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La patata - Comelico Cultura

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La patata - Comelico Cultura
La patata
di Raffaella Zanderigo Rosolo
Ricordo un anziano del paese, venuto a
far visita a mio padre. La conversazione
li portava subito a tempi lontani con
inevitabili confronti tra ieri e oggi.
“Che tempi.” diceva “La sera, la madre
versava in un cestello le patate fumanti.
Attorno una nidiata di bimbi che già le
mangiavano con gli occhi. Patate da
sbucciare con cura, patate, patate,
forse un po’ di ricotta affumicata, forse
qualche forchettata di crauti, forse una
tazza di latte e nello stomaco rimaneva
sempre uno spazio da colmare. Se non
c’era, non c’era. C’è poco da dire.
Al mattino, svegli presto per andare in
stalla ma prima a rovistare nel cesto
per vedere se era rimasto qualche resto
di patata fredda.
Quella era fame, fame di crescita, fame
non saziata.
Cosa vuoi, Lorenzo, per i miei figli e i
miei nipoti, sembrano frottole, roba da
terzo mondo “ma è davoi la porta anchi
par leri” (non si sa cosa riserva loro il
domani).
Ero in cucina e stavo sbucciando con il
coltello le patate bollenti. Mio padre mi
guardava e mi disse “Se fosse qui
nonna Monica avrebbe qualcosa da
dirti, vedendo come le sbucci”.
Una osservazione che può far sorridere
nel tempo in cui viviamo ma allora la
patata era considerata una cosa
preziosa, anzi preziosissima.
Sbucciando doveva rimanere la buccia
pulita, nulla andava sprecato. Da un
raccolto all’altro passavano mesi, anche
mesi neri, se la natura non era stata
generosa e tutto veniva usato con
parsimonia.
Avessero avuto patate i prigionieri di
guerra!
Un paesano che è stato prigioniero in
Germania mi racconta:
“Ci davano un sacco di patate da
pelare, sotto la sorveglianza di una
guardia. Guai a far sparire una patata,
allora noi, pelandole, con la buccia si
cercava di portar via anche un po’ di
polpa. Nella baracca c’era una stufa di
ghisa. Quando era calda, mettevamo
sopra queste bucce di patata che si
arrostivano presto e riuscivamo a
mangiare quel poco di amido che si
staccava.
Quanta fame! Fame nera! Una brutta
bestia!”
L’hanno sperimentata la nostra gente
durante le ricorrenti carestie e guerre e
invasioni, la sperimentano altri popoli
ma parlare di fame qui da noi, in questi
tempi, rimane solo una battuta
Un po’ di storia
Da una foto del paese, scattata negli
anni venti, si vede una realtà che,
ormai, fa parte della storia.
Qualche casa di legno, tante di pietra
grigia, alcune bianche d’intonaco e
attorno, come una scacchiera, campi.
Campi seminati a segala, orzo, avena,
lino e patate, patate, patate.
La patata, dono che ci fece l’America,
“preziosa quanto l’oro”, ha aiutato la
sopravvivenza della gente nelle nostre
vallate,
Leggo sul quaderno n. 5 di Ricerche, a
cura di Dino Dibona, che la coltivazione
della patata si diffuse tardi nelle valli
montane, verso l’inizio dell’800.
Da cibo per le bestie, acquistò la dignità
di cibo per gli uomini, poiché era una
pianta adatta a qualsiasi clima e
terreno, divenne così la preferita nei
paesi montani poco fertili.
“Ma fu l’inverno del 1816-17, quando la
neve non si ritirò per tutto l’anno oltre i
1800 mt., ricordato come l’anno della
fame, a far sì che la gente imparasse
ad apprezzare la patata che ha
contribuito a superare le ricorrenti
carestie, provocate dall’insipienza degli
uomini e dalle avversità atmosferiche”.
E’ rimasto il detto “longu kom l an d la
fami” (lungo come l’anno della fame),
per ricordarci che la penuria di viveri
doveva essere una realtà ciclica nella
vita dei montanari.
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L’introduzione della patata, nell’alimentazione sconfisse “la pellagra”. Un
motivo in più per considerare questo
dono della natura come cosa preziosa,
per un nutrimento sano, abbondante ed
economico da alternare a pane e
polenta.
Fu il sacerdote Don Giacomo Talamini,
curato di Borca che si sforzò di
propagandare la coltivazione della
patata con parole e scritti.
Nel 1845 nei paesi del nord e nel 1847
anche in Italia si diffuse una terribile
malattia.
“Improvvisamente le foglie annerivano,
cadevano i fiori, dai campi esalava un
odore disgustoso, indizio di putrefazione. Al momento del raccolto i
tuberi erano marci. Segno di profonda
carestia”.
Don Talamini consigliò di puntare sulle
bacche per rinnovare tutte le patate da
seminare.
Dice un proverbio: “Se d utonu on tanti
patati, d’invernu tanci se s marida” (se
d’autunno il raccolto delle patate è
abbondante, d’inverno tanti possono
sposarsi).
Anche le decisioni importanti erano
legate, un tempo, all’abbondanza del
raccolto che dava sicurezza.
Date da ricordare.
1817 anno della grande carestia.
1917 un eccezionale raccolto di patate,
poi tanta segala, orzo, avena, cavoli,
fave da riempire le madie.
Settantacinque calvie di patate, raccontava mia madre, una cialvèia (gerlo)
Kg. 25.
Un segno della provvidenza per l’anno
1917-18 dell’invasione austriaca.
La semina
Maggio è tempo di preparare il campo,
seguendo la rotazione agraria, per la
messa a dimora dei tuberi.
Prima fatica portare la terra, scivolata
in basso, con la gerla sul margine
superiore del campo. Spargere il
letame, rivoltare la terra a forza di
braccia con la vanga e con la zappa.
Sminuzzare il terreno, fare delle buche
o dei solchi paralleli profondi circa 10
cm. e poi collocare pezzi di patata con
“l’occhio”, cioè con il germoglio, verso
l’alto. Mia madre ricordava quando
venne un esperto del Consorzio Agrario
per
insegnare
alle
donne
come
selezionare e tagliare le patate da
semina.
Si racconta che, durante
l’anno
dell’invasione 1917/18 era così grande
la fame che dovevano nascondere le
patate per la semina. C’era chi per
fame andava a dissotterrare le patate
già seminate, altri seminavano solo i
germogli con poca polpa.
Ritorniamo nel campo. Sotterrati i
tuberi, via con il rastrello a ricoprire,
livellare il terreno e attendere i prodigi
della natura.
Mia madre raccontava i proverbi che il
suo nonno, emigrante in Austria, soleva
ripetere riguardo alla patata:
“Se mi semini in aprile
vengo se voglio”.
“Se mi semini in maggio
forse vengo”.
“Se mi semini in giugno
vengo di sicuro”.
I pericoli per i teneri germogli vengono
dalle condizioni atmosferiche.
Il giorno di San Giovanni, 24 giugno,
almeno uno per famiglia doveva andare
in processione a Padola, per implorare
la protezione contro la brina che
avrebbe
bruciato
i
germogli
e
compromesso il raccolto. Invece dopo la
tempesta la pianta può riprendersi.
Spuntate le piantine è il tempo della
sarchiatura “dà tera” togliere le erbacce
poi le piante crescano rigogliose.
Dal fiore al frutto
D’estate il campo è in fiore. Fiori a
campanula, bianchi e lilla che risaltano
sul verde
cupo delle foglie. Poi dal
fiore al frutto. Chi di noi, d’una certa
età, non ha giocato con le bacche verdi
“brombi” delle piantine e fili d’erba a
creare animaletti durante la sosta del
fieno? La fantasia poi dei bimbi non ha
limiti, nel gioco creativo fatta di piccole
povere cose.
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Se il raccolto è abbondante, un pensiero di meno per l’inverno.
Ricordo che durante l’ultima guerra
c’era la possibilità di scambiare una
gerla di patate con una di mele rosse
del Trentino. Uno dei miei fratelli,
pronto disse: “Mamma puoi dare tutte
le mie patate! ..”
Le belle mele rosse, riposte nei cassetti
d’un vecchio comò, profumavano subito
la stanza. Ma ebbero vita breve.
L’inverno invece è lungo.
La decima
Il raccolto
Dal 26 luglio, giorno di Sant’Anna, al 16
agosto, giorno di San Rocco, si
potevano dissotterrare le patate rosse.
Erano le primizie, un bel regalo della
madre terra. Ma è l’autunno il tempo
del gran raccolto.
Dopo la fienagione è tempo di tagliare i
gambi delle patate ormai ingiallite,
ammucchiarli a lato del campo per
essere bruciati con gran gioia dei
bambini che vi giravano attorno per
affumicarsi ben bene. I più arditi
gettavano sotto la cenere le prime
patate ed aspettavano che si fossero
arrostite. Il fumo denso e acre che si
levava dai campi, annunciava che la
buona stagione era finita. Allineate in
fondo al campo le gerle per le varie
selezioni, si iniziava a rivoltare le zolle.
Uscivano a grappoli patate grosse,
medie, piccole, patate tagliate, patate
verdi di solanina che finivano nei vari
contenitori e già si selezionavano quelle
per la prossima semina.
Spettava
anche
ai
ragazzi
più
grandicelli portare a casa le gerle di
patate e versarle nei vari comparti in
cantina dove il pavimento è di terra
battuta.
Il giorno di San Martino, l’11 novembre,
verso le nove le campane della chiesa
pievenale suonavano per ricordare alla
gente che era il giorno della consegna
della “parmizia” o quartese.
Era quanto spettava al parroco, in
autunno, dopo il raccolto, in osservanza
del quarto precetto della Chiesa
“pagare la decima secondo l’usanza”.
Su dieci gerle di patate era dovere
consegnarne una, così un decimo degli
altri prodotti della terra.
Le donne avevano già, al momento del
raccolto, preparato una gerla colma
delle patate migliori e la portavano in
canonica.
Una
persona
incaricata
accoglieva e sistemava tutto nei vari
comparti della cantina. Le decime
raccolte servivano in minima parte per i
bisogni della canonica, il resto veniva
ridistribuito ai poveri. Allora ce n’erano
tanti.
Tunin di Minute
Raccontava mia madre che anche in
paese c’era un “ricercatore” che
dedicava tempo e pazienza alla
riproduzione delle patate.
Si chiamava Mina Antonio fu Giovanni
classe 1877.
Il suo regno era Costasecca dove aveva
terra e fienili. Un anno decise di
sperimentare come rinnovare le patate
da semina.
Dietro
la
cappelletta
che
aveva
costruito per voto, c’era un prato in
pendenza,
quindi
senza
ristagno
d’acqua. Lo trasformò in campetto e a
primavera vi seminò le bacche delle
patate “i brombi” che racchiudono una
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poltiglia verdastra ricca di semi.
Proteggeva questo campetto sperimentale con le frasche. Seguiva con
paziente curiosità ed annotava tutto.
Mia madre, allora ragazzina, andava
con sua madre a lavorare nel fienile
accanto, Antonio la chiamava e le
parlava a lungo delle osservazioni fatte.
In autunno le mostrava le patate
piccole, piccole che aveva dissotterrato,
dicendo che le avrebbe riseminate la
prossima primavera.
Era felice della curiosa attenzione di
mia madre e la faceva partecipe di tutte
le sue idee.
Così per quattro anni, alla fine era
riuscito ad ottenere patate sempre più
grosse da rinnovare tutte quelle da
semina.
Gli esperimenti di Antonio continuarono
anche nel fienile di sopra dove vi sono
ancora tracce di aiuole. Lì, seminava
granaglie, osservava l’influsso della
luna e sperimentava le rotazioni
agrarie.
Mia madre lo rivedeva ancora seduto
sul muretto a raccontare che scavando
le fondamenta del fienile in alto, aveva
trovato una pietra di focolare, segno
che lì, c’era un’antica abitazione con
una vista stupenda su tutta la valle.
Poco più in là, verso Prese, nel bosco
cupo, altre tracce d’insediamenti umani,
credo si chiami “Mas Ciavaderi”. Allora
molte famiglie vivevano lontane dal
paese. La stalla, l’orto, il campo davano
a sufficienza per le loro parche mense.
Ora il bosco ha fagocitato in una morsa
verde quello che si chiamava “Costasecca”. Rimane il ricordo di Tunin, il
contadino curioso delle meraviglie della
natura.
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