Fotografare il caos. Francis Bacon in autoscatto / text by Marcello
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Fotografare il caos. Francis Bacon in autoscatto / text by Marcello
Fotografare il caos. Francis Bacon in autoscatto DAVID SYLVESTER: Una cosa chiara è che non le interessa, nella sua pittura, dire qualcosa sulla natura dell’uomo nel modo in cui premeva a un artista come Munch, per esempio. FRANCIS BACON: Certamente no. Tento solo di trarre dal mio sistema nervoso delle immagini che siano più accurate possibili. Metà di esse non so nemmeno che cosa significhino. Io non dico niente. Se poi uno non dica niente per altre persone, questo non lo so. Ma non dico davvero niente, probabilmente perché sono più preoccupato delle qualità estetiche di un opera di quanto lo fosse Munch. Non ho idea di cosa un artista stia tentando di dire, a parte i più banali [...]. Una famosa fotografia di Peter Beard ci riporta nello studio di Francis Bacon al 7 di Reece Mews (Londra) – e al suo frastornato disordine: uno sregolato tumulto di pennelli, ritagli di giornale accartocciati alla rinfusa, telai addossati au petit bonheur, magmatiche, contaminanti esplosioni di colore agglomerate alle spurie pareti. «Mi sento a casa in questo caos perché il caos mi suggerisce delle immagini. E comunque adoro vivere nel caos. Se dovessi andarmene e prendessi un nuovo studio, nel giro di una settimana si ricreerebbe il caos».1 Ma osserviamo con più attenzione. In quell’indistinto subbuglio d’oggetti spiccano, nitidamente scontornate dal resto, numerosissime fotografie; appese dilacerate aggiustate una sull’altra esse s’impongono violentemente sul nostro occhio, una sorta di immagine nell’immagine dunque, come l’indimenticabile quadro di Ternies alla Gemäldegalerie di Dresda, dove vediamo rappresentata una galleria di quadri che a loro volta (assecondando ante litteram un calembour à la Escher) rappresentano dei quadri in una galleria di quadri. «Può dirmi perché le fotografie la interessano tanto?» chedeva David Sylvester, in una delle sue memorabili interviste al pittore irlandese. E questi: «[...] Quando si guarda qualcosa, non la si guarda in modo diretto ma si è condizionati dall’impatto esercitato su di noi dalla fotografia e dal cinema. E il novantanove per cento delle volte trovo che le fotografie siano molto più interessanti della pittura astratta o della pittura figurativa. Le fotografie mi hanno sempre soggiogato». Poi rincarava: «Penso che sia il lieve distacco dal reale, che mi rituffa con maggior violenza nel reale stesso. Attraverso l’immagine fotografica mi ritrovo a vagare dentro l’immagine e a estrarne quella 1 D. SYLVESTER, The Brutality of Fact: Francis Bacon, London 1987, tr. it. di D. Comerlati, Interviste a Francis Bacon, Milano 2003, p. 172. che ritengo sia la sua realtà più di quanto mi sia possibile semplicemente guardando quella realtà. E le fotografie non sono solo punti di riferimento; spesso funzionano come detonatori di idee».2 La pittura di Bacon gioca ininterrottamente con la fotografia stabilendo con essa un’insopprimibile catena di rimandi; essa produce immagini fin dapprincipio fotograficamente ‘selezionate’ – iscritte nello spietato diaframma dell’occhio che soltanto dopo averle ‘ingabbiate’ può procedere alla loro inesorabile, isterica distorsione, conducendole nell’atroce metamorfismo delle loro forme, i cui squarci s’accavallano in un prodigioso spasimo di crudeltà. Bacon è pittore per eccellenza fotografico; le sue equilibrate campiture – ognuna così maniacalmente misurata ed esatta – segnano i confini dello ‘scatto’ che egli ha già preterintenzionalmente operato, infliggendo all’oggetto ‘reale’ i segni e le decisive incisioni coi quali la ‘prospettiva’ pittorica acquisisce il mondo – un’efferata quanto necessaria trasfigurazione. La fotografia circoscrive l’inevitabile caos che vanifica l’identità degli oggetti smarrendoli nell’indifferenziato. Essa concede che l’immagine emerga in tutta la sua coerente singolarità – che essa acceda alla pittura depurata dall’eccesso di mondo che la nega – già intrisa delle sue linee essenziali, costretta al proprio corpo intensivo. Ecco dunque che riproporre fotograficamente l’opera di Bacon rappresenta tutt’altro che una mera ‘ripetizione erudita’ dei capolavori del grande pittore, l’intento – nonché la straordinaria artisticità in re – del lavoro di Petrò va in tutt’altra direzione: esso ha la pretesa di risalire all’origine del gesto pittorico di Francis Bacon, ricollocandosi nel punto stesso in cui quella pittura è scaturita al fine di ricrearne nuovamente il ‘movimento’. Ed è per questo, infatti, che le fotografie di Petrò sono così indissolubilmente legate ai dipinti di Bacon da risultarne altrettanto assolutamente indipendenti: non limitandosi affatto alla citazione corriva, esse decidono di riattivare appieno la potenza ingenerante dell’arte, lasciando che l’immagine venga alla presenza assecondando la sua estrema autonomia, ordinata soltanto dall’equilibrio formale delle forze che ne accudiscono l’irrinunciabile bellezza. Vale a dire: anche Petrò premette certamente la «qualità estetica» all’analogia o all’immediatà espressività del senso. Ma in estrema sintesi: che cosa accade? Bacon e Petrò partono dal medesimo ‘materiale’, l’inappagabile insignificanza del ‘groviglio’ che fa cerchio intorno a noi. Entrambi si situano poi nel medesimo punto d’osservazione, e per un imponderabile istante, fino al primo impercettibile battito di ciglia, anche il loro occhio è perfettamente sovrapposto: scontornano chirurgicamente lo stesso fatto e lo trascinano nel ‘cuore di tenebra’ dell’arte. Qui però quel ‘fatto’ si sdoppia, seguendo due percorsi affini ma destinati a non potersi mai più ‘innestare’ l’uno nell’altro: da un lato l’immagine 2 Ivi, p. 29. libera il suo corpo plastico naufragando nei duttili profili della pittura, inebriandosi delle condensate verigini dove un colore tracima nell’altro fondendo due sembianze in un solo, indicibile ‘umore’; dall’altro invece i contorni che com-prendono la forma precipitano nel foglio effimero, fissando i loro margini nell’incarnata nettezza della fotografia oramai già inevitabilmente compiuta. Laddove con Bacon nasce un dipinto, lo scatto di Petrò intravede il suo prezioso fotogramma, restituendoci l’altro esito possibile del medesimo percorso. «Tra tutte le arti, la pittura è probabilmente la sola che incorpori necessariamente, ‘istericamente’, la propria catastrofe e, a partire da ciò, si costituisca come una fuga in avanti. Alle altre arti la catastrofe è tutt’al più associata. Ma lui, il pittore, passa attraverso la catastrofe, afferra il caos e prova a uscire».3 Eppure l’arte commenta indefinitamente se stessa: la fotografia interroga la pittura interpretandola, ma ciò non esclude che da questa fotografia possa nascere un’ulteriore pittura che reinterpreti a sua volta la fotografia, porgendole anch’essa la propria irrevocabile domanda. Contra Deleuze siamo dell’avviso che ritentando l’origine del gesto artistico, il Bacon di Petrò restituisca alla fotografia la sua più autentica catastrofe. Una catastofe che senza fuggire mai in avanti – senza essere cioè mai pittorica – sa rimanere fotograficamente immobile sul proprio attimo, e quindi su se stessa. È questa la forza di queste foto: non hanno alcun bisogno di uscire dal caos, si ‘limitano’ a mostrarlo. Marcello Barison 3 G. DELEUZE, Francis Bacon. Logique de la sensation, Paris 1981, tr. it. di S. Verdicchio, Francis Bacon. Logica della sensazione, Macerata 1995, pp. 169-170.