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Scheda opere - Musei in Comune
TRULLO - MACRO 1. Cristiano Pintaldi (Roma 1970) Senza titolo 2000, Macro, Museo d’Arte Contemporanea Roma L’acrilico su tela mostra il dettaglio di un volto probabilmente maschile che porta degli occhiali a specchio dove viene riflessa l’immagine di una delle attrazioni turistiche più note al mondo: il Colosseo. Il pittore sceglie di mostrarci, attraverso un gioco di specchi, il monumento, consapevole della sua forza iconica e ironicamente sembra suggerire che la visione del Colosseo sia possibile solo attraverso delle lenti o uno schermo protettivo. Il giovane alza sicuro lo sguardo verso il monumento e, come Perseo sa di poter contare sull’aiuto dello scudo di Atena che lo protegge dallo sguardo della Medusa, anche egli è certo che le sue lenti specchiate lo proteggeranno dalla potenza di quello che sta osservando. Se ci avviciniamo al quadro notiamo che l’immagine si scompone in migliaia di pixel che vanno a formare piccoli quadrati di un centimetro di larghezza con tre segmenti verticali di rosso, verde e blu, su fondo nero. Se ci allontaniamo dal quadro la figura si ricompone sulla nostra retina. L’artista si serve infatti di una tecnica che esaltando l’effetto di sfarfallio, proprio della trasmissione video su monitor, ci rimanda al mondo della tecnologia digitale. 2. Gastone Novelli (Vienna 1925 – Milano 1968) Corrispondenze terrestri 1962, Macro, Museo d’Arte Contemporanea Roma Se il mondo dovesse scomparire e se per assurdo quest’opera di Novelli fosse l’unica traccia che resta dell’umanità, l’ignoto abitatore dello spazio che dovesse trovarsela tra le mani potrebbe utilmente servirsi di quest’oggetto, poco più grande di un metro quadrato, per decifrare chi fossero gli abitanti della terra, almeno di quella parte della terra che noi occidentali abbiamo abitato. Ogni quadrato, ogni rettangolo che vediamo, racchiude infatti un segno che rimanda ai grandi archetipi su cui si è fondata la nostra civiltà. Troviamo, in una grafia che rimanda alle civiltà arcaiche, forme geometriche, numeri, parti anatomiche, tutto ciò che simbolicamente può rappresentarci. Novelli maturò l’idea dell’opera durante i viaggi in Grecia che effettuò a partire dai primi anni sessanta dove iniziò a raccogliere e catalogare figure, alfabeti, geroglifici che troveranno con lettere e parole collocazione in un volume edito nel 1966 dal titolo Viaggio in Grecia. La raccolta di segni e di simboli che vediamo raffigurata in Corrispondenze terrestri è esplicativa del percorso dell’artista teso alla ricerca della comprensione dei segni e dei miti delle civiltà antiche ma anche di quelle moderne, come la civiltà americana, indagata durante un viaggio negli Stati Uniti nel 1965. Trasferitosi in gioventù a Roma, durante la guerra partecipa alla resistenza, viene catturato e condannato a morte. L’intervento della madre, una nobildonna austriaca, presso le autorità tedesche, fece sì che la pena venisse trasformata in ergastolo. L’impegno politico continua nel dopoguerra e lo vede in prima linea negli anni della contestazione tanto che alla Biennale del 1968, contro l’intervento della polizia all’interno dei Giardini, attua una singolare forma di protesta: rovescia le sue opere, scrive dietro una di esse “la biennale è fascista” e si ritira dalla mostra. 3. Carla Accardi (Trapani 1924 – Roma 2014) Giallobianconero 1990, Macro, Museo d’Arte Contemporanea Roma Forme circolari e cruciformi, bianche e nere dominano la composizione. Sono segni non identificabili che non appartengono a nessuna di quelle categorie di simboli che siamo abituati a decodificare quotidianamente. I due insiemi, quelli di colore bianco e quelli di colore nero, potrebbero anche non appartenere alla stessa specie. Scorie di materiali e sostanze diverse e magari totalmente opposte. Opposte come lo sono il bianco e il nero. La mano dell’artista le fonde dando vita ad un dialogo che a volte tende ad allineare i segni, altre volte a metterli in sovrapposizione e in conflitto, grazie al terzo elemento fondamentale del quadro: il giallo, che si esprime, stavolta non in valenza di segno, ma unicamente come colore. E’ uno sfondo che agisce come un detonatore e che trasforma elementi sconosciuti ed inerti in segni che per la loro circolarità acquistano vita e movimento fluttuando davanti ai nostri occhi meravigliati come se si fossero trasformati in creature incantate che galleggiano in un acquario. Carla Accardi dal 1946 si trasferisce a Roma in una casa di via del Babuino. E’ considerata uno delle artiste più originali del nostro secondo dopoguerra. 4. Titina Maselli (Roma 1924 – Roma 2005) Ciclista 1995, Museo d’Arte Contemporanea Roma Il quadro rappresenta un ciclista lanciato ad alta velocità. L’ambiente circostante suggerisce un velodromo. Il corpo dell’atleta è teso nello sforzo reso massimo dal traguardo imminente annunciato dalla pavimentazione della pista corredata ai lati da lettere cubitali che richiamano scritte pubblicitarie. Il movimento del ciclista, bloccato nell’attimo in cui sta per lasciare il campo visivo dell’osservatore (posto in posizione sopraelevata rispetto all’atleta) è accentuato dalle strisce che cadenzano il tratto della pista e che al suo passaggio sembrano accendersi di luci artificiali. Lo spettacolo dello sport viene così esaltato in quelli che sono i suoi ingredienti fondamentali: il corridore che si fonde nella forma con la sua bicicletta attraverso un sapiente gioco di linee e lampi di colore, il teatro che lo circonda, che sia una strada di Roma o il liscio ovale lastricato di listarelle di pino di Svezia di mitici velodromi come il Vigorelli o l’Olimpico di Roma. Titina Maselli esordisce nel 1948 in una mostra alla Galleria dell’Obelisco di Roma, la prima galleria ad aprire nell’immediato dopoguerra diventando uno dei poli culturali più attivi della città. Partecipa alle Biennale di Venezia in varie edizioni (dal 50 al 95). E’ stata attiva anche in campo teatrale collaborando come scenografa in Italia con personalità come Carlo Cecchi e in Francia con Giles Ailaud e Bernard Sobel. 5. Pablo Echaurren (Roma 1951) Crono Sapiens 2009, Macro, Museo d’Arte Contemporanea Roma Dal groviglio che occupa lo spazio di tutta l’opera emergono le sagome di dieci chitarre elettriche. Si riconoscono dalla caratteristica forma e dalle manopole dei toni e dei volumi ben evidenziati con dei punti bianchi. Se poi ci si addentra nella conoscenza del pittore si scopre che la chitarra è in realtà un basso elettrico di cui l’autore è un fervente appassionato tanto da definirlo: “lo strumento”. Al centro della composizione un cuore da cui si dirama una ramificazione di venature color sangue che porta agli strumenti una linfa vitale, pulsante ed esplosiva, che crea un circuito di cui quel cuore è principio e fine. L’autore restituisce in questa immagine complessa, in cui dominano su uno sfondo grigio le esplosioni e le frantumazioni del rosso, del nero, del bianco e dell’azzurro, la forza vitale e rivoluzionaria che la musica rock, con le sue ascese, i suoi vortici e le sue icone ha avuto nella nostra formazione. La ricerca pittorica di Pablo Echaurren spazia anche nella direzione della progettazione di fumetti (Linus e Frigidaire), manifesti pubblicitari e copertine editoriali (è sua la copertina del popolarissimo Porci con le ali). TOR BELLA MONACA – MUSEO DI ROMA 1. Filippo Gagliardi (Roma 1606/1608 – Roma 1659) /Filippo Lauri (Roma 1623 – Roma 1694) Carosello a Palazzo Barberini in onore di Cristina di Svezia, nel Carnevale del 1656 Il dipinto raffigura la Giostra dei Caroselli svoltasi la notte del 28 febbraio 1656 in onore della regina Cristina di Svezia nel cortile della Cavallerizza di Palazzo Barberini. Lo spettacolo costò settemila scudi, quanto sarebbe bastato per il mantenimento annuale di circa 370 abitanti di Roma e per l’allestimento dei palchi e delle tribune furono demolite persino alcune abitazioni attigue al palazzo. Il carosello è composto da carri allegorici, musici, paggi porta fiaccole, palafranieri e da ventiquattro cavalieri, divisi in due squadre: I cavalieri di Roma, con i colori della regina di Svezia (bianco e azzurro) e le Amazzoni con i colori del papa (oro e rosso). In basso si nota una grande macchina dalla forma di drago che vomita fiamme e porta sul dorso Ercole mentre offre i pomi d’oro delle Esperidi. Gli altri carri allegorici raffigurano Roma Festiva in sembianze e abito d’amore, lo Sdegno, in rosso e oro, trainato dalle Furie, e il Sole trainato da quattro cavalli e circondato da musici vestiti come le Ore del Giorno, Giano bifronte e dalle Quattro Stagioni. Allo sfarzo e alla compostezza dei personaggi che occupano i palchi, dalla stessa Cristina di Svezia, in quello centrale ornato di preziosi broccati e damaschi, ai cardinali e agli altri personaggi della corte pontificia, fa da curioso contraltare la scena in basso a destra dove alcune guardie respingono con le loro alabarde una pressante folla di popolani desiderosi di assistere alla festa. Il quadro è opera di Filippo Gagliardi, architetto e pittore, che dipinse le architetture e le scenografie della festa. Di origine fiorentina, l'artista fu attivo a Roma a partire dagli anni '30 del Seicento. 2. Ippolito Caffi (Belluno 1806 – Lissa 1866) Festa degli artisti a Tor De’ Schiavi 1844, Museo di Roma Nel dipinto è rappresentata la Festa della comunità internazionale degli artisti a Roma, che si svolgeva a Tor de' Schiavi sulla via Prenestina, durante le animatissime feste mascherate di Carnevale del XIX secolo. Il pittore Ippolito Caffi, partecipò a quella del 1844 che raffigurò in questo dipinto. Da poco rientrato da un viaggio in Oriente, si presentò a Santa Maria Maggiore, luogo di partenza della scampagnata mascherata, vestito da turco e accompagnato da un corteo di beduini. Così bardato riuscì a vincere il terzo premio nella gara delle maschere. La scena dipinta si riferisce al momento in cui il corteo si riuniva alla Rotonda di Tor de’ Schiavi. Qui lo sgangherato esercito composto da guerrieri medioevali, mandarini cinesi, pulcinella, gentiluomini in abiti del diciassettesimo secolo, era sottoposto all’ispezione del presidente. Seguiva una colazione corredata di robuste libagioni. Meta finale del corteo era Tor Cervara dove si concludevano i festeggiamenti. Il soggetto dell'opera, replicato dall'artista varie volte, offre lo spunto per una tersa veduta della campagna romana, esaltata dalla maestosità delle rovine che si stagliano sul basso e luminoso orizzonte. A destra il cosiddetto Mausoleo (aula termale del III sec. a.C.) e a sinistra la torre di difesa della famiglia Colonna del XIII sec. I monumenti si trovano oggi all’interno del complesso di Villa Gordiani sulla via Prenestina. Ippolito Caffi, bellunese, morì nella battaglia di Lissa alla quale aveva voluto partecipare per dipingerla dal vero, inabissandosi con la nave ammiraglia “Re d’Italia”. 3. Pompeo Girolamo Batoni (Lucca 1708 – Roma 1787) Ritratto allegorico di Gerolama Santacroce Conti come Vanitas 1760, Museo di Roma La donna ritratta in questo dipinto è la duchessa di Poli Gerolama Santacroce. La giovane donna è raffigurata davanti alla sua toletta dove si notano uno specchio, vari portagioie e una bugia con la candela spenta. L’insieme degli arredi e degli oggetti descrivono la moda e il gusto dell’alta società romana del XVIII secolo. La donna siede in veste da camera, con i capelli sciolti sulle spalle ed nell’atto di mostrare agli osservatori la collana di perle che tiene nella sua mano sinistra. Dall’altro lato si scorge uno scrigno rivestito di velluto celeste. La mano destra sembra colta nell’atto di slacciare il fiocco che tiene chiusa la veste. La donna sorride con maliziosa eleganza. Il taglio orizzontale del dipinto suggerisce insieme agli oggetti che racchiudono la scena, il tavolino a sinistra, la pesante poltrona damascata dove è seduta Gerolama e la toletta, un ambiente chiuso e claustrofobico che mette in evidenza l’allegoria che il dipinto nasconde. Gli oggetti descritti con accurato realismo alludono infatti alla caducità della bellezza, della gioventù e della ricchezza. A questo “memento mori”, cioè un ricordo del tempo che passa, si oppone con la sua sensuale bellezza la maliziosa gentildonna che sembra invitarci a godere delle gioie terrene. L’autore compose il ritratto nel 1760 probabilmente in occasione delle nozze di Gerolama con il Duca di Poli. Pompeo Batoni, lucchese di nascita si trasferì a Roma nel 1727 e divenne uno dei più celebri ritrattisti delle famiglie nobili romane, della corte pontificia e dei numerosi stranieri che soggiornavano in città. 4. Gavin Hamilton (Lanark 1723 – Roma 1798) Venere offre Elena a Paride 1785, Museo di Roma Nel 1775 Marcantonio Borghese decise di ristrutturare il Casino Nobile di Villa Borghese, oggi sede della nota Galleria. I lavori affidati all’architetto Antonio Asprucci durarono circa quindici anni e videro all’opera numerosi artisti impegnati nella decorazione delle sale. Uno di questi, lo scozzese Gavin Hamilton, suggerì all’Asprucci di dedicare una delle stanze del piano superiore al mito di Paride, figlio del re troiano Priamo. Nella sala Hamilton dipinse tra il 1782 e il 1785 otto grandi tele. Una di queste rappresenta l’episodio della vita di Paride, al quale la dea dell’amore Venere offre in dono Elena, la donna più bella del mondo come racconta Omero nell’Iliade, come premio della sfida della bellezza, che l’aveva vista protagonista assieme a Giunone e Atena, di cui Paride era stato nominato giudice. Nel dipinto Venere giacente nuda su un soffice cumulo di nubi illuminate dai rossi bagliori di un sole al tramonto, ha appena svelato il volto di Elena. Cupido al centro della composizione sembra trascinare i due amanti, ancora incerti, l’uno verso l’altro. Fanno da corona all’incontro due colombe bianche ed un puttino alato che stringono tra le mani il laccio d’amore e lasciano cadere sugli amanti petali di rosa. L’ edificio che fa da quinta teatrale alla scena riflette il gusto e la passione dell’epoca per il mondo classico. Gavin Hamilton era arrivato a Roma nel 1748 per studiare pittura. Divenne poi collezionista e mercante d’arte antica e vi rimase tutta la vita. La sua abitazione si trovava al numero 18 di via del Corso. 5. Paolo Anesi (Roma 1697 – Roma 1773) Veduta del Tevere con il porto di Ripa grande e l’Ospizio di San Michele 1740-1750, Museo di Roma La veduta che ha come protagonista il Tevere e il complesso dell’Ospizio di San Michele che si staglia sullo sfondo, consente ai romani di oggi di rivisitare il Lungotevere alla fine del quale si apre Porta Portese. In quel tratto di fiume vi era l’antico porto di Ripa Grande, il primo porto di accesso alla città per le imbarcazioni che risalivano il Tevere da Ostia. I platani che si stagliano davanti all’imponente edificio dell’Ospizio, le pose rilassate dei pescatori in primo piano e il lento lavorio di alcuni altri intorno alle reti suggeriscono una calma e una serenità che fa sorridere, soprattutto paragonato al viavai di auto che scorre oggi davanti agli edifici dell’Ospizio di San Michele. Eppure, anche se oggi il panorama è notevolmente cambiato per via degli imponenti argini costruiti alla fine dell’Ottocento e per gli edifici costruiti in epoche successive che occupano lo spazio visivo, la magia che il pittore ha saputo cogliere e riprodurre sulla tela è ancora riconoscibile. Paolo Anesi fu uno dei più noti vedutisti della Roma del Settecento, anche grazie alla richiesta dei viaggiatori stranieri per questo tipo di dipinti, soprattutto per quelle di piccole dimensioni e facilmente trasportabili. Anesi tuttavia morì poverissimo nel 1773. OTTAVIA - GAM 1. Giacomo Balla (Torino 1871 – Roma 1958) Il dubbio 1907-1908, Galleria d’Arte Moderna di Roma La donna che con aria interrogativa si volta verso la luce e sembra sorriderci, è Elisa Marcucci che il pittore Giacomo Balla aveva conosciuto nel 1897. Il fratello di lei, Alessandro, così ricorda l’incontro: “Ivi conobbe mia sorella Elisa, cara, dolce, virtuosa creatura che affrontava con me e con mia madre le durezze di una vita fatta di lavoro e di rinunce. Non era Elisa insensibile all’arte e cominciò a nutrire per Balla un sincero affetto che le difficili condizioni del pittore accrebbero”. Elisa, che il pittore sposò nel 1904, divenne, con le figlie Elica e Luce, uno dei soggetti preferiti dall’artista che la ritrasse numerose volte. Questo ritratto fa parte di una serie di esperimenti sulla luce e risente dell’attenzione di Balla per la fotografia. Da questa arte il pittore sembra cogliere i suggerimenti per il taglio della composizione ravvicinata e per descrizione dei dettagli. Il risultato non è la copia di una fotografia ma un’opera pittorica di profonda intensità che affida alla luce il compito di indagare la realtà della figura che appare. La materia che compone il braccio e le spalle della donna sembra perdersi e dematerializzarsi nel fascio di luce che giunge da destra per portare l’attenzione dell’osservatore sul volto della donna che con il suo leggero sorriso e il lampo di luce che le brilla negli occhi sembra indagare sui nostri interrogativi più nascosti. Giacomo Balla, torinese di nascita, si stabilì a Roma nel 1895. Dal 1929 al 1958, anno della morte, visse in un’abitazione di Via Oslavia, nel quartiere Prati, fortunosamente ottenuta dopo una lunga e travagliata odissea, da un ente per l’edilizia popolare. 2. Benedetta Cappa Marinetti (Roma 1897 – Venezia 1977) Velocità di motoscafo 1922, Galleria d’Arte Moderna di Roma Il motoscafo è appena visibile sullo sfondo. Visibilissimi sono invece gli effetti che la sua velocità ha provocato sull’acqua, che si scompongono in una serie di figure geometriche che, riproducendo il moltiplicarsi delle onde, si diffondono ritmicamente verso l’orizzonte. L’immagine sembra divisa temporalmente in due parti. La prima precedente al passaggio del motoscafo ben visibile nelle zone di mare ancora indenne dal movimento, nel lontano orizzonte e nel cielo che evoca una serenità non estranea da toni lirici e delicati; l’altra, ben evidente nella parte centrale, dove l’onda ancora ribolle del turbinio delle eliche, acquista un significato simbolico e ideologico che va oltre l’affascinante gioco geometrico e coloristico. Non poteva che intitolarsi “velocità di motoscafo” questo dipinto, dato il contesto artistico e culturale in cui fu prodotto. Quest’opera di Benedetta Cappa Marinetti richiama molti dei lavori che Giacomo Balla dedicò alla visualizzazione dinamica dei corpi in movimento. La pittrice infatti frequentò lo studio del maestro del futurismo di cui fu allieva ed amica e dove nel 1917 conobbe Filippo Tommaso Marinetti, fondatore del movimento, che sposò nel 1923. Il rapporto che instaura con le forti personalità artistiche che la circondano e con gli artisti che gravitano nell’orbita dell’ambiente dell’avanguardia futurista non la relega al ruolo di comprimaria. In linea con la poliedricità del futurismo è anche scrittrice, poeta e scenografa nonché teorica e fondatrice di nuove forme di avanguardia pittorica come il Tattilismo e l’Areopittura. Fu presente con le sue opere per cinque volte alla Biennale di Venezia e fu la prima donna, nel 1930 ad avere un’opera pubblicata nel catalogo della mostra. Morì nel 1977 a Venezia. 3. Carlo Carrà (Quargnento 1881 – Milano 1966) Partita di calcio 1934, Galleria d’Arte Moderna di Roma Nel 1934, anno di composizione del quadro, l’Italia vinse per la prima volta il Campionato Mondiale di Calcio. A Milano, dove viveva Carrà, si svolse la semifinale dove gli azzurri batterono l’Austria per 1 a 0. E’ probabile che Carrà fosse presente allo stadio, ma anche se così non fosse è evidente nell’opera il richiamo agli azzurri vincitori della nostra nazionale e la passione che l’autore ebbe per questo sport. Il quadro è il fermo immagine di una concitata azione sotto rete che vede il portiere avversario circondato da un gruppo serrato di attaccanti azzurri e sui quali sembra avere la meglio alla caccia di un pallone sospeso metafisicamente nell’aria. L’immagine per la sua capacità di catturare l’azione richiama alla mente dei cultori del calcio la foto della rovesciata dello juventino Carlo Parola che divenne poi il celeberrimo logo delle figurine Panini. Rapide pennellate luminose definiscono il campo e lo sfondo che perdono ogni valenza realistica, se si esclude la striscia bianca che delimita l’aria piccola della porta e le linee e le ombre che accennano la porta, per lasciare i corpi in una sospensione che sembra divenire assoluta. Carlo Carrà aderì al movimento futurista collaborando spesso con la rivista Lacerba, dove venivano pubblicati gli scritti e le tesi dei suoi maggiori esponenti. Collaborò e fu amico di Giorgio De Chirico con il quale condivise la nuova tendenza artistica della pittura metafisica. Piemontese, visse grande parte della sua vita a Milano, dove morì nel 1966. 4. Amedeo Bocchi (Parma 1883 – Roma 1976) Nel parco 1919, Galleria d’Arte Moderna di Roma Grandi macchie di colore danno vita a questo ritratto di signora nel parco. La blusa gialla a contrasto con la lunga gonna viola definisce l’esile figura che si staglia su un prato verde irrorato dalla luce del sole. La donna siede con posa elegante sul bracciolo di una poltrona da giardino, proteggendosi con un grande cappello dall’intenso sole di una bella giornata estiva. La luce è così penetrante che provoca interessanti riverberi e giochi di colore. Il collo della donna si macchia delle sfumature viola della falda interna del cappello, mentre il legno della sedia assorbe la tonalità brillante del prato. E’ questo gioco del colore che rende il quadro affascinante e che dona mistero alla espressione della giovane donna ritratta. Lo sguardo malinconico contrasta con la vitalità della natura che la circonda. Un riflesso forse alle tragiche vicende della vita personale del pittore che vive la scomparsa prematura delle donne che amò e della figlia Bianca. Il quadro, realizzato nei primi anni della sua permanenza romana, fu esposto alla Biennale di Venezia del 1920 assieme ad altre cinque opere che hanno come protagonista la figura femminile. Successivamente il suo interesse si sposterà sullo studio della campagna romana, che lo renderà noto come “il pittore delle paludi pontine”. Amedeo Bocchi, parmense, si era trasferito nel 1915 a Roma. La sua casa sarà per il resto della sua vita l’abitazione studio all’interno del complesso di Villa Strohl Fern, lasciata in uso agli artisti dal mecenate alsaziano Alfred Strohl. 5. Francesco Trombadori (Siracusa 1886 – Roma 1961) Mattino a Ponte Sisto 1955, Galleria d’Arte Moderna di Roma Sulle acque calme del Tevere si specchiano le arcate di Ponte Sisto in questa veduta di Francesco Trombadori. La riva trasteverina è ritmata dalle geometrie cubiche degli edifici ottocenteschi mentre sull’altro lato del fiume si stagliano le forme sferiche dei platani. Sullo sfondo nella foschia mattutina appare la cupola di San Pietro. Lo scorcio visto da Ponte Garibaldi è silenzioso e immerso nella quiete delle prime luci del giorno. Una quiete resa malinconica dai toni grigi ed azzurri della composizione. Al centro domina il fiume che scorre lento sotto il nostro sguardo grazie al perfetto gioco dei chiaro scuri e dove si specchia un cielo statico e uniforme. Francesco Trombadori nacque a Siracusa nel 1886 e si trasferì a Roma nel 1907. Fu assiduo frequentatore del Caffè Aragno, su via del Corso, dove, nella famosa “terza saletta” si riuniva un folto gruppo di intellettuali ed artisti tra cui Ungaretti, Soffici, Longhi, Marinetti e Bragaglia. Visse per molti anni a Villa Strohl Fern, nel parco di Villa Borghese, ospite del mecenate alsaziano Alfred Strohl. Durante l’occupazione tedesca, nell’aprile del 1944, venne arrestato dalla Banda Koch, che operava nella capitale agli ordini dei nazi fascisti e interrogato per alcuni giorni.