TRAGEDIA La tragedia greca è un genere teatrale nato nell`antica
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TRAGEDIA La tragedia greca è un genere teatrale nato nell`antica
TRAGEDIA La tragedia greca è un genere teatrale nato nell'antica Grecia e strettamente connesso con l'epica, ma in cui il mythos (μῦθος, parola, racconto) si fonde con l'azione, cioè con la rappresentazione diretta (δρᾶμα, dramma, deriva da δρὰω, agire), in cui il pubblico vede con i propri occhi i personaggi che agiscono autonomamente sulla scena. Raggiunse la sua forma più significativa nell'Atene del V secolo a.C. dove i più importanti autori furono Eschilo, Sofocle ed Euripide dei quali ci sono giunte parecchie opere. Scrive Aristotele nella Poetica che la tragedia nasce all'inizio dall'improvvisazione, precisamente "da coloro che intonano il ditirambo", un canto corale in onore di Dioniso. Gli studiosi hanno formulato una serie di ipotesi riguardo al modo in cui si sia compiuta l'evoluzione dal ditirambo alla tragedia. In generale, si ritiene che ad un certo momento, dal coro che intonava questo canto, il corifeo, ossia il capocoro, si sarebbe staccato e avrebbe cominciato a dialogare con esso, diventando così un vero e proprio personaggio. In seguito sarebbe stato aggiunto un ulteriore personaggio, che non cantava ma parlava, chiamato hypocritès (ὑποκριτής, ossia "colui che risponde", parola che in seguito prenderà il significato di attore). Probabilmente, il dialogo che in questo modo nacque tra attore, corifeo e coro diede vita alla tragedia. Da canto epico-religioso, il ditirambo diventa teatro. La tradizione attribuisce la prima rappresentazione tragica, avvenuta nel 534 a.C. nell'ambito delle feste chiamate Dionisie, a Tespi che, secondo Aristotele, introdusse il primo attore (ὑποκρίτης). Sarebbe stato Eschilo a fissare le regole fondamentali del dramma tragico. Da Aristotele gli viene attribuita l'introduzione: 1) del secondo attore 2) della trilogia, che attraverso tre tragedie raccontava un'unica lunga vicenda. Egli esprime, inoltre, una religiosità molto intensa, che ha il suo perno in Zeus (che in Eschilo è sempre portatore del modo corretto di ragionare ed agire). Sofocle poi 1) introdusse un terzo attore 2) aumentò a quindici il numero dei coreuti 3) abbandonò la trilogia 4) rese più complesse le trame e sviluppò personaggi più umani, nei quali il pubblico potesse identificarsi. Sofocle esprime una concezione più pessimista della vita, descrivendo il mondo come ingiusto e privo di luce. Nell'Edipo a Colono, ad esempio, il coro ripete «la sorte migliore è non nascere». Gli eventi che schiacciano le esistenze degli eroi non sono in alcun modo spiegabili o giustificabili o evitabili, e in questo possiamo vedere l'inizio di una sofferta riflessione sulla condizione umana, il che rende più attuale l’opera di questo autore. Le peculiarità che distinguono le tragedie di Euripide da quelle degli altri due drammaturghi sono: 1) la maggiore attenzione posta nella descrizione psicologica. L'eroe descritto nelle sue tragedie non è più il risoluto protagonista dei drammi di Eschilo e Sofocle, ma spesso una persona problematica ed insicura, non priva di conflitti interiori. Le protagoniste femminili dei drammi, come Andromaca, Fedra e Medea, sono le nuove figure tragiche di Euripide, il quale ne tratteggia la tormentata sensibilità e le pulsioni irrazionali che si scontrano con la ragione e le portano ad agire in modo estremo. 2) l'introduzione del deus ex machina. L'attore che impersonava un dio veniva calato dall'alto, simulando l'intervento di un dio che scende dal cielo; difatti, l'espressione deus ex machina significa proprio "dio (che viene) da una macchina". L'intervento ex machina degli dei veniva spesso usato per risolvere una situazione intricata e apparentemente senza possibile via di uscita. 3) la progressiva riduzione dello spazio riservato al coro, Dai più di quattrocento versi nelle Coefore di Eschilo (più di un terzo di un insieme di 1076 versi) si passa a poco più di 200 su 1360 nell'Elettra di Euripide. 4) una maggiore libertà nell'ideare le trame delle tragedie, che presentano più autonomia rispetto alle vicende raccontate dal mito. IPPOLITO: è una tragedia che esemplifica alcune delle precedenti caratteristiche. Il protagonista è figlio di Teseo, re di Atene, ed è un giovane che si dedica esclusivamente alla caccia e al culto di Artemide, non mostrando nessun interesse per le donne. Per tale motivo Afrodite, dea dell'amore, decide di punirlo suscitando in Fedra (seconda moglie di Teseo e quindi matrigna di Ippolito) una insana passione per il giovane. Non riuscendo più a tenere dentro di sé tale sentimento, la donna si confida con la propria nutrice che, tentando in buona fede di aiutare Fedra, rivela il segreto ad Ippolito, facendogli giurare di non parlarne con nessuno. Tuttavia la reazione del giovane è rabbiosa e offensiva, al punto che Fedra, sentendosi umiliata, decide di uccidersi, lasciando però per vendetta un biglietto in cui accusa Ippolito di averla violentata. Quando Teseo scopre il cadavere della moglie ed il biglietto, invocando Poseidone lancia un anatema mortale nei confronti di Ippolito. Il giovane dice al re di non avere alcuna responsabilità, ma non può raccontare l'intera storia perché vincolato dal giuramento fatto alla nutrice. Teseo però non gli crede e la maledizione puntualmente si compie: mentre Ippolito sta lasciando la città su un carro, un mostruoso toro uscito dal mare spaventa i cavalli, che, imbizzarriti, fanno schiantare il carro contro le rocce. Appare quindi Artemide ex machina. La dea espone a Teseo come si sono svolti i fatti, dimostrando quindi l'innocenza di Ippolito. Il re si rivolge allora al figlio, ottenendone in punto di morte il perdono. ARGOMENTI Gli argomenti principali trattati nelle tragedie sono quelli della mitologia greca. I miti più ricorrenti erano soprattutto la guerra di Troia, le imprese di Eracle, il ciclo tebano (in particolare la dinastia di Edipo) e la famiglia degli Atridi. Questa ricorrenza di temi mitici, che potrebbe far pensare ad una certa ripetitività, veniva risolta dagli autori ricorrendo alle numerose varianti del mito stesso, o semplicemente dando alla vicenda sviluppi inattesi. Ad esempio, le uccisioni di Clitennestra e di Egisto non seguono lo stesso ordine nei tre tragici: in Eschilo Elettra non prende parte all'assassinio, in Sofocle è alleata del fratello Oreste, infine in Euripide è l'artefice della morte della madre. Nonostante la pluralità dei soggetti rappresentati, si possono enucleare alcuni motivi più ricorrenti. Uno di questi è la vendetta, sentimento cardine non solo della Medea di Euripide, in cui Medea per vendicarsi del marito Giasone uccide i propri figli, ma anche della citata Orestea di Eschilo. Un altro tema è quello della colpa che non sempre è vera o consapevolmente commessa, come ad esempio nell'Edipo re, in cui il protagonista subisce la sorte tragica nonostante avesse fatto tutto il possibile per evitarla (e in ciò consiste, in effetti, l'aspetto più propriamente tragico della vicenda). Questo tema è presente anche nell'Antigone sofoclea (v. sotto) o nel citato Ippolito euripideo. Altro motivo ricorrente è quello della follia (Eracle di Euripide, Aiace di Sofocle). AIACE: Achille è morto e i due Atridi, Agamennone e Menelao assegnano le sue armi a Ulisse. Però Aiace Telamonio, in quanto amico del Pelide e secondo solo a lui per forza e valore, è convinto che gli dovessero essere assegnate di diritto. Il dramma si apre con la collera di Aiace, reso pazzo da Atena. Credendo di scatenarsi sui suoi compagni, Aiace in realtà massacra i buoi e i montoni degli Achei. La dea esorta Ulisse ad approfittare della situazione per vendicarsi, ma Ulisse rifiuta, non volendo infierire, e dando voce al pensiero sofocleo riguardo alla condizione dell'uomo. Tornato in sé, e pieno di vergogna, Aiace decide di riscattare il suo onore e la reputazione, la τιμή (tīmé, l'onore ed il rispetto su cui verteva l'istituto sociale della cosiddetta "società della vergogna", tipico delle istituzioni più arcaiche) della sua famiglia con il suicidio, che gli avrebbe garantito il κλέος (kléos, la gloria imperitura dopo la morte). La moglie tenta di dissuaderlo. L'eroe finge di acconsentire e si ritira in un bosco presso la riva del mare. Il dramma si chiude con la scoperta di Aiace morto e la disputa tra suo fratello Teucro, Menelao e Agamennone. Il re atride rifiuta che gli venga data sepoltura, Teucro al contrario vuole onorare il fratello. Determinante è l'intervento di Ulisse: nonostante la disputa avuta con Aiace, consiglia Agamennone di lasciare che Teucro renda l'ultimo omaggio al defunto. Aiace rappresenta il vero eroe omerico, fedele alle leggi arcaiche dell'onore, superiore ad ogni compromesso. Non vuole piegarsi, e la coerenza che lo muove nelle sue azioni è inderogabile, anche a costo di annientarsi. La tragicità di Aiace e di molti personaggi sofoclei è nel conflitto interiore, tra l'ideale che hanno e l'impossibilità di realizzarlo che gli risulta un limite inaccettabile. Egli non si sente più parte del mondo in cui vive, il suo modello appartiene al passato, e questo determina la sua solitudine, anche nella morte. Sofocle mette in scena l'impotenza dell'uomo di fronte ai cambiamenti profondi del suo mondo, esaltando nello stesso tempo la possibilità di un rifiuto tanto radicale come quello che Aiace compie uccidendosi. Libertà e necessità sono le due polarità tra cui si muovono i personaggi di alcune tragedie di Sofocle (oltre a questa, ad esempio, Antigone). In esse si consuma il confronto tra le costrizioni imposte dall'esterno e la volontà di autodeterminazione del singolo. Il protagonista si trova ad una sorta di "bivio", ovvero a due decisioni diametralmente opposte, di cui una generalmente eroica (che viene prediletta dall'eroe, ma che lo porta poi ad una brutta fine) e l'altra (propugnata da un personaggio molto vicino al protagonista che in genere tenta di dissuaderlo dal compiere la sua scelta) conforme al modo comune di pensare della gente; in questo caso le due scelte cui si trova di fronte Aiace sono quella eroica del suicidio per riottenere la τιμή e quella aneroica di non suicidarsi, avanzata dalla moglie. Sofocle esprime un radicale pessimismo sulla condizione umana. Ciò che rimane all'uomo, la sua unica libertà, è la sua resistenza, la sua determinazione a ridiventare padrone del proprio destino nell'unico modo possibile: il gesto tragico. ANTIGONE: dopo l’allontanamento di Edipo da Tebe, i suoi due figli Eteocle e Polinice decidono di governare ad anni alterni, ma dopo il primo anno Eteocle non vuole passare il trono e così scoppia una guerra in cui entrambi muoiono. Tuttavia il corpo di Eteocle è onorato come difensore della città, mentre quello di Polinice è lasciato insepolto, per ordine del nuovo re Creonte. Antigone, figlia di Edipo, decide di dare sepoltura al cadavere del fratello Polinice, anche dopo che la sorella Ismene per viltà non l’accompagna nell’impresa. Scoperta, viene condannata dal re a vivere il resto dei suoi giorni imprigionata in una grotta. In seguito alle profezie dell’indovino Tiresia (che afferma che la città è impura a causa della mancata sepoltura di Polinice) e alle suppliche del coro, Creonte decide di liberarla, ma Antigone nel frattempo si è impiccata. Questo porta al suicidio prima il figlio di Creonte, Emone (promesso sposo di Antigone), e poi la moglie, Euridice. Creonte rimane solo. Sofocle illustra in questo dramma il conflitto tra leggi divine e leggi umane. Le prime sono difese da Antigone, le altre da Creonte. Il punto di forza del ragionamento di Antigone si fonda sul sostenere che un decreto umano (il νόμος) non può non rispettare una legge divina (gli ἄγραπτα νόμιμα). Al contrario, il divieto di Creonte è l'espressione di una volontà tirannica, basata sul principio del νόμος δεσπότης, ovvero della legge sovrana; egli infatti osa porre tali leggi al di sopra dell'umano e del divino. Creonte appare dunque come un despota chiuso nelle sue idee e timoroso di apparire debole di fronte a una donna. Ogni tipo di disobbedienza alle sue idee gli appare come un’opposizione politica. Tale personaggio, a un ateniese del V secolo a.C., doveva apparire come la tipica figura del sovrano dispotico e non illuminato, incapace di prevedere le conseguenze delle proprie azioni e, soprattutto, della sua collera. Egli ragiona forse in maniera corretta quando afferma di dover anteporre la legge agli affetti familiari (Antigone e Polinice erano entrambi suoi nipoti), ma, da lì, arriva a pretendere di contravvenire anche a leggi non scritte, sentite come divine. Soltanto alla fine Creonte riconosce i suoi errori, ma solo a causa della catastrofe che ha provocato con il proprio comportamento. In una società come quella dell'antica Grecia dove la politica (gli affari che concernono la città) sono esclusiva degli uomini, il ruolo di dissidente della giovane donna Antigone si carica di molteplici significati, ed è rimasto anche dopo 2500 anni un esempio sorprendente di ricchezza drammaturgica. Creonte trova intollerabile l’opposizione di Antigone non solo perché si contravviene a un suo ordine, ma anche perché a farlo è una donna. Le azioni di Antigone potrebbero anche essere considerate un atto di hybris, di tracotanza. Nella sua ribellione, però, la donna risulta essere una figura meno dirompente di altre eroine come Clitennestra o Medea poiché la sua azione non è rivolta a scardinare le leggi su cui si fonda la polis, ma anzi ad applicare le leggi divine per tutelare i suoi affetti familiari. In tutto il corpus delle tragedie greche a noi note, solo una non tratta un argomento mitico, ma storico: I Persiani di Eschilo. Venne rappresentata nel 472 a.C. ad Atene, otto anni dopo la battaglia di Salamina, quando la Persia era ancora un pericolo per il mondo greco. STRUTTURA La tragedia greca è strutturata secondo uno schema rigido. 1) la tragedia inizia generalmente con un prologo (da prò e lògos, discorso preliminare), in cui uno o più personaggi introducono il dramma e spiegano l'antefatto; 2) segue la pàrodos (ἡ πάροδος), che consiste in un canto del coro effettuato mentre esso entra in scena attraverso i corridoi laterali, le pàrodoi, posti tra la cavea (gradinate per il pubblico) ed il palco, per restare per tutta la durata della rappresentazione nell'orchestra che era situata tra le gradinate e la scena. Il suo nome deriva dal greco ορχήομαι (orchéomai, danzare), a sottolineare come l'esibizione scenica del coro comprendesse anche la danza oltre che recitativi e musica; 3) l'azione scenica vera e propria si dispiega quindi attraverso tre o più episodi (epeisòdia), intervallati dagli stasimi, degli intermezzi in cui il coro commenta o illustra la situazione che si sta sviluppando sulla scena (o, più raramente, compie delle azioni); 4) la tragedia si conclude con l'esodo (ἔξοδος), in cui si mostra lo scioglimento della vicenda. ATTORI Tutti i ruoli, senza eccezione, erano interpretati da uomini adulti. L'attore principale ("protagonista", ossia proto-agonista, "primo competitore") aveva in genere la maggiore visibilità. Gli attori portavano una maschera, generalmente in tessuto o intagliata nel legno, che copriva il viso e gran parte della testa, compresi i capelli, mentre erano libere le aperture per gli occhi e la bocca. Le maschere variavano per l'interpretazione di ruoli diversi ricoperti dallo stesso attore e per le emozioni che si dovevano esprimere. La dotazione era completata da un costume ornato e dagli attributi del personaggio (lo scettro del re, la spada del guerriero, la corona dell'araldo, l'arco di Apollo, ecc). La caratteristica principale dell'attore era senza dubbio la sua voce, che richiedeva forza, chiarezza, buona dizione, ma anche la capacità di esprimere emozioni varie, visto che mancava la mimica facciale. CORO Come si è detto, una delle caratteristiche principali della tragedia è la distinzione, nata dal ditirambo, tra i personaggi interpretati da attori ed il coro. Quest'ultimo è formato da alcuni coreuti (originariamente dodici, in seguito portati a quindici da Sofocle) che eseguivano passi di danza cantando o recitando con accompagnamento musicale. Essi erano guidati dal corifeo, che spesso si esibiva autonomamente, ribadendo quanto detto dal coro stesso o parlando in sua vece. Il coro rappresenta un personaggio collettivo, che partecipa alla vicenda tanto quanto gli attori stessi commentando la vicenda, o interloquendo con l'attore. Secondo Aristotele, il coro "deve essere considerato uno degli attori, deve essere parte del tutto e deve contribuire all'azione”. A titolo esemplificativo, nell'Edipo re di Sofocle il coro è composto da anziani cittadini di Tebe. Come già accennato, nel tempo il ruolo del coro si riduce. Il coro indossava abiti quotidiani e maschere non troppo vistose quando rappresentava comuni cittadini, oppure costumi ben più elaborati se ad essere rappresentati erano personaggi mitologici o stranieri. IL TEATRO NELLA SOCIETA’ La tragedia antica non era tanto uno spettacolo, come lo intendiamo oggi, ma piuttosto un rito collettivo della pòlis. Data la regolarità delle rappresentazioni e la grande partecipazione del pubblico, il teatro assunse la funzione di cassa di risonanza per le idee, i problemi e la vita politica e culturale dell'Atene democratica: la tragedia parla di un passato mitico, ma il mito diventa immediatamente metafora dei problemi della società ateniese. Seguono due illuminanti esempi. LE TROIANE: l'opera, come anche l'Elena e le Supplici tutte di Euripide, è venata da un evidente antimilitarismo. Troia è caduta, gli uomini sono stati uccisi e alle donne troiane si apre la prospettiva di trascorrere nella schiavitù il resto dei loro giorni. Risulta evidente la centralità del punto di vista dei vinti e non dei vincitori: questo tipo di prospettiva (già adottato da Eschilo nei Persiani) non vuole evidenziare l’eroismo di chi vince, ma la disperazione dei vinti, con lo scopo di gettare luce sulle sofferenze portate dai conflitti. C'è però un fatto che differenzia le Troiane dalle altre tragedie antimilitariste di Euripide: l'opera non è una generica condanna della guerra, ma fa riferimento ad un preciso atto bellico compiuto da Atene pochi mesi prima della rappresentazione della tragedia. Nel 416 a.C., in piena guerra del Peloponneso, Atene aveva chiesto all’isola di Melo (oggi Milo) di aderire alla lega delio-attica, sottomettendosi così alla dominazione ateniese. I Meli avevano rifiutato, perché erano in amicizia con Sparta e perché erano indipendenti da 800 anni. Avevano però offerto ad Atene la loro neutralità nella guerra e la possibilità di intrecciare rapporti di amicizia. Gli Ateniesi, temendo che un atteggiamento troppo morbido verso Melo potesse dare un’impressione di debolezza, avevano attaccato l’isola, passando per le armi i suoi uomini e vendendo come schiavi le donne e i bambini. Pochi mesi dopo, Euripide mette in scena, davanti agli stessi autori di quell'atto, un'opera che ripropone una situazione analoga a quella che si era creata a Melo: tutti gli uomini sono stati uccisi, e le donne e i bambini vengono ridotti in schiavitù. Al tragediografo va riconosciuto il coraggio di aver rappresentato un'opera che criticava in maniera chiara e dura lo spietato imperialismo della sua città. LE RANE: questa commedia di Aristofane mostra l’importanza della tragedia nella vita di Atene. Dioniso, dio del teatro, decide di raggiungere l’Ade per riportare in vita Euripide, morto così come Eschilo e Sofocle, poiché i tragediografi più giovani non hanno la stessa creatività e lo stesso genio. Di conseguenza, riportare Euripide in vita è l’unico modo per salvare la tragedia dal declino. Nell’Ade Euripide viene trovato mentre è nel mezzo di un litigio con Eschilo a proposito di chi sia il miglior tragediografo di tutti i tempi. Comincia allora una gara, con Dioniso come giudice: i due autori citano a turno versi delle loro tragedie, e tentano di sminuire quelli del contendente. Alla fine viene portata in scena una bilancia e ognuno dei due autori viene invitato a recitare alcuni suoi versi; la citazione migliore farà pendere la bilancia in favore del proprio autore. Eschilo esce vincitore da questa gara, ma a quel punto Dioniso non sa più chi sia meglio riportare in vita. Decide infine che sceglierà l’autore che darà il miglior consiglio su come salvare Atene dal declino. Euripide dà una risposta generica e poco comprensibile (“Se adesso va tutto male, forse facendo tutto il contrario ce la caveremo”), mentre Eschilo dà un consiglio più pratico (“Le navi sono le vere risorse”), sicché Dioniso decide di riportare in vita quest’ultimo. Prima di andare, però, Eschilo cede il trono di miglior tragediografo a Sofocle, raccomandandogli di non lasciarlo mai ad Euripide. La commedia va contestualizzata: nel 405 a.C. Atene stava attraversando uno dei periodi più difficili della sua storia. La guerra del Peloponneso stava per finire, e la polis era sul punto di perdere la sua supremazia sul mondo greco (soltanto un anno dopo, infatti, Atene si sarebbe arresa a Sparta). Per questo motivo, la città viveva una situazione di forti tensioni interne e nessuno poteva prevedere quale sarebbe stato il destino di Atene se la città fosse uscita sconfitta dalla guerra. Inoltre, i due più grandi tragediografi ancora in vita, Sofocle ed Euripide, erano entrambi morti nel 406 a.C., cosicché sembrava che Atene fosse ormai destinata a perdere il suo primato tanto militare quanto culturale. In quest’atmosfera Aristofane scrive una commedia profondamente nostalgica, in cui riportare in vita i morti è l’unico modo per ridare ad Atene gli splendori del passato. Le rane è piena di riferimenti a questa difficile situazione, tanto che il viaggio di Dioniso, che inizialmente è descritto come un tentativo di salvare la tragedia, con il progredire della vicenda diventa anche un tentativo di salvare Atene. La decadenza di Atene è così evidente che nell’Ade gli Ateniesi vengono chiamati i morti di lassù. Il viaggio di Dioniso assume dunque questa doppia valenza di possibilità di salvezza per il teatro e per Atene, ed è lo stesso Dioniso a dirlo: “Statemi dunque a sentire: io sono sceso quaggiù a cercare un poeta. Per farne che, direte voi? Perché la nostra città possa salvarsi e mantenere il suo teatro”. È evidente la preferenza di Aristofane per Eschilo. Infatti quando Euripide critica lo stile complesso e talvolta oscuro di Eschilo, quest’ultimo risponde che attraverso le sue tragedie, per esempio I sette contro Tebe o I Persiani, ha dato il suo contributo a formare dei buoni cittadini, mentre Euripide, mettendo in scena personaggi che erano non modelli di virtù, ma figure dotate di pregi e di grandi difetti, ha contribuito alla decadenza della città. «ESCHILO: Il poeta deve nascondere il male, non rappresentarlo e insegnarlo. Come c’è il maestro per i ragazzi, così c’è il poeta per gli adulti. È del bene che bisogna parlare.» (Aristofane, Le rane, vv. 1053-1056) Agli spettacoli la popolazione partecipava in massa e forse già nel V secolo a.C. erano ammessi anche donne, bambini e schiavi. La passione dei Greci per le tragedie era travolgente, tanto che fu stabilito un prezzo d'ingresso agevolato, e un fondo speciale per pagare il biglietto ai meno abbienti. Il teatro, per gli antichi Greci, era competitivo: alcuni grandi autori si sfidavano per ottenere la vittoria. Ogni anno, alla fine di marzo, ad Atene si svolgevano le Grandi Dionisie, istituite dal tiranno Pisistrato in onore del dio Dioniso, all'interno delle quali si organizzavano le manifestazioni teatrali. Tale festa era organizzata dallo Stato e l’arconte eponimo, appena assunta la carica, provvedeva a scegliere tre dei cittadini più ricchi ai quali affidare l'allestimento di uno spettacolo teatrale. Nell'Atene democratica in effetti i cittadini più abbienti erano tenuti alla liturgia (servizio imposto dalla legge ai cittadini più ricchi per pagare opere pubbliche in favore del popolo). Si distinguevano le liturgie civili e le liturgie militari. Al primo gruppo appartenevano, ad esempio, proprio le coregie legate all'allestimento di un coro e quindi al sostentamento dei loro membri, in vista di un concorso teatrale. Nel secondo gruppo rientravano le trierarchie, consistenti nell'armamento di una trireme ed nel sostentamento del suo equipaggio per un anno. Alla fine dei tre giorni di gara si attribuiva un premio al miglior autore, al miglior attore e al miglior coro. Il sistema utilizzato prevedeva che le giurie fossero composte da dieci persone (non esperti, ma cittadini comuni estratti a sorte). Al termine delle rappresentazioni, ogni giurato poneva in un'urna una tavoletta con scritto il nome del vincitore prescelto. Infine venivano estratte a sorte cinque tavolette, e solo in base a quelle veniva proclamato il vincitore. In questo modo la classifica finale era influenzata dalla scelta dei giurati, ma anche dalla fortuna. La fama che le Dionisie avevano raggiunto era tale che numerose persone provenivano anche da altre città per assistere alle rappresentazioni. Pare che il teatro di Dioniso, dove venivano messi in scena gli spettacoli, potesse ospitare tra i 14.000 e i 17.000 spettatori. Un'altra festività nella quale venivano rappresentate oltre alle commedie anche opere tragiche era quella delle Lenee, che si tenevano nel mese di gennaio. Anche qui le rappresentazioni avvenivano al teatro di Dioniso, ma il pubblico era esclusivamente ateniese, a causa delle condizioni climatiche invernali, avverse ai viaggi. LA POETICA DI ARISTOTELE Il primo studio critico sulla tragedia è contenuto nella già citata Poetica di Aristotele. In essa troviamo elementi fondamentali per la comprensione del teatro tragico, in primis i concetti di mimesi (μίμησις, dal verbo μιμεῖσθαι, imitare) e di catarsi (κάθαρσις, purificazione). La natura viene imitata nell’opera d’arte e gli eventi terribili che si susseguono sulla scena fanno sì che lo spettatore si immedesimi negli impulsi che li generano, da una parte empatizzando con l'eroe tragico, dall'altra condannandone la malvagità o semplicemente l’errore che si manifesta nella hybris (ὕβρις - lett. "superbia" o "prevaricazione", cioè l'agire contro le leggi divine, che porta il personaggio a compiere il crimine). La nèmesis finale rappresenta la punizione che fa nascere nello spettatore proprio quei sentimenti di pietà e di terrore che permettono all'animo di purificarsi da tali passioni negative che ogni uomo possiede. La catarsi finale, per Aristotele rappresenta la presa di coscienza dello spettatore, che pur comprendendo i personaggi, si distacca dalle loro passioni per raggiungere un livello superiore di saggezza. La caduta dell'eroe tragico è necessaria, perché da un lato possiamo ammirarne la grandezza e dall'altra possiamo noi stessi trarre profitto dalla storia. Aristotele affermava che l'azione dell'epopea e quella della tragedia differiscono nella lunghezza "perché la tragedia fa tutto il possibile per svolgersi in un giro di sole o poco più, mentre l'epopea è illimitata nel tempo". A partire da queste considerazioni, verso il XVI secolo venne elaborato il canone delle tre unità: di tempo (la vicenda si svolge in un giorno), di azione (deve esserci un solo tema portante) e di luogo (l'ambientazione deve essere una sola per tutta l'opera). Tali unità sono state considerate elementi fondamentali del teatro fino ad un paio di secoli fa, benché le stesse tragedie greche non sempre le rispettino (solo a titolo di esempio, la tragedia Eumenidi di Eschilo infrange l’unità di tempo e di luogo). In ogni caso, l'uso delle unità è sempre stato alquanto discontinuo; infatti un autore del calibro di Shakespeare non ne fa assolutamente uso. Come data convenzionale della fine dell'utilizzo delle tre unità può essere preso il 1822, anno in cui il Manzoni pubblica la sua Lettre à monsieur Chauvet sur l’unité de temps et de lieu dans la tragédie.