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mens sana in corpore sano
MENS SANA IN CORPORE SANO Prof.ssa Attilia Rossi Questa famosa espressione latina si usa abitualmente per sottolineare l’importanza dell’esercizio fisico, che aiuta a rasserenare la mente e a migliorarne le prestazioni, e dunque contribuisce al benessere psicologico dell’individuo. Con questo significato, che non è però quello originario, la massima ha avuto ed ha tuttora un’enorme diffusione: è il motto di numerose associazioni sportive, istituzioni militari e scuole; compare spesso in articoli di giornale o altri testi divulgativi, che illustrano la stretta correlazione esistente fra attività fisica e igiene mentale o mantenimento di buone funzioni cerebrali. Ecco alcuni esempi di titoli: Mens sana in corpore sano Uno studio svedese svela che chi fa attività fisica aerobica da giovane va meglio anche all’università (dal Corriere della Sera del 18 gennaio 2010) Mens sana in corpore sano: tutto merito di una proteina Lo stesso fattore neurotrofico che promuove la crescita dei neuroni agisce sul cuore e ne regola contrazione (dalla Stampa del 28 gennaio 2015) Mente sana in corpo sano: grazie a una proteina Una proteina conosciuta per il suo ruolo protettivo sulle cellule cerebrali sarebbe anche fondamentale per il corretto funzionamento del muscolo cardiaco: lo rivela una ricerca americana (da Focus del 12 gennaio 2015) UNA CURIOSITÀ Che cosa hanno in comune la locuzione mens sana in corpore sano e una scarpa ASICS? ASICS, nome della nota azienda giapponese di articoli sportivi nata nel 1949, è l’acronimo della frase Anima Sana In Corpore Sano, che costituisce una variante della nostra mens sana in corpore sano. La locuzione mens sana in corpore sano si deve al poeta Giovenale, vissuto tra il I e il II secolo d.C., che la inserisce nella X Satira, in cui tratta della insensatezza dei desideri umani quando si indirizzano ai beni terreni, considerati vani ed effimeri. Si consilium uis, permittes ipsis expendere numinibus quid conveniat nobis rebusque sit utile nostris. Se vuoi un consiglio, lascia che siano gli dèi a decidere quel che ti conviene e che è più utile ai tuoi interessi. (Satira X, vv. 346-348, trad. di E. Barelli) Ut tamen exposcas aliquid voveasque sacellis exta et candiduli divina tomacula porci, orandum est ut sit mens sana in corpore sano. Tuttavia, onde tu possa aver qualcosa da chiedere ai numi […], chiedi una mente sana in un corpo sano. (Satira X, vv. 354-356, trad. di E. Barelli) Fortem posce animum mortis terrore carentem, qui spatium vitae extremum inter munera ponat naturae, qui ferre queat quoscumque dolores, nesciat irasci, cupiat nihil et potiores Herculis aerumnas credat saevosque labores et venere et cenis et pluma Sardanapali. (Satira X, vv. 357-365) Chiedi un animo forte, che sia sgombro dal terrore della morte, che ponga la durata della vita come l'ultimo dono di natura, che sappia tollerare qualunque sofferenza, che non sia capace di adirarsi, non abbia alcun desiderio e preferisca le fatiche di Ercole, i suoi duri travagli, alle gioie dell’amore, alle cene e al letto di piume di Sardanapalo. [Sardanapàlo fu l’ultimo re degli Assiri, noto per la sua fastosa ricchezza] Giovenale esorta quindi i suoi lettori a pregare gli dèi non per ottenere ricchezza, fama, potenza, gloria e bellezza, bensì quell’equilibrio tra salute mentale e fisica che rappresenta il più saggio ideale di vita. Uno spirito forte e un fisico robusto ci aiutano a sopportare le fatiche e a far fronte alla paura della morte. L’unico cammino che può condurci a un’esistenza tranquilla è quello della virtù. Se ci affidiamo alla nostra capacità di giudizio (prudentia), non abbiamo bisogno degli dèi. Siamo noi uomini a fare della Fortuna una dea e ad innalzarla al cielo. Dunque il vero significato dell’espressione mens sana in corpore sano è ben diverso da quello che comunemente le si attribuisce. Come si spiega tale differenza? La risposta sta nel fatto che la frase è stata ‘decontestualizzata’, ossia estrapolata dal contesto specifico in cui era inserita, in questo caso la X Satira di Giovenale, e utilizzata per avvalorare una tesi (l’esercizio fisico, e quindi la buona forma che ne consegue, è condizione indispensabile per l’efficienza della facoltà spirituale; è necessario avere un corpo sano, ovvero stare bene fisicamente, per poter stare bene anche psicologicamente, cioè nell'anima) che è più propria del modo di pensare di noi moderni che non di quello degli antichi. Un concetto simile a quello presente nella massima di Giovenale è attribuito anche al filosofo pre-socratico Talete (VII-VI sec. a.C.): τίς εὐδαίμων; "ὁ τὸ μὲν σῶμα [sóma] ὑγιής, τὴν δὲ ψυχὴν [psyché] εὔπορος, τὴν δὲ φύσιν εὐπαίδευτος“. “Chi è felice? Colui che è sano nel corpo, pieno di risorse nella mente e docile (lett.: “ben educato, ammaestrato”) di natura”. corpus, corpŏris (n.), termine di etimologia incerta, indica in latino il “corpo” sia umano che animale, vivente o inanimato, nella sua fisicità. Significa quindi, fra l’altro, anche: - corpo (vivente) - essere (animato), persona, individuo - corpo inanimato, cadavere. sóma, sómatos (n.), anch’esso di etimologia incerta, in Omero designa il “corpo morto”, il “cadavere”, mentre nella successiva letteratura greca assume il significato di “corpo”, “essere vivente”, “persona”. mens, mentis (f.) deriva, secondo l’ipotesi più accreditata, da una radice indoeuropea da cui hanno origine nelle lingue antiche numerose parole riferite alle aree semantiche del “pensare” e del “ricordare”: per esempio, - in greco mimnésko, “ricordo” - in sanscrito matis, “pensiero” (cfr. il greco métis, “saggezza, prudenza, abilità”) - nell’antico germanico munan, “pensare, ricordare” (cfr. l’inglese mind). In latino mens designa sia “mente, intelletto” che “animo” come sede di emozioni: in questo secondo significato risulta sinonimo di anĭmus, anĭmi (dalla medesima radice del greco ánemos, “vento”), che significa: - “animo”, ossia il principio pensante, “mente”, “coscienza”, “volontà” - la forza che regge e domina il corpo, quindi “spirito”, “cuore”, “sentimento”, “coraggio”, “ardore” - “anima” nel senso metafisico (cfr. immortalĭtas animōrum). L’anĭmus dunque è la sede sia della ragione che del sentimento. anĭma, anĭmae (f.) significa: - - soffio, soffio vitale, aria, vita (per cui anĭmam efflāre o anĭmam effundĕre = spirare, morire) - - anima (dei morti), in quanto il soffio vitale, sfuggendo dal morente, passa agli Inferi - - anima come appellativo affettuoso (cfr. vos, meae carissimae animae in Cicerone). La differenza di genere (maschile e femminile) probabilmente indica la preminenza di anĭmus, principio superiore in quanto esprime le nostre disposizioni interiori, le passioni, le inclinazioni, ecc. Da anĭma derivano: - anĭmo, as, āvi, ātum, āre = animare, dare la vita a - anĭmal, animālis = essere vivente (usato spesso per gli animali in contrapposizione agli uomini) - exanĭmis., is (agg.) e exanĭmus, a, um (agg.) = senza fiato, esanime, morto - inanimātus, a, um (agg.) = inanimato Tutti questi termini sono passati in italiano. Da anĭmus derivano: animōsus, a, um (agg.) = coraggioso animosĭtas, animositātis (f.) = coraggio, animosità. Un composto di anĭmus è animadverto, animadvertis, animadverti, animadversum, animadvertĕre (anĭmum + adverto, “rivolgo l’animo a”), che assume i significati di “badare a”, “prestare attenzione a”, “osservare”, ma anche “castigare”, “punire”. Poiché nel corso del tempo anĭmus è stato spesso usato con il significato di anĭma, sono composti non differenziabili per derivazione: - aequanĭmus, a, um (agg.) = equànime, sereno, imparziale - magnanĭmus, a, um (agg.) = magnanimo - longanĭmus, a, um (agg.) = clemente, indulgente. Anche in questo caso si tratta di termini passati in italiano (“longànime” significa ‘comprensivo, indulgente’, ‘fiducioso’ e ‘imperturbabile’). Per concludere la nostra riflessione sulla distinzione fra anĭmus e anĭma, possiamo citare un frammento del tragediografo Accio (II-I secolo a.C.): Sapĭmus animo, fruĭmur anima; sine animo anima est debĭlis. (Accio, Trag. 296 Ribbeck) Il passo non è facile da interpretare; tuttavia è chiara la contrapposizione fra i due termini. Nonio Marcello, il grammatico latino del IV secolo d.C. che cita il frammento, ne fornisce la seguente introduzione: Nonius, 426, 25: ‘Animus’ et ‘anima’ hoc distant: animus est quo sapimus, anima qua vivimus. ‘Animus’ e ‘anima’ differiscono in questo: ‘animus’ è il principio grazie al quale abbiamo senno, ‘anima’ il principio grazie al quale siamo vivi. E che dire del termine spirĭtus? Spirĭtus, spirĭtus (m.) significa propriamente “soffio”, “respiro”, “afflato vitale”, “vita”, e quindi “energia”, “fierezza”, “superbia”. Il termine in età imperiale finisce per sostituirsi ad anĭmus, diffondendosi anche in ambito ecclesiastico: Spirĭtus Sanctus (o solo Spirĭtus), “lo Spirito Santo”. Torniamo ora ai due termini presenti nel frammento di Talete citato in precedenza: sóma, sómatos, come abbiamo visto, in Omero indica il “corpo morto”, il “cadavere”, mentre nella successiva letteratura greca assume il significato di “corpo”, “essere vivente”, “persona”. Psyché, termine greco corrispondente in latino sia a mens sia ad anima, deriva da una radice che esprime la nozione del “soffiare” (in greco psýchein, “soffiare, respirare”); analogamente al latino anima, indica dunque lo “spirito” come soffio, il principio vitale. Quali sono gli esiti in italiano dei termini sóma e psyché? Sòma, nel linguaggio della biologia, indica «l’insieme delle cellule, dette cellule somatiche, che negli organismi pluricellulari formano i tessuti e gli organi e quindi il corpo dell’organismo; il sòma si distingue dal germe, le cui cellule (cellule germinali) sono destinate esclusivamente alla produzione degli elementi sessuali, cioè spermatozoi e uova» (Enciclopedia Treccani on line). Nel linguaggio della medicina, il termine significa “corpo”, inteso in contrapposizione a “psiche”. Inoltre –sòma compare come secondo elemento in composti della terminologia scientifica, sempre con il significato di ‘corpo’ (per esempio, “cromosoma”). Da sóma, sómatos derivano in italiano i termini “somatico”, “somatizzare”, “somatizzazione” e il primo elemento di composti scientifici nei quali si indica il riferimento al corpo (per esempio, “somatologia”, ossia lo studio dei caratteri relativi al corpo umano, l’antropologia fisica). Psyché è passato in italiano nel termine “psiche”, il quale, nella psicologia moderna e nell’uso comune, indica «il complesso dei fenomeni e delle funzioni che consentono all’individuo di formarsi un’esperienza di sé e del mondo, e di agire di conseguenza» (DevotoOli). Inoltre anche psic0- (o psic-) compare come primo elemento in parole composte, soprattutto della terminologia filosofica, medica e scientifica, per indicare una «relazione con la psiche, con i processi, le condizioni della coscienza, dell’anima, dell’individuo» (Zingarelli). Come esempi si possono citare “psicodramma”, “psicologia”, “psicofarmaco”, ecc. Tornando alla massima mens sana in corpore sano, possiamo dire che in essa si racchiude una concezione della salute come equilibrio di corpo e mente, tipica della cultura classica; una concezione laica e razionale, che attribuisce a un consapevole stile di vita la funzione di prevenire più che di curare le malattie e di ottenere un benessere individuale e sociale. (Fonte: E. Degl’Innocenti, Idem Alterum. Letteratura e cultura latina, vol. 3, Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori, 2011) Nel contesto romano tali risultati sono raggiunti grazie alla convergenza di alcune condizioni particolarmente efficaci: - un sistema sanitario nel quale le conoscenze e le competenze mediche di origine greca vengono adattate alla pragmatica cultura romana e si avvalgono delle strutture di uno Stato ben organizzato - un sistema igienico caratterizzato dalla disponibilità generalizzata di acqua, garantita dagli acquedotti, e dalla diffusione capillare di impianti termali, in grado di soddisfare le esigenze di pulizia personale e di offrire, al contempo, opportunità di svago e di ricreazione fisica e mentale - un regime alimentare sano ed equilibrato, fondato sugli elementi di quella che oggi definiamo “dieta mediterranea”, perché basata su alimenti tradizionalmente presenti in alcuni Paesi del bacino del Mediterraneo (ad esempio, olio, vino, cereali integrali). (Fonte: E. Degl’Innocenti, Idem Alterum. Letteratura e cultura latina, vol. 3, Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori, 2011) In questo corso ci occuperemo di alcuni aspetti della medicina romana. A Roma la medicina delle origini, in parte influenzata dagli Etruschi, è inizialmente autoctona, popolare e contadina. Spesso è il pater familias a preparare i farmaci per gli appartenenti alla famiglia (moglie, figli, schiavi e liberti), facendo ricorso all’esperienza tramandata di padre in figlio. Le “terapie” sono spesso basate sulla conoscenza della natura, in particolare delle erbe (scientia herbarum), e addirittura su pratiche magiche e superstizioni. Questa medicina di tipo ‘familiare’ non è solo terapeutica, ma in un certo senso anche ‘chirurgica’, perché prevede come intervenire nel caso di lussazioni, fratture, ascessi, ecc. Un bell’esempio di ‘terapia’ contro le lussazioni è presente in Catone il Censore. Luxum si quod est, hac cantione sanum fiet: harundinem prende tibi viridem p. IIII aut quinque longam, mediam diffinde, et duo homines teneant ad coxendices; incipe cantare «Moetas vaeta daries dardaries asiadaries una petes» usque dum coeant. Ferrum insuper iactato. Ubi coierint et altera alteram tetigerint, id manu prehende et dextera sinistra praecide; ad luxum aut ad fracturam alliga: sanum fiet. Et tamen cotidie cantato: «Huat huat huat ista pista sista damnabo damna vestra». (De agri cultura, cap. 160) Se hai qualcosa di lussato, con questo incantesimo tornerà sano. Prendi con te una canna verde, lunga 4 o 5 piedi ; tagliala in due parti secondo la lunghezza: due uomini le tengano ferme all’altezza dell’anca. Allora comincia a recitare questa formula magica: «Moetas vaeta daries dardaries asiadaries una petes», finché non si riuniscano le due parti. Agiterai sopra un ferro. Quando le due parti si sono congiunte e toccate l’una con l’altra, prendile in mano e taglia le estremità alla destra e alla sinistra; legale poi sopra la lussazione o la frattura: così guarirà. E poi recita ogni giorno questa formula: «Huat huat huat ista pista sista damnabo damna vestra». Si tratta di un tipico esempio di magia simbolica, per cui la canna spezzata e ricomposta simboleggia la slogatura: se ne trovano ancora tracce nel folclore medievale. Da notare la presenza del ferro per allontanare il male (come il nostro “ferro di cavallo”) e la particolare forma fonica delle formule magiche, basate sulla ripetizione di sillabe uguali e quasi sempre prive di significato (come “abracadabra”). Sono comprensibili solo le parole una petes, “ti troverai insieme”, forse riferite all’atto del saldarsi delle due parti, e damnabo damna vestra, “sconfiggerò i vostri mali”. Inoltre nella formula finale potrebbe esservi una storpiatura di ista pestis sistat, “questa malattia si fermi”. (Fonte: M. Bettini, a c. di, Limina. Letteratura e antropologia di Roma antica, vol. I, La Nuova Italia, 2005) Dicam tibi de istis Graecis suo loco, Marce fili, quid Athenis exquisitum habeam, et quod bonum sit illorum litteras inspicere, non perdiscere. Vincam nequissimum et indocile esse genus illorum. Et hoc puta vatem dixisse, quandoque ista gens suas litteras dabit, omnia conrumpet, tum etiam magis, si medicos suos huc mittet. Iurarunt inter se barbaros necare omnis medicina, sed hoc ipsum mercede facient, ut fides iis sit et facile disperdant. Nos quoque dictitant barbaros et spurcius nos quam alios Opicon appellatione foedant. Interdixi tibi de medicis. (Libri ad Marcum filium, fr. 1 Jordan) Ti dirò a suo luogo, o figlio Marco, di questi Greci che cosa io abbia scoperto ad Atene, e perché sia opportuno conoscere la loro letteratura, non impararla a fondo. Ti proverò che la loro razza è malvagia e ribelle. E prendi queste mie parole come una profezia: quando questa gente ci darà la sua scienza, corromperà ogni cosa, specialmente se ci manderà qui i suoi medici. Hanno giurato tra loro di uccidere tutti i barbari con la medicina, ma compiranno questo delitto facendosi pagare, per conquistare la nostra fiducia e compiere più facilmente il loro crimine. Ci chiamano barbari e ci disprezzano più di tutti gli altri popoli, affibbiandoci lo sporco nome di Opici. Ti proibisco di chiamare i medici. Il termine “Opici” è di origine greca: con esso i Greci indicavano gli Osci (antico popolo della Campania) e alludevano al fatto che erano contadini, ma attribuendo al nome una connotazione negativa (“zoticoni”). (Testo e traduzione tratti da Limina. Letteratura e antropologia di Roma antica, a c. di M. Bettini, vol. I, La Nuova Italia, 2005) Che cosa emerge da questo passo di Catone? Il giudizio fortemente negativo sulla medicina si inquadra in un più generale rifiuto della scienza greca, giudicata pericolosa per la moralità tradizionale. Al giudizio negativo si accompagna la “profezia” su una vera e propria “congiura dei medici” contro i Romani. Ci troviamo dunque di fronte ad un atteggiamento di chiusura verso le altre culture così forte, da sconfinare apertamente nel razzismo. (Fonte: M. Bettini, a c. di, Limina. Letteratura e antropologia di Roma antica, vol. I, La Nuova Italia, 2005) Si noti, fra l’altro, come Catone consigli al figlio di leggere ed esaminare (inspicĕre) le opere letterarie dei Greci, ma di non impararle al punto da farle proprie (perdiscĕre). Secondo quanto ci riferisce Plinio il Vecchio (Naturalis historia, XXIX, 12-13), fu solo nel 219 a.C. che giunse a Roma il primo medico greco, un tale Arcagato, al quale vennero concesse la cittadinanza e una bottega (una sorta di clinica chirurgica) a spese pubbliche. All’inizio Arcagato si conquistò la fama di abilissimo nel curare le ferite; in seguito, però, un uso eccessivamente disinvolto degli strumenti chirurgici (bisturi e cauterio) e l’abitudine a praticare le amputazioni gli valsero il soprannome di carnĭfex, “carnefice”, e lo fecero cadere in disgrazia, finché egli non fu mandato in esilio. Ecco, con qualche adattamento, il passo di Plinio: Cassio Emina, uno delle nostre antiche autorità, narra che il primo medico che venne a Roma dal Peloponneso fu Arcagato, figlio di Lisania, sotto il consolato di Lucio Emilio e Marco Livio, nell’anno 535 di Roma. Egli ottenne la cittadinanza romana e gli fu acquistata con soldi pubblici una bottega al crocevia di Acilia, perché esercitasse la professione. Fu un chirurgo egregio, straordinariamente popolare al suo arrivo, ma ben presto si guadagnò l’appellativo di "carnefice" a causa del suo uso selvaggio dello scalpello e del cauterio, ed ingenerò avversione verso la professione sua e degli altri medici. Sembra dunque che Arcagato abbia inaugurato la professione medica ‘pubblica’, esercitata in luoghi a metà strada fra ambulatori, farmacie e scuole, detti tabernae o tabernae medicinae, che ricordavano molto da vicino gli iatréia (sorta di ambulatori medici o cliniche) dell'antica Grecia. Dopo Arcagato, in particolare tra la fine della repubblica e l’inizio dell’età imperiale, un gran numero di medici greci affluì a Roma. Si trattava spesso di schiavi o liberti, alcuni dei quali fondarono vere e proprie scuole di medicina (sectae), ispirate a quelle greche d’epoca classica ed ellenistica. Questi medici esercitavano la “professione” senza alcun controllo, suscitando spesso diffidenza e ostilità. Il termine taberna ha in latino un significato molto ampio, potendosi tradurre con: - dimora molto umile, capanna, baracca - osteria, locanda, albergo - bottega, negozio (anche “magazzino”, “officina”). Nel significato di “bottega, negozio”, il vocabolo si unisce a un aggettivo che ne specifica la natura: ad esempio, taberna librarĭa, “libreria”, taberna sutrīna, “bottega del calzolaio”, taberna unguentarĭa, “profumeria”. La taberna medica equivale al moderno “ambulatorio”. La taberna medica non era molto diversa dalle altre botteghe. Oggi gli archeologi riescono a distinguerla solo grazie al ritrovamento di attrezzature e strumenti medici. Tali ritrovamenti sono piuttosto rari. Possiamo ricordare la “Casa del Chirurgo” a Pompei e la “Casa del Chirurgo” a Rimini, nelle quali sono stati rinvenuti diversi strumenti chirurgici (nel caso di Rimini, ben 150) appartenuti al proprietario della casa. La taberna si compone di due vani, realizzati in scala leggermente ridotta rispetto al reale: lo studio con il mosaico di Orfeo attorniato dagli animali e la stanza per il ricovero giornaliero dei pazienti. Un'ambientazione suggestiva e scientificamente rigorosa, che restituisce le decorazioni degli intonaci alle pareti e ai soffitti nonché gli arredi e lo strumentario utilizzato dal medico per gli interventi chirurgici e per la produzione dei farmaci. (Fonte: www.museicomunalirimini.it) All'interno della domus sono stati ritrovati centinaia di reperti archeologici: ferri chirurgici, vasellame da cucina e monete, oltre a una lunga serie di decorazioni e mosaici. Gli strumenti chirurgici ritrovati a Rimini rappresentano a oggi la più ricca collezione chirurgica antica al mondo, per varietà e numero degli oggetti: si tratta infatti di circa 150 pezzi utilizzati per intervenire su ferite e traumi ossei, più una serie di vasetti utilizzati per la preparazione e la conservazione dei medicinali. Nel corredo chirurgico spiccano vari bisturi, sonde, pinzette, tenaglie odontoiatriche, leve ortopediche, un trapano a bracci mobili e diversi ferri utilizzati per asportare calcoli urinari. La tipologia dei ferri chirurgici indica che il chirurgo riminese era specializzato nella professione medica militare. Uno dei ritrovamenti più importanti è stato quello del cosiddetto Cucchiaio di Diocle, un pezzo unico al mondo, che serviva per estrarre le punte di freccia conficcate nel corpo umano. Si tratta di un arnese composto da un manico di ferro che termina con una lamina a forma di cucchiaio, forata al centro, in modo da bloccare ed estrarre la freccia. Veniva utilizzato in particolare dai medici che operavano sul campo di battaglia. (Fonte: Wikipedia) La storia di Antonio Musa I medici greci, inizialmente tenuti ai margini della società, acquisirono sempre maggior prestigio sociale. Ne è un esempio Antonio Musa, che, avendo guarito Augusto da una grave artrite e da scompensi di fegato, divenne ricco e famoso, arrivando a conquistarsi una statua onoraria sul Palatino accanto all’altare di Esculapio, dio della medicina. Sotto il nome di Antonio Musa ci resta uno scritto intitolato De herba vettonica, ma si tratta, con tutta probabilità, di un’opera più tarda. Statua di Augusto Pontefice Antonio Musa credeva nel potere terapeutico della cicoria, della lattuga e dell’indivia. A Pompei è stato rinvenuto un urceus (ossia un orcio) con l’iscrizione faecula aminea Musae ad varia petita (“Feccia di vino amineo di Musa adatta alla cura di varie malattie”). Si tratta di un preparato medicinale a base di vino, attribuibile ad Antonio Musa. (Fonte: www.pompeiisites.org) In età imperiale, lo sviluppo della medicina è favorito da un’attenta politica degli imperatori, volta a creare un sistema sanitario ben distribuito sul territorio e tra le fasce sociali. Tra le scelte politiche degli imperatori possiamo citare: - i privilegi accordati alla categoria dei medici - la costruzione dei valetudinaria (specie di ospedali o infermerie) nelle città, oltre che negli accampamenti militari - l’aumento del numero dei medici militari (medici legionis) e gladiatorii - l’istituzione di cattedre di insegnamento della medicina e di medici “pubblici” per i cittadini meno abbienti. (Fonte: E. Degl’Innocenti, Idem Alterum. Letteratura e cultura latina, vol. 3, Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori, 2011) Soltanto in epoca imperiale tarda, però, si attua in qualche modo una struttura sanitaria organizzata. Fino a questo momento, essendo i medici privati a pagamento, le classi più indigenti erano ovviamente senza assistenza. Inoltre anche le piccole città difficilmente ne avevano, perché chiaramente i professionisti sceglievano i grossi centri, che potevano offrire maggiori fonti di guadagno. Così fu probabilmente per cause contingenti, come il propagarsi di epidemie, che venne creata, prima nelle province e poi in Italia, la figura del medicus salariarĭus o medicus civitātis, stipendiato dal tesoro pubblico. Naturalmente questa istituzione non era dovuta tanto a motivi umanitari quanto politici, perché un’assistenza sanitaria garantita, riducendo la mortalità, impediva che il numero dei cittadini abili alle armi diminuisse eccessivamente. Tali medici, scelti sulla base della loro onestà e competenza, avevano l’obbligo di assistere gratuitamente i meno abbienti, in cambio di tutta una serie di vantaggi (un salario fisso, numerose esenzioni, la possibilità di usufruire, secondo il merito, di forniture gratuite di viveri), e potevano anche esercitare la libera professione. (Fonte: M. Labate-P. Migliorini-M.P. Pieri, Iter antiquum. La cultura latina attraverso i testi, Marietti Scuola, 1993) Con tutta probabilità essi dovettero avere anche delle funzioni ufficiali, come redigere dei certificati di malattia, fare dei rapporti sugli incidenti mortali, rilasciare testimonianze scritte ai tribunali e dare il permesso di inumare. A Roma, comunque, è solo nel IV secolo d.C. che compare la figura del medico pubblico, denominato archiatra [in latino, archiāter, archiātri e archiātrus, archiātri] alla stregua di quello di corte. Neppure in età imperiale comunque esistevano degli ospedali pubblici. Forme di assistenza nascono in epoca tarda con il cristianesimo, quando si ha una concezione completamente diversa della medicina, intesa non più come indagine scientifica e come studio delle malattie, ma esclusivamente come forma di assistenza umanitaria sia da parte del singolo che della comunità. Sorgono quindi, per esempio, i nosocomīa (ospedali) e gli xenodochīa (ospizi o ospedali per stranieri), in cui si offrono ai malati contemporaneamente cure del corpo (basate sulle conoscenze mediche precedenti), ma soprattutto conforto spirituale. (Fonte: M. Labate-P. Migliorini-M.P. Pieri, Iter antiquum. La cultura latina attraverso i testi, Marietti Scuola, 1993) Al centro si trova un ampio cortile; lungo i quattro lati sono posizionate le corsie mediche, formate da tante stanze sia lungo il perimetro interno (che si affaccia sul cortile interno) sia lungo quello esterno. In queste camere erano ricoverati gli ammalati e i feriti di guerra. Tra la serie di stanze interne e quelle esterne vi è un ampio corridoio. Alcune di queste stanze erano utilizzate dal personale amministrativo, medico ed infermieristico. (Fonte: www.imperium-romanum.com) medĭcus, medĭci, “medico” (in generale) ocularĭus medĭcus, oculista chirurgus, chirurgi, “chirurgo”. Si tratta della latinizzazione di cheirurgós, composto di chéir, “mano”, ed érgon, “lavoro”, da cui il significato originario di ‘chirurgo’ come ‘colui che opera con le mani’; questo grecismo sostituisce in età imperiale il termine latino vulnerarĭus, vulnerarĭi (da vulnus, “ferita, taglio”), che si legge in Plinio come definizione del primo medico giunto a Roma nel 219 a.C. clinĭcus, i, latinizzazione di klinikós, derivante da klíne, “letto” (ma anche “lettiga su cui vengono deposti i cadaveri”); indica il medico che esegue la visita al letto del paziente, dunque cura i degenti. vulnerarĭus, vulnerarĭi, “medico specialista in ferite” vulnus, vulnĕris (n.) = “ferita” (in senso fisico e morale) vulnĕro, as, āvi, ātum, āre = “ferire”, “colpire” [in italiano ne derivano ‘vulnerabile’ e ‘invulnerabile’] clìnico agg. e s. m. [dal lat. clinĭcus, gr. κλινικός, der. di κλίνη «letto»] (pl. m. -ci). – 1. aggettivo - Che riguarda la clinica medica, cioè l’esame, lo studio e la cura del malato: quadro clinico, il complesso dei sintomi; caso clinico, la concreta realizzazione di una malattia o di una sindrome (nell’uso comune, essere un caso clinico, di persona che esce dalla normalità); guarigione clinica, regressione o scomparsa del quadro morboso, con o senza scomparsa delle lesioni organiche; chimica clinica, l’insieme dei metodi chimici di analisi (analisi cliniche) impiegati in medicina a scopo diagnostico e anche, spesso, per controllo della terapia. Nel linguaggio comune: avere l’occhio clinico, con riferimento a un medico, avere la capacità di trovare abitualmente un rapido e giusto orientamento diagnostico; in senso figurato, avere prontezza nel giudicare, nell’intendere il significato intimo delle cose 2. sostantivo maschile - Il docente universitario di clinica medica; nell’uso comune è spesso sinonimo di medico, normalmente accompagnato da un attributo di merito, in frasi come essere un buon clinico, un cattivo clinico, un celebre clinico, e simili. Il termine è usato al maschile anche con riferimento a donna: la dottoressa Bianchi è il più abile clinico della città. ◆ Avv. clinicaménte, secondo i procedimenti della clinica medica, dal punto di vista clinico: dichiarare un paziente clinicamente guarito. (Fonte: Vocabolario Treccani on line) valetūdo, valetudĭnis (f.) è una vox media, ossia un termine che può assumere significato positivo o negativo a seconda del contesto. Indica uno stato di salute, buono o cattivo; ha la stessa radice del verbo valĕo, es, valŭi, ēre, “essere forte”, “aver forza” o “vigore” (ma anche “essere in buona salute”, essere sano”, “star bene”), e dell’aggettivo valĭdus, a, um, “forte” (ma anche “sano”, “in buona salute”, “in forze”). Più precisamente, valetūdo significa: 1. buona salute 2. stato di salute, salute (buona o cattiva) 3. cattivo stato di salute, malattia, indisposizione. Nel significato n° 2, il termine è spesso unito a un aggettivo: possiamo citare, a titolo di esempio, bona valetūdo, “buona salute”, optima valetūdo, “ottima salute”, mala valetūdo (o valetūdo adversa), “malattia”. Da valetūdo deriva il termine valetudinarĭum, ĭi (n.), che significa “infermeria” (anche militare), “ospedale”. salus, salūtis (f.) indica “salute”, buona condizione fisica”, ma anche “salvezza”, “sopravvivenza”; nel latino ecclesiastico, assume il significato di “salvezza” dell’anima, “vita eterna”. Ha la stessa radice di salvĕo, es, ēre, “essere in buona salute”, “star bene” (ma anche “salutare”), e di salvus, a , um (agg.), “intero”, “sano e salvo”. Salve è imperativo presente, seconda persona singolare, di salvĕo, ed è usato come formula di saluto (“salve!”, “salute”!); in questo significato è passato anche in italiano. In latino compare anche nel commiato (“addio!”, “stammi bene!”). Salvātor, Salvatōris (m.), traduzione del greco Sotér, “Salvatore”, indica per i Cristiani il Cristo. Sanĭtas, sanitātis (f.) significa “buona salute”, “guarigione”, ma anche “sanità mentale”, “buon senso”, “ragione”, “senno”. Sano, as, āvi, ātum, āre equivale a “guarire”, “curare”, mentre insānus, a, um (agg.) indica il “malato” in senso spirituale, quindi significa “pazzo”, “folle”, “furioso” e simili. Qual è il significato del termine “deontologia”? La deontologia è il «complesso dei doveri inerenti a particolari categorie, specialmente professionali, di persone» (Zingarelli). In particolare, la deontologia medica è l’«insieme delle norme riguardanti i diritti e, soprattutto, i doveri e le responsabilità del medico, nei suoi rapporti con i pazienti e con i colleghi» (Vocabolario Treccani on line). Il termine deriva del greco déon, déontos, “ dovere”, e –logìa, “discorso, teoria, trattazione”. Il dibattito sulla deontologia professionale nasce in ambito greco con la riflessione di Ippocrate di Cos (V-IV secolo a.C.), il primo e il più importante dei medici d’epoca classica, fondatore della medicina razionale. Sotto il nome di Corpus Hippocraticum sono raccolte le opere a lui attribuite dagli eruditi del Museo di Alessandria nel III secolo a. C. Di questi scritti (circa settanta), solo alcuni sono attribuibili ad Ippocrate; gli altri sono stati composti nei secoli successivi. Fra i testi inclusi nel Corpus Hippocraticum, per quanto non ascrivibili a lui, vi è anche il famoso “Giuramento”, nel quale sono contenuti i principi fondamentali della deontologia medica. Condivisione delle proprie conoscenze Difesa della vita (rifiuto dell’aborto e dell’eutanasia) Senso del proprio limite e orgoglio della propria professione (medica) Correttezza nei comportamenti Segreto professionale. Vedremo più avanti come tale testo abbia sensibilmente influito sul pensiero degli scrittori latini di medicina. Testo "classico" Giuro per Apollo medico e per Asclepio e per Igea e per Panacea e per tutti gli dèi e le dee, chiamandoli a testimoni, che rispetterò, secondo le mie forze e il mio giudizio, questo giuramento e questo patto scritto. Stimerò chi mi ha insegnato quest'arte come mio padre e dividerò con lui i miei beni, e se avrà bisogno lo metterò a parte dei miei averi in cambio del debito contratto con lui, e considererò i suoi figli come fratelli, e insegnerò loro quest'arte, se vorranno apprenderla, senza richiedere compensi né patti scritti. Metterò a parte dei precetti e degli insegnamenti orali e di tutto ciò che ho appreso i miei figli e i figli del mio maestro e i discepoli che avranno sottoscritto il patto e prestato il giuramento medico, e nessun altro. Sceglierò il regime per il bene dei malati, secondo le mie forze e il mio giudizio, e mi asterrò dal recar danno e offesa. Non somministrerò a nessuno, neppure se richiesto, alcun farmaco mortale, né suggerirò un tale consiglio; e neppure fornirò mai a una donna un mezzo per procurare l'aborto. Conserverò pia e pura la mia vita e la mia arte. Non opererò neppure chi soffre di mal della pietra [chi soffre di calcolosi], ma cederò il posto a chi è esperto di questa pratica. In tutte le case che visiterò entrerò per il bene dei malati, astenendomi da ogni offesa e da ogni danno volontario, e soprattutto da atti sessuali sul corpo delle donne e degli uomini, sia liberi che schiavi. Tutto ciò ch'io vedrò e ascolterò nell'esercizio della mia professione, o anche al di fuori della professione nei miei contatti con gli uomini, e che non dev’essere riferito ad altri, lo tacerò considerando la cosa segreta. Se adempirò a questo giuramento e non lo tradirò, possa io godere dei frutti della vita e dell'arte, stimato in perpetuo da tutti gli uomini; se lo trasgredirò e spergiurerò, possa toccarmi tutto il contrario. (Testo tratto da www.atlantemedicina.wordpress.com, con adattamenti) Una curiosità Nel “Giuramento di Ippocrate” si legge che il medico deve astenersi dall’intervenire chirurgicamente sui pazienti affetti dal “mal della pietra”, ossia dalla calcolosi renale. La ragione principale di tale divieto consiste nel fatto che nel mondo antico le professioni di “medico” e di “chirurgo” sono ben distinte: pertanto il medico non può eseguire un intervento chirurgico quale, appunto, il “taglio della pietra” (litotomìa), che, comportando un altissimo rischio di morte e di gravi complicazioni per il paziente, risulta, per così dire, “indegno” della professione medica. Nel mondo romano, gli scrittori che si inseriscono nel dibattito sulla deontologia professionale sono: - gli esperti di medicina, come AULO CORNELIO CELSO, vissuto sotto Tiberio (14-37 d.C.,), e SCRIBONIO LARGO, attivo al tempo di Claudio (41-54 d.C.) - i filosofi, come SENECA (4 a.C./1 d.C.-65 d.C.) - gli autori di opere a carattere satirico, come FEDRO (20 ca. a.C.-50 d.C.), MARZIALE (38/41-104 ca. d.C.) e GIOVENALE (50/60-dopo il 127 d.C.). Celso e Scribonio Largo sono i soli scrittori latini di medicina che si occupino espressamente di deontologia, ispirandosi ai testi ippocratici relativi alla formazione del medico e, soprattutto, al “Giuramento di Ippocrate”. Chi era Celso? Probabilmente non un vero e proprio medico, ma un esperto di medicina. Scrisse un’opera enciclopedica intitolata Artes, di cui ci resta solo la sezione De medicina, in otto libri (VI-XIII dell’opera completa), che costituisce il più importante manuale latino di tale disciplina. Si tratta di un’opera a carattere divulgativo, rivolta a un pubblico non specialistico. Per le sue conoscenze, oltre che per lo stile chiaro ed elegante, Celso è passato alla storia come il “Cicerone della medicina”. Il chirurgo ideale secondo Celso Esse autem chirurgus debet adulescens aut certe adulescentiae propior; manu strenua, stabili, nec umquam intremescente, eaque non minus sinistra quam dextra promptus; acie oculorum acri claraque; animo intrepidus; misericors sic, ut sanari velit eum, quem accepit, non ut clamore eius motus vel magis quam res desiderat properet, vel minus quam necesse est secet; sed perinde faciat omnia, ac si nullus ex vagitibus alterius adfectus oriatur. (De medicina, VII, Prooemium, 4) Il chirurgo deve essere innanzitutto giovane, o almeno non lontano dalla giovinezza; deve avere la mano forte, ferma e capace, mai tremante, ed essere abile con la sinistra non meno che con la destra. Deve possedere vista acuta e nitida; deve essere coraggioso, tanto compassionevole da desiderare la guarigione del malato che ha in cura, ma non tanto da lasciarsi indurre, commosso dalle sue grida, a fare più in fretta di quanto occorra, o a tagliare meno di quanto sia necessario; egli deve, invece, fare ogni cosa come se i lamenti del paziente non suscitassero in lui alcuna emozione. In his autem ante omnia scire medicus debet, quae insanabilia sint, quae difficilem curationem habeant, quae promptiorem. Est enim prudentis hominis primum eum, qui servari non potest, non adtingere, nec subire speciem . . . eius, ut occisi, quem sors ipsius interemit; deinde ubi gravis metus sine certa tamen desperatione est, indicare necessariis periclitantis in difficili spem esse, ne, si victa ars malo fuerit, vel ignorasse vel fefellisse videatur. Sed ut haec prudenti viro conveniunt, sic rursus histrionis est parvam rem adtollere, quo plus praestitisse videatur. Obligarique aequum est confessione promptae rei, quo curiosius etiam circumspiciat, ne, quod per se exiguum est, maius curantis neglegentia fiat. (De medicina, V, 26, 1) A proposito [delle ferite] il medico deve prima di tutto sapere quali sono inguaribili, quali difficili da curarsi, quali più agevolmente curabili. Infatti prudenza vuole in primo luogo non porre mano a curare chi non può essere salvato, per non dare l’impressione di avere ucciso chi è vittima del proprio destino; poi, trattandosi di caso grave ma non assolutamente disperato, far presente ai parenti della persona che è in pericolo, la precarietà della situazione, affinché, se l’arte dovrà cedere al male, non si passi per ignoranti o per impostori. Ma se questo è l’atteggiamento che si conviene al medico prudente, sarebbe da ciarlatani ingrandire una cosa da nulla per accrescere agli occhi degli altri il valore della propria prestazione. Ed è giusto impegnarsi con la promessa di una rapida soluzione, per essere anche più attenti a evitare che un caso di modeste proporzioni divenga più grave per trascuratezza della cura. (Trad. di U. Capitani) Vediamo ora il passo più nel dettaglio: In his autem ante omnia scire medicus debet, quae A proposito [delle ferite] il medico deve prima di insanabilia sint, quae tutto sapere quali sono difficilem curationem inguaribili, quali difficili habeant, quae promptiorem. da curarsi, quali più agevolmente curabili. insanabĭlis, e (agg.) = insanabile, inguaribile, non curabile curatĭo, onis (f.) = cura, trattamento Est enim prudentis Infatti prudenza vuole in hominis primum eum, primo luogo non porre qui servari non potest, mano a curare chi non non adtingere, nec può essere salvato, per subire speciem . . . non dare l’impressione eius, ut occisi, quem di avere ucciso chi è sors ipsius interemit; vittima del proprio destino; servo, as, āvi, ātum, āre = salvare deinde ubi gravis metus sine certa tamen desperatione est, indicare necessariis periclitantis in difficili spem esse, ne, si victa ars malo fuerit, vel ignorasse vel fefellisse videatur. ars, artis (f.) = arte, scienza, disciplina malum, i (n.) = male, malattia poi, trattandosi di caso grave ma non assolutamente disperato, far presente ai parenti della persona che è in pericolo, la precarietà della situazione, affinché, se l’arte dovrà cedere al male, non si passi per ignoranti o per impostori. Sed ut haec prudenti viro conveniunt, sic rursus histrionis est parvam rem adtollere, quo plus praestitisse videatur. Ma se questo è l’atteggiamento che si conviene al medico prudente, sarebbe da ciarlatani ingrandire una cosa da nulla per accrescere agli occhi degli altri il valore della propria prestazione. Obligarique aequum est Ed è giusto impegnarsi confessione promptae con la promessa di una rei, quo curiosius rapida soluzione, per etiam circumspiciat, essere anche più ne, quod per se attenti a evitare che un exiguum est, maius caso di modeste curantis neglegentia proporzioni divenga fiat. più grave per trascuratezza della cura. neglegentĭa, ae (f.) = negligenza, trascuratezza Il sostantivo medĭcus, i è legato al verbo medĕor, ēris, ēri, “dare la proprie cure a”, “curare”, “guarire”. Alla stessa radice si ricollegano: medicīna, ae (propriamente aggettivo, riferito ad ars) = arte medica, medicina, rimedio medĭco, as, āvi, ātum, āre e medĭcor, āris, ātus sum, āri = medicare, curare, guarire medicāmen, ĭnis (n.) = medicina, droga, veleno, cosmetico medicamentum, i (n.) = medicamento, medicina, filtro magico, cosmetico Sono termini passati in gran parte in italiano, dove però ‘medicamento’ ha solo il significato di ‘sostanza curativa’. Il ‘medico condotto’ deriva dal latino conducĕre , “ingaggiare, assoldare”, mentre il nostro ‘dottore’ si ricollega al verbo docĕo, es, docŭi, doctum, ēre, “insegno”, e a doctor, ōris, “insegnante, maestro”. Il verbo curo, as, āvi, ātum, āre (“curare, prendersi cura di, occuparsi di”) si trova anche riferito alle cure di un malato, come poi in italiano, e in tal caso significa “curare, avere in cura, trattare”. In latino esistono due termini che significano malattia: morbus, i (m.) indica una corruzione di tutto il corpo, ma significa anche “malattia morale”, “passione”, “manìa”, “vizio” [vitĭum, ii (n.) indica invece un’«imperfezione» fisica o morale, un “difetto”, come poi anche in italiano] aegritūdo, ĭnis (f.) significa “debolezza, infermità fisica”, ma anche “malessere spirituale, ansietà, dolore”. Un passo di Aulo Gellio (Noctes Atticae, 4.2.1-5) ci illumina sulla differenza di significato tra i due termini. Caelius Sabinus in libro, quem de edicto aedilium curulium composuit, Labeonem refert, quid esset ‘morbus’, hisce verbis definisse: «’Morbus’ est habitus cuiusque corporis contra naturam, qui usum eius facit deteriorem». Sed ‘morbum’ alias in toto corpore accidere dicit, alias in parte corporis. Totius corporis ‘morbum’ esse, veluti sit pthisis aut febris, partis autem, veluti sit caecitas aut pedis debilitas. «Balbus autem, inquit, et atypus vitiosi magis quam morbosi sunt, et equus mordax aut calcitro vitiosus, non morbosus est. Sed cui morbus est, idem etiam vitiosus est. Neque id tamen contra fit; potest enim qui vitiosus est non morbosus esse». Celio Sabino nel suo libro L’Editto degli edili curuli riferisce che Labeone definì con le seguenti parole che cosa s’intenda per morbus: «La malattia è la condizione anormale di un corpo, che ne peggiora la funzionalità». Poi dice che la malattia talora interessa tutto il corpo, talora una sua parte. Sono per esempio malattie di tutto il corpo la tisi o la febbre, sono malattie di una sua parte la cecità o un handicap a una gamba. Inoltre dice: «Uno balbuziente o dislessico ha piuttosto un difetto che una malattia, e un cavallo che morde o scalcia ha un difetto, non una malattia. Solo che, chi ha una malattia, è anche difettoso, mentre però non vale l’inverso: chi ha un difetto non è detto che sia malato». (Trad. di V. Bugliani) Da morbus derivano: l’aggettivo morbĭdus, a, um, “ammalato, indisposto, malsano” l’aggettivo morbōsus, a, um, “malato, malsano, affetto da una passione morbosa” il sostantivo morbosĭtas, ātis (f.), “malattia” [latino tardo] In italiano morbo è rimasto nel linguaggio medico nel senso di ‘malattia’, con l’aggiunta di opportune determinazioni (ad esempio, “il morbo di Parkinson”); morbido indica cosa delicata e cedevole al tatto, mentre morboso, oltre ad essere termine medico (“che è sintomo o effetto di malattia”), è usato anche nel senso di ‘anormale in quanto mancante di equilibrio’. UNA CURIOSITÀ MORBILLO, nome che designa una malattia virale dell’infanzia, deriva da un diminutivo di morbus, in quanto fin dal’età medievale il morbillo apparve meno grave del vaiolo, a cui pure assomiglia per qualche aspetto. Il termine ‘terapia’, proprio del lessico specifico della medicina, presente in numerosi composti (fisioterapia, talassoterapia, elioterapia, ecc.), deriva dal greco therapéia, “cura”, “servizio”. Di origine greca è anche –iátra, secondo elemento di numerosi composti, derivato dal greco iatrós, “medico”, per cui troviamo ‘pediatra’, ‘psichiatra’, ‘fisiatra’, ‘otorinolaringoiatra’, tutte parole con componenti greche, fatto frequentissimo nella medicina. –iatría (dal greco iatréia, “cura medica”) significa appunto “cura” (ad esempio, “pediatria”, “psichiatria”, ecc.). Noi medici facciamo un grandissimo affidamento nel polso, elemento diagnostico più ingannevole di ogni altro, perché spesso è più lento o più affrettato a seconda dell’età, del sesso, della costituzione fisica. E in genere, pur essendo l’organismo nel suo complesso sufficientemente sano, se lo stomaco è indisposto, talora anche all’inizio di una febbre, il polso si fa piccolo e lento, cosicché può sembrare malato un soggetto in grado invece di sopportare facilmente il grave accesso febbrile che lo minaccia. Al contrario, spesso, suole rendere affrettato il polso il bagno, l’esercizio fisico, la paura, l’ira e qualsiasi altro stato d’animo, a tal punto che, al sopraggiungere del medico, l’apprensione del malato, incerto su come quello lo troverà, basta ad alterarne il battito. Perciò un medico accorto non deve, subito appena arriva, prendere il braccio del paziente, ma prima mettersi seduto con atteggiamento cordiale, chiedere al malato come si sente, e se nota in lui qualche apprensione, rassicurarlo con parole convincenti, poi visitarlo. (De medicina, XIII, V, 5-6 – Trad. di U. Capitani) Celso segue sicuramente le indicazioni contenute in un famoso passo di Ippocrate: “Nel momento in cui il medico entra nella stanza del malato, si ricordi di stare attento al modo di sedersi, al modo di comportarsi; egli deve essere vestito bene, essere sereno nel volto e nell’agire, deve attendere con cura all’ammalato, rispondere con tranquillità alle obiezioni e non perdere la pazienza e la calma di fronte alle difficoltà che gli si presentano”. Chi era Scribonio Largo? Scribonio Largo, forse un liberto di origini siciliane, fu un medico vicino all’imperatore Claudio. Tra il 44 e il 48 scrisse un manuale specialistico (Compositiones), nel quale sono indicate le composizioni di 271 ricette contro svariate malattie e per la cura e l’igiene del corpo. Nell’epistola introduttiva alla sua raccolta di ricette, Scribonio Largo afferma che i doveri del medico non vengono meno neanche in guerra, nei confronti del nemico. Secondo questo ideale universalistico, compito della medicina è di portare aiuto indistintamente a chi ne ha bisogno, senza preconcetti o valutazioni opportunistiche. (Fonte: M. Labate-P. Migliorini-M.P. Pieri, Iter antiquum. La cultura latina attraverso i testi, Marietti Scuola, 1993) Vediamo il passo in questione: “Quindi, chi è legato secondo le regole al sacro giuramento del medico, non dovrà dare un veleno nemmeno ai nemici, ma li perseguiterà, quando le circostanze lo richiederanno, solo come soldato e cittadino che compie il proprio dovere, perché la medicina non valuta gli individui in base alla sorte o alle situazioni, ma promette il suo soccorso senza distinzione a tutti quelli che lo invocano e s’impegna a non recare danno a nessuno. Ippocrate, fondatore della nostra professione, pose alla base di questa disciplina un giuramento in cui è sancito che un medico non deve neppure dare o indicare a una donna incinta un abortivo; egli voleva così imprimere un profondo senso di rispetto verso la vita umana nell’animo di chi si dedica a quest’arte. Chi infatti considererà azione sacrilega troncare quella che non è ancora certezza di vita, quanto più delittuoso giudicherà nuocere a un individuo già formato e perfetto! Ippocrate dunque considerò di estrema importanza che ognuno salvaguardasse con animo reverente e puro il nome e il decoro della medicina, comportandosi secondo le regole del suo giuramento: la medicina è la scienza del guarire, non del nuocere. E se il medico non dedicasse tutto se stesso a soccorrere chi soffre, non farebbe dono agli uomini di quella pietà a cui si è impegnato con la sua promessa. (Compositiones, ep. intr. 4-5; trad. di U. Capitani) Ecco il testo latino: Idcirco ne hostibus quidem malum medicamentum dabit, qui sacramento medicinae legitime est obligatus (sed persequetur eos, cum res postulaverit, ut militans et civis bonus omni modo), quia medicina non fortuna neque personis homines aestimat, verum aequaliter omnibus implorantibus auxilia sua succursuram se pollicetur nullique umquam nocituram profitetur. Hippocrates, conditor nostrae professionis, initia disciplinae ab iureiurando tradidit, in quo sanctum est, ut ne praegnanti quidem medicamentum, quo conceptum excutitur, aut detur aut demostretur a quoquam medico, longe praeformans animos discentium ad humanitatem. Qui enim nefas existimaverint spem dubiam hominis laedere, quanto scelestius perfecto iam nocere iudicabunt? Magni ergo aestimavit nomen decusque medicinae conservare pio sanctoque animo quemque secundum ipsius propositum se gerentem: scientia enim sanandi, non nocendi est medicina. Quae nisi omni parte sua plene incumbat in auxilia laborantium, non praestat quam pollicetur hominibus misericordiam. SENECA, De beneficiis, VI, 16, 1-2; 4-5 Quid ergo? quare et medico et praeceptori plus quiddam debeo, nec adversus illos mercede defungor? Quia ex medico et praeceptore in amicum transeunt, et nos non arte quam vendunt, obligant, sed benigna et familiari voluntate. Itaque medico, si nihil amplius quam manum tangit, et me inter eos, quos perambulat, ponit, sine ullo affectu facienda vitandave praecipens, nihil amplius debeo: quia me non tamquam amicum vidit, sed tamquam imperatorem. […] Quid ergo est, quare istis debeamus multum? Non quia pluris est quod vendiderunt quam emimus, sed quia nobis ipsis aliquid praestiterunt. Ille magis pependit quam medico necesse est: pro me, non pro fama artis, extimuit; non fuit contentus remedia monstrare, sed admovit; inter sollicitos assedit, ad suspecta tempora accurrit; nullum ministerium oneri illi, nullum fastidium fuit. [...] Huic ego non tamquam medico, sed tamquam amico obligatus sum. Perché al medico e al precettore sono debitore di qualcosa in più e non estinguo il mio debito pagandoli? Perché da medico e da precettore si trasformano in amici, e noi siamo in debito verso di loro non per le loro prestazioni, che paghiamo, ma per la loro disposizione d’animo benevola e affettuosa. E così, se il medico non fa nient’altro che tastarmi il polso e considerarmi uno dei tanti pazienti che visita, prescrivendomi senza alcuna partecipazione ciò che devo fare e ciò che devo evitare, non gli sono debitore di nulla, perché non mi vede come un amico, ma come un cliente. […] […] Perché, dunque, dovremmo essere debitori di molto a costoro? Non perché quello che ci hanno venduto vale di più del prezzo al quale l’abbiamo acquistato, ma perché hanno fatto qualcosa per noi personalmente. Il medico si è preoccupato per noi più di quanto sia necessario a un medico: ha avuto paura non per la sua reputazione come medico, ma per me; non si è accontentato di indicarmi i rimedi, ma me li ha anche applicati; è stato fra quelli che mi hanno assistito, è accorso nei momenti critici; nessun servizio gli è pesato o gli ha dato fastidio. […] Verso quest’uomo sono in debito non come verso un medico, ma come verso un amico. (Trad. di M. Natali) Marziale si esprime così sull’incompetenza di alcuni medici: Nuper erat medicus, nunc est vispillo Dialus: Quod vispillo facit, fecerat et medicus. (Marziale, Epigrammata, I, 47) Poco fa Diaulo era medico; ora fa il seppellitore. Quello che fa da becchino, lo faceva pure da dottore. (Trad. di Simone Beta) Chirurgus fuerat, nunc est vispillo Diaulus. Coepit quo poterat clinicus esse modo. (Marziale, Epigrammata, I, 30) Diaulo, che prima era medico, ora fa il becchino. Già da medico faceva sdraiare la gente sul lettino. (Trad. di Simone Beta) Oplomachus nunc es, fueras ophthalmicus ante. Fecisti medicus quod facis hoplomachus. (Marziale, Epigrammata, VIII, 74) Ora fai il gladiatore, prima facevi l’oculista. Cavavi gli occhi prima, cavi gli occhi adesso. [lett.: “Quello che ora fai da gladiatore, l’hai fatto da medico”] (Trad. di Simone Beta) hoplomăchus, i (m.) = oplòmaco (gladiatore che combatte in pieno assetto di guerra) ophthalmĭcus , i (m.) = oculista Languebam: sed tu comitatus protinus ad me venisti centum, Symmache, discipulis. Centum me tetigere (= tetigerunt) manus aquilone gelatae: non habui febrem, Symmache, nunc habeo. (Marziale, Epigrammata, V, 9) Stavo male: ma tu, Simmaco, venisti subito da me, accompagnato da cento discepoli. Mi tastarono cento mani ghiacciate dall’Aquilone: non avevo la febbre, Simmaco, ora ce l’ho. languĕo, es, langŭi, ēre = “stare male”, “essere” o “sentirsi debole” o “fiacco” (il verbo indica malattia accompagnata da uno stato di grande prostrazione fisica) febris, is (f.) = “febbre” (per gli antichi la febbre non era un sintomo, ma una malattia); la dea “Febbre”, di cui esisteva un antico altare sul Palatino In questo epigramma Marziale, più che sulla scarsa preparazione del medico, ironizza sulla consuetudine dei consulti medici, che imperversò in tutta la latinità, ma soprattutto in età imperiale. Anche Plinio il Vecchio (Naturalis Historia, XXIX, V, 11) critica questa consuetudine, ricordando un’iscrizione funebre in cui si leggeva: turba se medicorum perisse, cioè “morto per troppi medici”. Si tratta evidentemente di un tópos, ma che doveva rispecchiare una realtà effettiva, perché ritorna spesso nella letteratura latina ed è presente anche in autori tecnici, proprio nel momento in cui essi accennano a quelle che devono essere le caratteristiche deontologiche di un buon medico. Ancora nel V secolo d.C. il medico Teodoro Prisciano stigmatizza l’abitudine dei colleghi di correre in massa presso il letto del malato, discutendo accanitamente e gareggiando in eloquenza, come in un agone olimpico, mentre quello muore. (Fonte: M. Labate-P. Migliorini-M.P. Pieri, Iter antiquum. La cultura latina attraverso i testi, Marietti Scuola, 1993) Motivi analoghi si ritrovano in altri poeti satirici. Fedro, per esempio, descrive un ex calzolaio divenuto medico (I, 14); Giovenale biasima la disinvoltura con cui un certo Temisone è solito ammazzare i suoi pazienti (quot Themison aegros autumno occiderit uno, Sat. X, 221). Marziale e gli altri poeti satirici, per essere pungenti, hanno interesse a presentare casi paradossali di cambiamenti di professione, ma il quadro dei medici contemporanei che ne risulta doveva avere un riscontro nella realtà. Dato, infatti, che nella Roma del tempo non esisteva il concetto della qualificazione professionale, non era cosa insolita che uno passasse da un mestiere all’altro alla ricerca del successo. Questi “passaggi” erano agevolati anche dalle concezioni di certe scuole mediche, come quella “metodica”, che non richiedevano particolari competenze scientifico-anatomiche. (Fonte: M. Labate-P. Migliorini-M.P. Pieri, Iter antiquum. La cultura latina attraverso i testi, Marietti Scuola, 1993) Ex sutore medicus Malus cum sutor inopia deperditus medicinam ignoto facere coepisset loco et venditaret falso antidotum nomine, verbosis adquisivit sibi famam strophis. Hic cum iaceret morbo confectus gravi rex urbis, eius experiendi gratia scyphum poposcit: fusa dein simulans aqua illius se miscere antidoto toxicum, combibere iussit ipsum, posito praemio. Timore mortis ille tum confessus est, non artis ulla medicum se prudentia, verum stupore vulgi, factum nobilem. Rex advocata contione haec edidit: 'Quantae putatis esse vos dementiae, qui capita vestra non dubitatis credere, cui calceandos nemo commisit pedes?' Hoc pertinere vere ad illos dixerim, quorum stultitia quaestus impudentiae est. Come abbiamo visto, il medico esercitava in una sorta di ambulatorio (taberna), dove c’era una sala d’attesa, un locale per la visita e uno spazio in cui egli preparava le medicine. In questo ambiente il medico aveva a disposizione strumenti chirurgici e attrezzi di vario genere. Per quel che concerne la visita del malato, sappiamo che essa iniziava con l’esame del polso e proseguiva con altre indagini, come la palpazione dell’addome, l’auscultazione del torace e l’osservazione della gola: una diagnosi veniva effettuata anche con l’osservazione dell’urina e delle feci. (Fonte: M. Labate-P. Migliorini-M.P. Pieri, Iter Antiquum. La cultura latina attraverso i testi, Marietti Scuola, 1993) Naturalmente, oltre ai medici “privati”, che esercitavano liberamente la loro professione, vi dovettero essere a Roma fin dall’epoca più antica quelli che si occupavano di particolari categorie sociali. Per esempio, all’epoca dei grandi domini rurali, esistevano nelle grosse fattorie dei valetudinaria, specie di ospedali per gli schiavi, in cui essi venivano curati prontamente perché potessero tornare al lavoro prima possibile. (Fonte: M. Labate-P. Migliorini-M.P. Pieri, Iter Antiquum. La cultura latina attraverso i testi, Marietti Scuola, 1993) In ambito militare ci dovette essere ben presto una sorta di assistenza sanitaria per la cura delle ferite da guerra, che richiedevano interventi particolari e una chirurgia specifica (come per esempio quella per l’estrazione delle frecce e la sutura degli intestini), di cui ci informa solo Celso. I pazienti erano ricoverati in tende attrezzate appositamente, come degli ospedali da campo. (Fonte: M. Labate-P. Migliorini-M.P. Pieri, Iter Antiquum. La cultura latina attraverso i testi, Marietti Scuola, 1993) Dei medici stabili vi erano anche presso le scuole gladiatorie, in quanto il tipo stesso di attività che vi si svolgeva richiedeva interventi immediati e cure costanti. Un esempio illustre di questa categoria è GALENO (129-199 circa) che, all’età di ventisette anni, venne a Roma da Pergamo proprio al seguito di una compagnia di gladiatori, acquistando con questa attività una grande pratica chirurgica. (Fonte: M. Labate-P. Migliorini-M.P. Pieri, Iter Antiquum. La cultura latina attraverso i testi, Marietti Scuola, 1993) Oltre ai medici uomini, a Roma esistevano anche le figure delle obstetrīces e delle medĭcae, che si occupavano per lo più dell’aspetto ostetricoginecologico e delle malattie specificamente femminili, come per esempio la sterilità e l’isteria. L'esistenza di donne medico è testimoniata, fra l'altro, anche da diverse iscrizioni. Obstĕtrix, īcis (f.) = ostetrica, levatrice Medĭca, ae (f.) = dottoressa, infermiera In età imperiale, accanto ai medici generici, cominciano a diffondersi i medici specialisti. Troviamo traccia di ciò in un epigramma di Marziale (10.56.3-7): Eximit aut reficit dentem Cascellius aegrum, infestos oculis uris, Hygine, pilos; non secat et tollit stillantem Fannius uvam, tristia †saxorum† stigmata delet Eros; enterocelarum fertur Podalirius Hermes. Cascellio estrae oppure ottura il dente malato; tu, Igino, bruci i peli che danno fastidio agli occhi; Fannio guarisce senza inciderla una cisti in suppurazione; Eros fa sparire le terribili cicatrici degli schiavi fuggitivi; Ermes è chiamato l’Ippocrate [lett.: “il Podalirio”] delle ernie inguinali. (Trad. di Simone Beta) [Podalirio era un mitico guaritore, figlio di Asclepio] Queste specializzazioni trovano conferma nei testi medici e nelle fonti documentarie. L’oculistica, in particolare, era molto diffusa. I medici ocularii curavano malattie come la lippitūdo, “congiuntivite”, o la aspritūdo, “tracoma” (infezione batterica della congiuntiva e della cornea) con il collyrium (grecismo da Kollýrion), una pomata da spalmare sugli occhi, solidificata e venduta sotto forma di bastoncini. Sulla ‘confezione’ era impressa con un sigillo di pietra (signacŭlum medici ocularii) una specie di ‘etichetta’, contenente le seguenti informazioni: - nome del medico al genitivo - denominazione del collirio (spesso un grecismo) - scopo terapeutico o tempi di somministrazione. (Fonte: E. Degl’Innocenti, Idem Alterum. Letteratura e cultura latina, vol. 3, Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori, 2011) Vediamo alcuni esempi: Gentiani dialepidos [= διὰ λεπίδος] ad aspritudines Genziano – Collirio al metallo [rame] per il tracoma (le infiammazioni delle palpebre) Gentiani lene ad impetum lippitudinis Genziano – Collirio dolce per lo stadio acuto della congiuntivite M. Valeri Seduli euodes [= εὐώδης] ad aspritudines et cicatrices veteres Marco Valerio Sedulo – Collirio profumato per tracoma e vecchie cicatrici Gentiani herbacium (= -κιον) ad claritatem Genziano – Collirio alle erbe per schiarire la vista Gentiani diamisus (= διὰ μίσυος) ad ueteres cicatrices Genziano - Collirio al rame per vecchie cicatrici M. Valeri Seduli penicille [= penicillum] ad omne lippitudinem ex ouo Marco Valerio Sedulo – Pennello per tutti i tipi di congiuntivite. All’uovo M. Valeri Seduli diamisus crocodes (= κροκοδής) ad aspritudines ueteres Marco Valerio Sedulo - Collirio al rame e allo zafferano per vecchie infiammazioni delle palpebre M. Valeri Seduli diasmyrnes (= διὰ σμύρνης) post impetum lippitudinem ex ouo Marco Valerio Sedulo – Collirio alla mirra dopo lo stadio acuto della congiuntivite. All’uovo (Fonte: www.noctes-gallicanae.fr) Legenda del signaculum: VEGETINI DIA MISUS AD ASPRIT(udines) Un alto livello di specializzazione è raggiunto dai medici romani anche nell’odontoiatria, dal punto di vista della cura clinica (otturazioni, ecc.), dell’odontotecnica (dentiere, “ponti”), della medicina preventiva e soprattutto della chirurgia estrattiva , come possiamo ricavare da Celso: Anche nella bocca alcune malattie si curano con la mano. In essa, in primo luogo, talora, i denti si muovono, ora a causa della debolezza delle radici, ora a causa della malattia delle gengive che si prosciugano. In entrambi i casi occorre accostare alle gengive un cauterio, in modo che le tocchi leggermente, senza penetrarvi. Le gengive cauterizzate sono da spalmare con miele e lavare con vino e miele. Appena le piaghe cominciano ad essere pulite, vanno strofinati dei medicamenti in polvere, di quelli astringenti. Se però il dente fa male e si è deciso di estrarlo perché i medicamenti non sono di alcun aiuto, deve essere scalzato in modo che le gengive si distacchino, poi smosso. Sono da fare queste operazioni fino a che si muove bene: infatti un dente che sta fisso si estrae con sommo pericolo e talora la mandibola si sloga. Un siffatto modo di procedere è ancora più rischioso nei denti superiori, poiché è possibile smuovere le tempie o gli occhi. Allora, il dente va estratto, se possibile con la mano, altrimenti con le pinze. E se il dente è scavato, dapprima tal foro va riempito con filacce oppure con piombo ben preparato, in modo che sotto l’azione delle pinze non si frantumi. (Celso, De medicina, VII, 12, 1 – Trad. di U. Capitani) In altre parti della sua opera Celso illustra pratiche relative all’otorinolaringoiatria, come la tonsillectomia. In Plinio il Vecchio si trovano invece consigli circa terapie odontoiatriche di tipo farmacologico, nelle quali si coglie il retaggio di una medicina popolare. Così lo chiama Celso, mentre Scribonio Largo preferisce il termine auriscalpium: si tratta di uno strumento impiegato per rimuovere dalle orecchie cera, cerume e corpi estranei, vermi compresi, ma anche per compiere altri tipi di interventi (per esempio, la rimozione di calcoli delle vie urinarie ). Ubi vero vermes orti sunt, protrahendi auriculario specillo sunt. (Celso, De medicina,VII, 7) Datazione: 9 a.C. come terminus ante quem Provenienza: Dangstetten (Germania) – castellum romano Materiale: bronzo Lunghezza: 18,5 cm Datazione: seconda metà del I secolo d.C. Provenienza: Keulen (Germania) Lunghezza: 6,3 cm Secondo Ippocrate, tre sono gli ambiti della medicina: la farmaceutica (dal greco phármakon), che si occupa dei medicinali (ovviamente di origine naturale) la chirurgia, ovvero l’insieme delle pratiche manuali sul corpo del paziente la dietetica (dal greco díaita), ossia lo studio degli effetti sulla salute di un corretto stile di vita, con funzione sia preventiva che terapeutica. Per quanto riguarda la FARMACEUTICA, bisogna precisare che nella letteratura latina troviamo raccolte sia di ricette (compositiones di più elementi) sia di “semplici”, cioè di prodotti naturali (soprattutto erbe) usati singolarmente. Un esempio è offerto da Plinio il Vecchio, il quale consiglia il seguente rimedio per il mal di gola: Lacte bubulo aut Le infiammazioni delle caprino tonsillae et tonsille e della trachea arteriae exulceratae si curano con latte di iuvantur. Gargarizatur mucca o di capra. Una tepidum, ut est usus volta munto e expressum aut riscaldato, come è uso, calefactum. Caprinum se ne fanno gargarismi utilius cum malva tiepidi. Il latte di capra decoctum et sale è più efficace quando è exiguo. bollito con malva e un po’ di sale. Lingua exulcerationi et arteriarum prodest ius omasi gargarizatum, tonsillis autem privatim renes vulpium aridi cum melle triti inlitique, anginae fel taurinum vel caprinum cum melle, iocur melis ex aqua. Oris gravitatem ulceraque butyrum emendat. (Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, XXVIII, 189-190) [Fonte: E. Degl’Innocenti, Idem Alterum. Letteratura e cultura latina, vol. 3, Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori, 2011] Alle ulcerazioni della lingua e della trachea fanno bene i gargarismi con il succo della trippa bovina, alle tonsille invece giovano in particolare le reni di volpi, disseccate, tritate e spalmate con miele, all’angina il fiele di toro o di capra con miele, e il fegato di tasso acquatico. Il burro sana il cattivo odore e le ulcere della bocca. Lo stesso Plinio suggerisce questo rimedio per chi soffre di milza: “Dicono che sia anche un medicamento per la milza, se si mangia la menta nell’orto senza svellerla e se chi la mastica dice ad alta voce che si sta curando la milza: tutto questo va fatto per nove giorni”. Molte delle ricette tramandate da Plinio sono a base di ingredienti disgustosi, cui nella tradizioni popolare si attribuivano virtù medicamentose o addirittura poteri magici (insetti,vermi, serpi, escrementi). (Fonte: M. Labate-P. Migliorini-M.P. Pieri, Iter antiquum. La cultura latina attraverso i testi, Marietti Scuola, 1993) Vediamo qualche altro esempio, tratto dalla Naturalis Historia (libro XXX, capp. 11, 12, 14 e 17): - Baciare le narici di un mulo fa passare il raffreddore - Per curare la tonsillite e il mal di gola, si possono fare gargarismi con latte di pecora oppure … con del passito a cui siano state aggiunte scolopendre triturate e sterco di colombo - - Rimedio contro l’angina: un buon brodo di topo cotto con la verbena - E per curare le malattie polmonari? Topi (specialmente quelli africani) spellati e scottati in olio e sale. - Per chi soffre di dolori alla milza, è utile mangiare la milza di un cane tolta all’animale ancora vivo. Vediamo ora alcuni esempi di prodotti naturali impiegati nella medicina romana popolare: Il laserpicium, il "silfio" dei Greci, è la più importante delle piante medicinali usate nell’antica Roma, “uno dei doni più preziosi della natura” (Plinio il Vecchio). Il laserpizio, oggi estinto, secondo alcuni sarebbe stato una specie di “finocchio gigante”. Dalle sue radici si estraeva un succo, il laser, ritenuto un toccasana per innumerevoli malesseri. Sebbene il laserpizio crescesse in Media, in Siria, in Libia e in Armenia, Plinio afferma che la specie più pregiata era quella cirenaica. I Romani lo ritennero talmente indispensabile, che con il suo commercio fecero arricchire la città di Cirene, ma determinarono la rapida estinzione della pianta. [Antica moneta d’argento di Cirene raffigurante uno stelo di silfio] Si riteneva che curasse diverse tipi di malattie: il raffreddore, la tosse, la gola irritata, la febbre, l'indigestione, i dolori alle articolazioni, le verruche, l’avvelenamento, le scottature, il mal di cuore, l’epilessia, l’idropisia, la pleurite, ecc. Ma soprattutto, secondo Plinio il Vecchio, era utilizzato come contraccettivo. Inoltre faceva ricrescere i capelli a chi soffriva di alopecia. Insomma, per i Romani il laserpizio era una medicina dai poteri miracolosi. Pare vi fosse una sola malattia che il laserpizio non riusciva a guarire: il mal di denti! (Fonti: Wikipedia; www.pompeiisites.org) Lo zafferano (crocus satīvus) era ritenuto idoneo per la cura di ulcere, infiammazioni, suppurazioni, avvelenamenti. Si riteneva inoltre che avesse proprietà antinfiammatorie, diuretiche e afrodisiache. (Fonte: www.sipps.it) L’aglio, presente in un gran numero di ricette tramandate da Plinio, era un rimedio per varie patologie (ad esempio, morsi di serpente, emicrania, ulcere, epilessia). (Fonte: www.pompeiisites.org) Il papavero da oppio (Papāver somnifĕrum) era largamente utilizzato, principalmente come antidolorifico. Il succo essiccato (oppio grezzo) estratto dalle sue capsule non ancora mature, dosato in gocce, veniva mescolato ad altre erbe e sostanze, e somministrato in pillole o disciolto nel vino, nello zibibbo o nell'acqua. (Fonte: www.romanoimpero.com) La brassĭca, cioè il cavolo, in tutte le sue varietà, era, fra l’altro, un ottimo rimedio per le malattie degli occhi. Bagnare gli occhi o la testa con l’urina di chi avesse mangiato cavolo era ritenuto efficace contro i disturbi visivi e le emicranie, mentre lavare i bambini con questo stesso “liquido” serviva a irrobustirli. M. Labate-P. Migliorini-M.P. Pieri, Iter antiquum. La cultura latina attraverso i testi, Marietti Scuola, 1993) (Fonte: Lessico specifico, costituito per lo più da grecismi, spesso riferiti a una parte anatomica, in composizione con un altro elemento (-alghía, “dolore”, -tomía, “taglio”, ecc.) kephalé, “testa” kardía, “cuore” stóma, “bocca” ophthalmós, “occhio” glaucōma, “glaucoma”, “cateratta” collyrĭum, “collirio” emplastrum, “impiastro” (unguento medicamentoso da apporre su ferite e piaghe). Tali termini specifici possono anche essere formati con suffissi di origine greca (-ma, -sis, -ismus, ecc.). Tecnicismi, presenti o come termini propri del linguaggio settoriale, o come termini della lingua comune usati con un significato particolare. Esempi del secondo tipo sono, ad esempio loci (per indicare le parti del corpo) o causa (per indicare la malattia, con ellissi del genitivo morbi); a questo valore tecnico di causa si riallaccia il derivato causarĭus, a, um, per indicare chi è facilmente soggetto a malattie (cfr. l’italiano cagionevole da cagione, ‘causa’) Sintassi caratterizzata da: - periodi piuttosto brevi, per lo più paratattici - costruzioni in funzione prescrittiva (perifrastica passiva, congiuntivo esortativo, oportet, opus est, ecc.) - ellissi del predicato e del soggetto Scarsa cura dello stile (con l’eccezione di Celso) Uso ripetuto di aggettivi o participi sostantivati (ad esempio, fracta o contusa usati isolatamente, con il termine membra sottinteso). (Fonte: www.rivistazetesis.it) M. Bettini, a c. di, Limina. Letteratura e antropologia di Roma antica, vol. I, La Nuova Italia, 2005 S. Carollo, La vera storia di 400 frasi celebri e modi di dire, Giunti-Demetra, 2008 G.B. Conte-E. Pianezzola-G. Ranucci, Il dizionario della lingua latina, Le Monnier, 2000 [per le schede lessicali] E. Degl’Innocenti, Idem Alterum. Letteratura e cultura latina, vol. 3, Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori, 2011 M. Labate-P. Migliorini-M.P. Pieri, Iter antiquum. La cultura latina attraverso i testi, Marietti Scuola, 1993 A.M. Lanini, Letture di autori latini, Carlo Signorelli Editore, 1995 [per le schede lessicali] Si precisa che tutte le immagini sono state tratte da siti internet. Si resta a disposizione per eventuali integrazioni o rettifiche.