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Le declinazioni della complessità. Ordine, caos e sistemi complessi*

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Le declinazioni della complessità. Ordine, caos e sistemi complessi*
Le declinazioni della complessità.
Ordine, caos e sistemi complessi*
FRANCESCA FAGGIONI** CRISTINA SIMONE***
Abstract
Il lavoro propone una lettura ragionata della complessità in chiave di misurazione e di
approcci sistemici interdisciplinari.
Nella prima parte si mettono in luce le motivazioni alla base della nascita delle teorie
della complessità nei molteplici campi del sapere umano e si individuano le “declinazioni”
della complessità in funzione degli approcci alla misurazione attraverso cui è stata
concettualizzata. In tal senso, si analizzano alcune declinazioni della complessità ormai
consolidate, quali quella computazionale, informativa, di grana e relazionale.
La seconda parte propone una prospettiva storica sugli approcci multidisciplinari alla
complessità, da quelli cibernetici all’esperienza del Santa Fe Institute.
Nella terza parte ci si sofferma sull’apporto della complessità alle scienze economiche e
manageriali, e sul contributo del “pensiero complesso” alla metodologia della ricerca.
Il lavoro si conclude con alcune riflessioni circa la triangolazione complessità-impresaprospettive multifocali.
Parole chiave: complessità, ordine, caos, sistemi complessi
The paper deals with complexity in terms of measurement and multidisciplinary systemic
approaches.
First part gives reasons and motivations for the birth of complexity theories in a lot of
human scientific fields and recalls a classification of several kind of measures of complexity
in complex systems.
Second part is dedicated to some of the multidisciplinary approaches focused on
complexity: from cybernetics to the Santa Fe Institute programme research.
Third part is dedicated to complexity in economics and management and to
epistemological contribution of complexity sciences to the methodology of research.
Conclusions point out reflections about the link among complexity, firm and
interdisciplinary perspectives.
Key words: complexity, order, chaos, complex systems
*
**
***
Pur essendo il lavoro frutto di una impostazione unitaria e di una riflessione comune delle
due autrici, sono da attribuire a Francesca Faggioni i parr. 1, 2, 3.1 e 4.2; mentre sono da
attribuire a Cristina Simone i parr. 3.2, 3.3, 4.1 e 5; è da attribuire ad entrambe il
conclusivo par. 6.
Ricercatore di Economia e gestione delle imprese - Università degli Studi Roma Tre
e-mail: [email protected]
Associato di Economia e gestione delle imprese - Sapienza Università di Roma
e-mail: [email protected]
sinergie n. 79/09
4
LE DECLINAZIONI DELLA COMPLESSITÀ
1. Nuova epistemologia della scienza: elementi per il metodo
scientifico nell’economia della complessità
Agli inizi del secolo scorso, in ragione di nuove scoperte avvenute nel campo
della fisica, e successivamente in altre scienze, si è verificato un cambiamento
nell’approccio alla scoperta scientifica che ha messo in discussione sia le condizioni
sotto le quali si possono ottenere incrementi della conoscenza scientifica, sia i
metodi per raggiungere tali incrementi.
La questione, ponendosi tanto sotto il profilo ontologico quanto sotto quello
epistemologico, non si esaurisce nell’individuazione di nuove metodologie e
tecniche all’interno delle singole discipline, bensì ridisegna il quadro delle certezze
su realtà e conoscibilità, influenzando il metodo scientifico, tradizionalmente
caratterizzato dalle impostazioni deterministiche e meccanicistiche di derivazione
newtoniana.
Nicolis e Prigogine, nel prologo del loro lavoro del 1989, riassumono l’origine di
questo cambiamento ricordando che il Novecento è un secolo che ha conosciuto
almeno due dimostrazioni di “impossibilità fisica” (scienza fisica N.d.R.): la prima è
fondata sulla teoria della relatività e la seconda è basata sulla meccanica quantistica.
Sul tema erano già intervenuti Prigogine e Stengers constatando che tali
impossibilità sono state vissute dagli studiosi in senso negativo «come scoperta dei
limiti che si oppongono alle ambizioni della fisica classica» eppure «queste due
rivoluzioni scientifiche del XX secolo devono essere viste in una prospettiva diversa,
non come fine, ma come inizio, come apertura di nuove possibilità»1. A
dimostrazione di tale potenziale se in un primo momento le scoperte in questione si
pongono in contrapposizione rispetto alla meccanica classica, successivamente esse
appaiono utili lenti per la descrizione di altri fenomeni fisici. « […] There were
moments when the program of classical science seemed near completion: a
fundamental level, which would be the carrier of deterministic and reversible laws,
seemed in sight. However, at each such moment something invariably did not work
out as anticipated...Today, wherever we look, we find evolution, diversification, and
instabilities…»2
Si è discusso se il cambiamento di prospettiva comportasse o meno una
discontinuità epistemologica. A tal proposito nel 1962 Kuhn ricorre al concetto di
paradigma scientifico (che l’Autore assimila alla scienza normale in un determinato
momento storico) per rappresentare - nel passaggio da un paradigma all’altro - la
struttura delle rivoluzioni scientifiche3.
Un paradigma scientifico è definito dall’Autore come una «costellazione di
conclusioni, concetti, valori, tecniche, condivise da una comunità scientifica e usate
1
2
3
Prigogine I., Stengers I., La nuova alleanza, Einaudi, Torino, 1981, p. 217.
Nicolis G., Prigogine I., Exploring Complexity: an introduction, W.H. Freeman, New
York, 1989, pp. 2-3.
Kuhn T., The structures of scientific revolutions, University of Chicago Press, Chicago,
1962 (trad. it. a cura di Carugo A., La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi,
Torino, 1969, p. 30).
FRANCESCA FAGGIONI - CRISTINA SIMONE
5
dalla comunità per definire problemi e soluzioni leciti»4. Alla luce di questa
definizione una rivoluzione scientifica implica un mutamento di paradigma e quindi
una discontinuità, una frattura rispetto al paradigma passato che conduce a nuovi
modi di intendere e di conoscere la scienza5. Il significato assunto dal salto
epistemologico, come inteso da altri autori, è tuttavia da considerarsi in modo più
sottile rispetto al salto paradigmatico della rivoluzione scientifica come
rappresentato da Kuhn. Da un lato, Isabelle Stengers ricorda come l’idea di
paradigma sia stata associata a quel modello platonico che permette di rappresentare
il gioco fra concetti scientifici e possibilità di sperimentazioni, il quale è
indissolubilmente associato alla scienza classica, oltre che al presupposto che sia
possibile, se pur in via del tutto teorica, ottenere una conoscenza certa e assoluta.
Dall’altro lato, Wible afferma che la complessità, quale nuova visione della scienza,
sembra piuttosto emergere spontaneamente dai diversi ambiti della speculazione
scientifica: tale emersione si caratterizza in guisa di flusso e si pone in contrasto con
le drammatiche discontinuità insite nel concetto della rivoluzione scientifica
Kuhniana6.
Sta di fatto che nel corso degli ultimi decenni si è verificato un mutamento progressivo o radicale - rispetto al concetto di scienza e alle caratteristiche della
conoscenza, alla luce delle sinergie e delle interrelazioni che si sono sviluppate fra
alcune discipline che stanno al confine fra le scienze chimico-fisiche e scienze del
vivente quali la teoria dei sistemi, la teoria dell’informazione, la cibernetica, la
teoria dell’evoluzione, la termodinamica dei sistemi lontani dall’equilibrio, la
matematica delle catastrofi, ecc. Tali interazioni hanno dato vita ad una
costellazione concettuale che viene oggi riassunta nell’idea di complessità.
Il termine complessità non solo riporta nella sfera della conoscenza ciò che
prima ne era escluso (si vedano i concetti di incertezza, disordine, soggetto,
contraddizione, il rapporto con l’ambiente, ecc.), ma comporta nuove domande che
vengono poste alla realtà allo scopo di definire l’indagine scientifica stessa.
Pertanto, sotto un profilo filosofico, appare possibile sotto certi aspetti pensare alla
4
5
6
Definizione letterale citata in Capra F. The web of life, Doubleday-Anchor Book, New
York, 1996 (trad. it. a cura di Capararo C., La rete della vita, Rizzoli, Milano, 1997, p.
15).
Che la complessità costituisca un salto paradigmatico è stato affermato da molti autori, a
tal proposito si veda anche Gleick J., Chaos, Vintage, London, 1998, p. 9.
Wible J., “What is complexity?”, in Complexity and the history of economic thought, cap.
1. Routledge, 2000, p. 25. In realtà, le molteplici posizioni assunte dai diversi autori
sull’effetto della complessità nell’ambito del processo conoscitivo scontano un differente
concetto di temporalità. Il tempo nel modello di Khun si pone come semplice parametro
ed è reversibile. L’Autore può ammettere pertanto discontinuità e fratture del processo
conoscitivo; quest’ultimo può interrompersi, rinnegare il suo passato e cominciare su
nuove basi conoscitive. Per altri autori se si assume il concetto di irreversibilità temporale,
à la Prigogine, Bergson e Foucault (si faccia riferimento alla metafora del tempo come
una freccia), la complessità può essere inquadrata come una rivoluzione epistemica, in
grado di integrare il passato e di renderlo elemento costitutivo del fenomeno e del suo
livello di ordine.
6
LE DECLINAZIONI DELLA COMPLESSITÀ
complessità come ad una tensione verso l’apprendimento che concerne l’accesso ad
una nuova epistemologia in cui non si dà la possibilità teorica di una conoscenza
certa7.
In tale ambito emergono per gli studiosi ulteriori complicazioni connesse
all’introduzione delle variabili temporale e soggettiva all’interno dei modelli; le
suddette si pongono come spartiacque tra la visione emergente della complessità e la
visione della scienza classica. Di seguito, si riporta una tabella che mette a confonto
la visione classica e la visione complessa (emergente) della realtà nell’ambito del
processo conoscitivo.
Tab. 1: Alcuni descrittori delle realtà emergenti (complesse) e tradizionali
Emergenti
Causalità reciproca
Realtà soggettiva e complementare
Osservatore interno al fenomeno osservato
Indeterminazione
Organizzazioni adattive
Focus sulle relazioni
Metodi di ricerca dialogici
Relazioni non lineari
Prospettiva della fisica quantistica:
<l’influenza si manifesta attraverso
feedback non lineari; il mondo segue
leggi probabilistiche>
Focus sul pattern
Focus sulla variazione
Focus sul comportamento
Comportamento emergente via bottom up
Generalista
Modelli non semplicemente trasferibili
Tempo è irreversibile
Tradizionali
Causalità lineare
Realtà oggettiva
Osservatore esterno al fenomeno osservato
Determinismo
“Selezione naturale”
Focus sugli oggetti
Metodi di ricerca cartesiani
Relazioni lineari
Prospettiva della fisica newtoniana:
<l’influenza si manifesta come effetto
diretto di una causa; il mondo è
prevedibile>
Focus sullo spazio
Focus sulla media
Focus sui risultati
Comportamento dettato via top down
Specialista
Modelli semplicemente trasferibili
Tempo è reversibile
Fonte: ns adattamento da Dent E.B. 1999, p. 8
La differente posizione assunta dal tempo e dal soggetto all’interno dei modelli è
in grado di ripercuotersi sulle rappresentazioni di realtà e conoscibilità. Nelle
scienze sociali, in particolare, l’osservatore - il soggetto conoscente - non è più un
operatore astratto che gode di una posizione trascendente nei confronti del fenomeno
7
Ilya Prigogine così riassume questa situazione: «La descrizione dei sistemi ha un
carattere necessariamente statistico-probabilistico, la dinamica contemporanea descrive
un universo instabile, un sistema non integrabile in cui ciascun punto può andare in tutte
le direzioni; lo scienziato non può conoscere un punto ma solo una regione, e questa
regione contiene traiettorie che vanno in tutti i sensi; egli detiene un’informazione finita,
conosce solo una parte dell’universo, sia perché, appunto, si tratta di un universo
instabile, sia perché egli è implicato in questo stesso universo».
FRANCESCA FAGGIONI - CRISTINA SIMONE
7
(oggetto conosciuto). È il soggetto, in definitiva, a proporre proiezioni del reale, in
maniera tale che il processo di esplorazione scientifica, da approccio sintetico al
reale, diviene atto e processo di proliferazione di oggetti, di livelli di realtà
diversificati (sub sistemi), in ragione del fatto che ogni osservatore utilizza la sua
lente, il suo linguaggio, la sua razionalità limitata, la sua metodologia.
Come conseguenza la conoscenza svela una sua natura specifica in relazione al
carattere singolare dei soggetti cognitivi.
Gli approcci alla complessità costituiscono un corpus di pratiche conoscitive che
postulano la centrale importanza della irreversibilità temporale. Secondo questa
impostazione il tempo è un flusso, è un elemento costitutivo e qualificante del
fenomeno e quindi nel modello non può essere isolato come un parametro, così
come avviene nella fisica classica.
1.1 Complessità, approccio per sistemi e metodo scientifico
Le precedenti considerazioni propongono una nuova prospettiva epistemologica
di stampo costruttivista il cui focus, da un lato, è di rendere omogenei punti di vista
differenti, e dall’altro, di risolvere le modalità attraverso le quali detti punti di vista
possono prodursi l’uno dall’altro senza sintetizzarsi in un modello e restare
complementari8.
In questo ambito, appare interessante vedere come ciò possa produrre delle
ripercussioni sull’uso del metodo scientifico e come i nuovi approcci alla
complessità, in particolare quello per sistemi, possano proficuamente supportare
incrementi di conoscenza scientifica. Il metodo scientifico (metodo inventivo)
poggia tradizionalmente sugli opposti procedimenti di analisi e sintesi, dove per
analisi si intende una procedura di scomposizione del tutto in parti e per sintesi
l’opposta procedura, ovvero la combinazione di elementi o componenti in modo da
formare un sistema coerente. Una visione costruttivista implica l’individuazione di
un dialogo tra le due impostazioni e non una scelta opzionale o rigidamente
sequenziale tra le stesse9. La relazione tra analisi e sintesi nel metodo scientifico
classico e in quello successivo aveva indagato diffusamente sia l’ordine di
applicazione e la rilevanza dell’una sull’altra, sia le modalità di individuazione e
formulazione delle relative ipotesi iniziali.
8
9
Il termine “complementari” è inteso nel senso assegnatogli da Niels Bohr negli anni ‘30.
Lo studioso enunciò, nell’ambito della fisica quantistica, il principio di complementarità
per rappresentare la relazione tra concetti dicotomici. Lo studioso constatò l’esistenza
contestuale di un aspetto corpuscolare e di uno ondulatorio della particella atomica e li
considerò due aspetti complementari e corretti della stessa realtà (atomica). La
complementarietà comporta pertanto l’impossibilità di ridurre la realtà di un fenomeno ad
uno solo di questi due aspetti, anzi più si pone attenzione su un aspetto e più l’altro sfugge
ed appare indeterminato. Bohr N., “Das Quanten Postulat und die neuere Entwicklung der
Atomistik”, Die Naturwiessenschaften, 16(15), 1928.
Ritchey T., “Analysis and Synthesis on scientific method-based on a study by Bernhard
Riemann”, http://www.swemorph.com/pdf/anaerg-r.pdf, 1996.
8
LE DECLINAZIONI DELLA COMPLESSITÀ
Nelle scienze sociali la problematica è stata da alcuni risolta ponendo maggior
enfasi sulla circolarità (feedback) che si innescherebbe tra i due momenti
nell’applicazione del metodo scientifico, avvalorando così la moderna esigenza di
contemperare visioni della realtà complementari. Tale soluzione, se accolta, darebbe
il corretto bilanciamento a posizioni di estremo riduzionismo da un lato, ed estremo
olismo dall’altro, coerentemente con l’approccio per sistemi, che non è
semplicemente olistico. Il ruolo del pensiero sistemico diviene dunque quello di
fornire un background interpretativo, per la dialettica tra analisi e sintesi, fornendo
regole, analogie e metafore utili nell’avanzamento della conoscenza10.
In riferimento alla relazione tra analisi e sintesi Arthur introduce il concetto di
“dialettica sistematica” allorquando, attraverso un procedimento ciclico e
incrementale tra analisi e sintesi, si ottengono avanzamenti di conoscenza per stadi
(categorie), dove ogni stadio esprime in maniera sempre più efficace e meno
indeterminata le relazioni delle parti con il tutto11. Sotto un profilo metodologico, in
tale contesto diviene rilevante - oltre all’individuazione del modo in cui l’ipotesi
iniziale viene riconosciuta (surprising fact) e del modo attraverso il quale il
background interpretativo prescelto determina la strutturazione della prima sintesi
(l’adduzione iniziale) e della successiva analisi - determinare la natura del sistema
prescelto per interpretare il set di dati, ovvero il background interpretativo di
riferimento12. In un approccio per sistemi è infatti possibile fare riferimento a sistemi
chiusi o a sistemi aperti13.
Con ciò si intende che la scelta di un costrutto sistemico in luogo di un altro ha la
funzione di contestualizzare il processo conoscitivo, implica una differente struttura
logica delle relazioni di causa-effetto e guida il percorso di acquisizione di nuova
conoscenza del soggetto secondo determinate regole.
Appare, in definitiva, evidente la necessità di studiare le teorie carpendo le
proprietà dei diversi sistemi e si palesa ancor più chiaramente la rilevanza
dell’approccio per sistemi nell’economia della complessità. Per sistema si intende,
infatti, un costrutto cognitivo utilizzato dal soggetto (di qui la complessità
soggettiva) per acquisire significati del reale. Tuttavia, se il sistema è una lente di
osservazione del reale predisposta dal soggetto, esso si pone sia come mezzo sia
come risultato del processo conoscitivo del soggetto stesso. L’approccio per sistemi,
allora, oltre ad essere oggetto di una teoria apposita, è dunque il metodo - la cassetta
degli attrezzi - attraverso il quale tutti gli approcci alla complessità procedono nella
speculazione scientifica.
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12
13
Checkland P., System Thinking, System practice, Wiley, Chicester, 1981.
Arthur C.J., “Systematic dialectic”, Science and Society, 62(3), 1998, pp. 447-459, p. 451.
La scelta della metodologia di analisi, infatti, sembra potersi sufficientemente distinguere
dalla scelta del paradigma interpretativo la quale ha connotati ideologici; Usai G.,
“Metodo e contenuti dell’utilizzazione dell’approccio per sistemi”, Sinergie, n. 72, 2007,
pp. 141-160.
Si tratta della classificazione utilizzata da Von Bertalanffy; altre classificazioni sono state
proposte tra gli altri da Beer nel 1969, da Boulding nel 1956 e da Maturana e Varela nel
1980.
FRANCESCA FAGGIONI - CRISTINA SIMONE
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2. Le declinazioni della complessità
In considerazione della costellazione di costrutti di natura interdisciplinare nati
in seno alle scienze moderne, e legati in qualche modo alla complessità, sembra ad
oggi sancita da più parti l’impossibilità di pervenire ad una definizione univoca della
nozione di complessità, così come di caratteristiche unitarie qualificanti14.
La complessità è un concetto che viene declinato in ogni disciplina secondo
modalità e finalità conoscitive proprie. Nel presente paragrafo, ciò ha portato a
rintracciare le declinazioni della complessità alla luce di un approccio operativo. In
questa prospettiva si sono, pertanto, selezionate alcune tra le più utilizzate
declinazioni della complessità, nate con lo scopo di proporre metodi per la sua
misurazione quantitativa.
Prima di immergerci in questo viaggio, pur con le precauzioni appena
richiamate, appare opportuno chiarire cosa, in prima istanza, possa intendersi per
complessità.
Se ci si riferisce allo studio dei sistemi complessi, allora una definizione generale
è quella che fa riferimento all’imprevedibilità del comportamento del sistema: «La
complessità è la proprietà di un sistema modellizzabile suscettibile di mostrare dei
comportamenti che non siano tutti predeterminabili (necessari) anche se
potenzialmente anticipabili (possibili) da un osservatore intenzionale di questo
sistema»15.
La complessità di un sistema può essere in prima istanza attribuita: 1. alla
struttura del sistema, determinata dalla numerosità e variabilità delle sue componenti
e delle relazioni locali non lineari che tra le stesse vengono ad instaurarsi16; 2. al
comportamento del sistema nel tempo e rispetto all’ambiente di riferimento, che
insieme ne determinano la capacità di compiere transizioni fra diversi regimi o stati
del sistema; 3. alle proprietà emergenti del sistema nel tempo. La dinamica di un
sistema complesso, il suo comportamento, è inoltre il portato dell’interazione dei tre
punti precedenti.
14
15
16
Horgan J., “From complexity to perplexity”, Scientific American, 272(6), Giugno 1995. In
questa sede appare di qualche utilità segnalare uno dei primi scritti in cui è emerso il
concetto di complessità: Lotka A.J., Elements of Physical Biology, William & Wilkins,
Baltimore, 1925, si ricorda, inoltre, uno dei primi volumi interamente dedicato al
concetto: Waddington C.H., Tool for Thought: how to understand and apply the latest
scientific techniques of problem solving, Basic Book, New York, 1977.
Le Moigne J.L., “Progettazione della complessità”, in Bocchi G., Ceruti M., Complessità,
p. 92. Una definizione analoga nei contenuti è fornita da Casti J.L., Complexification,
Abacus Book, London, 1994, che fa riferimento al concetto di sorpresa, ovvero alla
capacità di un sistema di comportarsi in modo non previsto da un determinato osservatore.
Un sistema lineare è un sistema nel quale causa ed effetto sono legati in modo
proporzionale. Si potrebbe supporre che un comportamento complesso richieda un
sistema complesso, con molti gradi di libertà, ma non è così. I sistemi non lineari anche se
strutturalmente semplici (pochi elementi con poche interazioni) possono mostrare una
notevolmente ricca e sottile diversità di comportamento.
10
LE DECLINAZIONI DELLA COMPLESSITÀ
2.1 I principali approcci alla misurazione della complessità
In letteratura sono state individuate numerose definizioni di complessità. Per
primo Seth Lloyd, un fisico del MIT, già nel 1967, fornisce un elenco di 31
definizioni di complessità, successivamente implementato a 45, mentre Edmonds
nella sua tesi di dottorato sulle misure sintattiche della complessità ne elenca in
appendice oltre 4017. Ognuna di queste definizioni presenta degli svantaggi o delle
incongruenze, come sottolineato dagli stessi autori e dai numerosi scettici
dell’approccio unificato alla complessità18. In questa sede per ovvii motivi di spazio,
sono di seguito state selezionate solo alcune delle principali e più citate definizioni
di complessità.
- La complessità computazionale (Logical depth) introdotta in informatica è
definita come il tempo minimo impiegato da un computer per risolvere un
problema. Si tratta di una definizione strettamente collegata al suo campo di
azione e si tratta di un misura evidentemente dipendente dal contesto, ossia di un
contesto implicito nella definizione, in relazione a variabili quali la potenza del
calcolatore utilizzato o le caratteristiche del software di calcolo installato. A
differenza di questa impostazione computazionale, nelle successive definizioni di
complessità gli studiosi tentano di procedere ad una esplicitazione formale del
contesto, attraverso l’indicazione, all’interno della definizione, di “condizioni” di
neutralità della misurazione, come nel caso della complessità di grana.
- La complessità di grana di un sistema è la lunghezza del messaggio più breve in
grado di descrivere, a distanza e ad un dato livello di risoluzione (granulosità),
un sistema, a condizione che le due parti sappiano parlare lo stesso linguaggio e
abbiano un livello paragonabile di conoscenza e di comprensione19. Questa
definizione formalizza il contesto precisando le condizioni che ne influenzano la
misurazione, tra le quali figura non solo il livello di conoscenza espresso dalle
parti coinvolte nel messaggio - più la conoscenza tra queste è differente è più
lunga sarà la descrizione necessaria di uno stesso messaggio - ma anche il livello
di “granulosità” prescelto. L’incremento di granulosità, come in fotografia, è
paragonabile ad un incremento della risoluzione, che nel sistema determina
anche l’incremento del livello di complessità o di lunghezza del messaggio.
Evidentemente anche questa formula non risulta generalmente applicabile, dato
che il livello di complessità (la lunghezza del messaggio) è decisamente inficiato
dalla prospettiva di osservazione prescelta e dal differente livello di conoscenza
espresso tra le due parti del messaggio.
17
18
19
Edmonds B. Syntactic measures of complexity, tesi di dottorato in filosofia, Università
degli Studi di Manchester, Appendice 1, 1999, pp. 136-163.
Horgan J., op. cit.
Gell-Mann M., “The quark and the jaguar. Adventure in the simple and the complex”,
Freeman W.H. and Company, New York, 1994, (trad. it. a cura di Sosio L., Il quark e il
giaguaro. Avventure nel semplice e nel complesso, Bollati Boringhieri, Torino, 1996, p.
54).
FRANCESCA FAGGIONI - CRISTINA SIMONE
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21
11
La nozione di complessità informatica o algoritmica: l’Algorithmic Information
Complexity (AIC), associata al lavoro di Kolgomorov nel 1965 e Chaitin nel
1974, ha origine nella teoria della computazione e misura la complessità in
termini del più semplice algoritmo che descrive un particolare compito o
fenomeno, dato che in assenza di regolarità comprimibili, il più semplice
algoritmo coincide con la descrizione del fenomeno stesso20. In questo caso, non
si fa riferimento direttamente alla lunghezza del messaggio, ma alla lunghezza
del programma informatico capace di far stampare una stringa di bit (cifre
binarie 0;1) da un computer. Rispetto alla complessità di grana, la complessità
algoritmica introduce nuove fonti di arbitrarietà, connesse non solo al software o
all’hardware, ma anche al programma di codificazione utilizzato. D’altro canto
la capacità di compressione di un messaggio espresso in bit è potenzialmente
maggiore di una descrizione verbale. Il livello di compressione tuttavia non è
assoluto, ma dipende dalla capacità dell’individuo di trovare un teorema in grado
di consentire una ulteriore compressione. Questa forma di complessità in
conclusione non cattura le regolarità quanto la mancanza di regolarità di un
sistema.
Nell’ambito della teoria dei sistemi complessi adattativi (CAS), Gell-Mann nel
1995 suggerisce una misura di complessità che definisce “effettiva” e che, con
riferimento ad un sistema adattativo che lo osserva e ne costruisce uno schema, è
la lunghezza di questo schema, ossia la lunghezza della più breve descrizione
della sua regolarità. In questo caso, la definizione compiuta dall’osservatore non
cattura la complessità del sistema, quanto appunto le sue regolarità. Ne scaturisce
che la complessità effettiva di un sistema è massima quando la complessità
algoritmica non è né troppo grande né troppo piccola21.
Vicina alla definizione di complessità effettiva è anche la complessità proposta
da Casti nel 1986, secondo il quale la complessità è una proprietà latente di un
sistema e che si manifesta nel momento dell’interazione tra il sistema osservante
(S) e il sistema osservato (O). Questa tipologia rileva la natura relazionale della
misura; a differenza dell’altra, tuttavia, essa ammette che l’interazione tra i due
sistemi sia bidirezionale e non unidirezionale, ovvero ammette che l’oggetto
osservato eserciti una qualche forma di influenza sul sistema osservante. Nel
momento dell’interazione emergono, infatti, due forme di complessità, la Design
complexity, riferita ad S, e la Control complexity, riferita ad O, a sottolineare un
ruolo non passivo dell’oggetto (sistema) osservato sul sistema osservante. Si noti
che ad ogni sistema è assegnato un determinato livello di complessità, a sua volta
frutto della caratteristiche delle sue componenti. Secondo Casti, la situazione di
interazione migliore tra i due sistemi si verifica quando entrambi presentano un
livello simile di complessità. Ciò comporta che la tensione verso un maggiore
Kolgomorov A., “Three approaches to quantitative definition of information”, Problems
in information Transmission, 1 (3), 1965; Chaitin G., Information-theoretic computational
complexity, IEEE Trans. Inform. Theory, 20(10), 1974.
Gell-Mann M., “What is complexity?”, http://www.santafe.edu/∼mgm/complexity.pdf,
1995.
12
LE DECLINAZIONI DELLA COMPLESSITÀ
livello di complessità da parte di un sistema osservante possa ritenersi
auspicabile, in quanto fonte di ulteriore varietà nella comprensione della realtà
osservata. Altra conseguenza è che la possibilità di gestire la complessità, da
parte del sistema osservante, passi per la creazione di modelli fedeli di entrambi i
sistemi e non solo del sistema osservato. Identificazione e gestione della
complessità sono pertanto la risultante di un processo di interazione tra due
sistemi22. Casti propone di misurare la complessità tramite il numero di
descrizioni non equivalenti che S può fornire per O, dove per descrizione ci si
riferisce a qualche forma di interazione che S può avere con O. Una nuova classe
di descrizioni non equivalenti emerge ogni volta che il sistema attraversa una
biforcazione o si dota di un nuovo livello organizzativo nella sua gerarchia23.
- LMC complexity è stata proposta nel 1995 da Lòpez-Ruiz, Mancini e Calbet
come una misura statistica della complessità. Essa è il prodotto di due quantità:
l’entropia (come formulata da Shannon) e una quantità denominata
disequilibrio24. Quest’ultima è una funzione che riflette la divergenza di una
determinata distribuzione di probabilità da una distribuzione uniforme. Tale
prodotto diminuisce nei due estremi, ordine e disordine, e pertanto può essere
considerata una misura della complessità, posizionata in un regime intermedio
tra i due precedenti25.
- Un’altra definizione di complessità scaturisce dalla biologia e dagli studi
sull’intelligenza artificiale e si interessa della complessità relazionale intesa
come densità e variabilità dell’interazione che prende corpo tra agenti connessi26.
Tutte le definizioni di complessità sopra riportate possono essere considerate
rappresentazioni parziali di una stessa realtà, tuttavia sono utilizzabili in maniera
complementare. Infatti, se le prime quattro descrivono la complessità nell’aspetto
22
23
24
25
26
Bertuglia C.C., Staricco L., Complessità, auto-organizzazione, città, Franco Angeli,
Milano, 2002, p. 134.
Il significato di biforcazione sarà chiarito nel paragrafo seguente. In questa sede si osserva
che una biforcazione consente all’osservatore di cogliere nuove regolarità nel sistema
(incremento della complessità effettiva) e contestualmente di incrementare il numero e la
qualità delle descrizioni del sistema stesso (incremento della design complexity). In
riferimento alla struttura formale della quale l’Autore si dota per riconoscere le
descrizioni equivalenti si rimanda a Bertuglia C.C., Staricco L., op. cit., p. 135.
Lòpez-Ruiz R., Mancini H. L., Calbet X., “A Statistical Measure of Complexity”, Physics
Letters A, n. 209, 1995, pp. 321-326; si veda anche Lòpez-Ruiz R., “Shannon
Information, LMC complexity and Rènyi entropies: a straightforward approach”,
http://arxiv.org/PS_cache/nlin/pdf/0312/0312056.pdf , n. 22, dicembre 2003.
Un buon riepilogo della LMC complexity è presentato da Perakh M., “Defining
complexity. A commentary to a paper by Charles H. Bennets”,
http://arxiv.org/ftp/nlin/papers/0701/0701048.pdf, 2005. Il passaggio tra i regimi della
complessità è affrontato nel par. 3.3.
Holland J., Adaptation in Natural and Artificial Systems, The MIT Press, Cambridge,
MA, 1975; Kauffman S.A., The Origin of Order. Self-Organization and Selection in
Evolution, Oxford University Press, Oxford, 1993. Questa misurazione della complessità,
con le relative implicazioni e limiti, sarà approfondita nel par. 3.3.
FRANCESCA FAGGIONI - CRISTINA SIMONE
13
contenutistico dell’informazione che circola tra agenti di un sistema, la quinta e la
sesta ne colgono il lato rappresentato dalla struttura dell’interazione tra agenti in
quanto plasmata dai flussi informativi tra gli stessi. Contenuto dell’informazione e
struttura dell’interazione possono parzialmente descrivere la complessità che
caratterizza molti sistemi, come il sistema impresa. Per chiarire, si supponga che in
un sistema impresa la complessità sia in prima istanza espressione del numero di
individui, tecnologie, routine e relative interdipendenze che, a vario titolo, entrano
in gioco nel reperimento, potenziamento, sfruttamento di una certa risorsa o
competenza. In tale contesto, nuova fonte di complessità è connessa all’utilizzo e
alla produzione di risorse nell’ambito di sistemi tecnologici e umani altamente
complessi, in quanto essi avvengono in condizioni di elevata ambiguità causale per
l’osservatore esterno.
In situazioni di questo tipo, è possibile che ulteriori incrementi della complessità
possano manifestarsi, come nel caso in cui l’intero spettro informativo, relativo allo
sviluppo di una competenza o all’impiego di una risorsa, si trovi polverizzato da un
alto numero di individui e dipartimenti interdipendenti. Ebbene, in tali contesti, non
solo sussiste ambiguità causale (complessità) associata alla comprensione del
contenuto dell’informazione trasmessa o ricevuta da ogni singola parte del sistema
(complessità cognitiva), ma emerge un’ambiguità causale (complessità) dovuta
all’incomprensibilità dei legami di interdipendenza tra le diverse sub unità
(complessità relazionale)27.
La rappresentazione solo parziale che le singole definizioni riescono a cogliere
della complessità è dovuta, secondo alcuni autori, alla incapacità delle misure in
questione di sviscerare la natura intrinseca dei sistemi complessi, che è tipicamente
organizzativa, ovvero collegata alla varietà delle interazioni inter ed intrasistemiche
e alla imprevedibile influenza che esse generano sulla risultante dinamica
sistemica28.
Ulteriori impossibilità si segnalano in relazione all’inadeguato avanzamento
della conoscenza sui sistemi complessi che caratterizza ancora tutte le discipline
scientifiche moderne, con specifico riferimento alla simulazione e rappresentazione
di fenomeni particolarmente complessi, quali i sistemi economici, i sistemi culturali,
o gli ecosistemi.
Tale impossibilità non lascerebbe altra strada che occuparsi primariamente della
loro comprensione e solo successivamente della loro misurazione. Esiste un
vantaggio nell’occuparsi di questo secondo aspetto ed è dovuto al fatto che i sistemi
complessi, anche se diversi, presentano caratteristiche e proprietà affini per
tipologie, le quali se individuate fornirebbero chiavi per interpretarne il
comportamento, gestirlo, ripararlo29.
27
28
29
Mosakowski E., “Strategy making under casual ambiguity: Conceputal issues and
empirical evidence”, Organization Science, 8(4), p. 422.
Vesterby V.,”Measuring Complexity: things that go wrong and how to get it right”, E:Co
Issue, 10(2), 2008, pp. 90-102.
Vesterby V., op. cit.
14
LE DECLINAZIONI DELLA COMPLESSITÀ
3. Gli approcci interdisciplinari alla complessità nella prospettiva
storica
Attingendo ai fermenti intellettuali maturati dall’inizio degli anni ’40, in campi
come la Cibernetica, l’ecologia, l’intelligenza artificiale e la teoria del caos, si rileva
una insofferenza verso i presupposti consolidati della scienza deterministica.
Il concetto di “sistema” - l’oggetto degli studi di fisici e chimici - viene
reinterpretato e termini quali auto-organizzazione, emergenza, strutture dissipative,
caos30, frattali31, catastrofi e crisi entrano nel lessico della comunità scientifica.
Nel presente paragrafo, si intraprende il viaggio nella complessità in una
prospettiva storica, trattando nello specifico alcuni fondanti approcci teorici votati
all’interdisciplinarietà, partendo dalla Cibernetica di primo ordine degli anni ‘40,
sino all’esperienza del Santa Fe Institute degli anni ‘80 tutt’oggi in evoluzione. Si
osservi che il contributo di Prigogine è stato inserito nella sezione, in quanto,
nonostante il premio Nobel non abbia elaborato un manifesto di scienza unificata, si
è comunque distinto quale fervido propugnatore di una nuova alleanza
interdisciplinare nelle scienze umane.
3.1 I primi approcci interdisciplinari alla complessità: le radici
I primi approcci alla complessità nascono con gli studi sulla Cibernetica di primo
ordine nel 1942, durante la seconda guerra mondiale. A questa epoca risale
l’organizzazione a New York di una delle dieci Conferenze promosse dalla Josiah
Macy Foundation, alla quale partecipano studiosi appartenenti a molte discipline,
impegnati ad approfondire i problemi relativi all’auto-regolazione nell’animale e
nella macchina. Il movimento cibernetico è sancito come movimento
interdisciplinare con la pubblicazione dell’opera fondamentale di Wiener, uno dei
suoi principali esponenti, pubblicata nel 1948, nell’immediato dopoguerra32. I
cibernetici si concentrano sullo studio dei meccanismi di controllo e comunicazione
presenti nei sistemi umani e meccanici. Il termine “Cibernetica” deriva, infatti, dalla
parola greca Kybernetes, che significa timoniere. Platone ne La Repubblica la usa
per descrivere l’elemento di prudenza insito nell’arte del “governare”. In inglese la
parola governor è utilizzata in due accezioni, la prima in riferimento alla persona
che assume decisioni di interesse pubblico e la seconda in riferimento al
meccanismo di una valvola auto-regolatrice di un motore a vapore, che mantiene il
motore a velocità costante sotto condizioni di carico variabile.
In sostanza, alla base di un comportamento di controllo del tipo esemplificato dal
governor del motore a vapore c’è un ciclo di retroazione (feedback negativo),
attraverso il quale l’uscita di un sistema è collegata alla sua entrata in modo tale che
30
31
32
Proposta a inizio del secolo scorso da H. Poincarè, la teoria fu poi resa celebre nel 1987
dal best-seller Chaos di Gleich J., Cardinal Sphere Books Ltd, 1987.
Mandelbrot B., The fractal geometry of nature, Freeman, New York, 1993.
Wiener N., Cybernetics, or control and communication in the animal and the machine,
Cambridge, MIT Press, 1948.
FRANCESCA FAGGIONI - CRISTINA SIMONE
15
le variazioni all’uscita rispetto ad una norma stabilita o programmata hanno per
conseguenza un comportamento compensativo stabilizzante che tende a ricondurre
l’uscita del sistema a tale norma. Lo stesso meccanismo funziona in diversi tipi di
sistemi, anche in quelli biologici (meccanismo omoeostatico) e sarebbe alla base di
fenomeni come l’omotermia. Nelle scienze sociali l’individuazione di questi
meccanismi ha portato a teorizzare il comportamento finalistico di un sistema limitando il ruolo dell’interazione lineare causa-effetto - secondo il quale la stabilità,
che è la sua finalità, è regolata da un meccanismo di feedback negativo33. Nella
Cibernetica ed in particolare in quella di secondo ordine, che per motivi di spazio
tratteremo contestualmente a quella di primo ordine, sebbene sia successiva,
vengono approfonditi anche i circuiti a feedback positivo. Con essi si intendono
sistemi che amplificano le oscillazioni, inducendo nella macchina o nel sistema
comportamenti divergenti o destabilizzanti34. La differenza tra la Cibernetica di
primo ordine e quella di secondo ordine sta nel maggiore approfondimento, da parte
della seconda dei sistemi biologici in luogo di quelli ingegneristici. I sistemi
biologici, infatti, sono più spesso interessati da processi di auto-organizzazione e di
morfogenesi (e quindi da feedback positivi). Von Foerester, uno degli autori più
rappresentativi del movimento, apporta un rilevante contributo spostando
l’attenzione dai sistemi osservati ai sistemi osservanti; si tratta di una concezione
che problematizza il ruolo dell’osservatore e della sua immagine del mondo, il quale
esiste in funzione dell’osservatore stesso35. Un’altra concettualizzazione nata in seno
alla Cibernetica di primo ordine è stata la fondamentale distinzione tra sistemi aperti
33
34
35
Ciò comporta che una adeguata conoscenza del sistema implichi sia un’analisi strutturalefunzionale, sia un’analisi di comportamento. Quando il sistema è composto da una elevata
quantità di componenti i comportamenti vengono analizzati probabilmente, per cui sono
necessarie le tecniche statistiche. L’analisi del comportamento, oltre che dalla rapidità di
risposta e dalla stabilità di un sistema, è studiata anche attraverso l’analisi di “sensività”:
essa esprime il grado di scostamento dell’output di un sistema, rispetto ad una norma
programmata che richieda una risposta adattiva. Si tratta di una proprietà rilevante nei
sistemi, dato che ad un alto grado di sensitività sono associabili più ampie oscillazioni del
sistema lontano dall’equilibrio, a dispetto di piccole perturbazioni in entrata. In proposito,
si veda Dechert C.R., “Lo sviluppo della cibernetica”, Cibernetica e Società, Dechert C.R.
(a cura di), Etas Compass, Milano, 1968, p. 20.
Un esempio di feedback positivo si ha nella schismogenesi, ovvero il processo di
divisione ad escalation che da un singolo sistema ne produce due, teorizzato da Bateson
G., Steps to an ecology of the mind, Chandler, 1972, (Ed It.), Verso un’ecologia della
mente, Milano, Adelphi, 1995.
Foerester Von H., “Notes on an epistemology for living things”, BCL Report, n. 93,
Biological Computer Laboratory, Department of Electrical Engeneering, University of
Illinois, Urbana, 1972. Sull’argomento della conoscibilità un’altra opera che ha
notevolmente influenzato il movimento e buona parte della scienze successive è stata
l’opera di Ashby R.W., An introduction to Cybernetics, London, Chapman & Hall Ltd.,
1956, (trad. it. a cura di Nasti M., Introduzione alla Cibernetica, Einaudi, Torino, 1971),
nel quale l’Autore formula la legge della varietà necessaria, secondo cui il livello di
conoscenza del mondo esterno raggiungibile da un soggetto è strutturalmente legato al
grado di varietà (conoscenza) posseduta internamente dallo stesso.
16
LE DECLINAZIONI DELLA COMPLESSITÀ
e sistemi chiusi. Un sistema si definisce aperto se sviluppa processi che ammettono
input e/o output con l’ambiente. La dinamica che definisce il comportamento di un
sistema aperto può essere rappresentata come la sequenza degli input, degli output e
dei processi che si sviluppano in un periodo T36. Un sistema viene invece definito
chiuso se, pur presentando una dinamica di stato nella struttura, non ammette
interazioni con l’esterno. L’osservazione dell’apertura e della chiusura dei sistemi ha
portato ad approfondire il concetto di entropia, ovvero lo stato più probabile di
massimo disordine37.
Il contributo della Cibernetica allo studio dei sistemi complessi appare evidente;
molti dei concetti maturati in suo seno si sono fusi nel maturando corpus teorico
della complessità. D’altro canto la teoria dell’organizzazione, la scienza politica,
l’antropologia culturale e la psicologia sociale hanno per molti anni analizzato i
gruppi sociali come reti di comunicazione complesse caratterizzate da una
molteplicità di anelli di retroazione. Con la Cibernetica si adotta, inoltre, l’approccio
struttural-funzionalista, mediato da quello comportamentale. In sostanza, il metodo
prevede che l’osservatore pervenga in primis ad una modellizzazione strutturale e
funzionale dell’organizzazione oggetto dell’analisi, per poi procedere allo studio dei
possibili stati che l’organizzazione stessa può assumere in risposta ai vari stimoli in
entrata del sistema (i sistemi sociali sono tipicamente aperti).
Parallelamente alla riflessione di Wiener alla fine degli anni ’40, Von
Bertalanffy, professore in biologia all’Università di Vienna, matura la
consapevolezza dell’esistenza di modelli, di principi e di leggi applicabili a sistemi
generalizzati o a loro sottoclassi, indipendentemente dal loro genere particolare e
postula una nuova disciplina: La teoria generale dei sistemi38. L’Autore, in
precedenza, aveva partecipato al circolo di Vienna e in seguito, più proficuamente,
anche alle riunioni del Club di biologia teoretica organizzati all’Università di
Cambridge, in Inghilterra, da Waddington, su invito di Woodger. Le riunioni del
Club, che hanno luogo negli anni anche in Italia sul Lago di Como (1966-70),
vedono la partecipazione di ingegneri, biologi, matematici e studiosi di altri settori.
Nel 1954 Von Bertalanffy fonda la Society for General System Research (SGSR) il
cui scopo è di incoraggiare lo sviluppo dei sistemi teoretici, applicabili a più di un
settore tradizionale della scienza. Una conseguenza dell’esistenza di proprietà
generali dei sistemi consiste secondo l’Autore nella comparsa di similarità
36
37
38
Il sistema aperto può essere a scatola nera o bianca, a seconda che la produzione dei
processi interno-esterno e interno-interno avvenga secondo meccanismi di elevata
ambiguità causale da parte dell’osservatore o meno. Wiener N., La cibernetica,
Mondatori, Milano, 1968, p. 20.
Per un approfondimento si veda la definizione matematica di ridondanza elaborata da
Shannon nella teoria dell’informazione; Shannon C., Weaver W., The mathematical
theory of communication, Urbana, University of Illinois Press, 1949.
Le brevi osservazioni su questo approccio alla complessità sono elaborate da Von
Bertalanffy V.L., Teoria generale dei sistemi, fondamenti, sviluppo, applicazioni, I.L.I.,
Milano, 1971 e da Abraham R.H., “The genesis of complexity”,
http://www.ralph-abraham.org/articles/MS%23108.Complex/complex.pdf, luglio 2002.
FRANCESCA FAGGIONI - CRISTINA SIMONE
17
strutturali, o di isomorfismi, in campi differenti. L’isomorfismo pertanto è ben più di
una mera analogia39. Ma come sono definiti i sistemi? E di quali sistemi si tratta?
Essi sono definiti come un complesso di elementi interagenti, il che presuppone
l’esistenza di n elementi, di n differenti relazioni tra gli elementi e di un osservatore
in grado di valutare le relazioni tra gli elementi. I sistemi sui quali si concentra
l’Autore, essendo biologo, sono quelli aperti. Non sono molti anni che in biologia è
maturata la conoscenza dei sistemi aperti; in questi ultimi, a differenza di quelli
chiusi, un medesimo stato finale può essere raggiunto in diversi modi e a partire da
diverse condizioni iniziali (principio di equifinalità). Nei sistemi aperti viventi non
si verifica unicamente una produzione di entropia dovuta a processi irreversibili, ma
anche una diminuzione di entropia, e la conseguente possibilità che quest’ultima
raggiunga valori negativi. Così i sistemi viventi, mantenendo se stessi in uno stato
stazionario, possono evitare aumenti di entropia e possono persino svilupparsi verso
stati di ordine e organizzazione crescenti.
La relazione tra ordine e auto-organizzazione, è già stata trattata dalla
Cibernetica, attraverso il concetto di order from noise di Foerster, e viene
approfondita non solo da Von Bertalanffy, ma anche da altri studiosi, come
Lovelock, Maturana e Varela e da Ilya Prigogine. Per tutti l’auto-organizzazione è la
comparsa spontanea di nuove strutture e nuove forme di comportamento in sistemi
aperti lontani dall’equilibrio, caratterizzati da anelli di retroazione interni e descritti
matematicamente da equazioni non lineari40. Sulla scia di questo concetto nel 1967,
in un discorso tenuto in occasione di un Nobel Symposium a Stoccolma, Prigogine,
chimico russo, fornisce la prima definizione più strutturata di sistemi autoorganizzantisi presentando la sua teoria delle strutture dissipative41. Il termine sta a
sottolineare la stretta e paradossale associazione tra esistenza di struttura e ordine da
un lato, e perdita e sprechi dall’altro, fenomeno che avviene grazie alla presenza di
meccanismi di retroazioni da amplificazione (feedback positivi). Prigogine rileva
che, se in passato (in Cibernetica) tali feedback erano associati a situazioni
distruttive del sistema, nelle strutture dissipative essi divengono fonti di nuovo
ordine e complessità. Una struttura dissipativa può essere una celle di Bérnard, un
mulinello d’acqua, un orologio chimico, o un tornado. Per chiarire, una struttura
dissipativa, come ad esempio il mulinello d’acqua, si forma per il cambiamento di
un parametro esterno, ad esempio l’apertura dello scarico, cosicché l’acqua
precedentemente quieta è attraversata da un flusso di energia dovuto alla forza di
gravità e alla pressione, che ne aumentano la velocità. Successivamente, entrano in
campo, a bilanciare le precedenti, oltre alle forze centrifughe, anche le forze
centripete. Tale meccanismo conduce la struttura verso una nuova forma di stabilità
è lontano dall’equilibrio, che forma appunto il mulinello d’acqua a forma d’imbuto.
In detta struttura la gravità alimenta il flusso di energia su grande scala e l’attrito ne
39
40
41
Tra gli isomorfismi, ovvero tra i processi che possono essere descritti da equazioni simili,
l’Autore annovera: competizione, centralizzazione, accrescimento, finalità.
Capra F., op. cit., p. 100.
Le fonti di questa sezione sono tratte da Prigogine e Stengers, op. cit., e da Capra F., op.
cit.
18
LE DECLINAZIONI DELLA COMPLESSITÀ
dissipa una parte su ordini di grandezza inferiori. Le forze in gioco sono connesse da
anelli di retroazione auto-bilancianti e auto-rafforzanti che conferiscono elevata
stabilità alla struttura del vortice. Se le forze che agiscono sull’acqua sono
meccaniche e quelle sulle cellule sono di natura chimica, viene da chiedersi di che
natura siano le forze che agiscono sui sistemi sociali e, a monte, se le strutture
dissipative esplicitino un modello adatto per l’interpretazione dei sistemi sociali.
Nell’ipotesi, tali forze potrebbero essere costituite da fenomeni, o accadimenti,
frutto di precedenti interazioni tra elementi appartenenti ad altri sistemi, a loro volta
interagenti con il sistema sociale osservato. Nel sistema finanziario per esempio,
qualsiasi evento, le regolamentazioni, i comportamenti opportunistici dei singoli, il
fallimento di una singola banca, può costituire il “grilletto” per il manifestarsi di una
nuova transizione verso un’altra struttura42.
Il problema è, tuttavia, quello di individuare il peso relativo dei singoli eventi in
un determinato momento, dato che il sistema può avere una sensitività differente sia
rispetto ad una stessa sollecitazione, sia in relazione a differenti combinazioni di
eventi sollecitanti43. Probabilmente le strutture dissipative di Prigogine non possono
rispondere a tutte queste domande, sono in grado tuttavia, proficuamente di
illuminarci sul comportamento del sistema nel tempo, allorquando esso in ragione
dei meccanismi sopra citati raggiunge un limite di stabilità, chiamato punto di
biforcazione, ovvero un cambiamento radicale e inaspettato della traiettoria del
sistema nello spazio tra le fasi. La biforcazione descrive un percorso evolutivo
divergente di un sistema in forma grafica44. La linea singola della forchetta
rappresenta un primo tratto lineare del percorso che poi si ramifica, o si biforca, in
corrispondenza di un certo valore critico di un qualche parametro. In questo punto, il
sistema perde il suo precedente adattamento e deve scegliere fra le due strade. A
seconda dei casi, questo può essere il momento in cui il sistema salta verso un nuovo
stato di accresciuta organizzazione, sviluppando una struttura nuova e più elaborata.
Il concetto di biforcazione apre le porte all’analisi della dimensione storica del
sistema. A causa delle biforcazioni, i sistemi complessi hanno un comportamento
imprevedibile e irreversibile. Imprevedibile perché in un punto di biforcazione non
si può prevedere quale ramo verrà seguito dal sistema, si possono conoscere i
possibili stati che potrà assumere, ma non si può prevedere con certezza quale di
questi verrà effettivamente assunto in un arco temporale ben definito. Irreversibile
perché la scelta di un ramo piuttosto che di un altro è un evento che si sarebbe
potuto non produrre, ma che essendosi prodotto determina l’evoluzione successiva
del sistema rendendola irreversibile e facendo emergere nuove interazioni ordinate e
coerenti tra gli agenti del sistema45.
42
43
44
45
Per un’applicazione del concetto di biforcazione, collegato agli eventi economicamente
rilevanti in un sistema, si veda in questo volume Quattrociocchi B., Proietti L.
Per la lettura di questa problematica nel par. 3.3 presentiamo la mappa delle classi di
comportamento di un sistema complesso, in relazione al ruolo del parametro Pc.
Da un punto di vista matematico, il fenomeno può essere descritto per mezzo delle
cosiddette equazioni differenziali alle derivate parziali.
Prigogine I., Stengers I., Entre le temps et l’éternité, Fayard, Paris, 1988.
FRANCESCA FAGGIONI - CRISTINA SIMONE
19
Tutto questo prende il nome di path dependancy, ossia l’impossibilità di
abbandonare un certo percorso una volta intrapreso: lo stato di un sistema ad un
certo punto tk porta con sé la memoria, il vissuto, il path peculiare sin lì percorso,
ma, a sua volta, lo stato in tk condiziona le traiettorie evolutive future. La fig. 1
descrive la dimensione storica di un sistema complesso tramite un diagramma di
biforcazioni successive: in tk il sistema non può saltare da S ad S’ e viceversa
(irreversibilità) e, se si trova in S, non può sapere con certezza se in tk+n si troverà in
Z o in Z’, può solo formulare previsioni e congetture sulla base dei suoi modelli di
rappresentazione della realtà.
Irreversibilità e imprevedibilità caratterizzano, pertanto, il modello
comportamentale dei sistemi, tanto che, da Prigogine in poi, non è raro trovare
allusioni alla complessità quale scienza del comportamento emergente dei sistemi
complessi in condizioni di non equilibrio.
Fig. 1: Il vissuto di un sistema complesso espresso tramite un diagramma
di biforcazioni successive
Fonte: ns elaborazione
3.2 La nascita della scienza della complessità: il Santa Fe Institute
I ricercatori che si riuniscono al Santa Fe formano un gruppo eterogeneo biologi, fisici, economisti, informatici, chimici e matematici - di cui fanno parte
neolaureati e premi Nobel come i fisici Murray Gell-Mann (lo scopritore dei
“quark”), Philip Anderson, o l’economista Kenneth Arrow (co-fondatori
dell’Istituto)46. Questi studiosi sono interessati a costruire un paradigma coerente,
46
Per approfondimenti circa la storia e l’esperienza del Santa Fe Insitute, Waldrop M.M.,
Complessità. Uomini e idee al confine tra ordine e caos, Instar Libri, Torino, 1987.
LE DECLINAZIONI DELLA COMPLESSITÀ
20
una comune cornice teorica, sulla complessità fondata sul superamento degli steccati
tra discipline, in grado di contribuire a spiegare le dinamiche auto-organizzantisi del
mondo naturale e sociale. Per tale motivo, gli scienziati del Santa Fe lavorano per
superare gli scogli del linguaggio specialistico, si confrontano per rintracciare
analogie nei fenomeni oggetto delle loro indagini, per mettere a punto metodologie
di ricerca comuni e dibattono in vivaci seminari e convegni su argomenti ai confini
tra le diverse discipline, alla ricerca di un terreno comune. Proprio al Santa Fe questi
sforzi e questi entusiasmi sfociano nella nascita di una nuova scienza unificata: la
scienza della complessità.
Tante le discipline coinvolte; copiose le ricerche del Santa Fe: tutte, però,
ruotano attorno a concetti quali: emergenza, non linearità, auto-organizzazione,
adattamento, coevoluzione, esperienza, apprendimento, equilibri multipli, margine
del caos (fig. 2).
Fig. 2: La nascita della scienza della complessità:
i temi di ricerca del Santa Fe Institute
matematica
fisica
esperienza
computer
science
coevoluzione
equilibri
multipli
Scienza della
adattamento
emergenza
margine del caos complessità
economia
apprendimento
autoorganizzazione
biologia
chimica
Fonte: adattato da Delic K.A. e Dum R., 2005, p. 1.
Volendo rintracciare una comune unità di analisi questa potrebbe essere
ravvisata nel sistema complesso, espressione con cui essi denotano qualsiasi
fenomeno che emerge dall’interazione degli elementi di cui si compone. Si può
trattare di ioni in un vetro di spin, di cellule in un sistema immunitario, di automobili
nel traffico o di imprese concorrenti in un certo mercato, di partiti politici che si
sfidano in una campagna elettorale: in ogni caso, un sistema complesso emerge
dall’interazione dei suoi elementi. L’emergenza spiega perché il tema dell’autoorganizzazione è centrale per il programma di ricerca del Santa Fe: la complessità
nasce perché numerosi elementi interagiscono in contemporanea e si autoorganizzano a livello locale (cioè dal basso); la complessità si trova dunque
nell’organizzazione degli elementi del sistema, o meglio nella loro autoorganizzazione; è il sistema che seleziona, che opta per una delle innumerevoli
combinazioni in cui i suoi componenti possono interagire: è il sistema che sceglie
FRANCESCA FAGGIONI - CRISTINA SIMONE
21
uno dei possibili modelli di interazione ordinata e coerente, senza che vi sia
l’intervento di alcun agente esterno nella selezione. Con il processo di autoorganizzazione, emergono delle proprietà collettive, o meglio sistemiche, ossia
proprietà attribuibili al sistema nel suo complesso, ma non possedute da nessun
membro, da nessun elemento individualmente considerato: si tratta di proprietà
globali, ossia di qualità inesistenti e non deducibili logicamente prima della
formazione del sistema, e constatabili empiricamente solo dopo la sua formazione47:
ad esempio, la proprietà della liquidità, che emerge dall’interazione delle singole
molecole d’acqua, ma che non è posseduta da nessuna singola molecola.
Fenomeni emergenti sono considerati la mente associata al sistema nervoso, la
vita associata a qualsiasi sistema biologico, il così detto “equilibrio ambientale”
associato agli ecosistemi, e fenomeni quali l’organizzazione sociale, la cultura,
l’economia associati ai sistemi sociali. Ad ogni livello, nuove strutture emergenti si
creano e si impegnano in nuovi comportamenti emergenti e una delle principali sfide
dei ricercatori del Santa Fe consiste nel trovare le leggi fondamentali
dell’emergenza48.
È un approccio alla scienza e al “fare scienza” di tipo bottom up, che si focalizza
su come l’interazione tra agenti forma strutture e modelli di comportamento ordinati
e coerenti. La complessità, in altri termini, appare come una scienza dell’emergente,
una scienza che si occupa di fenomeni - naturali o sociali - emergenti, ossia:
- associati al funzionamento di un sistema complesso che evolve nel tempo;
- generati dal basso all’alto, cioè dovuta esclusivamente alle interazioni locali tra
le componenti del sistema;
47
48
Morin E., “Le vie della complessità”, in Bocchi G., Ceruti M. (a cura di), La sfida della
complessità, Bruno Mondadori, Milano, 1985, p. 51.
Nella saggistica spesso il significato di emergenza è avvolto da fitta ambiguità,
probabilmente dovuta alla travagliata storia del concetto stesso. I primi ad usare il termine
emergenza in chiave filosofica e ad applicarlo a fenomeni come la vita o la mente, sono
stati i filosofi inglesi negli anni ’20 del secolo scorso (c.d. British Emergentism o “primo
emergentismo”). Le tesi fondamentali del British Emergentism possono essere riassunte
nelle seguenti: ogni sostanza soprannaturale va esclusa dall’ontologia; i fenomeni che
emergono nel corso dell’evoluzione naturale sono nuovi e imprevedibili; i fenomeni
emergenti sono indeducibili, in linea di principio, a partire dalla conoscenza delle
componenti dei sistemi naturali da cui emergono; il tutto è superiore alla somma delle
parti nel senso che è impossibile ridurre le proprietà emergenti di un sistema a quelle dei
suoi costituenti; i fenomeni emergenti agiscono causalmente sui sistemi a cui sono
associati. Il primo emergentismo si conclude nel 1926, dopodiché il concetto di
emergenza cadrà quasi nel completo oblio per circa cinquant’anni. A partire dalla fine
degli anni ’70, un gruppo eterogeneo di scienziati e filosofi recupera il concetto di
emergenza per lo studio di fenomeni quali la mente, la vita e fenomeni sociali (c.d.
“nuovo emergentismo”) e a partire dai primi anni ’80 il concetto conosce ampia
diffusione nelle opere di Bunge, Morin, Popper, Sperry e Margolis. Tuttavia, i campi in
cui il concetto di emergenza viene sistematicamente posto alla base della riflessione
filosofico-scientifica sono la scienza cognitiva e la scienza della complessità. Tinti T.,
Storia
del
concetto
di
emergenza
e
teoria
della
complessità,
http://complexlab.com/Members/ttinti/articoli, 10 giugno 2009.
LE DECLINAZIONI DELLA COMPLESSITÀ
22
-
imprevedibili, il cui andamento è esprimibile cioè per mezzo di equazioni non
lineari;
- irriducibili, cioè indipendenti dall’esistenza e dalle proprietà delle singole
componenti del sistema.
Auto-organizzazione, emergenza, comportamento collettivo. Ma come
reagiscono e si adattano al loro ambiente i fenomeni emergenti? A quale parte
dell’ambiente si adattano? Come agisce l’ambiente sul sistema? Quali strutture
sottendono l’adattamento? Quali sono i meccanismi dell’adattamento? Quale parte
di esperienza dell’interazione con l’ambiente “trattiene” il sistema complesso? Quali
sono i limiti, gli ostacoli, che il sistema incontra nell’adattarsi all’ambiente? Come
possono essere confrontati i diversi processi di adattamento e le relative ipotesi circa
la loro dinamica?49
È John Holland - uno dei primi PhD al mondo in computer science - ad
“iniettare” nel programma del Santa Fe lo studio dell’adattamento dei sistemi
complessi. Per Holland, i sistemi complessi auto-organizzantisi non solo denotano
per lo più un comportamento non lineare, ma sono adattativi, nel senso che non si
limitano a reagire passivamente agli eventi, ma si adoperano proattivamente per
volgere a proprio vantaggio qualsiasi circostanza. I sistemi complessi adattativi
(complex adaptive systems, CAS, ad esempio, cervelli, sistemi immunitari, ecologie,
cellule, embrioni in sviluppo, organizzazioni culturali, economiche e sociali)
sembrano essere accomunati da alcune proprietà fondamentali sintetizzate in Tab. 2.
Tab. 2: Le principali proprietà di un sistema complesso adattativo
Il sistema complesso adattativo:
- È un sistema aperto
- È costituito da una rete di agenti che operano in parallelo
- Ogni agente coevolve, ossia tenta di adattarsi costantemente a tutti gli altri
- Si auto-organizza spontaneamente
- Presenta feedback positivi e negativi
- È impegnato in un ciclo continuo di apprendimento, riesame e riclassificazione delle
esperienze
- I suoi agenti hanno capacità di formulare ipotesi circa il futuro
- Si trova sempre lontano dall’equilibrio
- Il suo percorso evolutivo è path dependent
Fonte: ns. elaborazione
49
Con questa lista di domande Holland getta le basi per una teoria dell’adattamento
unificata; le risposte alle domande anche se poste con riferimento a sistemi naturali o
artificiali (non anche a quelli meccanici), implicano il ricorso ai medesimi frame
concettuali, quali, ad esempio, la non linearità. Holland J., Adaptation in Natural and
Artificial Systems, The MIT Press, Cambridge, MA, 1975, pp. 2-3.
FRANCESCA FAGGIONI - CRISTINA SIMONE
23
Ogni CAS è formato da una rete di molti agenti che operano in parallelo: ognuno
di essi si trova in un ambiente determinato dalle sue stesse interazioni con gli altri
agenti del sistema. Ogni agente agisce e reagisce continuamente in base alle azioni e
reazioni degli altri, in una parola coevolve, ossia tenta di adattarsi costantemente,
denotando una certa plasticità comportamentale. Per usare le parole di Brian Arthur,
uno degli economisti di punta del Santa Fe, un sistema siffatto è un sistema
autoreferenziale: gli elementi che lo compongono creano, producono, il “paesaggio”
a cui essi reagiscono50. Rispetto ad uno stesso input, però, gli agenti reagiscono in
momenti diversi e con risposte che, pur manifestandosi nello stesso momento, nella
loro varietà dispiegano effetti su orizzonti temporali di breve, medio e lungo
termine. Per tutti questi motivi, e a seconda di come si combinano tra loro i feedback
positivi e negativi relativi all’interazione degli agenti, l’ambiente del CAS non è
statico, fisso, immutabile, ma al contrario è incessantemente cangiante, mutevole,
dinamico, spesso imprevedibile.
In un ambiente siffatto, però, gli agenti del CAS non si adattano partendo ogni
volta da zero, cioè senza alcun condizionamento/risorsa esperenziale. Essi piuttosto
riconsiderano, sottoponendoli a sistematica validazione, i loro diversi modelli interni
di rappresentazione del mondo e della realtà esterni. In altre parole, accumulano
esperienza attraverso una sorta di retroazione positiva: continuano a riordinare e
rielaborare il loro passato, il loro vissuto, le mosse già fatte ed ogni volta che
conseguono un successo ed ottengono una risposta positiva dall’ambiente reiterano
il comportamento premiante (similmente al principio del rinforzo in psicologia);
ogni volta che incappano in un insuccesso, lo abbandonano (similmente al principio
della punizione in psicologia).
L’accumulazione di esperienza e la retroazione positiva sono strettamente
correlate all’apprendimento.
Holland assimila l’apprendimento ad un gioco. L’agente gioca nel suo ambiente
tentando di vincere, ossia ricerca incessantemente una delle possibili combinazioni
di cooperazione e competizione con gli altri agenti tale da procuragli una quantità
sufficiente di quel che gli occorre per sopravvivere e prosperare (beni materiali,
appagamento psicologico, brand loyalty, consenso politico, ecc.). In ogni caso, il
premio o l’assenza di premio fornisce agli agenti l’informazione necessaria a
migliorare le loro prestazioni. L’aspetto saliente però è che in questo percorso di
apprendimento, l’agente ha tante probabilità di trovare un punto di equilibrio
soddisfacente. Non ha senso allora parlare di un sistema complesso adattativo in
equilibrio, giacché essendo sempre in transizione non potrà mai trovarsi in quello
stato.
Per Holland, non ha nemmeno senso immaginare che gli agenti possano in
qualche modo “ottimizzare” il loro adattamento, la loro utilità, o qualsiasi altro
aspetto all’interno del sistema: la gamma delle possibilità è troppo ampia e gli agenti
non dispongono dei mezzi per conoscere o raggiungere la condizione migliore.
50
Delorme R., Hodgson G., “An Interview with W. Brian Arthur”, The development of
complexity, part I, EAEPE, Aix en Provence, 31 agosto 2005, p. 21.
24
LE DECLINAZIONI DELLA COMPLESSITÀ
Il processo di apprendimento, di accumulazione di esperienza dei singoli agenti,
ci proietta nella dimensione storica, evolutiva del CAS: in un qualsiasi momento, il
CAS è l’emergenza dell’esperienza, del vissuto, del path peculiare sin lì seguito dai
suoi agenti; è un’emergenza che dipende dal percorso di strade alternative divergenti
che via via l’interazione tra gli agenti ha irreversibilmente ed imprevedibilmente
segnato.
Irreversibilità ed imprevedibilità come dinamiche comportamentali di un
sistema: l’eredità di Prigogine fa sentire tutta la sua grandezza. Il premio Nobel
preferiva parlare infatti di comportamento complesso più che di sistema complesso,
volendo con ciò significare che la complessità è generata da un comportamento non
lineare e che emerge sempre in condizioni di non equilibrio…ai margini del caos.
3.3 Ordine, disordine e margine del caos
I sistemi complessi nel loro percorso evolutivo si trovano dunque sempre lontano
dall’equilibrio e si muovono in uno spazio di infinite possibilità comportamentali. Ci
si chiede, tuttavia, se ci si debba fermare qui, limitandosi cioè alla constatazione che
i comportamenti di un sistema complesso sono infiniti e non ulteriormente
classificabili, o se invece abbia senso compiere uno sforzo per stabilire una qualche
loro tassonomia e, in tal caso, sulla base di quali variabili. Partendo dalle intuizioni
del genetista Sewall Wright51, il biologo Stuart Kauffman, altra punta di diamante
del Santa Fe, sviluppa un modello di sistema complesso basato sulle reti booleane52,
pervenendo ad una misurazione in chiave relazionale della complessità suscettibile
di suggestive applicazioni in molteplici ambiti disciplinari.
La grandezza e la complessità di una rete booleana sono date rispettivamente da
due parametri: N, che indica la numerosità degli agenti della rete - geni aminoacidi,
consumatori, imprese - e K che indica il numero di input che ciascun agente riceve
dagli altri ed è indicatore della densità e della ricchezza dell’interconnessione tra gli
agenti della rete53; lo stato di ciascun agente della rete è quindi determinato dallo
stato dei K agenti con cui è connesso54, sulla base di regole matematiche molto
semplici55. Ricorrendo alla logica booleana, Kauffman conduce i suoi esperimenti su
reti di interruttori elettrici collegati tra loro per osservare il comportamento
emergente della rete al variare di un certo parametro del sistema (c.d. parametro di
controllo, P), ad esempio N o K. Il risultato interessante di questi esperimenti non
sta tanto nel fatto che al variare del parametro di controllo prescelto il
comportamento della rete booleana varia, quanto piuttosto che la varietà di
comportamento non è indefinita, ma tassonomica, ossia classificabile.
51
52
53
54
55
Wright S., “Evolution in Mendelian populations”, Genetics, 16(97), 1931.
Kauffman S.A., op. cit., 1993.
In particolare, per K=0 nessuna connessione; per K=n-1 numero massimo di connessioni.
Nelle reti virtuali usate da Kauffman, lo stato era “acceso”, “spento”.
Queste regole vennero codificate nell’Ottocento dal matematico irlandese George Boole,
da cui prendono appunto il nome. Per ovvii motivi di spazio non è possibile soffermarsi in
tale sede sulla logica booleana, si rinvia pertanto alle trattazioni specialistiche sul tema.
FRANCESCA FAGGIONI - CRISTINA SIMONE
25
Sulla base dei risultati dei suoi geniali esperimenti, infatti, Kauffman individua
tre differenti classi (o stati) di comportamento di un sistema complesso: ordinato,
caotico ed uno in bilico tra i due, che egli definisce complesso.
Il comportamento ordinato contraddistingue un sistema ingessato, cristallizzato:
ad esempio, nel caso delle reti booleane di Kauffman questo significa che gli agenti
(gli interruttori) sono fissi nel loro stato (acceso o spento; 0 o 1); in questa situazione
di ordine assoluto è inibita al sistema qualsiasi attitudine creativa o evolutiva, anche
se non mancano piccole isole caotiche i cui agenti però, non essendo interconnessi
con gli altri agenti al di fuori dell’isola, non possono influenzarli e né esserne
influenzati56.
All’estremo opposto, si incontra il comportamento caotico; ad esempio, nelle reti
di Kauffman questo corrispondeva ad interruttori che incessantemente ed
irregolarmente saltavano da acceso a spento (o da 0 a 1): è un comportamento
assolutamente disordinato e qualunque tentativo di formare strutture organizzate
fallisce inesorabilmente, anche se non mancano piccole isole cristallizzate. Anche in
tal caso, i comportamenti creativi ed evolutivi non sono possibili: il sistema non ha
la necessaria stabilità per poter configurare schemi organizzativi di alcun tipo ed
evolvere57.
La terza classe è quella del comportamento complesso, il più creativo e con
maggiore possibilità di evolvere; una classe di regole in virtù delle quali gli agenti
del sistema non sono mai del tutto cristallizzati in una posizione e neppure del tutto
in preda al disordine; uno stato di comportamento per il quale gli elementi delle isole
ingessate cominciano ad interconnettersi con gli altri elementi al di fuori dell’isola e
le isole disordinate cominciano a configurare degli schemi organizzativi; un
comportamento che sfrutta i vantaggi di entrambi gli stati precedenti.
Ciascuna classe di comportamento configura un sistema di regole differente e
delimita una particolare regione dello spazio delle infinite possibilità di
comportamento del sistema: la regione dell’ordine, quella del caos, e quella in bilico
tra le due, il margine del caos (edge of chaos), dove i sistemi sono abbastanza stabili
per memorizzare informazione, ma anche abbastanza labili da trasmetterla.
Kauffman osserva, dunque, che al variare del parametro di controllo il
comportamento del sistema varia, ma varia mantenendosi all’interno di una delle tre
classi; quando però la variazione è tale che il parametro di controllo P raggiunge un
valore critico Pc, allora ciò comporta la transizione del sistema da una regione
all’altra della mappa dei comportamenti (fig. 3).
La mappatura di Kauffman apre ad una serie di stimolanti riflessioni, anche
lontane dalle scienze biologiche.
56
57
Gandolfi A., Formicai, imperi, cervelli. Introduzione alla scienza della complessità,
Universale Bollati Boringhieri, Torino, 1999, p. 56.
Ibidem.
LE DECLINAZIONI DELLA COMPLESSITÀ
26
Fig. 3: La mappa delle classi di comportamento di un sistema complesso
ORDINE
Pc
comportamento ordinato
MARGINE del CAOS
comportamento complesso
CAOS
comportamento disordinato
Pc
Fonte: ns. elaborazione
Intanto, le conclusioni cui è giunto manifestano una sorprendente analogia con i
risultati delle ricerche condotte da un altro membro del Santa Fe, il giovane e
brillante Christopher Langton, padre della scienza della vita artificiale. Egli, sulla
base degli studi del fisico Stephen Wolfram58, sviluppa una serie di modelli di
sistemi complessi basati sugli automi cellulari59 in cui lo stato di un automa (ad
esempio, il colore, rosso o bianco) nella attuale tornata di gioco dipende dallo stato
degli automi con cui è in relazione nella tornata antecedente, sulla base di semplici
regole ad esempio, “se gli automi vicini in alto sono bianchi, nella successiva tornata
l’automa diventa rosso”.
Langton arriva ad individuare quattro classi di comportamento di un sistema
complesso: le classi I e II che indicano un comportamento ordinato, la classe III che
denota un comportamento caotico e la classe IV che individua un comportamento
complesso. Anche qui il passaggio da una classe ad un’altra è determinato dalla
variazione di un parametro di controllo, che Langton indica con λ, che esprime la
modalità di trasmissione di informazioni tra un automa e l’altro: per λ basso
l’informazione è bloccata o fluisce viscosamente; per λ alto l’informazione si
propaga velocemente; per valori critici di λ Langton osserva la transizione da una
classe di comportamento ad un’altra giungendo quindi alle stesse conclusioni di
Kauffman, per quanto concerne gli aspetti tassonomici del comportamento
complesso.
58
59
Walfram S., “Computer software in science and mathematics”, Scientific America, New
York, 3(251), pp. 140-151.
Langton C.G., Artificial Life, Santa Fe Institutte Studies in the Sciences of Complexity Proceeding, Addison Welsey, vol. VI, 1989, Atti del primo seminario sulla vita artificiale,
indetto nel settembre 1987, Redwood City (Calif.)
FRANCESCA FAGGIONI - CRISTINA SIMONE
27
L’aspetto interessante è che tanto nei modelli di Kauffman che in quelli di
Langton i sistemi complessi protagonisti dei rispettivi esperimenti si sospingono
spontaneamente, nel loro processo di adattamento continuo, nella zona del margine
del caos. Tuttavia, nei modelli in parola agiscono automi cellulari (vita artificiale) e
reti genetiche60, mentre nei sistemi sociali gli agenti sono dotati di intelligenza e
volontà e l’adattamento non è imposto da regole esterne, ma deriva dalla danza della
coevoluzione. In che modo, quindi, tali modelli possono essere impiegati per
spiegare fenomeni socio-economici? Ad esempio, un distretto industriale, una
comunità open source, la Borsa, in che senso si può dire che sono (o che non sono
più) al margine del caos?
Se l’assunto alla base della scienza della complessità è valido, se cioè le regole
che dominano il comportamento di un sistema complesso sono le stesse,
indipendentemente dalla natura - biologica, sociale o artificiale - del sistema stesso,
allora i risultati degli esperimenti condotti “su uno schermo di computer” potrebbero
fornirci un valido supporto per la conoscenza dei sistemi sociali. In tal caso, infatti,
l’estensione del campo di applicabilità dei modelli di complessità relazionale di
Kauffman e Langton ai sistemi sociali sarebbe legittima. Questa, tuttavia, non è una
questione riservata alla speculazione filosofica, ma richiede di essere affrontata in
termini di ricorso all’evidenza empirica. A tal proposito, i problemi sul tappeto non
mancano.
Si dovrebbero intanto scegliere dei parametri di controllo significativi in termini
di mappatura del comportamento del sistema, per poi individuarne i livelli critici.
Ora, la conoscenza di variabili che influenzano lo stato di comportamento di un
sistema sociale è senza dubbio cruciale per la spiegazione e per la previsione delle
dinamiche evolutive del sistema stesso. Si potrebbe pensare, ad esempio, a parametri
di controllo quali il livello di devianza sociale, il delta del Gini riferito alla
distribuzione della ricchezza, il tasso di inflazione o quello di disoccupazione per
applicazioni a livello di sistema macroeconomico; oppure a parametri quali
l’accentramento decisionale, il livello di conflitto o la percezione di equità
organizzativa per applicazioni a livello di singola organizzazione (es. impresa,
partito politico, istituzione culturale, ecc.). Operata la scelta, tuttavia, la possibilità
di “regolare” il parametro con prove successive per individuarne il livello critico è
compito arduo nei sistemi sociali reali: come si può stabilire il livello di
60
I modelli degli automi cellulari di Langton sono stati usati, ad esempio, in esperimenti
virtuali nello studio dell’uso del suolo urbano e dei processi di auto-organizzazione dei
sistemi urbani (cfr. Bertuglia C.S., Staricco L., op. cit., cap. 15); quelli basati sulle reti
booleane di Kauffman hanno avuto applicazione non solo nello studio del genoma, ma
anche, ad esempio, in simulazioni volte all’analisi della diffusione di tecnologie
interdipendenti (Kauffman S., Lobo J., Macready W.G., “Optimal Search on technology
Landscape”, Journal of Economic Behavior and Organization, 10, October, 1998) e in
alcuni tentativi di analisi comparata della complessità di istituzioni quali mercati e
imprese (Boisot M., Child J., “Organizations as Adaptive System in Complex
Environments: The Case of China”, Organization Science, 10(3), May-June, 1999, pp.
237-252).
28
LE DECLINAZIONI DELLA COMPLESSITÀ
accentramento decisionale al di sopra del quale si va incontro ad un soffocante
ordine e al di sotto del quale si precipita nell’anarchia? Per non parlare poi del
problema dell’interdipendenza tra parametri: devianza sociale e disoccupazione,
conflitto e percezione di equità organizzativa, se e in che modo sono legati tra loro?
Si tratta, come si può facilmente intuire, di questioni nient’affatto banali e che
impegneranno la metodologia della ricerca in sforzi non indifferenti nel prossimo
futuro.
Un ultimo punto concerne la natura della declinazione di complessità assunta nei
modelli di Kauffman e Langton: la mappa delle tre regioni - ordine, caos e margine
del caos - è collegata ad un qualche parametro oggettivamente regolabile o
misurabile. In chiusura di questo paragrafo, ci sembra interessante proporre una
chiave di lettura del margine del caos alternativa a quella sin qui presentata, vale a
dire una chiave di lettura soggettiva61. Sulle orme di von Foerster, rileva Le Moigne:
«La complessità forse non è nella natura delle cose, ma nelle rappresentazioni che
ne costruiamo»62; molti fenomeni percepiti inizialmente come complessi sembrano
diventare improvvisamente comprensibili non appena i modellizzatori “cambiano
codice” per descriverli, o per decifrare il codice attraverso il quale leggono. Sulla
base di ciò, ci si chiede se per un agente “in carne ed ossa” - ad esempio, un
imprenditore, un policy maker, un elettore, un dipendente ecc. - il frame del margine
del caos possa essere declinato in termini soggettivi, per descrivere le percezioni
dell’agente con riferimento al contesto in cui agisce. Ci si domanda, cioè, se il
“margine del caos” possa essere utilizzato anche in chiave soggettiva, ossia quale
schema per comprendere e rappresentare come l’agente si sente nel contesto, come
lo percepisce. Ad esempio, lo si potrebbe impiegare come schema per analizzare la
sua percezione relativamente alla sua esperienza di un qualche contesto
(professionale, competitivo, culturale ecc.).
In tal caso, la regione caotica rappresenterebbe la percezione di estrema
instabilità, volatilità che l’agente inesperto, ma con capacità adattative, elabora del
contesto: una percezione che porta l’agente a variare incessantemente il set di regole
con cui egli interpreta il paesaggio dove si aggira, addivenendo però a risultati per
lui inesorabilmente frustranti: il “paesaggio” appare soggettivamente come una
realtà del tutto inafferrabile, e la tensione all’esplorazione continuamente percepita è
vissuta come condanna e non come opportunità.
D’atro canto, la regione dell’ordine rappresenterebbe la percezione di un
contesto assolutamente, monotono, piatto, ordinato, talmente ordinato da non
costituire per l’agente adattativo più alcun stimolo intellettuale, motivazionale,
relazionale o di altra natura; egli qui percepisce un’altra condanna: quella di
un’alienante e monocorde sfruttamento dell’esperienza pregressa. La regione del
margine del caos, in bilico tra le due, indicherebbe allora la percezione di un
contesto non del tutto illeggibile, ma nemmeno assolutamente anodino; uno spazio
61
62
Sulla declinazione in chiave soggettiva della complessità, Barile S., in questo numero.
Le Moigne J.L., op. cit., 1985, p. 74; Foerster von H., “Observing System”, Intersystems
Publications, Seaside, California, 1981 (trad. it. Sistemi che osservano, Astrolabio, Roma,
1987).
FRANCESCA FAGGIONI - CRISTINA SIMONE
29
in cui l’agente sfrutta l’esperienza passata quale fonte di efficienza e manifestazione
di docilità sociale63 e, al contempo, vive la tensione all’esplorazione come
opportunità di sviluppo e appagamento. Le transizioni da una regione all’altra di
questa mappa percettivo-cognitiva si potrebbero allora configurare come percorsi di
apprendimento dell’agente, in cui parametri di controllo potrebbero ravvisarsi nel
suo modo di percepire la tensione tra exploitation ed exploration64, tra
apprendimento critico e apprendimento fiduciario.
4. La complessità e le scienze economiche e manageriali
Sin qui si è tentato di rendere lo sforzo compiuto in eterogenee discipline di
rompere gli steccati alla ricerca di un comune terreno di incontro, la scienza della
complessità, appunto. Nel presente paragrafo, invece, il campo di osservazione si
restringe, per così dire, al rapporto tra complessità e scienze economiche e
manageriali, con l’intento di lumeggiarne il rapporto in termini di vicendevole
fertilizzazione dell’una nei confronti dell’altra.
4.1 Complessità, economia … eterodossia
Uno dei concetti chiave della scienza della complessità, quello di autoorganizzazione, è stato formulato per la prima volta proprio nelle scienze
economiche da Adam Smith, con la metafora della “mano invisibile” e si è evoluto
indipendentemente dalla sua elaborazione nelle scienze naturali, nei fatti
precorrendola. Tuttavia, la complessità entra nella scienza economica non solo in
modo larvato, implicito, come può essere il caso appena visto. Piuttosto, è
interessante far riferimento a tutti quei percorsi di ricerca che manifestamente,
esplicitamente trattano la complessità quale ingrediente principale delle loro
modellizzazioni. Non essendo possibile per ovvi motivi trattarli tutti, ne sono stati
scelti tre tra i più significativi, con l’intento comunque di dare un piccolo saggio
della pregnanza del legame tra complessità e sviluppo delle scienza economica. I tre
percorsi scelti rispondono ai nomi di altrettanti economisti, Friedrich August von
Hayek, Brian Arthur ed Herbert Simon65 e sono legati da un duplice filo rosso: da un
lato, costituiscono una sfida per l’ortodossia della scienza economica classica e
neoclassica e, dall’altro, sono il portato di un approccio personale alla ricerca di
matrice spiccatamente multidisciplinare.
63
64
65
Simon H.A., “Altruism and economics”, The American Economic Review, Papers and
Proceedings of the 105th Annual Meeting of the American Economic Association, 83(2),
1993, pp. 156-161.
March J.G., “Exploration and Exploitation in Organizational Learning”, Organization
Science, n. 1, 1992.
Si consenta, in nota, ricordare altri pur grandi economisti che hanno posto al centro delle
loro riflessioni la complessità, Hirschman e Leijonhufvud.
30
LE DECLINAZIONI DELLA COMPLESSITÀ
Friedrich August von Hayek è uno degli ultimi esponenti della scuola viennese
di economia, il cui focus è rinvenibile nel processo decisionale individuale
contestualizzato nel quadro storico istituzionale di una società complessa. Ciò che
qualifica l’analisi hayekiana è lo studio della spontaneità dei risultati che emergono
dalle relazioni tra individui66.
Hayek osserva che la molteplicità e l’avviluppo delle decisioni e delle azioni
individuali dà luogo ad un ordine sociale spontaneo, concetto che soppianta quello
irrealistico di equilibrio proprio della teoria economica pura. Il sistema dei prezzi,
l’eredità culturale, il linguaggio, la morale, la moneta: tutti questi fenomeni non
sono il portato di un’azione deliberata di una qualche autorità centrale, bensì il
prodotto dell’interazione di molteplici azioni individuali non coordinate
centralmente che danno, però, luogo a fenomeni spontanei di complessità
organizzata, o meglio a sistemi auto-organizzantisi. Comprendere come operano i
fenomeni auto-organizzativi spontanei, rileva Hayek, è allora importante per
influenzarne le dinamiche tramite interventi sulle istituzioni sociali, frutti a loro
volta del processo storico dell’interazione individuale. Dal momento che una buona
dose di complessità sociale è riconducibile all’emersione di fenomeni sociali
spontaneamente organizzati, piuttosto che ad azioni pianificatrici centralizzate, si
comprende perché nel concetto di “ordine sociale spontaneo” di Hayek si rinviene
una forte analogia con i CAS, i sistemi autopoietici di Maturana e Varela e con le
strutture dissipative di Prigogine67.
Relativamente a queste ultime, non solo analogia ma forte radicamento vi trova
la teoria dei rendimenti crescenti, di cui Brian Arthur è uno tra i massimi esponenti.
Negli anni ’80, alcuni economisti sviluppano una visione del sistema economico
basata sui rendimenti crescenti, ossia su meccanismi di retroazione positiva forieri di
profitti crescenti, costi unitari indefinitamente decrescenti e di lock-in tecnologico,
tutti fenomeni caratterizzanti in particolare i settori knowledge-based. Secondo
questa teoria, i sistemi economici sono delle strutture dissipative e, in quanto tali,
connotati da instabilità, irreversibilità, discontinuità, repentini cambiamenti
qualitativi, quali ad esempio rialzi speculativi, crolli, monopoli, che l’economia
convenzionale basata sui rendimenti decrescenti non è in grado di spiegare. Il
problema dei rendimenti crescenti era in realtà già stato posto, nel 1890, in
Principles of Economics da Alfred Marshall, senza pervenire tuttavia ad una
formalizzazione matematica, sino alla formulazione da parte di Arthur, nel 1981, di
un sistema di equazioni non lineari che modellizza matematicamente il fenomeno
dei rendimenti crescenti.
66
67
Nella vasta bibliografia di Hayek, cfr. ad es., “The Theory of Complex Phwenomena”,
Studies in Philosophy,Politics and Econmics, Toutledge&Keagen Paul, London, 1967;
Nuovi studi in Filosofia Politica, Economia, Storia delle idee, Armando edit., Roma,
1988a; Conoscenza, mercato, pianificazione. Saggi di economia e di epistemologia, Il
Mulino, Bologna, 1988b.
Albani P., “Il senso della complessità. Cenni sulla letteratura economica dei fenomeni
complessi”, Economia e politica industriale, n. 68, 1990, p. 197.
FRANCESCA FAGGIONI - CRISTINA SIMONE
31
In presenza di questi ultimi, Arthur dimostra che sono possibili più equilibri e
non si può prevedere quale verrà selezionato e che sussiste dipendenza dal percorso:
eventi casuali, spesso non economici, che si verificano all’inizio del percorso
possono determinare la selezione di un certo equilibrio piuttosto che un altro68.
Ad esempio, in presenza di rendimenti crescenti, una tecnologia riesce sempre a
monopolizzare il mercato a scapito delle altre, dando luogo al c.d. lock-in. La
versione dominante sarà quella che nelle fasi iniziali della competizione è riuscita ad
attrarre il maggior volume di domanda e non è affatto scontato che essa sia la
migliore: in altre parole, eventi con scarsa probabilità possono confinare il sistema
economico in uno dei molteplici punti lontano dall’equilibrio e questo punto
potrebbe non essere il migliore. Quali delle possibili soluzioni di equilibrio verrà
selezionata dipende dalle fluttuazioni iniziali delle quote di mercato delle tecnologie
o del numero di imprese del settore: la tecnologia che si assicura un maggior
vantaggio iniziale, si assicura le maggiori possibilità di un ulteriore sviluppo, fino a
garantirsi il monopolio. Una volta che tale posizione è stata raggiunta, diventa
irreversibile e non è possibile capovolgerla da parte dei competitor. La tecnologia
domina fino a che non subisce lo spiazzamento da parte di una nuova e il processo si
riavvia: una situazione descrivibile appunto tramite un diagramma di biforcazione
(si veda par. 3.1).
La teoria dei rendimenti crescenti non è destinata a sostituire la teoria economica
tradizionale, ma a completarla. Essa si rivela particolarmente utile per decisioni di
politica economica ed industriale in quanto prova definitivamente l’esistenza di
settori che hanno un comportamento economico differente: quelli governati da
rendimenti decrescenti (ad esempio, quelli agricoli e delle materie prime) e quelli
dominati da rendimenti crescenti (tipicamente quelli knowledge-intensive).
Diverso sforzo di astrazione, diversa matrice ha il percorso di Simon relativo alla
complessità, legato intimamente alla teoria generale dei sistemi ed alla cibernetica.
Simon parte dal mondo biologico, fisico, sociale e simbolico e rintraccia nella
complessità dei suoi sistemi un’architettura, una struttura gerarchica: la sua tesi è
che la complessità assume frequentemente la forma della gerarchia e che i sistemi
gerarchici hanno alcune proprietà comuni, indipendentemente dalla loro natura. Alla
luce di ciò, egli propone un percorso per la costruzione di una teoria non triviale dei
sistemi complessi fondata a sua volta su una teoria della gerarchia69.
Il concetto di sistema complesso da cui parte è quasi “rudimentale”: un insieme
di subsistemi tra loro interrelati, ognuno dei quali è a sua volta una struttura
gerarchica, fino ad arrivare a quello di livello più basso, dato da un subsistema
elementare. Nella concezione simoniana, il concetto di subsistema non fa
riferimento ad una relazione di autorità tra subisistemi di livelli differenti, bensì
include sistemi i cui blocchi (o subsistemi) non sono legati da alcuna relazione di
68
69
Arthur W.B., “Positive feedbacks in the economy”, Scientific American, New York,
262(2), 1990, pp. 80-85.
Simon H.A., The Science of Artificial, 3rd ed., MIT Press, Cambridge, MA, 1996; “The
Architecture of complexity”, Proceedings of the American Philosophical Society, 106(6),
Dicembre, 1962, pp. 467-482.
32
LE DECLINAZIONI DELLA COMPLESSITÀ
autorità: questo significa che le relazioni tra subsistemi sono concepite in modo
molto più complesso di quanto non si possa fare riferendosi ad una struttura
gerarchica definita solo in termini di relazioni di autorità. Simon usa quindi il
termine “gerarchia”, in senso molto ampio, per indicare tutti i sistemi complessi
analizzabili tramite un processo di scomposizione graduale, per livelli successivi, dei
relativi subsistemi. Il principale vantaggio delle gerarchie strutturate per subsistemi
risiede nel fatto che la sopravvivenza del sistema nella sua interezza è relativamente
indipendente dalle dinamiche locali che interessano i singoli subsistemi. Questa
proprietà dei sistemi gerarchici è ciò che Simon chiama “quasi-scomponibilità”: un
sistema quasi scomponibile è un sistema i cui blocchi costitutivi sono connessi da
legami deboli, anche se significativi, mentre i legami tra gli elementi di ciascun
sottosistema sono significativamente intensi, la qual cosa conferisce stabilità ai
blocchi intermedi. La quasi-scomponibilità semplifica anche la descrizione di un
sistema e rende più agevole comprendere come l’informazione necessaria per il suo
sviluppo o la sua riproduzione viene gestita. Sulla base di questa teoria, la
progettazione della complessità si concilia con la razionalità limitata del
“progettista” (politico, manager, product engineer, ecc.) e col principio del
soddisfacente: nelle fasi iniziali, infatti, il progettista può disegnare i singoli blocchi
(ad esempio, divisioni di un’impresa, moduli di un prodotto) senza preoccuparsi
dell’architettura globale del sistema, per poi passare a disegnare l’architettura nella
sua globalità progettando i legami deboli tra i subsistemi, ed eventualmente
ricalibrando il disegno di ogni singolo blocco solo a livello di confine per
agevolarne l’interfaccia con gli altri.
La teoria dell’architettura della complessità di Simon ha un ricco potenziale
esplicativo con riguardo ai processi decisionali. Essa può essere intesa come vera e
propria architettura decisionale e riferita non solo ai processi di progettazione
organizzativa o di prodotto in senso stretto, ma molto più in generale può essere
guardata quale schema esplicativo della scomposizione di un problema, da parte di
un qualunque decision maker, in una gerarchia di livelli quasi-indipendenti. Essa
descrive una vera e propria architettura decisionale che spiega in che modo colui che
affronta un processo di problem solving riesce a conciliare la complessità di questo
con la sua capacità di computo razionalmente limitata, con soluzioni che pur non
ottime risultano però soddisfacenti.
4.2 Complessità, scienze dell’organizzazione e strategic management
È anche grazie a Simon che il pensiero complesso è sottilmente entrato a far
parte della cultura e degli studi manageriali da più di cinquant’anni. Gli studi
cibernetici, in particolare, hanno lasciato un’impronta profonda nelle teorie
manageriali70. La trattazione sistematica e l’uso esplicito dei principi ad oggi raccolti
70
Beer S., “Cybernetics and Management”, English University Press Ltd, London, 1969
(trad. it. Cibernetica e direzione aziendale, Bompiani, Milano, 1969).
FRANCESCA FAGGIONI - CRISTINA SIMONE
33
sotto l’ombrello della complessità è, tuttavia, ben più recente71. Nei primi anni ’90 la
tracimazione delle teorie della complessità negli studi manageriali è sancita
dall’interpretazione delle organizzazioni come sistemi complessi adattativi72 73.
In tal senso, è possibile affermare che le scienze della complessità hanno aperto
nuove prospettive di osservazione e fornito nuovi strumenti alla ricerca ed alle
pratiche manageriali. Questo perché esse si basano su assunti totalmente differenti
rispetto a quelli tradizionali; assunti che nel primo paragrafo abbiamo chiamato
“emergenti”. Di seguito, a titolo esemplificativo si ponga attenzione a come taluni
descrittori emergenti della realtà sono stati calati nelle pratiche manageriali74.
- Si veda ad esempio il ruolo della causalità reciproca nello strategic planning.
Tale principio implica l’abbandono delle tecniche di planning basate sulle
relazioni di causa-effetto lineari, basate su elaborazione di mission, vision e
SWOT analysis, che, pur contemplando l’ambiente, non ne valutano la dinamica.
Nello specifico, tali tecniche sottovalutano la circostanza che la dinamica sia
frutto dell’interazione evolutiva passata e presente dell’impresa con il suo
ambiente, non popolato esclusivamente da competitors. Il ruolo del tempo nel
processo strategico (action-plan) e quello degli stakeholder nella pianificazione
diviene, pertanto, fondamentale in relazione all’esistenza di meccanismi di feedback, come una molteplicità di potenziali fonti di interazione con gli altri sistemi.
- Si consideri l’adozione di un approccio olistico al problem solving (mess
management). Tale tecnica prevede che al comparire di problematiche
impreviste non sia sensato predisporre task force temporanee sulle linee. Le task
force, pur dotate di competenze specialistiche, non sempre sono depositarie di
una visione sistematica dell’impresa e delle sue logiche intrinseche. Nel mess
management si richiede che siano i manager di linea ad integrare e comporre le
71
72
73
74
Senge P., The Fifth Discipline: the art and practice of the learning organization, 1990,
New York; Stacey R.D., The Chaos frontier: Creative strategic control for business,
Butterworth-Heinemann, Oxford, 1991.
Lewis R., “From chaos to complexity: implication for organizations”, Executive
development, 7(4), 1994, pp. 16-17; Brown S.L., Eisenhardt K.M., “The art of continuous
change: linking complexity theory and timepaced evolution in relentlessly shifting
organizations”, Administrative Science Quarterly, n. 42, 1997, pp. 1-34; McIntosch R.,
MacLean D., “Conditioned emergence: researching change and changing research”,
Journal of Operation and Production Management, 21(10), 2001, pp. 1343-1357.
In realtà, l’adozione di un costrutto sistemico in luogo di un altro è stata variegata quanto
le teorie originarie; in questa sede si rileva che gli approcci maggiormente orientati alla
teoria generale dei sistemi, alle teorie del caos ed alle strutture dissipative si sono
concentrati principalmente sulla struttura e sulla dinamica del sistema nel suo complesso,
mentre l’approccio adattivo è maggiormente agent-based e cerca di interpretare il
comportamento individuale dei componenti del sistema; Stacey R.D., Griffin D., Shaw P.,
Complexity and Management: fad or radical challenge to system thinking, Routledge,
London, 2002.
La stessa prospettiva è adottata anche in De Toni A.F., Comello L., Prede o ragni, Utet,
2005, parte IV, in cui gli autori declinano sette principi della complessità nel
management.
34
-
LE DECLINAZIONI DELLA COMPLESSITÀ
problematiche emergenti nella routine aziendale75.
Si faccia, in ultimo, riferimento al ricorso sempre più diffuso alle tecniche di
osservazione multi prospettica e laterale nella valutazione delle performance.
Tali tecniche assumono che la valutazione tradizionale del personale non possa
essere oggettiva, perché non tiene conto dell’impatto sulla performance dovuto
allo svolgimento di compiti e mansioni interdipendenti tra individui e tra
dipartimenti. Pertanto, i nuovi meccanismi di ricompensa dovrebbero basarsi
sulla valutazione della performance effettuata da individui di pari grado76.
Negli studi manageriali, l’immediata e principale conseguenza dovuta
all’introduzione di nozioni, quali l’auto-organizzazione, l’emergenza, la non
linearità e gli attrattori strani, è stata la consapevolezza che la prevedibilità, e con
essa la prescrizione, siano esiti in discussione, se non persino impossibili. D’altro
canto le stesse nozioni di complessità presentano delle opportunità interpretative
affascinanti, per le quali sembra valere la pena costruire un nuovo paradigma
manageriale. Gli studi si sono così concentrati su quattro temi principali:
1) Le regole semplici. A partire dall’analogia dei modelli agent-based, nei quali
numerosi agenti interagiscono sulla base di semplici regole che producono un
modello globale di comportamento coerente (auto-organizzazione), gli studiosi
suggeriscono di spostare il focus manageriale dalla previsione all’individuazione
di poche semplici regole che porteranno il sistema verso la direzione auspicata.
Le regole sono di natura organizzativa e fanno sovente leva sulla motivazione
individuale e su un incremento di democrazia a tutti i livelli dell’organizzazione.
2) L’orlo del caos. Negli studi di management e in quelli organizzativi l’orlo del
caos è spesso declinato in riferimento alla struttura organizzativa. Una eccessiva
rigidità è dovuta ad un eccesso di struttura, e poca struttura porta al caos. Un
corretto bilanciamento, in grado di traghettare l’impresa nell’orlo del caos, può
essere ottenuto attraverso l’emergenza di strutture modulari e ridondanti,
caratterizzate da legami strutturanti deboli.
3) I paesaggi di fitness (fitness landscape). Questo tema viene spesso trattato negli
studi di strategia77. Gli scenari sono rappresentati da fasci di strategie con
dinamiche differenti, nei quali non è dato sapere quale strategia sarà la più adatta
(fit) alla situazione competitiva in evoluzione. Quello che i manager dovrebbero
fare per fronteggiare questa complessità è adottare una robusta popolazione di
strategie e praticare politiche innovative che contemperino sia cambiamenti
discontinui sia incrementali. Ciò implica che i manager debbano continuamente
75
76
77
Ackoff R., Creating the corporate future: plan or be planned for, John Wiley, New York,
1981.
Anche in Motorola si sono verificati esperimenti e valutazioni su questa tecnica, Swoboda
F., “Motorola experiments with letting workers’ peers weight their pay”, Washingthon
Post, 22 May, 1994.
Di rilievo gli studi di Mc Kelvey, sull’argomento si veda Mc Kelvey B., “Avoiding
complexity Catastrophe in coevolutionary pockets: strategies for rugged landscapes”,
Organization Science, 10(3), May, 1999.
FRANCESCA FAGGIONI - CRISTINA SIMONE
35
operare aggiustamenti delle strategie a partire dal monitoraggio delle
performance.
4) Il caos. Esso è una situazione non necessariamente legata al disordine; può
amplificare piccoli cambiamenti nell’ambiente determinando quella instabilità
organizzativa interna necessaria per raggiungere, attraverso processi di autoorganizzazione, una struttura differente, un nuovo modello di business. Questo
approccio è stato spesso associato allo studio dei settori industriali
particolarmente dinamici e turbolenti, quali l’IT, ed è stato usato per spiegare i
processi di selezione e di adattamento di alcuni settori o categorie professionali.
Dopo questa affascinante panoramica è lecito chiedersi cosa di veramente
dirompente possa esserci nell’applicazione delle teorie della complessità al
management che in qualche modo non fosse già stato affrontato in precedenza. Sono
infatti già molti anni che termini quali strategia emergente, approccio continuo,
approccio di processo, costellazioni e reti, mettono alla prova manager e studiosi. In
risposta a questo, si ritiene che un esempio possa essere di qualche utilità. Per capire
cosa implica considerare le organizzazioni come sistemi complessi adattativi si
tenga presente che l’elaborazione del relativo modello richiederà allo studioso di
specificare il pattern di connessione che caratterizza le relazioni tra agenti, cosa
molto più complessa che la semplice individuazione di variabili tra i nodi di una
rete. Si osservi, inoltre, che l’identificazione della presenza o dell’assenza di legami
di determinati tipi tra i nodi della rete, così come avviene nella network analysis,
costituisce solo un primo passo nei modelli che applicano il concetto di sistema
complesso adattativo. Per questi ultimi il modello richiede appunto la specificazione
di come il comportamento di un attore al momento t influenzi il comportamento al
tempo t o t+1 di un altro attore con il quale egli intrattiene relazioni. Ulteriori
potenzialità esplicative derivano dalla possibilità di questi modelli di considerare in
che modo, o se, un apporto continuo di energia nel modello relazionale riesca o
meno a sostenere un determinato modello o struttura di interazione nel network nel
tempo78.
Come si evince, l’applicazione della teoria della complessità agli studi
manageriali richiede l’adozione di strumenti molto sofisticati ed in questo si trova il
suo reale valore aggiunto e contestualmente uno dei limiti attuali degli studi sul
tema. Posta la competenza dei ricercatori nell’uso di questi sistemi, gli strumenti di
simulazione ad oggi sviluppati non riescono ancora a rappresentare l’effettiva
complessità di molti sistemi viventi e soprattutto dei sistemi sociali, caratterizzati da
legami deboli tra gli agenti.
Parallelamente emergono difficoltà di traslazione dalle scienze del vivente a
quelle sociali di alcuni concetti, quali quello di emergenza, di auto-organizzazione e
di interazione attraverso regole semplici. Alcuni autori suggeriscono che questa
potrebbe essere l’occasione per le scienze sociali di creare una propria teoria della
complessità, ove sottolineare il ruolo di meccanismi di interazione tra agenti presi a
78
Per approfondimenti si veda Anderson P., “Complexity theory and organization science”,
Organization Science, 10(3), 1999.
36
LE DECLINAZIONI DELLA COMPLESSITÀ
prestito dalla psicologia relazionale di Margaret Mead, o qualificare le proprietà
emergenti del sistema sociale (conversational properties) derivandole da specifici
processi di comunicazione non lineare tra agenti79.
5. Il pensiero “complesso”: quali contributi metodologici per la
comunità scientifica?
La teoria della complessità è stata criticata per essere più una moda bizzarra, un
entusiasmo passeggero, che una profonda prospettiva di indagine. D’altronde, ad
oggi sembra alquanto prematuro parlare di una teoria universale dei sistemi
complessi. Se si fa una ricognizione della letteratura sulla complessità, i diversi
contributi rispecchiano molto accentuatamente ora lo specifico ambito disciplinare
dell’estensore80, ora approcci molto diversi81, ora scuole territorialmente radicate82.
In altre parole, è forte la compartimentalizzazione sia a livello scientificodisciplinare sia geografico e se ciò denota, per un verso, ricchezza e varietà, per
l’altro, può essere sintomo di una qualche miope autoreferenzialità. Se poi si
considera l’emergente contrapposizione tra approcci oggettivi ed approcci soggettivi
alla complessità, l’orizzonte di una coerente teoria della complessità si fa ancora più
appannato.
Tutto ciò appare paradossale se si tiene conto che l’ambizione degli scienziati
della complessità è proprio quella di speculare al di là e al di sopra dei confini tra
discipline, addivenendo ad una teoria epistemologicamente transfrontaliera.
Tuttavia, bisogna pur ammettere che occorrono decenni perché una teoria
emerga in molti nuovi campi, si pensi alla termodinamica e alla meccanica nel
Seicento, o alla biologia molecolare nei primi anni ’50: oggi, la scienza della
complessità è solo all’inizio della fase esplorativa.
Se è prematuro “pretendere” una teoria universale della complessità, ha senso,
però, iniziare a riflettere sul contributo metodologico del pensiero complesso. Viene
ritenuto cioè utile chiedersi se e in che misura le teorie della complessità segnano un
percorso metodologico per la ricerca e per la didattica al di là dei loro confini, al di
fuori della cerchia di scienziati che più o meno esplicitamente appartengono a questa
o quella scuola territorialmente identificata, o seguono questo o quel programma di
ricerca.
Le riflessioni al riguardo possono utilmente svilupparsi su due piani. Un piano
più strettamente operativo-strumentale ed un piano di indirizzo, o, se si preferisce,
epistemologico (fig. 4).
79
80
81
82
Per questa interpretazione relativa all’apporto delle scienze sociali si veda tra gli altri
Stacey, op. cit.
Dalla fisica, alla scienza dei computer; dall’economia, alla biologia.
Solo per fare qualche esempio, la tradizione autopoietica di von Foerster-MaturanaVarela, quella di Prigogine sulle strutture dissipative, l’approccio di Checkland in
Lancaster (UK).
Oltre alla scuola statunitense di Santa Fe, approfondita nel par. 3, a livello europeo
ricordiamo la scuola di Bruxelles e la scuola di Strasburgo.
FRANCESCA FAGGIONI - CRISTINA SIMONE
37
Fig. 4: Il contributo metodologico della complessità
Piano epistemologico:
principio della transdisciplinarietà
principio dialogico
principio della ricorsività
principio ologrammatico
Il contributo metodologico
della complessità
Piano strumentale-operativo:
sviluppo di una piattaforma di ricerca
basata su teoria matematica e
sperimentazione virtuale (braccio
sperimentale computer based)
Fonte: ns. elaborazione
Sul piano operativo, grazie al contributo determinante della scienza della
complessità, accanto ai “classici” braccio teorico e braccio empirico della ricerca, si
è sviluppato un nuovo braccio sperimentale computer-based. Esso ha favorito la
riflessione circa il rapporto tra regola di comportamento del singolo agente e
comportamento complesso del sistema: “la lezione più sorprendente della
simulazione su computer - per usare le parole di Langton - è che un comportamento
complesso non deve necessariamente avere radici complesse”. Come a dire che
regole di comportamento molto semplici a livello di singolo agente possono far
emergere un comportamento molto complesso a livello di sistema83.
In effetti, il metodo di ricerca più diffuso tra gli scienziati della complessità è la
simulazione su computer. A tal proposito, molto eloquente è la definizione di
complessità proposta da Brian Arthur: “Complexity is what happens when you give
Charles Darwin a computer”84. Il computer è usato dagli scienziati della complessità
non solo come strumento di calcolo, ma soprattutto come laboratorio virtuale, come
“ambiente”, contesto privilegiato per validare empiricamente i modelli teorici
comportamentali in cui si muovono agenti naturali o sociali che siano. Il metodo in
parola ha molto contribuito allo sviluppo del computer quale strumento di ricerca e
ne ha messo in luce le potenzialità a servizio della speculazione scientifica. Molti
programmi di simulazione virtuale di alcuni fenomeni - volo di stormo di uccelli85,
speculazioni e crolli di borsa, reazioni chimiche autocatalitiche, cooperazione e
competizione tra agenti in condizioni di incertezza, propagazione di innovazioni
tecnologiche, ecc. - che hanno aiutato a comprenderne le relative dinamiche reali
devono il loro sviluppo e affinamento ai programmi di ricerca condotti in seno alle
83
84
85
Waldrop M.M., op. cit., p. 447.
Arthur B.W., “An Interview with W. Brian Arthur”, The development of complexity
perspectives, part I, 31 August 2005, p. 29.
Ad esempio, la simulazione degli uccelloidi di Craig Reynolds riportata in Wakdrop
M.M., op. cit., pp. 383 e ss.; pp. 447 e ss.
38
LE DECLINAZIONI DELLA COMPLESSITÀ
scuole della complessità. In base al tipo di utilizzo che è stato fatto del computer, gli
scienziati della complessità hanno sviluppato un nuova piattaforma operativa della
ricerca basata su teoria matematica ed esperimento di laboratorio virtuale. I
ricercatori che si muovono su tale piattaforma procedono per lo più lungo un
percorso che inizia con la costruzione di un modello computazionale del sistema
sotto osservazione e del suo ambiente (teoria), per passare poi all’osservazione del
comportamento del modello del sistema “immerso” nel modello dell’ambiente
(simulazione virtuale) per ritornare, se qualcosa non va, alla rivisitazione del
modello (teoria), procedendo così iterativamente86. Se lo sviluppo di un braccio
sperimentale computer-based riveste per lo più importanza per gli addetti ai lavori,
ben altra è la portata della complessità sotto il profilo epistemologico. Edgar Morin,
filosofo e sociologo tra i più originali della cultura europea contemporanea, e le cui
opere sono tra quelle più significative dedicate al “pensiero complesso”, enuclea un
insieme di principi che ben esprimono l’impronta digitale della complessità nel
pensiero di questi ultimi decenni87.
Il principio di superamento del paradigma disgiuntivo, eredità del pensiero
cartesiano. L’epistemologia della complessità emerge proprio dalla volontà di
superare le parcellizzazioni e gli steccati del sapere umano alla ricerca di un anello
che leghi scienze “tradizionalmente” distanti: fisica, chimica, biologia, matematica,
economia, filosofia, antropologia. “L’ambizione del pensiero complesso è quella di
rendere conto delle articolazioni tra settori disciplinari frantumati dal pensiero
disgiuntivo; quest’ultimo isola ciò che separa, e occulta tutto ciò che collega,
interagisce, interferisce. In questo senso, il pensiero complesso aspira alla
conoscenza multidimensionale, ma è consapevole in partenza dell’impossibilità
della conoscenza completa”88; è un pensiero “aperto”, multilogical e
multiperspectival89, nel senso che è capace di “violare i confini delle discipline”90:
non più semplicemente una giustapposizione di frammenti di saperi diversi, ma
ricerca di una nuova prospettiva in cui i saperi possano reciprocamente interagire,
una prospettiva interdisciplinare o addirittura, più in là nel futuro, transdisciplinare91.
Pensiero complesso e scienza della complessità come antidoti contro gli elementi
patologici del pensiero contemporaneo: ipersemplificazione, iperspecializzazione,
86
87
88
89
90
91
Tinti
T.,
La
sfida
della
complessità
verso
il
terzo
millennio,
http://complexlab.com/Members/ttinti/articoli, pp. 4-5, 12 giugno 2009.
Morin E., Introduzione al pensiero complesso, Sperling&Kupfer, Milano, 1993; Morin E.,
“Le vie della complessità”, op. cit.; Ceruti M., Morin E., “La complessità: una sfida al
pensiero, non una ricetta, non un programma”, in Ceruti M., Morin E. (a cura di), “50 rue
de Varenne”, Istituto Italiano di Cultura di Parigi, mar. 1988.
Morin E., “Introduzione al pensiero complesso”, op. cit., 1993, p. 2.
Striano M., Per un’educazione al pensiero complesso, http://lgxserver.uniba.it/lei/sfi
/bollettino/159_straino.htm, 12 giugno 2009.
L’espressione vuole essere un omaggio a Hirschman, uno degli economisti della
complessità più significativi, accanto ad Hayek e Simon, in onore del quale l’Università di
Notre Dame dell’Indiana pubblicò, nel 1986, un Festschrift dal titolo Sviluppo,
democrazia e l’arte di violare i confini delle discipline.
Morin E., “Complessità e metodo”, La Repubblica, 25 aprile 2008.
FRANCESCA FAGGIONI - CRISTINA SIMONE
39
chiusura teoretica, che hanno lasciato intendere che la segmentazione arbitraria
operata sul reale fosse il reale stesso, lacerando e spezzettando il complesso tessuto
delle realtà92.
Il principio dialogico, ossia dell’uso di argomenti complementari, ma che
potrebbero anche essere concorrenti o antagonisti. L’ordine e il disordine sono
nemici - l’uno sopprime l’altro - ma, contemporaneamente, in alcuni casi,
collaborano e producono organizzazione. Il principio ci consente di mantenere la
dualità in seno all’unità, non solo disgiunge termini antagonisti, ma si sforza di
congiungerli ricercandone la complementarietà: l’organizzazione emerge per
l’interazione di parti differenti, specializzate, complementari e in conflitto.
Il principio del ricorso di organizzazione o della ricorsività: non c’è distinzione
tra causa ed effetto, l’effetto si rivela a sua volta causa e ciascun effetto è
contemporaneamente prodotto e produttore di ciò che produce. Tutto ciò che è
prodotto ritorna su ciò che lo produce in un ciclo auto costitutivo e auto
organizzatore. Così, ad esempio, la società è prodotta dalle interazioni tra gli
individui che la compongono, ma la stessa società, come un tutto, retroagisce per
produrre gli individui attraverso i mass media, le istituzioni scolastiche, politiche e
culturali, in un circuito in cui trovare un punto di inizio è assolutamente arbitrario.
Il principio ologrammatico in forza del quale il tutto è concepito come incluso
nella parte che esso include; non solo la parte è nel tutto, ma il tutto è nella parte: si
pensi al mondo biologico, dove ogni cellula contiene la totalità dell’informazione
genetica, e al mondo sociologico, dove il sistema sociale è formato da una pluralità
di individui ciascuno dei quali ha una visione dell’intero sistema. “L’essere umano è
esso stesso nel contempo uno e molteplice […]. Ogni essere umano, come il punto di
un ologramma, porta con sé il cosmo. Ogni essere, anche il più chiuso nella più
banale delle vite, costituisce in se stesso un cosmo”93. Ciò che si apprende sulle
qualità emergenti del tutto, un tutto che non esiste senza organizzazione, ritorna
sulle parti. Allora è possibile arricchire la conoscenza delle parti attraverso il tutto e
del tutto attraverso le parti, in un processo che esplora nuove conoscenze, superando
tanto il riduzionismo (che non vede che le parti), quanto l’olismo (che non vede che
il tutto).
Si ritiene che tutto ciò sia riferibile non solo alla ricerca, ma anche alla didattica.
Spesso, erroneamente, si dimentica il forte legame esistente tra le due e si tende a
trattarle come terreni estranei l’uno all’altro, anziché sforzarsi di coglierne gli intimi
legami (come un pensiero complesso richiederebbe!). Una didattica che riconosce la
complessità del reale dovrebbe proporre ogni problema all’interno di un modello
multifocale in grado di coglierne la natura multidimensionale; una didattica
impegnata non solo a descrivere la struttura dei fenomeni (dai batteri alle
multinazionali, dagli automi ai partiti politici), ma anche a sviluppare nei discenti
capacità, quali quella di cogliere i nessi tra saperi specialistici e quella di trovare
risposte a un problema anche in ambiti molto diversi da quelli in cui il problema
92
93
Morin E., “Introduzione al pensiero complesso”, op. cit., 1993, p. 7.
Morin E., I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Cortina, Milano, 2001, p. 58.
40
LE DECLINAZIONI DELLA COMPLESSITÀ
stesso è stato posto94. Una didattica volta a sviluppare insieme ai discenti metodi per
comprendere processi di auto-organizzazione e fluttuazioni nella mappa degli stati di
comportamento dei fenomeni studiati. Una didattica in cui docenti e discenti non
approdano mai a rassicuranti lidi di ingessate definizioni, ma si muovono lungo
percorsi d’indagine inesauribili, asintotici e perciò capaci di sorpresa.
6. Complessità, impresa e prospettive multifocali
Ci sia consentito dedicare queste conclusioni al rapporto tra impresa e
complessità, dal punto di vista degli studiosi di questo fenomeno, domandandoci
quali possibili prospettive di studio intercettano, più soddisfacentemente di altre, la
natura - per usare l’espressione di Isabelle Stengers95 - intrinsecamente complessa
del fenomeno impresa, ossia una natura che impone per se stessa ed irriducibilmente
un problema di articolazione tra punti di vista qualitativamente differenti. Un
fenomeno, quello dell’impresa, che rivendica una prospettiva multifocale, che ci
spinge ad interrogarci sui molteplici fili che la legano ricorsivamente ed
ologrammaticamente al contesto, o meglio ai contesti che la generano e che essa
genera, che la contengono e che essa contiene: sociale, economico, culturale,
territoriale, tecnologico, giuridico, finanziario, per ricordarne solo alcuni. Il
comportamento del sistema complesso impresa non è isolabile dal proprio contesto,
ciascuna impresa è prodotta dalla storia del contesto ed è capace di produrre storia.
Nel capitalismo contemporaneo, essa condensa la complessità del rapporto tra
lavoro, capitale, territorio e istituzioni; esprime la complessità delle tensioni tra
formale e informale, tra individuale e sociale, tra competizione e cooperazione; una
complessità a sua volta interpenetrata dalla complessità dello scenario in cui
l’impresa manifesta il suo divenire, scenario che, sulla scorta di Fernand Braudel e
di Immanuel Wallerstein definiamo economia-mondo e sistema-mondo96.
Come possiamo modellizzare questa impresa, fenomeno intrinsecamente
complesso? È una domanda sfidante per lo studioso d’impresa di matrice
economico-gestionale dal momento che l’impresa sembra irriducibile alla strategia
pianificatrice, alla razionalità gestionale delle operations, alla progettazione delle
variabili organizzative hard, alla deriva del pensiero quantitativo per il quale ciò che
non è misurabile con rigidi (e miopi) standard è semplicemente ridotto a “non
esistente”.
Un metodo di studio dell’impresa imperniato su una prospettiva multifocale,
ovvero su un’analisi che si avvale di più punti di fuga, che esige un’attenzione
“polisensoriale”, che non cede alla centralità di questa o quella dimensione, ma che
appunto tiene presente il fenomeno nella sua intrinseca complessità.
94
95
96
Morin E., Il Metodo. Ordine, disordine, Organizzazione, Feltrinelli, Milano, 1983.
Stengers I., “Perché non può esserci un paradigma della complessità”, in Bocchi G.,
Ceruti M., op. cit., 1985, p. 51.
Braudel F., La dinamica del capitalismo, Il Mulino, Bologna, 1988; Wallerstein I.,
Comprendere il mondo. Introduzione all’analisi dei sistemi-mondo, Asterios, Trieste,
2006.
FRANCESCA FAGGIONI - CRISTINA SIMONE
41
Uno sforzo in tale direzione è quello compiuto, ad esempio, dall’Approccio
Sistemico Vitale (ASV)97. In questo approccio l’impresa viene riguardata nel suo
comportamento nel e con il sistema-mondo (i c.d. sovrasistemi) e quindi in modo
complesso e dinamico; un approccio che annoda i molti fili del discorso
interdisciplinare intorno all’impresa. L’ASV dà per acquisita una concezione
multifocale e dinamica dell’impresa, che non è un referente monolitico, stabile,
fisso, passibile di venire descritto, piuttosto è ciò che emerge dall’interazione di
diversi agenti e soprattutto dal viluppo di relazioni tra organo di governo, struttura
operativa e sovrasistemi.
Non si deve mancare tuttavia di rilevare le criticità e i limiti relativi alla
concettualizzazione dell’impresa con gli strumenti messi a disposizione dalla
complessità.
La fioritura delle scienze della complessità ha infatti notevolmente influenzato
gli studi delle scienze socio-economiche, incluse le teorie d’impresa, comportando
una pletora di applicazioni dei relativi principi. In tale ambito notevoli difficoltà
sono pervenute in relazione alla traslazione dei modelli nei paradigmi disciplinari.
Da un lato, si registra una impossibilità oggettiva di applicare direttamente, senza
un’adeguata interfaccia antropologicamente caratterizzata, i modelli di chimica,
fisica e biologia ai sistemi socio-economici (istituzioni, imprese, mercati,
democrazie).
Dall’altro si sottolinea che persino nell’ambito delle stesse scienze naturali,
compresa la biologia, il ricorso alla strumentazione operativa della complessità oggi
disponibile (simulazioni al computer) non è ancora integralmente accettato quale
fonte di evidenza scientifica: le simulazioni al computer devono essere perfezionate
e non hanno al momento raggiunto la complessità necessaria per la comprensione
profonda dei sistemi sociali. In assenza di corrette rappresentazioni delle dinamiche
sistemiche di matrice sociale, ciò che rimane per studiosi e manager rischia pertanto
di ridursi ad un mero approccio per metafore, anch’esso denso di trabocchetti e
misunderstanding.
In ogni caso, la complessità come metafora può certamente rivelarsi foriera di
nuove prospettive per la comprensione delle caratteristiche e delle dinamiche dei
sistemi sociali, tuttavia da sola si trova a perdere ogni portata prescrittiva per lo
studioso98. Per tale motivo è stato affermato che la complessità non offre alle
organizzazioni un quadro completo di “cosa è” o di “cosa sarà”, bensì di “cosa
potrebbe essere”99... il che forse non è poco.
97
98
99
Golinelli G.M., L’approccio sistemico al governo dell’impresa. L’impresa sistema vitale,
Vol. I, Cedam, Padova, 2005; Golinelli G.M., L’approccio sistemico al governo
dell’impresa. Verso la scientificazione dell’azione di governo, Vol. II, Cedam, Padova,
2008.
Rosenhead J., “Complexity theory and management practice. Science as culture”,
http://human-nature.com/science-as-culture/rosenhead.html, 1998.
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LE DECLINAZIONI DELLA COMPLESSITÀ
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