione ed ascolto della
zona interessata dalla valanga per individuare eventuali indumenti, oggetti del
travolto oltre che per udire rumori, suoni, voci utili a localizzare il punto di
seppellimento.
Il coordinatore deve:
a) formare il gruppo di ricerca in base al numero di presenti e alla dimensione della
valanga. Va tenuto presente che successivamente alla ricerca vista e udito va
organizzata quella con ARTVA ed i gruppi vanno subito definiti e separati.
b) dare ordine al gruppo vista-udito di accendere l’ARTVA in ricezione (su valori
sensibilità medi, che non consentano di sentire il segnale proveniente da oltre 5 m
di distanza).
c) dare ordine di dotarsi di pala e sonda. I componenti della ricerca dovranno
entrare in valanga dotati della sonda (precedentemente montata) e della pala.
d) i ricercatori entrando in valanga, devono esplorare con gli occhi le zone della
valanga nella speranza di cogliere segni che mostrino la presenza o il passaggio del
travolto. Nel caso di ricezione del segnale ARTVA il ricercatore deve avvisare
immediatamente il coordinatore dell’autosoccorso, il quale in base alla dimensione
della valanga, al numero di soccorritori può far proseguire la ricerca del travolto al
ricercatore vista-udito (ricerca finale con ARTVA) o incaricare il ricercatore più
vicino di intervenire per la ricerca finale con ARTVA , in modo da far proseguire
sul resto della valanga la ricerca vista-udito. Nel caso di rinvenimento di un reperto
va segnalato e non rimosso; si deve sondare conscrupolo l’area circostante.
3. Ricerca specifica con ARTVA e individuazione delle aree primarie.
L’identificazione delle aree primarie di ricerca rappresenta il momento in cui il
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responsabile si dedica alla “lettura” del percorso della valanga (linea di flusso).
Occorre fare un’analisi dell’ambiente in cui si è verificato l’evento per determinare
quale bacino abbia alimentato la valanga, la sua grandezza, se si è scaricato
completamente o meno, al fine di stabilire compatibilmente con il numero di
superstiti se prevedere una sentinella o eventuali vie di fuga per i ricercatori.
L’osservazione del piano di scorrimento, delle zone di accumulo, terrà in
particolare considerazione quelle caratteristiche proprie del moto valanghivo e
riferibili sia a valanghe di pendio, sia incanalate.
Nel caso di valanghe di pendio su terreno aperto e privo di particolari ostacoli, è
importante acquisire informazioni su presunti punti di ingresso, di travolgimento e
di scomparsa. Allineando il punto di travolgimento e di scomparsa, identificare
un’area a valle di circa 60 gradi, che costituisce zona preferenziale di ricerca lungo
l’accumulo .
La presenza di ostacoli naturali, curve o cambi di pendenza lungo il piano di
scorrimento, rallentando il flusso favoriscono piccoli accumuli locali che possono
essere punti di possibile arresto del corpo trascinato.
La zona di ricerca può essere ridotta anche in base ad altri elementi: la direzione in
cui si muoveva l’infortunato prima di essere travolto se stava scendendo il pendio
con gli sci; la posizione relativa che gli infortunati avevano al momento
dell’incidente; gli indizi ricavati dagli oggetti trovati in superficie (reperti), anche se
spesso gli sci o i materiali leggeri si trovano in punti diversi da quello di
seppellimento.
In ogni caso, soprattutto quando il punto di scomparsa è molto più a monte della
zona di accumulo oppure non è ben individuato, è bene esplorare come zona
primaria la parte centrale della zona di arresto (accumulo finale) ed in particolare il
piede della zona di cumulo. Anche le zone di neve fresca contigue ai bordi devono
essere valutate perché il sepolto può essere stato sospinto all’esterno dei bordi.
Sono da considerarsi aree di ricerca primaria le zone di accumulo finale; le zone di
accumulo laterale, là dove la valanga compie delle curve; gli avvallamenti; le zone
dove la valanga perde velocità e dove il pendio diventa meno ripido.
Nel caso di sondaggio di sepolti senza ARTVA, la ricerca dovrà essere eseguita
nell’area ritenuta prioritaria fra quelle precedentemente individuate. L’essenzialità e
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rapidità dell’esecuzione permettono di ottenere risultati positivi. Le disposizioni del
coordinatore sono: nomina di un responsabile del sondaggio e del relativo gruppo.
Il responsabile dovrà coordinare tutte le operazioni di sondaggio nel luogo indicato
dal coordinatore; utilizzo del metodo “a maglia larga” in quanto ritenuto più
efficace in funzione del tempo disponibile per l’autosoccorso.
Il sondaggio rappresenta un’ altra fondamentale tecnica di ricerca basata sull’uso
della sonda da valanga, che è un’asta tubulare di acciaio, lega di alluminio, o fibra
di carbonio lunga da 2 a 3 m e con un diametro di circa 10 mm, realizzata in più
pezzi che si uniscono tra loro.
Una volta individuato il punto di seppellimento, occorre procedere con lo scavo che
non è affatto una banalità: pur finalizzato all’esposizione e recupero del travolto,
può condurre ad errori che possono ritardare l’inizio degli interventi sanitari o
peggio, arrecare ulteriori danni al ferito. Lo scavo deve essere intrapreso con il
primario obiettivo di raggiungere ed ossigenare l’infortunato per poterlo valutare e
medicalizzare già all’interno della buca.
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3.3. Il soccorso organizzato
Nel caso in cui le possibilità di effettuare l'autosoccorso non siano sufficienti, scattano i
soccorsi, e l'autosoccorso lascia gradualmente spazio a quello che viene definito “soccorso
organizzato”, organizzato appunto dal Soccorso Alpino. In questo caso numerosi tecnici,
specificamente preparati, a seconda della loro qualifica, arrivano sul luogo dell'incidente,
magari con l'elicottero o nel modo più veloce possibile in quel momento, portando con sé
le unità cinofile, cioè i cosiddetti cani da valanga, oltre a tutto il materiale utile ai fini della
ricerca dei dispersi. A questo punto sarà solo la loro grande conoscenza dell'ambiente
montano, delle valanghe, dell'uso dei materiali specifici e delle tecniche di ricerca più
attente ed evolute, ma soprattutto l'organizzazione ed il veloce e preciso lavoro dei
soccorritori, che potrà permettere una soluzione positiva dell'incidente. Per acquisire tali
conoscenze, l’infermiere partecipa a una continua e obbligatoria attività di formazione
come da decreto n. 42 art.4 del Profilo Professionale.
Dunque entra in gioco il ruolo dell’infermiere sia nella fase di ricerca del disperso che nel
trattamento post estricazione, collaborando sia con i tecnici che con il personale sanitario
cnsas. Infatti all’infermiere, che opera sulla valanga, è richiesto di dimostrare una certa
dimestichezza e capacità di adattamento all’ambiente montano; di saper valutare la
sicurezza della scena dove si va ad operare; di sapersi muovere correttamente sulla valanga
e saper utilizzare gli strumenti di ricerca del sepolto e poi applicare cure al ferito.
Come per l’autosoccorso applicato dai non coinvolti dalla valanga, l’infermiere attuerà vari
tipi di ricerca utilizzando ARTVA, sonda e pala.
1. Valutazione dell’obiettività dei testimoni attraverso un’intervista di semplici
domande così che l’infermiere colga i punti per una precisa ricostruzione
dell’evento.
Inoltre l’infermiere cercherà di tranquillizzare e rassicurare i superstiti; per evitare
che i superstiti si allontanino da soli dal luogo dell’evento è opportuno delimitare
una zona “sicura” dove possano attendere l’evacuazione; se sono in grado di
collaborare coinvolgerli nel soccorso.
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2. Ricerca vista e udito
Questa modalità di ricerca prevede che l’infermiere attui un’ attenta osservazione
visiva del fronte valanghivo per individuare eventuali oggetti, indumenti, materiali
del travolto oltre che l’attento ascolto per percepire suoni, rumori, voci che possono
aiutare la localizzazione del sepolto.
La ricerca vista-udito va eseguita su tutta la superficie della valanga, condotta in
silenzio per poter udire eventuali lamenti e per sentire i suggerimenti del
responsabile. Il ritrovamento di oggetti va subito segnalato al coordinatore del
soccorso. L’oggetto ritrovato va evidenziato e ben esposto sulla superficie della
neve, senza però spostarlo dal luogo del ritrovamento. Intorno all’oggetto ritrovato
l’infermiere esegue un rapido, ma attento sondaggio in modo da verificare la
presenza o meno del corpo del travolto.
3. Ricerca con ARTVA
La localizzazione del travolto mediante apparecchi ARTVA permette la riduzione
dei
tempi di ricerca ed avviene in tre fasi:
- ricerca primaria del primo segnale;
- ricerca secondaria (localizzazione del ferito);
- ricerca finale di precisione.
La ricerca primaria prevede che immediatamente dopo l’incidente, l’infermiere che
partecipa alla ricerca provveda a mettere l’apparecchio in ricezione con il volume
massimo; chi invece non è coinvolto nella ricerca lo deve spegnere. Occorre agire
velocemente e in silenzio sotto la direzione di un responsabile.
Il procedimento della ricerca dipende dall’estensione della valanga, dal numero di
soccorritori e dal punto in cui essi si trovano al momento dell’incidente: se si
trovano in alto e il punto di scomparsa è noto, la ricerca si esegue in discesa a piedi,
nella direzione presumibilmente percorsa dalla vittima (prolungamento della linea
che unisce il punto di travolgimento e il punto di scomparsa) e nella zona compresa
tra il punto di scomparsa e il limite inferiore della valanga.
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Se si trovano in basso, o se il punto di scomparsa non è noto si esegue la ricerca in
salita.
Per tutta la prima fase della ricerca, fino a quando non si percepisce il primo
segnale, l’operatore sanitario deve essere veloce e orientare l’apparecchio nelle
varie direzioni. Udito il primo segnale, non deve cambiare più la posizione
dell’ARTVA, ma dopo aver segnato il punto deve procedere durante la fase
successiva della ricerca nella stessa direzione.
Nel caso poi, vi siano numerosi soccorritori, il responsabile suddivide la zona di
ricerca in fasce parallele e ne assegna una a ciascuno di essi. A seconda della
situazione la divisione può essere in senso orizzontale o verticale. In funzione del
tipo di apparecchio si mantengono distanze di circa 20 metri tra un ricercatore e
l’altro (ricordando che per gli apparecchi ARTVA digitali la portata utile è definita,
per convenzione, di 10 m) e di 10 m dai margini laterali della valanga. La distanza
tra le tracce dipende dalla portata utile degli apparecchi in dotazione e va tenuta
uguale al doppio della portata medesima.
La ricerca secondaria prevede una volta rilevato un segnale ben stabile, che
l’infermiere tenga l’apparecchio orizzontale con altoparlante rivolto verso l’alto.
Spostando lentamente il braccio da sinistra verso destra per un angolo di circa 120
gradi egli deve percepire le variazioni di intensità del “BIP”. Continuare a ripetere
il movimento a “ventaglio” finchè egli non individua la direzione che fornisce la
maggiore intensità del segnale . L’infermiere procede così, nella direzione
individuata finché il volume del segnale è molto elevato. Dovrà quindi fermarsi e
ridurre il volume in modo da sentire il segnale chiaro e udibile nelle sue variazioni;
(non portare il volume alla soglia udibile più bassa poiché si rischia di perdere il
segnale); ripetere l’operazione a “ventaglio” per individuare la direzione che
fornisce la maggiore intensità; ripetere le fasi sopra elencate finché il commutatore
del volume indica livelli bassi (2-3 dei 10 massimi previsti) tali da consentire
l’inizio della fase finale.
La ricerca finale di precisione adotta il “sistema croce” per cui l’infermiere
compiendo un movimento che disegna una simbolica croce tenendo l’ARTVA il
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più vicino possibile alla neve, localizza il punto esatto del seppellimento.
L’infermiere procede con cautela allo scavo che viene effettuato a valle della
posizione del travolto in modo da arrivare dal margine laterale. Una volta liberata
la vittima spegnere il suo apparecchio se ci sono altri sepolti, in caso contrario tutti
i soccorritori rimettono gli apparecchi in trasmissione. Insieme all’ARTVA dev’
essere abbinato alla sonda, possibilmente di veloce montaggio, che consenta di
stabilire con precisione la profondità di seppellimento della vittima e di valutare lo
strato di neve da liberare.
4. Il sondaggio è una specifica e particolare tecnica di ricerca che permette
all’infermiere di testare ciò che è stato sepolto dalla neve.
La pala è un attrezzo pratico e robusto di allumino o carbonio, lungo circa 50 cm
che può essere pieghevole. La sonda deve essere introdotta a piccoli colpi, per la
lunghezza stabilita dall’infermiere sondatore il quale deve indossare i guanti per
evitare di produrre col calore delle mani, delle croste di ghiaccio sulla sonda
riducendo così la penetrabilità e la sensibilità della stessa.
Colpendo il corpo umano con la sonda, l’infermiere avverte un piccolo
contraccolpo e leggero rimbalzo.
Esistono diversi metodi di sondaggio: “maglia larga” che prevede l’individuazione
dell’area primaria dove eseguire il sondaggio, l’allineamento dei sondatori con le
spalle a stretto contatto su una linea orizzontale, il posizionamento di due segnali
laterali ai due estremi della fila per delimitare l’inizio dell’area sondata, il
posizionamento della sonda tenuta verticale al centro dei piedi leggermente
divaricati; l’ordine da parte dell’infermiere sondatore di fare eseguire il sondaggio
al comando “giù’”indicandone la profondità, la “ritirata” della sonda e il suo
posizionamento con la punta sulla neve a circa 60 cm davanti a sé ed inclinata in
appoggio sulla spalla destra, il controllo che le sonde di tutti i ricercatori siano
inclinate ed allineate, il comando di avanzare con i piedi sulla nuova linea di
sondaggio (“avanti”), notare che la sonda ritorni verticale come al punto di inizio.
L’intera sequenza va ripetuta fino al successo della ricerca, secondo i comandi
dell’infermiere sondatore.
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Gli estremi dell’ultima linea di sondaggio vanno marcati e con i due segnali iniziali
si delimita l’area sondata “spalla a spalla”. Nel caso il numero dei ricercatori non
sia sufficiente a coprire tutto il fronte dell’area di ricerca primaria, l’équipe inizia
seguendo l’esplorazione su una fascia ridotta. Si procede sulla fascia fino al limite
opposto dell’area di ricerca primaria, quindi ci si sposta su una fascia parallela ai
segnali posti all’inizio e si ricomincia il sondaggio. Quando tutta l’area è stata
esplorata senza esito, ci si sposta su un’altra zona di ricerca primaria. Nel caso un
ricercatore venga allarmato da un tocco particolare, deve lasciare la sonda infissa in
quel punto avvisando l’infermiere responsabile del sondaggio, il quale provvederà
ad inviare se disponibile, uno spalatore per procedere allo scavo. Se non è
disponibile, si utilizza il sondatore esterno.
5. Scavo e disseppellimento, per eseguire uno scavo in maniera rapida ed adeguata
l’infermiere deve conoscere i particolari accorgimenti che consentano l’arrivo di
aria al ferito, la protezione delle sue vie aeree (a rischio di ulteriore soffocamento
per la movimentazione della neve) ed un suo cauto rivolgimento qualora fosse
necessario.
Dopo aver localizzato il punto di probabile seppellimento, sarebbe istintivo scavare
in modo frenetico lungo la sonda stessa: questo modo di procedere non è corretto in
quanto lo scavo risulterebbe una buca verticale che richiederebbe un lungo lavoro
tanto più profondo sarà il seppellimento. La soluzione più adeguata consiste nello
scavare lontano dalla sonda dirigendosi verso la sua punta allargando poi lo scavo
man mano che si espongono le parti corporee.
Viene così a crearsi una più vasta area che fungerà da nicchia per la
medicalizzazione e da corridoio per evacuare il ferito.
Occorre fare attenzione a non entrare precipitosamente nella buca calpestando il
corpo del ferito.
La “Tecnica del Tunnel” è adottata quando la neve lo consente nel seguente
modo: realizzato un primo accesso ad una parte corporea, con la mano “guantata” si
risale lungo la parte scavando con il palmo così da creare una veloce canalizzazione
dell’aria. Appena possibile si orienterà questo tunnel verso la testa del sepolto, per
il quale l’arrivo dell’ossigeno è un impellente necessità.
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3.4. Il trattamento sanitario del paziente
Il Soccorritore che arriva per primo sull’infortunato deve possedere una conoscenza delle
principali tecniche del trattamento medico avanzato e quindi valutare ed effettuare il
primo trattamento del travolto da valanga in relazione al tempo di seppellimento.
Rinvenuto il seppellito deve valutare la tipologia del disseppellimento di cui esistono due
tipi:
-Seppellimento completo: la testa e il torace della vittima sono coperti completamente dalla
neve.
-Seppellimento parziale: la testa e il torace sono liberi dalla neve.
Per quando riguarda la probabilità di sopravvivenza per seppellimento completo i fattori
influenti sono:
1. Grado del seppellimento
2. Durata del seppellimento
3. Presenza di vie aeree pervie
4. Presenza di lesioni traumatiche gravi
-Fase di sopravvivenza: se il ritrovamento avviene entro 18 minuti la probabilità di
sopravivenza è > del 90%
-Fase dell’asfissia: 18-35 minuti dopo il seppellimento, la probabilità di sopravvivenza
passa dal 91% al 34%, sopravvivono solo vittime con vie aeree libere e Air-Pocket
conservata (spazio libero intorno al naso e bocca). Molte vittime con politrauma muoiono
in questa fase.
-Fase latente: 35- 90 minuti dopo il seppellimento la sopravvivenza con vie aeree pervie e
air pocket è ancora superiore al 20%.
90-130 minuti dopo il seppellimento: la percentuale di sopravvivenza passa dal 28% al 7%
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-Durata del seppellimento > 130 minuti: sopravvivono solo le vittime con una sacca d’aria
che vanno incontro alla sindrome delle tre H (I per la lingua italiana) Ipossia, ipercapnia e
ipotermia.
Una volta posizionato il ferito in una postura possibilmente idonea, l’infermiere collabora
con il medico rianimatore ad effettuare la valutazione primaria secondo la sequenza ABC
sempre mantenendo adeguate comunicazioni con la centrale operativa e con gli altri
operatori del soccorso.
Valutato il grado di coscienza e di ipotermia, l’infermiere applica i presidi sanitari utili alla
prevenzione delle lesioni secondarie, quali collare cervicale e immobilizzazione spinale,
mantiene la pervietà delle vie aeree, e inserisce se il caso un accesso venoso periferico,
prepara il monitor per eseguire l’ECG e rilevare i parametri vitali. Se il medico decide di
intubare il travolto, l’infermiere prepara il materiale occorrente per l’intubazione: farmaci,
laringoscopio, tubo, mandrino, siringa da 5cc, nastro fissatore.
Se necessario adotta misure antishock come la somministrazione di ossigeno, mette in atto
immediatamente le manovre rianimatorie quali il massaggio cardiaco esterno e la
defibrillazione precoce.
L’infermiere provvede a proteggere il ferito da un ulteriore raffreddamento, considerando
che proprio la buca di scavo ricavata nella valanga può costituire il luogo “meno freddo” in
cui mantenere il soggetto.
3.5. Le cause di morte del paziente ipotermico
Le cause di morte di questi pazienti sono inoltre:
1. Il TRAUMA che colpisce il 47% delle vittime da valanga:
- Pelvico 1%
- Addominale 1%
- Cerebrale 2%
- Spinale 7%
- Torace 17%
- Estremità 19%
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L’infermiere interverrà effettuando la stabilizzazione del rachide, manovre di ATLS:
detensione del PNX, Tournichet, reperire un accesso vascolare ( EV o IO), gestire in modo
avanzato le vie aeree. Si occupa di riscaldare in modo aggressivo il paziente al fine di
controllare le coagulopatie. Infine si indirizza il paziente verso un Trauma Center.
2. L’ASFISSIA determina una diminuzione della sopravvivenza della vittima nei
primi 35 minuti di seppellimento. Per evitare ciò i soccorsi devono essere molto
organizzati e veloci.
● Se il seppellimento è > 35 minuti la pervietà delle vie aeree potrà essere
determinata dall’esposizione del viso; il soccorritore nello scavare intorno alla
vittima deve porre attenzione alla presenza di un eventuale Air-Pocket e non
distruggerla.
● Se la vittima sepolta da un tempo <35 minuti è in arresto cardiaco, premettendo
asfissia iniziare la RCP con ventilazione appena la testa e il torace sono liberi senza
riguardo della pervietà delle vie aeree.
● Se la vittima sepolta da un tempo > 35 minuti è trovata in arresto cardiaco con
pervietà delle vie aeree ma con temperatura corporea > 32° C, presumere asfissia e
iniziare RCP con ventilazione non appena testa e torace sono liberi.
● Se la vittima sepolta da un tempo >35 minuti è trovata in arresto cardiaco con
ostruzione delle vie aeree non iniziare le manovre rianimatore.
● Se la vittima è in arresto cardiaco con temperatura corporea <32°C e una
sconosciuta pervietà delle vie aeree iniziare la rianimazione.
3. L’IPOTERMIA accidentale che si esprime con una riduzione non programmata
della temperatura centrale < 35°C e inoltre con coinvolgimento di due altri sintomi
provocando la
TRIPLE H SYNDROME, che comprende ipotermia, ipossia (
riduzione di ossigeno nei tessuti) e ipercapnia ( l’aumento della concentrazione di
anidride carbonica nel sangue ) .
Per verificare la temperatura centrale utilizzare un termometro a sonda.
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3.6. L’intervento sanitario
Per determinare il tipo di intervento l’infermiere valuterà la durata del seppellimento come
indicatore della patologia e determinerà la strategia del trattamento sanitario
1. Tempo di seppellimento <35 minuti: asfissia e trauma (non ipotermia)
Trattamento di base: 1. Disseppellimento veloce: Scavo,almeno un metro a valle
dal sondaggio iniziale. Se positivo deve permettere di: Raggiungere, Valutare,
Medicalizzare.

Pervietà delle vie aeree

Inizio delle manovre di RCP (BLS)

Mobilizzazione atraumatica

Protezione termica: con rimozione degli indumenti bagnati, coperte termiche o
autoriscaldanti, somministrazione di bevande dolci e calde

Trasporto in ospedale con T.I.
Trattamento medico avanzato:

Disseppellimento veloce

Pervietà delle vie aeree (intubazione)

Inizio delle manovre avanzate di RCP (ALS)

Mobilizzazione atraumatica

Protezione termica (riscaldamento)

Trasporto in ospedale con T.I.
2. Tempo di seppellimento >35 minuti: ipossia, ipercapnia, ipotermia, trauma
Priorità di trattamento:
1. Disseppellimento delicato della vittima per permettere la valutazione della presenza
di un Air-pocket. Lo scavo nei pressi del viso della vittima deve essere eseguito con
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le mani; il soccorritore deve essere in grado di valutare la presenza di un air-pocket,
che fa stato è la pervietà delle vie aeree.
La sopravvivenza relativa alla presenza di un Air-Pocket è correlata a: grandezza
dello spazio, densità della neve e fattori individuali.
2. Valutazione della pervietà delle vie aeree: assicurarsi che le alte vie aeree siano
pervie e libere da neve o qualsiasi altro corpo estraneo.
Se la vittima presenta Vie Aeree Libere senza Air-Pocket, deve essere considerato
come se lo avesse avuto fino al momento del disseppellimento.
Vittime con vie aeree ostruite (neve o altro corpo estraneo) possono essere
dichiarate decedute dal Medico per asfissia acuta.
3. Trattamento dell’ipotermia: in assenza di gravi traumatismi le funzioni vitali
possono essere compromesse da: ipossia ( <O2 nei tessuti ), ipercapnia ( >CO2 nei
tessuti ), ipotermia ( <temperatura corporea centrale )
3.7. Il trattamento per ogni stadio dell’ipotermia
Per ogni stadio di ipotermia è previsto un differente trattamento data la diversità dei
parametri del paziente.

Ipotermia Stadio I
Il trattamento in questo stadio prevede:
1. Movimenti attivi consentiti
2. Assunzione di bevande calde e dolci
3. Isolamento termico
4. Riscaldare il corpo con coperte a calore chimico
5. Infusione a 38°-42°
Trasferimento: Eventuale ospedalizzazione

Ipotermia Stadio II:
Il trattamento della vittima cosciente prevede:
1. Ossigeno terapia
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2. Estricazione, movimentazione atraumatica e immobilizzazione in posizione
orizzontale: deve avvenire delicatamente per prevenire lesioni traumatiche
3. Riscaldamento
4. Monitoraggio continuo ECG e temperatura corporea
5. Reperire accesso venoso periferico / intraosseo
Trasferimento: in H con terapia intensiva e riscaldamento non invasivo.

Ipotermia III – IV
Il trattamento base su vittima incosciente richiede:
1. Pervietà delle vie aeree
2. Estricazione e movimentazione atraumatica
3. Monitoraggio continuo delle funzioni vitali
4. Protezione termica
Il trattamento avanzato della vittima incosciente:
1. Protezione delle vie aeree tramite Intubazione
2.
Monitoraggio ECG e controllo della temperatura corporea
3. Reperire l’accesso venoso
4. Protezione termica
5. Trasporto nel centro ospedaliero adeguato
Infine l’inizio di RCP secondo protocollo ACLS modificato.
Secondo le Linee guida ERC 2010 bisogna rilevare il polso centrale per 1 minuto e
verificare se la Bradicardia rientra spontaneamente con il riscaldamento.
< 30°
30° - 34°
> 34°
ACLS
Farmaci
NO
Intervalli raddoppiati
standa
rd
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Defibrillazion
1 shock
e
Energia Massima
ACLS Standard
Secondo le Linee guida AHA 2010 bisogna effettuare l’ ACLS Standard.
Linee guida ICAR MEDCOM
 E’ ragionevole considerare l’utilizzo di farmaci vasopressori contemporaneamente
alle strategie di riscaldamento (Class IIb, LOE B)
 Defibrillare una volta. Effettuare ulteriori scariche quando T > 30°C, se non
interrompono la CPR o rallentano il trasporto. (Class Iia, LOE B)
Trasferimento: HT3 Emodinamica stabile:terapia intensiva, riscaldamento non invasivo,
CEC /
ECMO disponibile.
HT4 Emodinamica instabile: CEC / ECMO
L’iperpotassiemia severa porta ad un criterio di irreversibilità.
pH – Lattacidemia sono i markers meno accurati.
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4. LA VALANGA CIMA CALOTTA 18/05/2013
Il giorno 18 maggio 2013 alle 12:38 la Centrale Operativa del 118 di Brescia riceve una
chiamata di soccorso per travolgimento di alpinisti a seguito di uno smottamento di una
valanga nei pressi di Temù. La chiamata d’allarme è stata effettuata da uno degli alpinisti
coinvolti, superstite dell’evento insieme ad un secondo compagno, e riferisce il
seppellimento di altri due amici. L’infermiere di centrale, come da protocollo, cerca di
localizzare tempestivamente il luogo dell’evento, il numero delle persone coinvolte, quanti
uomini sono sepolti e se tutti i partecipanti fossero dotati di artva. Viene chiesto all’utente
di mantenere la linea telefonica libera per poter essere ricontattato di lì a breve e viene
rassicurato che i mezzi di soccorso sarebbero arrivati quanto prima. Il chiamante riferisce
che si trova a Cima Calotta per una escursione di sci alpinismo, che si è staccata una
valanga sul versante della loro traccia, che presenta un fronte di circa 500 metri e che erano
in 4 amici, due ancora sepolti al momento della chiamata, lui con altro compagno
apparentemente illesi, tutti dotati di artva.
Alle 12:43 l’infermiere di Centrale Operativa allerta, come da protocollo AREU, il CNSAS
( Corpo Nazionale Soccorso Alpino Speleologico ) della stazione più vicina al luogo
dell’evento ( stazione di Temù) e i Carabinieri della stazione di competenza ( Breno ).
Viene inviato sul posto l’ MSI ( Mezzo di Soccorso Intermedio ) dello stazionamento di
Ponte di Legno per quanto riguarda il mezzo di terra e l’elisoccorso, con a bordo personale
specializzato: medico, infermiere e guida alpina, come mezzo avanzato, considerato
l’ambiente ostile e la necessità di essere celeri nell’arrivo in posto e per potere garantire
all’utente il massimo dell’efficienza. Viene informato dell’evento il medico di centrale.
Poiché l’Elicottero della AAT di Brescia è impegnato in altra missione vengono contattate
le Centrali di Sondrio e di Trento, che accettano la missione con l’invio della équipe di
elisoccorso di Como, per quanto riguarda la Centrale di Sondrio e l’equipe di Trento che
invia, oltre al proprio mezzo sanitario, un secondo elicottero non sanitario per trasportare
sul luogo dell’evento le squadre di soccorso CNSAS e garantire il materiale necessario per
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il recupero . Il Cinofilo della V Delegazione CNSAS con le squadre di ricerca sono i primi
a prepararsi e a raggiungere il luogo dell’evento partendo dalla stazione di Temù con base
alla partenza della seggiovia.
L’infermiere di Centrale Operativa 118 Brescia richiama l’alpinista riferendo la partenza
delle squadre di soccorso e si tiene costantemente in contatto con le équipe degli
elisoccorso per la dirigenza della missione.
Grazie all’utilizzo degli Artva da parte dei superstiti, alle squadre di ricerca e alle tecniche
adoperate dai soccorritori del Soccorso Alpino, i due sepolti sono stati presto trovati. Alle
13:42 il personale CNSAS riferisce alla Centrale Operativa 118 di Brescia il ritrovamento
di entrambe gli alpinisti.
Rinvenuto il primo alpinista, non si è in grado di stabilire la presenza della sacca d’aria.
Viene immediatamente valutato ABCDE del paziente dal personale sanitario, considerando
in dettaglio stato di coscienza, respiro e polso. Viene dichiarato incosciente con valore
Scala Glasgow corrispondente a 3 (scala che valuta apertura degli occhi, risposta verbale e
risposta motoria). Inoltre il paziente mostra cute e mucose cianotiche e pallide; le pupille
sono midriatiche, segno di sofferenza corticale da ipossia. Al termine dell’estricazione,
viene rilevata una temperatura corporea centrale di 22° C con sonda timpanica ed
effettuato il monitoraggio dei parametri vitali mediante monitor in dotazione. Presenta una
PA ( Pressione Arteriosa ) 80/50 mmHg, una FC ( Frequenza Cardiaca ) poco rilevabile di
40 bmp e una SaO2 ( Saturazione dell’emoglobina con l’ossigeno ) pari a 60%. Si
provvede ad iniziare le manovre di RCP, rianimazione cardiopolmonare, e si decide di
proseguire con l’intubazione endotracheale per garantire un’ossigenazione adeguata al
paziente. Il personale infermieristico contatta la Centrale Operativa di Brescia e riporta i
parametri vitali e le condizioni dell’alpinista.
A breve distanza anche il secondo sepolto viene localizzato, si procede al disseppellimento
e si constata la presenza della sacca d’ara. Il ragazzo è soporoso ma risvegliabile,
lievemente dispnoico con SAO2 di 93%, FC pari a 70 bat/min regolari, PA di 100/60, cute
pallida, fredda e non sudata. Dopo posizionamento di O2 ad alti flussi, il paziente diventa
più collaborante e lamenta dolore alla spalla destra e all’arto inferiore destro. Viene quindi
immobilizzato e riscaldato.
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L’infermiere della Centrale Operativa di Brescia deve, a questo punto, far centralizzare i
due pazienti agli ospedali più idonei alle loro condizioni. Alle ore 14:02 si contatta la
Centrale di Bergamo per ECMO ( Extra Corporeal Membrane Oxygenation ), ma il
Medico di Centrale Operativa riferisce posti letto zero e sala Cardiochirugica occupata.
Viene quindi contattata la Centrale di Lecco ma anch’essa riporta posti non disponibili. Si
provvede dunque ad indirizzare il secondo disseppellito al centro ospedaliero di Trento con
la propria équipe di elisoccorso. Il medico della Centrale di Brescia si trova impegnato in
una urgenza quindi si consulta, come da protocollo, il medico dell’elisoccorso di Brescia,
rientrato dalla precedente missione.
L’elisoccorso di Como, invece, con a bordo il primo superstite parte dal luogo dell’evento
direzione Spedali Civili di Brescia, secondo prescrizione del medico dell’Elisoccorso di
Brescia e vista la non disponibilità dei centri per la circolazione extracorporea.
Alle 14:30 l’elicottero di Como con a bordo il paziente atterra a Brescia. Stabilizzato in
saletta d’emergenza del Pronto Soccorso, presenta i seguenti parametri vitali: PA 95/60,
FC 50, SaO2 90% e TC 25°C, viene ricoverato nel Reparto di Terapia Intensiva, nel quale
muore dopo due giorni a causa di un arresto cardiocircolatorio.
Gli altri due alpinisti, indenni alla valanga, rifiutano il ricovero negando ogni tipo di
trauma. Vengono comunque valutati dall’infermiere dell’ ambulanza dello stazionamento
di Ponte di Legno.
Alle 14:38 il personale CNSAS coinvolto nella missione riferisce d’essere rientrato in base
a Temù. Vengono fatti rientrare tutti i mezzi di soccorso.
4.2. La gestione dell’intervento in valanga
Per quanto riguarda la gestione dell’interno in valanga esiste una procedura dettagliata che
gli operatori sanitari devono attuare e seguire per la buona riuscita della missione.
Lo scenario di un incidente in valanga è molto variabile; spesso la risoluzione dipende
dalla corretta integrazione tra:
-
Centrale Operativa Emergenza Urgenza (COEU) 118
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-
Servizio elisoccorso
-
Unità Cinofile da Valanga (UVC)
-
Stazioni del Corpo Nazionale Soccorso Alpino Speleologico (CNSAS) di
competenza
-
Personale degli impianti di risalita
-
Soccorritori occasionali.
L’assoluta priorità nella gestione della valanga sarà quindi quella di raggiungere i target
con personale addestrato nel più breve tempo possibile senza perdere minuti importanti in
fasi organizzative che possono ritardare la prima risposta. A tal fine l’obiettivo della
COEU sarà quello di:
-localizzare l’evento
-inquadrare lo scenario da gestire
-attivare tutte le risorse necessarie secondo le priorità stabilite.
1.Oggetto e campo di applicazione
La procedura si applica agli eventi valanghivi con coinvolgimento certo o presunto di
persone nei primi 150 minuti successivi alla chiamata del soccorso da parte della COEU
118 al trasporto del paziente presso il Centro di trattamento dell’ipotermia. Ciò si applica
anche per la parte inerente il trattamento dell’ipotermia dalla sezione 1 punto g) ai pazienti
ipotermici per immissione in acque gelide e per ipotermie per eventi accidentali. Gli eventi
valanghivi di proporzioni disastrose rientrano nelle Maxi Emergenze e pertanto non sono
trattati nelll’ambito della presente procedura.
2.Procedura
Inquadramento dell’evento e attivazione degli attori coinvolti
a) Ricezione della chiamata e inquadramento dell’evento
In caso di valanga con sospetto o certezza di coinvolgimento di persone, l’operatore di
COEU:
• processa la chiamata ottenendo le informazioni principali
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• informa il Medico di COEU
• se possibile mantiene in linea il chiamante
b) Attivazione dell’elisoccorso
La COEU 118 territorialmente competente dispone l’attivazione dell’elisoccorso
competitivo (valutazione dei tempi di raggiungimento del luogo dell’evento e della
presenza di UCV: Unità Cinofila da Valanga), informando contestualmente in CNSAS
territorialmente competente. La COEU 118 deve quindi prevedere a preallertare un
secondo elisoccorso, che in caso recupera una UCV.
c) Acquisizione di ulteriori informazioni relativi all’evento
L’operatore di COEU provvede ad acquisire informazioni per la gestione dell’evento
attraverso la compilazione del modulo 43 “scheda raccolta dati per primo intervento in
valanga”.
d) Attivazione del CNSAS territorialmente competente
I dati raccolti con il modulo 43 e informazioni dalla COEU 118 devono essere comunicati
all’équipe dell’elisoccorso, al CNSAS per permettere l’attivazione del soccorso tecnico che
comprende:
-attivazione del personale tecnico e sanitario CNSAS
-allestimento di una o più squadre di primo intervento da elitrasportare sul luogo del evento
-attivazione di ulteriori UCV
-allertare tutte le stazioni CNSAS dell’area interessata dell’evento
e) Allertamento delle forze dell’ordine/vigili del fuoco da parte dell’operatore di COEU
f) Gestione delle interfacce tra gli attori coinvolti
• Il Tecnico Elisoccorritore giunto per primo in posto assume il ruolo di Direttore di
Valanga, che in accordo con il responsabile del centro operativo CNSAS determinano le
risorse da inviare sul luogo dell’evento. Il personale tecnico del CNSAS assumerà poi il
ruolo di Direttore di Ricerca in Valanga.
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• Dopo lo sbarco dell’equipaggio in valanga, l’elicottero trasporterà i soccorritori del
CNSAS sul luogo dell’evento.
• E’ previsto che l’equipe sanitaria dell’elisoccorso venga affiancata o sostituita da
personale sanitario del CNSAS secondo indicazioni della COEU del 118 territorialmente
competente appena possibile ed entro i 150 minuti
g) Allertamento del Centro per il trattamento dell’ipotermia
Si individuano quali Centri per il trattamento dell’ipotermia:
• l’ospedale di Bergamo ( Azienda Ospedaliera Ospedali Riuniti si Bergamo ) fino ad un
massimo di 2 pazienti
• l’ospedale “Alessandro Manzoni” di Lecco ( Azienda Ospedaliera della Provincia di
Lecco ) per 1 paziente
h) Trasporto del Paziente ipotermico (stadio III e IV)
A disseppellimento avvenuto, se riscontrati i criteri di invio alla CEC del Paziente, la
COEU comunica alla COEU di Bergamo la necessità di accesso alla CEC indicando:
- il numero di Pazienti
- le condizioni cliniche
La COEU di Bergamo comunica alla COEU che gestisce l’evento la destinazione del
paziente richiedendo il tempo stimato di arrivo in ospedale. La COEU di Bergamo
provvede a contattare le strutture interessate per il trattamento e a fornire le necessarie
informazioni.
Gestione clinica del soggetto sepolto da valanga:
i) Definizione della modalità di seppellimento
Il soggetto sepolto in valanga si può presentare in due diversi modalità di seppellimento:
• parzialmente sepolto con testa e torace fuori dalla neve (problematica maggiore: trauma,
ipotermia)
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• completamente sepolto con testa e torace coperti dalla neve (problematica maggiore:
asfissia, ipotermia e trauma)
j) Definizione dei tempi di seppellimento
Per stabilire la prognosi del paziente risulta fondamentale definire i tempi di seppellimento.
La curva di sopravvivenza di H. Brugger mette in evidenzia due picchi di caduta a 18
minuti (91% di sopravvivenza) e 35 minuti (34% di sopravvivenza). Risultano
fondamentali le manovre di autosoccorso da parte degli astanti e la presenza o meno di una
tasca d’aria. Al di sopra dei 35 minuti la sicura assenza di una tasca d’aria permette una
diagnosi certa di morte, mentre la sua presenza permette di ipotizzare una “triple h
sindrome”.
k) Individuazione del soggetto sepolto
E’ compito della prima èquipe che arriva sul posto l’individuazione del soggetto sepolto; il
personale sanitari effettua una ricerca detta “ARTVA vista udito” che permette di:
• tracciare eventuali reperti rivenuti sulla valanga
• percepire eventuali urla e/o rumori provenienti dai soggetti sepolti
• rintracciare un segnale ARTVA proveniente dalle apparecchiature del soggetto sepolto
Eventuali tracce o contatti ARTVA al DV dagli operatori sanitari che effettueranno un
primo sondaggio a maglia stretta della zona utilizzando picchetti e nastro. Il DV e l’UCV
effettueranno le loro ricerche con ARTVA e cane.
l) Modalità di disseppellimento
Una volta individuato il soggetto sepolto il DV richiede l’intervento di tutta l’èquipe per il
disseppellimento, fase estremamente critica che necessita di coordinazione durante le fasi
di scavo (dove e come scavare) e rapidità di scavo (attrezzi giusti e capacità di rimuovere
la neve).
I criteri di scavo sono:
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• lo scavo non deve mai essere effettuato sulla perpendicolare del soggetto sepolto ma a
valle del punto di sondaggio evitando per quanto possibile scavi in profondità sulla
verticale del sepolto.
• al primo contatto con il soggetto sepolto è fondamentale determinare la posizione della
testa, per poi effettuare lo scavo successivo verso quella direzione.
• in prossimità della testa porre molta attenzione nella valutazione della camera d’aria
antistante naso e/o bocca e la pervietà delle vie aeree.
• appena possibile mettere alla luce testa e tronco per eventuali manovre di BLS
• non calpestare la zona sovrastante il soggetto sepolto per non ridurre o distrugger la tasca
d’aria
• sviluppare lo scavo tenendo presente la necessità di un’estrazione quanto piu delicata
possibile
• predisporre nello scavo una seconda linea per allontanare la neve rimossa
m) Modalità di estrazione
L’estrazione dei sepolti in valanga risulta essere una manovra delicata e complessa, i
principali aspetti di ciò riguardano le priorità assegnate al soggetto sepolto: la necessità di
una rapida estrazione per l’esecuzione di manovre di RCP o la necessità di far fronte alla
“triple h sindrome” con attenzione all’ipotermia e ai fenomeni quali l’after trop.
n) Preparazione del sito di gestione del paziente
E’ necessario porre attenzione al luogo dove deporre il paziente una volta estratto dalla
neve. A tal fine occorre:
• garantire una superficie piana che permetta la corretta esecuzione di tutte le manovre di
rianimazione.
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• proteggere il paziente, i soccorritori e le attrezzature sanitarie dagli elementi atmosferici
quali freddo, vento, neve che rendono difficoltoso il soccorso e provocare un’ulteriore
dispersione termica per il paziente.
o) Valutazione del paziente ed esecuzione delle procedure ALS
La gestione clinica del paziente sepolto da valanga dipende da:
• il grado di seppellimento
• il tempo di seppellimento
• la presenza o meno di una camera d’aria
• la pervietà delle vie aeree
• la tipologia di neve distaccatasi con la valanga
Il sepolto da valanga va sempre trattato e gestito come un paziente politraumatizzato, ma le
strategie decisionali dipendono dal tempo di seppellimento e dalla presenza o meno di una
camera d’aria. Si individuano tre tipologie di pazienti:
- pazienti estratti entro 18 minuti dal seppellimento: sono prioritarie le manovre di BLS, si
pone attenzione alle pervietà delle vie aeree e supporto cardio-respiratorio. Tali pazienti
non hanno problematiche di ipotermia grave e vanno gestiti per lo più per i traumi riportati
- pazienti estratti in tempi inferiori o uguali a 35 minuti dal disseppellimento: le principali
problematiche sono legate all’asfissia acuta ostruttiva e costruttiva, ai traumi e
all’ipotermia. Dunque eseguire un approccio BLS e manovre di supporto avanzato quali:
protezione delle vie aeree, rilievo della temperatura corporea centrale (esofagia),
riscaldamento, supporto e ripristino delle funzioni vitali e gestione del trauma.
In caso di asistolia, con presenza di Air Pocket e temperatura corporea maggiore di 32
gradi si prevede l’esecuzione di RCP con supporto farmacologico per almeno 20 minuti.
- pazienti estratti in tempi superiori di 35 minuti dal seppellimento, con camera d’aria
(certa o presunta) e vie aeree pervie.
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Per questi pazienti con il sospetto di “ Triple H Sindrome” il trattamento è rappresentato
da:
• le manovre di BLS, sin dalle fasi del disseppellimento
• il reperimento di un adeguato accesso vascolare
• la misurazione ed il monitoraggio della temperatura corporea
• l’ECG
• un’estrazione effettuata con estrema cautela
• un’adeguata protezione termica, con pacchetto termico
• la gestione delle vie aeree, se necessario con intubazione oro tracheale
• la somministrazione di ossigeno, se possibile, riscaldato e umidificato
• la gestione dei traumi intercorrenti
Pazienti in STADIO III
I Pazienti in ipotermia profonda STADIO III (quindi incoscienti con polso e respiro ancora
presenti), devono essere indirizzati verso il Centro per il trattamento dell’ipotermia. Deve
essere posta particolare attenzione alla possibile insorgenza del fenomeno di after drop. I
pazienti ricompresi in questa classe di ipotermia dovrebbero essere riscaldati in maniera
invasiva attraverso CEC.
Stadio IV- Paziente in Arresto Cardiaco Ipotermico
In caso di Paziente estratto con vie aeree pervie, in arresto cardiocircolatorio asistolico,
temperatura inferiore ai 32 gradi si procede come segue:
• i Pazienti con temperatura inferiore a 15 gradi, in asistolia, con rigidità toracica tale da
impedire le manovre di RCP, dovranno essere dichiarati morti sulla scena della valanga
• i Pazienti con temperatura superiore a 15 gradi, asistolia o fibrillazione ventricolare, sui
quali possono essere messe in atte le manovre di RCP dovranno essere trasportati presso il
Centro di riferimento per il riscaldamento extracorporeo (CEC), previo dosaggio della
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kaliemia plasmatica (in questo caso si applicherà il valore di 9 mEq/L come cut-off del
triage “vivo-morto”).
Se vi è la disponibilità di uno strumento affidabile per la misurazione del potassio
plasmatico, i Pazienti con > 15 gradi, asitolici, con sacca d’aria presente o dubbia e vie
aeree pervie, ma con kaliemia >9 mEq/Ldovranno essere dichiarati morti sulla scena
dell’evento.
I pazienti eletti per trattamento di riscaldamento invasivo presso il Centro per il trattamento
dell’ipotermia dovranno essere gestiti come segue:
• intubazione e MCE continuativo fino all’accesso in Sala Operatoria cardiochirurgia
• mantenimento, se possibile, dell’ipotermia del capo quale fattore neuro protettivo, anche
con metodiche empiriche (neve)
• scongiuramento della dispersione termica della restante parte del corpo.
Qualora il tempo ipotizzabile o già intercorso tra l’estrazione dalla neve e l’inizio delle
manovre di RCP sia particolarmente lungo (> 60 minuti) sarà discrezione del medico di
elisoccorso operare una approfondita valutazione del contesto clinico per decidere
l’eleggibilità del Paziente al trattamento extracorporeo ovvero constatarne il decesso in
loco, anche interfacciandosi can la COEU di Bergamo.
p) Protezione termica e sistemi di monitoraggio del Paziente
Temperatura corporea
La temperatura corporea centrale deve essere rilevata subito e se possibile monitorata in
continuo. Il migliore tra i rilievi è la temperatura esofagea ma è utilizzata anche la
temperatura epitimpanica.
Monitoraggio ECG
Il monitoraggio ECG si può effettuare sia utilizzando le piastre adesive che gli eletrodi
Monitoraggio della ETCO2
Il monitoraggio della ETCO2 permette di valutare:
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• il corretto posizionamento di presidi di controllo delle vie aeree
• l’efficacia della RCP
• la ripresa di un’attività cardiorespiratoria spontanea.
Spesso la saturimetria risulta poco attendibile a causa dell’importante vasocostrizione
conseguente alla centralizzazione del circolo
Protezione termica
Esistono diversi presidi e risorse utilizzabili a tale scopo: alcuni provocano un
riscaldamento attivo esterno, altri attivo interno altri ancora solo un riscaldamento passivo.
I presidi possono essere usati singolarmente o in combinazione:
• pacchi caldi e resistenze elettricamente riscaldanti
• telini termici
• coperte sintetiche o di lana
• cellophane
• liquidi endovena caldi
• bevande calde (meglio se zuccherate)
• ossigeno umidificato e riscaldato.
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CONCLUSIONI
L’obiettivo di questo elaborato è quello di definire quale sia il ruolo centrale assunto
dall’infermiere durante l’incidente valaghivo. La continua formazione, l’aggiornamento di
competenze e la specializzazione portano alla creazione di personale infermieristico
altamente capace di far fronte al pericolo “ morte da valanga ”. Solo la visione
multidisciplinare e di lavoro d’équipe da parte del personale d’elisoccorso, i volontari
CNSAS e la funzione cardine della Centrale Operativa 118 porteranno a ridurre, nel tempo,
i casi di morte ed aumentare la sopravvivenza dei numerosi alpinisti che popolano le nostre
montagne. All’infermiere, come operatore di un’assistenza di natura relazionale, tecnica
ed educativa, spetterebbe il compito di promuovere una campagna di sensibilizzazione per
la prevenzione sugli incidenti in montagna precisamente causati da valanga, auspicando la
collaborazione con le diverse figure del CNSAS. L’utilizzo di dispositivi come l’Artva,
pala, sonda e il senso di responsabilità per la propria vita da parte dell’alpinista giocano un
ruolo in prima linea
per la sopravvivenza del sepolto e la prevenzione degli eventi
valanghivi. Ma dagli studi svolti si evince che è di vitale importanza l’organizzazione da
parte dei soccorritori, fin dalla ricezione della chiamata d’allarme. Come esplicitato in
questo elaborato, la Centrale Operativa riveste un ruolo di fondamentale importanza nel
coordinare i soccorsi e viene evidenziata la capacità dell’infermiere di Centrale di ricavare
tutte le informazioni essenziali per inviare i mezzi idonei sul luogo dell’evento e rendere,
in questo modo, un servizio efficiente ed efficace. All’infermiere che presta servizio presso
l’elisoccorso è riconosciuta, invece, una funzione in più in quanto viene ad essere “
Tecnico ricercatore ed Infermiere ” trovandosi a collaborare alla ricerca del disperso, al
disseppellimento ed alla stabilizzazione della criticità del paziente. Infine per garantire la
sopravvivenza della vittima sepolta da valanga è richiesta: competenza specifica, abilità
tecniche, la disponibilità di mezzi di soccorso e la conoscenza sanitaria primaria.
La figura professionale dell’infermiere raggruppa dunque le conoscenze tecniche (il
sapere) e le abilità tecniche e manuali (il sapere fare) e le capacità comunicative e
relazionali (il sapere essere).
Il riconoscimento dell’autonomia professionale, le possibilità di specializzazioni, di
carriera sia nel management che nella ricerca, nella università, la creazione di figure di
supporto che coadiuvano l’infermiere nelle mansioni più semplici, sono tutte espressioni di
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un unanime riconoscimento della maturità tecnico-scientifica raggiunta dal sapere
infermieristico e il ruolo dell’infermiere studiato ed apprezzato in questo lavoro ne è una
reale dimostrazione.
Apprendere la professione di infermiere in questo contesto significa dunque maturare
culturalmente e tecnicamente per essere al servizio della salute dell’uomo e ancor più della
sua dignità.
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Bibliografia

AINEVA “ Le valanghe ”, manuale, Trento, 2003

BRUGGER H, DURRER B., “Pazienti sepolti da valanga con asistolia: cernita ad
opera del medico di pronto intervento”, Atti della 13a Conferenza Internazionale
dei medici del soccorso alpino, Innsbruck, novembre, 1993.

BRUGGER H., “Misure mediche in caso di seppellimento da valanghe”, Testo per
le
relazioni dell’Università di Padova, Brunico, 1999.

BRUGGER H., DURRER B., “On site Treatment of avalanche Victims
ICARMEDCOM- Recommendation”, International Commission For Mountain
Emergency Medicine, High Altitude Medicine and Biology, Volume 3, number 4,
2002.

AINEVA , Associazione Interregionale Neve e Valanghe,” Autosoccorso in
Valanga”
disponibile su www.aineva.it

CORPO NAZIONALE SOCCORSO ALPINO E SPELEOLOGICO, Corpo
Nazionale Soccorso Alpino e Speleologico,
disponibile su www.cnsas.it

PROTOCOLLO AREU 118 BRESCIA, La Gestione dell’intervento in valanga.

SISSI “ Società Italo Svizzera Studi Ipotermia ”
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