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GIACOMO BALLA ALBERTO BURRI GIORGIO DE CHIRICO

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GIACOMO BALLA ALBERTO BURRI GIORGIO DE CHIRICO
GIACOMO BALLA
ALBERTO BURRI
GIORGIO DE CHIRICO
FORTUNATO DEPERO
PIERO DORAZIO
LUCIO FONTANA
PIERO MANZONI
UMBERTO MASTROIANNI
GIORGIO MORANDI
TANCREDI PARMEGGIANI
ANTONIO SANFILIPPO
ALBERTO SAVINIO
GINO SEVERINI
MARIO SIRONI
EMILIO VEDOVA
A
Galleria Agnellini Arte Moderna, Brescia
25.10.2014 – 21.02.2015
GIACOMO BALLA
ALBERTO BURRI
GIORGIO DE CHIRICO
FORTUNATO DEPERO
PIERO DORAZIO
LUCIO FONTANA
PIERO MANZONI
UMBERTO MASTROIANNI
GIORGIO MORANDI
TANCREDI PARMEGGIANI
ANTONIO SANFILIPPO
ALBERTO SAVINIO
GINO SEVERINI
MARIO SIRONI
EMILIO VEDOVA
Giorgio
Morandi, 1942
2
Mostre e catalogo a cura di
Dominique Stella
Floriano De Santi
La mostra è stata realizzata con
il patrocinio del
Direzione
Roberto Agnellini
Direzione artistica
Dominique Stella
Direttore operativo
Giancarlo Patuzzi
Segreteria
Maura Armani
Gabriella Nespoli
Progetto grafico
Tap Grafiche
Traduzioni
Silvia Denicolai
Fotografie delle opere
© Fabio Cattabiani
Crediti
© Floriano De Santi
© Dominique Stella
© Giacomo Balla, by SIAE 2014
Fondazione Palazzo Albizzini-Collezione Burri,
Città di Castello ©, by SIAE 2014
© Giorgio de Chirico, by SIAE 2014
© Piero Dorazio, by SIAE 2014
© Fondazione Lucio Fontana, Milano, by SIAE 2014
© Fondazione Piero Manzoni, Milano, by SIAE 2014
© Giorgio Morandi, by SIAE 2014
© Antonio Sanfilippo, by SIAE 2014
© Alberto Savinio, by SIAE 2014
© Gino Severini, by SIAE 2014
© Mario Sironi, by SIAE 2014
Sommario
Ringraziamenti particolari
Archivio Umberto Mastroianni, Brescia
Giordano Bruno Guerri
Presidente del Vittoriale degli Italiani
La mostra è stata realizzata con
il sostegno di
Ringraziamenti
Sandro Bertoli
Gino Bonuccelli
Cesare Cappellina
Lanfranco Cirillo
Giorgio Corbelli
Armando Donati
Mario Dora
Ettore Marchina
Alessandro Medici
Angelo Medici
Cesare Medici
Massimiliano Mucciaccia
Alberto Riva
Marco Setti
Marinella Spagnoli
Nessuna parte di questo catalogo può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con
qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti
e dell’editore. L’editore resta a disposizione degli eventuali detentori di diritti che non sia stato
possibile identificare o rintracciare e si scusa per involontarie omissioni.
7
L’Arte italiana del Novecento
tra rottura e “ritorno all’ordine”
Dominique Stella
17
Pensare per maestri
nell’arte italiana del Novecento
Floriano De Santi
43
Opere:
138
Indice artisti
139
Biografie
Dominique Stella
L’Arte italiana del Novecento
tra rottura e “ritorno all’ordine”
La mostra che si apre alla Galleria Agnellini Arte Moderna offre un percorso attraverso la pittura italiana del Novecento,
presentando circa 25 opere dai primi anni del secolo fino al 1970. Il suo titolo sottolinea l’importanza degli artisti
italiani del secolo scorso, che seppero imporre il proprio stile e le proprie idee in un panorama internazionale.
Questi ultimi conservano quella sensibilità che lega la pittura italiana al mondo della poesia e dell’immaginario,
privilegiando l’arte piuttosto che decretando teorie. Essi hanno saputo mantenere un legame indefettibile con una
tradizione, integrando le proteste e le rabbie di generazioni in cerca di rinnovamento. È in questo spirito che operano
gli artisti legati al Futurismo, come quelli della Metafisica o ancora Giorgio Morandi e più tardi Fontana, Burri e gli
artisti dell’informale come Dorazio, Tancredi e Vedova. Tutti appartengono a quest’epoca che scopre la modernità,
caratterizzando lo spirito di un tempo segnato dalle guerre, dalle vittorie o dalle sconfitte che sconvolgono il nostro
universo. La consapevolezza degli artisti italiani, di appartenere a un mondo esaltante, ma anche effimero e instabile,
conferisce una vaga nostalgia a un’arte che resta in disparte dalle polemiche estetiche e sposa la causa di un sentire
profondo, in favore di un’arte eterna, che restituisce la certezza dell’assoluta complessità dello spirito umano.
Ogni momento della storia svela nuove forze creative. L’Italia non sfugge al bilanciere del tempo, che fa sì che alle
fragorose rivoluzioni seguano fasi di “ritorno all’ordine”. Tra questi due estremi oscillano i movimenti artistici che
s’impongono nel corso del XX secolo, alternando le rotture (Futurismo), le rivendicazioni tradizionaliste (Novecento), il
ricorso all’immaginario poetico tinto di classicismo (la Metafisica), l’impeto gestuale dell’informale desideroso di farla
finita con le avanguardie internazionali cubiste e surrealiste che imponevano il loro diktat dall’inizio del XX secolo,
e infine la sperimentazione e l’azzeramento di Fontana, Burri e Manzoni, che insorgono contro ogni affermazione
estetica e pittorica. Queste mutazioni sono accompagnate dalla creazione di movimenti, gruppi, azioni collettive di
rivolta che proferiscono teorie facenti oggetto di Manifesti o di pubblicazioni in riviste effimere.
Dei primi anni del 1900, i futuristi Balla e Depero illustrano un movimento che fu determinante in una storia che si
affermò a livello europeo al pari delle tendenze dadaiste o cubiste dominanti in Francia. Balla, Depero, come Severini
e Sironi, essi stessi membri effimeri del Futurismo, sono gli esempi di artisti che seppero creare ponti con le correnti
storiche europee. Il Futurismo esorta all’amore per la velocità e per la macchina, esaltando la bellezza delle produzioni
meccaniche e la necessità di liberare l’arte italiana dal culto archeologico del passato.
Il Futurismo si oppone all’influenza di una classe ufficiale, che sclerotizza l’attività artistica in un conformismo ormai
secolare. Si ribella contro l’ordine stabilito, illustrando già lo scontro permanente tra stabilità e movimento, tra
conservatorismo e disordine creativo, che anima con il suo movimento pendolare la storia delle correnti artistiche del
Mario Sironi, 1931
7
XX secolo. L’appello di Marinetti (Manifesto del futurismo, 1909) si eleva con furore: «È dall’Italia, che noi lanciamo
questo nostro manifesto di violenza travolgente e incendiaria, col quale fondiamo oggi il “Futurismo”, perché vogliamo
liberare questo paese dalla sua fetida cancrena di professori, di archeologi, di ciceroni e di antiquari». In effetti la
ribellione tuona nella penisola, e l’Italia in questi primi anni del secolo vede nascere una generazione di artisti che si
afferma sulla scena internazionale. Il Futurismo propone un’estetica dell’azione che si contrappone all’estetica della
ragione cubista; il furore e l’energia di questi giovani artisti generano un pensiero fulgente, travolgente, che segna
la storia.
In mostra alcune opere di Balla degli anni 1917-1920, e di Depero dal 1914 al 1930, illustrano lo spirito del dinamismo
e l’idea di progresso. Esse offrono anche un’interpretazione della definizione di Balla e Depero «della Ricostruzione
futurista dell’universo», attraverso la suggestione del movimento e la deflagrazione delle forme in una ripartizione
spaziale, liberata dalle contingenze della rappresentazione. Il colore, attraverso il quale Balla rivendica la propria
italianità, resta l’elemento dominante e costruttivo di queste opere.
Il percorso di Mario Sironi è, più di qualunque altro, significativo dell’alternanza delle idee che governa le tendenze
artistiche della prima metà del secolo. La sua evoluzione è rappresentata in mostra da quattro opere che illustrano le
fasi di sviluppo del suo lavoro, trasformatosi a seconda delle tendenze artistiche e recante le stigmate di un mondo
di crisi e di guerra. Il quadro Dinamismo di una figura (1915) di Sironi resta fedele ai principi futuristi; per l’artista
la pittura rientra allora in un impegno di vita, in un’opera che integra l’idea di dinamismo e di energia propria al
movimento. La sua adesione al Futurismo è di breve durata; infatti, in un periodo successivo, Sironi adotta uno spirito
neoclassico con echi metafisici che lo avvicinano a de Chirico (Gigante rosso con scure, 1920-21), per aderire in un
secondo tempo al gruppo Novecento, rappresentativo di un ritorno all’ordine. I Pittori del Novecento, di orizzonti
diversi, sono accomunati da un’arte che rivendica un riferimento ai valori tradizionali dello spirito latino; contro la
cancellazione della storia auspicata dalle avanguardie, essi intendono ritrovare l’autenticità dell’antichità classica,
la purezza delle forme e l’armonia della composizione. Coordinatrice del movimento è la critica d’arte Margherita
Sarfatti, collaboratrice di Mussolini. Il legame con il regime di Mussolini ha spinto i critici a definirla un’arte di Stato
o «un’arte fascista», anche se è davvero difficile confondere la straordinaria vitalità e l’eterogeneità del movimento
con una semplice arte di propaganda.
Anche Severini abbandona rapidamente il Futurismo. Nel 1921, anno in cui pubblica il trattato Dal cubismo al Classicismo,
Severini passa da un’estetica “cubo-futurista”, quasi astratta, a una pittura che si può definire “neoclassica” con
influenze metafisiche, dimostrandosi buon indicatore di un sentire diffuso in tutta Europa dopo il grande trauma del
primo conflitto mondiale. Negli anni ’50 torna a un’astrazione dinamica. La sua opera Zeus (1954) testimonia questa
vivacità e questo slancio nuovo.
Altra rottura, la Metafisica, fu una delle maggiori fonti di irraggiamento dell’arte italiana della prima metà del secolo.
È rappresentata in mostra dalle due figure principali del movimento, Giorgio de Chirico e Alberto Savinio. Questo
movimento simboleggia l’insorgere di uno scetticismo di fronte ai movimenti turbolenti di un mondo che rinnega
la poesia a vantaggio della competitività nascente. Di fronte al Futurismo progressista, la Metafisica di de Chirico
e Savinio propone una lettura nostalgica dell’universo e si rivolge al classicismo, a un ritorno all’ordine, senza per
questo rifugiarsi in una rappresentazione del tutto accademica o realista. La Metafisica s’impone in Italia a partire
dal 1917, data ufficiale della sua creazione all’ospedale militare di Ferrara, dove si ritrovano de Chirico, Alberto
Savinio, suo fratello, de Pisis e Carrà. Tuttavia le prime basi sono poste a Parigi, dove i fratelli de Chirico entrano in
contatto con esponenti delle avanguardie artistiche dell’inizio del secolo, mentre le loro opere del 1912, 1913 e 1914
contribuiscono ad alimentare il dibattito che conduce ai cambiamenti intellettuali ed estetici affermatisi durante la
Prima guerra mondiale. Le prime opere di de Chirico suscitano l’entusiasmo di Apollinaire - a questo periodo appartiene
Il Grande Metafisico nella sua versione originale del 1917. Secondo l’artista la pittura deve allontanarsi dalla realtà
nella sua pura apparenza, e deve mettere in relazione le interazioni complesse che esistono tra le cose. La sua pittura
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elimina così ogni rappresentazione razionalista: gli spazi atemporali e cosmici, gli oggetti straniati dal loro contesto
naturale s’impongono come elementi di rottura con il principio di causalità. L’opera, priva di punti di riferimento
spazio-temporali, perde ogni attualità descrittiva e assume un carattere misterioso e intrigante, di una “inquietante
stranezza”. La pittura di de Chirico è “metafisica”, perché gioca sul contrasto tra la precisione realista degli oggetti e
dello spazio rappresentati, e la dimensione onirica che il pittore conferisce loro. Egli lavora sulla capacità del sogno di
generare mondi a partire da un elemento noto. Come egli stesso ama dire, compone «immagini rivelate»1 .
La Metafisica si contrappone al Futurismo per la sua ricerca di un significato profondo della forma, attraverso un
richiamo ai sogni e ai miti. Essa si conclude, in linea di massima, nel 1921, quando si sviluppa il gruppo dei Valori
Plastici. Ma in realtà la pittura metafisica continuerà a nutrire, nel corso del tempo, l’opera di de Chirico (in particolare
dal 1920 al 1930 la sua serie delle Archeologie, dei Gladiatori e dei Mobili nella valle) e l’ispirazione dei pittori
dei Valori Plastici e quelli del Novecento. Sul piano internazionale, essa influenza la Nuova oggettività, il Realismo
magico tedesco e partecipa in particolare alla formazione del Surrealismo, di cui de Chirico può essere considerato
un precursore.
Il gruppo dei Valori Plastici è legato alla rivista omonima, edita dal 1918 al 1922 e inizialmente destinata a diffondere
l’estetica della pittura metafisica nella corrente dell’avanguardia. Interessata ai rapporti fra la tradizione italiana e la
modernità europea, essa si oppone, a partire dal 1920, agli eccessi di certe tendenze dell’avanguardia, preconizzando
allora un rinnovamento del formalismo del XIV e XV secolo italiano. Il suo entusiasmo per i “valori nazionali” e la
“tradizione italiana” le vale il sostegno politico del regime fascista. De Chirico, insieme a Carrà, Morandi e Soffici, è
uno dei principali sostenitori di questa tendenza, insieme a suo fratello Alberto Savinio, che fu uno dei più notevoli
teorici dei Valori Plastici, ai quali aderisce dal 1921. Nel prolungamento della pittura metafisica, i Valori Plastici e
il Novecento s’inscrivono entrambi in questo desiderio di ritorno al reale, “ritorno all’ordine”, attorno al quale si
raccoglie una folla eterogenea di artisti messi a confronto con il difficile periodo tra le due guerre...
De Chirico, tuttavia, persegue in modo personale il suo periplo. Dal 1926 l’artista è ormai occupato dalla tecnica
pittorica, l’alchimia dei maestri del passato e la «bella materia». Si fa “Depaesaggista” (secondo l’espressione di Jean
Cocteau): mobili fuori scala o frutti straniati in paesaggi di rovina. Alcune archeologie, ibride metafisiche, completano
la composizione del mondo del pittore. A partire da questa data, de Chirico rompe bruscamente con il proprio passato,
rinnega l’arte moderna, così come la sua opera anteriore, e si volge definitivamente verso la pittura tradizionale.
Cavallo e Cavaliere, 1939, è rappresentativo di questo momento e illustra il soggetto dei cavalli, uno dei più diffusi
nella produzione di de Chirico.
Alberto Savinio, nonostante l’affinità con il fratello Giorgio, segue una strada autonoma e mescola le influenze parigine
del periodo dell’anteguerra in un registro pittorico, ma anche letterario e musicale. Egli è allora amico di Guillaume
Apollinaire e, nel 1914, pubblica il poema drammatico I Canti della mezza morte. Agli anni parigini (1910-1915) e ai
primi quadri metafisici di de Chirico, corrisponde in Savinio una produzione musicale e letteraria che egli proseguirà
per tutta la vita.
Alberto Savinio è un artista e un intellettuale puro: per lui le due nozioni sono del resto indissolubilmente legate. È
maestro nell’arte di osservare ciò che accade attorno a sé, elaborando e trasformando il prodotto della sua riflessione
in idee, scritti, poesie, musiche, quadri. È un “uomo orchestra” di grande erudizione e un autentico genio dal cervello
in costante ebollizione e dall’umorismo graffiante. Nel 1927 espone le sue prime opere da Berheim a Parigi, e Cocteau
redige la prefazione del catalogo. Il contenuto epico e onirico distingue l’opera di Savinio fra tutti gli artisti del
“ritorno all’ordine”. Infatti la sua ispirazione è unica e sfugge ai criteri descrittivi di un classicismo a volte pomposo.
In Savinio domina lo spirito della poesia. La sua ispirazione è spesso legata a testi antichi come l’Eneide, poema
epico, considerato il più rappresentativo dell’epopea latina, scritto dal poeta e filosofo Virgilio. L’artista vi si ispira
per la realizzazione del quadro Enea e Didone, 1931, in mostra. Savinio eccelle nella mescolanza di un classicismo
mediterraneo con un certo gusto per il fantastico.
9
L’ispirazione contraddittoria e polimorfa di questo artista ha alimentato un’opera proteiforme, che fu coronata
solamente da un riconoscimento tardivo, lo spirito del tempo non invitando più alla fantasticheria, esercizio prediletto
di questo artista che si voleva dilettante. Questo atteggiamento, fondamentalmente irriverente nei confronti di un
mondo dell’arte monomaniaco, fonda un pensiero la cui espressione pittorica consacra l’indipendenza e il talento.
Giorgio Morandi, vicino a de Chirico in un primo momento della sua produzione pittorica, se ne allontana e si concentra
sulle sottili variazioni atmosferiche che risultano da colori e forme, dando vita a quella che de Chirico denominava
“metafisica degli oggetti comuni”. Nature morte (1942) testimonia questa produzione così particolare, simbolo di una
forza creativa individuale. Al di fuori dei movimenti e delle contestazioni collettive, lentamente egli edifica un’opera
che riceve un riconoscimento internazionale.
Tra il 1917 e il 1920 Morandi conduce una riflessione sulla propria arte e scopre le opere di Carlo Carrà e Giorgio
de Chirico. Esse apportano una nuova dimensione alla pittura, quella di una riflessione al tempo stesso poetica e
atemporale. Morandi si converte alla metafisica trovando nella purezza e severità delle immagini metafisiche la sua
cifra stilistica più personale. Realizza un insieme di nature morte fortemente segnate da questa pratica introspettiva,
poetica e al tempo stesso concettuale. Ma questa parte del suo lavoro, che appare oggi come una parentesi, si conclude
nel 1920. Gli anni ‘20 segnano la sua opera con una «tensione verso il reale» caratterizzata da un attaccamento al
linguaggio figurativo, privilegiando la materia e il colore. Morandi si chiude in un isolamento che costituisce una
delle caratteristiche maggiori del suo atteggiamento artistico. Questo gli permette di sviluppare una ricerca del tutto
libera dalle influenze esterne. Appartato nell’intimità del proprio studio, l’artista non si lascia toccare da nessun
vento della storia, confrontandosi, nella solitudine della propria meditazione, con alcuni giganti della pittura quali
Cézanne, modello di ricerca compositiva e di rapporti volumetrici. È così che negli anni ’30 Morandi afferma la propria
personalità in una fase di estrema tensione interiore, che si riflette in opere depurate, quasi ascetiche. Già da alcuni
anni l’artista esplora esclusivamente un campo di esperienze estremamente ridotto fino ai suoi limiti più estremi. Nel
1939, alla Quadriennale di Roma, egli riceve il secondo premio di pittura.
L’arte di Morandi non può essere realmente identificata o legata a una scuola di pittura definita. Egli s’impegna in un
approccio personale molto forte, segnato da una sensibilità formale, sottile e raffinata, sia attraverso i suoi paesaggi
sia nelle nature morte cesellate dalle innumerevoli sfumature dei suoi colori e dal loro disegno. Esse portano lo
spettatore a una contemplazione introspettiva, sulla scia delle opere degli artisti del Rinascimento italiano. Le nature
morte costituiscono la parte più importante dei lavori e delle opere di Giorgio Morandi. Esse rappresentano il più
sovente un insieme di oggetti disposti in maniera precisa: brocche, vasi, bottiglie, alle quali si mescolano a volte
un frutto o una conchiglia, posti con meticolosità su uno scaffale o una tavola per essere osservati nei loro minimi
dettagli e dipinti in colori quasi monocromi con una precisione geometrica, ma forse anche come impegno a una
riflessione filosofica sul silenzio, la semplicità, l’estetica o la distanza da tenere nei confronti del mondo.
Nonostante la volontà di apertura alle influenze moderniste europee, in particolar modo nell’immediato dopoguerra,
il paesaggio artistico in Italia resta isolato in una cultura sequestrata da una volontà politica che auspica un
rinnovamento del classicismo. Il periodo italiano tra le due guerre, misconosciuto al di fuori delle sue frontiere, ha
anche visto esprimersi un ampio numero di grandissimi pittori, che per la maggior parte hanno superato i limiti
di questa figurazione imposta per esplorare territori sperimentali. La sola volontà di artisti isolati non sempre è
bastata a imporre una pittura che molto presto fu considerata inadatta all’espressione delle nuove tendenze; la
sperimentazione, l’arte di comportamento, il rifiuto della tela come supporto della creazione imponevano i nuovi
dogmi di un pensiero artistico in completa mutazione, che la guerra aveva spostato verso il continente americano.
Fontana rappresenta l’immagine emblematica dell’esposizione. Quattro delle sue opere sono in mostra, di cui tre
Tagli (uno verde, uno bianco, uno rosso) servono da bandiera a questo omaggio all’arte italiana. Artista di transizione,
10
il lavoro di Fontana trova uno slancio nuovo negli anni successivi alla guerra, dopo la pubblicazione dei suoi Manifesti
sullo Spazialismo.
Già tra il 1931 e il 1932 le sue prime sperimentazioni tecniche e figurative portano il segno di un rinnovamento al quale
egli aspira. Lavora sul tema delle figure umane, private del loro valore plastico e ridotte a sagome geometrizzanti,
inaugurando una fase produttiva all’insegna della sperimentazione sia figurativa che tecnica. Nel 1934 realizza
una serie di sculture astratte, composte da sagome geometrizzanti in gesso, esposte l’anno successivo in una
mostra personale alla galleria del Milione. Tra gli anni 1930 e 1940, Lucio Fontana diventa uno degli scultori più
innovativi del momento, collaborando strettamente con architetti d’avanguardia, ricercando nuove forme plastiche
e utilizzando materiali come porcellana, ceramica, terracotta, bronzo, cemento armato, vetro, materia plastica o
fosforescente.
La transizione si concretizza, alla fine degli anni ‘40, quando Fontana soggiorna in Argentina e percepisce il fremito
delle nuove tendenze. Tra il 1939 e il 1945, rifugiato a Buenos Aires, lancia una protesta artistica contro la guerra;
nel 1947 pubblica il Manifiesto blanco e crea lo Spazialismo. Fontana sviluppa la propria teoria, elaborando un’opera
che integra i principi di unità universale in un’arte totale, che proclama l’assoluta necessità di spazzare via le vecchie
abitudini artistiche, superando i concetti “stagnanti”, inserendo le dimensioni del tempo e dello spazio. Dipinge le sue
prime superfici monocrome nel 1949, le buca, le incide e le battezza Concetti spaziali. In questo modo intende mettere
l’accento sul principio della dinamica, rispettando gli equilibri e l’armonia, stabilendo una continuità dell’opera con
il suo ambiente. Mantenendo l’unità classica del quadro, ne fa esplodere i confini; distruggendo l’unicità piana della
superficie, introduce una rottura importante nella percezione dell’opera.
Tagliare la tela significa respingere definitivamente il principio di imitazione e di rappresentazione dello spazio;
all’illusione egli sostituisce la materializzazione concreta dello spazio nell’opera. Non per questo Fontana rinnega il
concetto di quadro. Il risultato è un “oggetto artistico” che sfugge al piano per i suoi Buchi e, a partire dal 1958, per
i suoi Tagli.
La tela è uno spazio monocromo sul quale i soli gesti possibili non sono più l’addizione di colori, di forme, ma la
sottrazione, la perforazione o la lacerazione della superficie. In questa conquista di una visione estetica universale,
egli non rinuncia a una certa visione classica dell’arte. L’opera si rivolge a un universo formale, caricato di senso e di
una volontà di armonia che non esclude l’utilizzo del colore. Le grandi tinte monocrome comunicano una vibrazione
sensuale, «un lusso leggero della forma»2 che, malgrado il valore utopico di un pensiero, per certi aspetti molto
radicale, difende anche una visione romantica e spirituale dell’arte, indotta dall’utilizzo di tonalità di base ben precise,
anche se l’artista esprime un certo distacco di fronte all’utilizzo dei colori. La sua predilezione per la monocromia
rientra in una semplificazione del gesto pittorico, ma ne sottolinea anche la purezza, concetto al tempo stesso
astratto e cosmico, molto lontano dal razionalismo informale. In Fontana la preoccupazione pittorica conserva il suo
carattere prettamente visivo, estetico e sempre legato a un certo ideale artistico. Egli non abbandona mai il campo
emozionale, sviluppando attraverso la sua arte un’eloquenza persuasiva seduttrice, propria dell’arte italiana. Se
Fontana è riuscito a superare il muro delle avanguardie, è perché il suo linguaggio pittorico ha raggiunto i principi
provocatori propri ai movimenti che si sono imposti nell’immediato dopoguerra, aprendo la via all’idea di arte totale
che unisce pittura, scultura, architettura e design, idea che segnerà la giovane generazione di artisti che entra in
scena a partire dalla metà degli anni ‘50.
Come Lucio Fontana, Alberto Burri è uno dei punti di riferimento dell’arte italiana del dopoguerra. La sua pratica
denuncia il carattere apocalittico degli avvenimenti passati, senza illuminare di un minimo di speranza i tempi
futuri; la sua arte appare come un rimedio alla disperazione nell’oblio di sé, che per certi aspetti lo lega alla ricerca
iconoclasta e spirituale dell’arte di Fontana. Egli è un pianeta a parte nella storia della pittura italiana, di cui è uno
dei simboli del rinnovamento.
All’estro di Fontana, Burri contrappone una personalità più chiusa e silenziosa. La sua opera abolisce il discorso. Si
11
definisce per la durezza della sua materia e delle sue composizioni. Consapevole della necessità di ripartire da zero,
il suo silenzio appare come una componente spirituale di un percorso interiore che non ammette nessun commento:
«Le parole – diceva – non mi sono di alcun aiuto quando provo a parlare della mia pittura. Quest’ultima è una presenza
irriducibile, che non ammette di essere tradotta in nessun altra forma di espressione. È una presenza al tempo stesso
imminente e attiva. Essa è ciò che significa: esistere nella pittura. La mia pittura è una realtà che è una parte di me,
una realtà che non posso svelare con le parole»3. Il silenzio è dunque complementare al suo lavoro e rivela la profonda
necessità della tabula rasa, condizione di base che rende possibile il manifestarsi di un nuovo concetto pittorico,
senza teoria, senza filtro della parola. La visione di Burri non considera più l’arte come una funzione mimetica della
vita, l’arte ormai illustra la vita con la sincerità della vita stessa.
Nel 1949 Alberto Burri realizza SZ1, il primo sacco stampato. Per anni i sacchi sono giudicati a dir poco scandalosi. Non
il caso, ma un’intenzione lucidissima guida Burri, che individua nell’apparenza una qualità disgiunta dalla sostanza.
Il sacco, tela unta, incatramata e lacera, è assenza di luce e colore. In mostra Composizione, 1950, permette di
identificare le caratteristiche di un’arte austera e materica. L’artista non vi esprime una messa sotto accusa della
pittura, ma propone una sostituzione del materiale pittorico, utilizzando l’assemblaggio di elementi abitualmente
estranei all’ambito dell’arte, per costituirne la materia e il fermento creativo. Egli opera una mutazione del senso;
oggetti di scarto acquisiscono così la nobiltà dell’oggetto d’arte. Questo modus operandi traduce anche un distacco
dell’artista nei confronti dell’opera. I suoi sentimenti e il suo carattere non devono assolutamente entrare a far parte
del processo creativo, e tanto meno trasparire dall’opera-oggetto finita. L’opera si pone come perfetto esempio di
autoreferenzialismo, cioè vuole significare soltanto sé stessa ed è priva di qualsiasi connotazione emozionale o storica.
Nel 1951 Alberto Burri aderisce al gruppo Origine, che nel suo manifesto rivendica «la necessità stessa di una
visione rigorosa, coerente, ricca di energia. Ma, primamente, antidecorativa e, in tal modo, schiva da qualsiasi
compiacente allusione ad una forma di espressione, che non sia quella di un raccoglimento umile ma concreto,
proprio in quanto decisamente fondato sul significato spirituale del “momento di partenza” e del suo umano riproporsi
in seno alla coscienza dell’artista...»4. Il lavoro di Burri non comporta dunque nessuna ricerca estetica; la forma, il
colore, sono esclusi da una pratica che insegue una verità delle coscienze attraverso l’utilizzo di materiali grezzi ed
evocatori di un’impronta umana. I suoi primi sacchi non sono altro che un punto di partenza, egli non vi si sofferma;
seguiranno altre esperienze: le Combustioni, i Legni, i Ferri, le Plastiche e i Cellotex. Le sue opere esprimono un
risveglio primordiale, una rinascita a partire da forze magmatiche e vitali, che scaturiscono dall’annientamento.
Nel ciclo dei Cretti, intrapreso negli anni ‘70, l’artista offre l’espressione più magistrale della propria arte. Egli vi
dipinge una natura primitiva che agonizza in monocromi bianchi o neri, che evocano terre selvagge e rinsecchite,
colpite da decomposizione, come se la vita dovesse ripartire da questo nulla che si dissolve in un cosmo di silenzio.
L’arte di Burri opera in questo intermedio tra vuoto ed eternità, in secondo stadio, dopo che la materia ha raggiunto
il suo punto di annientamento. L’interpretazione più spettacolare di un «cretto» fu realizzata tra il 1985 e il 1989,
sull’immensa collina di Gibellina, che un terremoto distrusse nel 1968. L’opera fossilizza la natura in uno stato di
trauma irreversibile e irradia candore sotto il sole di Sicilia.
Il lavoro di Burri e quello di Fontana, senza apparente legame, suscitano tuttavia un interrogarsi sul rapporto tra
l’arte e la sua storia, proponendo una modificazione della natura stessa dell’opera e del suo ruolo nella società;
queste posizioni, che proclamano una radicalità “cosmica”, sono determinanti per la generazione a venire. Entrambi,
infatti, sono i capostipiti di un avvicendamento che intende rinnovare le pratiche artistiche facendo tabula rasa del
passato. Fontana sostiene le idee di giovani artisti che iniziano a imporsi, accettando di partecipare in particolar
modo alla prima esposizione dedicata al monocromo, Monochrome Malerei, nel marzo del 1960, allo Städtische
Museum di Leverkusen, che raggruppa tutta la giovane generazione monocroma, tra cui Yves Klein, Piero Manzoni
e tanti altri. A Milano gli artisti di Azimuth, attorno a Piero Manzoni, s’impegnano in una riflessione che tende a
ridefinire il campo dell’arte nella sua capacità di esistere per se stesso. Manzoni aderisce alle idee fondamentali del
gruppo tedesco Zero, sviluppando la propria affinità con il concetto base di azzeramento. Zero deve essere inteso
12
come il vuoto che include un insieme di concetti, in particolare l’infinito e il nulla, che gli artisti del gruppo cercano
di raggiungere attraverso un lavoro sulla monocromia privilegiando, nelle prime opere della fine degli anni ’50,
l’utilizzo del bianco. Manzoni, del resto, intitola le sue opere bianche Achrome (in mostra Achrome, fibra artificiale,
1961-62). Il Manifesto Zero definisce i diversi livelli di azione del gruppo: «ZERO è silenzio, ZERO è principio, ZERO
è rotondo». In Libera dimensione, pubblicato nel n° 2 di «Azimuth», Manzoni, proclama: «Non è più comprensibile
oggi l’artista che stabilisce rigorosamente i limiti di una superficie su cui collocare in rapporto esatto e in equilibrio
rigoroso forme o colori. [...] Inutili sono anche qui tutti i problemi di colore, ogni questione di rapporto cromatico
(anche se si tratta di modulazioni di tono); possiamo solo stendere un unico colore, o piuttosto ancora tendere
un’unica superficie ininterrotta e continua. […] La questione per me è dare una superficie integralmente bianca
(anzi integralmente incolore, neutra) al di fuori di ogni fenomeno pittorico, di ogni intervento estraneo al valore della
superficie; un bianco che non è un paesaggio polare, una materia evocatrice o una bella materia, una sensazione,
un simbolo od altro ancora; una superficie bianca che è una superficie bianca e basta (una superficie incolore che è
una superficie incolore) anzi, meglio ancora, che è e basta...»5. Attraverso la forza combattiva delle sue dichiarazioni,
Manzoni introduce una violenta requisitoria contro tutte le degenerazioni accademiche, proponendo un’arte organica
destinata a riorganizzare un mondo disintegrato. Auspicando fortemente il verificarsi di trasformazioni sociopolitiche
e artistiche, Manzoni sperimenta le vie più diverse della provocazione: materializzazione del vuoto attraverso il soffio
(Fiato d’artista, 1960); il grado zero della forma e del disegno, la linea, 1960; la consumazione dell’arte da parte del
pubblico (performance, Divorare l’arte, 1960); l’illustrazione del carattere derisorio del fenomeno di conservazione
in arte attraverso la Merda d’artista (1961)… altrettanti gesti denunciatori di un sistema di commercializzazione, di
consumazione e di messa in scena di una mitologia individuale divenuta riferimento universale.
Dall’insieme di queste posizioni nasce una generazione che ha saputo confrontarsi con il reale, inventando un’arte la
cui forza impone una nuova dimensione alla creazione che, in questi tempi del dopoguerra, auspica un rinnovamento
concettuale e spirituale impegnato in un tentativo di ridefinizione della modernità. Una «nuova concezione artistica»,
come dice Manzoni, uno spirito di resistenza si contrappone al materialismo che esulta nella società del consumismo
nascente.
In contrappunto alle ricerche di questi artisti iconoclasti si è sviluppata in Italia, nell’immediato dopoguerra, un’arte
legata all’informale, spesso gestuale, retaggio del futurismo come in Dorazio, o tinta di un’influenza dell’espressionismo
americano legato a Rothko o Pollock, come in Tancredi (Senza titolo, 1955) o Vedova (Visione contemporanea, 1964).
Sanfilippo, egli stesso membro del gruppo Forma 1 come Vedova, procede da una scrittura gestuale “automatica”,
che in mostra è illustrata da Estensione arancio, 1962. Questi artisti astratti rappresentano, nell’ambito italiano del
dopoguerra, posizioni pittoriche affermate, alle quali si contrappongono personalità come Burri, Fontana, o Manzoni,
anche se questi ultimi sono stati a volte qualificati informali.
L’arte astratta informale prende piede in Europa dopo il 1945, in reazione all’astrazione geometrica che aveva
imposto alla pittura, dal cubismo in poi, regole e dogmi contestati dalle giovani generazioni desiderose di libertà.
Nuova rottura... Nuove proposte... Nuove provocazioni. Oltre l’Europa, gli Stati Uniti portano queste ricerche in primo
piano, eclissando in questo gli artisti italiani, francesi, spagnoli o altri che difficilmente riescono ad accedere alla
scena internazionale.
Le caratteristiche della pittura detta “astratta” comportano la scelta di una grande libertà di esecuzione, con una
propensione marcata per la traccia del gesto sulla tela e un gusto per il colore e la materia, quest’ultima molto spesso
proveniente direttamente dal tubetto. Il coinvolgimento dell’artista nell’esecuzione pittorica è tale da comportare
l’oblio di sé, e un impegno fisico dell’autore che investe tutto se stesso nella creazione della sua opera. La spontaneità,
la teatralità sono parte integrante nella realizzazione di quadri la cui forza nasce dal movimento e anche dalla
rapidità di esecuzione. L’artista sembra animato da una rabbia, da una volontà d’imporre al mondo una nuova forma
di pensiero che implica un’ “arte altra” (secondo l’espressione di Michel Tapié), ma anche una società diversa, con
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concetti di governo e di vita da reinventare. La forza liberata nell’atto creativo induce uno sconvolgimento dei
canoni estetici e delle norme di lettura, veicolando un messaggio liberatore attraverso i segni e i graffiti proiettati
sulla tela. Un’altra costante dell’azione degli artisti informali è che spesso, ai loro esordi, si sono identificati
con dei gruppi: Forma 1 (1947), L’Age d’or (1950), Gruppo degli Otto (1952)… la forza della determinazione
collettiva permette loro di promuovere idee nuove e di confrontarsi con i movimenti internazionali. A Roma, nel
1947, gli artisti Carla Accardi, Ugo Attardi, Pietro Consagra, Piero Dorazio, Mino Guerrini, Achille Perilli, Antonio
Sanfilippo e Giulio Turcato sottoscrivono il manifesto intitolato Forma 1. Contestualmente rinnegano l’utilizzo in
arte di psicologismi, sentimentalismi e il ricorso alla falsa emotività: «In arte esiste solamente la realtà tradizionale
e inventiva della forma pura». Questa teorizzazione si formalizza in Dorazio attraverso un lavoro in primo luogo
geometrico che, a partire dal 1953, dopo un soggiorno a New York, si scompone in un tessuto in cui predomina
il segno del colore. Rientrato in Italia, sperimenta nuovi materiali e a partire dal 1959 il suo lavoro esplora la
capacità suggestiva del colore e della luce, modulati attraverso un fitto reticolo di linee. Grandi bande verticali di
colori accesi caratterizzano invece i dipinti eseguiti dopo il 1963. Ungaretti scrive: «In quei suoi tessuti o meglio
membrane, di pittura uniforme quasi monocroma e pure intrecciata di fili diversi di colore, di raggi di colore,
s’aprono, dentro i fitti favi gli alveoli custodi di pupille pregne di luce, armati di pungiglioni di luce. La luce è infatti
in Dorazio, e sarà come realtà di pittura per merito di Dorazio, anche concentrazione e fissazione su un punto di
luce riaffiorato da abissi, iterato all’infinito. Così può uno scernare il miele delle ore»6.
In Sanfilippo il gesto diventa pittura segnica, vera calligrafia che l’artista traccia sulla tela come scrittura distintiva.
Questa tecnica è certamente più meditata di quella gestuale e di quella materica. La mano traccia con rapidità e
senza ripensamento segni in movimento, facendo nascere sulla tela una trama che s’identifica con la traccia di
un semplice gesto casuale, mentre a volte costituisce un vero e proprio segno distintivo e peculiare dell’artista.
Questa arte si avvicina, per diversi aspetti, al lavoro dell’artista francese Henry Michaux.
Per quanto riguarda Vedova, egli si accosta a un’astrazione internazionale. Autore di dipinti di grandi dimensioni,
caratterizzati dal colore e dall’impeto del gesto, Emilio Vedova appare come un tramite tra l’Action painting di
Pollock e lo Spazialismo di Fontana, definendo una tendenza nella quale la corporalità è preponderante. L’artista
non è più di fronte all’opera, ma, muovendosi all’interno di essa, s’identifica al Creatore del quale riproduce
l’atto fondatore della creazione. L’artista non si preoccupa dell’estetica, ma solo dell’esecuzione, come se fosse
sintonizzato sulla trance dell’azione.
Tancredi è anch’egli segnato dall’influenza americana. Con Vedova condivide l’attaccamento a Venezia e alcuni
riferimenti culturali: Lucio Fontana, Hans Hartung e Jackson Pollock. In occasione della residenza alla Fondazione
Guggenhein a Venezia, tra il 1951 e il 1955, egli ha modo di ammirare le opere dell’artista americano presenti
dalla celebre collezionista Peggy Guggenheim. L’ampiezza del gesto induce in Tancredi una deflagrazione che
accentua una tendenza alla frantumazione già presente nella sua opera a partire dal 1950. L’opera in mostra,
Senza titolo (1955), è particolarmente rappresentativa di questo movimento a spirale molto vicino al dripping di
Pollock. Bisogna tuttavia notare l’eterogeneità delle produzioni dell’artista, il cui talento si è espresso in numerose
forme astratte e informali, sempre segnate da una ricerca insoddisfatta e tormentata.
La molteplicità delle espressioni e delle ispirazioni, soprattutto negli artisti informali, nasce da storie ed esperienze
singolari indotte dalle influenze culturali, dai luoghi di residenza e dagli incontri determinanti con altri artisti.
A questo si sommano i legami particolari, gli uni con gli Stati Uniti, gli altri con la Germania o con la Francia la
cui aura, benché sbiaditasi nel dopoguerra, attira nondimeno artisti di tutte le nazionalità. Umberto Mastroianni
appartiene alla sfera d’influenza torinese, dove il sentimento di prossimità con la Francia sviluppa un’attrazione
per un pluralismo culturale e stilistico, segno evidente del lavoro dell’artista. Egli fu, infatti, un ardente difensore
del principio di superamento soprannazionale della cultura italiana secondo le indicazioni delle avanguardie
storiche. È essenzialmente conosciuto come scultore, malgrado la sua opera dipinta di notevole importanza.
Benché esordiente a Roma, Mastroianni si stabilisce poi a Torino, imponendo il proprio stile, che si caratterizza
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per uno spirito di libertà che gli è caro, esprimendosi in un linguaggio che potremmo definire neo-cubista, segnato
da un incontestabile dinamismo spaziale. Vi si può scorgere anche l’influenza di Jean Arp, in un segno fuggevole che
suggerisce una forma appena identificabile, particolarmente osservabile nel lavoro del dopoguerra. Maternità (1946)
è un esempio dell’abbozzo di una figura che sfugge alla rappresentazione, in un movimento che ricorda il Futurismo.
Argan diceva delle opere di Mastroianni: «Non rientrano nell’ambito delle poetiche esistenzialistiche dell’informale,
non denunciano l’angoscia e la disperazione di una condizione umana senza via di uscita; rimane nonostante tutto
scultura, benché l’agitasse un travaglio dialettico che la scultura non aveva, fino a quel momento, conosciuto».
Sempre a Torino, nel 1947, con un gruppo di artisti tra cui Luigi Spazzapan, Mattia Moreni, Ettore Sottsass jr..., fonda
il Premio Torino nell’intenzione di promuovere una linea alternativa tanto al classicismo imposto dal Fascismo quanto
all’impronta neo-impressionista del gruppo dei Sei di Torino. Il suo lavoro evolve verso un’astrazione gestuale e
dinamica, nella quale l’assemblaggio delle strutture si compone secondo schemi geometrici animati da uno slancio
vitale. La Francia gli offre un trampolino internazionale. Nel 1951 espone alla Galerie de France, che rappresenta
allora i nomi più importanti della non figurazione e dell’astrazione lirica. Negli anni ‘50, la Galerie de France è infatti
una vera e propria istituzione: essa domina la scena artistica e presto diventa il luogo di esposizione obbligatoria
per artisti, provenienti da tutto il mondo, che intendono acquisire riconoscimento e notorietà. È per Mastroianni un
momento di consacrazione, come lo è anche la sua mostra al Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris nel 1974. Il riconoscimento dell’arte italiana del dopoguerra non è immediato, subendo, l’Europa della seconda metà del XX
secolo, l’influenza dello “sbarco” degli Stati Uniti sulla scena culturale mondiale. Dall’inizio degli anni ‘60 si entra,
infatti, in un altro sistema di valutazione dell’arte, nel quale il valore di un’opera si definisce meno per le sue qualità
artistiche che per il suo prezzo di mercato. Questo cambiamento è anche accompagnato da un notevole ampliamento
dei formati, che sottolinea la smisuratezza delle ambizioni e che è anche reso necessario da tutte le operazioni
promozionali che si mettono in moto attorno all’arte. Questi nuovi metodi di valutazione, fondati sull’apprezzamento
cifrato del valore degli artisti, impongono un’arte di conquista che invade il mondo. Gli artisti dell’Action Painting
prima, quelli della Pop Art poi, sono serviti da supporto a questo slancio. Gli artisti europei, secondo questi canoni,
sono perdenti. È solo recentemente che i mercati internazionali hanno iniziato a interessarsi a questa ricchezza
creativa sviluppatasi in Italia a partire dagli anni ‘50 e rimasta in un’ombra (relativa) per più di mezzo secolo.
Jacqueline Munck, Dossier de l’art, n° 160, febbraio 2009, pagg. 7, 8.
Lóránd Hegyi, Lucio Fontana, in ZERO Avant-garde internationale des années 1950-1960, catalogo dell’omonima mostra al Museum Kunstpalast,
Düsseldorf e al Musée d’Art Moderne de Saint-Étienne, Ed. Hatje Cantz Verlag, Ostfildern, 2006, pag. 50.
3
The New decade, 22 European painters and sculptors, The Museum of Modern Art, New York, 1956. Citato in F. Caroli, La Forme et l’Informel, Studio
Marconi, Milano, 1979, pag. 33.
4
G. Capogrossi, M. Ballocco, E. Colla, A. Burri, Manifeste du Groupe Origine, Roma, gennaio 1951. Il gruppo si vuole distinguere dalle esperienze astratte,
storicizzate, considerate come un fenomeno superato e sempre più decorativo.
5
Piero Manzoni, Libera dimensione, in «Azimuth», n° 2, Milano, 1960.
6
Giuseppe Ungaretti, Un intenso splendore, cat. Im Erker Galerie, San Gallo, 1966.
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Floriano De Santi
Pensare per maestri nell’arte italiana del Novecento
I. La bellezza nascosta nel velo
In Europa l’intera ricerca artistica del Novecento, che non voglia ridursi alla misura dell’opus oratorium, deve essere un
inseguimento della veritas, dove essa non si limita a dis-velare (in effetti, Walter Benjamin afferma che la bellezza può
essere colta soltanto nel suo velo), ma produce il nuovo, quello che era impensabile, l’arcano, il freudiano Geheimnis
che perturba il tessuto poetico. Nello scrigno che contiene il tesoro della verità nascosta, ciò è desumibile dalla noesis,
dal pensiero per icone dei più singolari maestri del secolo scorso: da Picasso a Klee, da Brancusi a Moore, da Kandinskij
a Licini, da Matisse a Giacometti, e poi, nel seguito, attraverso le esperienze del Surrealismo e dell’Informale, si giunge
ai nostri giorni, al neoespressionismo di Bacon e di Anselm Kiefer. Con ben diffusa esplicitazione, è lo stesso nucleo
essenziale, emblematico e filosofico, da cui si dirama il grande romanzo della crisi di Kafka e di Pirandello, di Joyce e di
Proust, di Sartre e di Thomas Mann, di Musil e di Albert Camus.
Nel nostro Paese è un fatto che nel lavoro pittorico, scultoreo e disegnativo dei quindici maestri del secolo scorso
presenti nella suggestiva rassegna La bella Italia l’appartenenza alla modernità comporti costitutivamente una simile
posizione poetica: aperta, impregiudicata, indagante con il tramite dei propri peculiari strumenti, in primo luogo della
koinè figurativa, il terreno non finibile delle possibilità, quando non puntellanti la coscienza su inutili illusioni e invece
rivolte alle incandescenze del presente. Se prima delle avanguardie storiche l’artista, fissata che fosse l’emozione,
l’animi concitatio in immagine mentale, interrompeva il ritmo della propria esistenza, si sottraeva all’impulso di nuove
sensazioni e, sempre contemplando quella cifra visiva, la ripeteva sulla tela o sulla creta valendosi di una tecnica
meramente esecutiva o di traduzione, ora, con un Fontana o un Burri o un Mastroianni, il periodo dell’operare artistico
è una fase attiva dell’esistenza, durante la quale i rapporti fenomenici con l’universo non soltanto non s’interrompono,
ma s’intensificano, perché il fare artistico, come ogni altro fare, non è altro che un allacciare inedite relazioni con il
cosmo, cioè un estendersi nello spazio e nel tempo.
Certo, sottolinea Adorno, l’arte è apparenza, ma «questa apparenza la sua irresistibilità la riceve da ciò che è privo di
apparenza». Nell’immagine del nulla che Lucio Fontana ci consegna nella serie La fine di Dio del 1963 c’è un qualcosa
di essenziale, di necessario che la sua poiesis trattiene, la quale è il contrario dell’identificazione con il nulla. Essa
non è più un’esperienza vissuta e trasmessa come esemplare, ma esperienza che si compie; e, se in passato già
Aristotele supponeva che la creazione fosse sempre un’alogon, un’illogica approssimazione per difetto a un’immagine
mentale irrealizzabile nella sua integrità, ora l’opera contemporanea dà sempre qualcosa di più dell’intuizione iniziale:
e quel qualcosa di più è il suo effettivo esistere come cosa od oggetto estetico che rende visibile l’invisibile, pensabile
Umberto Mastroianni, 1971-1972
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l’impensabile. Alla forma emozionata succede quella emozionante; la realtà non è più punto di partenza, ma d’arrivo:
è l’Ausdrucklose, il privo di espressione che Benjamin individua negli interstizi delle opere d’arte, che ne costituisce
il senso più vero e profondo. È ancora quell’impensabile dell’essere senza gli esseri che, secondo Heidegger, soltanto
vale la pena di pensare.
II. La poetica futurista di Balla, di Depero e di Severini
Rimasta sostanzialmente estranea alla grande rivoluzione dell’Impressionismo francese, l’avanguardia artistica italiana
si apre con il movimento del Futurismo fondato a Parigi dallo scrittore Filippo Tommaso Marinetti. Il 20 febbraio 1909
usciva sulla prima pagina de «Le Figaro» il suo Manifesto, pubblicato anche sul numero 1-2 della rivista milanese
«Poesia», da lui diretta, che proponeva un enunciato teorico basilare: «Il Tempo e lo Spazio morirono ieri». Che cosa
voleva dire Marinetti con questa affermazione? Lo stravagante, ma geniale mentore futurista intendeva rimarcare
che era morta una certa concezione ottocentesca del tempo e dello spazio: «Noi affermiamo che la magnificenza del
mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità. Un’automobile da corsa col suo cofano adorno
di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo [...], un’automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è
più bella della Vittoria di Samotracia...». Quali importanti e decisive scoperte scientifiche erano accadute con Albert
Einstein, più di Max Planck, in quegli anni nel mondo? Prende avvio un rivolgimento nel rapporto tra l’uomo e la gnosis,
la conoscenza della natura che aveva completamente sovvertito quelle che erano state le prospettive fin allora vigenti
di questa connessione Uomo-Cosmo.
Sulla svolta del Novecento Planck enuncia la “teoria dei quanti”, cioè il concetto sconvolgente degli atomi di energia,
che è un avvenimento decisivo per lo sviluppo della scienza e che è di solito considerato l’elemento di passaggio
tra la fisica classica e la fisica moderna o quantistica. D’altronde, proprio nel 1909, nelle conferenze di fisica teorica
alla Columbia University, lo stesso studioso tedesco proponeva l’ipotesi del disordine elementare come principio e
paradeigma dell’entropia o abbaruffio microscopico. Intanto, già nel 1905, come sappiamo, Einstein fonda la teoria della
relatività speciale, in cui appunto formula le nuove proprietà peculiari dello spazio e del tempo. Undici anni appresso, e
precisamente nel 1916, sempre Einstein annuncia la teoria della relatività generale, in cui introduce lo stesso principium
nell’analisi del moto dei corpi soggetti a un campo gravitazionale. Nasce quello spazio-tempo curvo che chiamiamo,
con i matematici, il “cronotopo” novecentesco: sede e insieme degli eventi considerati al pari di una coppia costituita
da un punto e da un istante. In esso ogni punto rappresenta un evento, individuato, in un dato sistema di riferimento,
dall’insieme di quattro numeri: tre di essi le coordinate spaziali specificano il luogo; il quarto, la coordinata temporale,
indica l’istante in cui l’evento si verifica.
Il Futurismo è la manifestazione, la presa di coscienza più o meno avvertita, ma noi diremmo avvertita fino in fondo, di
questo esclusivo rapporto con la scienza e la civiltà tecnologica. La pittura futurista di Umberto Boccioni, che punta subito
«alla fondazione, fuor di ogni limite nazionalistico, d’una cultura figurativa europea», ma anche quella sorprendente di
Giacomo Balla, di Carlo Carrà, di Luigi Russolo, di Gino Severini, di Fortunato Depero e di Mario Sironi, individua nel moto
l’espressione prima della metamorfosi visiva, anzi lo pone come l’oggetto stesso della rappresentazione artistica, tanto
da far scrivere suggestivamente con acume critico a Roberto Longhi che il risultato della ricerca d’imprimere dinamismo
alla forma cristallizzata è «la disarticolazione completa delle membra della realtà che nel cubismo s’erano rattratte,
anchilosate, stratificate: il proiettarsi dei cristalli nelle direzioni essenziali che la materia e il movimento richiedono»,
mentre nella proclivitas marinettiana «non è più l’artista che squaderna freddamente appianandole allato tutte le
superfici di un corpo, ma è il corpo stesso che ci volteggia dinanzi presentandoci tante forme ‒ diverse tutte e legate».
Se l’orfismo di Robert Delaunay, dando fuoco ai grigi di fondo della staticità cubista di Braque, di Picasso e di Gris, in
aerea già contigua al daimon, allo spirito boccioniano, parla del “dinamismo elettrico” come concentrazione di forma,
e di “forma vivente” come cellula del momento e rievoca la formula dei “contrasti simultanei” di Chevreul, la teoresi
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futurista di Marinetti ha una fondamentale importanza soprattutto per il carattere che egli è riuscito ad esplicare
attraverso i vari manifesti ‒ non solo nel primo, ma anche negli specifici manifesti successivi ‒ di una poesia sublimata
nella propria poetica. È il segno contraddittorio, sostiene Giulio Carlo Argan, «di rappresentatività ed espressività che
Boccioni definisce con la contradictio in adiecto del trascendentalismo fisico», ma autenticamente anagogico di una
regolamentazione, e dunque di una razionalizzazione, dell’irrazionale medesimo che presiede alla rivolta novecentesca
contro tutte le regole e contro l’idea non tanto di una dominante retorica del museo quanto ad una retorica aprioristica
dell’arte contemplativa.
Volendo lasciare indietro il simulacro degli archetipi-guida e obbedendo però, nello stesso istante, al miraggio del suo
rovesciamento speculare negli “stati d’animo” come sintesi di ciò che si ricorda e di ciò che si vede, nelle “linee-forza”
del “palpito dell’oggetto” che trova riferimenti filosofici in Nietzsche e in Bergson, per il Futurismo avviene una vera e
propria mise en abîme della retorica, che in verità risulta a un rovesciamento all’infinito, ma di tipo referenziale e non
semantico, delle regole senza che ancora possa abbordare in termini analistici la traiettoria iconico-figurale del senso:
che è cosa che riguarderà le esperienze non codificate del secondo Novecento, dall’Informale al Nouveau Réalisme,
dall’Arte Povera al Postmoderno, e che avrà pertanto un’influenza fondamentale sullo statuto stesso del codice, che il
Work in progress di Boccioni o di Balla non tocca nella sua funzionalità istitutiva. Del resto, con la morte accidentale
di Boccioni nel 1916, quella in battaglia di Sant’Elia nello stesso anno e il cambiamento radicale nell’orientamento
politico ed estetico da parte di Severini e di Carrà, il Futurismo perde il suo carattere di movimento d’avanguardia.
Tuttavia, intanto che il suo anarchismo «passò, di lì a qualche anno, dalla primitiva intonazione ad atteggiamenti
reazionari, che coincidono con l’avvento della dittatura fascista, pure esercitò agli inizi un’azione di rottura nei confronti
del provincialismo artistico, promuovendo il rientro della cultura figurativa italiana nell’ambito più ampio della storia
europea (Giuseppe Mazzariol).
Quando Boccioni nel 1915 si rivolge a Balla definendolo «Sei un grande. Sei sopra una linea sempre più alta!» non
possono non suscitare consenso la sua intelligenza e il suo entusiasmo, ma non può sfuggire l’aspetto “mitologico”
del suo giudizio, ossia viene subito in mente quale parte avesse nella fantasia boccioniana de La città che sale del
1910 e de Le forze di una strada del 1911 il vagheggiamento, una tekhne pittorica destinata a sprofondare nell’”andar
fatale”. Se in Boccioni opera un’esigenza profondamente romantica di mettere a nudo le grosse arterie della conduzione
universale, in Balla agisce la volontà proficuamente positivistica di rinnovare la visione della realtà, e quindi il linguaggio
formale, attraverso l’analisi della visione medesima portata a livello scientifico o parascientifico: in tal senso si rammenti
l’interesse di Balla - allo stesso modo delle curiosità di Boccioni per i fenomeni misteriosi e quelle di Carrà per le
“divagazioni medianiche” - per i raggi di Röntgen e per la psichiatria, che probabilmente contribuiscono a rendere così
fluide, sicure, gioiose le sue invenzioni tra materia e spirito, “ormai più che fantasmi della tradizione e della classicità”
(Susan Barnes Robinson).
Non per nulla, in tre dipinti del 1912, Dinamismo di un cane al guinzaglio, La mano del violinista e Bambina che
corre sul balcone, Balla è nel pieno della verifica di un principio del Manifesto tecnico della pittura futurista: «Noi
proclamiamo che è il moto e la luce che distruggono la materialità dei corpi». È un’affermazione di scissione della
materia, fra Einstein e Bergson, approfondita da Boccioni e maturata da Balla, in cui il moto e la luce si presentano
sempre in dialettica: il movimento diventa luce e la luce movimento, all’investigazione delle leggi segrete del cosmo.
Anche tenendo conto delle scoperte di Bragaglio fotografo, il punto di partenza di Dinamismo di un cane al guinzaglio è
l’analisi del dinamismo, dove l’approdo vuole essere la sintesi, che è prima il triangolo e il cerchio, poi la spirale, infine
la sintetica “linea della velocità”. Si tratta di un quadro che dimostra per quel tanto d’ironia implicita nel soggetto e
soprattutto per la sua brillante soluzione fatta di finezza monocroma e di levità di forme astratte rimate e ritmate in
motus a ventaglio, che le rende trasparenti e in cui è evidente il rapporto con lo scandaglio tissulare dell’ultimo Seurat,
più che con quello di Previati e di Segantini.
Daccapo La mano del violinista presenta il triangolo, sigillo del movimento, addirittura nel formato e nella cornice in cui
Balla tagliava in maniera analoga una Compenetrazione iridescente, che assume nella sua sperimentazione cromatica
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Depero,
1929
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«un taglio più geometrico, consentendo al colore di essere dinamico per forza propria: le giustapposizioni e gli incastri a
tinte diverse, che più e meglio di molte ricerche cubiste sembrano indicare la strada verso il Bauhaus, sono comunque
animate da un respiro felice». Ma il capolavoro più convincente di questa stagione futurista di Balla è la Bambina che
corre sul balcone, in cui la suddivisione del campo pittorico in piccole pennellate di colori puri, quasi una geometrica
tastiera musicale, risente ancora dell’archetypos divisionista, facendo perdere al personaggio raffigurato (la figlia Luce)
la propria consistenza materiale, come avviene nelle armonie politonali de L’uccello di fuoco e de La sagra di primavera
di Stravinskij. Nei diversi studi, le gambe si scompongono in linee triangolari, mentre la sintesi dell’azione è data da
segni curvi in successione: «tutto ‒ annota il Maestro torinese in un Taccuino ‒ si astrae con equivalenti che dal loro
punto di partenza vanno all’infinito».
È da questa Stimmung, intonazione, che Balla, con opere astratto-futuriste come Forze di paesaggio + cretonne e
turchesi del 1917, Vele e mare del 1919 e Composizione dell’anno seguente, acquista ‒ sostiene a ragione Carla Lonzi
‒ «una consapevolezza sempre maggiore delle possibilità autonome dei mezzi formali unitamente a un’interpretazione
sempre più libera dei fenomeni motori secondo schemi geometrici che accordano preferenze ellissoidali di origine
liberty (in particolare per la rappresentazione delle vibrazioni aeree, delle onde acutistiche, ecc.) con le forme pure».
Simile alla Cosmologia di Plinio, che spiega l’harmonia mundi e il movimento dei diversi corpi come «effetti visibili di
moti di sfere e cerchi rispetto a sfere e cerchi», il poliedrico artista non si limita ad indicare che la luce ha una forma
triangolare, ma ricostruisce la spazialità del cielo (l’azzurro si compenetra al rosso e al giallo di Forze di paesaggio +
cretonne e turchesi, il blu e il celeste si modulano al verde e al rosa di Vele e mare e di Composizione): il lucreziano
clarus candor viene depurato e ricostruito su uno schermo rigoroso per ritrovare il valore di un simbolo luminoso com’è
l’arcobaleno. Nelle lettere di Balla alla famiglia si sente che l’arrivo all’astrazione è inevitabile; parla di effetti «che è
meglio considerarli indipingibili», che si riflettono nell’acqua al confine d’Italia, delle punte aguzze di Düsseldorf, dei
pioppi contro il cielo, di archi gotici, delle curve del ponte in ferro specchianti nel Reno: ogni frammento della natura,
della physis «diventa, per la qualità della luce, più misterioso e velato, e la materia meno reale».
Forse è la valenza di creatività, sintetica e tale da rompere i diaframmi fra i vari compartimenti del reale, ad accostare,
nella sostanza, Fortunato Depero a Balla e all’ambiente romano. Dopo il 1914 è il momento di maggiore dilatazione ed
interferenza tra loro dei vari campi d’iniziativa poetica e plastica: pittura, scultura, poesia, scenografia, architettura, arte
applicata e improvvisazione fantastica. Nel 1915 firma con Balla il Manifesto della Ricostruzione futurista dell’universo:
«Noi futuristi, Balla e Depero, vogliamo realizzare questa fusione totale per ricostruire l’universo rallegrandolo, cioè
ricreandolo integralmente. Daremo scheletro e carne all’invisibile, all’impalpabile, all’imponderabile, all’impercettibile.
Troveremo degli equivalenti astratti di tutte le forme e di tutti gli elementi dell’universo, poi li combineremo insieme,
secondo i capricci della nostra ispirazione, per formare dei complessi plastici che metteremo in moto». Come s’intuisce
subito il meccanismo di questo vero e proprio rito di appropriazione e riplasmazione tende a divenire presenza, ponendosi
in qualità di oggetto, e di oggetto che rispecchia in sé quella vibrazione universale che va unita all’antidrammaticità,
alla giocondità, e dunque all’ottimismo costruttivo ravvisabile negli anni Trenta, anche nelle opere polimateriche di
Enrico Prampolini.
Nel 1916 Depero ha l’incarico da Diaghilev di comporre costumi e scenari per il Canto dell’usignolo di Stravinskij, e
nel 1918 organizza a Roma, con Gilbert Clavel, i Balli Plastici, musicati da Casella, Malipiero e Bartók, disegnandone le
marionette e i costumi. Tuttavia, nei dipinti adopera sempre quel suo stile caratteristico a tubi di stufa infondendo in
ogni cosa, nel suo periodo migliore, tra Treno partorito dal sole del 1924 e Simultaneità metropolitane del 1946, una
punta di satirica ironia. L’artista roveretano «è quasi un Léger nostrano, instancabile montatore di robot meccanici
che non si negano ai piaceri del racconto, rasentando perfino le regole del comico da cabaret, o cinematografico; e
beninteso questa folla di automi dinoccolati e semoventi è pronta a uscir fuori dalla superficie del quadro per invadere
la ribalta della scena teatrale, o lo spazio dei cartelloni pubblicitari, o le materie tessili dell’arredo domestico».
Nell’olio su tavola Big sale ‒ mercato di downtown del 1929, più che sulle carte Scomposizione di bambina in corsa
del 1914, Innaffiatori di New York + grattacieli del 1930, Depero si propone con tutto il suo grand jeu, con l’elemento
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ludico di fondo, che non è altro che coscienza sensibile di decostruire per ricostruire una composizione in cui l’oggetto
facilmente riconoscibile perde la sua compatta consistenza per offrirsi in una pluralità di forme, come se esso assumesse
via via il corpo di tutte le cose che lo abitano. In Vere presenze George Steiner ci ha detto che la rivoluzione che
caratterizza il moderno in quanto tale è la caduta del paradigma mimetico. Ma la teatralità della visione deperiana, il
cui mistero del manichino-giocattolo sbocca nel “buffo” oggettivo (Big sale - mercato di downtown ricorda, d’altronde,
il Misterija-Buf majakovskijano) di una storia che, se pur amata, si smonta e un’altra se ne prepara, mette in moto
volontariamente, anche se in termini nascosti, il meccanismo psichico del vedente, e pertanto è produttiva di distacco,
di attesa spasmodica, nel surplace, dell’evento ontologico dell’io piuttosto che dell’evento del non io, che in Depero non
è ancora, certo, l’Altro di Musil e di Kafka, ma l’anticipazione debordante dell’io sconosciuto. Si tratta di un’originale
esperienza artistica, fa notare Guido Ballo, sempre pronta «a sconfinare nell’architettura mobile [...], che porta la
meccanica nell’ironia della favola primitivista».
Conosciuto nel 1906 il Cubismo di Braque e di Gris e scoperta l’importanza della prospettiva spaziale implicita
nell’«accertamento dei valori plastici iniziato da Cézanne», Gino Severini passa tre anni dopo al Futurismo. La danzatrice
blu del 1912 e La danza del pan-pan al Monico di qualche anno prima, quest’ultima distrutta in un incendio e rifatta dal
pittore toscano nel 1959, sono due tele fondamentali dell’hypostasis, della sostanza estetica severiniana: le agili, eleganti
figure sono costruite con estrema e raffinata sapienza, quasi un collage, dove il colore seguendo le sfaccettature della
forma si adegua con sottili, profilate articolazioni al fluire rapido e ricorrente della linea, che creano quegli arabeschi
della fantasia avvertiti da Lionello Venturi. Assai più di Boccioni, di Carrà, di Russolo, e in un certo senso vicino a
Balla, Severini compie subito l’operazione antiottocentesca nella ripulitura della tavolozza, nello scandaglio del colore
limpido e della luce chiara: tutte leggerezze diafane e sognanti che, in specie con la tecnica del pochoir, sembrano
addirittura “rinverdire la perduta arte della miniatura”. I suoi quadri cubo-futuristi possono veramente accompagnare
senza cedimenti le trovate più eccezionali dei talenti dell’École de Paris e, sebbene nei suoi dipinti ad olio e a tempera
non si manifesti nessuna vertigine intellettuale profondamente consapevole del significato ultimo dello stilema formale,
tuttavia la sua partecipazione all’elaborazione di una doctrina pittorica nuova e così pronta, così convinta da non
lasciarlo mai inerte negli alti e bassi della sua carriera, persino negli scivolamenti del richiamo all’ordine novecentesco,
in cui pure maestri del calibro di Picasso e di Matisse, tra il 1920 e il 1970, si trovano coinvolti.
Senonché, le tempere su carta Pas de deux n. 2 e Primavera del 1950 e quella su tavole Zeus partorito dal Sole / Paris 8
del 1954 segnano il distacco dall’esperienza cubista vera e propria. Se ricapitoliamo, sin dall’inizio, i rapporti di Severini
con le Méditation esthetiques di Guillaume Apollinaire, dobbiamo convenire che egli resta sostanzialmente ai margini
di alcune delle teorie-prassi che vengono considerate come specifiche del pensiero cubista, cioè alla concentrazione
dello spazio come entità multilaterale e relativa, al tentativo di realizzazione delle connessioni potenziali o possibili, che
simultaneamente lo spazio contiene. Difatti, in modo particolare, in Zeus partorito dal Sole pure l’adozione degli angoli
aperti, dei compassi circolari, delle costellazioni iconiche non ha come complementare la dissoluzione della prospettiva
unitaria e l’introduzione di una prospettiva disarticolata, moltiplicata, sovrapposta, interpenetrata, anzi, quegli elementi
sintagmatici vengono usati con forte valore di ripetizione che li disciplina ad una visuale centrica, “ombelicale”, e
li chiude in distribuzioni a trapezi e a triangoli inversi. Quella di Severini è una tarsia musicale che, per «la ricerca
del colore puro, della composizione euritmica ed astratta», collega questo capolavoro dell’artista ai più significativi
movimenti artistici del pensiero europeo del secondo dopoguerra.
III. La pittura metafisica di de Chirico e di Savinio
Del mythos, come delle immagini che lo compongono, si danno più interpretazioni, ma in realtà, come ci insegna Kafka,
queste interpretazioni finiscono sempre per ricondurre a un senso ultimo, inesplicabile, che viene disvelato in quanto
tale: «Il mito cerca di spiegare l’inspiegabile; dal momento che esso viene da un fondo di verità, deve nuovamente
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finire nell’inesplicabile». Nell’Uomo senza qualità di Musil la soluzione sta nel ricorso al Gleichnis, cioè ad uno stilema
espressivo complesso, che è un pensare per icone che uniscono in sé due figure diverse e comunica dunque la diversità
stessa. Possiamo trovare un nome per questa costellazione di immagini? Giorgio de Chirico ha detto che la metafisica,
ovvero la figura, l’aristotelico schema, è mito, è piccolo racconto; anzi, egli è andato più in là: anche il singolo frammento
è mito e, dunque, racconto. Per estensione potremmo ipotizzare che, persino il singolo oggetto sia già di per sé una
costellazione di immagini, qualcosa che porta in sé l’informe da cui si è generata, il tempo passato che ha attraversato,
il tempo presente che illumina con il suo improvviso lampeggiare quello futuro. La figura metafisica, lo ha detto Savinio,
è anch’essa un’immagine, ma un’immagine che si scompone, sopravvive in frammenti, si ricompone, unendosi ad altri
frammenti, ad altre immagini ancora. Come dobbiamo porci davanti a questa interminabilità? Per Nietzsche la nascita
della mitologia, come Gaia Scienza, ci riporta faccia a faccia con l’enigma, e l’arte diventerà la via che conduce nel
cuore dell’enigma, aprendo nella riflessione di Heidegger al grande tema di Arte e verità.
Nato in Grecia da genitori italiani e formatosi a Monaco di Baviera, in un ambito accademico tardo-ottocentesco, de
Chirico, quando giunge nel 1909 in Italia, è ormai impregnato di spirito monacense: i suoi maestri li aveva già trovati in
Böcklin, in Klinger e in Friedrich. La tendenza ad evocare il mito nella purezza classica delle sue forme è profondamente
velata dalla nostalgia romantica, debordante nell’aspirazione böckliniana all’ignoto. In effetti, è l’ignoto in stato di crisi
postcubista che spezza il mito nella sua monoliticità e geometrizza in un manichino Ettore e Andromaca: è la risposta
di un’arte di significati al Cubismo e al Cubofuturismo, cioè a un’arte di significanti. È un’arte di attesa, il mito si
staticizza nell’allegoria e in un novecentesco esprit de géométrie che maschera il proprio sottilissimo esprit de finesse
nell’accumulo di tutto quello che è stato nel mondo occidentale, in un’ironia metafisica derivante appunto dall’accumulo
nell’uomo, e proprio in interiore homine, come se fossero le sue viscere, di tutto un bric-à-brac di oggetti dislocati dal
loro luogo e dal loro uso, di segni-orme come balocchi viscerali non digeriti, di forme non più altre utilizzabili perché
destituite di ulteriore possibilità significativa: essi non nutrono più.
Ma sono anche, questi antimodelli della classicità, questi manichini, queste “teste d’uovo”, personaggi statuari colmi
di nostalgia, in attesa del nostos, del ritorno, in attesa cioè che soffi quello spirito di demoniaco, diciamo pure quella
tromba di giudizio, che informi l’attesa delle torri, dei poeti che hanno un destino, dei grandi metafisici, delle stazioni
deserte, dei cavalli antichi e li avvii alla coscienza della propria finale, come iniziale, demonicità, se «il mondo è pieno
di demoni», secondo la citazione dechirichiana da Eraclito. Per questo spirito di un mistero pragmatico da risvegliare,
de Chirico è stato considerato uno degli ispiratori formali del surrealismo. Il Pictor Optimus è vissuto a lungo a Parigi,
dove già dagli anni prebellici lascia molti dipinti di oggetti eterogenei legati tra loro da rapporti puramente onirici e
mnemonici, e torna in Italia per la Prima guerra mondiale nel 1915, quando a Ferrara, mobilitato, s’incontra con Carlo
Carrà all’ospedale militare di Villa Seminario, inoculando insieme al fratello Savinio il germe della pittura metafisica in
un ambiente ricettivo, se anche Giorgio Morandi presto sarà della partita.
La Metafisica che è, dopo il Futurismo, il secondo movimento italiano delle avanguardie storiche, si propone di
rappresentare, senza alcuna implicazione spirituale, un mondo che non appartiene più alla nostra diretta esperienza
quotidiana, ma a quella del sogno, dell’inconscio e del pensiero immaginativo che si tramutano in un imperscrutabile
enigma. Scrive in tal senso Marco Valsecchi: «Carrà, in vicinanza di de Chirico, si lascia attrarre nel giro delle mutevoli
apparenze. Aveva lasciato Milano già un po’ stanco delle teorie futuriste; e ora si volge, sulla spinta di de Chirico e di
Savinio, a questa nuova interpretazione dei miti antichi. Ma vi si dispone con una serietà morale, un senso drammatico,
che de Chirico ignora o almeno travolge nel gusto della sua invenzione. Dico drammatico, perché al di là di questi
artifici e capricci di fantasia si avverte un interno scetticismo verso una cultura di secoli, che non serve più a risolvere
l’inquietudine dell’uomo moderno. Gli antichi eroi si smontano come pupazzi in rotelle, squadre, viscere di stoppa.
Solo Morandi sfugge a queste ironiche e amare filigrane. In effetti c’è da chiedersi se i suoi nitidi volumi ‒ i cubi, i
parallelepipedi, le gemme di cristallo, le bottiglie, i manichini neri ‒ così estranei ai viraggi e cangiantismi ironici della
metafisica dechirichiana, si possano veramente definire metafisici: o se non si tratti piuttosto di un’appassionata e al
tempo stesso controllatissima ricerca di valori puri della pittura, in un senso di concreta geometria, sul filo di una cultura
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che guarda ai grandi prospettici del Quattrocento italiano».
S’incarna in de Chirico un’esperienza, a dir così, solare, che si esplica in forme nette insieme alla percezione che quelle
forme nette nascondano qualcosa, la favola del loro perché perduto, e avviene la loro rievocazione come simboli di
un’esistenza e di una significanza che più non tornano. Sicché, s’incontrano le Arianne, già statue, abbandonate nella
lassitudine dell’infinito. È irreversibile, in questo infinito che maschera la propria soggettiva e oggettiva stanchezza
nell’ironia, in cammino delle forme verso gli archetipi: non vi è rimozione del profondo, bensì il mascherarsi dell’energia
dell’enigma come il modo resistenziale ultimo delle stesse forme estetiche, anzi della stessa esteticità in un secolo
che ammette solo il consumo senza residuo delle forme. Dice Nietzsche: «Tutto ciò che è profondo ha bisogno della
maschera»; e de Chirico, che apprezza lo sconvolgente filosofo di Così parlò Zarathustra e della Nascita della tragedia,
apprezza la maschera che è indice del profondo, ma sa anche che quella metafisica non può rifluire sulla fisionomia
multiforme del reale, non può identificarsi con la realtà apparente. Nei quadri dechirichiani il “divertimento” di Palazzeschi
con i giocattoli del mito è doppiato dalla mancata identificazione pirandelliana della personalità umana: uno, nessuno e
centomila, l’uomo non si guarda più nello specchio del mondo, perché egli ormai fa parte del gioco che gli Dei gli hanno
lasciato, della partita mortale con l’inconoscibile. È in questa conoscibilità, lo ha detto Benjamin, che l’occhio dell’artista
diventa l’occhio stesso della morte: il solo occhio che può guardare più a fondo, più profondamente verso il nulla, senza
che il nulla si erga contro di lui per spegnere lo sguardo o per abbagliarlo di buio.
C’è in L’arbre généalogique du rêve, che Claudio Bruni Sakraishik nel suo Catalogo generale dell’opera di Giorgio
de Chirico pubblica con il titolo Manichini in anticamera, un’evoluzione stilistica durante l’esecuzione nel 1927-28 di
questo quadro? A prima vista, si direbbe di sì, e notevolissima; rispetto a Le paysagiste o a Les navigateurs dello stesso
anno la scena si fa meno affollata ed aneddottica; il colore cessa di essere elementare e contrapposto in modo aspro
per divenire più accordato e lirico; le proporzioni del corpo si allungano; il racconto, anche se impostato su un solo
protagonista, diventa in tutti i sensi corale, e proprio per ragioni apparentemente opposte a quelle per cui si designa.
Intanto sul leitmotiv dei manichini o degli archeologi seduti L’arbre généalogique du rêve è il più “espressivo”, ancora
più inquietante de Le trouble du thaumaturge del 1926, in cui l’archetypos filosofico «è la guerra degli elementi che
secondo Eraclito animerebbe: uno scontro di opposti che continuamente si ricompone in unità, un dinamismo che
coincide con la stasi più assoluta».
L’arte di de Chirico scopre l’inapparente mistero della vita, dove «si trova tutto l’enigma della rivelazione che viene
d’improvviso». È qui il platoniano kalon, la bellezza della variegata superficie del mondo che nasconde la profondità, è
l’ombra di ciò che è e di ciò che può diventare: è la stanza tremenda della verità, che si apre per chi sappia creare non
solo le forme per esprimerla, ma anche l’uomo che possa vederla. Ne L’arbre généalogique du rêve si oserebbe dire che,
al di sopra di un ipotetico reticolo tragico, c’è un controllo che arriva quasi allo straniamento; non tutto è saputo, mai
tutto è saputo, poiché dietro l’enigma della Sfinge, come ben sa Edipo, c’è un altro enigma. Allo stesso modo dell’École
des gladiateurs del 1928 e dei Gladiatori in riposo del 1928-29 il controllo della malinconia è pari all’impeccabile tenuta
stilistica: non una sbavatura, non un eccesso, neppure negli scudi colorati accartocciati in se stessi. Entro questa misura
classica che fa pensare ad Euripide, tale sentimento di dolore è il massimo consentito, non sale un gradino di più, se
non nella direzione del Nietzsche di Così parlò Zarathustra: «Io passo in mezzo agli uomini, come in mezzo a frammenti
dell’avvenire: di quell’avvenire che io contemplo».
Ora de Chirico in L’arbre généalogique du rêve vuole rappresentare, ma non coinvolgere; vuole esprimere, ma non
lasciarsi trascinare; resta perfettamente padrone e delle emozioni che la finzione del tragico fatto suscita e dei mezzi
che impiega per raffigurarlo. Questi mezzi sono formali e non naturalistici: la linea di contorno assiepata e sintetica
fino alla stilizzazione; il volume proposto come compresso e appiattito, ma denso e petrigno nelle ombre, e, in questa
compressione, come scattante; il colore campito quasi a sillabare e a tenere diviso quello che il rilievo prospettico,
pensato come continuo, unifica al di là delle cesure della stanza. L’impatto che ha così la scena dechirichiana sul fruitore
è duplice, sotto l’azione immediata della rivelazione purificatrice, della katharsis inscritta nella figura, la malinconia
deflagra di colpo. Ma al secondo momento, di successiva riflessione, la limpidezza del contrasto, dell’ironia, la congela;
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se la dinamica è interna ai volumi compressi e al succedersi, anche parallelamente, delle diagonali, la composizione si
realizza senza un vuoto, eppure senza apparire congestionata dalla sospensione che questa contesa apre nel tempo:
sospensione che rappresenta lo spiraglio da cui l’eterno, l’aidios, entra nel divenire, o meglio, in cui il divenire si fa
eterno divenire.
Che cos’è nel capolavoro L’arbre généalogique du rêve quel manichino che tiene nel grembo-giardino, come racconta
de Chirico nel romanzo Hebdomeros, alberi e casa? Dov’è quell’oltre metafisico verso cui l’artista piace nascondersi?
Qual è la profondità che i Greci amavano, tenendosi animosamente attaccati alla superficie del mondo? Forse, come ha
capito Valéry all’altezza della Giovane Parca, la risposta a questi interrogativi è la ragione: spinta all’estrema astrattezza,
essa giunge a un limite dove solo uno spazio quasi infinitesimale la separa dal brusio inquietante del corpo; Nietzsche
varcherà questo limite per affermare “la grande ragione del corpo”. Dietro di loro sta anche de Chirico che, dal suo esilio
dalla Grecia, proprio inseguendo il sogno di una ragione pura e senza mescolanze, ha finito per mettere il suo cuore a
nudo, penetrando nei confini in cui le avanguardie storiche lo avevano relegato. Così egli spiega il logos filosofico della
sua mente colorata: «Un’opera d’arte, per essere veramente immortale deve andare completamente al di là dei limiti
dell’umano: la logica e il buon senso dovranno essere completamente assenti. In questo essa si avvicinerà allo stato di
sogno e all’atteggiamento mentale di un bambino».
Dopo la fortuna presso i surrealisti dei dipinti eseguiti tra il 1915 e il 1918, è questa l’epoca del noto passo di André
Breton, in cui condanna nel 1926 la consuetudine di de Chirico di rifare soggetti del primo periodo nel quale l’accusa,
con tono di anatema, di falsario, addirittura di truffatore. Nel giro di due anni s’inasprisce la polemica con Breton e i
surrealisti che allestiscono, in una stanza della Galerie Surréaliste, una vetrina contenente delle parodie della sua opera;
contemporaneamente, in La révolution surréaliste, compare una foto molto kitsch, dedicata a lui, in cui le Piazze d’Italia
vengono trasformate in Torre di Pisa, con l’aggiunta della scritta funebre “Ci-git G.D.C”. Non escluderei così in quegli
anni, sotto l’impressione traumatica di quell’asserzione bretoniana, che de Chirico si abbandonasse ad una ricerca di
illusione, perché credeva, o faceva credere, di non sentire la scissione profonda che divideva, tra il suo passato e il suo
presente, la sua anima di pittore saturnino.
Un piccolo racconto di Honoré de Balzac, Il capolavoro sconosciuto, scritto intorno al 1830, profetizza l’arte della
modernité. Ma il termine avanguardia comincia ad avere senso solo a partire dalla Lettera del veggente, che il giovanissimo
Rimbaud manda a Paul Demeny il 15 maggio 1871; in essa si avanza l’illusione, che sarà propria di tutte le avanguardie
storiche del Novecento, di un’essenza, divina phronesis artistica, come avamposto del mutamento effettivo della realtà.
Già Giuseppe Ungaretti nel 1935, nel suo saggio sui Caratteri dell’arte moderna, sottolineava l’urgenza di «riportare
nei nostri spiriti gli antichi miti, non come modi neoclassici di imitazione oziosamente accademica, ma come figure di
una giovinezza spirituale ritrovata», che confina tra l’infinito e il finito, tra l’essere e il non essere. Al pari di un fiume
che trascina verso il nulla, senza che il nulla spenga lo sguardo dell’artista per abbagliarlo di buio, Giorgio de Chirico
ha cercato nei dipinti L’Enigma di un pomeriggio d’autunno del 1910, La nostalgia dell’infinito del 1911 e Malinconia /
Solitudine del 1912 di rappresentare questo interstizio in vari modi. Ma sempre si è perduto, e al tempo stesso ‒ e ciò è
lo straordinario paradosso della sua opertio immaginativa ‒, perdendosi, ha mostrato e reso visibile l’inespresso, in un
punto in cui il linguaggio mostra la sua insufficienza e superando i propri limiti si spinge nell’inesprimibile: incomincia,
profetizza il Maestro di Volos in Zeusi l’esploratore, «a scorgere i primi fantasmi d’un arte più completa, più profonda,
più complicata e, per dirlo in una parola [...] più metafisica».
Duplice come la luce crepuscolare che tiene dentro di sé l’oscurità della notte e la luce del giorno, nel quadro dechirichiano
Il cavaliere frigio del 1938 la forza del cavallo si trasmette al cavaliere, manifestando una diversa tensione: non più,
o non ancora, quella tra cosmos e logos, l’impetuoso agone tra l’essenza di forma del dionisiaco e l’eccesso di forma
dell’apollineo, che si sospende miracolosamente sulla soglia dell’istante, del tempo-ora, in cui tutto si affaccia davanti
all’artista e davanti a noi. Senonché, l’urgenza della materia e la volontà della forma si attraggono con la stessa
intensità con cui queste confliggono. Malgrado siano raffigurati da dietro, il cavallo e il cavaliere, simboli dell’umanità
nel crepuscolo del mattino, viaggiano verso il futuro, che trasforma il noto in ignoto, l’abituale nello strano, il solito
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nell’insolito. Ma il loro sguardo è volto tra il qui e l’altrove: resta aperto anche al passato; verrebbe voglia di dire con
Baudelaire, «in ogni luogo purché via dal mondo».
Non c’è, per Il cavaliere frigio, che un punto di riferimento: l’idea del movimento di Rubens, ma senza la qualità
delle textures policrome, sulla quale il Maestro fiammingo ‒ precisa Gombrich ‒ «deve fissare l’attenzione dopo aver
assimilato le forme dell’antichità». De Chirico non sottolinea e non commenta: la sua formazione classicista l’ha abituato
ad un’obbiettività formale, ad una fermezza compositiva assoluta. La struttura di questo quadro ha un rigore, una
puntualità, quali si possono trovare, tanto per restare alla produzione della stessa stagione creativa, soltanto ne Il buon
Samaritano del 1939 e nel Perseo libera Andromeda del 1942. Entro una simile koinè ponderata e guardinga, però, vi
sono un fervore e una concitazione tanto maggiori in quanto compressi; la sommarietà della resa pittorica è estrema
come può vedersi specialmente nella criniera e nella coda di cavallo: un ordito figurativo che ci ricorda Delacroix più di
Géricault. È una visione rapida, captata e fissata nella sua essentia, in quanto è un compendio che diviene traccia della
coscienza. Non è un abbozzo, come quello del Cavaliere con berretto rosso e manto azzurro della Galleria Nazionale
d’Arte Moderna di Roma, ma una forma pittorica conclusa e assoluta. Nel Cavaliere frigio de Chirico si muove in mezzo a
frammenti di futuro, orrida casualità, enigmi e ancora frammenti che vengono dal passato e che si accumulano davanti
a noi. La forza del pensiero deve comporre in una forma questa pluralità incontenibile: una morphe che li contenga, ma
che anche li esprima in quella tensione che impedisce che essi siano pacificati all’interno, di una costellazione o, come
dice Nietzsche, nella finzione di “un mondo vero”.
La metaphisica è, agli inizi dell’arte moderna, quel luogo dove poesia e filosofia si uniscono, dove si crea un di più, un
ingorgo, uno spessore di significato, dove si comincia a vedere un al di là della pittura; e del resto Max Ernst, inventore
di questa formula, è posto giustamente dagli studiosi tra i seguaci iniziali di Giorgio de Chirico. Già Breton ha ricordato
una frase di Nosferatu il vampiro, quello di Murnau: «quando arrivò dall’altra parte del ponte, gli vennero incontro i
fantasmi». Alberto Savinio è l’artista moderno che, in un imprecisato giorno o notte, va d’altra parte del ponte. Non
abbiamo mai capito come si potessero considerare mediterranei il suo mondo e la sua ispirazione, che sono ‒ come ci
ha più volte ricordato Franco Russoli ‒ così naturalmente nordici; se mai si potrà immaginare lui, al modo immaginato da
un Klinger o da un Böcklin, come un prigioniero del nord Europa che sente drammaticamente la nostalgia della Grecia,
un romantico che sente la nostalgia del classico. Quando il giovane studioso di musica, di filosofia, di letteratura greca
e latina, di arte antica e contemporanea pubblicò su «Les soirées de Paris» nel 1914 il suo primo poema drammatico,
intitolato Les chants de la Mi-Mort, molti ebbero l’impressione di una rivelazione.
Invero Savinio aveva scoperto, tra tutti i sussurri e i mormorii che interrompono il frastuono o il silenzio del mondo,
l’unico soffio che gli era destinato, quello dell’uomo dal cammino impassibile, «dell’oscuro inquilino che abita acquattato
dentro di noi», e lo rivestiva di parole con una meravigliosa sicurezza. Il suo respiro era ampio, vasto, lento ed oscuro;
trascinava dietro di sé risonanze senza fine, incantava e cullava con la dolcezza avvolgente della sua musica predadaista
«une forme étrange et énigmatique»: così scrisse Apollinaire recensendo una sua partitura in «Paris Journal» del 21
maggio 2014. A causa del troppo amore per i fantasmi, egli dipinge il cimitero dei giocattoli, gli uomini-uccello che
precipitano verso strapiombi di isole misteriose popolate di pegasi e di argonauti, il biancore muto e cristallizzato dalle
pareti da luce senza origine, il verde-blu smaltato ed opaco dei cieli che sprofondano nella notte, i mostri mitologici, i
giganti minotauri, gli eroi precipitati sulla terra che nascondono il volto nell’ombra: tutti soggetti di quadri, ordinati nel
1927 alla galleria Bernheim di Parigi, con presentazione di Jean Cocteau. Sono tra le più belle invenzioni di quel favoloso
diorama di immagini che la lanterna magica del repertorio saviniano proietta sulla nostra memoria.
Nel dipinto Enea e Didone del 1931, lui raffigurato con una testa di capriolo e lei con una testa di pellicano, Savinio,
evocando un Surrealismo sui generis dove «si cela una volontà formativa e, perché non dirlo, una specie di apostolico
fine», legge dietro le cose adoperando l’arma leggera e penetrante della metafora e dell’ironia. Ritrova le figure
archetipiche del mito classico in un catalogo di oggetti domestici o nel patrimonio meno dimesso della scenografia
teatrale, abbandonarsi all’avventura d’indagare le misteriose simmetrie che corrono per la memoria di accadimenti visti
o sognati e le concrezioni disumanizzate, che sono il frutto della sua pesca miracolosa nei racconti omerici, ritrovando
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‒ secondo Giuliano Briganti ‒, «nella certezza di vedere quello che gli altri non vedono, la traccia che gli Dei hanno
lasciato nel cielo». Mentre in Batail de Centaures del 1930 la visionarietà dà forma a idoli-relitti di un vita organica
spenta da tempo immemorabile, in Enea e Didone Savinio è consapevole che l’immaginazione non è soltanto facoltà
di evocare figure che trascendono l’universo delle nostre percezioni, ma che è sviluppo di una facoltà insuperabile
dell’attività stessa della coscienza. Se la grande arte della cultura europea, conscia della sua missione di conoscenza,
sa anche delle tenebre e della perdizione che abbiamo attraversato nel secolo scorso, quella di Savinio è contiguità
all’orrore della devastazione del mondo: è perciò che nella sua fantasmagoria s’impone una sorta di atto sacrificale,
come nell’opera di Virgilio, di Kafka, di Proust e di Thomas Mann, quello profetico del Doctor Faustus.
IV. Il “Novecento”, «Valori plastici», Sironi e Morandi
Dietro la ventata futurista, che appassionò con il mito del movimento e della civiltà meccanica gli spiriti più dotati
della giovane pittura italiana, e l’allucinante sosta nella contemplatio metafisica, si palesa nella nostra cultura artistica
una tendenza alla restaurazione dei valori della tradizione. Si annuncia, pertanto, un atteggiamento di rinuncia ad
ogni esperienza che comporti rischio, alimentato da una sorta indefinibile e pur sincera di beatitudo e di nostalgia per
un mondo ordinato e sicuro, di cui la forma classica si presenta come la diretta, emblematica espressione. In Italia la
produzione creativa, nell’immediato dopoguerra, è caratterizzata dalla presenza di due riviste edite a Roma: «Valori
plastici», il cui primo numero è del novembre 1918, e la «Ronda», sorta qualche mese dopo nel 1919. L’indirizzo
critico dei due periodici è analogo e tende, nonostante le molte digressioni e superficialità estetiche, a ripristinare un
reazionario rappel à l’ordre, che adombrava schematiche modalità classicistiche. Attorno a «Valori plastici», diretta dal
pittore e critico Mario Broglio, si raccolgono collaboratori quali Carrà, de Chirico, Savinio, Ardengo Soffici, Roberto Melli,
Giuseppe Raimondi, Jean Cocteau, André Breton, Vasilij Kandinskij, Théo Van Doesburg, che si servono, tra il 1918 e
il 1922, della rivista per esprimervi il loro pensiero artistico e per pubblicare, come Morandi, Picasso, Arturo Martini,
Archipenko, i loro lavori.
Quasi per il naturale dilagare e prevalere delle componenti tradizionali e provinciali, è sulla svolta degli anni Venti che
si deve ricondurre la prima costituzione del gruppo del “Novecento”, con l’adesione di artisti come Anselmo Bucci, Gian
Emilio Malerba, Leonardo Dudreville, Pietro Marussig, Ubaldo Oppi, Achille Funi e Mario Sironi. Animatrice del movimento
era Margherita Sarfatti, che l’anno seguente presentò la collettiva di questi pittori alla XIV Biennale di Venezia; ci fu poi
un periodo di assestamento, dopo il quale si giunse nel 1925 alla riorganizzazione del movimento, con il titolo, ormai
decisamente intonato al clima fascista, di “Comitato direttivo del Novecento italiano”. Sull’argomento e con la consueta
lucidità ermeneutica scrive Giulio Carlo Argan: «La ruota della storia ricomincia a girare, ma all’indietro: il processo
involutivo, il piano inclinato del Novecento non comincia con de Chirico, ma con Carrà; e proprio perché Carrà non osa
negare, come de Chirico, tutta l’arte moderna dall’Impressionismo al Cubismo. Il movimento di Valori plastici (1920)
tenta un’operazione ambigua: ricondurre il linguaggio figurativo moderno, di Cézanne e del Cubismo, a quella che si
afferma essere la radice storica originaria di tutta l’arte europea, la vera tradizione italiana: non quella di Raffaello,
ma di Giotto e Masaccio. È uno storicismo sbagliato: l’Impressionismo e Cézanne s’inquadrano in tutt’altra prospettiva
storica. Tuttavia la causa dell’errore non era (non ancora, almeno) un ostinato nazionalismo, ma la concezione idealistica
dell’arte come classicità universale ed eterna».
Malgrado partecipi direttamente alle aspirazioni del “Novecento” e nonostante il plauso di certa critica interessata
come quella della Sarfatti, Mario Sironi dimostra con la sua opera pittorica e disegnativa un’autonomia di visione che
nettamente lo innalza oltre i termini effettivi della reazione anticulturale del tempo. I suoi inizi figurativi sono ravvisabili
nell’Autoritratto del 1907, dove un senso di solidità plastica contraddice apertamente il descrittivismo psicologico
dell’immagine, arrestandosi ‒ per dirla con Euripide che sostiene che proprio il mathema, il sapere dell’occhio non può
tutto ‒ da un lato sulla vertigine di un reale che non ha, oltre un certo confine, figura, e dall’altro lato sull’abisso di una
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soggettività che, oltre un certo confine, sembra non avere più forma. Si tratta di un’opera ancora sperimentale, che
peraltro è già indicativa dell’orientamento estetico dell’artista. In questo momento Sironi pratica assieme a Boccioni
e a Severini, lo studio romano di Balla; eppure, senza curarsi di questi contatti, non appare interessato a soluzioni
postimpressioniste, ma a precisare un diretto e meditato rapporto con il dato fenomenico attraverso una definizione
perentoria delle qualità tattili e volumetriche che forzano lo spazio ancora naturalistico in cui s’inseriscono.
Indefinito il dato formale dell’emozione, indefinito il presupposto coloristico della sensazione, nell’Autoritratto in
questione, l’interesse di Sironi, prescindendo dalle condizioni di luce che giustificano il complementarismo della sua
techne policroma, non può che concentrarsi sul rapporto dialettico che può istituirsi tra quelle indicazioni contraddittorie:
su un certo ritmo o movimento, che permetta all’emozione di avvicinarsi fino a sfiorare la sensazione, e alla sensazione di
allontanarsi o approfondirsi fino a toccare l’emozione. È così che la stessa indagine fisionomica perde ogni determinatezza,
e il problema si sposta, anticipando almeno da questo punto di vista la sintassi futurista di Boccioni, dall’espressione del
sentimento all’espressione dello “stato d’animo”, dall’oggettivazione alla soggettivazione. Quasi un pitagorico apeiron,
tale spazialità indefinita, che non è tutta esterna né tutta interna ed altro non manifesta che un’irrisolta tensione tra
gli interni impulsi e il dato della realtà oggettiva, diventa la condizione di una tematica formale sempre oscillante tra
l’astratto e il concreto, tra la testualità dell’oggetto e il suo nascondimento nella densità dell’ombra, tra la necessità di
una giustificazione naturalistica e la necessità di una giustificazione simbolica. Con Dinamismo di una figura del 1915
la successiva frequentazione futurista e metafisica non allontana Sironi, da quel suo originario e primitivo senso della
forma plastica inteso come realtà autre, in cui si compendia il significato interno della sua via.
Mentre il cammino artistico di Carlo Carrà si svolge in parallelo con la storia culturale figurativa italiana, l’opera
pittorica e grafica di Giorgio Morandi, che si isola in una sfera di interessi spirituali e di rêveries liriche come riduzione
del fenomenico, del molteplice all’unità dell’invisibile, appare immune da ogni contaminazione sperimentale con le
“avanguardie storiche” del Novecento. Ma questo non esclude che il maestro bolognese, con il suo lavoro solitario,
rappresenti uno delle punte più avanzate dell’arte europea della nostra epoca. Poiché, per l’assolutezza dei risultati,
per le caratteristiche dello stile, per l’estrema sobrietà dei suoi elementi figurativi, la sua produzione pittorica si è
presentata a giustificare un’interpretazione che, agevolata dall’apparente non coincidenza con il Futurismo, la Metafisica
e il realismo magico di “Valori plastici”, che si sono via via succeduti nella storia artistica del ventesimo secolo, tendeva
a relegarla in una cristallizzazione classica, da cui veniva eliminata ogni intrusione della vita e dell’uomo. Ma non è così
ci avverte Roberto Longhi: «stupiranno i molti che in Italia hanno lungamente creduto a una certa immobile comodità
della posizione di Morandi dinnanzi ai suoi semplici oggetti, disposti, scalati, variati, permutati; senza intendere che
nella sua lunga, instancabile elegia luminosa, egli andava conducendo una così poetica ricognizione del mondo da non
trovar pari nel cinquantennio che gli toccò attraversare con la sua ombra densa di alto, austero viandante».
Per Morandi il secondo decennio del Novecento ha termine nel culmine di tensione dei quadri “metafisici”, nei quali ogni
cosa è immobile in un equilibrio, in un daimon prospettico così arrischiato che basterebbe un soffio a interrompere; non
c’è però in opere quali Natura morta con scatola del 1918 e Natura morta con il vaso blu del 1920 la purezza dell’antica
misura speciale italiana (pensiamo più a Piero della Francesca che a Paolo Uccello) o la sostanza solida di una forma
portata alla sua definizione più assoluta, ma anche penetrato dagli interstizi di un piano che sembrerebbe a tenuta
perfetta, l’alito leggero ed inquieto di un’atmosfera magica, quasi a tratti medianica, oggetti sospesi nell’air ambiant,
privi di peso, ma presenti come un’ombra fantasmagorica. In anni difficili, di restaurazione formale e moralistica, egli si
pone con la sua nuova opera contro le pompe e i movimenti del tempo, a toccarne invece la vera anima, per cammini
liberi, ma misteriosi, nascosti. Inventa lo spazio, la materia, la luce, l’accordo dei tempi; diventa drammatico, potente,
a volte delicato, poi doloroso e malinconico. Avvicina oggetti combusti dall’ombra contro lo schermo del fondo che ha
assorbito i bagliori soffusi di una notte chiara, dissolve parvenze leggere nel dolce lume del mattino, per trascorrere
onde lucenti sulla delicata sostanza dei mazzi di fiori, schiaccia e distende gli alberi sui muri del cielo in un intarsio
ricchissimo di tonalità digradanti verso i verdi, i bruni, i rosa e i celestini.
Il rapporto di Morandi con l’oggetto, assai simile a quello di Proust e di Virginia Woolf, consiste nel porglisi davanti in
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una durata di contemplazione, finché dalle bottiglie e dalle tazze, liberate dalle loro spoglie materiali, sprizza il lampo
della conoscenza, Le Temps scintille ha detto Valéry, come segno o fenomeno del mondo; ora, se il pittore nella Natura
morta del 1942 ha velato questo scintillamento, è perché questa velatura è quella stessa dell’immagine che ricopre, e
scopre, il tempo. È il tempo stesso, nella sua opacità luminescente, che si spazia, si vela della propria espansività ab
interiore obiecto: un universo, che isola la propria febbre di crescenza oggettiva, vive di quella febbre segreta che può
sembrare difensiva, e in un certo senso lo è, nell’accezione che appunto che essa, mentre lo spazia, lo isola nella propria
“spaziosa calma” ungarettiana. In questo piccolo quadro, che è un capolavoro di Morandi, l’oggetto è il limite della
luce, ma non della luce che cade dai cinque oggetti o sugli oggetti, bensì della luce che diviene oggetto per dichiararsi
limitabile, captabile nella sua prodigiosa ipotesi d’interiorità, dove il silenzio e la semplicità coincidono. Non è più la
mente di Morandi a irradiare di significati, ovvero d’invisibile, la realtà, ma è la realtà stessa a sprigionare l’invisibile
come rifiuto di ogni commento, come saggezza che recupera la propria vocazione alla pace del pensiero, in antitesi
ormai clamorosa con l’inquietudine dell’enigma di de Chirico.
V. La ricchezza dell’arte italiana nel secondo dopoguerra
È tempo di bilancio culturale di fine secolo, anzi di fine millennio. Ma anche bilancio di una stagione che s’è ormai
conclusa, tanto che gli estetologi più avventurati ci hanno confermato nell’impressione parlando di post­modernità. Il
Moderno, lo si sa, muovendo dall’Ottocento, ha impegnato l’arte in un inseguimento della realtà. Meglio la sua storia
‒ ai livelli alti e a muovere da Schiller ‒ è stata equivalentemente la stessa di un progetto salvifico del mondo. Le
vicende drammatiche, e per molti versi tragiche, degli ultimi due secoli, segnatamente dell’ultimo, hanno confermato
la necessità di una simile vocazione. Dopo i disastri e le revulsioni della storia, che soltanto un pensiero ad un tempo
apocalittico e progettuante, autocritico e parimenti utopico, poteva comprendere o almeno segnalare, serviva in ogni
modo recuperare un contatto con le cose, persino le più immateriali e sfuggenti, per provare a se stessi ‒ attraverso
l’arte ‒ che esse ancora esistevano in una loro concretezza e in una magmatica pregnanza.
Se tale è la costante del pensiero estetico a cavallo dei due secoli (da Nietzsche a Svevo, per esemplificare), a maggior
ragione lo sarebbe divenuto in seguito, dopo il carnaio dei due conflitti mondiali e in presenza di un diverso engagement
(per riusare il termine sartriano) della cultura e dell’arte e, in senso più lato, dell’intellettualità. La realtà non solo esiste
‒ suggerisce Fautrier sul cominciare degli anni Cinquanta ‒ ma essa non può in verun caso essere rigettata e ignorata.
Il gesto pittorico ‒ continua ‒ non è quello puro e semplice di stendere dei colori sulla tela, dovendo ammettere che
l’impulso all’espressione estetica arriva, quantomeno originariamente, dal fermento e dal premere delle cose stesse.
In quest’ottica, più vasta rispetto alle diatribe tra realismo e informale, tra impegno politico e sociale e formalismo, si
colloca anche la vicenda italiana del secondo dopoguerra. Punto acceso ‒ appunto all’altezza degli anni ‘50 ‒ di quella
controversia che l’arte ingaggia col reale nel tempo della nostra appartenenza all’universo della precarietà inaugurato
dalla Moderne.
L’arte degli anni ‘50 ‒ in Italia e certo più estensivamente all’estero, in Francia, negli Stati Uniti ‒ mette i pittori, gli
scultori, i nuovi grafici in un atteggiamento da protagonisti della più recente e più contrastata fase della modernità. Per
questo Birolli e Morlotti, Dorazio e Mastroianni (per portare degli esempi peraltro interscambiabili) possono venire letti
sul controcanto di un Guttuso o di uno Zigaina, di un Francese o di un Fazzini. I territori del cosiddetto realismo non si
arrestano di fronte alla misura di un epigonismo mimetico e pompieristico, ma ugualmente parecchi tratti espliciti delle
poetiche post-realistiche, ufficiali e non, esprimono una fruttuosità ed esemplarità di spunti sostentati sull’arrischiato
equilibrio tra forma e realtà. Tanto maggiore ne è il merito, quanto questa realtà non strutturandosi obbligatoriamente
come materia tematica, come forma del contenuto, si ritrova trasformata e infine modellata sull’immagine interiore
dell’artista, diciamo sul suo temperamento. Sempre Jean Fautrier è lì a ricordarci come una tale immagine finisca per
divenire più vera della realtà stessa. Cionondimeno essa non conduce all’oblivescenza e cancellazione del primum
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naturale: apparenza fascinante e debole, riafferrata dentro la memoria secondo un topos della modernità, dall’Ottocento
in poi, oppure estrovertila e data a vedere nei passaggi essenziali del processo mitopoietico, steso e scavato sul
contrappeso epifanico.
La ricchezza dell’arte italiana del dopoguerra e poi del periodo successivo si spiega, dunque, con l’essere a vicenda
l’espressione culturale e storica di un movimento di ricostruzione dell’identità di un popolo, con l’appartenenza ‒ sia
pure in posizione di svincolo e in una fase conclusiva ‒ a un flusso di pensieri, pulsioni e pratiche tipici della modernità.
In linea dentro l’orizzonte frastagliato di una varietà di correnti, estetiche e stili, la nostra produzione artistica ha
saputo aprirsi alle suggestioni della koinè pittorica internazionale, in qualche modo innovando, ma mai ha ostentato un
cosmopolitismo gratuito o preconcetto, tenendo invece inalterati i legami con la nostra tradizione italiana. Insomma,
ha camminato al passo con la propria contemporaneità, non defalcando le ragioni formali e neppure vietandosi a una
iconografia e un segno, gravidi di tensione e imperativi categorici. L’abito critico ‒ come è risaputo ‒ porta sovente a
diffidare. Ma ormai le riflessioni e ogni valutazione staccano, come è giusto, dalla pura attualità e dal conflitto immediato.
Col tempo, valori e disvalori si sono in gran parte decantati. Né si tratta più di difendere idee e cordate, singoli autori
oppure opere avanti sui tempi, perciò incomprese. L’intero panorama, date le necessarie e ben utili differenze, si stringe
infine in quegli squarci di ricerca e percezione intensa del reale, che appunto raccontano le ideologie costitutive del
nostro Novecento italiano. Così, all’inizio del nuovo secolo, si può, senza tema di smentita, asserire essere stati quei
nostri pittori e scultori degli anni Quaranta-Cinquanta e, più ancora, del decennio successivo, importanti e creativi.
Ma sono anni pure di grandi innovazioni, nel rapporto con le novità e nel recupero di una tradizione europea e
internazionale, negata sotto il fascismo. Quello che maggiormente contraddistingue la stagione artistica apertasi nel
‘49 «è una crisi di linguaggio e un allargarsi dell’esperienza artistica, cioè dell’arte intesa come attività conoscitiva,
in un orizzonte più vasto di quello noto e delimitato dal sistema tradizionale delle arti visive, dai codici accreditati,
dalle tecniche e dai procedimenti canonici». Molti, ad esempio, i movimenti d’avanguardia, e molteplici e articolate le
poetiche, dallo Spazialismo di Lucio Fontana (basato su una ricerca estetica e concettuale che mette in discussione il
primato stesso della pittura) all’Espressionismo lirico, dalla “pittura nucleare” (il cui manifesto compare nel ‘52, cioè
tre anni dopo quello dello Spazialismo) alle numerose istanze figurative. Ma vorremmo in primo luogo far menzione del
Gruppo Origine, nato per sottrarre le ultime prospettive ai rischi dell’eccesso manierista e tecnicistico implicito nella
retorica del nuovo. L’impostazione antintellettualistica fa il paio con l’autonomia dall’obbligato schieramento dalla parte
dei figurativi o all’opposto degli astrattisti. L’auspicio era che si ritornasse a una primaria e genuina facoltà espressiva,
modulata in forme elementari e semplici variamente reiterate e poi nell’accensione cromatica, tuttavia innervata su un
numero non elevato di colori. «Origine perciò come punto di partenza dal principio interiore, come bisogno di attingere
alla più ingenua, libera, primordiale natura. Origine in quanto liberazione dalle molteplici sovrastrutture e come
identificazione con la verità in noi stessi contenuta». Del gruppo Origine fecero parte il pittore milanese Mario Ballocco,
firmatario del primo testo programmatico del ‘50; ma poi anche Ettore Colla, Giuseppe Capogrossi, Alberto Burri, tutti
presenti insieme ad altri sessantacinque artisti all’esposizione romana del gennaio 1951 nella Galleria Nazionale d’Arte
Moderna, con la partecipazione di numerosi critici tra cui Gillo Dorfles e Giulio Carlo Argan.
Il Gruppo degli Otto vide invece schierati Afro, Birolli, Corpora, Moretti, Morlotti, Santomaso, Turcato e Vedova. Tutti, in
quel tempo (siamo nel ‘52), tra i trenta e i quarantacinque anni, dunque giovani e maturi, tutti decisi a non essere sic et
simpliciter astrattisti, ma nemmeno realisti: dunque anch’essi ben intenzionati a sottrarsi a quell’obbligata acquisizione
di campo tra nuovo e vecchio, tra ciò che rischiava di apparire una nuova ed inedita maniera e quell’altro schieramento,
troppo incline a recepire le parole d’ordine dell’impegno politico. Viceversa, nel linguaggio degli Otto entravano Cubismo,
Espressionismo e anche un forte accento di astrattività e un importante richiamo (nei casi di Vedova, ma anche un po’ di
Turcato) al nostro Futurismo. La prima uscita importante è alla Biennale di Venezia del ‘52 e il mentore e critico ufficiale
è Lionello Venturi: «È il linguaggio tipicamente attuale, che essi usano secondo un ideale comune, che è poi quello di
valersi di tutte le possibilità che offre loro la pittura senza rinunzie preconcette, con l’occhio attento a eseguire quello
che la loro sensibilità detta». L’atteggiamento polemico, ma anche aperto e riflessivo, verso la politica culturale della
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sinistra, orientata su posizioni engagées, non li spinge nelle braccia puritane ed estremistiche dell’astrattismo nostrano,
lontano dall’esperienza e dalla vita dei sensi. Né li porta a chiudersi.
Renato Birolli avvia una riflessione sui caratteri del nuovo realismo, per vederne portata e limiti. Epperò ‒ come
puntualizzato da Venturi ‒ gli Otto rimasero ben fedeli al principio secondo cui «... una pittura vale anzitutto per le sue
linee, per le sue forme e per i suoi colori, per quella coerenza di visione che è l’intima forza di ogni opera d’arte dipinta».
Proprio dal Gruppo degli Otto, negli anni successivi, verrà il massimo incentivo alla conquista di una piena modernità
della pittura. Crescono i rapporti internazionali (si rammenti il soggiorno di Afro a New York): gli artisti definiscono
lo stile e il segno loro più congenito; alcuni acquistano poco per volta la statura e la fisionomia di classici moderni.
Nasce la tendenza “astratto-concreta” (dalla definizione di Venturi), incline ad astrattizzarsi; sempre aggiornata;
vero fulcro della vitalità espressiva della nostra cultura artistica. Il decennio pare nullameno dominato dalla disputa
e dalla contrapposizione, spesso acre, sempre rovente, tra astrattisti e figurativi. Il neo-realismo ottiene un successo
di immagine alla Biennale di Venezia del ‘50, la XXV (dove erano tra gli altri presenti Giuseppe Zigaina e Armando
Pizzinato, Renato Guttuso ed Ernesto Treccani, Anna Salvatore e Renzo Vespignani). Ma dalle antinomie dell’arte del
tempo nascono tendenze e linee intermedie: l’”astratto-­concreta”, la lignée neosurrealista degli spazialisti, con Baj e
Dangelo; l’arte fantastica tematizzata alla Biennale di Venezia del ’54 (con Santomaso e Fazzini); gli “ultimi naturalistici”
padani e corporali, indiziati da Francesco Arcangeli nel ‘54 e rispondenti ai nomi di Vacchi, Mandelli, Romiti, Moreni e
specialmente Morlotti (vicini agli “astratto-concreti”, ma invisi a Testori come pure a Guttuso).
«Quello che noi chiamiamo ultimo naturalismo non è un atteggiamento, né un moto neoprimitivistico. È tentativo,
semmai, anche per il contraccolpo stimolante della moderna archè della prima metà del secolo, di ritrovare, non un
arcaico, ma un primigenio, quasi dimenticato, logorato, nascosto. Ma questo primigenio (come un Wols e un Pollock
hanno registrato con così oscura, significante, immanente disperazione), deve essere moderno, passibile d’un futuro, e
non soltanto a carattere rievocativo. Soltanto la sua angoscia può essere, almeno per ora, significativa e sopportabile».
Il decennio si chiude con la mostra Nuove tendenze dell’arte italiana, alla sede romana della Rome-New York Art
Foundation. La mente critica è ancora una volta Venturi; gli artisti Carla Accardi e Sanfilippo, Pietro Consagra, ancora
Moreni, Giò Pomodoro. Già a fare più evidente che ormai le più diverse tendenze si sono come fuse e rimescolate tra loro
e che, ormai, per il divenire della scrittura artistica, non è più questione di un’appartenenza a cordate e schieramenti
(pur definiti, come allora, da ragioni di cultura e di lingua espressiva), ma di una poliedricità linguistica che apre, almeno
in Italia, alle esperienze di «Azimuth» con Piero Manzoni ed Enrico Castellani e a quelle dell’«Arte Povera» con Jannis
Kounellis ed Alighiero Boetti.
VI. Lo Spazialismo di Fontana, la sperimentazione di Manzoni e il materismo cosmico di Burri e di Mastroianni
«Ormai nello spazio non c’è più misura... Il senso della misurazione del tempo, è finito... e, allora, ecco il nulla, proprio
l’uomo che si riduce a niente. E l’uomo ridotto come una pianta, come un fiore e, quando sarà puro cosi, l’uomo sarà
perfetto... E anche la mia arte è tutta portata su questa filosofia del niente, che non è niente di distruzione ma un niente
di creazione». Così Lucio Fontana, in un’intervista rilasciata a Carla Lonzi nel 1967, un anno prima della sua scomparsa.
È la teoresi sottile di un archetipo cosmico insondabile che, ugualmente lontano dall’appiattimento anonimo e dalla
recitazione privata, colloca l’artista nel grande paesaggio della natura e della storia. Un poeta come Fontana, che ha la
purezza di un simile ordine, non porge allora orecchio alla propria reattività psicologica, bensì alle varie, innumerevoli
voci del mondo. Si fa diffusore ‒ come asseriva Schopenhauer ‒ della propria esperienza e di quella degli altri uomini,
dando espressione e immagine a felicità e dolori, che sono di tutti e appartengono a lui come a qualsiasi altro.
In effetti Fontana non lavora nell’hic et nunc del visibile, come un Mondrian che basa la sua poetica sull’Assoluto e sul
Totale, ma nell’altrove, dove vibrano risonanze del mondo invisibile ed anche le sollecitazioni dei ricordi. Quanto più
l’immaginario deve staccarsi dalla coscienza geometrica, dalla topologia degli incroci e degli incontri euclidei, tanto
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più esso può soltanto essere ogni volta concepito. Ed ecco lo spazio-tempo, le curvature, le accelerazioni, le epifanie
ritmiche che s’irradiano in senso centrifugo dalle cellule materiche. Lo spazio è pattern e precipita attraverso i corpi;
traversando fonde ciò che separa: architetturale, comunicazionale, lo spazio si muove, si sostituisce simbolicamente
all’artista, si appropria della precarietà, della miseria, dell’angoscia logorante della sua esistenza. Gli stilemi “narrativi”
non parlano dentro, al centro della pittura, nel profondo degli spessori; volteggiano sulla superficie di quella massa
omogenea e chiusa che è l’opera, al pari di uccelli ciechi, disorientati e privi della necessaria forza di penetrazione. È un
modo per Fontana di negare il discorso tautologico e chiedere che l’opera sia lasciata, come “una dimensione al di là del
quadro”, a parlare da sola. Ma un discorso è pur necessario, fa parte del modo di accostarsi al lavoro creativo, di istituire
con esso dei rapporti; tanto più che, se da un lato blocca lo sguardo e lo costringe di colpo a una muta contemplazione,
dall’altro, in un tempo successivo, provoca il sorgere fitto e intrigante di pensieri, di intenzioni ermeneutiche, di tentativi
di chiarimento.
Dopo Fontana, nell’iter dell’indagine sperimentale e del Work in pro­gress, si crea in effetti una cesura tanto profonda da
somigliare al vuoto, anche se vuoto non sarà. Così egli si colloca all’estrema propag­gine di un territorio, come un Ercole le
cui colonne segnino i termini del mondo. Del resto, Fontana non ha mai attraversato queste colon­ne, né avrebbe potuto
farlo: anzi, al punto di estremo avanzamento dei “buchi” o dei “tagli”, che lacerano la superficie della tela e del foglio, è
sembrato come ritrarsi, e nei lavori ultimi il valore empirico ha un deciso predominio sulla materia. Ma questo apparente
ritrarsi non è stato che uno spaziare negli orizzonti della sua radicata e positiva concezione della pittura, della scultura
e della grafica. Comunque sia, l’opera fontaniana ci introduce nei labirinti di uno dei più profondi, forse degli estremi
capitoli dell’arte non solo italiana ma europea. Fontana nasce in Argentina il 19 febbraio del 1899 da genitori italiani.
Allievo a Brera di Wildt, un importante scultore neogotico che a fatica sta in clima liberty, nel ‘33 fa la prima mostra
a Milano, ed espone sculture astratte. Ciò non gli impedisce di disegnare e modellare, contemporaneamente e negli
anni seguenti, cavalli in corsa e donne in ceramica colorata, con un impeto che partecipa sia della violenza fantastica
del barocco sia della lievità filata di certi disegni dell’Estre­mo Oriente. Composto nei suoi equilibri non geometrici,
ma istintivi e infallibili, il lavoro plastico comincia a presentarsi con una felicità di combinazione che l’artista «non sa
immaginare una statua senza pen­sare al suo interno di aria, di luce» (Leonardo Sinisgalli). Anche quando fa ritorno
dall’Argentina nel ‘46 (vi aveva diffuso il Manifesto blanco, primo seme di quello che sarebbe diventato lo Spazialismo),
non trova contraddittorio aprire il suo primo ambiente spaziale alla galleria del Naviglio di Milano e poi sullo scalone
della Triennale 1951, e nello stesso tempo plasmare, nelle fornaci di Albissola, i suoi croce­fissi, i cavalli, gli arlecchini
danzanti, che chiama magicamente sculture a gran fuoco.
Tra pittura e lavoro tridimensionale, Fontana progetta a scatti, giocan­do da grande virtuoso di trasparenze, spessori e
coaguli. Eppure più che la violenza lo interessa, da sempre, la velocità dell’azione gestua­le. Ma se per i futuristi la velocità
è degli oggetti, per lui è del soggetto, che fa largo alla matassa delle immagini, al loro singolare incastro, aggiungendo
però che domina nello stesso modo il loro svaporare e sdrucciolare nel niente. Nella sua mente di bricoleur-artigianoprestigiatore c’è un lato forse inconsapevolmente illuministico: ha il gusto dell’elenco e dell’enciclopedia, come Boullée
che immaginava il cenotafio di Newton al pari della palla del mondo o Ledoux che disegnava forni a legna sul modello
omerico della pira. Bisogna re­inventare tutto, la realtà come il linguaggio, facendo tabula rasa del pregiudizio che separa
e gerarchizza significato e significante. Nelle ceramiche (con particolare riferimento a quella esposta in questa mostra
intitolata Frammenti lunari del 1960-61) la materia greve e buia s’incrina e risplende, le scre­polature causali rispondono
segretamente all’ordine di una cristallografia che è naturaliter reale. Nelle tele la materia è manipolata senza prendere
atto della sua esistenza; e gli spazi sono impossibili e pura­mente mentali, come quelli della scultura bianca sans rides
di Arp. Le ceramiche hanno una certa ambiguità naturalistica, danno la sensa­zione della sabbia e della creta che si
rompe; nelle tele il colore è pura dimensione policroma, che si trasforma in qualità nel lucido e nell’o­paco, nel ruvido
e nel liscio. Sono due facce della stessa medaglia: alla quantità del molteplice Fontana sostituisce la qualità dell’unità.
In Concetto spaziale del ‘56 e in Concetto spaziale del ‘60 l’artista applica un sistema proporzionale tanto più quanto
più la materia è scatenata, abnorme, illusiva, e quanto più assurda sembra la via e irraggiungibile la porta d’uscita
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Mastroianni,
1948
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della prigione. Se il “qui e ora” si trasforma in istante, ebbene, allora occorre abitare l’istante come fosse l’eternità: un
tale istante è l’erede fulmineo, ma diseredato, del­l’oraziano carpe diem. In fondo Fontana vuole vivere il proprio tempo
afferrandolo nei suoi minimi termini, o meglio nei suoi punti terminali sia pure coordinabili: teme che gli sfuggano le
radici, non si fida della parte visibile, vuole toccare il punto dove le radici finiscono e comin­cia un’altra cosa, che è
quella di cui sta illustrando, un’humus cosmica brulicante fino alla putredine, che è l’atto medesimo di modificazione
del visibile in contatto metamorfico con l’invisibile: lì funziona l’essen­za, archetipo in crisi, nel fango, di ogni principio.
Con l’esperienza del barocco alle spalle e la visione come modello, Fontana capisce che il suo compito è creare un
nuovo spazio per l’uomo moderno. Esso deve essere concreto, attivo, psichico e totale, ma inoltre con una significativa
apertura alla scienza contemporanea e alle indagini spaziali. Il cosmo è là, basta un gesto per sfiorarlo; diventa un
viaggio anche alla ricerca dell’inconscio, sebbene assai diverso da come lo concepirono e lo pensarono i seguaci di
Breton. Già è fondamentale, per capire appieno la sua poetica, la prima serie dei “concetti spaziali” (1949-50) che ci
fa percepire subito il vero percorso fontaniano: un’architettura di piccoli fori, stimmate, impronte, incisi sulla carta o
sulla tela, su cui rintoccano talvolta le note ‒ quan­do sottilmente accordate e dissonanti ‒ dei vetri colorati. Questi
“bu­chi”, che tante perplessità suscitarono, non sono soltanto un modo di rappresentare le costellazioni celesti, ma più
violentemente, un gesto improvviso che apre la superficie, vuole afferrare, anche fisicamente, la dinamica infinita dello
spazio.
Poco più di una decina di anni dopo siamo ai “tagli” su tela verde, su tela bianca e su tela rossa intitolati Concetto
spaziale / Attesa del 1962, Concetto spaziale del 1964-65 e Concetto spaziale del 1966. La forma, adesso, è padrona.
Protende poche campiture solenni ed es­senziali, le fa dialogare con battute scarne e pregnanti, incorpora la vibrazione
dello squarcio e il suo acuto contrasto tattile con la zona cromatica; divide emblematicamente il quadro nei simboli
archetipici del giorno e della notte, dell’Essere e del Nulla, Ma appunto non tutto l’Essere è natura, poiché la mente
e l’arte dominano la vita. In tal senso, per i tre quadri sopracitati, non si può non ricordare quel bellissimo pezzo che
è Concetto spaziale su stagnola blu del 1959, essenziale esempio di una suite straordina­ria. Come descrivere questo
memorabile fronte alluvionale della ma­teria e dell’oscuro, questo frammento lavico essicato in epoche im­memorabili,
questo notturno di magma galattico che minaccia di tra­volgere nel silenzio, questo incontro ravvicinato con l’universo?
E come far capire che ogni metafora naturalistica è inadeguata, che nell’opera in questione c’è Schönberg ma c’è
soprattutto Debussy, che tutto è forma pura, complessa calcolatissima Forma? In queste domande si decide ‒ crediamo
‒ la difficile spiegazione della grandezza di Fontana. La sua fantasia sembra aver intuito il punto che unisce e divide la
forma e l’informe; l’immagine e la materia; l’arte e la natura. Se il problema del “non finito” nella cultura del ‘900 è stato
quello di non chiudere la forma in una esteriorità arbitraria, Fontana ‒ pur nella sua continua ricerca e sperimentazione
‒ porta il quesito alle estreme conseguenze: “finisce” l’informe, appunto, per una definitiva scommessa con le norme,
le potenzialità stesse dell’arte iconica. Il suo posto nella cultura contemporanea è affidato alla capacità di formulare
in un “oggetto” (pretecnologico, per così dire, e realizzato con peculiare prestigio artigianale) le ipotesi conoscitive del
nostro tempo: lo spazio, la materia, la precarietà della scienza, la possibilità di descrivere l’invisibile naturale, l’ordine
riposto della ragione.
A cinquant’anni dalla morte di Piero Manzoni, c’è un pensiero esplicito intorno allo spessore filosofico della sua ricerca
iconica, che mantiene in sé la traccia dell’atto sacrificale. È la luce dell’anima che ha luogo in una radura, attraverso un
disboscamento che ha reciso i rami delle differenze, della qualità, in cui cielo e terra, horror vacui e horror pleni, presenza
ed assenza si uniscono, là dove non ci sono più né Dio né uomini, ma solo la soglia dell’apeiron, dell’indeterminato,
dell’infinito, come ne La fine di Dio di Lucio Fontana. Con inedite configurazioni, che possono produrre una vera e
propria episteme o, precisiamo, una sophia, una sapienza demiurgica, Manzoni nella sua pur breve esistenza giunge a
quello che Benjamin chiama “l’ora della conoscibilità”.
Riaffiorano negli Achromes, nei Corpi d’aria e nelle Basi magiche le grandi domande inaugurali delle avanguardie
storiche: la possibilità di cogliere l’informe nei limiti della determinatezza della forma. Manzoni aveva pensato il processo
ideativo dell’opera come lo spazio di fluttuazione fra contraddittori, che è ‒ per dirla con Fontana ‒ nulla per la ragione
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solo ragionante (quella kantiana, per intenderci), ma che è matrix, origine di un pensiero che può portare a visibilità
l’invisibile, che trasforma ciò che è solo buio per la filosofia abituale nell’ombra in cui luce e oscurità coesistono, così
come esistono vita e morte. Così, come nell’antichità, Sofocle nell’Edipo re ha sperimentato ogni possibile felicità
all’interno della duplicità di una dimensione tragica del destino.
Nato nel 1933 a Soncino, in provincia di Cremona, e scomparso appena trentenne a Milano nel 1963, Piero Manzoni
trascorse l’infanzia e la giovinezza nella sua città natale, a Milano e ad Albissola: luogo quest’ultimo della riviera ligure,
famoso per la produzione di terrecotte, e frequentato da molti artisti italiani e stranieri, fra cui Lucio Fontana, che avrà
grande influsso nella poiesis manzoniana. Dal 1956 al 1957 aderisce al Movimento Nucleare (e nell’ambito di quella
tendenza firma insieme a Ettore Sordini, Angelo Verga e Yves Klein, il manifesto Contro stile), che vuole confrontare
l’arte con le grandi innovazioni prodotte nell’era nucleare. Nel 1959 l’artista soncinese fonda con Enrico Castellani e con
Agostino Bonalumi Azimuth, dal nome dello spazio espositivo aperto a Milano che, sebbene sia sopravvissuto soltanto
sei mesi, diviene un centro di dibattito e confronto fra gli artisti per la formazione di una nuova arte.
La produzione creativa di Manzoni, dunque, si colloca storicamente tra la fine degli anni Cinquanta e gli inizi degli anni
Sessanta, e quindi tra gli esiti dell’informale e il sorgere delle tendenze neodadaiste, fluxus ed happening. Rispetto
all’epoca precedente subentra un clima più freddo, concettuale, ironico e dissacrante nei riguardi della pittura. Dal
1957, con gli Achromes, che si presentano come tele o altre superfici ricoperte di gesso grezzo, caolino su quadrati di
tessuto, feltro, fibra di cotone trattato o meno al cloruro di cobalto, polistirolo e persino peluche, avvia quel processo
di azzeramento della pittura che porterà ai gesti estremi delle operazioni successive. Il problema di quegli anni è di
raggiungere una completa neutralizzazione non della pittura tout court, ma anche di ogni possibile simbologia collegata
ad essa: una texture completamente bianca è, per Manzoni – a differenza della concezione che aveva ispirato la poetica
suprematista di Malevič –, solo ed unicamente una superficie bianca, non una rappresentazione del vuoto, dell’assenza
o del nulla, solo ed unicamente una superficie “incolore”.
Per superare anche questo eidos, quest’idea artistica che può avere anche un valore espressivo, dal 1960 Manzoni
produce opere e performance, che spostano completamente il fare stesso dell’arte all’interno di nuove ed inedite
dimensioni estetiche. Egli traccia, per esempio, una linea di colore su un rotolo di carta bianca, che sarà quindi arrotolata
e racchiusa in tubi di cartone nero; raccoglie il proprio fiato, intitolando l’opera Fiato d’artista, in palloni, vere e proprie
“sculture pneumatiche” (così l’ha definite Giulio Carlo Argan, senz’altro il nostro più importante storico dell’arte del
Novecento); presenta degli Alfabeti, che non sono altro che tavole di presentazione di lettere di alfabeto; imprime la
propria impronta digitale sui gusci di uova, che saranno offerti agli spettatori presenti alla performance con il titolo
Mangiare l’arte; firma con il proprio nome corpi di spettatori, uno dei quali è quello di Umberto Eco che nel 1962
pubblica Opera aperta, un libro di fondamentale importanza per una nuova interpretazione dell’arte contemporanea.
Ma ciò che aggiunse fama, a torto o a ragione, all’indagine iconico-oggettuale di Manzoni fu nel 1961 la brutale
provocazione dei barattoli con l’etichetta Merda d’artista, i quali, nel 1971, in occasione della sua mostra postuma
alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, suscitarono proteste di ogni genere e persino un’interrogazione
parlamentare. In verità, oltre a polemizzare contro la mercificazione dell’arte, queste scatolette vennero a radicalizzare
il processo di critica e di attacco sistematico condotto contro l’archetypos, secondo il quale la creazione sarebbe
“materia più sensibilità d’artista”. Se l’arte è dunque questa, nessuna materia è impregnata – sostiene ironicamente
Manzoni – in maggior grado della sensibilità dell’artista dei suoi stessi prodotti escrementizi. Cercando di conciliare
l’ironia di Duchamp (che nel 1917 con Fountain, un orinatorio proposto come “fontana”, rappresenta il più classico
esempio di scandalo artistico) e il soffio cosmico di Yves Klein, Manzoni fissa così la sua marcia per la conquista del
reale su obiettivi di estroversione precisi e limitati insieme: du sang à la merde, tutto l’ego possessivo dell’artista vi è
passato. Novello re Mida, vuol dimostrare, con la forza della sua dissacrazione, che tutto ciò che è toccato dall’artista
si trasforma automaticamente in un’opera d’arte.
Con Fiato d’artista del 1960 e Achrome del 1962-63 Manzoni modula una posizione matiériste e risolutamente
antiidealista dentro il tropo modernista stesso del monocromo. Al di là dell’arte, nell’epoca della sua riproducibilità
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tecnica, per usare la felice ed appropriata definizione benjaminiana, negli Achromes non vi è alcuna geometria perfetta
nel liberarsi della passione creativa con cui Manzoni taglia i suoi cotoni bianchi. Il quadro, come altri lavori similari, non è
più una finestra fenomenica aperta sul mondo, ma uno schermo su cui il mondo incide la sua assenza e la sua nullità: solo
l’artista può riuscire a riscattare questo horror vacui con un gesto che ‒ in consonanza con la fibra artificiale, il polistirolo
espanso e la vernice fosforescente, i sassi o i panini o i pallini e il caolino, la tela grinzata e il caolino ‒, rimettendo l’arte
ad una dimensione di metafora viva, non precipita in un abisso di silenzi, ma anzi dischiude inaudite ricchezze estetiche
e linguistiche. È il momento in cui la morte, l’arganiana fine dell’arte, si costruisce in un orizzonte di senso insieme alla
vita: il momento che prima di Manzoni abbiamo già incontrato nel Freud di Al di là del principio di piacere, quando «in un
processo simultaneo inevitabilmente il grande specchio dello spirito ha riflettuto una realtà nuova».
Nel saggio più acuto e profondo mai apparso sull’opera di Alberto Burri, quello pubblicato nel 1963 per i tipi Editalia di
Roma, Cesare Brandi si richiamava giustamente al neoplatonismo e alla sua estetica della luce. Ma occorre aggiungere e
precisare che questa “estetica teologica” è assolutamente opposta a quella classica, che esige forme definite, abbracciabili
dallo sguardo, misurabili secondo precisi orizzonti, dove regnano il Peso e il Numero, dove il tempo è rettilineo e la
materia impenetrabile. Solo apparentemente i dipinti di Burri, in primis quelli dell’ultima stagione, ubbi­discono a un
simile archetipo, a un’epithymia, un desiderio così armonioso. In realtà, le “Combustioni”, più dei “Sacchi” e delle “Muffe”,
non sono che epifanie della luce, simboli luminosi di questo Maestro del Chòra, della soglia che non è confine: è ‒ nel
senso in cui Heidegger la interpreta ne La dottrina platonica della verità ‒ luogo, passaggio, transito, sor­tita e ritorno. E
valgono, e stanno, in quanto segno dell’àpeiron, dell’indeterminato della luce, del suo infinito. La radicazione serena dei
Cellotex, che «possono vedersi ‒ scrive ancora Brandi nel 1978 ‒ come il mutamento più pacificato dell’opera di Burri»,
è l’antinaufragio leopardiano dei Sacchi, il corrispettivo, per anti­tesi, rispetto al “naufragar” nel mare dell’Infinito.
La notte di Composizione del 1950, essendo già l’oscuro cosmo da cui la luna è tramontata e fiammeg­gia ‒ in un
apocalittico preludio all’eruzione del vulcano ‒ di stel­le e tanto più dilata la propria speculare vanità quanto più “per lo
vòto seren” il mondo brilla “tutto di scintille in giro”, è il momento costitutivo della mutazione; è l’oblio metamorfico,
l’oscuro abisso del farsi in superficie dell’Es. Insomma, è segnale dell’esserci del­l’essere, ma anche costitutivamente
qualcosa di funebre: è il colore del funus, sia pure soteriologico, è il tenebroso tessersi della stasi procuratrice di estasi.
È abitando sulla soglia che scopriremo, con le opere Bianco del 1953 e Combustione del 1964 di Burri, che ad un certo
punto l’astrazione assoluta nei numeri immaginari si unisce all’astrazione del Cosmos. È abitando sulla soglia, lì dove gli
elementi pittorici e polimaterici fluttuano e si mescolano, che faremo la scoperta che il proporsi maggiore che tortura
l’artista è di misurare anche i ter­ritori sfuggiti alla numerazione: i più ombrosi, irrazionali, indefi­nibili luoghi della nostra
anima. Distesi sulla plastica e sulla carta sono visibili l’attesa, il dubbio, la concentrazione di una coscien­za; i silenzi
hanno preso corpo: un’idea brilla e si annulla nella frazione di un secondo; tutta una tempesta spirituale viene con­dotta
di quadro in quadro fino all’estremo del pensiero, fino a un punto di ineffabile rottura.
Se Pascal aveva distinto esprit de géométrie ed esprit de finesse, Burri dimostra che questa distinzione non ha senso:
poiché il vero spirito geometrico cela una delicatezza intuitiva degna dei più grandi poeti lirici dell’antichità, da Pindaro
a Virgilio e ad Ovidio; e l’esprit de finesse, per cogliere l’ultima sfumatura delle sensazioni, deve conoscere il rigore
filosofico di Platone e di Epicuro. D’altronde, conclude Brandi, «non bisogna mai dimenticare, nell’euforia di essere
riusciti a cogliere un quadro di Burri nella sua ipostasi apollinea, che assolutamente l’ipostasi esistenziale vi coabita
sempre viva e presente». Nessuna differenza allontana, dunque, l’ardita attività artistica e le speculazioni più elevate
del pensiero umano. In qualche momen­to di felicità contemplativa, Burri sogna quello che nessun Maestro del XX secolo
aveva mai osato sperare: racconta la geo­metria dell’io, disegna diagrammi ed equazioni di sentimenti, matematizza le
intuizioni più visionarie, fabbrica poesie come teoremi algebrici, puzzle di una verità nascosta, mentale, e jeu de formes
che, non sapendo o non volendo attestarsi nel visibile, hanno altrimenti già superato, per eccesso formale, il proprio
grado di visibilità.
Da quando nel 1958 Umberto Mastroianni vince il “Gran Premio Internazionale per la scultura” nella XXIX Biennale di
Venezia, la stessa edizione nella quale Osvaldo Licini consegue quello per la pittura, la sua opera diviene centrale nell’arte
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europea della seconda metà del Novecento. Straordinaria lo era stata anche nella stagione figurativa (1928-1940) e nella
stagione neocubista (1941-1955), in cui la dialettica scultorea della forma e dell’informe, resa addirittura prismatica
dall’incontro di piani “ad angolo”, poteva aspirare al duplice scopo di inondare il marmo o il bronzo di luce conservandole
un’essenza volumetrica, una mimesis phantasmatos, quasi di cristalli che si formano in un liquido e con la dinamicità in
atto della solidificazione. Ma qui, in capolavori informali quali Battaglia e Apparizione alata, entrambi presenti in quella
prestigiosissima rassegna veneziana, il Maestro di Fontana Liri ha avvertito la suggestione della non-forma forse anche
più di quella della forma, ma l’ha avvertita in una dimensione trasgressiva allo statuto tradizionale dell’opera plastica.
In Uomo del 1942 e in Donna dell’anno seguente emergono già alcuni elementi di scomposizione neocubista. Ma quella
scomposizione non discende da un’analisi del dato di visione: è soltanto la proiezione di uno stato emotivo, di una
condizione del soggetto. Mastroianni sa che il Cubismo si fonda interamente sul principium di visione dell’Impressionismo,
benché si proponga di contrapporre una costruzione alla dissoluzione plastica di un Degas e di un Medardo Rosso. La
spazialità infinita di Maternità del 1949 si avvale di una luce che piove dall’esterno, facendo sì che, una volta scavata
la mole, la superficie formale raggiunta sia come scolpita dal raggio che la colpisce, e dall’incidenza di esso, riflesso o
rifratto, ma spesso al punto d’incontro in cui la luce invisibile, quella che sale dall’interno, si manifesta come limite tattilepercettivo portato all’estremo. Diventando la condizione di un’aisthesis, di una sensazione oscillante tra la realtà e la
metafisica, tra la testualità dell’oggetto-scultura e la sua necessità stilematica, la luce spruzza sinergica sull’immagine,
spazio tagliato dal suo apparire: luce-ombra fitta in linee di forza, in profili decisi e agitati, quasi memori di un’antica
geometria dove la figura risulta, mentre erompe, ancora “dentro la materia”, ancora sostanziale alla propria matrice,
di cui essa ha ancora la forma come in un mallo appena aperto. L’apparizione, il suo pieno, è l’altro aspetto, oppositivo
al posto che lascia e sul quale l’apophansis, la logica fenomenica pare incavernarsi. Insomma, la figura è un pieno che
suppone un vuoto come il suo stesso doppio sostanziale, la sua opposizione inevitabile ad essere.
Nel periodo del “macchinismo fantastico” (1970-1997) Mastroianni ha lavorato a un’incessante scavo nella “scrittura
iconica”, che lo ha portato a indagare la traccia indicibile di una realtà sfuggente che sta nascosta nell’opera. Di fatto non
ha mai raggiunto il concettualismo spaziale dei tagli e dei buchi, il limite estremo de La fine di Dio di Fontana, producendosi
in un’attività artistica letteralmente interminabile, che richiama quella dell’oscuro e indefinibile protagonista de La tana
di Kafka. In Composizione arcaica del 1968 e in Enigma del 1971-72, la proprietà assurda di uno spazio tecnologico
insieme simbolico e materializzato dell’industria nell’avanguardia di Mastroianni è «un fatto strutturale, il processo
con cui l’arte, disciplina antichissima», si fa «moderna, addirittura prefigurante il futuro»; e non potendo più assimilare
gli oggetti-macchina, li imprigiona e, invece di deformarli come in Tinguely, li sottopone a una strana metamorfosi
antropomorfica, quasi sostituendo alla loro la propria geometrica struttura, il proprio moto meccanico. Segregati dal
mondo delle apparenze, quei frammenti di ruote dentate, di assi, di cilindri, diventano “altri”, ben più significanti come
simboli di una peculiarità scultorea, precisa Lionello Venturi, «che nella passione creatrice brucia ogni elemento estraneo».
Negli oli su juta, La magia cromatica del talismano del 1948 e Fantasmi del 1955, il colore non è l’espressione di una
vibrazione fenomenica, ma d’un fremito costante dello spazio: o, se si vuole, la luce-materia stessa che s’è trasformata
in sostanza spaziale. Sono i sentimenti profondi, i fantasmi dell’inconscio, che risalgono lungo le sonde dell’emozione «in
strutture complesse che conservano l’energia ritmica del linguaggio espressionista astratto» e, per l’illimitato dilatarsi
della superficie pittorica, possono assumere corpo e figura prima di arrivare a prendere forma nella coscienza. Sicché,
quel loro configurarsi è in realtà una pre-forma, il fantasma di uno stato onirico: un’ipotesi di proairesis, di libertà
espressiva che si suppone, come in Luigi Spazzapan, l’amico a Torino di tante battaglie culturali e umane, poter attingere
alla nostra vita profonda evitando le vie obbligate del senso e dell’intelletto.
VII. Tra segno e forma: Vedova, Sanfilippo, Tancredi e Dorazio
Nell’astrattismo segnico e geometrico della seconda metà del Novecento in Italia il mondo sembra essere diventato
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impenetrabile e, con maggior forza di qualsiasi altra testimonianza, la letteratura e le arti visive ci parlano dell’ostinazione
dell’impenetrabile, dell’elemento totalmente alieno in cui ci imbattiamo nel labirinto dei più diversi linguaggi. Se
una volta esisteva un patto di corrispondenza tra Logos e Cosmos, questo patto si è infranto in una delle poche
rivoluzioni autentiche dello spirito nella storia occidentale, che definisce la modernità stessa: la parola fiore, come
dice Mallarmé, non è in nessun mazzo di fiori, è il segno di un’assenza. Il gesto dell’artista non oggettivo è quello
dell’artista filosofo, che rinvia oltre la realtà ad una realtà superiore che ne è la causa e la giustificazione creativa;
ma anche lui che spiega l’invisibile è colui che “governa” le rappresentazioni, e dunque, attraverso il linguaggio, il
mondo. Contro l’artista filosofo verrebbe voglia di gridare, come Nietzsche ha gridato: «Guarda il mondo! Guarda
l’iridescenza della vita! Questa è la realtà!».
La forma che va oltre ogni immagine e ogni figura non ha luogo nel mondo della Physis, ma nella “mente colorata”
dell’artista, che attinge direttamente all’idea. Vedova e Tancredi, Sanfilippo e Dorazio non imitano pertanto le
figure che abitano il mondo e che sono esse stesse imitazioni delle idee, ma direttamente l’Eidos. Tuttavia, la loro
ricerca non cessa di essere un empirismo, una mera tecnica artigianale; sebbene diventi conoscenza, da imitazione
materiale si promuove a imitazione della Psyche: quando rinuncia all’imitazione della cosa per diventare imitazione
del concetto: quando si fa trasparenza assoluta in rapporto al pensiero. L’esperienza di questa metafora è quella di
una extraterritorialità, di un’utopia; del resto, desituandoci dalle frontiere abituali dell’astrattismo, siamo in grado di
avere uno sguardo Autre, vorrei dire uno sguardo che illumina l’arte come mai è stata veduta prima d’ora.
Memore di Pollock e di Kline, che Argan definisce fratelli di latte del pittore veneziano, lo spazio cromatico di Emilio
Vedova è simile a un campo magnetico: ha in sé, nel proprio modificarsi, la propria profondità, la quale dunque
altro non è che l’attuarsi di un’interazione la cui possibilità continua è nella potenzialità di quel campo di “spasimo
e lacerazione”. Nei suoi quadri non esiste profondità astratta, se la misura è legata all’azione che interagisce; la
razionalità è tutta affidata al gesto, affidata all’enérgeia, tormentata nell’oscuro involucro da cui questa si libera, in
quanto azione, punto per punto, all’estremo della sua condizione irrazionale tutta accettata e tutta tentata. Neppure
nella prima stagione informale, quella per intenderci del “Cielo della protesta” del 1953, ma anche dell’olio Visione
contemporanea dell’anno seguente, dominata da linee spezzate e dalla decostruzione dell’immagine, non esiste
spazio predisposto: l’assoluta profondità, in condizioni dinamiche, in stato di progetto, della tavolozza vedoviana, è
incontrovertibile; talché Vedova si è avvicinato sempre di più al bianco e nero assai funzionale rispetto all’astrazione,
non rispetto all’Action painting. Allora, come nasce questo rapporto interattivo con la pittura di Pollock dove tout se
tient? Ecco, è dato dal delucidarsi dello spazio materico, dalla rottura di quel continuum neutro del monocromo ma
sensibilissimo in una significazione che dimostra la vera funzione dialettica dei campi magnetici, la loro reattività al
passaggio del gesto significante.
Quando nel 1948 Antonio Sanfilippo intraprese, in un clima difficile e pieno di sospetti, la poiesis dell’astrattismo,
si trattò di una scelta di principio attraverso la quale egli intese proporre il proprio sviluppo artistico in termini
di modernità: la forma viene assunta come un valore che garantisce il livello ideale dell’opera, la possibilità di
trasferire in un ordine spirituale le tracce dell’inquietudine, le frammentazioni dell’esistenza, Per lui la pittura non è
che l’agente o il processo rivelatore; non muove da un dato della percezione, ma produce “concetti” che non possono
essere altrimenti descritti o manifestati che nella strutturalità interna della percezione, nel suo farsi con la volontà
di ricollegarsi alle realtà più vive del panorama culturale europeo e di recuperare le esperienze delle avanguardie
storiche. Sanfilippo, agli inizi degli anni Cinquanta, crea una pittura segnica fortemente affine a quella di Capogrossi,
Wols e Tobey. Anche nel momento in cui l’informale pareva risolvere di colpo tutti i problemi, egli non si è mai spostato
dal suo rigoroso aformismo fatto di gomitoli e di un segno più minuto, come nell’acrilico Estensione arancio del
1962: alla semantica fissa dell’astrattismo geometrico non oppone, come Vedova, una pittura dalle infinite possibilità
semantiche, ma una pittura nettamente asemantica che «vuole essere prima di tutto il contrario di ogni analogia e di
ogni simbologia» (Nello Ponente).
Tancredi Parmeggiani ebbe una vita corta, ma gremita di impressioni e sensazioni, crepitante di visioni. Aveva
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incontrato, nella Venezia delle Biennali e di Peggy Guggenheim (che fu la prima ad accorgersi del suo talento), i
documenti della propria ricerca e della propria inquietudine: le pagine furenti dell’espressionismo astratto d’oltre
oceano, Pollock, De Kooning, Gorky, Tobey e Kline. Ma i segni, i filamenti, le toppe, i tasselli e le tessere della sua
pittura si potevano attingere nelle memorie della sua infanzia, nei suoi primi stupori della Laguna e nei mosaici di San
Marco, sui quali erano sopraggiunti, come un vento forte, l’esistenza e i suoi accidenti, i volti deformati dell’anima
nordica, i gridi di Munch. Eppure Tancredi ebbe sempre visioni chiare, trasparenti, in un certo senso serene: perlomeno
voleva che le sue opere fossero un’esplosione di vita e di partecipazione gioiosa alle cose e al flusso della natura.
Ma, mentre Monet dipinge di rosso il mondo con i suoi papaveri prima di sprofondare lo sguardo nella natura tanto
profondamente da dissolverla, Tancredi nella Primavera del 1951, al pari di un presentimento che vive proprio quando
deve morire, evoca un paesaggio «con delle pennellate scritte in modo quasi incontrollato e mosso da far pensare a
un prato fiorito». Nella tempera Senza titolo del 1955 le macchie di colore si realizzano non tanto nella forma quanto
nella sua metamorfosi, non l’oggetto ma il simulacrum generatore della physis, si sviluppa, si moltiplica, si sdoppia
in un processo che vuole essere una fuga dal reale contingente non verso la scoperta dell’ignoto, ma piuttosto verso
il repêchage di una perduta unità originaria, in cui soggetto ed oggetto coincidono.
Una Stimmung, una modulazione neoromantica come quella di Piero Dorazio, che giunge «a fondere tutti i tipi di segno di
cui parlava Klee; la linea passiva, la linea neutra, la linea attiva o melodica» (Maurizio Fagiolo dell’Arco), non concorda
affatto con le posizioni mentali ‒ ad esempio ‒ di un Albers o di un Max Bill. In effetti, egli si converte all’astrazione,
ma senza severi leggi matematiche, senza ortodossie scientifiche da rispettare: con un respiro che è principalmente
poetico, con un senso della pittura che lievita tutto interiormente al proprio mondo di sensazioni e pensieri, fino
a costituirsi in forme e forte carica espressiva. Le grandi tele, Teodorico guarda in fretta del 1965 e Ottimismo e
pessimismo dell’anno appresso, sono come tarsie di forme mosse, protendone le loro radici a ripensare e riavere il
passato splendido della pittura: il pointillisme dell’amato Seurat, lo spiritualismo di Kandinskij, le compenetrazioni
iridescenti di Balla, le decorazioni di Magnelli, la vertigine segnica di Tobey. Nell’attraversare le diverse vie analitiche,
Dorazio procede secondo una logica che definirei bioculare: trasferisce, cioè, al cervello il modo con cui noi vediamo
con gli occhi. Poiché l’unità della superficie stabilisce, attraverso la proporzione, l’identità tra l’idea d’oggetto, come
cosa che occupa lo spazio, e l’idea di spazio, come vuoto che contiene l’oggetto, l’artista capisce che la forma
non è tutta l’arte, ma un caso particolare e storicamente determinato dell’arte, e che la tesi dell’arte non-forma è
altrettanto legittima della tesi dell’arte-forma, ecco perché in Ideal II del 1968 imbocca una terza via, quella della
contemplazione attiva o, come l’aveva chiamata Gombrich, produttiva. Ecco anche dove, come in certa poesia (devo
dire Borges o Ungaretti o chi altro?) è vinto il simbolismo originario in questo transfert dell’inconscio verso l’oggetto,
ma mettendosi in armonia con quello che è l’impulso stesso del mondo ad esistere.
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OPERE
Giacomo Balla
Forze di paesaggio + Cretonne e Turchesi, 1917
Vele e Mare, 1919
Composizione, 1920
«Nel groviglio della tendenze, siano esse semi-futuriste o futuriste, domina il colore. Deve dominare il colore poiché privilegio tipico
del genere italiano». Manifesto del colore, G. Balla, 1918
«La “solidificazione dell’Impressionismo” costituisce la base di sviluppo della pittura di Balla futurista: cioè il passaggio dalla
suddivisione del pigmento colorato del divisionismo alla costruzione geometrica astratta – a sé stante – delle compenetrazioni
iridescenti (1912). Questi studi, sembrano giganteschi fotogrammi captati nello spazio da un immaginario occhio catodico».
E. Prampolini, G. Balla, 1952
Queste due citazioni illustrano perfettamente le tre opere presenti in mostra. Esse appartengono al periodo futurista di Balla e
derivano dalle compenetrazioni iridescenti che egli realizza nel 1912, nelle quali concentra gli effetti della luce e della velocità
in una composizione astratta e geometrica. Forze di paesaggio, 1917, Vele Mare, 1919, e Composizione, 1920, comportano le
caratteristiche della decomposizione dell’immagine e un frazionamento cromatico tipici di questo periodo geometrico. Esse
corrispondono alla definizione di Balla e di Depero «della Ricostruzione futurista dell’universo» attraverso la suggestione del
movimento e la deflagrazione delle forme in una ripartizione spaziale libera dalle contingenze della rappresentazione. Il colore,
attraverso il quale Balla rivendica la propria italianità, rimane l’elemento dominante e costruttivo di queste opere.
Forze di paesaggio, dipinto particolarmente significativo, si compone secondo una prospettiva dinamica, astratta, che rinnega
ogni forma di rappresentazione classica. L’artista vi inventa uno spazio segmentato dal ritmo del colore e dalla deflagrazione delle
forme. Balla insegue il vortice rigenerativo nel suo splendore, accostando rossi gialli azzurri impetuosi come lampi che guizzano
l’uno dall’altro e sull’altro. È la visione di una energia vitale indomabile, che esplode in una gioia coloristica, che è quella stessa
della natura. Forse è in riferimento a quest’opera che Balla scrive a sua madre: Viareggio 15-30 settembre 1919. In compagnia della
moglie Elisa e delle due figliole, Giacomo Balla trascorre un periodo di vacanza ospite da un’amica di famiglia a Viareggio. Colpito
dalle onde del mare ne scrive all’anziana mamma rimasta a Roma: «Carissima, aspetto tue notizie. Noi andiamo al mare, grandi
bagni. Siamo neri come i mori – Grande appetittoooooo – Stai tranquilla. Saluti Balla», accanto allo schizzo del mare aggiunge: «Oh
Bep. Tieni la mammina, ti porterò un regalino» (15 settembre); «grande mare agitato, niente bagni. Spettacolo magnifico – tutti
appetito – tuo figlio» (20 settembre).
Queste opere appartengono alle prime forme di un’astrazione rivendicata da Balla e Depero in una volontà di influire sull’insieme
delle forme d’espressione artistiche e, al di là dell’arte, di modificare la percezione del nostro quotidiano. Illustra la frase del
Manifesto del colore: «Pittura dinamica: simultaneità delle forze».
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Forze di paesaggio + Cretonne e Turchesi
1917
Olio su carta
54,5 x 74,5 cm.
Provenienza:
Casa Balla, Roma (Agenda: n. 219)
Collezione Privata, Modena
Galleria Sprovieri (1982)
Collezione Privata
Esposizioni:
Casa d’Arte Bragaglia n. 5, 1918
Casa d’Arte Bragaglia n. 6, 1971
Basilea 1982, cat., p. 37
Mostra Genius, Cripta del Collegio, Siracusa, 18/09 – 30/10/1997
Balla Futurista uno sperimentalista del XX secolo, Acqui Terme, 02/07 – 03/09/2006
Balla, la Modernità Futurista, Palazzo Reale, Milano 15/02 – 02/06/2008, cat. Skira editore, Milano, p. 246, ill. col.
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Vele e Mare
1919
Olio magro su cartone zigrinato
50 x 60 cm.
Provenienza:
Galleria Borromini, Milano (anni Cinquanta, timbro a retro)
Collezione Pardini, Firenze
Collezione Privata, Milano
Galleria il Mappamondo, Milano
Collezione Privata
Esposizioni:
Gli Italiani di Parigi da Modigliani a Campigli, Palazzo Salmatoris, Cherasco (CN), 13/10 – 09/12/2007, riprodotto in cat. pp.
112-113, ill. col.
Novecento, 100 anni di creatività in Piemonte, Palazzo del Monferrato, Alessandria, 2008, riprodotto in cat. p. 92, ill. col.
Italia America - il Novecento a confronto, Galleria Agnellini Arte Moderna, Brescia, 24/09 - 04/10/2011
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Composizione
1920
Tempera su cartone
33 x 41,8 cm.
Provenienza:
Collezione Giacomo Balla, Roma
Galleria Apollinaire, Milano
Collezione Corpora, Roma
Collezione Privata
Esposizioni:
Balla, Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris, Parigi, 1972
Bibliografia:
Balla, catalogo di mostra a cura di G. De Marchis, Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris, Parigi, 1972, p. 154, n. 018
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Fortunato Depero
Scomposizione di bambina in corsa, 1914
Big Sale, 1929
Innaffiatori di New York + grattacieli, 1930
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A proposito di Scomposizione di Bambina in corsa, Maurizio Scudiero, in occasione della mostra Depero a Palazzo Bricherasio di Torino,
nel 2004, definisce il contesto nel quale nasce l’opera. «Nel 1913 Depero espone a Rovereto alla Libreria Giovannini (dove aveva tenuto
altre due mostre nel 1911): disegni di realismo sociale e di simbolismo. Verso l’autunno avvia un intenso lavoro sul volume e i suoi
grotteschi perdono via via quel tono verista, per assumere connotazioni geometrizzanti. I corpi sono sfaccettati e risolti in pure masse.
Sul finire dell’anno (1913), a dicembre, Depero giunge a Roma e visita la mostra di Boccioni alla Galleria futurista di Sprovieri,
rimanendone profondamente colpito, e vi ritorna in continui “pellegrinaggi”. L’influenza di Boccioni è subito ravvisabile in un breve
ma intenso ciclo di schizzi sul dinamismo, dove è pure già verificabile il taglio quasi netto con la precedente produzione. Scomparsi
i temi simbolisti o Jugendstil, l’artista si confronta con la materia pura, con gli oggetti, con i corpi, che sono analizzati e scomposti
nei loro movimenti e nella loro struttura. Tuttavia, se in termini tematici il cambiamento è evidente, da un punto di vista formale
il passaggio è più graduale. Infatti questi primi lavori di transizione (come appunto Ritmi di ballerina + clowns) sono svolti con
una pittura densa, corposa, grassa, una pittura tipica dell’area alpina e comunque dai modi “austriaci”. Di lì a poco, però, sarà
l’incontro con Balla che produrrà un ulteriore distacco: quello da Boccioni. Distacco già ravvisabile in Scomposizione di bambina in
corsa, del 1914, dove il riferimento più immediato è appunto la Ragazza che corre sul balcone, dipinto da Giacomo Balla nel 1912.
Nel febbraio 1914, ancora a Roma, entra in contatto con Giuseppe Sprovieri, ne frequenta la Galleria Futurista, dove, oltre ad
aver conosciuto Balla, stringe amicizia con Cangiullo e Marinetti. […] Verso la fine del 1914, grazie alla mediazione di Balla, è
ufficialmente ammesso all’interno del gruppo dei pittori e degli scultori futuristi e, all’inizio del 1915, s’impegna nella costruzione
dei complessi plastici moto-rumoristi, un’originale sperimentazione plastica di “cinetismo e rumorismo”». (In catalogo Depero,
Attraverso il Futurismo, Electa, Milano, 2004).
A proposito di Big Sale. Nel 1928 Depero si reca a New York e subito tiene una personale alla Guarino Gallery, successivamente
realizza le ambientazioni di noti ristoranti, coreografie e costumi per il Roxy Theatre, e collabora con le maggiori agenzie pubblicitarie
e le più diffuse riviste di moda (copertine per «Vogue» e «Vanity Fair»). Il suo soggiorno negli Stati Uniti è per lui l’occasione di
ricordare impressioni africane che già avevano toccato il suo immaginario durante un soggiorno a Parigi, quando aveva assistito
al teatro degli Champs-Élysées allo spettacolo della Revue Nègre con Joséphine Baker. Egli scriveva: «Io non amo “l’art nègre”,
ma la selvaggia verginità, la barbarica sincerità di “art nègre” e la musica jazz mi emoziona, e tutto ciò mi diverte alquanto». La
forza esotica e selvaggia dell’africanità s’impone anche in occasione del suo viaggio a New York, dal 1928 al 1930. Depero è l’unico
artista futurista a vivere l’esperienza africana della metropoli americana. Egli scopre la vita delle strade e l’aspetto pittoresco del
quartiere di Harlem. È questa esperienza che egli dipinge in numerose opere, eseguite allora, come Big Sale, 1929. Quest’ultima,
spesso riprodotta, restituisce l’atmosfera dei quartieri neri di New York, in uno stile quasi caricaturale, presentando una popolazione
nera ricoperta di gingilli e dai tratti schematici, secondo una costruzione pittorica molto meccanica, che assimila New York a
un’immensa città macchina. Questa estetica corrisponde alla propria evoluzione futurista nell’elogio all’industria e alla macchina.
Egli proclama: «Adoro i motori, adoro le locomotive, mi ispirano un ottimismo infrangibile».
Innaffiatori di New York, 1930, appartiene a questo stesso periodo newyorchese che disegna una prospettiva urbana destrutturata,
insistendo sulla meccanizzazione degli strumenti utilizzati dagli operai. Questo studio offre una presentazione monumentale e
geometrica della città, che l’artista proietta nella sua modernità e nella quale l’individuo sembra somigliare anch’esso a una
macchina. Si tratta di uno studio preparatorio per la tempera omonima dello stesso anno (pubblicata in M. Scudiero, Depero 50,
Rovereto, 2009, pag. 61), una composizione poi ripresa anche in un dipinto realizzato dopo il rientro in Italia, nel 1934.
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Scomposizione di bambina in corsa
1914
Acquarello e tempera su carta
35 x 35 cm.
Provenienza:
Galleria Agnellini Arte Moderna, Brescia
Collezione Privata
Esposizioni:
Depero Futurista, Palazzo Bricherasio, Torino, dal 19/02 al 30/05/2004, p. 34, ill. col.
Italia America, il Novecento a confronto, Galleria Agnellini Arte Moderna, Brescia, 24/09 - 04/10/2011
Pubblicazioni:
Maurizio Scudiero, Depero Istruzioni per l’uso, L’Editore, 1992, p. 31, ill. col.
Maurizio Scudiero, Depero l’Uomo e l’Artista, Egon editore, 2009, p. 40, ill. col.
Maurizio Scudiero, Depero, in «Art e Dossier» inserto redazionale allegato al n. 251, gennaio 2009, Giunti Editore, p. 7, ill. col.
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Big sale (Mercato di down Town),
New York Città Bassa
1929
Olio su tela
42,5 x 65 cm.
Provenienza:
Collezione privata Roma
Galleria Agnellini Arte Moderna, Brescia
Collezione Privata
Pubblicazioni:
Maurizio Scudiero, Fortunato Depero. Opere, Luigi Reverdito Editore, Gardolo di Trento n. 71, p. 178, ill. col.
Maurizio Scudiero, Depero Istruzioni per l’uso, L’Editore, 1992, p. 85, tav. 77, ill. col.
Maurizio Scudiero, Depero l’Uomo e l’Artista, Egon editore, 2009, pp. 426-427, ill. col.
Maurizio Scudiero, Depero, in «Art e Dossier » inserto redazionale allegato al n. 251, gennaio 2009, Giunti Editore, p. 41, ill. col.
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Innafiatori di New York + grattacieli
1930
Matita e carboncino su carta
44,8 x 32,8 cm.
Provenienza:
Collezione Privata
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Giorgio de Chirico
Manichini in Anticamera, 1927-1928
Cavallo e Cavaliere, 1939
Il Grande Metafisico, 1970-1987/1991
«La novità di questo poeta [Nietzsche], dirà de Chirico, è la fantasticheria infinitamente misteriosa e solitaria di un pomeriggio
d’autunno quando il cielo è chiaro e le ombre più allungate rispetto all’estate, perché il sole inizia ad essere più basso. Cercavo di
esprimere questo sentimento potente scoperto nelle opere di Nietzsche». Il Grande Metafisico (gesso originale, 1970) riprende la tematica dell’omonimo quadro del 1917. In questa struttura, verticale
e totemica, de Chirico riunisce i simboli e gli oggetti di numerose composizioni precedenti: strumenti di proiezione geometrica,
il sipario, e il manichino che emerge al di sopra di ogni stratificazione di elementi. Il grande metafisico evoca la forza eroica e
prometeica dell’immaginario. Siamo in piena ispirazione metafisica, periodo della sua storia che de Chirico riprenderà in seguito,
in una variazione scolpita, che testimonia l’inventività feconda di un artista allora controverso, ma che persegue il proprio sogno.
Questa scultura appartiene all’edizione del Centenario delle sculture di Giorgio de Chirico, decisa per celebrare i cento anni della
nascita dell’artista. è composta da trentadue bronzi tratti da gessi originali del Maestro ed è stata autorizzata da Isabelle Pakszwer,
vedova de Chirico, da un atto in data del 27 marzo 1987. L’edizione è stata esiguita dalla Fonderia F.lli Bonvicini di Verona tra il
1987 e il 1991.
Dopo il periodo Metafisico, a partire dal 1926 lo stile di de Chirico evolve e ritorna al classicismo: è il periodo dei cavalli e dei
gladiatori, egli espone a Parigi da Louise Rosenberg Cavalli antichi, Mobili nella valle, Manichini seduti e Gladiatori. A partire da
questa data, de Chirico rompe violentemente con il proprio passato, rinnega l’arte moderna così come la sua opera anteriore e
si volge definitivamente verso la pittura tradizionale; Cavallo e Cavaliere (1939) è rappresentativo di quel momento e illustra
il soggetto dei cavalli, uno dei più diffusi nella produzione di de Chirico. In questo caso compare nella versione con cavaliere e
berretto frigio, in uno stile che rimanda a Delacroix, ricorrente nel periodo parigino. De Chirico, infatti, sfuggendo alle leggi raziali in
vigore in Italia, torna a Parigi nel 1939 con Isabella, ebrea polacca divenuta sua compagna dopo la separazione dalla moglie Raissa.
L’anno seguente tornerà in Italia.
Manichini in Anticamera, 1927-1928, illustra uno dei temi più cari a de Chirico, e viene utilizzato per meglio rappresentare l’effetto
di straniamento, concetto che indica il cambiamento dell’usuale percezione delle cose e la loro rappresentazione in maniera
inconsueta. I manichini sono considerati esseri umani privi dei cinque sensi e, per questo motivo, suscitano smarrimento in chi
li guarda. Paesaggio mediterraneo, architettura, prospettiva di interno, creano l’impressione di un’impossibile realtà, legata a un
sentimento d’abbandono e d’impotenza. Questo straniamento abiterà l’opera dell’artista in ogni momento della sua storia, senza
che egli ne risolva mai l’enigma.
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Manichini in Anticamera
1927-1928
Olio su tela
72 x 53,5 cm.
Provenienza:
Collezione Privata
Bibliografia:
Giorgio de Chirico, Catalogo Generale Fondazione Giorgio e Isa de Chirico - Opere dal 1912 al 1976, p. 77, n. 58 (pubblicato in b/n)
XX Siècle, a. I, n. 1, Parigi, 1 marzo 1938, particolare (senza indicazione di pagina)
M. Fagiolo dell’Arco, P. Baldacci, Giorgio de Chirico 1924-1929, dalla nascita del Surrealismo al crollo di Wall Street, Edizioni
Philippe Daverio, Milano, 1982, n. 101, p. 508 (particolare)
Metafisica Quaderni della Fondazione Giorgio e Isa de Chirico, n. 1/2, Téchne Editore, Milano, Pictor O, Roma, 2002, in
copertina e p. 278
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Cavallo e Cavaliere
1939
Olio su masonite
50 x 40 cm.
Provenienza:
Collezione Privata
Esposizioni:
Hotel Real Fini, Modena, 2013
Bibliografia:
Giorgio de Chirico, opere dal 1931 al 1950, volume quinto, tavola 384, Electa Editrice, Milano, 1972
Giorgio de Chirico e Liso Sotilis. La forma segreta nel grembo di Afrodite, Edizione dell’Archivio Umberto Mastroianni, Brescia,
2013, p. 25
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Il Grande Metafisico
1970-1987/1991
Scultura in bronzo
esemplare n. E.A. II/II
Altezza cm. 99
Provenienza:
Casa De Chirico
Collezione Privata
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Giorgio Morandi
Natura morta, 1942
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Le Nature morte sono il suo soggetto più famoso, le opere che hanno assicurato a Morandi una duratura fama internazionale.
Si distinguono per la costanza che egli vi dedicò nel produrle, in un rinnovamento che permette di analizzare tutta la sua
opera, dai primi anni in cui si lasciò conquistare dalla Metafisica di de Chirico alle ultime opere degli anni ‘60, impregnate
di una libertà di dipingere, benché conservando sempre il medesimo rigore strutturale.
1918-1919, l’artista conquista una posizione di rinomanza nel pianeta metafisico. De Chirico lo sottolinea, «Morandi
partecipa del grande lirismo creato dall’ultima profonda arte europea: la metafisica degli oggetti più comuni» (introduzione
alla mostra collettiva Fiorentina primaverile, 1922). Questo periodo Metafisico in Morandi corrisponde a un rifiuto del
nichilismo europeo, e rivela un desiderio di riavvicinarsi a un classicismo di cui egli sente già la necessità. Anche se in fondo
la concezione programmatica della Metafisica dell’assoluta autonomia della visione artistica si adatta perfettamente, non
solo alle opere di Morandi di questo momento, ma certamente a tutta la sua produzione. Non solo le scatole, le biglie,
i manichini, ma anche le successive bottiglie, gli scabri paesaggi, i fiori di stagione, che rappresenterà fino alla morte,
saranno sempre pretesti per esprimere una sua personale e precisa concezione, formale e concettuale insieme.
All’inizio degli anni ‘20, Morandi si discosta dalla Metafisica, nel desiderio di acquisire una maggiore autonomia nella sua
ricerca, lontano dalle teorie e dalle ideologie. Egli aderisce al gruppo dei Valori Plastici, rivista edita sotto la direzione
di A. Broglio, che rivendica un vasto programma di recupero della cultura figurativa del passato, con una significativa
apertura alle avanguardie internazionali. Le Nature morte degli anni Venti permetteranno di cogliere gli elementi portanti,
che hanno caratterizzato il suo lungo e paziente cammino di ricerca poetica, studiando i rapporti tra diverse forme
semplici (vasetti, piccole scatole, caraffe, bottiglie) e i loro legami con la luce, la vera protagonista delle sue composizioni.
Nelle Nature morte degli anni Quaranta si nota in che modo l’artista ha definito e caratterizzato il suo stile maturo,
personale e originale. Le opere che appartengono a quel periodo rappresentano il compimento della maturità artistica
di Morandi e descrivono l’oggettualità delle volumetrie compiute, delle simmetrie di significato, dove il soggetto pare
debba essere colto nell’insieme, ma i cui soggetti sono in costante dialogo tra loro nella composizione. L’atmosfera si fa
più imprecisa, rarefatta, sospesa; l’artista ne sottolinea la delicatezza con la sobrietà dei colori e la leggerezza del tratto.
In Natura morta, 1942, Morandi restituisce al dipinto un’atmosfera quasi impressionista; con le delicatezza delle tonalità
suggerisce una quasi monocromia. È un’opera minimalista, anzi esistenziale.
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Natura morta
1942
Olio su tela
20 x 28 cm.
Provenienza:
Collezione Silva, Milano
Studio d’Arte Palma, Roma
Galleria del Milione, Milano
Collezione Bardi, Rio de Janeiro
Galleria Europa, Rio de Janeiro
Galleria Sacerdoti, Milano
Collezione Privata, Anghiari
Collezione Privata
Esposizioni:
Omaggio a Giorgio Morandi, Cortina d’Ampezzo, Centro d’Arte Dolomiti, 24/12/69 - 10/01/1970, cat. tav. VII, ill. con titolo
e anno errati
Giorgio Morandi. Pittore di Luce e Silenzio. 50 dipinti 1919-1963, galleria Frediano Farsetti, Firenze 02/04 - 31/05/2011,
cat. Grafiche Gelli, Firenze, 2011, opera illustrata in catalogo
Bibliografia:
Lamberto Vitali, Morandi. Catalogo Generale, volume primo 1913/1947, Electa Editrice, Milano, 1977, n. 370.
Lamberto Vitali, Morandi. Catalogo Generale, volume primo 1913/1947, seconda edizione, Electa Editrice, Milano, 1983, n. 370
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Alberto Savinio
Enea e Didone, 1931
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Didone è una figura mitologica; regina fenicia fondatrice di Cartagine, secondo la narrazione virgiliana, si innamorò di
Enea. Dopo essere venuta a conoscenza del piano segreto di Enea di ripartire, la regina Didone affronta l’eroe con un
lungo discorso pregandolo di non abbandonarla... Disperata per la partenza dell’eroe amato, Didone si uccide con la spada
di Enea.
Questo tema, ripreso molto spesso nella musica (un’opera di Purcell porta questo nome) così come nella pittura, dal
Rinascimento al Classicismo, è l’occasione per Alberto Savinio di una re-interpretazione post-metafisica, magnificamente
rappresentativa dello stile barocco dell’artista. La composizione in diagonale accentua il carattere dinamico di una partenza
imminente. Il viaggio è annunciato attraverso il disegno delle vele in secondo piano, che si apre su un paesaggio marino
che invita alla partenza. Enea è già vestito della sua armatura e Didone assume l’atteggiamento tragico dell’amante
abbandonata. Il quadro riprende i canoni di una messa in scena teatrale tra il luogo del dramma (il palazzo di Didone la cui
architettura monumentale suggerisce un’impronta metafisica), l’orizzonte lontano che richiama l’eroe e i due personaggi
attorno ai quali si cristallizza la tensione.
Questo gusto della teatralità appartiene alla cultura di Savinio, amante della letteratura, del teatro, musicista, scrittore.
La sua immensa cultura si traduce nelle sue opere attraverso riferimenti che vanno dall’antico al contemporaneo più
avanguardista. Fine conoscitore degli ultimi movimenti artistici del suo tempo, seppe crearsi un proprio linguaggio a
margine della Metafisica, impersonata da suo fratello Giorgio de Chirico.
È tardivamente, nel 1927 a Parigi, che egli diventa pittore. Nella capitale francese siamo in pieno surrealismo, ed egli,
nonostante gli inviti contrari del fratello Giorgio, entra a far parte del movimento. Tuttavia, il suo stile rimane molto
singolare, in una zona intermedia tra surrealismo e metafisica. La sua è una pittura ricca di significati simbolici. Uno dei
tratti più tipici è la metamorfosi uomo-animale, che compare di frequente nei suoi quadri. Egli, quindi, nei suoi dipinti attua
una particolare metamorfosi tra uomini e animali, dove ad una struttura corporea decisamente umana si sovrappone una
testa non umana. Egli stesso dice, parlando di questo curioso abbinamento uomo-animale: «è la ricerca del carattere, di
là dagli eufemismi della natura, di là dalle correzioni della civiltà, di là dagli abbellimenti dell’arte».
Nel caso del dipinto Enea e Didone, i tratti di Enea hanno assunto l’aspetto di una testa di giraffa; quanto a Didone, il suo
viso è quello di un pellicano. Questa è la caratteristica metamorfosi da donna a pellicano che Savinio utilizzò per il ritratto
della propria madre e che riprende anche nel quadro Annunciazione (1932), conservato al CIMAC di Milano. Ancora una
volta la scelta del volatile non è casuale, ma riprende il significato simbolico, che gli era stato attribuito nel Medioevo. Si
riteneva, infatti, che il pellicano potesse arrivare a lacerarsi il torace con il becco, per nutrire i piccoli con il proprio sangue.
Dunque, l’animale rappresenta simbolicamente la bontà e l’amore altruista. Come nel caso di Didone, che si sacrifica per
amore di Enea…
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Enea e Didone
1931
Tempera e olio su tela
52,5 x 94,5 cm.
Provenienza:
Collezione Gianna Sistu, Parigi
Galerie de France, Parigi
Galleria Farsetti, Firenze
Collezione Privata
Esposizioni:
Omaggio ad Alberto Savinio, Galleria d’Arte Moderna Falsetti, Cortina d’Ampezzo, 01/08 - 30/08/1972, s.n., tav. XIV
Alberto Savinio, Galleria d’arte Stivani, Bologna, 14/10 - 15/11/1972, cat. Ed. Giovacchini, Firenze, tav. XII, ill.
Alberto Savinio, Palazzo Reale, Milano, giugno-luglio 1976, cat. a cura di M. Pinottini, R. Savinio, P. Vivarelli, Electa, Milano,
1976, cat. n. 54
Alberto Savinio, Société des expositions du Palais des beaux-arts, Bruxelles, 05/08 - 05/09/1976, cat. n. 54.
Alberto Savinio, Palazzo delle Esposizioni, Roma, 18/05 - 18/07/1978, scritti di M. Fagiolo, D. Fonti, P. Vivarelli, Ed. De Luca,
1978, cat. n. 58
Alberto Savinio, Galleria Civica d’Arte Moderna, Palazzo dei Diamanti, Ferrara, 05/07 - 07/10/1980, act. Ed. Galleria Civica
d’Arte Moderna, Verona 1990-91, pp. 286-287, n. 80
Bibliografia:
Pia Vivarelli, Alberto Savinio. Catalogo Generale, Electa, n. 1931 – 2, p. 113
Alberto Savinio, Galleria Civica d’Arte Moderna, Palazzo dei Diamanti, Ferrara, ed. Palazzo dei Diamanti, Ferrara, 1980, ill.
Maurizio Fagiolo Dell’Arco, Savinio Alberto, coll. “Grandi monografie. Pittori d’oggi”, Fabbri Editori, Milano, 1989, pp. 170171 e 244, n. 80
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Mario Sironi
Autoritratto, 1907
Dinamismo di una figura, 1915
Gigante rosso con scure, 1920-21
Auto in Periferia, 1931
«Il percorso estetico di Mario Sironi conferma la centralità della pittura su ogni altro mezzo di espressione artistica nel pieno della
stagione avanguardista italiana. Non solo: nello sviluppo estetico seguito dall’artista la pittura rimane il perno centrale di una ricerca
figurativa che attraversa e congiunge il futurismo, l’arte metafisica e il Novecento di Margherita Sarfatti. Le sue prime opere esprimono
già una vocazione plastica (Autoritratto, 1907) che è architettonica, per cui la figurazione pittorica non è mai scissa in senso lineare, ma
sempre tenuta insieme da una solidità volumetrica che attrae i fasci di linee in una densa ricomposizione della struttura plastica.
Anche durante il successivo periodo futurista l’attenzione pittorica di Sironi è concentrata sulla solidità delle masse e sulla densità dei
volumi, molto più che sul flusso dinamico colto nel suo divenire plastico. Tale attitudine si acuisce nel corso degli anni, quando nuove
suggestioni metafisiche pervadono la sua pittura, inoculandosi nelle atmosfere tetre dei paesaggi di periferie industriali. Sironi dipinge
soprattutto l’universo urbano deserto attraverso scene in cui ricorre allo spazio prospettico accelerandone le linee di fuga, o in cui
esaspera la frontalità dell’immagine. Restituendo atmosfere urbane sicuramente più concrete di quelle smaterializzate negli scenari
visionari e intellettualistici di de Chirico, i suoi quadri descrivono, mediante una pennellata sintetica e asciutta, lo spirito di desolazione
che percorre le squallide periferie cittadine, orfane di ogni traccia di umanità viva, tagliate da caseggiati monumentali in prospettive
oblique, abitate solo da elementi d’arredo di matrice industriale, ciminiere, gasometri, gru, torri di cantiere, relegati in spazi limitati da
mura massicce e interminabili (Gigante rosso con scure, 1920-21). Nei dipinti di Sironi la potente struttura dei palazzi, simili a cattedrali
laiche, esprime per Margherita Sarfatti un’energia costruttiva che contrasta con l’asprezza dell’immagine e che è il segno della ritrovata
capacità di costruire la forma (Auto in periferia, 1931). È l’emblema stesso del costruire, nel senso più ampio del termine: un costruire
sentito come un imperativo categorico e un dovere etico». Giovanni Lista, Gli Angeli, la Pittura e il Novecento Italiano, ed. Agnellini Arte
Moderna, 2013.
La mostra propone un’appassionante lettura del lavoro di questo straordinario artista italiano, che è stato uno tra i grandi protagonisti
della storia dell’arte europea del ‘900. Quattro opere rappresentano l’eterogeneità d’ispirazione che caratterizza il lavoro di un artista, il
quale non si collocò mai all’interno di una stilistica di gruppo, determinando le proprie regole e perseguendo instancabilmente la propria
ricerca. Quattro epoche distinte di cui la prima è illustrata attraverso Autoritratto, 1907. L’opera testimonia ancora un attaccamento
alla pittura puntinista della fine dell’Ottocento, con un tracciato architettonico appena abbozzato sullo sfondo. La forza costruttiva delle
composizioni di Sironi non è ancora affermata, ma l’unicità dell’opera che s’impone attraverso una cupa monocromia conferisce già a
questo autoritratto una forza tragica che l’artista affermerà in seguito.
Dinamismo di una figura, 1915, appartiene al periodo futurista dell’artista. A partire dal 1913, ispirato dall’opera di Boccioni, Sironi si
avvicina al futurismo, che interpreta però alla luce della sua incessante ricerca volumetrica. Nel 1915 si trasferisce per breve tempo
a Milano, dove entra nel nucleo dirigente del futurismo. Questo momento rimane un episodio di breve durata. Le opere di questo periodo
sposano la forma cubo-futurista, caratterizzata da una tendenza alla schematizzazione, nelle quali attenua il dinamismo futurista e
accentua la compattezza volumetrica delle immagini. Dinamismo di una figura è un’opera quasi astratta, nella quale la ricerca del
movimento è solo un pretesto al gioco dei contrasti nei quali s’impone, in figura dominante, il nero, colore prediletto dell’artista.
Sironi si allontana rapidamente dal futurismo e, per un breve tempo, la sua produzione si avvale di caratteristiche metafisiche. La
componente metafisica riveste un’importanza fondamentale nello sviluppo della sua arte e del suo universo di immagini lungo tutto
l’arco degli anni Venti e dei primi Trenta, fino a una breve stagione “neo-metafisica” nel periodo della Seconda guerra mondiale. Al
febbrile dinamismo di una città industriale Sironi preferisce sottolineare l’atmosfera immota e sospesa. Al 1919/1920 risale la fase
più propriamente metafisica di Sironi. Gigante rosso con scure, 1920-21, ricorda l’atmosfera spoglia e inquietante di una metafisica
reinterpretata, la cui tragicità tesa tende a rappresentare il dramma dell’uomo contemporaneo, avvalendosi di un recupero di tecniche
classiche. Dopo la breve esperienza metafisica, Sironi diventa un convinto sostenitore della necessità di un indispensabile ricorso alla
tradizione artistica italiana, condotto attraverso un linguaggio neo-classico. Partecipa alla creazione del movimento Novecento (1922),
fondato con il sostegno teorico e critico di Margherita Sarfatti. Nel 1925, l’artista entra a far parte del comitato direttivo del gruppo.
La sua arte tuttavia conserva una personalità ineguagliata, elaborata attraverso le fasi successive di un percorso in grado di sintetizzare
e di integrare ispirazioni diverse e influenze che furono determinanti per la definizione del suo stile. Quest’ultimo si caratterizza per una
forza creatrice che unisce futurismo, metafisica e pittura rigorosamente classica. Auto in periferia (1931) ne è un esempio: una tematica
futurista, un’atmosfera urbana opprimente e una composizione perfettamente conforme alle norme della prospettiva classica. Questa
piccola opera, sottile, comunicante un reale sentimento di abbandono è particolarmente rappresentativa del lavoro di Sironi.
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Autoritratto
1907
Olio su tavola
51 x 49 cm.
Provenienza:
Collezione Privata
Esposizioni:
Gli Autoritratti, Galleria d’Arte del Naviglio, Milano, gennaio 1950
Mario Sironi. Cinquant’anni di pittura Italiana, Galleria dello Scudo, Verona, 20/11/1982 – 30/01/1983
Pubblicazioni:
D’Alma Folco Zambelli, Ricordo Di Sironi, in «Corriere della Sera», 1961
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Dinamismo di una figura
1915
Tempera su carta applicata su tela
46 x 36,5 cm.
Provenienza:
Galleria Cadario, Milano
Collezione Privata
Esposizioni:
XXXI Esposizione Biennale Internazionale d’Arte, Venezia 1962, cat. sale III e IV, p. 24, n. 8
Mostra Mercato Nazionale d’Arte Contemporanea, Firenze, Palazzo Strozzi, 23/03 - 28/04/1963, n. 325
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Gigante rosso con scure
1920-1921
Tecnica mista su carta intelata
61,5 x 46 cm.
Provenienza:
Collezione Privata
Esposizioni:
Gli Angeli, la Pittura e il Novecento Italiano, Galleria Agnellini Arte Moderna, Brescia, 6/4 - 20/07/2013, p. 57 e p. 98
(particolare), pp. 100-101 (ill. colori)
LA BELLA ITALIA, Agnellini Arte Moderna, Brescia, 25/10/14 - 21/02/15, cat. pag. ill. colori
Bibliografia:
Con il titolo Il costruttore della Terza Internazionale la tavola compare nei «Consuntivi de le industrie Italiane illustrate»,
rivista cui Sironi collabora dal 1920 al giugno 1921, anno V, serie generale, n. 22, sezione A, n. 6, prima settimana di
giugno 1921, p. 13
A. Sironi, F. Benzi, Sironi illustratore. Catalogo Ragionato, ed. De Luca, Roma, 1988, tav. XXXIV I.I.I., pag. 44, n. 186
Figura e figure, a cura di S. Pegoraro, Bologna, 2003, p. 262
Mario Sironi. Segni e colori 1915-1960, a cura di Vittorio Sgarbi, Bologna, 2004, p. 55
Gli Angeli, la Pittura e il Novecento italiano, Galleria Agnellini Arte Moderna, Brescia, 2013, cat. p. 57 e p. 59 (particolare),
pp. 100-101 ill. col.
Pubblicazioni:
F. Minervino, Gli angeli del 900 italiano, in «LA STAMPA», 13 maggio 2013, pp. 34-35
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Auto in Periferia
1931
Inchiostro e tempera su carta riportata su cartone
23,8 x 28,5 cm.
Provenienza:
Collezione Privata
Bibliografia:
La rivista del popolo d’Italia, Milano, 7 luglio 1931
Sironi illustratore, Fabio Benzi, Andrea Sironi, De Luca ed. Roma, 1988, p. 170, n. 1647
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Emilio Vedova
Visione contemporanea, 1954
«Tutto va rimesso in causa. L’artista è libero per la sua libera esplorazione, come lo è lo scienziato che non domanda il
permesso a nessuno per una scoperta. Non esistono soltanto scoperte scientifiche, esistono scoperte poetiche». Emilio Vedova
«...L’artista liberava il furore che aveva dentro di sé, con gesti repentini che diventavano forme astratte. E che lasciavano
anche perplessi se recitate con una punta di stramberia. [...] Il suo furore non ha conosciuto scuole né correnti.
Vedova, a suo tempo, aveva rimesso in discussione il Futurismo e la sua partecipazione a Corrente, a Oltre Guernica,
al Fronte nuovo delle arti, al Gruppo degli Otto, all’Action painting, all’Art brut, sino all’Informale coi quali aveva avuto
sempre un rapporto di scambio, mai di subordinazione. In realtà, Vedova ha sempre agito come una forza della natura.
L’artista veneziano — che di Venezia, ormai, era diventato un elemento del paesaggio come San Marco e l’isola di San Giorgio —
viveva i suoi dipinti. Una pennellata era un colpo di nervi, un gesto bilioso e selvaggio.
E del selvaggio aveva anche l’aspetto, l’istinto vigile. Natura e carattere si fondevano, diventavano ritmo. Angoscia e lirismo,
lucidità e pazzia. Di un finto pazzo, però, che in realtà era un genio». Sebastiano Grasso, «Corriere della Sera», 26 ottobre 2006.
Anche se in questa opera Visione contemporanea (1954) una certa destrutturazione grafica della superficie della tela, trascinata
in un movimento di rotazione indotto dal gesto, potrebbe suggerire una certa affinità con il dinamismo futurista, l’opera di Vedova
è pienamente inscritta nella sua epoca. Essa s’inserisce nel retaggio del suo periodo delle Geometrie nere, dipinte dal 1946 in poi,
caratterizzate da opere in bianco e nero, che risentono dell’impostazione spaziale cubista.
All’inizio degli anni Cinquanta la sua arte raggiunge una maturità che si materializza nella sintesi dei tre elementi: intenzione,
espressione e realizzazione. Dipinge i suoi celebri cicli di opere: Scontro di situazioni, Ciclo della Protesta, Cicli della Natura. Il suo, è
un gesto di rabbia, «uno sputo della mia bestemmia», dice l’artista. L’arte di Vedova è profondamente legata alla sua città, Venezia,
la tradizionalista, l’addormentata, l’annoiata.
Di Venezia, Peggy Guggenheim diceva: «Sono tradizionalisti i veneziani, ammalati del loro passato», e Vedova aggiungeva
«Venezia è una città surrealista, piuttosto monotona, malinconica, nostalgica», di conseguenza il suo linguaggio è liberatorio, la
sua gestualità, arrabbiata. La tela riflette la corporalità del suo gesto, senza che per questo la pittura divenga oggetto di casualità
e di caos come suggerisce l’espressionismo americano.
Vedova conserva l’unità d’intenzione che coniuga l’azione e il compimento dell’opera, egli ne resta l’autore consapevole, impiegando
la sua forza di rivendicazione nel processo creativo.
Laddove l’arte di Pollock implica una gestualità quasi inconscia, la scienza pittorica barocca ereditata dai suoi antenati veneziani
guida Vedova nell’esecuzione delle sue opere. Ne risulta, come in Visione contemporanea, un lavoro strutturato, composto, animato
tuttavia da un dinamismo potente e rabbioso.
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Visione contemporanea
1954
Olio su tela
130 x 170 cm.
Provenienza:
Collezione Privata
Pubblicazioni:
Premio Micheletti, Edizioni 50, Electa, Fondazione F.P. Micheletti 25/07 - 12/09/1998, n. 19
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Tancredi Parmeggiani
Senza titolo, 1955
«Il mio vocabolario è l’universo... un uomo è tanto più grande quanto universo ha in sé». Tancredi
«Tancredi fu per alcuni anni pittore in residenza presso la mia collezione; qui egli ebbe modo di conoscere Pollock e i suoi quadri.
Tancredi ebbe probabilmente modo di svilupparsi per scatenare la rivolta naturale che era in lui e che appare così evidente in tutta
la sua opera». Peggy Guggenheim
L’opera Senza titolo, 1955, appartiene al periodo più rappresentativo e più fecondo della produzione di Tancredi. Essa corrisponde
alla conclusione del suo soggiorno in residenza a Venezia da Peggy Guggenheim, iniziato nel 1951. Durante questi anni egli ha
saputo impregnarsi degli slanci espressionisti della pittura americana, e in particolar modo di Pollock, ampiamente rappresentato
nella collezione di questa protettrice delle arti che era la Guggenheim. L’ampiezza del gesto e la rabbia quasi distruttrice presenti
in quest’opera testimoniano questa influenza d’oltre atlantico. Luca Massimo Barbero lo sottolinea, del resto, nel testo del catalogo
della retrospettiva dedicata all’artista presso la Galleria d’Arte Moderna Carlo Rizzarda, di Feltre, nel 2011. «L’estrema lucidità,
la vibrante irrequietezza e l’immensa volontà del dipingere nuovo di Tancredi, ancora lontano da una definizione e alieno ad ogni
possibile classificazione; unico nel panorama italiano ad aver così velocemente metabolizzato le possibilità di una nuova astrazione
internazionale e personale al tempo stesso. [...] Automatismo e caos, segni e punti, non potevano non essere il riflesso di un’arguta
e vorace meditazione fatta direttamente sui testi pittorici in casa Guggenheim».
Ma il lavoro di Tancredi non è una semplice interpretazione delle tecniche espressioniste americane. Il suo approccio pittorico
comporta aspetti che vanno da un’astrazione quasi geometrica, ad un puntinismo luminoso o ancora a rappresentazioni chimeriche
d’ispirazione onirica. L’eterogeneità della sua ispirazione non lo allontanò mai dall’informale, di cui egli esplorò diversi aspetti,
basando sempre la sua ricerca sulle variazioni infinite della luce e del colore. È considerato uno dei rappresentanti maggiori
dell’arte informale europea e internazionale, al pari di Hartung, Wols o Georges Mathieu; nel 1955 espose alla Galleria Stadler di
Parigi e si legò a Dubuffet, Asger Jorn e Karel Appel. La sua opera istintiva e tormentata resta unica nella storia della pittura italiana.
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Senza titolo
1955
Tempera su carta intelata
72 x 100,5 cm.
Provenienza:
Galleria Schettini, Milano
Collezione Privata
Esposizioni:
Galleria Schettini, Milano, 1979-1980, catalogo n. 25, ill. n. 25.
Galleria Civica d’Arte Moderna, Palazzo dei Diamanti, Ferrara, 1981-1982, cat. n. 31, ill. 31.
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Piero Dorazio
Ideal II, 1968
Manifesto del gruppo Forma 1 (1947)
I) In arte esiste soltanto la realtà tradizionale e inventiva della forma pura;
II) Riconosciamo nel formalismo l’unico mezzo per sottrarci a influenze decadenti, psicologiche, espressionistiche;
III) Il quadro, la scultura presentano come mezzi di espressione: il colore, il disegno, le masse plastiche, e come fine un’armonia
di forme pure;
IV) La forma è mezzo e fine; il quadro deve poter servire anche come complemento decorativo di una parete nuda, la scultura
anche come arredamento di una stanza; il fine dell’opera d’arte è l’utilità, la bellezza armoniosa, la non pesantezza;
V) Nel nostro lavoro adoperiamo le forme della realtà oggettiva come mezzi per giungere a forme astratte oggettive, ci interessa
la forma del limone, e non il limone.
L’arte di Dorazio nasce dalle teorie del gruppo Forma 1, al quale partecipano gli artisti: Accardi, Attardi, Consagra, Dorazio, Guerrini,
Perilli, Sanfilippo, Turcato.
Essi raccomandano l’obiettività priva di ogni espressionismo, sentimentalismo e altra analisi psicologica. Per tutta la sua carriera
Dorazio rimarrà fedele a questi valori.
Il quadro Ideal II illustra perfettamente lo sviluppo del lavoro dell’artista a partire dal 1953. Questo periodo corrisponde ai primi
anni americani, durante i quali Dorazio frequenta le avanguardie emergenti da De Kooning a Rotho, Pollock e Barney Newman,
partecipando al “Summer International Seminar” della Harvard University e tenendo una personale alla Wittenborn One-Wall
Gallery di New York. Dal 1958 sviluppa un metodo di rappresentazione dello spazio mediante la vibrazione della luce, attraverso
un reticolo trasparente di strutture cromatiche sovrapposte. Ideal II è uno straordinario esempio di questa tecnica, di divisione del
quadro per ripartizione delle masse colorate derivante in linea diretta dagli studi futuristi e, in particolare, dalla problematica di
Balla, che fece i primi passi verso l’astrazione e la pura sensazione colorata.
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Ideal II
1968
Olio su tela
150 x 170 cm.
Provenienza:
Collezione Privata
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Gino Severini
Zeus partorito dal Sole, 1954
Zeus partorito dal sole, la grande composizione di Gino Severini, fu eseguita nel 1954 per gli uffici di Parigi delle compagnie aeree
Lai e Alitalia. Nel 1954, infatti, le due società costruirono la loro comune agenzia in Rue du 4 Septembre, su progetto di Leo Calini,
Eugenio Montuori e Cesare Ligini. Si prevedeva anche le sistemazione di un pannello decorativo sulla parete destra dell’ambiente.
La realizzazione dell’opera fu affidata a Severini, che ne scelse la tematica. L’artista tradusse in modalità cubiste e futuriste il tema
delle comunicazioni, attraverso la figura mitologica del grande carro di Zeus partorito dal Sole.
Ordine, chiarezza e purezza, sono le parole chiave che guidano l’evoluzione del lavoro di Severini in questi anni romani, nei quali
egli vuole riprendere l’esperienza nel campo decorativo integrando “l’arte nel mondo dinamico”. Il pannello di Alitalia corrisponde
a questo momento particolare e si adatta al concetto del rinnovato interesse, nel periodo del dopoguerra, per il dialogo fra arte e
architettura. La dimensione dell’opera induce il dialogo tra dipinto e spazio architettonico e mette a confronto la visione “corretta
e pulita” dell’artista con la geometria costruttiva dell’ambiente, proponendo un’immagine moderna e aggiornata della pittura in
una funzionalità creativa. Era del resto la scommessa dell’arte degli anni ‘50. Severini ne era consapevole e partecipò a questa
emancipazione della forma pittorica verso tecniche applicate a funzioni usuali o decorative, come il mosaico che egli sviluppò
attivamente in quegli anni, e alla realizzazione di pannelli monumentali. Secondo l’artista, la dimensione allarga la visione e da
questo fatto nascono i pannelli decorativi per Alitalia (Parigi 1954, Beirut 1955). Nel pannello Zeus partorito dal Sole, Severini
raggiunge una forza espressiva intensa. Il mito si sovrappone all’illustrazione antica, in una composizione rigorosa che riprende
il dinamismo futurista rivisto dalla decostruzione cubista, secondo uno stile che l’artista ha elaborato alla fine degli anni ‘40. La
composizione traccia un’opera geometrica che coniuga armonia e conoscenza matematica secondo le caratteristiche delle opere
dell’artista in quegli anni. «Severini aveva trovato nello studio della matematica e delle regole geometriche una risposta alle sue
nuove esigenze. [...] Egli si avvicina nuovamente al rigore geometrico della composizione, rielaborando l’esperienza di un lungo
lavoro in uno stile più maturo, affiancato da un’ormai approfondita conoscenza tecnica»1. L’idea maggiore di Severini, in questo
momento di evoluzione della sua arte, corrispondeva a un grande malessere culturale. Grande ammiratore delle scienze e delle
tecniche – di cui ha sempre applicato alcune regole a livello creativo, e di cui ha celebrato in quanto Futurista i benefici – in quegli
anni ‘50 in cui si definisce un mondo meccanico e mediatico, egli analizza il vuoto culturale che caratterizza l’epoca industriale:
«Purtroppo, già dalla fine della Prima guerra mondiale, il dinamico susseguirsi di differenti attitudini, tutte intensamente ordinate a
un fine artistico, perde ogni slancio e devia da questo fine esclusivo. Diverse sono le regioni, ma io le vedo soprattutto nel progresso
formidabile, al di là di ogni previsione, della scienza e dell’industria, al quale non è corrisposto un uguale progresso morale»2. La sua
nuova ambizione è quindi di ritrovare il cammino di un umanesimo in grado di alleare tecnologia e arte, progresso e valori morali. In
qualche modo ri-umanizzare la cultura, per questo egli s’ispira a uno stile “meccanico”, animato da una volontà lirica, accentuato
da colori vivi contrastati e da una luminosità intensa. Dalla luce deve nascere l’esprit (alla francese), “parola che contiene nel
suo conciso la capacità inventiva, intuitiva, razionale e, nel contempo, la fiducia dell’uomo in se stesso”3; è proprio il tema che
l’artista sviluppa nel suo lavoro. La rappresentazione di un motivo allegorico viene subordinata al fine astratto di realizzare una
composizione dove prevalga il ritmo scandito dai contrasti cromatici e dal ritmo del disegno.
1
2
3
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Ester Coen, dal catalogo della mostra della collezione IRARTE, Roma, 1989.
G. Severini, D. Fonti, Gino Severini. Catalogo ragionato, A. Mondadori, Milano, Edizioni P. Daverio, Milano, 1988, pag. 527.
Piero Dorazio, ibidem, pag. 603.
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Zeus partorito dal Sole
1954
Tempera su tre pannelli in legno
271,5 x 412 cm.
Provenienza:
Collezione Alitalia
Esposizioni:
Roma IRIARTE: antico e moderno nelle collezioni del Gruppo IRI, 1989, Palazzo Venezia, Roma, cat. p. 155, ill.
Opere Grandi, Grandi Opere, Agnellini Arte Moderna, Brescia, 02/10/2010 - 26/02/2011
Bibliografia:
Tempo dell’Effort Moderne, a cura di P. Pacini, Nuova edizione Vallecchi, Firenze, 1968
P. Pacini, La decorazione parietale e lo spazio scenino, in Gino Severini, cat. della mostra a Firenze e Roma, 1983
M. Fagiolo dell’Arco, Gino Severini prima e dopo l’opera – Documenti, opere e immagini, Milano, 1953 e Cortona, 1983-84
D. Fonti, Gino Severini. Catalogo ragionato, A. Mondadori, Milano, Edizioni P. Daverio, Milano, 1988, p. 61, ill. 163, pubblicata
la maquette per il dipinto, p. 553, ill. 919 e 919A, due studi preparatori
M. Fagiolo dell’Arco, Roma 1948-1959. Arte, cronaca e cultura dal Neorealismo alla Dolce Vita, Palazzo delle Esposizioni,
2002, p. 266
Opere Grandi, Grandi Opere, Catalogo Agnellini Arte Moderna, Brescia, ottobre 2010, p. 79
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Umberto Mastroianni
Maternità, 1949
Fantasmi, 1955
Enigma, 1971-1972
In Uomo del 1942 e in Donna dell’anno seguente emergono già alcuni elementi di scomposizione neocubista. Ma quella
scomposizione non discende da un’analisi del dato di visione: è soltanto la proiezione di uno stato emotivo, di una condizione del
soggetto. Mastroianni sa che il Cubismo si fonda interamente sul principium di visione dell’Impressionismo, benché si proponga
di contrapporre una costruzione alla dissoluzione plastica di un Degas e di un Medardo Rosso. La spazialità infinita di Maternità
del 1949 si avvale di una luce che piove dall’esterno, facendo sì che, una volta scavata la mole, la superficie formale raggiunta
sia come scolpita dal raggio che la colpisce, e dall’incidenza di esso, riflesso o rifratto, ma spesso al punto d’incontro in cui la luce
invisibile, quella che sale dall’interno, si manifesta come limite tattile-percettivo portato all’estremo. Diventando la condizione
di un’aisthesis, di una sensazione oscillante tra la realtà e la metafisica, tra la testualità dell’oggetto-scultura e la sua necessità
stilematica, la luce spruzza sinergica sull’immagine, spazio tagliato dal suo apparire: luce-ombra fitta in linee di forza, in profili
decisi e agitati, quasi memori di un’antica geometria dove la figura risulta, mentre erompe, ancora “dentro la materia”, ancora
sostanziale alla propria matrice, di cui essa ha ancora la forma come in un mallo appena aperto.
Negli oli su juta, per quella particolarità espletiva e ascitizia che Mastroianni attribuiva loro ‒ e quindi per la maggior libertà
inventiva che consentiva a se stesso ‒, non si ha il contrario della prassi descritta, ma si ha qualcosa di sensibilmente diverso.
In luogo dell’unicità dei materiali o di un’unità che pretende una sintesi non costruita sulla materia, non materica (come negli ori
e negli argenti), c’è aperta, patente contaminazione. Al rilievo variamente policromo dei bassorilievi in bronzo si affacciano le
sbrindellature del sacco e del cartone bucato e graffiato, donde il frastagliarsi della superficie. L’opera Fantasmi del 1955, più de
La magia cromatica del talismano del 1948, si edifica e prende forma sulle tracce della sua dichiarata caoticità, lasciando al caso
multiplo il risultato. Mastroianni, forse attraverso Luigi Spazzapan, ama il buio della notte e vede in essa la bellezza dell’informe, la
dissoluzione della materia come riflesso della coscienza.
È il partire dal profondo, dall’interno, che crea in Mastroianni ‒ sin dai primi anni Settanta ‒ i valori tecnologici impliciti nell’immagine
materiata di bronzo o di acciaio, mentre essa ancora si torce sotto i campi d’incontro della luce spiovente dall’alto, o comunque
dal di fuori. Questa doppia condizione, del concettualizzarsi dell’idea nel frammento metallico, crea la nitida superficie di Enigma,
che rappresenta la fine della stagione informale e l’inizio di quella del macchinismo visionario. Su questo scandaglio di spazio
e di organismi in crescita e mutazione continua, il Maestro di Fontana Liri si è posto con la stessa disponibilità di scoperta di un
Eduardo Chillida o di un David Smith, che cercano nel frammento altri frammenti, come l’uomo altri uomini e non il “tutto” astratto
della società e dell’umanità. Il linguaggio, fondato su accenni ricorrenti al tecnicismo contemporaneo, ma al tempo stesso su un
inesauribile barocchismo (così Cesare Brandi e Giulio Carlo Argan), diviene in Enigma nota caratterizzante ed inconfondibile di
questo autore dalla fantasia e dal vigore inesausti.
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Maternità
1949
scultura in bronzo
88 x 44 x 55 cm.
Provenienza:
Collezione Privata
Esposizioni:
XXVI Biennale internazionale d’Arte, Venezia, 1950
Quadriennale Nazionale d’Arte, Palazzo delle Esposizioni, Roma, 1951
Galerie de France, Parigi, 1951
Salone della Stampa, Torino, 1955
Kleeman Gallery, New York, 1960
Istituto Bancario San Paolo, Torino, 1965
Galleria Civica d’Arte Moderna, Torino, 1974
Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma, 1974
Forte di Belvedere, Firenze, 1981
Rotonda della Besana, Milano, 1989
Museo Umberto Mastroianni di San Salvatore in Lauro, Roma, 1995
Museo Donato Bramante, Fermignano, 1998
Civica Galleria d’Arte Moderna, Gallarate, 2000
Chiesa del Suffragio, Carrara, 2003
Pinacoteca Comunale, Volterra, 2003
Palazzo Ducale, Urbino, 2004
Museo Fondazione Umberto Mastroianni, Palazzo Ducale
Boncompagni, Arpino, 2004
Fondazione Museo Venanzo Crocetti, Roma, 2004; Museo del Corso,
Roma, 2005
Festival dei Due Mondi, Palazzo Sansi e Rocca Albornoziana,
Spoleto, 2006
Galleria d’Arte Marano, Cosenza, 2008
Galleria d’Arte Moderna, Bratislava, 2008
Museo Fornace Pagliero, Castellamonte, 2011
Museo Fondazione Umberto Mastroianni, Palazzo Ducale
Boncompagni, Arpino, 2012
Palazzo Pisani, Lonigo, 2013
Pubblicazioni:
Giulio Carlo Argan, Mastroianni, Edizioni del Cavallino, Venezia,
1958, p. 57
104
Nello Ponente, Mastroianni, Edizioni della Galleria Civica d’Arte
Moderna, Torino, 1974, p. 73
Palma Bucarelli, Umberto Mastroianni, De Luca Editore, Roma,
1974, p. 124
Floriano De Santi, Mastroianni. La dialettica dell’avanguardia,
Oberon-Editori Riuniti, Roma, 1983, p. 29
Floriano De Santi, Mastroianni. I materiali 1932-1988, Fabbri Editori,
Milano, 1989, p. 63
Floriano De Santi, Museo Donazione Umberto Mastroianni, Il Cigno
Galileo Galilei, Roma, 1995, p. 49
Floriano De Santi, Mastroianni. Il solitario argonauta, Edizioni del
Centro Internazionale Umberto Mastroianni del Castello Ladislao di
Arpino, Brescia, 1998, p. 30
Emma Zanella Manara, Il 1950. Premi ed esposizioni nell’Italia del
dopoguerra, Nicolini Editore, Gavirate, 2000, p. 200
Floriano De Santi, Le tre divinità di Mastroianni, Edizioni
Caleidoscopio, Massarosa, 2003, prima di copertina e p. 20
Floriano De Santi, Mastroianni. La materia come desiderio d’infinito,
Edizioni della Fondazione Museo Venanzo Crocetti, Roma,
2004, p. 23
Floriano De Santi, Umberto Mastroianni, scultore europeo,
Edieuropa, Roma, 2005, p. 63
Floriano De Santi, Umberto Mastroianni, Edieuropa, 2006, p. 67
Floriano De Santi, Umberto Mastroianni, Edizione Arte On, Castel di
Lama, 2008, p. 23
Floriano De Santi, Umberto Mastroianni. Nella coltre di buio della
materia, Marano Edizioni, Cosenza, 2008, prima di copertina e p. 13
Floriano De Santi, Umberto Mastroianni. Il tragico ruotare
dell’universo, Edizioni dell’Archivio Umberto Mastroianni, Brescia,
2011, p. 28
Floriano De Santi, Umberto Mastroianni nelle collezioni Evandro
Franceschelli e Tiziana ed Enrico Todi, Edizioni della Fondazione e
dell’Archivio Umberto Mastroianni, Brescia, 2012, p. 10
Floriano De Santi, Il fantasma della forma: da Renoir a Mastroianni,
Edizioni dell’Archivio Umberto Mastroianni, Brescia, 2013, quarta di
copertina
105
Fantasmi
1955
olio su juta
59 x 42 cm.
Provenienza:
Collezione Privata
Esposizioni:
L’Art Ancien, Torino, 1959
Galleria Kleemann, New York, 1960
Galleria Carlo Carrà di Palazzo Guasco, Alessandria, 2010
Bibliografia:
Michelangelo Masciotta, catalogo de L’Art Ancien, 1959, p. 7
Adolfo Francesco Carozzi, L’informale in Piemonte, Vinardi Editore, p. 177
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Enigma
1971-1972
scultura in bronzo
71 x 15 x 21 cm.
Provenienza:
Collezione Privata
Esposizioni:
Arte fiera ‘77, Bologna, 1977
Fiera Internazionale d’Arte Contemporanea, Milano, 1985
Museo Donato Bramante, Fermignano, 1998
Fondazione Museo Venanzo Crocetti, Roma, 2003
Chiesa del Suffragio, Carrara, 2003
Pinacoteca Comunale, Volterra, 2003
Palazzo Ducale, Urbino, 2004
Fondazione Museo Umberto Mastroianni, Arpino, 2004
Museo del Corso, Roma, 2005
XLIX edizione del Festival dei Due Mondi, Palazzo Sansi e Rocca Albornoziana, Spoleto, 2006
Museo Fornace Pagliero, Castellamonte, 2011
Pubblicazioni:
Catalogo della Galleria Editalia per Arte fiera ‘77 di Bologna, Roma, 1977, p. 3
Catalogo della Galleria Editalia per la Fiera Internazionale d’Arte Contemporanea di Milano, Roma, 1985, p. 4
Floriano De Santi, Mastroianni. Il solitario argonauta, Edizioni del Centro Internazionale Umberto Mastroianni del Castello
Ladislao di Arpino, Brescia, 1998, prima di copertina e p. 23
Floriano De Santi, Mastroianni. La materia come desiderio d’infinito, Edizioni della Fondazione Museo Venanzo Crocetti,
Roma, 2003, p. 24
Floriano De Santi, Le tre divinità di Mastroianni, Edizioni Caleidoscopio, Massarosa, 2003, p. 25
Floriano De Santi, Umberto Mastroianni, scultore europeo, Edieuropa, Roma, 2005, p. 89
Floriano De Santi, Umberto Mastroianni, Edieuropa, Roma, 2006, p. 89
Floriano De Santi, Umberto Mastroianni. Il tragico ruotare dell’universo, Edizioni dell’Archivio Umberto Mastroianni, Brescia,
2011, p. 39
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Antonio Sanfilippo
Estensione arancio, 1962
«Segno è l’elemento essenziale dell’espressione, il primo grado di una forma, l’articolazione di un linguaggio». Antonio Sanfilippo
«Transitato attraverso un neo-cubismo picassiano, dopo vari soggiorni a Parigi, Sanfilippo si orienta prima sul concretismo di
Magnelli, poi su Hartung e su Kandinsky. È attraverso di loro che giunge all’elaborazione del suo “segno” particolare, incantato e
gioioso, vicino e lontano al tempo stesso a quello di Carla Accardi, sua moglie, e di Capogrossi. La sua “figura” più tipica è costituita
da una sorta di nuvola o galassia di segni minuti e coloratissimi, ai quali affida la sua prima notorietà in campo anche internazionale
e che presenta in numerosissime mostre in Italia e all’estero: Roma, Firenze, Milano, Bruxelles, Pittsburgh, Losanna, Londra».
Fabrizio d’Amico
Nel 1946, Antonio Sanfilippo si stabilisce a Roma e nel 1947 fonda, con Accardi, Attardi, Consagra, Dorazio, Guerrini, Perilli, Turcato
e Maugeri, il movimento artistico Forma 1, che rivendica la forza della forma e del colore come elementi fondanti dell’immagine
e la loro autonomia rispetto alla realtà fenomenica e alla sua rappresentazione figurativa. Il gruppo aderisce all’astrattismo,
rivendicando la valenza anche politica della scelta, guarda all’esperienza europea ed è anche sensibile al clima di rinnovamento
politico sociale dell’Italia di quegli anni. Sanfilippo svolge un ruolo cruciale nella definizione dell’arte astratta in Italia, il suo è stato
un percorso coerente, ostinato e personalissimo, la sua ricerca è la storia di un’ossessione che diventa scoperta, rivoluzione, e in
cui le differenze da scarti minimi si trasformano in sostanziali rivelazioni.
La prima mostra del gruppo Forma 1 si tiene nel 1948 nella sede dell’Art Club di Roma. Nello stesso anno Sanfilippo partecipa alla
V Rassegna Nazionale di Arti Figurative alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma e, nella stessa sede, partecipa alla mostra
Arte astratta e concreta del 1951. Ancora nel 1948 espone alla Biennale di Venezia, dove tornerà per le edizioni del 1954 e con
una sala personale nel 1966.
Al 1953 risale la sua ricerca basata sul segno che, intorno al 1956-57, approda alla configurazione di un personale sistema segnico,
non più per agglomerati come in precedenza, ma distribuito con maggior libertà sull’area del dipinto. Nel 1958 Nello Ponente lo
include nella mostra Pittura tedesca e italiana contemporanea alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma; nel 1959 è presente
alla Quadriennale di Roma. Importante, durante quegli anni, è l’incontro con il critico dell’informale Michel Tapié.
Gli anni ‘60 sono i più fecondi in termini di ricerca e produzione nel percorso dell’artista. Se fino al 1963 il lavoro di Sanfilippo è
prevalentemente monocromo, in seguito si animerà di un vivace cromatismo, sempre caratterizzato da una misura di eleganza.
L’opera, Estensione Arancio (1962) riprende quindi questa scrittura informale sensoriale e quasi corporea, da cui risulta una forza
al tempo stesso poetica ed enigmatica. Somiglia alla narrazione automatica di Michaux, che sviluppava i suoi geroglifici in opere
dense e suggestive. Il carattere monocromo di questo lavoro collega il quadro al primo periodo degli anni ‘60, prima che l’artista
sviluppi un lavoro più colorato di un vivace cromatismo sempre caratterizzato da una misura di eleganza.
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Estensione arancio
1962
Acrilico e tempera su tela
110 x 100 cm.
Provenienza:
Collezione privata
Bibliografia:
Fabrizio d’Amico e Giuseppe Appella, Antonio Sanfilippo. Catalogo generale dei dipinti dal 1942 al 1977, De Luca Editori
d’Arte, 2007, n. 462
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Piero Manzoni
Fiato d’artista, 1960
Achrome, 1961-1962
«Oggi il concetto di quadro, di pittura, di poesia, nel senso consueto della parola non possono più avere senso per noi: e così
tutto un bagaglio critico che trae le sue origini da un mondo che già fu; giudizi di qualità, di intime emozioni, di senso pittorico, di
sensibilità espressiva; tutto ciò insomma che nasce da certi aspetti gratuiti di certa arte.
Il momento artistico non sta in fatti edonistici, ma nel portare in luce, ridurre a immagine, i miti universali precoscienti. L’arte non
è un fenomeno descrittivo, ma un procedimento scientifico di fondazione.
Infatti l’opera d’arte trae la sua origine dall’inconscio che noi intendiamo come una psiche impersonale comune a tutti gli uomini,
anche se si manifesta attraverso una coscienza personale (da qui la possibilità del rapporto autore-opera-spettatore). Ciascun
uomo trae l’elemento umano di sé da questa base senza rendersene conto, in modo elementare e immediato.
[…] È per me quindi oggi incomprensibile l’artista che stabilisce rigorosamente i limiti di una superficie su cui collocare un rapporto
esatto, in rigoroso equilibrio forme e colori; perché preoccuparsi di come collocare una linea in uno spazio? Perché stabilire uno
spazio, perché queste limitazioni? Composizioni di forme, forme nello spazio, profondità spaziale, tutti questi problemi ci sono
estranei; una linea si può solo tracciarla, lunghissima, all’infinito, al di fuori di ogni problema di composizione o di dimensione; nello
spazio totale non esistono dimensioni». Piero Manzoni, Libera dimensione, in «Azimuth», n. 2, Milano, 1960.
Due opere rappresentative della ricerca di Manzoni ci consentono di avvicinarci al mondo, allora così iconoclasta di Manzoni.
Fiato d’artista, 1960, è legato alla produzione dei Corpi d’aria. Il 3 maggio i primi Corpi d’aria sono esposti alla Galleria Azimut. In
giugno sono esposti anche alla Galleria Køpcke di Copenaghen (dove è allestita la mostra Manzoni, 10 giugno-1 luglio), insieme ad
Achrome, Linee e Uova.
Manzoni scrive: «Nel 1959 ho preparato una serie di 45 “corpi d’aria” (sculture pneumatiche) del diametro massimo di cm 80
(altezza con la base cm 120); l’acquirente, qualora lo voglia, può acquistare, oltre all’involucro e alla base (chiusi in apposito
piccolo astuccio), anche il mio fiato, da conservare nell’involucro stesso» (in Libera dimensione).
Achrome, 1961-62: I primi Achrome sono semplici superfici di gesso caolino, argilla bianca stesa sulla tela, lavorata, grinzata,
cucita... Gli Achrome, “senza colore”, incolori, neutri, sono opere che intendono comunicare l’essenza del vuoto, del niente. Sono
stati prodotti tra il 1957 e il 1963, secondo svariate tipologie e realizzati nelle più improbabili forme: batuffoli di cotone, fibre
artificiali, peluche, panini plastificati, palline di polistirolo. Illustrano il pensiero filosofico dell’artista, che intende esplorare l’anima
del mondo, escludendo qualsiasi aspetto estetico o rappresentativo. Manzoni incarna con grande anticipo la figura dell’artista
contemporaneo, capace di uscire dai canoni pittorici e di reinterpretare il linguaggio artistico in chiave comunicativa e provocatoria.
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Fiato d’artista
1960
Palloncino e base in legno
18 x 18 cm.
Provenienza:
Collezione Privata
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Achrome
1961-1962
Fibra artificiale
25,5 x 24 cm.
Provenienza:
Collezione Privata
Bibliografia:
Germano Celant, Catalogo Generale Piero Manzoni, Skira Ed., 2004, p. 540, n. 995
F. Pola, Una visione internazionale. Piero Manzoni e Albisola, pubblicazione appartenente alla collana “I Quaderni”, edita
dalla Fondazione Piero Manzoni in collaborazione con Electa, 2013, p. 131 e p. 148
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Alberto Burri
Composizione, 1950
Bianco, 1953
Combustione, 1964
Emilio Villa scriveva a proposito dell’arte di Burri: «...panorami spaventosi: cenere negli occhi, sangue negli occhi, resti e segni di
nevrosi collettive, un’esasperazione difensiva... una riduzione ad nihilum, il momento in cui l’uomo non è altro che la proiezione o
l’effrazione di una tenebrosa geometria... reale al senso puro... l’angoscia, il terrore e la rivolta, le condizioni tecniche e gli umori
divennero aspetti esemplari... Erano i materiali più prossimi e più somiglianti alla fragilità e all’incertezza del deserto del mondo,
dell’assurdità totale e dell’incoerenza della storia».
«La sua scoperta della materia è graduale, muove dalla stessa materia pittorica e dal bisogno di attribuirle una consistenza
fisica più corposa e densa, grumosa, ricca di aderenze, anche mescolandola al catrame, al vinavil o alla cementite; ma presto
all’impasto pittorico così ingrossato viene sostituita o accostata una materia dalle diverse proprietà, oggettuale e non plasmabile
ma da segnare con tagli, ferite, cuciture, un inserto di materia-detrito. Nascono i celebri sacchi, i gobbi (ovvero le prime opere in
cui la tela si protende in un aggetto, infrangendo la piatta unità della superficie), poi i legni, i ferri, le plastiche, i cretti, i cellotex;
via via il crudo intervento del gesto si ritira, lascia affiorare la pura e squadrata tensione dello spazio. Si direbbe che un dettato
della mente governa e riordina impulsi che premono dal profondo; non li reprime ma li contiene, nutrendo della loro spinta la forza
stessa della propria “ratio”, che ora emerge con più imperioso nitore, ora si trattiene nel magma che è chiamata a dominare.
Impellenti traini istintuali, carichi di energia anche buia e distruttiva, si ricompongono nell’attraversare la zona di luce dell’intelletto
e la sua architettonica progettualità. Nel panorama internazionale Burri emerge come una delle figure più autorevoli della seconda
metà del secolo, e più ricche di influenze sugli svolgimenti dell’arte». Maurizio Calvesi
Tre opere significative di Alberto Burri illustrano, in mostra, il lavoro dell’artista.
Composizione (1950) appartiene alla tipologia del “catrame”, vera pittura materica a cui Burri lavora sin dal 1948; essa appare
caratterizzata dall’utilizzo di un conglomerato materico poco aderente rispetto al supporto, come in instabile equilibrio. Una di
queste Composizioni è presentata a Parigi al Salon des Réalités Nouvelles del 1946; il critico francese Christian Zervos la pubblica nel
fascicolo del 1950 della rivista «Les Cahiers d’Art», ciò rappresenta il primo riconoscimento prestigioso e a carattere internazionale
per l’artista.
Roma 53 illustra la tecnica del “sacco”. Burri, citato da Fabrizio D’Amico (intervista pubblicata nel catalogo della mostra Roma
I950-59. Il rinnovamento della pittura in Italia, Ferrara I996): «Il sacco per esempio – dice – è il compendio delle ragioni psicologiche
ideali, delle ragioni di forma e colore. Potrei ottenere quello stesso tono di marrone, ma non sarebbe lo stesso perché non avrebbe
in sé tutto quello che io voglio che abbia... Deve rispondere come superficie, come materia e come idea. Nel sacco trovo quella
perfetta aderenza tra tono, materia e idea che nel colore sarebbe impossibile».
Nella serie dei sacchi, alla materia fluida e spalmabile viene sostituita, o accostata, una materia oggettuale e non plasmabile,
una materia-detrito, che diviene protagonista dell’opera. L’incastro tra elementi pittorici e inserti materici si realizza come per
incrostazione, in un magma indistricabile e indivisibile: movimenti di segni e di forme, accumulati in complessi movimenti labirintici.
Combustione (1964) rappresenta una tappa successiva nella sperimentazione di nuovi materiali, rifiuti e oggetti riciclati. La ricerca
di nuovi materiali si affianca a quella di nuove tecniche: dalle plastiche alle combustioni, dove l’usura che segna i materiali non è
più quella della vita, ma un’energia esterna che assume un valore metaforico primordiale. Maurizio Calvesi scrive: «Tra Burri e le
sue materie si crea uno scambio di influenze: con i sacchi, evocativi e significanti nella loro testualità esistenziale, c’è un’intesa
profonda, un pareggio di presenza e d’intervento, le plastiche sono invece più ricche di possibilità ricettive e determinano una
violenza d’intervento che si esplicita nell’espressionismo delle combustioni.
Il fuoco lascia le nere tracce della sua azione, già anche nei legni e nei ferri, tornando così a disegnare quelle inquietanti cavità che
avevamo incontrato nei catrami e nei sacchi».
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Composizione
1950
Catrame e olio su tela
61 x 87 cm.
Provenienza:
Collezione Privata
Esposizioni:
Alternative attuali, Omaggio a Burri, retrospettiva antologica 1948-1962, L’Aquila Castello Cinquecentesco, luglio-agosto 1962,
a cura di E. Crispolti e A. Bandera, n. 7
Bibliografia:
Burri, ed. Fondazione Palazzo Albizzini, p. 33, n. 99
Cesare Brandi, Burri, Editalia, Roma, p. 188, n. 48
«Arte», st. 1988, p. 97, ill. colori
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Bianco
1953
Stoffa e olio su compensato
60 x 90 cm.
Provenienza:
Pyramid Gallery, Washington
Collezione Privata
Esposizioni:
Alberto Burri, la misura aurea della materia, Galleria Anna D’Ascanio, Roma, 11/1979 - 02/1980, cat. testo A. B. Oliva, pp.
39, 92 ill. (Muffa)
Bibliografia:
Burri, cat. Fondazione Palazzo Albizzini, p. 125, n. 507
«Flash Art», n. 131, 1986, p. 75 ill. colori
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Combustione
1964
Plastica, acrilico, combustione, vinavil, su cellotex
51 x 36 cm.
Provenienza:
Collezione Privata
Bibliografia:
Burri, cat. Fondazione Palazzo Albizzini, pp. 210-211, n. 899
Pubblicazioni:
Alberto Burri: l’arte nel sacco, http://barbarainwonderlart.com/2014/03/31/alberto-burri-larte-nel-sacco/
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Lucio Fontana
Frammenti lunari, 1955-1960
Concetto spaziale, Attesa, 1962
Concetto spaziale, 1964-1965
Concetto spaziale, 1966
«La scoperta del cosmo è una dimensione nuova, è l’infinito: allora io ho bucato questa tela, che era alla base di tutte le arti e ho
creato una dimensione infinita, una x che per me è alla base di tutta l’arte contemporanea». Lucio Fontana
«Fontana ha due voci: una pura, semplice, quella dei “tagli”, dello “spazialismo”; e l’altra barocca, fatta di materia, movimento del
gesto, proliferazione di segni. Questi due aspetti sono sempre presenti in Fontana». Sebastien Gokalp (Parigi, 2014).
In effetti materia e assenza di materia si alternano nella ricerca di Fontana, succedendosi con regolarità e una naturalezza
artificiosamente studiata. Senza titolo (1960-61) è pienamente materica, lavorazione barocca, e ci ricorda che Fontana fu, nel
corso di tutta la sua carriera, uno scultore modellatore. Le sue prime ceramiche risalgono all’inizio degli anni Trenta, quando
Lucio Fontana comincia a utilizzare la terracotta per i suoi lavori plastici, e nel 1932 espone a Milano alcune tavolette graffite
realizzate in cemento colorato e terracotta, di chiare suggestioni informali. Nel 1935 conosce Tullio Mazzotti, detto d’Albisola, e
inizia una trentennale collaborazione, come plasticatore, presso la fabbrica “M.G.A.” dei Mazzotti ad Albissola Marina, realizzando
opere di sapore futurista e modernista e riportando ampi successi in occasione di varie mostre nazionali e internazionali.
Quindi, dal 1936, produce opere ceramiche e lo farà per tutta la sua carriera artistica, oltre che ad Albissola anche presso la
“Manifattura Nazionale” di Sèvres, in Francia.
La sua produzione ceramica continua negli anni Sessanta con alcune opere, intitolate Piastre, cotte nei forni di Vittoria Mazzotti, e
Nature, realizzate presso la “Ce.As.” di Albissola Marina. Negli stessi anni collabora con la manifattura “Pozzo Garitta”, di proprietà
di Bartolomeo Tortarolo e realizza alcuni lavori presso l’albisolese “La Fenice”, di Ernesto Daglio. Le ceramiche di Fontana hanno
una vocazione esplicitamente decorativa o di arredo.
I concetti spaziali rappresentano la “scoperta del Cosmos”, questo incontro assoluto con lo spazio che l’artista vuole conquistare al
di là della tela. Questa rivendicazione dell’immaterialità fu avviata da Fontana alla fine degli anni ‘40, con i Manifesti, di cui il primo
fu pubblicato nel 1947. Le sue prime manifestazioni sulla tela corrispondono ai buchi: «Io buco, passa l’infinito di lì, passa la luce,
non c’è bisogno di dipingere… tutti hanno creduto che io volessi distruggere: ma non è vero, io ho costruito, non distrutto, è lì la
cosa…»; così diceva Fontana a Carla Lonzi (C. Lonzi, Autoritratto, Bari, De Donato, 1969), rivendicando, nella stessa intervista, la
necessità comunque di una “strutturazione estetica”. Più tardi, alla fine degli anni ’50, nascono i tagli. Flaminio Gualdono analizza:
«…È una fase risolutiva, nell’itinerario di Fontana. I tagli rappresentano lo svolgimento per molti versi necessario dell’intuizione
prima dei buchi. L’annuncio del loro apparire è nei graffiti, sempre più avvertiti e intensivi, che passano dagli inchiostri alle carte.
Segni, sono, in concentrazione ultima: e gesti sospesi al limite zen della dematerializzazione definitiva, a ridosso dell’infinito.
Fontana ne intuisce con chiarezza la prospettiva proprio allo scadere del decennio, dopo un primo e sperimentale impiego scritturale.
Dapprima brevi e iterativi, e talora legati a una sagomatura fortemente oggettuale della tela, essi giungono a purezza definitiva
d’enunciato nelle serie del 1959 e 1960. La superficie vi è monocroma, indifferentemente grezza, o bianca, o nera, oppure campita
di altrettanto indifferentemente squillanti colori, verde giallo rosso…». In cat. Fontana, Palazzo dei Diamanti, Ferrara, 25/09/94 –
08/01/95 (seconda parte).
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Frammenti lunari
1955-1960
Terracotta colorata e riflessata
32 x 42 cm.
Provenienza:
Collezione Francesco De Bartolomei
Collezione Privata
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Concetto spaziale, Attesa
1962
Idropittura e taglio su tela verde
61 x 46,5 cm.
Provenienza:
Galleria Karsten Greve, Parigi
Collezione Privata
Esposizioni:
Lucio Fontana. Peintures et Sculptures, Galerie Karsten Greve, Parigi, 1989 n. 56, ill. col.
Pubblicazioni:
Enrico Crispolti, Lucio Fontana. Catalogo Generale, vol. II, Milano, 1986, ed. 2006, p. 636, n. 62 T 54, ill.
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Concetto spaziale
1964 -1965
Idropittura su tela colore bianco
61 x 50 cm.
Provenienza:
Galleria Marino, Roma (897/1)
Collezione Dino Gavina, San Lazzato di Savena
Collezione Privata
Bibliografia:
Enrico Crispolti, Lucio Fontana. Catalogo Generale, vol. II, Milano, 1986, p. 553, n. 64-65, T 37, ill.
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Concetto spaziale
1966
Idropittura su tela colore rosso
61 x 50 cm.
Provenienza:
Collezione Renzo Riva, Milano
Galleria Il Punto, Torino
Vismara Arte Contemporanea, Milano
Galleria Seno, Milano
Collezione Privata
Esposizioni:
Galleria Il Punto, Torino, 1966
Galleria Seno, Milano, 1973, in cat. n. 6, ill.
Gli Angeli, la Pittura e il Novecento Italiano, Galleria Agnellini Arte Moderna, Brescia, 06/04 - 20/07/2013, in cat. p. 144145, ill. col.
Bibliografia:
Enrico Crispolti, Lucio Fontana. Catalogo Generale, vol. II, 1974, p. 180
Enrico Crispolti, Lucio Fontana. Catalogo Generale, vol. II, Milano, 1986, p. 632, n. 66T 13, ill.
Pubblicazioni:
Gli italiani che privilegiano l’arte piuttosto che decretare teorie, in «Il Mensile», aprile 2013, p. 5
Dentro Casa, Brescia, Mostre, p. 24
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Indice artisti
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68
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138
Giacomo Balla
Fortunato Depero
Giorgio de Chirico
Giorgio Morandi
Alberto Savinio
Mario Sironi
Emilio Vedova
Tancredi Parmeggiani
Piero Dorazio
Gino Severini
Umberto Mastroianni
Antonio Sanfilippo
Piero Manzoni
Alberto Burri
Lucio Fontana
Biografie
Giacomo Balla (Torino, 1871 - Roma, 1958)
Noto come futurista, fu tra i primi protagonisti del divisionismo italiano.
Frequenta l’Accademia Albertina di Belle Arti, dove conosce Pellizza da Volpedo. Nei primi anni del Novecento comincia a
dipingere quadri di matrice pointilliste, senza tuttavia seguire rigorosamente il programma scientifico di Seurat e Signac.
Nel 1895 lascia Torino per stabilirsi a Roma, dove abiterà per tutta la vita.
Nel 1903 conosce alla Scuola libera del nudo Umberto Boccioni, Gino Severini e Mario Sironi. Nasce un legame tra lui e
Boccioni che li condurrà verso strade diverse di ricerca sulla via futurista.
Quando nel 1909 Marinetti pubblica il primo Manifesto futurista, Balla aderisce al movimento, assieme ai pittori Carrà,
Boccioni, Severini, Russolo e seguirono a distanza di un anno i Manifesti della pittura futurista, firmati dagli stessi. Nei
Manifesti futuristi si riprende in realtà un vecchio tema, quello nella fede del progresso scientifico; erano, infatti, gli anni
delle scoperte scientifiche e tecnologiche, della velocità e della luce elettrica: divennero così fondamento della poetica
futurista. L’11 aprile 1910, assieme a Boccioni, Carrà, Russolo e Severini, Balla firma Il Manifesto tecnico della pittura
futurista.
I primi quadri futuristi di Balla sono una chiara risposta all’invito di Marinetti a «uccidere il chiaro di luna». Mettono in
scena l’incandescenza della luce ed esprimono il dinamismo, concetto maggiore del Futurismo. Tra il 1912 e il 1914, Balla
prosegue le ricerche sul dinamismo e la scomposizione della luce, analizza e sperimenta il rapporto luce-colore. L’artista è
a Düsseldorf per la decorazione di casa Lowenstein. In questo periodo il pittore produce Compenetrazioni iridescenti, nelle
quali riduce gli effetti della luce e della velocità all’ermetica purezza delle forme geometriche; queste opere costituiscono
i primi esempi di arte astratta italiana.
Tornato in Italia, nel 1915, insieme a Fortunato Depero redige il manifesto Ricostruzione futurista dell’universo, che estende
la poetica futurista a svariati campi della vita; insieme produssero una serie di costruzioni, assolutamente non figurative,
o complessi plastici, di cartone, lamiera, seta e altri materiali di uso corrente.
A livello teatrale realizza nel 1917 la scenografia per il balletto Feu d’artifice, con musica di Igor Stravinskij, in cui la
presenza umana viene sostituita dall’alternarsi ritmico delle luci.
Nell’ottobre del 1918 pubblica il Manifesto del colore, dove analizza il ruolo del colore nella pittura d’avanguardia. Si
afferma come il capofila del futurismo romano, influenzando dopo il ‘20 la seconda ondata del movimento.
Per un breve periodo Giacomo Balla aderisce al secondo futurismo di Filippo Tommaso Marinetti ed è tra i firmatari
del manifesto L’aeropittura. Manifesto futurista, del 1931, e prende parte alla 1a mostra di Aeropittura Futurista.
L’esposizione è la sua ultima partecipazione a mostre futuriste, perché ormai l’artista di Torino sta volgendo la propria
attenzione alla Pittura Figurativa.
Già dagli anni ‘20 il suo lavoro è caratterizzato da una fantasiosa stilizzazione di motivi naturalistici, da un cromatismo di
volta in volta intenso e violento, sfumato e iridescente, in consonanza con il diffuso stile 1925, come dimostrano svariate
prove nella decorazione e nelle arti applicate.
Nella Exposition Internationale d’Arts Décoratifs di Parigi (1925), a cui partecipa insieme a Fortunato Depero ed Enrico
Prampolini, i suoi arazzi vengono premiati. Sempre nel ‘25 è presente alla Biennale romana.
Nel 1928 espone agli Amatori e Cultori con una personale in cui emergono i segni di un rinnovato interesse per la
figurazione. Da questo momento si rivolge sempre più spesso ai temi della vita quotidiana, al ritratto, al paesaggio, che
furono quelli della sua formazione. Tempio di questa ricerca è la casa-studio di via Oslavia, dove lavora con le due figlie
pittrici, Elica e Luce. Abbandona progressivamente il futurismo per tornare ad un certo Realismo-naturalistico, convinto
che l’arte pura debba esprimere un realismo assoluto, senza il quale si cadrebbe in forme ornamentali e decorative.
Nel 1937 scrive una lettera al giornale «Perseo» con la quale si dichiara estraneo alle attività futuriste.
Da quel momento è accantonato dalla cultura ufficiale, sino alla rivalutazione, nel dopoguerra, delle sue opere,
particolarmente di quelle futuriste. Negli anni Cinquanta sono apprezzate dai pittori astratti del gruppo Origine, che
allestiscono una mostra dei suoi dipinti nel 1951.
Balla rimane fedele al figurativo fino alla morte avvenuta a Roma il 1° marzo 1958.
140
Alberto Burri (Città Castello, 1915 - Nizza, 1995)
Nel 1915 Burri nasce a Città di Castello (Umbria), si laurea in medicina nel 1940.
Arruolatosi come ufficiale medico, viene fatto prigioniero a Tunisi dagli inglesi nel 1943. L’anno successivo viene
trasferito dagli americani in un campo di prigionia in Texas. Qui inizia la sua attività artistica. Tornato in Italia abbandona
definitivamente la medicina per dedicarsi esclusivamente alla pittura.
Nella seconda metà degli anni ‘40, la personalità di Alberto Burri inizia ad esprimersi in forma matura e originale. Da
allora in avanti, la sua vicenda artistica si svolge per cicli, con grande regolarità. I primi lavori importanti appartengono
alla serie delle “muffe”, dei “catrami” e dei “gobbi”. Queste opere, che esegue tra la fine degli anni Quaranta e gli inizi
degli anni Cinquanta, conservano un carattere essenzialmente pittorico, in quanto sono costruite secondo la logica del
quadro. Le immagini, ovviamente astratte, sono ottenute, oltre che con colori ad olio, con smalti sintetici, catrame e pietra
pomice. Durante la prima metà degli anni ’50 nasce la sua serie più famosa: quella dei “sacchi”. L’attenzione dell’artista
si concentra sull’impiego di tele di sacco, indumenti usati e consunti. Questi sacchi hanno sempre un aspetto “povero”:
sono logori e pieni di rammenti e cuciture. Sulla tela uniformemente tinta di rosso o di nero Burri incolla dei sacchi di iuta.
Al loro apparire fecero notevole scandalo, ma la loro forza espressiva ne fecero presto dei “classici” dell’arte. Con alcune
mostre tenute da Burri in America tra il 1953 e il 1955 avviene la sua definitiva consacrazione a livello internazionale.
Dal 1955 in poi si dedica a nuove sperimentazioni che coinvolgono nuovi materiali. Inizialmente sostituisce i sacchi con
indumenti quali stoffe e camicie. La sua ricerca è in sostanza ancora tesa alla sublimazione poetica dei rifiuti: degli oggetti usati
e logorati ne evidenzia tutta la carica poetica come residui solidi dell’esistenza, non solo umana, ma potremmo dire cosmica.
Dal 1957 in poi, con la serie delle “combustioni”, compie una svolta significativa nella sua arte, introducendo il “fuoco” tra
i suoi strumenti artistici. Con la fiamma brucia legni o plastiche con i quali poi realizza i suoi quadri. In questo caso l’usura
che segna i materiali non è più quella della “vita”, ma di un’energia che ha un valore quasi metaforico primordiale – il
fuoco – che accelera la corrosione della materia.
Sul finire degli anni ‘60 si trasferisce a Los Angeles. Visto il suo successo, la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma
gli dedica una sala permanente. Anni ’70. Nella sua poetica è sempre presente, quindi, il concetto di “consunzione”,
che raggiunge il suo maggior afflato cosmico con la serie dei “cretti”, che inizia dagli anni Settanta in poi. In queste
opere, realizzate con una mistura di caolino, vinavil e pigmento fissata su cellotex, raggiunge il massimo di purezza e
di espressività. Le opere, sia bianche sia nere, hanno l’aspetto della terra essiccata. Anche qui agisce un processo di
consunzione che colpisce la terra, vista anch’essa come elemento primordiale, dopo che la scomparsa dell’acqua la
devitalizza, lasciandola come residuo solido di una vita definitivamente scomparsa dall’intero cosmo. Nel 1981 viene
inaugurata la Fondazione Burri a Città di Castello. In questi anni Burri si dedica al progetto (interrotto nel 1989) del
Grande Cretto per la cittadina siciliana di Gibellina, sconvolta dal terremoto del 1968. Negli anni ‘80 gli vengono dedicate
tante mostre. Lasciata la California, Burri si trasferisce a Beaulieu, in Francia, ma continua a frequentare Città di Castello.
Nel 1993 espone al Museo Internazionale della Ceramica di Faenza, l’ultimo grande cretto in ceramica, Nero e Oro. Alberto
Burri muore infine a Nizza nel 1995, dopo una vita ricca di viaggi e di esperienze. La sua opera ha radicalmente rimesso
in discussione il concetto di arte, e del suo rapporto con la vita.
141
Giorgio de Chirico (Volos, 1888 - Roma, 1978)
Frequenta il Politecnico di Atene dal 1903 al 1906. Alla morte del padre, nel 1905, la famiglia lascia la Grecia per trasferirsi
a Monaco di Baviera, dove de Chirico frequenta l’Accademia di Belle Arti e il fratello Andrea (che dal 1914 prenderà il
nome di Alberto Savinio) studia musica. In Germania si avvicina alla filosofia di Friedrich Nietzsche e si dedica allo studio
di Arnold Böcklin e Max Klinger. Nel 1909, dopo aver raggiunto la madre e il fratello a Milano, decide di trasferirsi a Firenze.
Risalgono a questo periodo i suoi primi dipinti, in cui si sente l’influenza di Böcklin e ricorre il tema dei centauri.
Nel 1911 raggiunge il fratello a Parigi. Nella produzione di questo periodo le suggestioni dei pittori tedeschi lasciano spazio a un
nuovo linguaggio personale che inaugura, con le prime Piazze d’Italia, la stagione della metafisica. I nuovi lavori vengono esposti
per la prima volta al Salon d’Automne di Parigi nel 1912, dove presenta una Piazza d’Italia, un Autoritratto e L’enigma dell’oracolo;
partecipa successivamente al Salon des Indépendants (1913 e 1914). Il suo lavoro è notato da Guillaume Apollinaire, che
recensisce una sua mostra e lo introduce nell’ambiente intellettuale parigino: conosce così gli artisti Giovanni Papini e Ardengo
Soffici, Fernand Léger, Constantin Brancusi, Max Jacob, André Derain e Georges Braque, come pure il mercante Paul Guillaume.
Nel 1915 è costretto a rientrare in Italia per arruolarsi, anche se a causa delle sue condizioni di salute viene subito destinato a lavorare
come ausiliario a Ferrara, dove lo raggiunge il fratello. Suggestionato dall’ambiente urbano e architettonico della città, realizza
opere come Il grande metafisico, Ettore e Andromaca, Il trovatore e Le muse inquietanti e comincia a dipingere i primi Interni
metafisici. Nel 1916, a Ferrara, conosce Filippo de Pisis e nel 1917, mentre trascorre alcuni mesi presso l’ospedale militare per
malattie nervose di Villa del Seminario, incontra Carlo Carrà. Nasce così quella che in seguito sarà definita la “scuola metafisica”.
Nel 1917 si trasferisce a Roma, dove, due anni dopo, la Casa d’Arte Bragaglia organizza la sua prima mostra personale, nella
quale espone opere metafisiche, anche se proprio in questo periodo inizia a rivolgersi alla figurazione classica. Seguono
mostre alla Galleria Arte di Milano nel 1921 e alla Galerie Paul Guillaume di Parigi nel 1922. Nel 1924 partecipa per la prima
volta alla Biennale di Venezia e, con la futura moglie Raissa, una ballerina russa, si reca a Parigi, dove, al Théâtre des ChampsElysées, realizza scene e costumi per i Balletti Svedesi e per La giara di Pirandello. Collabora al primo numero di «La Révolution
Surréaliste» ed è immortalato da Man Ray in una celebre foto di gruppo. De Chirico inizia in questi anni a introdurre nei propri
lavori nuovi temi come gli Archeologi, i Cavalli in riva al mare, i Trofei, i Paesaggi nella stanza, i Mobili nella valle, i Gladiatori.
In occasione di una personale nella galleria parigina di Léonce Rosenberg, i surrealisti criticano duramente le sue opere più
recenti, di ispirazione classica, provocando una rottura con l’artista che, negli anni successivi, diverrà sempre più netta.
Nel 1926 espone alla I Mostra del Novecento italiano e nel 1929 realizza scene e costumi per Le bal, di Vittorio
Rieti, prodotto dai Balletti Russi di Sergej Djagilev a Montecarlo, e decide di ritornare definitivamente in Italia con
Isabella Pakszwer Far, sua nuova compagna, spinto dalla crisi e dalla difficile situazione del mercato artistico.
Nel 1936 si reca a New York e rimane in America per più di un anno, esponendo in varie gallerie, prendendo parte alla
mostra Fantastic Art, Dada and Surrealism al Museum of Modern Art di New York e lavorando a commissioni private.
Nel gennaio del 1938 rientra in Italia e si ferma brevemente a Milano, per poi trasferirsi a Parigi, disgustato dalle
leggi razziali. Tornato nuovamente in Italia alla fine del conflitto, si stabilisce a Roma. Nel dopoguerra si susseguono i
riconoscimenti: è nominato membro della Royal Academy of British Artists, accademico di Francia e ottiene la Croce
di Grande Ufficiale della Repubblica federale tedesca; contemporaneamente partecipa a prestigiose mostre in Italia e
all’estero. Questi sono però anche anni di accese polemiche riguardanti le datazioni e l’autenticità delle sue opere: tra
gli episodi più eclatanti, nel 1950, il pittore fa causa alla Biennale di Venezia per aver esposto un falso e organizza nella
sede della Società Canottieri Bucintoro di Venezia una “Antibiennale” insieme a un gruppo di pittori “antimoderni”. Dalla
fine degli anni Trenta fino a tutti gli anni Sessanta l’artista trae ispirazione dalla pittura barocca: realizza soggetti storici
e mitologici, una serie di autoritratti in costume e numerosi d’après di Rubens. Negli anni Sessanta si dedica anche alla
scultura in bronzo trattando temi mitologici, per poi passare anche alla produzione di opere argentate e dorate. Dal
1966, negli ultimi anni di attività, rielabora i temi della metafisica dipingendo varianti dei suoi più celebri capolavori.
Una sua prima grande antologica viene allestita a Palazzo Reale a Milano, nel 1970, con 180 opere fra dipinti, disegni
e sculture, datate tra il 1909 e il 1970. Nello stesso anno, al Palazzo dei Diamanti di Ferrara, si tiene la mostra I de
Chirico di de Chirico, trasferita l’anno dopo a New York.
142
Fortunato Depero (Val di Non, 1892 - Rovereto, 1960) Pittore, scultore e pubblicitario, membro del Futurismo, ha influenzato la comunicazione visiva contemporanea.
Depero nasce nel 1892 a Val di Non, da bambino si trasferisce con la familia a Rovereto, il Trentino è allora dominato
dall’Impero Austro-ungarico; dopo che viene respinta la sua domanda all’Accademia delle Belle Arti di Vienna,
si sposta a Roma, dove entra in contatto con il movimento Futurista e in particolare con i pittori Giacomo Balla,
Cangiullo e Marinetti, e partecipa all’Esposizione Libera Futurista Internazionale. Depero si definisce da subito uno
scultore, e in effetti tutta la sua produzione visiva porterà impressa come un marchio questa sua predilezione per la
tridimensionalità, tanto che la sua pittura rimarrà sempre volumetrica e solida. Insieme a Balla scrive il manifesto di
Ricostruzione futurista dell’universo, con il quale apre una nuova stagione del Futurismo, proponendo una fusione delle
diverse arti e un maggior coinvolgimento dell’arte nella vita, associandola in particolar modo ai temi della violenza.
Depero, insieme a Balla, studia il dinamismo delle forme, la rappresentazione del movimento e cerca di trovare legami con
il Dadaismo e l’opera di Duchamp, ma soprattutto è interessato a modificare ogni cosa del mondo che ci circonda. Partito
anche lui per la Grande guerra, si ammala e viene subito riformato. E proprio la guerra farà da spartiacque tra le due fasi del
Futurismo: la concezione di arte totale di Depero e Balla prenderà il sopravvento sulla vecchia concezione di arte museale e
da esposizione, operando la fusione delle arti entrando nella quotidianità della gente, grazie alla pubblicità, all’arredamento,
agli allestimenti teatrali, alla moda, all’architettura, all’editoria. Al suo rientro a Roma, prepara una mostra dove esporrà
più di duecento opere (oli, tempere, collage, costruzioni, plastiche, ecc...), fortemente influenzate dallo stile di Balla.
Nel 1916 l’impresario di balletti russi Sergeij Diaghilev gli commissiona scenografie e costumi plastici per due rappresentazioni,
una delle quali, Le chant du rossignol di Igor Strawinskij, non verrà rappresentato. In quel periodo Depero incontra personaggi in
vista, fra cui il ballerino Massine, il poeta Cocteau, Pablo Picasso, Larionov e la Gontcharova. Frequenta anche il poeta Gilbert
Clavel e con lui soggiorna a Capri nel 1917, illustrando il racconto Un istituto per suicidi. Dopo la guerra, Fortunato Depero
partecipa a varie mostre, anche a quella di Milano, dove Martinetti cerca di riunire e rilanciare i Futuristi del dopoguerra.
Nel 1919 fa ritorno a Rovereto e fonda la sua Casa d’Arte Futurista, per la quale progetterà oggetti, arredi, quadri,
arazzi, sempre con un occhio alla riproducibilità delle sue opere. Nello stesso periodo realizza anche decorazioni e
arredamenti d’interni, come il Cabaret del Diavolo. In queste realizzazioni si dimostra un Designer vero e proprio,
applicando il suo talento anche alla pubblicità. I Futuristi consideravano la pubblicità come «arte nuova del mondo
moderno» e Depero ne fu il rappresentante più attivo, con una produzione che, dagli anni ‘20 in poi, divenne
intensissima: produsse soprattutto cartelloni pubblicitari per la Alberti (produttrice del Liquore Strega), la Schering
(Veramon), le biciclette Bianchi, la Magnesia San Pellegrino, la Campari, per cui realizzò centinaia di progetti
e per molte altre aziende italiane che trovavano in lui quella colorata e moderna allegria che ben si addiceva alla
spensieratezza del consumo, e che i vecchi illustratori pubblicitari formatisi alla fine dell’Ottocento non avevano.
Nel 1924, durante la tournée del Nuovo Teatro Futurista, mette in scena al Teatro Trianon di Milano il Balletto Meccanico
Anihccam del 3000 (la parola macchina al rovescio), che successivamente girerà per più di venti città italiane.
Nel 1925 a Parigi, insieme a Prampolini e a Balla, rappresenta l’Italia all’Esposizione Internazionale delle Arti
Decorative e due anni dopo realizza il libro imbullonato Depero-Dinamo Azari, primo esempio di libro-oggetto
futurista. Nel 1928 si trasferisce a New York: in due anni di permanenza lavorerà per committenti importanti
come il Roxy Theatre, l’agenzia BBDO, i grandi magazzini Macy’s, progetterà gli interni di due ristoranti
e copertine per riviste come «Vanity Fair», «Vogue» e «The New Yorker». Di ritorno in Italia, fonda e dirige a
Rovereto la rivista «Dinamo Futurista», pubblica le Liriche radiofoniche, partecipa a numerose mostre nazionali.
Con l’avvento del fascismo, Depero si era avvicinato a questa corrente politica credendo che il futurismo potesse interagire
con la politica. La sua adesione incondizionata alla dittatura mussoliniana gli creerà più di un problema nel dopoguerra.
Nel 1948 Depero si trasferisce di nuovo negli Stati Uniti. Trova New York cambiata, ostile al futurismo.
Tornato a Rovereto nel 1956, completa la decorazione della Sala del Consiglio Provinciale di Trento e l’anno seguente,
in collaborazione con il Comune di Rovereto, realizza la Galleria Permanente e il Museo Depero, che conta più di 3000
opere fra dipinti e disegni, circa 7500 manoscritti e un’ampia biblioteca dedicata al Futurismo. L’artista muore nel 1960
a Rovereto.
143
Piero Dorazio (Roma, 1927 - Perugia, 2005)
Dopo l’iscrizione alla facoltà di Architettura, partecipa giovanissimo all’evoluzione dell’arte astratta italiana del
dopoguerra, già nel 1946 nel Gruppo Arte Sociale con Perilli, Guerrini, Vespignani, Buratti, Muccini. Nel 1947 entra a
fare parte del gruppo Forma 1, nel quale spicca tra i maggiori esponenti per le sue notevoli doti artistiche. I partecipanti
al gruppo Forma 1 si proclamavano «formalisti e marxisti», in opposizione alla posizioni del realismo e del naturalismo
sociale. Facevano parte del gruppo Consagra, Turcato, Accardi e Sanfilippo, Perilli, Guerrini. Erano sostenitori di un’arte
di struttura, ma non di realtà, dando importanza alla forma, al segno, ma non a tutto ció che derivava dal figurativo.
Dicchiaravano «ci interessa la forma del limone, non il limone». Quindi nelle opere del gruppo Forma 1 viene eliminato
il senso simbolico e psicologico, gli artisti del gruppo producono un’arte tra realismo e astrattismo. Altrettanto acute
la curiosità e la passione di Dorazio nel campo artistico e politico, sviluppate in esperienze degli altri paesi, coltivate
con coerenza durante tutta l’attività con lunghe permanenze di studio e di lavoro, oltre alla presenza in mostre ed altre
manifestazioni. Nel 1947 riceve una borsa di studio all’École nationale supérieure des Beaux-Arts (Scuola nazionale
superiore delle Belle Arti), dove risiede per un anno. Incontra Severini, Braque, Vantongerloo, Pevsner, Arp, Sonia
Delaunay, Le Corbousier e altri importanti artisti. Nella capitale francese Dorazio incontra anche Severini e Magnelli,
approfondendo così la conoscenza del futurismo e del primo astrattismo. Di questi anni parla Elena Pontiggia: «In
anni in cui il movimento di Marinetti non godeva di alcuna fortuna critica, spetta anzi a Dorazio la riscoperta di Balla,
che viveva a Roma ormai dimenticato. E di Balla Dorazio si può considerare per certi aspetti l’erede: si ritrovano
in lui, pur nella diversità della fisionomia stilistica, lo stesso amore analitico per la linea, per la paziente e nervosa
tessitura della composizione, per il dinamismo affidato alla tensione dei segni e allo scintillio della luce». Nel 1950
partecipa all’organizzazione della galleria cooperativa del gruppo Age d’Or a Roma e Firenze, e nel 1952 si fa promotore
della fondazione internazionale Origine di Roma, che pubblica il periodico «Arti Visive». Nel 1953 si reca negli Stati
Uniti, dove conosce Motherwell, Rothko, Kiesler, Kline e Clement Greenberg, e tiene le prime personali alla Wittenborn
One-Wall Gallery e alla Rose Fried Gallery di New York. Tornato a Roma nel 1954, si reca periodicamente a Parigi,
Londra e Berlino, dove diventa amico di Will Grohmann e del mercante Rudolf Springer. Nel 1955 pubblica il libro La
fantasia dell’arte nella vita moderna. Nel 1957 viaggia in Svizzera, Spagna e ad Antibes, e tiene la prima personale
a Roma, alla Galleria La Tartaruga. Nel 1959 Dorazio partecipa a Documenta II, a Kassel. In seguito è titolare di una
cattedra presso l’Università della Pennsylvania, dove fonda l’Istituto di Arte Contemporanea nel 1963 e viene nominato
docente nel 1968. Di conseguenza, nel decennio 1960-1970, effettua soggiorni inframmezzati negli Stati Uniti con
significative parentesi in Italia, in Francia e Germania (Berlino nel 1968). Espone con mostre personali alla Biennale
di Venezia nel 1960, nel 1966 e nel 1988. Espone più volte a Londra, a New York e in gallerie svizzere e tedesche.
Negli anni ’60 realizza le prime composizioni, fatte di nastri colorati, nel suo atelier di New York. In seguito queste composizioni
influenzeranno le sue opere. Tornato in Italia, nel 1974 l’artista acquista il convento romanico di Todi in Umbria. Nei primi
anni Ottanta una sua grande mostra del Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris viaggia nei principali musei americani
e si conclude alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma. Nel 1985 e nel 1986 si svolgono mostre a Tokyo e a Osaka.
In seguito le esposizioni continuano ad allargare e consolidare la sua presenza culturale nelle più importanti città europee,
mentre ottiene prestigiosi riconoscimenti: membro dell’Accademia di San Luca; dell’Akademie der Künste di Berlino; insignito
dei Prix Kandinsky e del Premio internazionale della Biennale di Parigi; del Premio Michelangelo dell’Accademia dei Virtuosi.
Fra il 1993 ed il 1996 ha ideato il progetto per l’esecuzione di cinquanta grandi mosaici di artisti internazionali nella
metropolitana di Roma. Piero Dorazio è considerato uno dei principali artisti italiani della pittura concreta. 144
Lucio Fontana (Rosario di Santa Fé, 1899 - Comabbio, 1968)
Nasce in Argentina da Luigi, uno scultore italiano emigrato una decina d’anni prima, e da Lucia Bottino, attrice di teatro, pure
di origine italiana. Nel 1905 si trasferisce con il padre in Italia e già nel 1910 inizia l’apprendistato presso la sua bottega.
Frequenta a Milano la Scuola per Maestri Edili, ma poi interrompe gli studi e parte volontario per la Prima guerra mondiale.
Nel corso del conflitto viene ferito a un braccio: congedato anticipatamente, riceve la medaglia d’argento al valore militare.
Nel 1921, dopo la morte del fratello Delfo, torna con la famiglia a Rosario, in Argentina, dove si dedica alla scultura nell’atelier
del padre, aprendo poi un proprio studio. Tra il 1925 e il 1927 lavora intensamente, anche a opere di grandi dimensioni, e
vince alcuni concorsi.
Nel 1928 rientra in Italia per iscriversi all’Accademia di Brera, dove è allievo di Adolfo Wildt; due anni dopo si diploma in
scultura e conosce Teresita Rasini, che diventerà sua moglie e compagna di tutta la vita. Nel 1935 firma il manifesto della
Prima mostra collettiva di arte astratta italiana con Cristoforo De Amicis, Ezio D’Errico, Oreste Bogliardi, Virginio Ghiringhelli,
Osvaldo Licini, Fausto Melotti, Mauro Reggiani, Atanasio Soldati e Luigi Veronesi; la rassegna si tiene a Torino, nello studio di
Felice Casorati ed Enrico Paulucci. Nel corso di questi anni si dedica con grande impegno alla ricerca scultorea: realizza opere,
principalmente in terracotta e gesso, sia figurative che astratte, in cui l’uso del colore si alterna alla sua assenza, giungendo a
risultati sempre più liberi e originali. Contemporaneamente si avvicina alla ceramica, iniziando a frequentare Albisola (1935)
e subito dopo la Manifattura di Sèvres in Francia. Queste sue sperimentazioni vengono presentate in numerose occasioni,
essendo invitato a importanti rassegne come la Biennale di Venezia (1930), la Quadriennale di Roma (1939), la Triennale di
Milano (1936); inoltre la Galleria del Milione di Milano gli dedica diverse mostre personali (1930, 1931, 1932, 1937, 1938,
1939). Nel frattempo continua a partecipare a concorsi in Italia, in Spagna e in Argentina e inizia a collaborare con architetti
d’avanguardia, tra i quali il gruppo BBPR, Luciano Baldessari, Luigi Figini e Gino Pollini, per realizzare sculture, monumenti,
elementi decorativi e allestimenti di mostre. All’inizio del 1940 decide di trasferirsi nuovamente in Argentina e si stabilisce
a Buenos Aires. Qui diviene professore di modellato presso la Scuola di Belle Arti e nel 1946 partecipa alla fondazione e
all’apertura dell’Accademia di Altamira: una scuola d’arte privata che diventa un punto di riferimento culturale per la città.
Stimolato dall’incontro e dal confronto con giovani artisti e intellettuali, Fontana elabora le teorie che saranno alla base
del Manifiesto blanco (1946): il suo primo testo programmatico in cui auspica un rinnovamento totale dell’arte in accordo
con i progressi della scienza e della tecnica. Nella primavera del 1947, rientrato definitivamente a Milano, lancia il Primo
manifesto dello spazialismo, a seguito del quale ne vengono pubblicati altri quattro (Secondo manifesto dello spazialismo
nel 1948, Proposta per un regolamento del movimento spaziale nel 1950, Quarto manifesto dell’arte spaziale nel 1951 e
Manifesto del movimento spaziale per la televisione nel 1952).
Nel 1949, anno cruciale per l’evoluzione della sua ricerca artistica, Fontana dà vita al ciclo dei “buchi”, opere in cui interviene
su cartoni o su tele dipinte a olio praticando piccoli fori, e crea il suo primo “ambiente spaziale”. L’installazione, intitolata
Ambiente nero e presentata presso la Galleria del Naviglio di Milano, viene realizzata utilizzando lampade di Wood, la cui
luce fa risaltare i colori fosforescenti che ricoprono forme astratte pendenti dal soffitto.
Nel 1957 compaiono per la prima volta, in alcune opere in carta ricoperte da inchiostri, brevi fenditure dalle quali l’anno
successivo nasce la serie dei “tagli”, intitolati Concetti spaziali - Attese: tele monocrome sulle quali l’artista interviene
praticando una o più aperture. È il 1958, dunque, l’anno in cui avviene in maniera compiuta e rigorosa una vera e propria
rivoluzione nel percorso artistico di Fontana.
Negli anni successivi l’artista realizza altre serie di opere: le terracotte intitolate Nature (dal 1959), sfere su cui interviene
con larghi squarci e che successivamente fonderà anche in bronzo; il ciclo Fine di Dio (1963): oli monocromi di forma ovale,
tutti dello stesso formato, costellati di buchi, squarci e lustrini; i Teatrini (dal 1964), cornici in legno sagomato e laccato che
racchiudono tele o tavole monocrome forate. Continua contemporaneamente a lavorare con la ceramica, con cui realizza
sculture di grande e piccolo formato. La scoperta del taglio rimane comunque il nodo centrale nel lavoro di Fontana, tanto
che nel 1966, due anni prima della sua scomparsa, realizza per la XXXIII Biennale di Venezia, un ambiente da lui stesso
progettato, che raccoglie una serie di tele bianche alle quali ha inferto un unico taglio verticale. In tale occasione gli viene
assegnato il Gran Premio internazionale per la pittura.
145
Piero Dorazio, 1968
Piero Manzoni (1933, Soncino - 1963, Milano)
Piero Manzoni cresce a Milano, in una famiglia che frequenta l’ambiente artistico, e in particolar modo Lucio Fontana. A
17 anni inizia a dipingere paesaggi e ritratti, in un registro molto classico. Nel 1956, utilizzando la tela come schermo di
divulgazione della realtà, realizza le sue prime opere rivestite di catrame, recanti impronte di oggetti della vita quotidiana,
che egli intitola Chiodi, Tenaglie, Chiavi, Spille, Bottoni, Forbici, come gli oggetti che, al negativo, esse lasciano scorgere.
La sua partecipazione alla IV Fiera Mercato di Soncino segna questo stesso anno l’inizio della sua notorietà. Nel 1957
realizza i suoi primi dipinti incolore, supporti che divengono pure superfici ricoperte di gesso e imbevute di caolino, lasciate
asciugare e increspare, prive di qualsiasi segno pittorico. Egli libera la tela da ogni intervento esterno al fine di ottenere
uno spazio che non è luogo di nessuna immagine, operando così una «rimessa a zero della pittura» – come formalizzerà
in seguito Germano Celant – con i suoi lavori designati con il termine Achrome a partire dal 1959. Affrancandosi dai
fondamenti della pittura, egli crea una nuova area di libertà; l’opera, svincolata dai codici pittorici, sottolinea la materialità
della tela. Nel 1958 partecipa a diverse mostre collettive, tra cui una al fianco di Lucio Fontana ed Enrico Baj, presentata a
Bergamo e Bologna, L’avanguardia a Milano, così come alla galleria Pater a Milano, che gli dedica una mostra monografica.
Nel 1959 espone per la prima volta le sue Linee alla galleria Pozzetto Chiuso ad Albisola Marina. Ogni opera, costituita
da un segno continuo d’inchiostro tracciato su carta, che raggiunge diverse decine di metri di lunghezza, è arrotolata e
racchiusa in un tubo di cartone o in un cilindro di metallo provvisto di etichetta indicante la lunghezza, l’autore e la data di
esecuzione, sottraendola allo sguardo dello spettatore. L’unica linea srotolata e allestita in mostra sarà intenzionalmente
danneggiata da un visitatore in occasione di una mostra. Celando il contenuto, l’artista non s’interessa più all’oggetto, ma
al suo contenuto e piuttosto all’idea stessa del contenuto. A partire da questo periodo, del resto, le sue opere consistono
meno in oggetti che in contenenti di ogni tipo, che fanno pensare, immaginare, lasciando sempre posto al dubbio sulla
natura reale del contenuto e trasformando l’oggetto in concetto: seguiranno i palloncini gonfiati, che racchiudono l’alito
dell’artista (Fiato d’artista, 1960), e i barattoli di latta contenenti i propri escrementi (Merda d’artista, 1961). Nello stesso
periodo inizia una collaborazione con Enrico Castellani e Agostino Bonalumi, che sfocia nella creazione della galleria e della
Rivista «Azimuth», attraverso le quali essi sviluppano le loro teorie avanguardiste, spesso provocatorie, rivelando pratiche
nuove in rottura con la tradizione artistica. Il primo numero della rivista esce in occasione della mostra inaugurale della
galleria: Manzoni, nel dicembre del 1959. Nel 1960, Manzoni partecipa a numerose esposizioni in Europa: Mirorama 1,
Galleria Pater a Milano, che riunisce per la prima volta gli artisti del gruppo T, con Castellani alla New Vision Center
Gallery a Londra, Monochrome Malerei presso lo Städtisches Museum a Leverkusen, e negli Stati Uniti: Contemporary
Italian Art all’Illinois Intitute of design di Chicago… Manzoni prosegue il suo lavoro di decostruzione: nel 1961 firma alcune
persone trasformandole in sculture viventi (come ad esempio Umberto Eco), espone le sue Merde d’artista alla galleria
Pescetto ad Albisola Marina, realizza le sue Basi magiche concepite come piedistalli che trasformano in opera chiunque vi
salga sopra, e infine arricchisce la nozione di Achrome e ne sviluppa tutte le possibilità passando dal feltro alla tela cucita,
dal cotone idrofilo alle palline di polistirolo, dai panini plastificati alla fibra di vetro, ripetendo il procedimento all’infinito,
diversificando solamente la materia. Nel 1962 partecipa a due mostre del Gruppo ZERO, ad Anversa e Berna, e anticipa
l’emergere della Land Art, integrando una dimensione ambientale nei suoi nuovi progetti: immagina il Placentarium,
un’immensa sfera di plastica riempita d’aria, una scultura abitabile, concepita come un teatro per balletti di luce e gas...
Nel 1963 Manzoni muore prematuramente d’infarto prima di raggiungere il trentesimo anno di età.
148
Umberto Mastroianni nasce a Fontana Liri il 21 settembre 1910.
Nel 1924 giunge a Roma, dove frequenta lo studio dello zio Domenico e i corsi di disegno presso l’Accademia di San
Marcello. Nel 1926 si trasferisce a Torino con la famiglia e affina il “mestiere di scultore” nell’atelier di Michele Guerrisi.
Nel 1930 iniziano i primi riconoscimenti ufficiali e, di lì a poco, le prime mostre a livello nazionale ed europeo, tra cui,
nel 1935, la Quadriennale di Roma e, nel 1936, la Biennale di Venezia. Chiamato alle armi durante la guerra, partecipa
poi alla Resistenza con un impegno che lo porterà a trasferire nella sua opera successiva le istanze nate dalla concreta
lotta in nome della libertà. Nel 1945 vince, con la collaborazione dell’architetto Mollino, il concorso per il Monumento
al partigiano: l’opera, di rimarchevole dimensione, viene eseguita successivamente e collocata nel Campo della Gloria
del cimitero generale di Torino. Nel 1951 tiene la sua prima personale alla Galerie de France di Parigi, la più importante
in Europa. Espone nel 1957 al Palais des Beaux-Arts di Bruxelles, ma il riconoscimento più alto lo consegue alla XXIX
Biennale di Venezia del 1958, quando ottiene il Gran Premio Internazionale per la scultura. Nel 1960 Lionello Venturi
scrive la presentazione al catalogo per la mostra personale alla Kleemann Gallery di New York e, nello stesso anno,
l’artista espone al Dallas Museum of Fine Arts. Nel 1964 il Comune di Cuneo gli affida l’esecuzione del Monumento alla
Resistenza italiana. Nel 1971 la città di Frosinone gli commissiona il Monumento ai caduti di tutte le guerre, eseguito in
acciaio e collocato nel 1977. In ordine di tempo viene il Monumento alla Resistenza della città di Urbino del 1980. Titolare
della cattedra di scultura all’Accademia di Belle Arti di Bologna, ne tiene anche la direzione dal 1961 al 1969; da Torino si
trasferisce nel 1970 a Marino Laziale, insegnando prima all’Accademia di Belle Arti di Napoli e, quindi, in quella di Roma.
Nel 1973 l’Accademia dei Lincei gli conferisce il Premio Antonio Feltrinelli. Nel 1976 il Musée d’Art Moderne de la Ville de
Paris ripropone tutta l’attività scultorea di Mastroianni, aprendo un ciclo dedicato alla scultura italiana del dopoguerra.
Nel 1977 un’antologica di “rilievi cromatici”, disegni, bozzetti in legno e incisioni, e allogata nel Palazzo Ducale di Urbino,
pone in evidenza un’espressione creativa relativamente e, a volte, per nulla indagata dagli studiosi. Nell’autunno dello
stesso anno Mastroianni espone alcune sue opere monumentali a Charleston, nell’ambito dell’edizione statunitense del
Festival dei due mondi. Verranno poi la mostra dei “rilievi cromatici” al Palazzo dei Diamanti a Ferrara (1979-1980) e la
grande antologica fiorentina del 1981 alla Fortezza del Belvedere. Nel 1979, quasi a dimostrazione della sua inesauribile
vocazione sperimentale, esegue per il Teatro dell’Opera di Roma la scenografia del Coro dei morti su testo di Giacomo
Leopardi e musica di Goffredo Petrassi. A cui farà seguito l’anno appresso il lavoro sull’Uccello di fuoco di Igor Stravinskij.
Sul finire del 1983 sono da registrare quattro avvenimenti di notevole importanza: una mostra itinerante negli Stati Uniti,
dopo sei anni di assenza, che da Miami tocca altri centri del Paese, per finire a Washington; la donazione all’Abbazia di
Casamari di un bronzo dorato del 1940, la Madonna della Pace; l’inaugurazione di un Monumento alla Resistenza sulla
montagna di Vallerotonda; infine la pubblicazione di un’esaustiva monografia critica ad opera di Floriano De Santi. Nel
1985 gli viene conferito a Tokyo The 4th Henry Moore Grand Prize Exhibition at the Utsukushi-ga-hara Art Open-Air
Museum. Nel gennaio-marzo 1989 il Comune di Milano promuove una significativa antologica negli spazi della Rotonda
della Besana. A coronamento di una prodigiosa carriera, il 27 ottobre del medesimo anno gli viene consegnato a Tokyo
il Praemium Imperiale, una sorta di Nobel del Sol Levante. Nell’ottobre del 1990 si apre in Giappone, a The Hakone
Open Air Museum, l’imponente rassegna Dal Caos alla materia, dall’informe al Cosmo. Nel 1994 a Torino s’inaugura la
Cancellata del Teatro Regio e gli viene conferita la cittadinanza onoraria. Nel 1996 viene ordinata a Torino, nell’ambito
del Salone Internazionale del Libro, la rassegna Mastroianni e la letteratura. Mentre nel maggio del 1997 viene collocata
in Valle d’Aosta una statua di San Francesco, le città di Aprilia e di Marino inaugurano i monumenti Evoluzione/Gioco
lunare del 1990 e Guerriero del 1970-1996. Nella notte del 25 febbraio 1998, dopo una lunga e dolorosissima malattia,
Mastroianni muore nella sua casa-museo di Marino. Nel novembre del 2006 viene inaugurata al Museo del Corso di Roma
un’imponente retrospettiva intitolata Umberto Mastroianni, scultore europeo, che raccoglie oltre centocinquanta lavori
databili dal 1927-1928 al 1997. Da luglio a settembre 2006, nell’ambito del Festival dei Due Mondi, viene ordinata nel
Palazzo Sansi e nella Rocca Albornoziana di Spoleto una suggestiva antologica che documenta tutte le stagioni creative
di Mastroianni. Nel 2008 viene ordinata nella Galleria d’Arte Moderna di Bratislava l’antologica Umberto Mastroianni: un
furore creativo che scopre la luce della notte.
149
Giorgio Morandi (Bologna, 1890 - 1964)
Si iscrive nel 1907 all’Accademia di Belle Arti di Bologna, dove si diploma nel 1913. Qui conosce Osvaldo Licini, Severo
Pozzati, Giacomo Vespignani e Mario Bacchelli, con i quali espone nel 1914 all’Hotel Baglioni.
Le opere d’esordio di Morandi manifestano una propensione alla sperimentazione e una chiara influenza della pittura
francese: i riferimenti artistici della sua formazione sono infatti Paul Cézanne, Georges Braque, André Derain, Pablo
Picasso e Henri Rousseau. Allo stesso tempo è affascinato dai grandi maestri dell’arte italiana del passato – Piero della
Francesca, Giotto, Masaccio e Paolo Uccello – di cui ammira i capolavori a Firenze nel 1910, a Padova e Assisi nel 1914.
Nel 1913-14, grazie alla frequentazione di Licini e Vespignani, si avvicina all’avanguardia futurista, attratto dallo spirito
antiaccademico del movimento, entrando in contatto prima con Francesco Balilla Pratella e poi con Filippo Tommaso
Marinetti, Umberto Boccioni e Luigi Russolo. Partecipa come spettatore a due serate futuriste (Modena, 1913 e Bologna,
1914) e viene invitato a partecipare alla I Esposizione libera futurista (1914), che si tiene presso la Galleria Sprovieri di
Roma. Sempre nel 1914, anno ricco di eventi per l’artista, espone alla seconda edizione della Secessione romana e inizia
a dedicarsi all’insegnamento come maestro di disegno nelle scuole elementari di Bologna.
Nel 1915 viene chiamato alle armi, ma è subito congedato per motivi di salute. Trascorre così gli anni del conflitto, a
differenza di molti altri artisti della sua generazione, concentrandosi sul proprio lavoro e facendo sedimentare la lezione
delle avanguardie. I temi da lui prediletti in questi anni di formazione sono paesaggi, nature morte e fiori, soggetti che
si ritrovano lungo tutto il suo percorso artistico e anche nel breve periodo in cui si avvicina alla metafisica. Conosciuto il
lavoro di Giorgio de Chirico e Carlo Carrà, grazie a riproduzione che gli vengono mostrate nel 1918 dal letterato bolognese
e amico Giuseppe Raimondi, Morandi rimane affascinato dalle loro caratteristiche atmosfere rarefatte e sospese, che
cerca di riproporre in una decina di enigmatiche nature morte. Avrà poi la possibilità di esporre con de Chirico e Carrà nel
1921 nella prima mostra del gruppo di “Valori Plastici”, una rassegna itinerante che tocca Berlino e altre città tedesche.
All’inizio degli anni Venti, abbandonato ogni riferimento alla pittura metafisica, si concentra sulle variazione del colore
e sulle forme dando vita a quella che de Chirico denominava “metafisica degli oggetti comuni”. Nel 1926 alcuni suoi
quadri esposti a Milano, alla prima Mostra del Novecento italiano, alla quale è invitato, pur non aderendo al movimento
capeggiato da Margherita Sarfatti, riscuotono un certo interesse. Nel 1928 viene invitato per la prima volta alla Biennale di
Venezia, rassegna alla quale parteciperà in numerose altre occasioni. Nel 1930 diventa titolare della cattedra di incisione
all’Accademia di Belle Arti di Bologna, assegnatagli per chiara fama, e che detiene fino al 1956. In occasione della III
Quadriennale di Roma del 1939 gli viene dedicata un’intera sala dove è allestita una sua ampia retrospettiva; la mostra,
particolarmente apprezzata dal pubblico, gli vale il secondo premio per la pittura della Quadriennale.
Per ricevere un riconoscimento di livello internazionale Morandi deve però aspettare il 1948, quando gli viene assegnato il
primo premio per la pittura alla Biennale di Venezia. Il pittore non si allontana quasi mai dalla sua abitazione di via Fondazza
a Bologna, dove trascorrerà l’intera vita (compie il suo primo viaggio all’estero nel 1956, a Winterthur, in occasione di una
sua mostra antologica presso il Kunstmuseum), salvo soggiorni estivi a Grizzana, borgo dell’Appennino che è soggetto
di numerosi paesaggi. Tuttavia si dimostra sempre attento alle occasioni internazionali di rilievo, che conosce e segue. Il
riscontro del suo successo al di fuori dell’Italia è confermato nel 1949 dalla presentazione di un’importante selezione di
quadri, scelti da Alfred H. Barr e James Thrall Soby, alla mostra XXth Century Italian Art al Museum of Modern Art di New
York e dall’acquisto, da parte del Museo stesso, di una natura morta.
Negli ultimi anni di attività si moltiplicano le occasioni per esporre all’estero, dove Morandi è invitato a partecipare anche
alle rassegne più attente a registrare gli sviluppi della modernità, come Documenta di Kassel nel 1959. Nello stesso
periodo riceve altri importanti riconoscimenti, come i due primi premi alla Biennale di San Paolo del Brasile nel 1953 e nel
1957, rispettivamente per l’incisione e per la pittura, e il Premio Rubens conferitogli dalla città di Siegen, nel 1962.
150
Tancredi Parmeggiani detto Tancredi (Feltre, 1927 - Roma, 1964)
Tancredi Parmeggiani è un artista veneto, che nasce a Feltre, in provincia di Belluno, nel 1927. Passa gli anni dell’infanzia
e della guerra a Belluno, in un collegio di Salesiani. Interrotti gli studi classici, si iscrive al Liceo artistico di Venezia (19431945) e poi all’Accademia di Belle Arti (1946), dove si lega a Emilio Vedova. Segue i corsi della Scuola libera del nudo,
tenuti da A. Pizzinato. Di questo periodo rari dipinti e numerosi disegni di ritratti, di nudi, di architetture barocche.
Il filo rosso della fragilità psichica fu una costante del suo percorso, fin dai primi anni della sua formazione artistica. Il
noviziato nella provincia veneta, ai tempi in cui studiava irregolarmente al Liceo Artistico di Venezia, era da lui visto come
un periodo di isolamento dalla cultura presente nel resto del territorio nazionale, peraltro accentuata dalla chiusura del
regime fascista nei confronti del resto d’Europa. Oltre all’amicizia con Vedova, per lui unico legame con il mondo artistico,
la lettura del saggio Dello spirituale nell’Arte di Kandinsky aiuta il giovane Tancredi a trovare la sua vera voce artistica.
Alla fine del 1947 si reca a Parigi, dove si confronta con le avanguardie europee della prima metà del secolo.
Nel 1949 tiene la sua prima personale alla Galleria Sandri di Venezia con presentazione di Virgilio Guidi, mostra in cui
l’artista «mostrava già di poter anticipare la direzione di ricerca che poi avrebbe seguito con le sue straordinarie evoluzioni
pittoriche sul tema dello spazio, del segno, del colore».
Nel 1950 trascorre un anno a Roma, in un soggiorno di maturazione che lo porterà a confermare la sua ricerca sullo spazio:
«Ho impiegato una forma molto semplice per controllare lo spazio: il puntino. Il punto è l’elemento geometrico meno
misurabile che ci sia, ma il più immediato da ideare: qualunque punto realizzato formalmente è geometria, qualunque
forma relativa alle dimensioni del mio quadro ha per legge il vuoto da tutte le parti». A Roma entra nel gruppo Age d’Or. Partecipa alla 1a Mostra dell’Arte Astratta Italiana alla GNAM, nel 1951. Poi ritorna
a Venezia, dove conosce Peggy Guggenheim che, fino al 1955, gli fornisce uno studio e ne acquista le opere. Nel 1952
sottoscrive il manifesto dello Spazialismo, fondato a Milano da Lucio Fontana nel 1947. Allo stesso tempo prendeva una sua
forma definitiva il linguaggio pittorico dell’artista: l’utilizzo del vuoto per controllare lo spazio, che dava una forma ritmica al
suo automatismo creando autentiche partiture visive uniche nel campo dell’arte informale sia italiana che internazionale.
I critici del momento sottolineano la parentela tipologica e gestuale della sua produzione con il lavoro dei maggiori artisti
informali europei e americani: «L’automatismo di Tancredi è di specie tutta particolare, per l’ordine “costruttivo” che
regola il “pattern” spaziale delle sue partiture visive, rispetto alle declinazioni dell’organicismo tissulare di Dubuffet o
all’impetuoso gestualismo materico, insidiosamente simbolico, di Pollock: vertici questi insuperati di quell’informale che
Tancredi ugualmente attraverserà per raffigurare e quindi per sprigionare le essenze dell’intuizione originaria dell’essere,
della sua infinita intesa come “ritmo della natura”, vista fuori da ogni fenomenismo analogico e da ogni sincretismo allusivo. «Ma all’action painting, che finalmente ha l’opportunità di vedere, Tancredi risulta vicino non solo nella
linea parallela di ricerca pittorica, ma anche e soprattutto nella comune matrice ideologica: la completa
integrazione fisica con la tela che, per terra, e non più su cavalletto, diviene un campo d’azione su cui
operare globalmente e liberamente, nella totale identificazione arte-vita». In quel periodo la sua attività
espositiva è vivace tra Milano, Torino e la Kunsthalle di Berna (1954), dove espone con Pollock, Wols e Mathieu.
Per Tancredi il 1955 è un anno emblematico. Si apre con la definitiva separazione da Peggy Guggenheim e si
chiude con la partenza per Parigi. Espone alla Galerie Stadler di Parigi e conosce Dubuffet, Asger Jorn e Karel Appel. A Oslo, nello stesso periodo, è affascinato dal lavoro di Munch. Tutti stimoli comunque determinanti per quel ritorno
alla figura umana che scandirà la produzione dei pochi anni che gli restano da vivere. è presente con mostre a
Pittsburgh, si sposa con la pittrice norvegese Tove Dietrichson e torna a Milano nel 1960, dove collabora stabilmente
con la Galleria dell’Ariete. Nel 1962 vince il Premio Marzotto ed espone alla Galleria veneziana del Canale e alla
Galleria Levi di Milano. Prende la tessera del PCI e lavora ai grandi collages Resistenza. Gli viene diagnostica una
forma di schizofrenia paranoide, continua però a lavorare tra Milano, Roma, e Venezia, dove partecipa alla Biennale
del 1964. Il 27 settembre 1964 si toglie la vita gettandosi nel Tevere a trentasette anni. Non a caso Arturo Schwarz lo
paragonò a Van Gogh per la pronfondità del suo sguardo e la sua idea «fanatica, apocalittica» della pittura. 151
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Antonio Sanfilippo (Partanna, 1923 - Roma 1980)
Nasce a Partanna, in provincia di Trapani, l’8 dicembre del 1923. Frequenta dal ’38 il Liceo Artistico di Palermo, ove ha
tra i suoi maestri Guido Ballo, e tra gli amici più cari Pietro Consagra, con il quale condivide una iniziale vocazione alla
scultura. Nel dicembre del ’42 si iscrive però al corso di pittura dell’Accademia di Belle Arti di Firenze, ove è allievo di Felice
Carena, che ne orienta i primi passi nella pittura. Rientrato a Partanna, vi insegna disegno presso l’Istituto Magistrale.
Nel ’44, all’Accademia di Belle Arti di Palermo, conosce Carla Accardi; espone l’anno seguente al Teatro Massimo con
Guttuso e altri giovani. Sempre nel ’45, tiene nel capoluogo siciliano la sua prima personale. Nel ’46 si iscrive alla sezione
palermitana del Partito Comunista. Nuovamente a Firenze, termina gli studi d’Accademia e si trasferisce a Roma. Pur
ancora venata di giovanile idealismo, si radica in lui la lucida intenzione di vivere la pittura come intera ossessione.
Alla fine dell’anno compie il viaggio di studio divenuto per tutti canonico, a Parigi, con Accardi, Attardi, Maugeri, Turcato,
Consagra. Il viaggio gli consente un utile sguardo sull’avanguardia europea, e soprattutto sulla pittura dei Jeunes peintres
de tradition française; non percepisce invece, per allora, né le suggestioni dell’informel, né quelle del concretismo.
Nel ’47 è tra i sottoscrittori del manifesto di Forma e, superato presto l’iniziale post-cubismo picassiano e guttusiano,
sperimenta le prime ipotesi astratte e neo-concrete, alle quali resterà sempre devoto, convinto che solo «nell’astrattismo
la rappresentazione tende a rivelare i nuovi aspetti delle cose». Partecipa a tutte le principali occasioni espositive del
gruppo di Forma, e, in particolare, a quelle promosse dall’Art Club. Tra le mostre: Arte astratta in Italia alla Galleria di
Roma nel ’48, la terza mostra Arte d’Oggi a Palazzo Strozzi di Firenze nel ’49 e Arte astratta e concreta in Italia alla Galleria
Nazionale di Roma nel febbraio del ’51 e nel giugno del ’48, la mostra Accardi, Attardi, Sanfilippo, prima occasione che
ha di presentare più largamente la sua pittura recente. Nello stesso anno espone alla V Quadriennale di Roma e alla XXIV
Biennale di Venezia. Nel gennaio del ’51 compie con Carla Accardi (che ha sposato nel settembre del ’49) un secondo
viaggio a Parigi, durante il quale conosce, tra l’altro personalmente, Hans Hartung, che influenzerà profondamente
la sua pittura, e Alberto Magnelli, che già gli è ben presente, almeno dal ’48; “riscopre” inoltre Arp e Kandinsky.
Da questi primi anni Cinquanta l’artista individua la propria strada, che lo porterà, dal concretismo di matrice cubista e
costruttivista, a definire quello che è stato chiamato il “segno” di Sanfilippo. Tiene personali di rilievo in gallerie fortemente
orientate sui nuovi linguaggi, quali la Vetrina di Chiurazzi a Roma, la Libreria Salto a Milano, l’Age d’Or a Roma, il Cavallino
a Venezia, la Schneider nuovamente a Roma, il Naviglio a Milano. È dal biennio 1953-54 la nozione di segno; si precisa nel
suo lavoro: «Mi servo quasi esclusivamente di segni grafici posti sulla superficie con molta immediatezza e rapidità e tali
da formare un insieme non arbitrario o casuale, ma conseguente ad un determinato ragionamento formale. La forma viene
così determinata dal complesso variamente raggruppato dei segni che nei miei quadri hanno una grande variazione»,
disse l’artista. Altrettanto importante, nel suo ricercare, è il concetto di spazio, uno spazio «da riempire, da popolare, da
infittire: con un horror vacui che è prima di tutto amore per la forma originaria». Nella seconda metà del decennio il suo
lavoro ha crescenti riscontri internazionali (espone tra l’altro a New York, Osaka, Bruxelles, Losanna, Pittsburgh, Londra) e
registra nuove, importanti adesioni critiche (scrivono di lui fra gli altri Marchiori, Vivaldi, Ponente, Serpan, Tapiè), mentre si
moltiplicano le esposizioni personali. Dopo l’esordio nella storica edizione della Biennale del ’48, è nuovamente presente a
Venezia nel ’54, nel ’64, e nel ’66 con una vasta e importante sala personale, che ne sancisce definitivamente il profilo di
maestro dell’astrattismo italiano. È, nel frattempo, regolarmente invitato alla Quadriennale romana, oltre che – tra l’altro
– al Premio Graziano, al Lissone, al Michetti, al Golfo della Spezia. Gli anni Sessanta vedono il definitivo affermarsi della
sua pittura, in Italia e all’estero. Fra le occasioni espositive di maggior impegno, si segnalano le personali alla New Vision
Center Gallery di Londra nel ’61, all’Arco d’Alibert di Roma nel ’64, nel ’66 e nel ’69, al Naviglio di Milano nel ’65. Espone
tra l’altro a Chicago, Boston, Parigi, Berna, Torino, Bari, Bologna, Firenze; mentre si moltiplicano le firme di storici e critici di
rilievo sul suo lavoro: scrivono adesso di lui, fra gli altri, Murilo Mendes, Maurizio Fagiolo dell’Arco, Marisa Volpi Orlandini,
Giovanni Accame; oltre ai suoi primi suoi esegeti, fra i quali in particolare Ponente e Vivaldi. Nel ’71 tiene all’Editalia
di Roma, presentato da Vivaldi, quella che sarà la sua ultima personale. Il decennio che allora si apre sarà un tempo
esistenzialmente difficile, nel quale rallenta l’attività artistica e si dirada quella espositiva. Il 31 gennaio 1980 muore per
i postumi di un incidente automobilistico. In aprile la Galleria Nazionale d’Arte Moderna gli dedica una larga antologica.
Negli anni Novanta la sua figura è sovente rivisitata, spesso all’interno della nuova attenzione che internazionalmente si
pone al gruppo Forma. Sue ampie antologiche si svologono nei musei di Gibellina, Erice, Taormina, Aosta, Salò, e Trento
(Mart). Nel 2007 è fondato l’Archivio Sanfilippo, diretto da Antonella Sanfilippo. Biografia: archivio Antonio Sanfilippo.
Alberto Savinio (Atene, 1891 - Roma, 1952)
Andrea de Chirico (nome d’artista Alberto Savinio) studia pianoforte e composizione al Conservatorio di Atene, dove
si diploma nel 1903. Dopo la scomparsa del padre, avvenuta nel 1905, si trasferisce con la madre e il fratello Giorgio
de Chirico a Monaco di Baviera, dopo un periodo di passaggio a Venezia e Milano. Prosegue gli studi musicali con
il professor Max Reger e si appassiona alle opere di Otto Weininger, Arthur Schopenhauer e Friedrich Nietzsche.
Nel 1911 si trasferisce a Parigi ed entra in contatto con l’ambiente artistico della capitale francese, dove
conosce Pablo Picasso, Blaise Cendrars, Francis Picabia, Jean Cocteau, Max Jacob e Guillaume Apollinaire.
Nel 1914, per distinguersi dal fratello pittore Giorgio, che lo aveva raggiunto a Parigi, prende lo pseudonimo
di Alberto Savinio. Lo stesso anno pubblica in francese, firmando con questo nome, il suo primo testo
teatrale, Les chants de la mi-mort, che appare sulla rivista «Les Soirées de Paris», fondata da Apollinaire.
Allo scoppio della Prima guerra mondiale è costretto, insieme al fratello, a rientrare in Italia. Dopo aver trascorso
un periodo a Firenze, vengono entrambi arruolati nella riserva di fanteria a Ferrara, dove incontrano Filippo de Pisis
e Carlo Carrà. In seguito Savinio decide di abbandonare la composizione musicale per dedicarsi esclusivamente
alla letteratura. Nel 1916, grazie all’interessamento di Giovanni Papini e Ardengo Soffici, inizia a collaborare
alla rivista «La Voce», in cui pubblica l’opera Hermaphrodito. L’anno successivo è mandato dall’esercito
come interprete a Salonicco. Alla fine del conflitto si trasferisce a Milano, per poi stabilirsi a Roma (1923),
dove continua a pubblicare i suoi testi sulle riviste «La Ronda» e «Valori Plastici». Nel 1924 è tra i fondatori
della Compagnia del Teatro dell’Arte, diretta da Luigi Pirandello, per la quale scrive l’opera Capitano Ulisse.
Nel 1927, con la moglie Maria Morino, si trasferisce nuovamente a Parigi, dove si fermerà a vivere per sei anni,
dedicandosi con costanza alla pittura e dove avrà luogo la sua prima mostra personale, presentata alla Galerie
Bernheim-Jeune da Jean Cocteau. Le sue opere d’esordio ottengono subito l’apprezzamento del pubblico e della
critica, tanto che si assicura un contratto con la mercante parigina Jeanne Castel, della quale realizza un celebre
ritratto. Il mondo figurativo delle sue tele è modellato su quello fantastico e inquietante dell’opera letteraria, ricca
di analogie, allusioni e richiami tra conscio e inconscio. Compaiono, infatti, come temi ricorrenti, oltre a poeti, filosofi
e muse, oggetti dell’infanzia, come i coloratissimi giocattoli, alcuni elementi dell’antichità e creature mostruose
dalle sembianze animali o primordiali. Ma Savinio è anche influenzato, nella sua produzione pittorica, dal lavoro del
fratello Giorgio, un’influenza peraltro reciproca e costante nel tempo, e che varrà ai due il soprannome di “Dioscuri”.
Rientrato in Italia nel 1933, decide di stabilirsi a Roma, dove allestisce un’ importante mostra personale,
curata da Libero De Libero, alla Galleria Sabatello. Inizia a collaborare con il quotidiano «La Stampa» e
alle riviste «Colonna» e «Il Broletto» e l’esercizio della scrittura letteraria e giornalistica lo impegnerà
costantemente nel corso degli anni Trenta e Quaranta, a scapito della pittura. In questo periodo, infatti,
Savinio dipinge raramente, preferendo dedicarsi al disegno e alla grafica, illustrando testi suoi e di altri autori.
Nel 1938 è l’unico italiano a essere incluso nell’Anthologie de l’humour noir curata da André Breton. Nel 1939
il settimanale «Omnibus», fondato da Leo Longanesi e con il quale Savinio collabora, viene chiuso a causa di un
suo articolo su Giacomo Leopardi considerato irriverente dalla censura fascista. In seguito i suoi problemi con
il regime si aggravano, tanto che nel 1943 è costretto a nascondersi, perché sospettato di attività antifascista.
Alla fine della guerra Savinio prosegue l’attività di giornalista: collabora come critico culturale al «Corriere della Sera»
e vince il Premio Saint-Vincent. Porta avanti parallelamente il suo interesse per il teatro, realizzando per la Scala di
Milano quattro spettacoli in qualità di scenografo e costumista: Oedipus rex (1948), con musiche di Igor Stravinskij e
testo di Jean Cocteau, I racconti di Hoffmann di Jacques Offenbach (1949), L’uccello di fuoco di Stravinskij (1950) e la
“tragicommedia mimata e danzata” Vita dell’uomo (1951), di cui è anche autore. Inoltre, nel 1949, pubblica Alcesti
di Samuele, rappresentato l’anno seguente al Piccolo Teatro con la regia di Giorgio Strehler, e, nel 1952, lavora per
il Maggio fiorentino a una celebre messinscena dell’Armida di Gioachino Rossini con l’interpretazione di Maria Callas.
Savinio viene a mancare proprio a Firenze, poco dopo la rappresentazione dell’opera. Per vedere una grande mostra a
lui dedicata bisogna aspettare il 1954, quando la Biennale di Venezia propone una sua personale accompagnata da un
testo di Libero De Libero, e il 1955, anno in cui il fratello Giorgio cura una sua ampia retrospettiva nell’ambito della VII
Quadriennale di Roma.
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Alberto Savinio, 1931
Gino Severini (Cortona, 1883 - Parigi, 1966)
Dopo aver completato i suoi primi studi alla Scuola Tecnica, nel 1899 Gino Severini si trasferì con la madre a Roma, dove
iniziò a lavorare come ragioniere. Nella capitale italiana Severini incontrò Umberto Boccioni, anch’egli arrivato in città
di recente e che, in seguito, sarebbe diventato uno dei massimi esponenti del Futurismo. Insieme a Boccioni, Severini
frequentò lo studio di Giacomo Balla, maestro della tecnica divisionista del “dividere” i colori in pittura, piuttosto che
miscelarli. Dopo essersi trasferito a Parigi nel Novembre 1906, Severini studiò i maestri impressionisti e incontrò il pittore
neo-impressionista Paul Signac. Fece presto amicizia con i maggiori artisti dell’avanguardia del momento nella capitale
francese: pittori e scultori come Matisse, Picasso, Modigliani, Braque, Gris, Dufy, Léger, Delaunay, Duchamp, Lipchitz, e De
Chirico, i letterati Marinetti, Paul Fort, Apollinaire, Cocteau, Reverdy, e Jarry, Jules Romains, e anche il filosofo e scrittore
Maritain, i compositori Eric Satie e Igor Stravinskij, e l’impresario dei Balletti Russi, Sergej Diaghilev. Severini condivise le
loro esperienze negli studi, nelle gallerie e nei caffè di Montmartre e Montparnasse, e riprodusse il dibattito appassionato
che animava questi incontri. Assistiamo non solo alla maturazione dell’arte di Severini e delle teorie estetiche, ma anche
alla turbolenza intellettuale e politica, che ha generato una grande ricchezza di approcci all’arte nei primi due decenni di
questo secolo, tra futurismo, cubismo, surrealismo, costruttivismo, dadaismo e pittura metafisica.
Anche se di sede a Parigi, Severini rimase in stretto contatto con l’Italia, tanto che fu uno degli artisti ad aderire al
Futurismo e a firmare il Manifesto tecnico della pittura futurista, pubblicato nel 1910. Il Futurismo fu un movimento artistico
internazionale fondato in Italia nel 1909 da Marinetti. È stato (ed è) un contrasto rivitalizzante con il sentimentalismo
strappalacrime del Romanticismo. I futuristi amavano la velocità, il rumore, le macchine, l’inquinamento e le città; essi
hanno abbracciato il mondo nuovo ed entusiasmante, anziché goderne ipocritamente i comfort, denunciando a gran voce
le forze che li hanno resi possibili. Temere e aggredire la tecnologia è diventato oggi un luogo comune per molti; i manifesti
futuristi ci mostrano una filosofia alternativa. Severini contribuì a organizzare la prima mostra parigina di artisti futuristi
presso la Galleria Bernheim-Jeune nel febbraio del 1912, e partecipò a successive mostre di arte futurista sia in Europa
che negli Stati Uniti. La prima esposizione personale dei lavori di Severini ebbe luogo a Londra nel 1913, presso la Galleria
Marlborough; lo stesso anno fu trasferita a Berlino, dove fu ospitata dalla galleria Der Sturm.
Severini ebbe la virtù di costituire un importante collegamento tra la scena italiana e quella francese nel corso di tutto il
periodo futurista. Con la pubblicazione del suo Du Cubisme au classicisme nel 1916, Severini abbandonò il suo purismo
cubista e adottò uno stile neoclassico con echi metafisici. Nel 1923 partecipò alla Biennale di Roma e fu incluso in
entrambe le mostre del gruppo Novecento a Milano nel 1926 e 1929, così come a Ginevra nel 1929.
Nel 1928 Severini fece ritorno a Roma e il suo lavoro iniziò a includere elementi del paesaggio classico della città. Negli
anni ‘30 tornò a una sorta di cubismo decorativo. Nel 1930 partecipò alla Biennale di Venezia insieme agli altri artisti
italiani che vivevano a Parigi. Nel 1931 e nel 1935 Severini prese parte alla mostra Quadriennale di Roma, dove nel 1935
vinse il Gran Premio per la Pittura e gli fu dedicata un’intera sala. Dopo il suo ritorno a Parigi, divise il suo tempo tra
Roma e la capitale francese, e completò un ciclo di opere per la Fiera di Parigi. Nel 1938 presentò alla Galleria Cometa
una serie di mosaici. Negli anni ‘50 tornò ai suoi soggetti futuristi: ballerini, luce e movimento. Durante questo periodo
completò le opere per la chiesa di Saint-Pierre a Friburgo e inaugurò il mosaico con la Consegna delle Chiavi. I suoi mosaici
furono esposti alla galleria Cahiers d’Art di Parigi e tenne una conferenza sulla storia del mosaico a Ravenna. Ricevette
l’incarico di decorare gli uffici della Klm di Roma e Alitalia a Parigi, e partecipò alla mostra I futuristi, Balla - Severini
1912-1918, tenutasi a New York, presso la Rose Fried Gallery. A Roma lavorò alla ricostruzione su basi fotografiche e a
memoria del mosaico La danza del Pan Pan, che era andato distrutto durante la guerra. Severini fu rappresentato in una
mostra personale a Parigi e vinse il Premio Nazionale di Pittura dell’Accademia di San Luca a Roma. Alla 9a edizione della
Quadriennale di Roma espose due collage e tre sculture. Inoltre realizzò una mostra personale presso l’Accademia di San
Luca. La sua autobiografia fu riedita. I suoi ultimi lavori mostrarono una tendenza verso l’arte concreta.
Nel 1950 vinse un premio alla Biennale di Venezia.
Severini morì il 26 febbraio 1966 nella sua casa parigina, al n. 11 di rue Schoelcher. Il 15 aprile dello stesso anno il suo
corpo fu riportato a Cortona.
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Mario Sironi (Sassari, 1885 - Milano, 1961)
Compie gli studi superiori a Roma, dove nel 1902 si iscrive alla Facoltà di Ingegneria. Abbandona l’università l’anno
successivo, dopo un periodo di crisi, per seguire la Scuola Libera del Nudo. Qui incontra Gino Severini, Giacomo Balla, che
lo introduce al divisionismo, e Umberto Boccioni, con il quale stringe una profonda amicizia.
Nel 1905 partecipa, sempre a Roma, all’esposizione della Società Amatori e Cultori, presentando due opere di ispirazione
divisionista. Rimane però scarsa testimonianza di questa sua prima produzione, perché buona parte di quei lavori verranno
distrutti dallo stesso artista. Nel medesimo periodo inizia l’attività di illustratore per il giornale socialista «L’Avanti della
Domenica», per il quale realizza tre copertine, e compie i primi viaggi: nel 1906 si reca a Parigi, dove incontra l’amico
Boccioni, e nel 1908 a Erfurt, in Germania.
Verso la fine del 1913 aderisce al futurismo e l’anno seguente partecipa con sedici opere all’Esposizione libera futurista
presso la Galleria Sprovieri di Roma. Nel 1915 si trasferisce a Milano e, allo scoppio della Prima guerra mondiale, si arruola
nel Battaglione volontari ciclisti (insieme a Filippo Tommaso Marinetti, Umberto Boccioni, Anselmo Bucci, Achille Funi,
Antonio Sant’Elia, Luigi Russolo, Ugo Piatti e Carlo Erba), con il quale partecipa alla presa di Dosso Casina. Nello stesso
anno firma il manifesto interventista L’orgoglio italiano con Marinetti, Boccioni, Russolo, Sant’Elia e Piatti.
Nel 1919 espone alla Grande mostra futurista, organizzata da Marinetti a Palazzo Cova a Milano e tiene la sua prima
personale alla Casa d’Arte Bragaglia di Roma, stroncata però da Mario Broglio, fondatore della rivista «Valori Plastici».
Nel 1920 si stabilisce definitivamente a Milano, dove comincia a collaborare come illustratore al quotidiano fondato da
Mussolini, «Il Popolo d’Italia», per il quale si occuperà anche di critica d’arte e lavorerà senza interruzioni fino al 1942. Lo
stesso anno, insieme a Dudreville, Funi e Russolo, firma il manifesto Contro tutti i ritorni in pittura, che polemizza con gli
artisti vicini a «Valori Plastici» e anticipa alcune istanze del gruppo di Novecento. Fra il 1919 e il 1921 dipinge una serie di
paesaggi urbani in cui rappresenta, con accenti metafisici, la periferia industriale milanese.
Nel 1922, divenuto convinto sostenitore del ritorno alla tradizione italiana, è tra i fondatori del gruppo dei “Sette” di
Novecento a Milano (insieme a Bucci, Dudreville, Funi, Malerba, Marussig e Oppi), che si presenta per la prima volta
alla Galleria Pesaro nel 1923. Nello stesso anno lavora a una serie di ritratti che diventano immagini emblematiche del
movimento, presentati alla Biennale di Venezia nel 1924 e in numerose mostre di Novecento in Italia e all’estero. Tra le
rassegne più significative a cui Sironi partecipa in questo periodo vi sono la prima e la seconda Mostra del Novecento
italiano (1926 e 1929), la Biennale di Venezia (1928 e 1932), la Quadriennale di Roma (1931) e la Mostra della rivoluzione
fascista (1932). Nel corso degli anni Trenta l’artista continua a elaborare una poetica classicista, proponendo il recupero di
tecniche tradizionali come l’affresco e il mosaico, ed esprime la propria adesione al fascismo realizzando importanti opere
di contenuto ideologico. Molti i lavori commissionatigli: una vetrata per il Ministero delle Corporazioni a Roma; due rilievi
per la Casa dei Sindacati Fascisti a Milano (1932); il coordinamento degli interventi di pittura murale per la V Triennale di
Milano, dove invita i migliori artisti italiani a realizzare decorazioni monumentali, eseguendo lui stesso il grande dipinto
Il lavoro (1933) per il Salone d’Onore, oltre a due grandi tele per il Palazzo delle Poste a Bergamo (1934). Negli anni
successivi si susseguono le commissioni pubbliche (Università di Roma, 1935; Palazzo di Giustizia di Milano, 1936-39;
Università di Venezia, 1936-37; Palazzo del Popolo d’Italia a Milano, 1938-42). Accanto alle grandi imprese decorative
realizza complessi allestimenti architettonici: alcuni ambienti della Mostra della rivoluzione fascista (1932); la Sala della
Grande Guerra alla Mostra dell’aeronautica italiana (1934); il Salone d’Onore alla Mostra nazionale dello sport (1935); il
Padiglione Fiat alla Fiera Campionaria di Milano (1936); la Sala dell’Italia d’Oltremare all’Exposition internationale di Parigi
(1937); parte della Mostra nazionale del dopolavoro a Roma (1939). Negli anni Quaranta torna alla pittura da cavalletto e
crea le Moltiplicazioni: composizioni suddivise in scomparti in cui manifesta una nuova concezione dello spazio, influenzato
dall’esperienza della decorazione murale e dall’attività di scenografo. Alla fine della Seconda guerra mondiale, disilluso
dal crollo dei propri ideali civili e politici, si ritira a vita privata, rifiutando di partecipare nel 1952 alla Biennale di Venezia
(espone però alla Triennale di Milano nel 1951 e alla Quadriennale di Roma nel 1955). L’anno dopo la sua scomparsa,
avvenuta nel 1961, la Biennale di Venezia gli dedicherà un’ampia e rigorosa retrospettiva.
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Emilio Vedova, 1954
Emilio Vedova (Venezia, 1919 - Venezia, 2006)
Nato da una famiglia operaia il 9 agosto 1919, Vedova si forma come pittore da autodidatta. Da ragazzo lavora in
vari campi: prima in fabbrica, poi fotografo e, successivamente, restauratore. Alla metà degli anni Trenta comincia a
disegnare e a dipingere con grande intensità, privilegiando, come soggetti, prospettive, architetture, figure e molti
autoritratti. Dal 1936 al 1941 soggiorna a Roma, Firenze e Bolzano. Nel 1942 Vedova si associa al movimento milanese
antifascista italiano Corrente. L’anno seguente tiene una mostra di disegni alla galleria La Spiga, subito chiusa dalla
polizia segreta fascista. Negli anni 1944-45 partecipa attivamente alla Resistenza e nei lavori di questi anni si nota già
un segno affermato. Nel 1946 Vedova è tra i firmatari a Milano del Manifesto del realismo (Oltre Guernica) e partecipa
a Venezia alla fondazione della Nuova secessione italiana. Nello stesso anno l’artista è co-fondatore del Fronte nuovo
delle arti, un gruppo di giovani artisti italiani che volevano rinnovare completamente l’arte italiana in un retroscena
antifascista. Sono gli anni della partecipazione ad una serie di mostre collettive internazionali, tra cui la Biennale di
Venezia nel 1948 e nel 1950, la Biennale di San Paolo nel 1951, di nuovo la Biennale di Venezia nel 1952, Documenta di
Kassel nel 1955. L’artista, che ha scelto la via dell’astrattismo, dopo una fase in cui prevalgono le forme geometriche,
la supera fra il 1950 e il 1953 e predilige una pittura informale e gestuale, lavorando in cicli. Crea collages materici
e assemblages e produce opere informali sulla scala cromatica dei bianchi e dei neri, con inserimento dei rossi. è il
periodo che coincide con la realizzazione del Ciclo della protesta e il Ciclo della natura. Nel 1954 parte per il Brasile,
dove partecipa alla II Biennale di San Paolo. Riceve un premio che gli consente di trascorrere tre mesi in Brasile dove
scopre delle realtà umane del Sudamerica e specialmente la stavaganza del Carnevale di Rio che lo colpisce fortemente. Nella seconda metà degli anni ‘50 cerca di superare i limiti della pittura e di aprirsi a nuovi media con diversi esperimenti.
Nel 1958 inizia un intenso lavoro litografico e ottiene il Premio Lissone. L’anno seguente espone il primo Scontro di
situazioni, ciclo con tele disposte ad angolo, all’interno della mostra Vitalità nell’arte, allestita a Palazzo Grassi
a Venezia e curata da Carlo Scarpa. In questo ciclo di quadri, chiamati quadri plurimi, l’artista abbandona la forma
quadrata del dipinto, operando su telai pieghevoli, fatti di assi di legno con cerniere di ferro, e completamente dipinti.
Dai primi anni Sessanta i suoi quadri plurimi vengono esposti in una prima mostra alla Galleria Marlborough di Roma
con la presentazione di Giulio Carlo Argan. Diverse università americane lo invitano a tenere delle lectures sui suoi
Plurimi. Costantemente rivolto all’innovazione nella ricerca, crea lastre in vetro in collaborazione con la fornace muranese
di Venini, lavora ai cicli di Lacerazioni e Frammenti, realizza i Dischi e i Cerchi, e s’impegna nella scenografia assieme a Luigi
Nono. Vedova soggiorna a Berlino dal 1964 al 1965, nell’ambito del programma Artists in Residence. Viene rappresentato
alla Documenta nel 1955, 1959 e nel 1982. Nel 1960 le opere dell’artista vengono esposte alla Biennale di Venezia in
uno spazio a lui dedicato. Tra il 1975 ed il 1986, Vedova insegna all’Accademia di Belle Arti di Venezia. Nel 1984, in una
retrospettiva completa il Museo Correr di Venezia, espone 280 opere. Nel 1986 viene allestita un’altra esposizione presso
le Bayerischen Staatsgemäldesammlungen (Collezioni statali bavaresi), a Monaco di Baviera. Nel 1997 gli fu assegnato alla
Biennale di Venezia il Leone d’oro alla carriera. Tra le ultime mostre personali si ricordano quelle alla Galleria Civica d’Arte
Contemporanea di Torino nel 1996, al Castello di Rivoli nel 1998, alla Galleria Salvatore e Caroline Ala di Milano nel 2001. Emilio Vedova muore a Venezia il 25 ottobre 2006, è considerato uno dei maggiori rappresentanti della pittura informale
italiana degli anni ‘50 e ‘60.
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Retro copertina
Gino Severini, 1954
Finito di stampare nel mese di ottobre 2014 presso
Tap Grafiche - Poggibonsi (SI) - Italy
Vietata la vendita
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