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il senso del tragico e la tragedia
Associazione Italiana di Cultura Classica — Delegazione di Cuneo Istituto di Istruzione Superiore "Beccaria-Govone" di Mondovì IL SENSO DEL TRAGICO E LA TRAGEDIA ATTI DEL CONVEGNO SALA GHISLIERI, MONDOVÌ (CN) 27 FEBBRAIO, 6 E 13 MARZO 2009 a cura di Stefano Casarino Amedeo Alessandro Raschieri Copyright © MMX ARACNE editrice S.r.l. www.aracneeditrice.it [email protected] via Raffaele Garofalo, 133/A–B 00173 Roma (06) 93781065 ISBN 978–88–548–3066–0 I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore. I edizione: febbraio 2010 Indice Stefano Casarino Il senso del tragico e la tragedia . . . . . . . . . . Aldo Intagliata Lo scontro tra cultura magico-primitiva e ragione Lia Raffaella Cresci Fortuna e crisi del genere tragico . . . . . . . . . Gian Giacomo Amoretti Vittorio Alfieri: il tragico fra mito e politica . . . Valter Boggione Il romanticismo e la morte della tragedia . . . . . Giorgio Barberi Squarotti La tragedia moderna di Gabriele d’Annunzio . . Giannino Balbis Scrivere tragedia oggi . . . . . . . . . . . . . . . Michele Rados La rappresentazione della tragedia . . . . . . . . Sergio Giuliani Il concetto di “tragico” nella contemporaneità . . Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3 . 9 . 27 . 35 . 49 . 63 . 89 . 107 . 115 . 119 . 125 Stefano Casarino Il senso del tragico e la tragedia Premessa Nel controverso romanzo di Jonathan Littel, Le benevole 1 — caso letterario in Francia, vincitore del Prix Gouncourt e del Grand Prix du Roman de l’Académie Française; decisamente più modesta la sua risonanza in Italia, con stroncature critiche anche feroci — possiamo leggere: Ci sono tre possibili atteggiamenti di fronte a questa assurda vita. Prima di tutto l’atteggiamento della massa, oi polloi, che semplicemente si rifiuta di vedere che la vita è uno scherzo. Loro non ridono, ma lavorano, accumulano, masticano, defecano, fornicano, si riproducono, invecchiano e muoiono come buoi aggiogati all’aratro, da idioti così come hanno vissuto. È la maggioranza. Poi c’è chi, come me, sa che la vita è uno scherzo e ha il coraggio di riderne [. . . ] Infine [. . . ] c’è chi sa che la vita è uno scherzo, ma ne soffre. Qui, dunque, vengono colti gli atteggiamenti di fondo nei confronti dell’umano esistere: la stolta indifferenza della massa, l’aristocratico cinismo di qualcuno, la lucida disperazione di altri. Ho citato questo libro perché costituisce un esempio, sin dal titolo col suo rimando alle Eumenidi eschilee, di come la tragedia greca continui ad ispirare e venga utilizzata ancor’oggi — in modo a 1 Littell (2007). 9 10 Stefano Casarino volte improprio, persino disonesto come nel caso di quest’opera. Se è vero — ma lo è? — che non si scrivono più tragedie, comunque il senso del tragico non è sparito dalla coscienza occidentale, continua a corrispondere ad un bisogno autentico, anima opere e suscita interrogativi pressanti, che vanno aldilà dello specifico letterario. La tragedia: genere letterario e riflessione filosofica Sui banchi del liceo e nelle aule universitarie la tragedia è oggetto di studio come genere letterario, tutto sommato facilmente identificabile e classificabile, dalla testimonianza della Poetica aristotelica al saggio di G. Steiner, Morte della tragedia 2 . È un ricco terreno di ricerche e di riflessioni che consente scorribande nei secoli e nelle diverse culture: molto di ciò comparirà negli interventi che seguiranno. Ma vi è un’altra strada che si può percorrere, intrapresa da non molto tempo: quella dell’approccio filosofico, il tentativo di inquadrare il tragico come «qualcosa di essenziale per la comprensione del mondo»3 . Strada particolarmente battuta nel mondo germanico da Schelling e da Hegel in poi e di una certa attualità oggi, come risulta dalle pubblicazioni recenti dedicate all’argomento. Per me resta imprescindibile il contributo di Karl Jaspers4 : «la concezione tragica originaria è un interrogare e un riflettere in immagini ; inoltre questa coscienza tragica contiene sempre il superamento del tragico stesso, [. . . ] in un supremo richiamo all’ordine, al diritto, all’amore degli uomini, attraverso la fiducia, l’apertura spirituale, la ricerca per se stessa, senza la pretesa di una risposta»5 . La mia esplorazione del senso del tragico vuol essere un modesto tentativo di mediazione tra le due impostazioni e avrà come guide George Steiner e Miguel de Unamuno. Del primo, dal saggio già citato, riprendo due considerazioni: 2 Steiner (1992). Givone, prefazione a Szondi (1996). 4 Jaspers (2008); in realtà un capitolo di Jaspers (1958). 5 Jaspers (2008), p. 81. 3 S. Il senso del tragico e la tragedia 11 Ogni uomo nella vita conosce la tragedia. Ma la tragedia come forma drammatica non è universale [. . . ]. La rappresentazione della sofferenza e dell’eroismo individuale, che noi chiamiamo tragedia, è tipica della tradizione occidentale. [. . . ] Questa idea e la concezione della vita da cui deriva sono di origine greca. E tutte le forme tragiche, quasi fino al loro declino, sono elleniche.6 La tragedia vuole che sappiamo che l’esistenza umana è di per sé una provocazione o un paradosso; ci dice che le intenzioni degli uomini spesso s’infrangono contro forze inspiegabili e distruttive, forze che stanno all’esterno eppure vicinissime. Chiedere agli dei perché proprio Edipo sia stato scelto per soffrire il suo destino o perché Macbeth abbia dovuto incontrare le streghe sul suo cammino, è come chiedere ragione o giustificazione alla notte. Non c’è risposta.7 Due velocissime puntualizzazioni: • l’imprescindibilità — in questo, come in tanti altri campi — della cultura greca; • il carattere di “opera aperta” della tragedia, che non è un trattato dimostrativo. Dello scrittore spagnolo, invece, voglio ricordare il convincimento che sorregge la sua opera, in verità piuttosto disomogenea, Del sentimento tragico della vita 8 : Esiste qualcosa che in mancanza di un altro nome, chiameremo il sentimento tragico della vita, che condiziona tutto un modo di concepire la vita stessa e l’universo, tutta una filosofia più o meno formulata, più o meno cosciente. E questo sentimento possono sperimentarlo, e lo sperimentano, non solo individui singoli ma interi popoli. E questo sentimento piuttosto che nascere dalle idee le genera, ancorché poi — chiaramente — queste idee agiscano di riflesso su di esso, fortificandolo. A volte può derivare da una malattia accidentale [. . . ]; ma altre volte è costituzionale. E non serve, parlare, come vedremo, di uomini sani e malati. A parte il 6 Steiner (1992), p. 7. (1992), p. 112. 8 de Unamuno (2004). 7 Steiner 12 Stefano Casarino fatto che non possediamo una nozione normativa della salute, nessuno ha dimostrato che l’uomo debba essere per sua natura gioioso. C’è di più: l’uomo per il fatto di essere uomo, per il fatto di essere consapevole, è già, rispetto all’asino o al gambero, un animale malato. La coscienza è una malattia.9 Sentire come soffrire: dato ontologicamente imprescindibile, cui la tragedia dà voce, come e più della lirica. Al di là del genere È certamente vero che alcune età più di altre hanno esplorato “il senso del tragico”, lasciandoci opere imperiture. Jaspers ricorda Omero e le leggende eroiche di tutti i popoli (e questo è quanto diciamo a scuola, quando insistiamo sull’epica come origine della tragedia); Eschilo, Sofocle, Euripide; le tre figure nazionali: Shakespeare, Calderòn, Racine; Lessing e la tragedia tedesca (Schiller); la coscienza tragica in Kierkegaard, Dostoevskij, Nietzsche. Di tutte queste segnalazioni mi pare particolarmente importante quella di Dostoevskij, del quale citerei I fratelli Karamazov, opera che ha davvero in sé tutti gli ingredienti — che analizzeremo in seguito — della tragedia: i conflitti dirompenti all’interno della famiglia (tra padre e figli e tra gli stessi fratelli); quelli tra rivali in amore; quelli ideologici-politici; il grande tema della teodicea e della presenza-assenza di Dio, chiamato in causa col tremendo interrogativo «Perché i bambini devono soffrire?». Risulta evidente quindi che, se si ragiona così, il tragico non è solo appannaggio della tragedia, ma trova spazio nel romanzo e nell’opera filosofica. Cos’è allora che conferisce tragicità, che rende tragico un fatto? È un problema quantitativo e qualitativo. Quantitativo, perché l’eccesso orienta altrove, al macabro, all’horror. Se tutto è tragedia, niente è tragedia: un pensiero nichilista non è un pensiero tragico. Eppoi, è purtroppo vero quanto scrive Uhlman: «Non si può soffrire per un milione di morti»10 . Il problema della ricezione della tragedia non vale solo per il pubblico che assiste a teatro, vale sempre, tanto più oggi che siamo quotidianamente bersagliati da immagini di rovina e distruzione, 9 de Unamuno (2004), pp. 60–61. (1999), p. 33. 10 Uhlman Il senso del tragico e la tragedia 13 alle quale siamo ormai assuefatti: «Milioni di persone muoiono di fame, senza che si possa citare il nome di nessuna: ci limitiamo a osservare la tragedia, ad assistere a questa anonima morte di massa»11 . Qualitativo: definire il tragico è forse possibile dicendo cosa non è. Non è il quotidiano, il banale, il normale. È, quindi, lo straordinario, l’eccezionale. Ci soccorre quanto afferma Jacquelin de Romilly, che parla specificamente della tragedia greca, ma offre considerazioni che si possono facilmente amplificare: Ad attribuire alle sciagure della tragedia greca quella dimensione particolare senza la quale non si ha vera tragedia, non è il fatto che esse siano state pre-decretate dagli dei, ma che assumano un senso rispetto ai più vasti problemi legati alla condizione umana. La tragedia si definisce più per la natura degli interrogativi che pone, che per quella delle risposte che fornisce. E il tragico consiste nel misurare la sorte dell’uomo in generale in funzione di mali che sono individuali, e spesso eccezionali. Una situazione può essere triste, orribile o drammatica: in questo caso essa suscita un sentimento di pietà verso colui che vi si trova coinvolto. La si dice tragica, quando vi interviene una specie di distanza che la fa apparire come una prova delle sofferenze che, inevitabilmente ed inesorabilmente, possono capitare all’uomo.12 È importante l’affermazione sulla distanza che deve intercorrere tra l’accadimento e la rappresentazione del fatto tragico: il che spiega perché non si dia tragedia dell’attualità, e, forse, perché non sia ancora del tutto possibile avere una vera tragedia sulla Shoah. Gli ingredienti del tragico Proviamo a tentare una ricognizione di ciò che costituisce l’essenza, il fondamento del senso del tragico. Valori e passioni. Si ha senso del tragico e si ha tragedia quando si ha a che fare con valori e passioni in relazione biunivoca: valori che diventano passioni, passioni che sono valori. E tutto ciò origina parole, comportamenti ed azioni. Senza azioni non vi può essere 11 Kapuscinski 12 de (2009), p. 24. Romilly (1996), p. 152. 14 Stefano Casarino tragedia: assunto aristotelico della Poetica 13 . Ma le azioni sono volute e poste in essere da caratteri che sono mossi da forti valori e/o passioni. Senza valori forti non c’è tragedia: troppo relativismo uccide il tragico; col pensiero debole e col minimalismo non c’è tragedia. Lo ha ben compreso Cantoni: In un universo privo di valori — come quello che costruisce ad esempio la fisica rigorosamente meccanica — non vi sono tragedie. Solo dove si fronteggiano ciò che è nobile e ciò che è volgare, ciò che è alto e ciò che è basso, possono esserci eventi tragici. Il tragico è sempre portato o fondato da valori e relazioni di valore. Senza movimento e conflitto, senza la dimensione del tempo e della storia, nella quale avvengono eventi, tensioni, perdite, annientamenti in cui sono implicati valori, non vi può essere alcuna tragicità.14 La fede nella parola. I valori si incarnano nel linguaggio, sono le parole a rivestirli e a trasmetterli, a mettersi al loro servizio. Nella tragedia le parole hanno sempre un peso notevole, sono “parole di pensiero”. Ma se si perde la fede nella parola, se domina incontrastata l’incomunicabilità non vi è tragedia. Le celebri parole del Padre nei Sei personaggi in cerca d’autore (1921) di Pirandello dischiudono la strada al dramma del Novecento, che è altra cosa rispetto alla tragedia: Ma se è tutto qui il male! Nelle parole! Abbiamo tutti dentro un mondo di cose; ciascuno un suo mondo di cose! E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole ch’io dico metto il senso e il valore delle cose che sono dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo com’egli l’ha dentro? Crediamo d’intenderci; non c’intendiamo mai! La tragedia vive di parole: l’impressionante violenza verbale delle Erinni nelle Eumenidi eschilee, i lunghi discorsi del Filottete sofocleo, i monologhi che abbondano in Euripide, in Shakespeare, in Dostoevskij. Esiste oggi la fede nella parola? Scrive Steiner: 13 Arst. Poetica, 50 d 23–24. (1978), p. 103. 14 Cantoni Il senso del tragico e la tragedia 15 Molte abitudini linguistiche della nostra cultura non sono più reazioni spontanee o creative alla realtà, ma gesti stilizzati che l’intelletto sa ancora eseguire efficacemente, ma da cui trae intuizioni e sensazioni sempre più povere. Le nostre parole sembrano stanche e consunte. [. . . ] Sociologi, esperti della comunicazione di massa, sceneggiatori di soap-operas, scrittori di discorsi politici e insegnanti di scrittura creativa sono i becchini della parola.15 L’importanza del silenzio. La parola di pensiero, alta, solenne, definitiva, riecheggia nel silenzio, nelle indispensabili pause del discorso.16 Troppo rumore non si addice al tragico; il sapiente equilibrio di parole e silenzio permette suspence, crea tensione. Un personaggio improvvisamente ammutolisce: è il caso della Sentinella nel prologo dell’Agamennone eschileo.17 Un altro, sempre zitto, altrettanto improvvisamente parla e dice il parere risolutivo: è il caso di Pilade nelle Coefore.18 Altri personaggi sono reticenti, devono essere indotti quasi con la forza a parlare: Tiresia nell’Antigone e nell’Edipo re, il vecchio pastore tebano sempre nell’Edipo re, nella tremenda scena della rivelazione che precede la catastrofe finale. Un personaggio, addirittura, incarna la reticenza stessa: Una muta, una ostinata ed alta malinconia mortale appanna in lei quel sì vivido sguardo: e piangesse ella!. . . Ma, innanzi a me, tacita stassi; e sempre pregno ha di pianto, e asciutto sempre ha il ciglio. E invan l’abbraccio; e le chieggo, e richieggo, invano ognor, che il suo dolor mi sveli: niega ella il duol; mentre di giorno in giorno io dal dolor strugger la veggio.19 15 Steiner (1992), p. 272. discorso a parte meriterebbe la trattazione dello stile tragico, riprendendo le osservazioni della Poetica aristotelica e del Sublime. Si veda in merito Steiner (1992), pp. 206 sgg. 17 Eschl. Agamennone, vv. 36–39. 18 Eschl. Coefore, vv. 900–902. 19 V. Alfieri, Mirra, Atto I, Scena I, vv. 14 sgg. 16 Un 16 Stefano Casarino Il silenzio più raggelante è certamente quello degli dei: osservano, forse, le vicende e le sofferenze umane, ma tacciono. Un momento di altra tragicità è quando, nelle Troiane di Euripide, Ecuba di fronte alla sua città in fiamme grida a Zeus: «Padre Zeus, signore di Troia, hai visto cosa ci tocca subire?» ed è il Coro l’unico a risponderle: «L’ha visto: ma la nostra grande città non è più una città, Troia non c’è più!»20 Il conflitto significativo. Riprendendo la lezione steineriana21 , l’Antigone sofoclea ha un valore paradigmatico per comprendere i cinque conflitti fondamentali del tragico, che essa tutti contiene: uomo/donna; giovane/vecchio; individuo/società; vivo/morto; uomo/dio. Sul conflitto dice cose illuminanti Jaspers: Tragico è quel conflitto in cui le forze che si combattono tra loro hanno tutte ragione, ognuna dal suo punto di vista. La molteplicità del vero, la sua non-unità, è la scoperta fondamentale della coscienza tragica. Ecco perché nella tragedia è viva la domanda: Che cosa è vero? E come sua conseguenza: Chi ha ragione? Il diritto si afferma, nel mondo? La verità trionfa? Il manifestarsi di una verità in ogni forza che agisca e, insieme, i limiti di tale verità e quindi la rivelazione di un’ingiustizia in ogni cosa è il processo della tragedia.22 Indubbia la portata filosofica di tale osservazione: la tragedia non è una contrapposizione manichea tra chi ha sicuramente torto e chi sicuramente ragione; il dibattito è oscillante, a tratti sembra che un po’ di ragione sia anche in chi, come Creonte, ha torto e un po’ di torto sia anche in chi, come Antigone, ha ragione. È la dinamica degli eventi che si svolge nel tempo a svelare come stanno veramente le cose. Considerazioni importanti svolge Franzini: Pensare l’impensabile, sopravvivere all’invivibile sono le sfide che accomunano, al di là delle differenze temporali e storiche, ogni percorso dell’idea di tragico, in cui Eschilo è accanto a Nietzsche e Sofocle si pone vicino a Hölderlin. Il tragico è un paradosso di fronte al quale il pensiero, nel suo accendersi, si spegne, quasi travolto da eventi che non 20 Eu. Troiane, vv. 1288 sgg. (1984). 22 Jaspers (2008), p. 39. 21 Steiner Il senso del tragico e la tragedia 17 sa né dominare né giustificare, che con la loro “presenza”, in primo luogo scenica, travolgono ogni nostro regolato tentativo di pacificata rappresentazione concettuale. [. . . ] Il tragico è un destino antropologico: è il nostro porsi di fronte al possibile con la certezza di non poterlo mai del tutto dominare. E con l’uguale certezza che, per dirla con Borges, il destino è quell’istante in cui l’uomo sa per sempre chi è. Istante, appunto, che è compito del tragico presentare, anche se questa presentazione esprime l’ignoto e dice l’impensato (per usare le due formule con cui lo definisce Hölderlin). [. . . ] La tragedia sempre di nuovo insegna che la verità è dialogica, vive nel dissidio, nello scontro e nel confronto di valore: e se la serenità non è raggiunta, si manifesta ancora la tensione verso di essa.23 La presenza di forti individualità. Per confliggere, bisogna anzi tutto esistere e sapere di esistere. Il personaggio tragico ha una forte autoconsapevolezza, sa benissimo chi è; ha, per dirla ancora una volta con Steiner, la «sintassi dell’ego»: il suo valore paradigmatico sta in questo, più ancora che nel suo rango sociale. Nella Poetica Aristotele afferma che la tragedia è «imitazione di persone migliori di noi»24 : il comparativo deve essere inteso nel senso più vasto, «più grandi, più nobili, più sicure di sé, più determinate». È certo, allora, che la scoperta dell’alterità dell’io, la sua scomposizione e disintegrazione, il pirandelliano «uno, nessuno e centomila» allontanano irrimediabilmente dal tragico. L’identità del personaggio tragico subisce traumi, esplora tutte le possibilità della sofferenza, ma resta sempre coerente e fedele a se stessa. Molti eroi confrontano quello che erano con quello che sono diventati: Aiace, Medea, Eracle, Ecuba. Andromaca, nell’omonima tragedia euripidea, così si presenta in scena: Città di Tebe, ornamento dell’Asia, da cui, col fasto d’oro della dote, venni alla casa regale di Priamo un giorno, sposa feconda per Ettore, io, l’invidiata Andromaca in passato, oggi la più infelice delle donne.25 23 Franzini (2008), pp. 203–207. Poetica, 54 b 8–9. 25 Eu. Andromaca, vv. 1–6. 24 Arst. 18 Stefano Casarino Sull’individualità tragica sono importanti le considerazioni di Cantoni: L’individualità tragica, invece, come ci mostrano Eschilo o Sofocle, Shakespeare o Dostoevskij, non subisce il fascino della morte e del nulla, è mossa da forti passioni, vuole vivere e affermare la propria personalità, non chiudersi in una desolata contemplazione del naufragio e della morte. L’esperienza tragica non è solo distruttiva e annientatrice, bensì, per larga misura, ricostruttiva, edificante, quando l’uomo vi accerti, fuor di ogni alibi o scampo, il carattere e il significato che assume la sua presenza nel mondo.26 Forse ciò è paradossalmente vero anche in uno dei maggiori esempi di individualità tragica, di “eroe negativo” del moderno, il Caligola di Albert Camus (1941 e 1944), di cui mi piace citare questo brano: Amare qualcuno vuol dire accettare d’invecchiare con lui. Io non sono capace di un tale amore. [. . . ] Crediamo di conoscere il dolore quando perdiamo chi amiamo. Ma c’è una sofferenza molto più terribile: quando ci accorgiamo che anche i dolori non durano a lungo. Anche il dolore non ha senso. [. . . ] Io vivo, io uccido, io esercito il potere delirante del distruttore, al confronto del quale il potere del creatore non è che una pallida imitazione. È questa la felicità. . . — la felicità, questa liberazione insopportabile, questo disprezzo universale, il sangue, l’odio che mi circonda, questo isolamento ineguagliabile che mi permette di controllare con uno sguardo tutta la mia vita, la gioia infinita del delitto impunito, questa logica implacabile che cancella vite umane.27 L’individualità inserita in un preciso contesto relazionale (di affetti e/o di valori). L’io tragico è forte, soverchiante, ma quasi mai isolato. A ben guardare, si incorre spesso in un equivoco quando si rimarca l’assoluta solitudine dell’eroe tragico. In realtà, c’è sempre un contesto imprescindibile: quello del ghenos o della philia o della polis 28 . Vale per l’eroe greco e, mutatis mutandis, 26 Cantoni (1978), p. 100. (1986), pp. 60–61. 28 Su quest’ultimo elemento è fondamentale quanto osserva J. de Romilly circa la risonanza politica-culturale della rappresentazione tragica classica: «il giorno 27 Camus Il senso del tragico e la tragedia 19 anche per quello moderno. L’eroe è il campione, il paradigma dei valori che rappresenta, assume un valore simbolico proprio perché non è un isolato, è semmai organico ad un contesto diverso da quello che appare: Prometeo, isolato dagli dei, ama l’umanità; Antigone, incompresa tra i vivi, sarà accolta da Ade e nel regno dei morti si riunirà al suo ghenos; Amleto è in compagnia del fantasma del padre, come Macbeth delle streghe, ecc. La solitudine assoluta è piuttosto una condanna (Creonte al termine dell’Antigone è l’unico a sopravvivere, col tremendo rimorso d’esser stato causa della morte dei suoi) oppure una condizione di straordinaria elezione (Edipo). L’assenza di realismo. Il senso del tragico comporta un sentire elevato, al punto da trascendere la contingenza e da ignorare la quotidianità. La tragedia, che è connaturata all’uomo, va oltre la realtà. È un aspetto fondamentale, ben compreso da Aristotele che osserva come sia il tragico che il comico rappresentino uno “scarto” rispetto alla normalità («la commedia si propone di rappresentare persone peggiori, la tragedia migliori che nella realtà»)29 e dal Sublime: Un vero oltraggio alla grandezza è la sciatteria del linguaggio. [. . . ] Nei luoghi sublimi non bisogna precipitare in espressioni sordide e sconce, a meno che non vi si sia costretti da qualche necessità: si deve conservare un linguaggio conveniente all’argomento, e imitare la natura che creò l’uomo: essa non collocò in mezzo al volto le parti che conviene tacere, e neppure quelle che scaricano il peso del corpo, ma le nascose come poté, e, per citare Senofonte, «deviò i relativi condotti il più lontano possibile, per non deturpare in alcun modo la bellezza dell’intero essere vivente».30 Tranne qualche sporadica eccezione, ciò ha valore universale. Scrive Steiner: Nei palazzi della tragedia non vi sono servizi igienici, ma fin dalle origini la commedia ha avuto bisogno dei vasi da notte. Nella tragedia la gente non mangia e non russa. Ma in cui viene spezzato il legame che la unisce alla città, la tragedia greca muore», de Romilly (1996), p. 135. 29 Arst. Poetica, 48 a 16–18. 30 Anonimo (1991), pp. 127–131. 20 Stefano Casarino il berretto da notte e il mestolo da cucina assurgono a ruoli di primo piano nell’opera di Aristofane e di Menandro. E ci cacciano giù, nel mondo della prosa.31 L’indifferenza totale alla verosimiglianza realistica è ben rappresentata dalla famosa scena del riconoscimento di Oreste nelle Coefore 32 , poi criticata da Euripide («Ma come vuoi che un piede sulla rocca lasci un’impronta? E anche ad ammetterlo, il piede non può mai essere eguale tra fratello e sorella. Quello del maschio è più grande»)33 . La singolarità delle vicende. La tragedia alberga nello straordinario: non è tale il singolo omicidio, lo sono la catena di lutti che una violenza genera, come nell’Orestea e nell’Amleto. Non è la guerra di per sé ad essere tragica, così perlomeno sentivano gli antichi Greci, ma è il conflitto che determina la distruzione di un’intera città (Troia) o di interi eserciti (i Persiani). Non vi sono tragedie sulla guerra del Peloponneso, ma tante allusioni. Nell’Andromaca euripidea, rappresentata dopo il 431 a.C., troviamo la seguente “tirata”: Spartani, maledetti, voi fra tutti maledetti, assemblea di ogni inganno, signori della menzogna, orditori di ogni male, tortuosi, mai diritti, sempre pronti al raggiro, come ingiusta è la vostra fortuna nella Grecia! Che cosa non avete? Sono vostri mille delitti, avidità spregevoli e ciò che avete sulle labbra sempre si scopre che non era nel pensiero. Oh, morite, morite!34 Nelle Troiane, rappresentate nel 415, l’anno dopo la distruzione di Melo e l’anno prima della spedizione in Sicilia, sono significative le parole del Coro: Mi piacerebbe andare in Attica, nella gloriosa e felice terra di Teseo. Mai e poi mai vorrei trovarmi a Sparta, sulle rive dell’Eurota. Il paese di Elena mi fa orrore: essere schiava 31 Steiner (1992), p. 214. Coefore, vv. 185–211. 33 Eu. Elettra, vv. 534 sgg. 34 Eu. Andromaca, vv. 445 sgg. 32 Eschl. Il senso del tragico e la tragedia 21 e per di più trovarsi davanti Menelao, lui che ha distrutto Troia.35 Nel moderno il fatto eccezionale che sconvolge le coscienze e rappresenta un insanabile miasma della storia è ben rappresentato da Assassinio nella cattedrale (1935) di T.S. Eliot, l’assassinio dell’arcivescovo di Canterbury il quarto giorno dopo Natale dentro la Chiesa: la reazione del Coro delle donne di Canterbury alla vista dell’omicidio, uno dei vertici assoluti del Novecento, contiene significative analogie con la tragedia greca: Rinnovate l’aria! Ripulite il cielo! Purificate il vento! Separate pietra da pietra e lavatele, la terra è sporca, l’acqua è sporca, le nostre bestie e noi stessi siamo imbrattati di sangue. Una pioggia di sangue ha accecato i miei occhi. Dov’è l’Inghilterra? Dov’è il Kent? Dov’è Canterbury? Lontano, molto lontano, nel lontano passato. Io mi aggiro per una terra di rami stecchiti: se li spezzo, sanguinano. Mi aggiro per una terra di pietre riarse: se le tocco, sanguinano. Come potrò, come potrò mai tornare alle dolci stagioni tranquille? Notte, rimani su di noi. E tu, Sole, fermati. Fermati, stagione. Non venga il giorno, non venga la primavera. Come potrò guardare ancora il giorno, le semplici cose di tutti i i giorni, e vederle imbrattate di sangue, attraverso una cortina di sangue che cola? Noi non volevamo che accadesse più niente. Siamo state consapevoli della catastrofe privata, della perdita personale, della miseria generale, vivendo e quasi vivendo. Siamo state consapevoli che il terrore della notte finisce nell’azione del giorno e il terrore del giorno si conclude nel sonno; fare chiacchiere al mercato, mettere mano alla scopa, ammucchiare le ceneri al cadere della notte, accendere il focolare all’apparire del giorno, queste abitudini mettevano un limite alla nostra sofferenza. Ogni orrore trovava una sua definizione, ogni dolore aveva una sua specie di fine: nella vita non c’è tempo per rattristarsi a lungo. Ma questo, questo è fuori della vita, questo è fuori del tempo, come un’incombente eternità d’ingiustizia e di male. Siamo sporche di una sozzura che non si può ripulire, infestate dal verminaio soprannaturale. Perché non siamo noi sole, non sono soltanto la città e la casa invase dalla sozzura, ma è il mondo che è sporco, tutto intero. Rinnovate l’aria! Ripulite il cielo! 35 Eu. Troiane, vv. 207 sgg. 22 Stefano Casarino Purificate il vento! Separate pietra da pietra, separate la pelle dal braccio, il muscolo dall’osso e lavateli. Lavate la pietra, lavate l’osso, lavate il cervello, lavate l’anima, lavateli, lavateli.36 La dipendenza dall’epica e dal mito, ma anche dalla storia. È stato Aristotele a definire, in modo forse troppo netto, i limiti di campo e le diverse pertinenze di “storia” e di “poesia”.37 Ci si è chiesti, in tempi lontani, se la storia poteva costituire l’ispirazione per il romanzo; che possa essere di ispirazione per la tragedia è del tutto evidente, se solo si riflette che la prima tragedia a noi pervenuta sono i Persiani di Eschilo. E, prima ancora, Erodoto ci dà notizia di una tragedia di Frinico, rappresentata nel 492 a.C. sulla distruzione di Mileto, che sconvolse a tal punto il pubblico da essere vietata e da determinare il pagamento di una forte multa (mille dracme!) per l’autore.38 È vero che le tragedie greche rimaste sono tutte di argomento mitologico e di derivazione dall’epica: ma il teatro shakespeariano, quello di Schiller, quello di Alfieri e il teatro romantico traggono dalla storia la materia per le loro tragedie. Forse ciò che si può dire è, riprendendo le osservazioni di J. de Romilly, che il senso tragico non emerge dall’attualità, che c’è bisogno che il passato lontano si confonda col mito. Il superamento della contingenza in un’ottica trascendente. Spesso si dimentica che la tragedia nasce come liturgia: la rappresentazione avveniva attorno ad un altare, costanti e ripetuti erano gli inni cletici, le invocazioni agli dei. Jaspers lo rimarca con precisione: La tragedia greca fa parte di un atto di culto. È la risultante di un anelito verso gli dei e verso il senso ultimo delle cose, verso la giustizia. Dapprima (in Eschilo e ancora in Sofocle) è legata alla fede nell’ordine e nella divinità, in istituzioni fondamentali e sempre valide, nella polis; poi dubita di tutte queste realtà, divenute ormai storiche, ma non 36 Eliot (2003), pp. 129–130. Poetica, 51 b 1–7. 38 Er. VI, 21. 37 Arst. Il senso del tragico e la tragedia 23 dell’idea della giustizia in se stessa, non del bene e del male (Euripide).39 L’idea fondamentale, alla quale occorre fare costante riferimento, è che non esiste, non può esistere tragicità priva di trascendenza: Il tragico non si rivela che alla coscienza trascendente. Un componimento poetico nel quale venga solo rappresentato l’orrido come tale, e cioè rapine, assassinii, intrighi, insomma il terrificante nelle sue forme sensazionali, non può dirsi una tragedia.40 Se non c’è tragicità senza trascendenza, allora quando Dio cessa di essere un problema, quando si rimuove l’idea stessa del divino la tragedia smette di esistere: è la ben nota tesi di Steiner. Il condizionamento del sovrannaturale. Il superamento della contingenza e l’assenza di realismo comportano la presenza di sogni, incubi, presagi, vaticini, fantasmi, apparizioni di divinità. Nei Persiani due momenti salienti sono il racconto del sogno di Atossa e l’apparizione risolutiva del fantasma di Dario; nel prologo dell’Alcesti c’è Thanatos (Morte) che dialoga con Apollo; l’Ecuba di Euripide si apre col fantasma di Polidoro; molte tragedie classiche iniziano con una divinità in scena (Alcesti, Ippolito, Troiane, Baccanti ) e si chiudono col deus ex machina (Filottete, Ione, le Supplici di Euripide, Elettra di Euripide). Ciò però va ben aldilà della tragedia greca. Basti pensare a Shakespeare: le streghe e il fantasma di Banqo nel Macbeth; il fantasma del padre in Amleto; la sfilata degli spettri in Riccardo III ; ecc. Nel moderno è straordinaria la condizionante presenza dei morti ne Le mosche (1943) di J.P. Sartre: Voi, i dimenticati, gli abbandonati, i disillusi, voi che vi trascinate raso terra, nel buio, come delle fumarole, e che non possedete più niente se non il vostro risentimento, voi i morti, su, è la vostra festa! Venite, ascendete alla luce come un enorme vapore di zolfo spazzato via dal vento; salite alle viscere del mondo, o morti cento volte morti, voi che ogni battito dei nostri cuori fa morire di nuovo. Vi 39 Jaspers 40 Jaspers (2008), p. 17. (2008), p. 57. 24 Stefano Casarino invoco in nome della collera e dell’acredine e dello spirito di vendetta, venite a saziare il vostro odio sui viventi! Venite, spandetevi in fitta nebbia sulle nostre strade, insinuate le vostre schiere serrate tra la madre e il figlio, tra l’amante e l’amata, fateci rimpiangere di non essere morti. Su, vampiri, larve, spettri, arpie, incubi delle nostre notti. Su i soldati morti bestemmiando, su i disgraziati, gli umili, su i morti di fame il cui grido d’agonia fu una maledizione. Guardate, là sono i vivi, le grasse prede viventi! Su, abbattetevi su di loro come un turbine, rodeteli sino alle ossa. Su, su, su!41 E i vivi replicano: «perdonateci perché viviamo mentre voi siete morti». Il condizionamento del sovrannaturale e lo stravolgimento del reale si ha anche con le numerose scene di pazzia che compaiono nella tragedia: l’invasamento divino, l’accecamento (ate) prodotto dagli dei, la “mania” di un personaggio che improvvisamente irrompe sulla scena e si traduce in comportamenti irrazionali, paradossali, violenti: il delirio omicida di Clitennestra nell’Agamennone; la follia di Aiace che si avventa sulle greggi credendo di uccidere i suoi nemici; l’improvvisa pazzia di Eracle nella tragedia omonima di Euripide che, dopo averli salvati, uccide i suoi figli; Agave che nelle Baccanti sbrana con le proprie mani il figlio, credendolo un leone; le numerose scene di pazzia del teatro shakespeariano (Amleto e Ofelia, lady Macbeth, Lear, ecc.). L’importanza della conclusione. Anche qui c’è un equivoco da chiarire: non è sempre vero che “tragico” sia ciò che finisce male. Molte tragedie si concludono invece bene: l’unica trilogia pervenutaci, l’Orestea, termina con la trasformazione delle Furie in divinità benefiche; tante opere dell’ultimo Euripide hanno una conclusione positiva (Elena, Ifigenia in Tauride, Oreste, Ione). Anche ciò che sembra finire male (Edipo re) a distanza di tempo — vent’anni nella vita umana, tra le due rappresentazioni; ma il tempo della storia non è il tempo del mito! — finisce bene (Edipo a Colono). Il problema non è il sad-end o l’happy-end, ma il valore paradigmatico della conclusione che svela un insegnamento. 41 Sartre (1947), Acte II, pp. 156 sgg. Il senso del tragico e la tragedia 25 Il valore educativo del tragico. E con ciò arriviamo a quello che è per me il tratto distintivo del tragico: il suo valore conoscitivo. La tragedia non ha prioritariamente il valore della denuncia o della protesta, ma è un processo di conoscenza. Da Eschilo in poi si fissa in modo indelebile il precetto “pathei mathos” (“attraverso la sofferenza la conoscenza”). L’esperienza tragica è l’esperienza dell’interiorizzazione della conoscenza, l’autentico processo di maturazione psicologica e caratteriale. Valore didattico, certamente, ma non di un apprendimento esteriore di nozioni. Scrive Unamuno: «il dolore è la via della coscienza, ed è attraverso il dolore che gli esseri viventi giungono ad avere coscienza di sé».42 Ed è proprio con tre grandi insegnamenti del teatro greco che mi piace concludere. Il primo è nella formidabile parodo del Coro dell’Agamennone eschileo: Zeus, chiunque egli sia e se gli piace essere chiamato così, ora io invoco! Non so chi altro immaginarmi, pur se esamino bene ogni caso, all’infuori di Zeus, se devo gettare via davvero questo vano peso dal cuore. [. . . ] Preparò le vie della conoscenza ai mortali: “con il dolore si impara”, stabilendo ben saldo questo principio. [. . . ] Questa angoscia che logora il cuore stilla una pena che toglie il sonno: e anche chi non vuole giunge a sapere. Questa è la grazia degli dei, delle potenze che con violenza governano il cosmo?43 È quanto abbiamo già citato, la legge voluta dagli dei di quella che potremo chiamare la “pedagogia del dolore”. Non è l’unica, ma è certo la più importante. Il secondo è la tremenda consapevolezza della precarietà della condizione umana, affermata con dolorosa chiarezza dalle ultime parole che concludono l’Edipo re: Guardate, ecco Edipo, colui che ha risolto il famoso enigma e che è stato potentissimo; chi dei cittadini non ha provato invidia della sua sorte? Ed ora in quale vortice di tremendo destino è finito! Nessun uomo si può dire felice se deve ancora vedere l’ultimo giorno dell’esistenza, prima che abbia varcato il termine della sua vita senza patire alcun male.44 42 de Unamuno (2004), p. 159. Su questa problematica è utile il bel saggio di Natoli (1986). 43 Eschl. Agamennone, vv. 160–183. 44 Sof. Edipo re, vv. 1524–1530. 26 Stefano Casarino Massima che già era in Erodoto45 , ma che pronunciata dal Coro ha una risonanza assoluta. Il terzo ed ultimo esempio non è quello di una verità proclamata ieraticamente dal Coro, ma l’affermazione di un’acquisizione interiore da parte del personaggio che incarna l’idea stessa di forza e che scopre la sua debolezza ed arriva persino a meditare il suicidio: Pur trovandomi in queste sciagure, ho pensato che potrei essere chiamato vigliacco se fuggo la luce del giorno. Chi non sopporta le sventure non saprebbe restare saldo davanti al nemico. Resisterò all’esistenza: verrò nella tua città, ti sarò mille volte riconoscente per i doni che mi fai.46 È Eracle a parlare, a sancire la virile accettazione del dolore: forse il più importante insegnamento del senso del tragico, che ci misura e col quale, vivendo, costantemente ci misuriamo. 45 Er. 46 Eu. I, 29 sgg. (il celeberrimo episodio dell’incontro tra Creso e Solone). Eracle, vv. 1347–1352.