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Ordine del caos o simulazione del disordine

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Ordine del caos o simulazione del disordine
In corso di stampa in Atti del Convegno “Mandelbrot 40 anni dopo”, Messina 2007
Ordine del caos o simulazione del disordine
Renato Migliorato
Dipartimento di Matematica – Università di Messina
[email protected]
"El universo (que otros llaman la Biblioteca) se compone
de un número indefinido, y tal vez infinito, de galerías
hexagonales..."
J. L. Borges – La biblioteca di Babele
1. Introduzione
“C’è ordine nell’universo?”. Posta in questi termini, si tratta di una di quelle domande che Carnap
definiva, come tutte le questioni metafisiche, prive di senso, o falsi problemi. Di quelle domande
cioè che sono suscettibili indifferentemente di qualunque risposta affermativa o negativa perché
nessuna esperienza o ragionamento potrebbe mai confermarla o smentirla.
La polemica antimetafisica di Carnap si svolgeva su un piano di netta contrapposizione con Heidegger e con tutta quella tradizione filosofica, poi detta continentale, che tra Ottocento e Novecento
sembrava costituire un fronte irriducibilmente contrapposto alla visione scientifica.
A questo proposito ritengo interessante citare un’osservazione di Friedman in cui egli dice:
“... tra Heidegger e Carnap sussiste di fatto un notevole accordo. Il pensiero 'metafisico' come quello
che Heidegger vuole risvegliare è possibile soltanto sulla base di una preliminare rinuncia all'autorità e al primato della logica e delle scienze esatte. La differenza è che Heidegger accetta con entusiasmo siffatta rinuncia, mentre Carnap è determinato a resistervi ad ogni costo”1
Una scelta dunque tra due termini che appaiono immediatamente inconciliabili, ma solo a condizione
che ciascuno dei due punti di vista pretenda di dare del mondo una rappresentazione esclusiva o almeno privilegiata.
Ho già sostenuto altrove2 un punto di vista diverso, e non solo perché la rappresentazione scientifica
del mondo, fatta di esattezza e precisione, può coesistere con altri approcci diversi, a diversi livelli e
in diversi momenti dell'elaborazione culturale. Ma anche perché (ed è questo il punto più significativo
che voglio sottolineare) quelle forme di conoscenza e di rappresentazione del mondo che qui, per contrapposizione all’esattezza formale della scienza, chiamerò convenzionalmente “oscure”, sono intrinFRIEDMAN 2004, p. 23. Non voglio assumere qui alcuna posizione, e non sarebbe del resto il luogo, circa l'interpretazione
che Friedman dà di Heidegger. La citazione ci aiuta tuttavia a rendere chiari i termini di una contrapposizione storicamente
determinata che vedeva da una parte una concezione del mondo rigidamente scientista e dall'altra una ricerca più libera
anche se non sempre chiara e non sempre rigorosa nei suoi termini, qualunque fosse poi l'atteggiamento sulla possibilità di
rifondare una qualche metafisica.
2
MIGLIORATO 2006.
1
In corso di stampa in Atti del Convegno “Mandelbrot 40 anni dopo”, Messina 2007
secamente legate ai processi di crescita della stessa conoscenza scientifica e, per ciò stesso, ineliminabili, pena l’arresto di ogni possibile significativa evoluzione dell'impresa scientifica.
L’idea, naturalmente non è in sé nuova, ed io stesso vi ho fatto riferimento in più occasioni; tuttavia
non mi pare che sia stata fin qui sufficientemente esplorata in tutti i suoi significati e in tutte le sue implicazioni.
Per meglio intendere il punto di vista in cui mi pongo, dichiaro fin da ora la mia decisa opposizione ad
un certo modo di concepire il lavoro del matematico e dello scienziato più in generale. Di una concezione, cioè, che è prevalsa per gran parte del secolo appena trascorso e che vedeva l’attività dello
scienziato rigidamente ristretta entro i confini dell’apparato formale della propria scienza. Naturalmente ciò non impediva che vi fosse consapevolezza delle interazioni tra il sapere scientifico e le diverse espressioni della cultura e delle attività umane. E ciò del resto apparirebbe già chiaro dalla stretta correlazione tra progresso scientifico e sviluppo tecnologico che proprio nel Novecento trova la sua
più estesa realizzazione. L’idea invece di una chiusura e di un’autosufficienza del pensiero scientifico
si era prodotta e tenacemente radicata sul terreno della sua fondazione logica ed epistemologica. E’
sufficiente ricordare a questo proposito, io credo, come fino agli anni ’70 del secolo, il discorso filosofico sulla matematica ruotava quasi esclusivamente sulla logica formale, assumendo come problemi
pressoché esclusivi quelli logico-fondazionali ed, al più, del rapporto con le applicazioni3.
Fatta questa premessa, il problema posto dalla domanda “esiste ordine nell’universo?”, non è quello
di stabilire se essa ha senso entro gli apparati linguistici e concettuali di qualche scienza già formalizzata. Mi sembra invece che sia molto più produttivo chiedersi se e in che modo un’espressione per sé
stessa ambigua e forse oscura, e che tuttavia esprime, nella nostra coscienza, interrogativi, domande,
attese, significati, può trovare all’interno di un apparato formale, una qualche rappresentazione che sia
in grado di rendere il mondo fenomenico un po’ più intelligibile e prevedibile.
In quest’ordine di idee, il problema non è più quello di riconoscere l’esistenza o meno di un ordine
oggettivo che dovrebbe esistere nel mondo reale fuori di noi, bensì quello di costruire una rappresentazione ordinata, e quindi intelligibile, di un mondo fenomenico che si presenterebbe altrimenti alla
nostra coscienza in modo disordinato e caotico4.
Se questa è la chiave di lettura con cui vogliamo interpretare concetti come quello di caos o quello di
insieme frattale, allora potremmo essere tentati di pensare che tutto sommato questi concetti non siano altro che l’espansione di un sistema concettuale già esistente e che non vi sia in essi nulla di rivoluzionario. Il mio pensiero è invece molto diverso. Io credo infatti che non solo muta l'apparato formale
attraverso l'estensione a nuovi oggetti, ma viene profondamente scardinata ogni residua pretesa di autonomia e autosufficienza dei sistemi logico-linguistici della scienza e della stessa matematica.
2. Descrizione, rappresentazione, modellizzazione.
Prima di entrare nel vivo della discussione, ritengo opportuno procedere a delle precisazioni sul significato con cui verranno usati alcuni termini, tutti relativi, in qualche modo, alla costruzione di
un'immagine della realtà, ma che, a mio avviso, svolgono nel discorso scientifico, e sicuramente
nella mia trattazione, funzioni che devono essere tenute tra loro opportunamente distinte.
Parliamo quindi di descrizione quando facciamo uso di un apparato linguistico al fine di comunicare
dei significati attraverso un codice simbolico condiviso. Ovviamente non è necessario che il linguaggio sia verbale o che sia strutturato secondo criteri esplicitamente o implicitamente stabiliti.
3
4
V. ad es. Casari (1964).
Migliorato (2005).
In corso di stampa in Atti del Convegno “Mandelbrot 40 anni dopo”, Messina 2007
Può essere una lingua naturale, può essere un linguaggio simbolico figurativo come quello dei segnali stradali, come può essere un linguaggio tecnico o tecnico-scientifico. Ciò che importa a questo
riguardo è solo che il legame tra segno e significato abbia funzione esclusivamente linguistica (denotativa e/o connotativa che sia)5, senza che il segno in quanto tale intervenga in modo attivo e determinante nella costituzione dei significati6.
Parleremo invece di rappresentazione quando il segno (che chiameremo ancora linguistico, ma in
un senso diverso), si propone come una sorta di “riproduzione sensibile” della realtà, una sorta di
specchio o di immagine illusionistica, o anche di semplice “suggestione” che può essere, o essere
ritenuta, più o meno precisa o più o meno approssimativa rispetto alla “cosa” che vuole rappresentare. Il segno ha cioè con la cosa rappresentata un rapporto non semplicemente convenzionale ma
sostanziale, che può essere di somiglianza visiva o di altro tipo. In ogni caso il segno in quanto tale
non è neutro e la sua scelta non può essere arbitraria; la traducibilità in altra lingua o in altro linguaggio, anche quando è possibile, non è mai perfetta. E' questo il caso certamente dell'espressione
artistica ed è presente anche nel discorso scientifico; per esempio è il caso delle “figure” usate come
ausilio nelle dimostrazioni di geometria elementare. Parleremo però ancora di rappresentazione, e
questo è forse il caso più interessante, anche quando l'immagine viene suggerita o comunicata da un
discorso di tipo descrittivo, che però non comunica direttamente il significato che vuole esprimere,
ma descrive piuttosto, di questo, una qualche immagine o rappresentazione. E' certamente il caso
della metafora, del racconto mitologico, ma anche di un gran numero di forme del discorso scientifico. Ciò che in ogni caso caratterizza in modo forte la rappresentazione, rispetto a ciò che abbiamo
chiamato descrizione, è il fatto che mentre quest'ultima, come già si è detto, non interviene attivamente nella costituzione del significato del discorso, la rappresentazione non solo vi influisce attivamente, ma può assumere in tal senso un ruolo determinante fino a diventare fattore costitutivo
dello stesso oggetto che si sta rappresentando. Se in ambito artistico-letterario don Chisciotte può
esserne l'esempio paradigmatico, nel linguaggio scientifico un esempio può essere dato dal concetto di energia che formalmente è rappresentabile mediante formule del tipo Ec = ½ mv2, ma contemporaneamente, per la sua stretta connessione con i processi naturali utilizzati nella tecnologia, finisce con l'assumere talmente le connotazioni di un “essere” reale, da divenire oggetto di possesso e
di compra-vendita, fino al punto da dominare le scelte politiche e da scatenare sanguinose guerre.
Ancora più chiaro e illuminante mi sembra il caso del software, la cui ontologizzazione è resa sempre più forte dai processi comportamentali di compra-vendita e di protezione del copyright. In questo caso però il carattere di oggetto immateriale, “costituito” in modo determinante dall'uso linguistico, appare con più evidenza perché, a differenza di quanto avviene con l'energia, un prodotto
software non si esaurisce per il fatto di essere stato venduto.
E siamo quindi giunti al terzo dei termini linguistici che intendevo prendere in considerazione. Il
termine “modellizzazione” che, diversamente dai precedenti, è tipico, nel senso tecnico, dei soli linguaggi scientifici.
Ciò che caratterizza un modello, rispetto per esempio ad una rappresentazione, è che esso non è portatore di significati attribuibili all'oggetto modellizzato; ciò che si richiede è solo un isomorfismo,
cioè una corrispondenza funzionale tra elementi costitutivi del modello ed elementi costitutivi dell'oggetto; una corrispondenza funzionale, per altro, che non ha pretese di completezza, ma si esten5
Nel senso di Frege e di Russel.
Si noti che anche una teoria assiomatica è, da questo punto di vista, una descrizione, sia pure di una struttura astratta
che viene ad essere costituita dagli stessi assiomi. I termini linguistici in quanto segni, infatti, non sono di per sé essenziali alla determinazione dell'oggetto definito. Essi possono essere sostituiti da altri, sono traducibili in altre lingue e la
stessa struttura può essere assiomatizzata in modi differenti.
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In corso di stampa in Atti del Convegno “Mandelbrot 40 anni dopo”, Messina 2007
de solo a particolari aspetti ritenuti significativi e importanti all'interno di un contesto o di un paradigma scientifico.
A questo punto, però è necessario riflettere sul fatto che l'essere descrizione, rappresentazione oppure modello, non è necessariamente un carattere intrinseco di una dato schema o struttura descrittiva. Può accadere infatti che la stessa espressione formale venga vista in momenti e contesti culturali diversi, ora come descrizione di qualcosa di oggettivo e preesistente, ora come rappresentazione
o come metafora di un'essenza non direttamente descrivibile, ora come semplice modello.
Esempi classici sono quelli rappresentati dai diversi sistemi cosmologici, sia geocentrici che eliocentrici. Si pensi innanzitutto a quelli dell'antichità greca e greco-ellenistica fondati su una pluralità di
sfere (Eudosso) o di cerchi (Tolomeo) tra loro connessi in modo da costituire un modello rappresentativo di movimenti che non si riusciva altrimenti a spiegare. Com’è noto, si trattava di artifici volti a
spiegare il moto di retrogradazione dei pianeti esterni, eliminando così uno dei più macroscopici elementi di caoticità nel moto apparente dei corpi celesti. In seguito il modello tolemaico fu ulteriormente perfezionato, con l’introduzione di nuovi epicicli e con un più accurato calcolo dei raggio di ciascuna circonferenza e delle velocità, in modo da ottimizzare, per quanto possibile, la coincidenza delle
posizioni degli astri calcolate sul modello e quelle osservate empiricamente.
Si può ora pensare che aumentando sufficientemente il numero degli epicicli e scegliendo opportunamente le misure dei raggi nonché le misure e i versi delle velocità, sia possibile approssimare quanto
si vuole qualunque ipotetico moto periodico apparente di un corpo rispetto alla terra. Anzi, secondo
alcuni studiosi7, l'idea di rappresentare le orbite dei pianeti mediante il sistema degli epicicli, equivarrebbe, sia pure ad uno stadio più elementare, a quella che sta alla base delle serie di Fourier, l'idea
cioè che ogni funzione continua periodica è equivalente ad una serie di funzioni seno e coseno.
Eppure tutto ciò è irrilevante per dirimere la questione, squisitamente metafisica, su cui si è giocato il
processo a Galileo e l'avvio della scienza moderna. Ancora un esempio storico può essere dato dalla
teoria del “calorico” per la modellizzazione dei fenomeni termici o la teoria del flogisto per la spiegazione delle reazioni chimiche.
In tutti questi casi, fino a che si rimane all’interno di un sistema teorico formale di tipo matematico,
non ci può essere alcun criterio di scelta tra un’infinità di possibili modelli esplicativi, a meno che non
si dimostri che uno di essi è più conveniente perché più semplice, a parità di precisione. A condizione
però che sia chiaro il criterio su cui giudicare il grado di semplicità, cosa tutt'altro che scontata. Così
ad esempio l’uso del cerchio come figura geometrica di base per la rappresentazione dei moti celesti,
può apparire, da un certo punto di vista la più semplice possibile. Eppure da un punto di vista opportunamente mutato, per la presenza di strumenti matematici più avanzati e di una più accurata base di
dati empirici, la figura che consente la modellizzazione complessivamente più semplice non è più il
cerchio ma l’ellisse. Come dimostra chiaramente il modello di rappresentazione eliocentrica proposto
da Keplero.
La rottura epistemologica, si determina invece, come abbiamo visto, con l’intrusione di elementi del
tutto estranei all’apparato formale interno alla geometria, o più genericamente, alle scienze matematiche. Inizia con il rifiuto di Galileo a considerare le diversità di rappresentazione come semplici espedienti semplificativi e con l’ostinata affermazione di una sostanziale rispondenza di tutto il cosmo alle
stesse leggi fisiche. C’è alla base, in altri termini il radicale cambiamento di concezione rispetto al
principio di causalità riferito al moto dei corpi. Se supponiamo che questi rispettino tutti le stesse leggi, respingendo così l’idea aristotelica dei corpi celesti come aventi in sé stessi, cioè nella propria stessa natura, la causa del proprio muoversi secondo modalità assegnate, allora bisognava trovare un lega7
NEAUGEBAUER, 1952; RUSSO 1996.
In corso di stampa in Atti del Convegno “Mandelbrot 40 anni dopo”, Messina 2007
me causale valido sempre e ovunque, anche a costo di negare l’evidenza, o ciò che appariva tale. La
spiegazione newtoniana, infine, ricostruisce un ordine razionale complessivo entro cui le diverse rappresentazioni matematiche non sono più equivalenti.
E’ questo, io credo, il senso più profondo di ogni rivoluzione scientifica: la costruzione di un nuovo
ordine razionale entro cui sia possibile rappresentare una classe più o meno ampia di fenomeni ed in
cui la scelta tra le diverse modellizzazioni non possa più esser arbitraria. Quando un nuovo paradigma scientifico si è già affermato, dunque, l’ordine vi appare come un carattere tipico del sistema formale entro cui si esprime il paradigma stesso, privo quindi di qualunque connotazione metafisica. Ma
il sistema formale che esprime un paradigma scientifico è sempre il risultato di un complesso processo di formalizzazione che nasce altrove, in un diverso contesto problematico e in un più ampio universo simbolico, dove spesso problemi pur significativi non trovano chiarezza e univocità espressiva e
possono anche assumere connotazioni metafisiche.
Un esempio sicuramente emblematico è il concetto di infinito, sia nella sua versione di potenzialità illimitata, sia, e ancor più, nella sua versione estrema di infinito in atto. Si tratta in questo caso di un
concetto che, già nel linguaggio comune, non corrisponde né ad una esperienza effettiva né ad una
precisa intuizione, ed il cui carattere di metafora è stato recentemente ben evidenziato, a mio avviso,
da Lakoff e Nuñez8. La formalizzazione scientifica del concetto avviene per stadi successivi che vedono già con Euclide una rigorosa definizione dell’infinito potenziale mediante i postulati II e V degli
Elementi, mentre l’infinito in atto, dopo lunghe e complesse elaborazioni, trova una sua efficace
espressione scientifica nei moderni sistemi assiomatici, come quello noto con i nomi di Zermelo e
Fraenkel.
Anche se queste brevi considerazione costituiscano materia già ampiamente esplorata e dibattuta, ho
ritenuto necessario premetterla, perché mi sembra che proprio nello sviluppo della geometria frattale
troppe zone siano spesso rimaste in ombra a questo riguardo.
3. Oggetti frattali.
Un altro dato da tenere nella dovuta considerazione è il fatto che gli oggetti chiamati poi frattali da
Benoit Mandelbrot, sono nati ben prima della geometria frattale e con finalità affatto diverse. Se riteniamo dunque, come io di fatto ritengo, che il lavoro di Mandelbrot segni effettivamente una rottura,
allora il senso della geometria frattale non può essere ricercato, o non può essere ricercato in modo
esclusivo, nella definizione e nello studio formale dei suoi oggetti. La geometria torna, in qualche
modo e in qualche forma, a costituire un sistema di rappresentazione e non solo di modellizzazione
del mondo empirico. Non credo invece di poter concordare in modo pieno con lo stesso Mandelbrot,
quando egli ritiene (se questo è il senso) che la forma frattale costituisca un'immagine “naturale”, e
quindi in qualche modo immanente, della realtà, in contrapposizione alla geometria classica che ne sarebbe solo un modello ideale artefatto.
Analizzeremo quindi, innanzitutto, l'origine di alcuni oggetti, come la curva di Koch, ed altri oggetti
inizialmente considerati “strani”, e il modo in cui essi trovano una precisa collocazione all'interno di
sistemi formali quali le teorie assiomatiche degli insiemi. Vedremo poi come, in che senso e in che
misura, la geometria frattale, intesa come un nuovo sistema di rappresentazione (e non solo di modellizzazione) del mondo empirico, possa essere ricondotta alle definizioni formali, tutte interne alla teoria degli insiemi. Ed è proprio a questo livello che si inserisce il nucleo problematico che si vuole qui
particolarmente evidenziare.
8
LAKOFF, NÚÑEZ (2000).
In corso di stampa in Atti del Convegno “Mandelbrot 40 anni dopo”, Messina 2007
Detto ciò andiamo ad analizzare la “costruzione” (ma si costruiscono davvero?) di tre diversi tipi di
oggetti frattali, rappresentati paradigmaticamente dalla curva di Koch, dalla curva di Peano e dall'insieme di Mandelbrot.
Le prime due nascono come esempi di “mostruosità” da eliminare affinando le definizioni, soprattutto
nell'ambito dell'analisi infinitesimale9.
Cominciamo dunque con la curva di Koch. Lo scopo originario era quello di dimostrare l'esistenza di
funzioni continue ma non derivabili in nessun punto, problema che in termini geometrici si traduce
nell'esistenza di curve continue ma ovunque prive di tangente10. Ora è abbastanza semplice trovare
delle funzioni continue con un numero finito (o numerabile) di punti singolari (cioè privi di derivata),
pertanto se questo fosse il caso più generale, si potrebbe sempre pensare di decomporre ogni funzione
in una successione di tratti regolari per i quali la sola ipotesi della continuità sarebbe sufficiente a garantirne anche la derivabilità. Se viceversa ciò non è vero, la maggior parte dei teoremi dell'analisi infinitesimale può mantenere la propria validità solo a condizione che tra le ipotesi, oltre alla continuità, venga esplicitamente supposta la derivabilità in ogni punto dell'intervallo di definizione. Ed è ciò
che è avvenuto con la “costruzione” di esempi di funzioni continue ma ovunque non derivabili, o, detto in termini diversi, di curve continue ma ovunque prive di tangenti. Questo naturalmente è solo uno
dei passaggi che hanno determinato la riscrittura, in termini bourbakisti, dell'intero corpo matematico,
ma non è certo tra i meno significativi.
Ed ecco dunque la “costruzione” geometrica della curva di Koch11.
Primo passo: partendo da un segmento AB di lunghezza l (chiamiamola curva C0), lo si divide
in tre parti uguali, ciascuna delle quali ha ovviamente lunghezza ⅓l . Sulla parte centrale si costruisce un triangolo equilatero. Si toglie infine il segmento centrale su cui era stato costruito il
triangolo; rimane così una poligonale costituita da quattro segmenti uguali ciascuno di lunhezza
⅓l . Si è ottenuta così una curva spezzata C1 , costituita da quattro segmenti uguali e la cui lunghezza complessiva è 4∕3 di quella iniziale. Essa è ovviamente continua ma presenta tre punti
singolari (i punti privi d tangente in cui la linea si spezza)
Secondo passo: si ripete la costruzione su ciascuno dei segmenti costituenti C 1; si ottiene una
curva C2 costituita da 4 ·4 segmenti uguali e di lunghezza complessiva (4∕3) ·(4∕ 3) rispetto a
quella iniziale. Essa sarà ancora continua e presenterà 15 punti singolari.
... Si reitera così il procedimento finché al
9
Citiamo da H. Ponicaré: “Talvolta la logica genera mostri. E' da mezzo secolo che vediamo sorgere una folla di bizzarre funzioni che sembrano sforzarsi di somigliare il meno possibile alle funzioni accettabili che servono a qualcosa.
[...] Nondimeno sono queste funzioni bizzarre che sono le più generali; [...] Una volta quando veniva inventata una
nuova funzione , era per qualche scopo pratico; oggi le si inventa al fine dichiarato di cogliere in fallo i ragionamenti
dei nostri padri e non se ne ricaverà nient'altro” (POINCARÉ, 1902, ed ital. 2003 - p. 131). L'eliminazione delle “mostruosità” come uno dei processi di affinamento e di evoluzione del concetto è poi un tema cruciale nell'analisi condotta
da Imre Lakatos sulla crescita della conoscenza scientifica (V. LAKATOS, 1976). Non a caso il recupero della dimensione
storica nella riflessione epistemologica fu uno dei principali motivi di critica verso il lavoro di Lakatos al suo primo apparire. Veniva scardinata infatti ogni pretesa di fondazione stabile e definitiva sui soli presupposti di incontrovertibile
autocoerenza della logica formale, con la conseguenza che tutte le conquiste scientifiche, non escluse quelle matematiche, avrebbero dovuto tornare a conquistarsi sul campo la propria legittimazione.
10
Più esattamente il concetto topologico di curva continua è strettamente legato a quello di omeomorfismo tra spazi topologici. In tal senso una curva continua si può definire come un insieme omeomorfo ad un intervallo della retta reale.
In un piano, per esempio, si può definire come l'insieme dei punti le cui coordinate sono funzioni continue di un parametro reale t variabile tra due valori reali a e b. Formalmente: x = f1(t), y = f2(t), a ≤ t ≤ b dove f1, , f2 sono funzioni
continue.
11
Ritengo che sarebbe qui fuori luogo la traduzione analitica, che pure è importante per una trattazione tecnicamente rigorosa. Lo stesso criterio vale per la curva di Peano
In corso di stampa in Atti del Convegno “Mandelbrot 40 anni dopo”, Messina 2007
Passo ennesimo: Si ottiene una curva Cn costituita da 4n segmenti, di lunghezza complessiva
pari a (4∕3)n volte la lunghezza iniziale. Essa sarà ancora continua ma presenterà 4n-1 punti singolari.
E' chiaro che al crescere del numero n la lunghezza della linea cresce fino a superare qualunque valore prefissato; ma
ciò che originariamente appariva più importante in relazione
alle ragioni fondazionali per cui era stata creata, é il fatto
che anche il numero dei suoi punti singolare cresce indefiniLa Curva C3: terzo stadio della costruzione tamente. Fin qui però manca il passo decisivo perché il numero di tali punti, pur crescendo quanto si vuole, rimane ancora un insieme discreto ed anzi finito. L'atto decisivo è dunque il passaggio al limite per n che tende
all'infinito: un passaggio molto delicato e sulle cui implicazioni sarà opportuno riflettere. E' ciò che
faremo più avanti.
Molto simile si presenta la costruzione della curva di Peano, anche se l’obiettivo stavolta non riguarda
la derivabilità, ma una proprietà ancora più sorprendente per il senso comune. Essa infatti, pur essendo, come la precedente, in corrispondenza biunivoca e continua con un segmento della retta reale, copre con i propri punti un’intera regione piana (cioè di dimensione 2). Ancora una volta, però, ci troviamo di fronte ad una costruzione reiterata di linee (chiamiamole P1, P2, … , Pn, …) nessuna delle
quali possiede le caratteristiche finali, che invece si dimostrano sussistere per la curva limite quando n
tende all’infinito. Anche questo esempio di “mostruosità” ha come obiettivo l'affinamento dell'apparato formale; qui in particolare, l'eliminazione della “mostruosità” impone che nella definizione di
curva vengano aggiunte delle condizioni di regolarità, che nel caso per es. di una curva piana rappresentata da equazioni parametriche x = f1(t), y = f2 (t) si realizzano quando, assieme alla continuità e
derivabilità delle due funzioni nell'intervallo dato, sia garantito che le derivate di f1 ed f2 non siano
entrambe nulle per uno stesso valore di t.
In entrambi i casi, tuttavia, la definizione della curva è data come limite di una successione di linee
ognuna delle quali costruibile in linea di principio. Ora, non solo la curva limite può essere approssimata quanto si vuole, ma la sua esistenza può essere rigorosamente dimostrata all'interno della teoria
formale degli insiemi, ed allo stesso modo, cioè ancora nell'ambito della stessa teoria degli insiemi, si
possono dimostrare su di essa le proprietà significative che caratterizzano la geometria frattale e di cui
parleremo tra poco. Tutto ciò è valido non solo per le curve descritte, ma per la maggior parte di quella classe notevole di oggetti che sono stati ideati come “mostruosità” da eliminare attraverso un'accurata riscrittura delle definizioni e dei teoremi, soprattutto, ma non solo12, nell'ambito dell'analisi infinitesimale.
Diverso è il caso dell'insieme di Mandelbrot. Non tanto perché definito con una più consapevole intenzione di produrre un oggetto frattale, quando per il salto concettuale che necessariamente comporta
quando se ne voglia, per esempio, caratterizzare il contorno.
Seguiamo dunque, per sommi capi, la costruzione dell'insieme di Mandelbrot, passando per l'insieme
di Julia che ne è l'indispensabile precursore. Nel piano di Gauss si consideri una funzione olomorfa
f(z). Fissato un qualunque punto z0 , la funzione farà corrispondere ad esso un nuovo punto z1= f(z0),
e poi applicando a z1 la stessa funzione , si otterrà un nuovo punto z2 = f(z1), e cosi via reiterando indefinitamente l'operazione. Si ottiene quindi una successione di punti che può essere convergente ad
un punto determinato, può rimanere indefinitamente all'interno di una regione limitata, oppure divergere . Si chiama insieme di Julia della funzione f(z) , l'insieme dei punti z0 da cui si originano succes12
V. per es. la storia del concetto di poliedro così come analizzata in (LAKATOS, 1976).
In corso di stampa in Atti del Convegno “Mandelbrot 40 anni dopo”, Messina 2007
sioni non divergenti. Si tratta anche in questo caso di insiemi frattali nel senso, nel senso in cui questi
sono stati definiti da Mandelbrot e su cui ci soffermeremo più avanti. Ora è necessario però introdurre
quello che in modo specifico viene chiamato “insieme di Mandelbrot”. Sempre nel piano di Gauss, si
consideri la classe delle particolari e semplicissime funzioni olomorfe f(z)  z 2  c ottenuta al
variare di c. Ad ogni valore di c corrisponde dunque un insieme di Julia che può essere connesso oppure essere costituito da una molteplicità di parti isolate e variamente frammentate in parti sempre più
piccole (polvere di Fatou). L'insieme di Mandelbrot è l'insieme dei punti c del piano di Gauss a cui
corrispondono insiemi di Julia connessi. Esso però si può anche definire in modo diverso13 che ne rende più agevole l'effettiva costruzione che, naturalmente, è possibile per l'insieme di Mandelbrot come
per gli insiemi di Julia solo grazie alla velocità e alla potenza di calcolo dei moderni calcolatori. Ai
fini della nostra discussione è necessario a questo punto descrivere rapidamente la procedura.
Da quanto detto segue (V. nota 13) che l'insieme di Mandelbrot è dato da tutti i punti c per i quali la
successione
x1  c 2  c, x2  x12  c, . . . , xn  x 2n-1  c, 
non è divergente. Innanzitutto va delimitata un'area entro cui effettuare la ricerca, ciò non presenta
difficoltà dal momento che, come facilmente si dimostra, per ogni c tale che mod(c) ≥ 2, la successione generata da c è divergente e pertanto l'insieme di Mandelbrot è racchiuso tutto all'interno della circonferenza di centro nell'origine e raggio 2. Ma questo permette anche di limitare lo sviluppo di molte
successioni, perché se avviene che anche un solo elemento assume un valore il cui modulo è maggiore
di 2, allora quella successione è sicuramente divergente.
Partendo ora da un punto interno all'area prescelta, bisogna calcolare con un algoritmo ricorsivo i valori successivamente di x1 , x2 , . . . , xn , per n grande quanto si vuole. Se uno di questi valori ha modulo maggiore di 2, allora la successione diverge, come già detto, e non è più il caso di proseguire.
Altrimenti può avvenire che da un certo valore in poi la successione si avvicini sempre più ad un valore prefissato, o che oscilli periodicamente tra due o più valori, o che si mantenga comunque all'interno
di un'area limitata; in tutti questi casi si può presumere che la successione sia non divergente, anche se
questo procedimento non equivale ad una dimostrazione. Si procede allora così per il maggior numero
di punti possibili segnando la mappa di quelli presunti convergenti e che quindi costituirebbero l'insieme di Mandelbrot. Naturalmente tale mappa è alquanto presuntiva e lacunosa, per due fondamentali
ragioni.
1. Per quanto grande sia il numero di punti esaminati, si tratterà sempre di un numero finito, rispetto all'infinità dei punti di una qualunque regione di piano.
2. Solo per le successioni che da un certo momento superano in modulo il valore 2, si può dire
con certezza che sono divergenti e che dunque non appartengono all'insieme di Mandelbrot.
Per le altre, in generale si può dire solo che fino alla n-esima reiterazione la successione mantiene un andamento non divergente. Si può aumentare il numero n delle reiterazioni, tanto
quanto la potenza del computer e il tempo a disposizione consentono, ma non si può seguire lo
sviluppo all'infinito della successione.
In definitiva, la costruzioni dell'insieme di Mandelbrot, e di oggetti ad esso simili, come gli insiemi di
Julia, pur essendo suscettibili di una definizione formale, non possono essere studiati nelle loro fondamentali caratteristiche se non empiricamente e per via sperimentale. Anche gli insiemi precedemente
esaminati, come la curva di Koch e la curva di Peano non sono interamente costruibili, ma le loro fon13
Si dimostra che l'insieme di Mandelbrot, definito come sopra, è equivalente all'insieme dei punti c per i quali non è di2
2
2
vergente la successione x1  c  c, x2  x1  c, . . . , xn  x n-1  c, . . .
In corso di stampa in Atti del Convegno “Mandelbrot 40 anni dopo”, Messina 2007
damentali proprietà (in particolare quelle caratteristiche degli oggetti frattali) sono rigorosamente dimostrabili, ed inoltre, dato un punto del piano, si può affermare che esiste un numero n tale che, dopo
n passi, almeno in linea teorica, si può stabilire con certezza se esso appartiene o no alla curva. Nel
nostro caso, invece, può avvenire che dato un punto, qualunque sia n, dopo n passi non si possa (anche in linea di principio) avere la certezza della convergenza o della divergenza della successione. In
conseguenza di ciò, le stesse proprietà frattali di questi insiemi, possono essere attribuite solo induttivamente e non quindi in modo rigorosamente deduttivo. Si tornerà ancora su questo argomento dopo
avere acquisito ulteriori elementi per la riflessione.
4. Dimensione e autosimilarità.
Ho già detto come la geometria frattale non può essere limitata, a mio avviso, alla sola definizione di
oggetti frattali, di oggetti cioè come quelli di cui si è parlato nella sezione precedente. Se così non
fosse la geometria frattale non costituirebbe alcuna rivoluzione, dal momento che tali oggetti sono
pienamente definibili, e se ne prova l'esistenza, non appena si accetti la teoria formale degli insiemi e
se ne supponga la coerenza; esattamente come per ogni altra parte della matematica sviluppata dalla
fine dell'Ottocento ad oggi. Ora cercherò di giustificare meglio tali affermazioni, ma a tal fine dovrò
partire dall'analisi dei due concetti chiave della geometria frattale: la dimensione frattale o dimensione
di Hausdorff e l'autosimilarità.
Cominciamo dalla dimensione di Hausdorff a cui daremo un rapido sguardo per poi tentare di coglierne il senso al di là della sua definizione formale che può essere semplicemente descritta in due passi:
1. definire, in uno spazio metrico14, un nuovo concetto di misura a cui viene dato il nome di misura di
Hausdorff15. – 2. Utilizzare la nozione ora definita per estendere il concetto di dimensione mediante
quello di dimensione di Hausdorff16. 
Ho riportato in nota le definizioni formali di misura e di dimensione di Hausdorff, perchè ritengo essenziale tenerle presenti in ciò che sto per dire, e nello stesso tempo non mi sembra opportuno appesantire il testo principale con sviluppi tecnici ormai ampiamente acquisiti dalla letteratura specialistica17.
14
Si chiama spazio metrico un qualunque insieme S i cui elementi vengono chiamati punti e su cui viene data una regola
che ad ogni coppia di punti x e y faccia corrispondere un numero reale positivo d  x, y  per cui vale la condizione triangolare. Cioè comunque si prendono tre punti x, y , z deve essere d ( x, y )  d ( y, z )  d ( x, z ) . Se B è un sottoinsieme di
uno spazio metrico S, si dice diametro di B, il diametro della più piccola sfera che è capace di contenerlo per intero. In
simboli si scrive
diam B   inf d  x, y  .
x , yB
Sia A è un sottoinsieme di uno spazio metrico S. Ciò si esprime scrivendo A  S , S spazio metrico. Scelto arbitrariamente un numero  è sempre possibile ricoprire interamente l’insieme A con una famiglia di insiemi di diametro Ai
15
minore di 
; anzi questo si può fare in infiniti modi, e, quanto più piccolo è  , tanto maggiore è il numero degli Ai ne-
cessari per ricoprire interamente l’insieme A . Al limite, quando  tende a 0, il numero degli Ai tende all’infinito. Sia poi
D un numero reale positivo. Chiamiamo allora misura di Hausdorff di dimensione D, dell’insieme A il numero reale
espresso dalla formula


D
H D  A  lim inf    diam Ai   | A   Ai ,
  0
Ai 
 Ai 

D
D

Ai    diam Ai     


H  A =lim inf { ∑ diam A i  ∣A ⊆ ∪ A i , A i ∈⇒ diam A i ≤}
 0
A i ∈
A i ∈
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Il primo dato che emerge dalla definizione di dimensione di Hausdorff è che essa coincide numericamente, quando è intera, con la nozione classica di dimensione; ciò induce immediatamente a considerare la prima come un'estensione o generalizzazione della seconda. Tuttavia non ci vuole molto a rendersi conto che pur potendosi formalmente considerare come un'estensione del concetto classico, in
realtà lo rivoluziona e ne stravolge radicalmente il senso.
Sembrerebbe che nel corso dei secoli la nozione di dimensione geometrica, salvo l'estensione a spazi
pluridimensinale, abbia mantenuto costante il suo riferimento originario alla concezione aristotelica.
Concezione che si esprimerebbe in modo apparentemente semplice e univoco con il noto e citatissimo
passo:
“...delle grandezze, quella che ha una dimensione è linea, quella che ne ha due è superficie,
quella che ne ha tre è corpo, e al di fuori di queste non si hanno altre grandezze...”18
Ma questa apparente linearità e permanenza del concetto aristotelico di dimensione appare quanto
meno più problematica se, da una parte, la si legge alla luce di un altro passo dello stesso Aristotele, e
dall'altra si segue il percosso evolutivo del concetto moderno di dimensione dal Rinascimento al Novecento.
Aristotele infatti, nella Metafisica, dopo aver discusso le aporie derivanti dal considerare i punti, le linee, le superfici e i numeri, come sostanze in maggior grado dei corpi, così conclude:
“...La cosa sta, all'incirca, come per l'istante e il tempo. Neppure questo, infatti, può generarsi
e corrompersi, e, ciononostante, sembra essere sempre diverso, perché non è sostanza. Lo stesso vale per le linee, i punti e le superfici. E la ragione è la medesima. Infatti tutte queste cose
sono, nello stesso modo, o limiti o divisioni”19
Sembra a questo punto che i concetti aristotelici di punto, linea, superficie, essendo pensati come limiti o divisioni dei corpi, trovino la loro naturale traduzione in termini moderni, nel concetto di frontiera di un insieme. Se ne potrebbe trarre che, nel momento stesso in cui la frontiera di un dato insieme si estenda e si frantumi, assumendo una forma frattale, allora l'estensione della sua dimensione al
campo dei numeri reali sia un passaggio naturale e quasi obbligatorio.
16
Il numero reale D che appare nella formula precedente assume un valore cruciale. Infatti se questo numero è minore di
un certo valore limite (chiamiamolo D0 ), la misura di Hausdorff dell’insieme A è nulla. Se D è maggiore di D0 , la misura risulta essere infinita, mentre solo per D  D0 si ottiene per la misura un valore finito che può essere diverso da 0
(Sarà sempre 0 per l’insieme vuoto o per un insieme costituito da un numero finito di punti). Si dice allora dimensione di
Hausdorff dell’insieme A e si indica con dim A , proprio questo valore limite D0. Si può anche definire come estremo
superiore dei valori di D per i quali la dimensione di Hausdorff è nulla. In simboli Dim A  sup D | H D  A  0 .
17
Gli aspetti tecnici riportati nelle note sono liberamente riferite ad una letteratura specialistica di cui qui si cita in particolare, per quanto riguarda sistemi caotici e frattali dopo i lavori fondamentali di Mandelbrot: BARNESLEY & DEMKO .
(1986), CHERBIT (1987), DEVANEY (1987), DEVANEY & KEEN (1989), PETIGEN, JÜGENS, SAUPE (1992), SCHUSTER & VICSEK
(1989). Per logica matematica e teoria assiomatica degli insiemi si fa riferimento ripaettivamente a CASARI (1959) e
ABIAN (1965).
18
La traduzione del brano (De Coelo 268a7-10) è per la verità alquanto libera e tradisce in parte il senso del testo originale che così recita: “Mege¢qouj de£ to£ me£n e¦f' eán grammh¢, to£ d' e¦pi£ du¢o e¦pi¢pedon, to£ d' e¦pi£ tri¢a sw¤ma: kai£ para£ tau¤ta ou¦k
eãstin aãllo me¢geqoj dia£ to£ ta£ tri¢a pa¢nta eiånai kai£ to£ tri£j pa¢nt$”. Non vi è qui alcun termine direttamente traducibile con
“dimensione”. Il riferimento a quello che noi possiamo identificare con l'idea di dimensione è piuttosto riferibile, nel pensiero aristotelico, ai tre movimenti (aventi-dietro, sopra-sotto, destra-sinistra) secondo i quali soltanto, secondo Aristotele,
si può pensare di effettuare un'interruzione (o taglio, o divisione) di un corpo (in tre modi o direzioni) o di un piano (in due
modi o direzioni) o di una linea (in un solo modo).
19
ARISTOTELE, Metaph. B5, 1002b, 6-11. (Trad. di G. Reale).
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Ma le cose non stanno così, nel senso che questa è solo UNA delle possibili linee di sviluppo concettuale, per altro non corrispondente all'effettivo percorso storico.
La nozione aristotelica di dimensione, infatti, non è legata a “punto, linea e superficie qualunque cosa
ciò significhi”, ma a punto, linea e superficie quali sono per Aristotele; e questi non saranno mai oggetti frattali perché dal suo orizzonte è esclusa la possibilità di ogni processo infinito.
Ciò che invece di questa originaria idea permane e si sviluppa nella tradizione moderna è traducibile
come numero di movimenti o di variabili tra loro indipendenti, ovvero di coordinate necessarie a individuare una posizione (Ed in questo senso non si vede cosa potrebbe significare, ad esempio, l'affermazione che un punto è individuato, in una data varieretà, da p = 3,1428.... coordinate!).
Le prime tracce di questa idea si possono forse rintracciare in Nicola di Oresme20, per giungere al suo
pieno sviluppo con la geometria cartesiana e poi, in forma più generale con la meccanica analitica e
con il concetto riemanniano di varietà di dimensione n21. Questa tradizione, compatibile solo con valori interi della dimensione, viene ulteriormente sviluppata nel corso del Novecento, da un lato in relazione alle teorie sella conoscenza22, dall'altro, in forma più astratta, con la teoria degli spazi vettoriali
dove la dimensione è il massimo numero di vettori linearmente indipendenti.
Il problema che si presentava ad Hausdorff23 riguardava invece la misurabilità di oggetti che, secondo le teorie classiche della misura, apparivano non misurabili ovvero aventi misura o nulla o maggiore di ogni grandezza finita. Prendendo ad esempio la curva di Koch, si è già visto come, al crescere di n, la lunghezza dell'ennesimo elemento della successione Cn, cresce fino a superare ogni
valore prefissato, mentre la misura della superficie da essa coperta è sempre nulla. L'idea è dunque
di assegnare alla curva limite di tale successione una “dimensione” compresa tra i valori 1 e 2, cioè
tra le dimensioni rispettivamente di una linea e di una superficie. Ciò avviene mediante un artificio
puramente matematico, in maniera tale da fare assumere alla “misura” della curva un unico possibile valore finito. La “dimensione” è dunque l'unico numero reale che, nell'espressione usata per definire un nuovo concetto di misura (v. note 15 e 16) ne rende il valore finito e non nullo. Che poi
formalmente le dimensioni intere (lineare, superficiale, ecc...), coincidano all'interno della nuova
teoria con le rispettive dimensioni di Hausdorff, nulla toglie alla loro diversità concettuale. Consideriamo ancora la curva di Koch. Essa ha, è vero, dimensione di Hausdorff compresa tra 1 e 2 (esattamente log4/log3), ma non per ciò essa cessa di essere un oggetto lineare. Anche la curva di Peano,
sebbene abbia dimensione di Hausdorff 2 e ricopra per intero la superficie di un quadrato, continua
ad essere topologicamente una linea e non una superficie. Un oggetto geometrico, infatti, non è un
semplice insieme di punti. Se ciò fosse, allora la curva di Peano coinciderebbe con il quadrato che
essa ricopre interamente; ma ciò non è, perché la curva di Peano, come ogni ente geometrico lineare, è caratterizzato in modo essenziale da una corrispondenza biunivoca e continua (omeomorfismo)
con un intervallo della retta reale, mentre nessuna corrispondenza del genere caratterizza il concetto
di quadrato in quanto tale.
20
NICOLE ORESME (~1320-1382): “Tractatus de configurationibus qualitatum et motum” e “De proportionibus proportionum”. V anche GRANT (1966), CLAGETT (1968).
21
RIEMANN, 1867. Una varietà reale di dimensione n è definita come l'insieme di tutte le n-uple ordinate (x1, x2, . . . , xn) di
numeri reali.
22
V. per es. la complessa spiegazione del continuo n-dimensionale come struttura cognitiva in Poincaré (POINCARÉ, 1905;
cap. III ), poi ulteriormente sviluppata nella epistemologia genetica di J. Piagét (PIAGÉT, 1950). La dimensione dello spazio si presenterebbe come una forma dell'intelletto (coerentemente con la teoria delle forme simboliche di Cassirer) determinata dal numero di variabili indipendenti che il nostro sistema senso-motorio può sperimentare.
23
HAUSDORFF, 1918.
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Generalizzando si può dire che un qualunque oggetto geometrico (compresi quindi gli oggetti frattali) è caratterizzato oltre che dall'insieme di punti che ne costituiscono il supporto, anche da una
struttura quanto meno topologica. Ed è rispetto a questa struttura che la dimensione di Hausdorff si
caratterizza come qualcosa di assolutamente nuovo e diverso. Non già una semplice generalizzazione ma un artificio che tende a dare risposta a un problema. Ripeto: UNA risposta e non la sola risposta possibile!
Passiamo dunque ad accennare brevemente al concetto di autosimilarità. Ancora una volta la curva
di Koch si presta perfettamente ad essere usata come esempio paradigmatico. Data la sua costruzione ricorsiva, infatti, la stessa forma, si ripete indefinitamente in una scala sempre più piccola 24. Al di
là delle possibili definizioni formali, Mandelbrot attribuisce a questo aspetto una valenza di causalità direttamente connessa con le leggi generative (fisiche, chimiche, biologiche o altro) degli oggetti
reali ed è in questa prospettiva che egli parla di “autosimilarità statistica”. Di ciò si parlerà più
avanti e per il momento ci limitiamo quindi ai soli aspetti puramente geometrici.
Va allora detto, a questo riguardo, che sebbene dimensione frattale (quindi non intera secondo la definizione di Mandelbrot) e autosimilarità costituiscano gli elementi chiave della geometria frattale,
nessuno di essi può dirsi effettivamente caratterizzante del concetto di oggetto frattale. Come primo
esempio consideriamo la curva di Peano, che abbiamo incluso tra gli oggetti frattali; essa possiede
l'autosimilarità, ma non ha dimensione frattale in senso proprio, secondo la definizione data, perché
la sua dimensione è 2, cioè un numero intero. Tuttavia se pensiamo alla curva di Peano come oggetto lineare (omeomorfo al segmento reale) allora la sua dimensione ci appare comunque anomala rispetto agli oggetti classici della geometria. Quanto all'autosimilarità ci limitiamo qui ad osservare
che esistono oggetti che sono autosimili con ogni loro parte connessa pur non essendo frattali: ne
sono esempi i segmenti di retta.
5. Geometria frattale e rappresentazione del mondo empirico.
La costa della Gran Bretagna è un oggetto frattale? Certamente no, perché la prima è un oggetto fisico, il secondo geometrico. Ma allora la costa della Gran Bretagna ha la forma di un oggetto frattale?
Ancora una volta io dico no, sebbene concordo pienamente che, in opportuni contesti, un oggetto
frattale sia più idoneo di altri oggetti geometrici a rappresentarne la forma. Ho sottolineato rappresentarne la forma e in certi contesti; voglio ora spiegare tali sottolineature. Innanzitutto in che senso un oggetto frattale può essere rappresentativo della forma di un oggetto fisico? Bisogna dire a
questo proposito che la risposta non è univoca e va comunque declinata nei vari contesti25. Come già
24
Formalmente, sempre all'interno di una teoria formale degli insiemi, l'autosimilarità si può così definire: Un oggetto S
si dice autosimile se: 1) S è costituito di parti S i tra loro disgiunte e di cui è unione. Cioè. 2) Esiste un’omotetia  tale
che, a meno di isometrie, si ha i  F , S    S i  . In altri termini ognuna delle parti che compongono S è una rappresentazione in scala dell’intero S. Il concetto è estremamente impegnativo sotto il profilo epistemologico perché presuppone che l'autosimilarità si ripeta a tutti i livelli di scala per ciascuna delle parti. Ciò impone l'esistenza in atto di una gerarchia infinita di omotetie.
25
E' interessante quanto a questo proposito dice per esempio uno studioso, Alain Le Méhauté, che per la Compagnie génerale d'électricité (Marcoussis) ha affrontato il problema da un punto di vista applicativo, il quale scrive:
“A moment's thought on the nature of materials will convince on that: (a)Unlike mathematical 'objects', physical objects are never 'fracta1s' in the science of being a limit as the scale of measurement tends to
zero, but are almost surely, in the sense of an overall complexity as a function of sca1e. (b) The physical
Fractal does not necessarely call for a fractal dimension. The 'fractal dimension' can change as a function of
the scale or measurement without the physical ideas introduced by Mandelbrot being affected. It seems that
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abbiamo visto, ciò che Mandelbrot cerca di porre sempre in evidenza, come elemento costitutivo
dell'idea che sta a fondamento del concetto di frattale, è l'analogia dei processi generativi. Molti oggetti fisici, infatti, sono generati attraverso processi ricorsivi che ricordano molto da vicino la costruzione, anch'essa ricorsiva, di molti oggetti frattali. La somiglianza di forma tra i due oggetti (fisico e geometrico) non si presenta dunque in modo casuale ma è strettamente connessa alla genesi
di entrambi. Ciò conferisce innegabilmente alla geometria frattale un carattere innovativo e straordinariamente efficace ai fini della rappresentazione di innumerevoli oggetti e situazioni empiriche.
Tutto ciò però non scalfisce né, da un lato, la natura empirica dell'oggetto rappresentato né, dall'altro, il carattere convenzionale e logico-linguistico dell'oggetto geometrico. Dire natura empirica
vuol dire ricondurre ogni oggetto, ogni fatto, ogni fenomeno, alla propria originaria essenza di dati
sensibili elementari, anteriori ad ogni organizzazione strutturata nelle forme dello spazio, del tempo,
della sostanza, della causalità, ecc.... La pura datità sensibile non ha forma frattale, né altra forma,
semplicemente perché ancora non ha forma. E ancor meno può avere una forma determinata da una
causa generatrice, perché ancora non è inserita in una struttura causale e spazio-temporale. Alla pura
datità sensibile si sovrappongono, per strati successivi, i vari livelli di organizzazione cognitiva e razionale, e ad ogni successivo livello cognitivo l'oggetto empirico diventa sempre meno “dato di fatto” e sempre più carico di teoria. L'oggetto frattale, come ogni oggetto geometrico, si pone all'apice
di una catena di rappresentazioni ed è quindi rappresentazione di rappresentazioni.
Prendiamo un esempio che a me sembra particolarmente significativo: la rappresentazione frattale
dei moti browniani. Cos'è un moto browniano se non il risultato di una modellizzazione? Una rappresentazione, cioè, che nasce come modello matematico di spiegazione di fenomeni osservati macroscopicamente, o anche microscopicamente ma attraverso complesse apparecchiature, ed in ogni
caso all'interno di apparati teorici altamente evoluti. Anche i sostenitori del realismo più ferreo non
possono quindi negare che la rappresentazione geometrica frattale, almeno nei casi simili a questo,
non è che la rappresentazione di una rappresentazione, che qui a sua volta è reificazione 26 di un modello matematico. Se l'esempio precedente si impone per la sua evidenza, allo stesso tempo tuttavia
può apparire non sufficientemente rappresentativo. Torniamo quindi a quegli esempi in cui l'oggetto
frattale sta a rappresentare l'effettiva forma spaziale di un'entità materiale, come è nel caso paradigmatico delle coste britanniche. Ora è vero che misurando le coste con una poligonale, al crescere del
numero dei lati la lunghezza cresce fino a raggiungere valori elevati, ma ciò vale solo ad una scala
macroscopica, non certamente a scala atomica o molecolare; la lunghezza della costa, per quanto
this recognition of the generality or the mathematician's ideas is still not widely accepted. (c) Fractality can be
discussed at all bounded levels and without any reference to the Hausdorff dimension.” (A. LE MÉHAUTÉ,
Fractals: where are they to be found?, in CHERBIT, 1987, pp. 120-134).
In particolare sembra qui emergere, tra l'altro, l'idea più o meno consapevole che alla base della rappresentazione frattale (ma ciò potrebbe valere per ogni rappresentazione matematica) c'è una scelta, che può essere supportata in
vari modi e può presentarsi come la più conveniente, ma che rimane pur sempre una scelta e non già una necessità logica, e ancor meno un dato di fatto.
26
Il termine reificazione (= trasformazione in “res”, “cosa”, “oggetto”) è usato in informatica (nella programmazione
per oggetti) per indicare un processo attraverso cui un concetto astratto viene ricondotto ad una struttura algoritmica in
grado di operare sul concetto come se si trattasse di un oggetto reale. Un esempio che ricorre nell'esperienza di un comune utente, è quello per cui la complessa organizzazione astratta di un file system appare nella forma visibile come
una scrivania (desktop) e un'insieme di cartelle e sottocartelle apribili, entro cui è sistemata una quantità di documenti.
Qui in modo più specifico, e senza riferimento all'uso in altri contesti filosofici, si vuole indicare quello slittamento di
significato che conduce a interpretare come rappresentazione di un ente a sé stante ciò che inizialmente era semplice
modello di datità fenomeniche. V. quanto detto nella sez. 2, anche attraverso gli esempi costituiti dai concetti di energia
e software.
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grande permane dunque finita27. La questione più rilevante appare però quella dell'autosimilarità: se
infatti se ne dovesse richiedere la sussistenza nei termini rigorosi ed esatti della definizione geometrica, essa verrebbe subito invalidata non solo per le coste di una qualunque regione, ma in quasi tutti i casi di accrescimento naturale. All'autosimilarità degli oggetti frattali si fa corrispondere invece,
nel mondo empirico, un più sfumato concetto di autosimilarità statistica. Ciò vuol dire che l'oggetto
geometrico rappresenta, in questo caso, non l'andamento effettivo della costa, ma una sua rielaborazione statistica. In altri termini l'oggetto rappresentato dall'insieme frattale, è esso stesso un modello
o una rappresentazione ad alto contenuto teorico. Né le cose andrebbero in modo sostanzialmente
diverso se il modello a cui si fa riferimento avesse carattere deterministico anziché casuale.
La genialità dell'invenzione di Mandelbrot sta proprio nell'aver colto il nesso tra le proprietà geometriche dell'oggetto frattale e la spiegazione genetica di oggetti empirici. Solo che, ove non si voglia
attribuire a tali spiegazioni genetiche un senso ultimo, metafisico, allora, vuoi che siano pensate in
termini deterministici o che siano pensate in termini di casualità, esse sono pur sempre rappresentazioni generalmente cariche di teoria, talvolta anche a livello altamente evoluto, di complesse datità
empiriche.
Possiamo ora tornare alla domanda iniziale riformulata secondo quanto si era precisato nell'introduzione. Quanto l'immagine di un mondo ordinato secondo leggi deterministiche può trovare rispondenza negli sviluppi più avanzati delle scienze empiriche? E quanto invece può dimostrarsi feconda
una rappresentazione fondamentalmente disordinata e caotica?
Sappiamo bene ormai che anche qui la risposta non può essere univoca e che rappresentazioni diverse e apparentemente contraddittorie possono dimostrarsi vincenti, non solo in tempi e contesti diversi, ma anche contemporaneamente nell'ambito della stessa classe di fenomeni. L'esempio forse
più clamorosamente noto è quello della rappresentazione allo stesso tempo ondulatoria e particellare, prima delle radiazioni elettromagnetiche e poi perfino di oggetti materiali dotati di massa. Ma
ancora più pertinente al nostro discorso potrebbe essere l'interpretazione delle teorie quantistiche:
disordine apparente (o simulato) di una realtà in sé deterministica, come voleva Einstein, o apparente ordine deterministico quale risultante statistica, a livello macroscopico, di un universo a caso?
Sembra dunque che l'apparente ordine geometrico del mondo fenomenico, o da un altro punto di vista, il suo apparente disordine, possano entrambi essere pienamente assorbiti, sul piano della rappresentazione o della modellizzazione matematica, proprio da questa fondamentale ambivalenza
della spiegazione scientifica. Da un lato le teorie matematiche del caos sono in grado di ricondurre
un apparente disordine del quadro fenomenologico ad un sistema perfettamente deterministico, descritto da equazioni differenziali le cui soluzioni presentano a volte comportamenti “caotici”. Dall'altro fenomeni apparentemente ordinati e deterministici possono essere visti come risultato statistico di una situazione di disordine.
La domanda se esiste ordine nell'universo non è dunque, dal mio punto di vista, una domanda in sé
priva di senso. Lo è se ad essa vogliamo dare una risposta metafisica, assoluta, definitiva. Non lo è
se la poniamo come richiesta di una scelta di fondo, di un posizionamento ideale rispetto a cui costruire un'immagine e una spiegazione, sia pur parziale, provvisoria, storicamente e contestualmente
determinata, del mondo feneomenico. Una scelta non sempre facile, la cui revisione ha spesso prodotto sviluppi teoretici insospettabili e risultati straordinari in termini di capacità predittiva, ma la
cui fecondità è spesso riconoscibile solo a posteriori per il successo conseguito.
27
L'uso dell'infinito come metafora di una successione indeterminata di operazioni mentali non è certamente nuovo ed è
anzi alla base dell'idea stessa di continuo matematico. V. in proposto Poincaré (1905) e LAKOFF & NUÑEZ (2000).
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In quest'ottica, la geometria frattale non è un'eccezione, anzi mi pare che qui si possa rintracciare
l'analogo geometrico di quell'ambivalenza che in campo fisico è rappresentato dal binomio ondacorpuscolo o dal binomio casualità-causalità.
6. Conclusioni
Volendo trarre una rapida sintesi di quanto detto fino ad ora, fisserei tre punti essenziali. Il primo,
strettamente connesso con il concetto di infinito, riguarda l'esistenza stessa dell'oggetto frattale e la
sua capacità di rappresentare oggetti empirici. La costruzione ricorsiva, fondata sul principio di autosimilarità, riassume e ben rappresenta, anche in relazione alla loro genesi, un'ampia classe di oggetti empirici. Ciò tuttavia è valido solo fino a che si rimane in ambito finito, per quanto grande sia
il numero delle iterazioni. Ma in questo modo non viene definito un ben preciso insieme (a cui dare
il nome di frattale) bensì una successione di insiemi sempre più frastagliati, senza che per altro si
possa stabilire una limitazione definitiva. Perché si abbia un oggetto ben preciso e univoco si deve
ricorrere a quell'artificio matematico che è il passaggio al limite. Un artificio che di per sé trascende
ogni possibilità di esperienza empirica, ma che qui assume connotazioni particolarmente ardue. Se,
infatti, il concetto originario di limite (di successione numerica o di funzione reale) può essere ricondotto, come ha mostrato Cauchy, ad una fondazione di tipo finitista, la dimostrazione di esistenza del limite frattale passa invece attraverso la formalizzazione della teoria degli insiemi, con tutte
le difficoltà che ciò comporta in termini fondazionali. In altri termini a rappresentare l'oggetto empirico è in realtà non un singolo oggetto geometrico ma una successione di cui non si può fissare il
termine ultimo. E' del resto ciò che si fa effettivamente con l'uso di calcolatori sempre più potenti. Il
fatto che il risultato del calcolo venga considerato ai fini pratici come un oggetto geometrico ben
definito e presentato nelle illustrazioni divulgative come “il frattale” è possibile grazie alla limitatezza del nostro potere risolutivo. L'oggetto frattale, così come definito, appartiene invece al più alto
livello di astrazione e la sua consistenza è puramente formale, al di là quindi di ogni percezione spaziale empirica.
Il secondo punto è che anche l'oggetto “empirico” rappresentato non è mai una pura datità fenomenica bensì esso stesso una rappresentazione di qualcos'altro. Se ciò è abbastanza evidente quando si
vogliano rappresentare oggetti già teoreticamente strutturati come nel caso dei moti browniani, non
è meno vero per quelle rappresentazioni così profondamente radicate nella struttura mentale da essere assunte dalla nostra coscienza al rango di forme oggettive dello spazio.
Il terzo punto è l'ambivalenza del discorso scientifico rispetto al binomio ordine deterministico – disordine casuale. Un binomio tra due termini semanticamente opposti ma empiricamente mai deicidibili in modo definitivo e assoluto. Ciò tuttavia non significa mancanza di significato né indifferenza (rispetto al discorso scientifico) delle scelte ad esso inerenti. Anzi proprio il caso della geometria
frattale conferma ancora una volta come il procedere della scienza non possa prescindere dall'assunzione di un qualche posizionamento ideale rispetto a cui costruire una rappresentazione del mondo
o, più limitatamente, di una classe di datità fenomeniche. Il puro riduzionismo ad un apparato formale chiuso in sé, con pretese di autolegittimazione in quanto sistema coerente, non solo trova limiti invalicabili nella propria struttura logica (Teoremi di incompletezza, paradosso di Loweneim-Scölem, ecc...), ma si dimostra sterile sul piano dell'effettiva crescita della conoscenza scientifica. Proprio qui è, a mio avviso, il nocciolo duro attorno a cui si sviluppa la geometria frattale come rappresentativa di datità empiriche. Non in quanto “scoperta” improvvisa e fulminante della “vera” forma
degli oggetti “reali”, ma in quanto risultante di un insieme di riposizionamenti ideali e di rivoluzioni tecnologiche. Ed ecco apparire un motivo che mi sembra meritevole di ulteriori approfondimenti
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in altra sede: il ruolo delle tecnologie nella costruzione delle forme di base del pensiero. Qui mi limito ad osservare che, nella prospettiva da noi delineata, l'irrompere delle tecnologie informatiche
ha un ruolo che non può essere in nessun caso sottovalutato o banalizzato come puramente strumentale. Se pensassimo alle curve frattali come un qualcosa di dato a cui attraverso il calcolo ci si può
finalmente avvicinare sempre di più, allora davvero si tratterebbe di una banalissima crescita quantitativa di potenzialità già presenti. Ma il concetto stesso di frattale, come abbiamo già delineato, ha
le sue radici e la sua consistenza nello stesso processo reiterativo che il computer rende esplicito. Di
più, le nuove possibilità di calcolo rendono fecondo e quindi prevedibilmente vincente un riposizionamento concettuale che in precedenza sarebbe rimasto sterile, o comunque confinato in un raffinato e rarefatto contesto fondazionale per la “eliminazione delle mostruosità”. Allora possiamo pensare che proprio l'innovazione tecnologica abbia determinato le condizioni entro cui il cambiamento
di prospettiva non viene soltanto facilitato (il che se pur vero sarebbe ancora riduttivo) ma assume
significanza in virtù della fecondità rivelata in quello, e non nei precedenti contesti.
BIBLIOGRAFIA
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