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IL CANE DI ZENONE CORRE MOLTO PIÙ VELOCE DI ME

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IL CANE DI ZENONE CORRE MOLTO PIÙ VELOCE DI ME
IL CANE DI ZENONE CORRE MOLTO PIÙ VELOCE DI ME
«Esistono due libertà incondizionate: la libertà di pensiero e
la libertà di morire, che è la stessa di vivere»
Norman Zarcone 18.1.1983 – 13.9.2010
filosofo, musicista, poeta e anima romantica
Potrei sprecare lacrime d’inchiostro per far capire, ma dubito che
qualcuno capirà. Almeno che capirà completamente. Ho impiegato
mesi prima di poter riprendere a scrivere qualche riga (oggi è il 17
luglio 2011), non so nemmeno se avrò la forza di continuare. Il tempo,
purtroppo, non lenisce tutte le ferite, vi sono quelle insanabili.
Insanabili in quanto inconcepibili dalle nostre categorie mentali. La
logica non accademica con la quale siamo abituati a pensare ci programma in un certo modo, ci determina secondo le sue strutture d’acciaio e contro di esse nessun altro pensiero è possibile. La nostra logica usuale ci dice, ci insegna in qualche modo che la morte è un percorso della vita cui tutti siamo destinati. Senza eccezioni. Così, ricordo, fin
da bambino ho sempre creduto, seguendo questa logica umana, che
prima sarebbero morti i miei nonni, poi i miei genitori, poi ancora
saremmo morti io e mia moglie, infine i miei figli. Una logica molto
semplice, che non richiede grandi competenze filosofiche.
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Ma provate a immaginare un pomeriggio caldo di un 13 settembre,
lunedì. Un pomeriggio inquieto, anche se non potevo dare connotati
precisi a questa mia inquietudine. Di mattina ero stato a scrivere, cosa
che faccio ormai da decenni come lavoro e come attività dello spirito.
Mio figlio Norman era nell’altra stanza. La stanza in cui abitualmente
Norman studiava, sommerso di libri e formule logico-matematiche.
Però io ero entrato in quella stanza per cercare a mia volta un libro.
Norman non studiava, stava scrivendo qualcosa in un quadernetto a
quadri.
Lì per lì non ci feci caso. Per mio figlio, infatti, era la normalità
scrivere, quindi pensai stesse scrivendo qualcosa attinente alla sua tesi
di dottorato di ricerca in Filosofia del linguaggio. Ma l’inquietudine in
me c’era, anche se non connotabile in un motivo preciso.
Comunque lasciai Norman in quella stanza a scrivere, credendo,
alla fine, che egli stesse elaborando una delle sue equazioni matematiche. Infatti, mio figlio e la logica-matematica erano la stessa cosa.
Norman si era laureato con lode in Filosofia della conoscenza e
della comunicazione (tesi sulla logica intuizionistica), si era specializzato in Filosofia e storia delle idee (tesi sui princìpi filosofici di meccanica quantistica) e stava conseguendo un dottorato di ricerca – era al
terzo e ultimo anno - in Filosofia del linguaggio. Inoltre, tre giorni
prima di quel lunedì di settembre, cioè il venerdì, aveva superato il colloquio per diventare giornalista pubblicista. Quindi era diventato anche
mio collega. E ricordo la sua soddisfazione. Aveva superato un altro
ostacolo in direzione di un agognato futuro lavorativo. Aveva conquistato sul campo, con l’impegno e la dedizione – oltre che in virtù di un
cervello al fulmicotone – un altro titolo che io pensavo gli sarebbe servito per il suo ingresso nel mondo degli adulti. A ventisette anni, si
dovrebbe esser già pronti per un ingresso nel mercato del lavoro, in un
paese normale. Ma Norman voleva sempre andare oltre, amava le sfide.
Amava sfidare se stesso e i nuovi obiettivi che si poneva di fronte.
Così, fra la seconda laurea e l’ingresso al dottorato di ricerca, il mio
talentuoso figliolo si era iscritto in Fisica.
Ed aveva sostenuto pure un esame, congelato in attesa della conclusione del dottorato. Aveva superato per l’appunto Analisi matematica, prendendo addirittura 28. Lui che veniva dal liceo classico, lui che
veniva da Lettere, aveva preso 28 in una materia che molti altri, pur pro42
venendo da corsi di studi scientifici, ripetono più volte. Anche di questo
era felice. Perché, vedete, Norman coltivava l’amore per la filosofia, per
i classici latini e greci, ma il mondo della fisica, della meccanica quantistica, della logica-matematica lo appassionava in maniera particolare.
Così stava ore a compilare fogli con calcoli, equazioni e simboli logici.
Norman ebbe a dire al suo amico Giovanni: «Compà, se mi pagassero
per questo, io studierei tutta la vita». Ogni cosa, per mio figlio, era passione e impegno. Non conosceva mezze misure. Lo stesso per la musica: Norman suonava chitarra e pianoforte, era curioso dei suoni della
sua tastiera elettrica, che spulciava e cercava addirittura di razionalizzare, tant’è che da un effetto della tastiera, espresso dalla stessa con un
numero, 285, egli, insieme all’amico Gabriele (chitarrista), compose
una colonna sonora dal titolo “285”, per un cortometraggio del regista
palermitano Daniele Lupo. E teneva delle vere e proprie lezioni sul
genio di Mozart, ma soprattutto sulle caratteristiche matematiche della
musica di Bach. Io sono il padre, ovviamente altri potrebbero sospettare una mia esagerata partecipazione emotiva, ma chi conosceva bene
Norman, sa benissimo che non sto esagerando. Per me Norman era riuscito a sintetizzare lo spirito dionisiaco della filosofia, della musica e
della cultura in generale, con lo spirito apollineo, fatto di plasticità,
misura, forma, sentenza. Nietzsche lo avrebbe amato per questo.
Ma ne riparleremo. Riparleremo di tante cose se ne avrò la forza.
Infatti oggi ho ripreso a scrivere qualcosa dopo quasi un mese: siamo
al 15 di agosto. È Ferragosto. La gente va in vacanza. Già, in vacanza
come la mia vita…
Dicevo, provate a immaginare un pomeriggio caldo di un 13 settembre, lunedì. Un pomeriggio inquieto, di un’inquietudine metafisica:
palpabile ma non identificabile. Norman era stato tutta la mattina a
scrivere in una stanza, io nell’altra.
Verso le due del pomeriggio – quasi per sfuggire all’inquietudine
- mi appisolai dopo aver letto qualche pagina. Un sonno profondo,
come in deliquio. La mia mente desiderava autoproteggersi da quell’inquietudine sibilante, accettò l’abbandono della vita reale per rifugiarsi
nel sopore di un sonno altrettanto soporoso. Alle quattro pomeridiane
venni svegliato dal telefono. Era Giovanni, l’amico di Norman:
«Norman è in casa?» mi chiese, con una voce che non gli conoscevo.
Una voce che non saprei come definire: agitata? Non era mera agitazio43
ne. Inquieta? No, non era inquietudine. Era qualcosa che mi sfuggiva,
mi sfuggì. Dissi comunque che Norman non era in casa: «Sarà all’università».
«Giovà, ma che c’è, hai una strana voce…?».
«No, niente – replicò – sto cercando suo figlio, che come al solito
non accende mai il cellulare».
Infatti Norman aveva un rapporto molto superficiale con i telefoni, non li accendeva mai, non gliene fregava nulla di avere un telefonino di ultima generazione. Usava il telefono solo per telefonare e quando serviva a lui. Criterio saggio, aggiungo io. Solo che a volte rintracciarlo era un problema, per noi familiari e per gli amici.
Cionondimeno, salutai Giovanni, il quale oggi mi racconta, di aver
telefonato perché fino a quel momento lì vi erano dei dubbi che il giovane suicida di Lettere fosse Norman. Non era stato ancora riconosciuto dai parenti (i quali eravamo ancora all’oscuro).
Diciamo che mi svegliai male. Inquieto lo ero, nervoso lo diventai. Ma la mia testa non riuscì a concepire l’inconcepibile, quindi presi
per buona la soluzione più conveniente: il solito Norman che se ne fotte
del telefono. Stavo ascoltando un po’ di musica. Intanto si erano fatte
le cinque del pomeriggio. “Las cinco de la tarde”. Le famosissime cinque della sera del “lamento” poetico di Federico Garcia Lorca: «Ah,
che terribili cinque della sera! Eran le cinque a tutti gli orologi! Eran
le cinque in ombra della sera!».
Suonano alla porta. La polizia. Non so perché ma non mi preoccupai. Si preoccupa, infatti, soltanto chi ha qualche cosa da temere. A
tutta prima pensai ad una notifica, ad un invito a presentarmi in questura per via di una causa di mia zia Sarina contro una mia cugina. Pensai
di essere convocato come testimone, tant’è che abbozzai pure una battuta: «Non ho fatto niente – dissi con un sorriso forzato – vi prego, non
mettetemi le manette».
Invece i due agenti, con espressione seria: «È lei il padre di
Norman Zarcone?».
«Sì, perché che è successo?».
«Si segga» disse uno dei due poliziotti con una faccia fin troppo
seria.
«No, non mi seggo, mi dica che è successo. Ha avuto un incidente?».
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«La prego, si segga».
«Non mi siedo – dissi assalito dal terrore di un incidente stradale
con la moto - la scongiuro, Norman ha avuto un incidente?».
E gli agenti, seri, con poche parole, recitando un copione visto
chissà quante volte: «Si segga».
Io non potevo né volevo concepire l’idea più assurda, la tragedia,
quindi cominciai a dire: «È grave?».
Alle cinque della sera, gli agenti ripeterono non so per quante
volte: «Si segga».
Ed io tremante che ribattevo gridando, «no non mi siedo, mi dica
cosa è successo».
Una morsa di angoscia, terrore, paura, panico mi prese per intero.
Tremavo al mio interno (e credo anche all’esterno), ma chiesi, posi, la
domanda consequenziale a tutti quei “si segga”. La domanda che non
avrei mai voluto porre nella mia vita: « È morto?».
«Sì».
Volli tentare la domanda dei folli, dei senza speranza, aggrappandomi alla disperazione: «Ma… siete sicuri, forse non è morto, è grave»,
mi uscì dalla bocca, consapevole già della risposta.
«È morto, purtroppo».
Non riuscirei a descrivere il vento vorticoso che mi attraversò
corpo ed anima, un uragano non narrabile a parole, neanche selezionando miliardi di parole in tutte le lingue antiche e moderne.
Ricordo che urlai, emisi un urlo lamentoso che esprimeva una sentenza: «Norman è morto!» gridai fino a sentire male al cuore.
David, l’altro mio figliolo, che si era sposato da appena un mese e
che vive nella mia stessa palazzina, udì il mio grido e gridò a sua volta:
«Noooo! Non è possibile! Norman, sangue mio!».
Ho conficcato l’urlo di David nella testa come una scheggia, un
urlo di dimensioni inumane.
Ce l’ho sempre lì, nel cervello. Qualcosa di agghiacciante che mi
sconvolge quotidianamente al solo pensiero. L’urlo di David, la tragedia che prende corpo.
Poi mio padre (anch’egli abitante nella mia palazzina a tre piani),
il suo grido disperato di aiuto.
«Aiutatemi – gridava – Norman è morto».
L’affollarsi dei vicini, il lugubre cerimoniale di morte che si ripe45
teva nella sua liturgia funerea, i pianti di tutti, l’arrivo di mio fratello
Liborio e delle mie nipoti in lacrime, la casa invasa da presenze umane
che volevano farmi bere un bicchiere d’acqua e, a loro volta, mettermi
a sedere.
Ma alle cinque della sera, io gridavo, piangevo, avevo la certezza
certa della fine della mia vita: presi delle gocce di Valium, non so quante, tant’è che i due poliziotti pensarono che io volessi suicidarmi e tentarono di bloccarmi. Ma quello non era per me il momento del suicidio,
era l’inizio della tragedia. Mia moglie, Giusy, era andata dal dentista,
non sapeva nulla ancora, che anche la sua vita si fosse dissolta in un
viale di Lettere e Filosofia. Fra le prime foglie cadute come saluto
all’autunno ormai dietro l’angolo. Non so come lo seppe, forse andarono a prenderla, non ho mai avuto il coraggio di chiederle chi glielo
disse e come venne avvisata. Ma ricordo chiaramente il suo arrivo: la
folla che si apriva in due lasciandole lo spazio per entrare in casa, il suo
viso distrutto dalle lacrime, la sua disperazione che mi faceva raddoppiare, triplicare, decuplicare la sofferenza. Le lacrime di madre che
piangevano un corpo che ancora non era stato portato a casa. Sì, a
Lettere c’era un magistrato che avrebbe poi disposto la restituzione
della salma ai parenti, ma prima si doveva completare la liturgia funerea col riconoscimento del corpo. Gli agenti di polizia mi chiesero di
andare, non me la sentii di vedere mio figlio spiaccicato al suolo, così
andarono mio padre e mio fratello Liborio.
Arrivarono gli amici. Tutti. Un fiume di lacrime che nessuno potrà
mai comprendere appieno.
Capii la telefonata di Giovanni, il suo senso, il suo estremo tentativo, folle, di sentirsi dire da me: «Norman è a casa». Invece Norman
alle due del pomeriggio era andato all’università con la sua moto.
Doveva gridare il suo sordo “no” contro un sistema di micropotere che
avvelena le coscienze dei giovani, per poi genufletterli.
Alle tre, prima di salire al settimo piano della sua facoltà universitaria, Norman aveva preso un caffè al baretto di fronte a Lettere con
Alessandro, Fulvia e Alessia.
«Era serio», mi racconta Alessandro, e quando andò via per entrare nell’edificio dal quale si sarebbe lanciato, lo stesso Alessandro gli
disse: «Ci vediamo dopo».
Ma Norman, di solito allegro ed educato, quella volta si comportò
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in maniera strana: «Non si voltò al nostro arrivederci – racconta ancora l’amico – andò avanti senza fermarsi, girarsi, rispondere al saluto».
Nessuno presagiva l’epilogo. Ma lui ormai aveva deciso, niente avrebbe potuto fermarlo a quel punto. Salì al settimo piano, telefonò a
Giovanna, la sua ragazza, dicendole con trasporto amoroso: «Ricordati
che ti ho sempre amato e ti amerò per sempre». Poi ripose nel casco le
chiavi del motore e il telefonino spento e lui, lui che soffriva di vertigini, forse chinò il capo all’indietro e si lasciò cadere.
Alle cinque della sera, la mia vita è entrata nella fase del “non
essere”. Una vita senza più scopi, progetti. Solo attesa. Attesa che tutto
si compia. Non potrò mai dimenticare l’urlo di bestia ferita a morte,
lanciato da mio figlio David: la sua richiesta di aiuto. Un aiuto che non
sarebbe potuto mai arrivare. Ed ho davanti agli occhi l’immagine di
mia moglie che si fa largo fra due ali di folla per entrare a casa, dopo
che non so come, qualcuno l’aveva avvertita della tragedia. Ricordo il
viso della madre affranta. Un viso che non è più cambiato da allora.
Siamo tutti nella dimensione del “non essere”, del nulla divenuto la
nostra esperienza mondana. E ricordo mio padre, il vecchio nonnopoeta che ancora oggi parla con la foto di mio figlio.
«Ah, che terribili cinque della sera!
Eran le cinque a tutti gli orologi!
Eran le cinque in ombra della sera!»
Federico Garcia Lorca
Attorno alle sette di sera arrivò la bara. Chiusa. Sigillata. Non ho
potuto vederlo neanche per l’ultima volta: «Mi creda, è meglio così»,
mi disse l’uomo delle pompe funebri, rendendomi chiaro, qualora ce ne
fosse stato bisogno, delle condizioni in cui era ridotto il corpicino dell’amore mio.
Intanto il mio telefono divenne caldo, rovente: giornali e agenzie
di stampa mi chiedevano notizie su Norman e un mio commento: «Se
te la senti, però…», fu il copione dei miei colleghi cronisti.
Da giornalista, quantunque affranto e addolorato, in lacrime, non
potevo esimermi dall’esprimere le mie considerazioni a caldo, su quella che era diventata una notizia giornalistica. Anche perché volevo gridare a mia volta ai quattro venti la mia rabbia contro quel sistema fami47
listico e autoconservativo che alligna negli atenei italiani. “Quel” sistema da tutti conosciuto e riconosciuto col nome – ormai per me fatale di “baronie universitarie”.
E lo dissi subito: «Quello di Norman è un omicidio di Stato». Poi
illustreremo i commenti e gli articoli giornalistici, in una seconda fase,
parleremo dell’omicidio di Stato. Per ora voglio solo dire che nessun
tiggì nazionale si occupò della notizia: se ne occuparono diverse testate nazionali, oltre quelle regionali (parlo di carta stampata), ma nessun
tiggì. In compenso venne data la notizia “importantissima”, della quale
gli italiani non potevano fare a meno, che era morto Willy, il cane di
Enzo Iacchetti a “Striscia la notizia” (con tutto l’umano rispetto per la
simpatica bestiola).
E queste erano le notizie, insieme a quelle sulle allergie primaverili o al consumo estivo di gelati, che mandavano in bestia il mio collega Norman Zarcone.
In un secondo tempo se ne è occupato il Tg5 di Clemente Mimun.
Il direttore mi ha telefonato, scusandosi per non aver dato spazio al
fatto, poiché non era stato informato. Mi ha pure dato il suo numero di
telefono personale dicendomi di chiamarlo per ogni aggiornamento o
nuovo risvolto legato a Norman.
Da allora Mimun mi ha mandato una troupe ogni qual volta è accaduto qualcosa riferito a mio figlio. Lo ringrazio per la sua umanità, inusuale in un mondo di pescecani come quello del giornalismo. Un
mondo che fagocita, mastica una notizia, per poi lasciar cadere tutto nel
dimenticatoio. Mimun, che io non conoscevo, ha fatto eccezione e lo
ringrazio. Mentre un altro direttore di testata, al quale ho telefonato da
collega, ebbe a dirmi: «Io conduco un telegiornale, non mi occupo di
fatti privati». Miseria umana da aggiungere ad altre miserie umane.
La bara, i funerali. La bara con dentro il corpo maciullato di
Norman venne posta nel mio studio, quello studio che ormai era diventato più suo che mio. Il nostro studiolo, in breve, che dividevamo a
seconda delle nostre esigenze: ormai lui stava lì tutto il giorno a studiare, mentre io ci stavo la notte a scrivere i miei pensieri, che oggi mi sembrano tante idiozie messe in parallelo. Lo studio dove quella maledetta
mattina del 13 settembre 2010, Norman aveva scritto il suo diario, le ultime righe. Il suo lascito testamentario agli amici e al mondo. Un quadernetto a quadri che racchiudeva i suoi ultimi pensieri, ironici fino alla fine,
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quantunque densi di una profondità filosofica di lui degna.
Ma io, impegnato in un’altra stanza, non capii nulla, di questo mi
faccio una colpa, insieme a quell’altra più grave di averlo spronato indirettamente? - all’amore per la filosofia.
Già, l’amore per la filosofia.
«La filosofia non ha soltanto per origine
ma anche per fine l’inquietudine, e non la tranquillità»
Lev Šestov
Anche il suo professore di filosofia al liceo, l’ottimo Alessandro
Chiolo, si autocolpevolizza a sua volta per aver coltivato in Norman
quel germe filosofico, che comunque già apparteneva a mio figlio per
forma mentis maturata negli anni.
Chiolo era fiero di Norman, lo citava continuamente ai suoi alunni come esempio da prendere nello studio di quella materia, purtroppo
“complice” dell’umana inquietudine.
Un paio di volte, quando Norman aveva già conseguito la prima
laurea in Filosofia della Conoscenza e della Comunicazione con 110 e
lode, l’ex professore di liceo lo volle in classe per presentarlo ai suoi
nuovi alunni, fiero di mio figlio: «L’alunno ha superato il professore»,
soleva dire il professor Chiolo, riferendosi a Norman. E non lo diceva
con invidia, bensì con soddisfazione e orgoglio, da brava persona quale
è, innamorata dell’ingegno filosofico del mio nobile e sventurato
ragazzo.
Quel 13 settembre che ha devastato la mia vita, dicevo, dopo il
consenso del magistrato di turno, il corpo senza vita di mio figlio,
venne ricomposto in una bara posta lì, nel comune studio, accanto al
suo pianoforte, alle sue tastiere, alle sue numerose chitarre. In quello
che era il suo mondo per lunghe ore della giornata. Ponemmo sopra la
bara la bandiera dell’Inter, la sua squadra del cuore, la squadra del
cuore di suo fratello David. La mia squadra del cuore.
Quella squadra per la quale avevamo sofferto e gioito. Quella
squadra che nel 2010 aveva vinto tutto, realizzando il famoso “triplete”. Quella squadra che amiamo ancora oggi e che fa sempre parte della
nostra identità, del nostro vissuto esistenziale. E fu posta su quella bara
di legno, dove avrei dovuto essere io piuttosto che lui, la bandiera
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nerazzurra, sepolta poi per sempre nella tomba insieme a quelle spoglie
di giovane idealista, filosofo e musicista per talento naturale e dedizione allo studio.
E nello studio che dividevo con Norman, ormai diventato una
camera ardente, mettemmo il cd dei Genesis con la canzone “Firth of
fifth”: un brano con uno struggente assolo di pianoforte, che mio figlio
sapeva suonare benissimo. L’ho ancora presente con le sue mani sulla
tastiera del piano, mentre suona quelle note e dimena la testa per assecondare il ritmo. Lo immaginai lì, in quella bara di legno, ad ascoltare
quelle note a lui così familiari. Lo immaginai pure sorridente.
Immaginate invece voi, un pomeriggio del 13 settembre 2010,
provate a immaginare tutto quello che ho appena narrato, allora avrete
la dimensione concreta del nulla: questo concetto astruso caro a molti
filosofi, tanto dibattuto quanto inutilmente indagato, mi si parò dinanzi in tutta la sua amara forma.
E oggi vivo nel nulla, diventato mio malgrado esperienza umana.
Casa mia fu un viavai di gente. Tanta gente. Amici, conoscenti,
parenti. Si presentarono anche i miei colleghi delle televisioni a circuito regionale. Anche in questo caso tuonai ancora più forte: «Omicidio
di Stato».
Il giorno dopo ci fu il funerale. Ricordo il corteo funebre con centinaia di persone a porgere il loro ultimo saluto a Norman. Quanta gente
vedevo attraverso la cortina delle mie lacrime a dirotto.
Ma erano appena flash, immagini sfocate che si manifestavano a
intermittenza, perché di fatto non capivo e vedevo niente. Mi sentivo
immerso in una vasca piena d’acqua dove i suoni, i colori e quanto accadeva in superficie, era un insieme di percezioni confuse, ovattate, surreali.
Ricordo in maniera indelebile i volti addolorati e piangenti di mio
figlio David, di sua moglie Annalisa e di mia moglie Giusy. La madre
di Norman, colei che lo ha partorito e ha dato vita, ripetendolo, al
mistero della nascita. In quel momento stava ripetendo l’altra faccia
dell’identico mistero: la morte.
Quella morte giunta inopinatamente a devastare la vita di noi tutti.
Quella morte della quale conoscevamo già l’esistenza, per aver perduto altre persone care, ma che in quell’occasione si spogliò di ogni abito
a essa attribuito dall’immaginario collettivo, per esprimersi senza veli
in tutta la sua maestosità, quantunque dolorosa e lacerante.
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Non ho avuto il coraggio di guardarli in faccia i miei cari, di incrociare i loro sguardi, solo a caso, in pochi istanti del tragitto funebre, mi
sbattevano davanti agli occhi, senza che io le cercassi, le loro immagini quasi oniriche, avvolte dal nero manto della Passione, della Via
Crucis che il destino aveva voluto noi vivessimo in prima persona.
Mio figlio, il mio angelo in sembianze umane stava per essere
sepolto nella terra madre, espressione mitologica della nascita e della
morte, della trasformazione. Il mio angioletto, la mia anima pura, la
mia carne, il mio sangue, il mio senso dell’esistere insieme a David,
sarebbe stato avvolto per sempre dal suo sudario metafisico chiamato
filosofia e ospitato per l’eternità in quella dimensione che noi tutti cerchiamo di immaginare, senza riuscirvi. Non sarebbe più entrato a casa
sua. La sua casa adesso sarebbe stata la nuda terra e il suo ricordo, una
lapide marmorea.
«Non ho mai fatto, un sogno da sembrarmi così vero,
un incubo da cui non potersi mai risvegliare, da non
poter distinguere la veglia con l’oblio…»
dalla canzone “Anima, carne e sangue”
di Claudio Zarcone, dedicata a Norman
Arrivammo al cimitero, nella chiesetta di S. Orsola. Il sacerdote
ripeté il solito campionario di frasi tratte dai testi sacri, aggiungendo le
sue considerazioni rituali sul mistero della morte e il ricongiungimento al Padre Eterno. La bara era lì, a mostrarmi con la sua dirompente
presenza, la tragedia che mi aveva devastato, non mi interessavano le
belle parole a effetto del parroco. Sapevo che la mia identità era ormai
scissa per sempre e con la mia identità si era infranta ogni espressione
vitale della mia esistenza terrena. E forse per la prima volta, misi in
dubbio l’aldilà spirituale.
E da lì a poco quella figura geometrica fatta di legno e vernice,
sarebbe stata interrata per sempre, portandosi nella nuda terra anche la
mia vita e ogni progettualità del futuro.
Questo lo ricordo benissimo, mentre il parroco si appellava alla
bontà di Dio, che tutti i puri e i buoni accoglie nel Regno dei Cieli, io
gridai interrompendo la solennità della funzione religiosa: «Ma Dio
dormiva? Dio dov’era?».
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Qualcuno pose la sua mano sulla mia bocca per evitare che la mia
rabbia potesse diventare una bestemmia.
Il sacerdote, che era un cappellano militare prescelto da mio fratello Sandro, colonnello dell’esercito, si rivolse all’uditorio: «Claudio
si chiede se Dio dormisse. Forse Dio dormiva, nessuno può dirlo». Non
lasciò passare inosservata la mia domanda rabbiosa, disse molte altre
cose che non ricordo, perché ritornai nella mia letargia in veglia.
La chiesa era zeppa di gente, molti stazionarono fuori per impossibilità di trovare un posto al suo interno.
Quando si formò nuovamente il corteo funebre venni assalito da
una decina di cronisti che mi misero in bocca un microfono o un registratore: non ricordo davvero cosa dissi, ma sicuramente emisi ancora
il mio urlo (che emulava il berciare di una belva ferita) contro l’università e i baroni che detengono un potere inaccettabile in una società che
invece chiede a gran voce la meritocrazia.
«Non è così, che la strofa sarebbe dovuta finire,
fra le foglie gialle di un viale di Lettere e Filosofia,
e la paura dentro i tuoi occhi, e dentro i libri tuoi,
sillogismi resi vuoti dalla loro ipocrisia»
dalla canzone “Anima, carne e sangue”
di Claudio Zarcone, dedicata a Norman
Arrivammo dove non avrei mai pensato di arrivare con una bara,
quella di mio figlio: la cappella mortuaria di famiglia.
Ero come avvolto in una specie di follia delirante, gridavo, piangevo, bestemmiavo. No ce la feci ad assistere al rito della tumulazione,
non ebbi il coraggio di guardare e malgrado tutto, pur non avendo visto
la scena, ho sempre davanti agli occhi quella bara, con una bandiera
dell’Inter sopra, che viene calata nella terra bruna, a tenere compagnia
agli altri miei cari già sepolti prima di Norman.
Ricordo che i miei cugini Fabio e Gisella, mi abbracciarono e mi portarono qualche decina di metri più in là, per non farmi guardare la più terribile delle scene. La più terrificante delle visioni concesse ad un uomo.
Infatti, «un genitore non dovrebbe mai sopravvivere al proprio
figlio».
Ed io bestemmiai Dio per aver capovolto la logica delle cose natu52
rali. Logica: una parola, un concetto, una disciplina nella quale mio
figlio eccelleva e che in quel momento mi stava dimostrando l’illogicità della vita, della morte.
Il sit-in. Non riuscivo a guardare in faccia mia moglie e mio figlio
David. I due giorni successivi non li ricordo proprio. Ma di questo sono
sicuro: evitai di incrociare gli sguardi della mia famiglia.
Mi sentivo colpevole, mi sento colpevole per non essere riuscito
ad “aver cura” di mio figlio.
Sono colpevole perché non ho capito, anche se Norman non fece
trapelare mai nulla.
Io notavo il mio ragazzo sempre più incazzato (è questa la parola
giusta), non certo depresso.
Avessi notato un cedimento psicologico avrei fatto qualcosa, ma
Norman studiava, continuava a studiare regolarmente, poi il sabato o la
domenica usciva con gli amici a farsi la sua o le sue birrette. Aveva
anche studiato negli ultimi tempi per l’esame di giornalista ed aveva
seguito il seminario organizzato dall’Ordine ad Acireale (tre o quattro
giorni) per gli aspiranti pubblicisti.
E lo aveva pure superato il colloquio, il venerdì, tre giorni prima
di urlare al mondo intero la sua rabbia. Niente lasciava presagire quell’epilogo, malgrado la sua rabbia crescesse (ma ne riparleremo).
Ricordo che l’allora presidente regionale dell’Ordine dei
Giornalisti, Vittorio Corradino, dopo qualche giorno consegnò a me –
nel corso di una cerimonia – la tessera del “collega Norman Zarcone”.
E lo stesso Corradino, disse che il Consiglio dell’Ordine avrebbe deliberato l’assegnazione di una borsa di studio in memoria di Norman.
Uno dei tanti riconoscimenti postumi che mio figlio avrebbe mietuto.
Purtroppo questa è una storia troppo nota, bisogna diventare “postumi”
per veder riconosciuto il proprio merito, in questa società organizzata
massmediaticamente (con i propri tabernacoli di verità assolute da
comunicare), dove non si parla più di lavoro, bensì di economia e
finanza. Di spread. Dove i giovani meritevoli vengono prima frustrati
e poi istigati al suicidio. Come nel caso di Norman, dei tanti Norman
d’Italia.
Due o tre giorni dopo aver sepolto il mio ragazzo nella sua ultima
dimora, accanto ai suoi avi, con i ragazzi di Lettere e i suoi amici organizzammo un sit-in davanti alla sua Facoltà: musiche, poesie, immagi53
ni di Norman che scorrevano su un telone bianco, come l’anima del
mio ragazzo.
Il mio comizio improvvisato, nel quale esortai i ragazzi a non farsi
asservire dai baroni universitari, nell’illusione magari, di diventare
“baronetti” a loro volta.
Passarono anche dei professori, ma nessuno osò interrompermi, la
mia rabbia licantropesca trapelava già dal mio sguardo, da ogni parola,
dalla gestualità isterica. Immagino avessi gli occhi coi vasi capillari
rosso sangue. Lo stesso colore del sangue versato da mio figlio sul
suolo di quella maledetta università.
Passarono anche parecchi studenti, ma nessuno si fermò: chi per
paura di ritorsione da parte di qualche professore, chi, invece, facendo
spallucce dopo essersi fermato trenta secondi per pura curiosità.
Questa è la nota davvero negativa. Vedere i giovani che preferiscono ignorare le cose che accadono, come se non li riguardassero, o scegliere addirittura la sottomissione supina pur di non dispiacere i professori. Da lì in avanti ne avrei avuto altre conferme.
Si presentarono tutti i giornali e le televisioni regionali.
Cominciarono a far capolino i primi politici.
Io gridavo. Gridai contro il sistema corrotto che alligna negli atenei italiani; contro quella “parentopoli” che non dovrebbe proprio esistere nell’agenzia culturale per eccellenza, qual è l’università.
Il rettore dichiarò alla stampa che avrebbero intestato un’aula a
Norman e che gli sarebbe stato assegnato il dottorato alla memoria. Un
dottorato, di fatto concluso (Norman era al terzo e ultimo anno, mancavano pochi mesi alla sua conclusione), che, tuttavia, non è stato mai
assegnato. Ma la cosa mi interessa molto poco, perché virtualmente
Norman ha conseguito quel dottorato e, come si sa, i morti non godono di benefici terreni: quel “pezzo di carta”, che comunque avrebbe
avuto una sua valenza simbolica, mio figlio non potrebbe usarlo come
titolo per un concorso. Resta la cattiva coscienza del collegio dei
docenti che non ha assegnato il titolo alla memoria, per punire me, il
padre, il quale “parla troppo sui giornali” (così mi è stato riferito).
Una cattiva coscienza che si sarebbe manifestata ancora. In diverse occasioni.
Quel sit-in creò un bel casino massmediatico, poiché gli organi di
informazione diedero spazio alla notizia, con dei toni sottotraccia che
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accusavano le baronie feudali dell’ateneo di Palermo e l’eco del gesto
di Norman ormai era molto forte sul web, tant’è che anche le grandi
testate nazionali, prima timidamente, cominciarono ad occuparsene.
Il “Giornale di Sicilia” mise in apertura di pagina una foto molto
toccante nella quale si vedono mio figlio David e sua madre, la madre
di Norman, colei che l’aveva generato dal suo ventre, in lacrime. Due
figure straziate e strazianti a vedersi: «Non avevo mai assistito a un
pianto dirotto così pregno di struggente disperazione».
Il titolo era questo qua: “Università fra scandali e lacrime”. Già,
perché nello stesso periodo in cui Norman assumeva su di sé, a dispregio della propria vita, il compito di denunciare quel microsistema di
potere criminogeno, nell’ateneo di Palermo era scoppiato lo scandalo
degli esami falsi alla facoltà di Economia. Alcuni impiegati amministrativi, infatti, manipolavano il computer per far risultare sostenuti ad
alcuni amici, degli esami in realtà mai sostenuti. A seguito di questa
vicenda il rettore Lagalla diede corso a trasferimenti e licenziamenti.
Nella foto del giornale, davvero straziante, il fotografo coglie l’immagine di mia moglie, Giusy e di mio figlio, David davanti a Lettere,
abbracciati nel loro dolore, che mai avrebbero pensato – come me d’altronde – di dover un giorno condividere.
Ad ogni modo, quel sit-in fu denso oltre che di lacrime e rabbia,
anche di musica (suonata dagli amici di Norman), poesie e momenti di
intimità collettiva. Mio figlio, da morto, aveva dato la stura ad un percorso di riconoscimento da parte della società civile del suo gesto, fino
a diventare il simbolo di una generazione di giovani senza futuro, che
da lì a poco sarebbe stata identificata come “Generazione Norman”.
Dopo qualche giorno il rettore volle incontrarmi, a casa mia, per
portarmi il suo personale cordoglio e per discutere di alcune iniziative
in memoria del mio figliolo.
Ci sedemmo nel mio studio, lo stesso studio di Norman, lo stesso
studio dove mio figlio la mattina di quel maledetto 13 settembre aveva
annotato in un quadernetto le sue ultime riflessioni sulla vita.
In quell’occasione decidemmo di organizzare per il 13 ottobre, ad
un mese dalla tragedia, una manifestazione dedicata a mio figlio: “Il
mistero della libertà. Tutti insieme per Norman”. L’evento, preceduto
da una messa ed una fiaccolata, si svolse con grande partecipazione di
gente e televisioni.
Se si fosse trattato di una manifestazione normale, avrei potuto
dire che fu un successo di pubblico e di critica. Solo che quel “successo” si stava realizzando sulla pelle di mio figlio, sulla pelle della mia
famiglia intera. Un successo di musica e recital, sì, ma che grondava
sangue e dolore. Più che un successo, fu il prolungarsi, l’estensione
acustica del grido di Norman – mia anima, mio amore – mentre cadeva velocemente verso il suolo, attraversando ad uno ad uno i sette piani
di quella fottuta Facoltà, prima di sbattere contro il suolo.
Il rettore, a caldo, aveva rilasciato pubblicamente questa dichiarazione, confermata a casa mia: «Un giovane impegnato nella ricerca che
perde la vita così deve essere ricordato in modo costante non soltanto
con il titolo di dottore di ricerca ad honorem che pure l’Ateneo gli conferirà. Ho apprezzato la compostezza degli studenti, la presenza di rappresentanti istituzionali e ho massimo rispetto per la rabbia del padre,
al quale esprimo un cordoglio sentito, presente, non formale, rinviando
un confronto a un incontro privato e riservato. Le autorità accademiche
vigilano su correttezza e trasparenza di atti e procedure, ma purtroppo,
come ogni altra realtà che fa parte della società, l’Università non può
essere considerata in ogni sua parte del tutto impermeabile a sollecitazioni e pressioni. Questo, al netto di ogni facile strumentalizzazione,
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deve essere occasione di riflessione per tutti». Dichiarazione riportata
nelle news del Rettorato, con quest’altro passaggio fondamentale:
«Un’aula di Lettere intestata a Norman Zarcone, il dottorando di ricerca che si è suicidato gettandosi da una finestra della facoltà. Lo proporrà lunedì in Senato accademico il rettore dell’Università di Palermo,
Roberto Lagalla».
Ebbene, per quanto riguarda il dottorato alla memoria non si è
fatto nulla a tutt’oggi, né credo si farà, perché l’opposizione dei baroni
di Lettere è sempre stata forte, decisa, in qualche modo sarebbe stata
un’ammissione di colpa da parte loro, quantomeno morale.
Ma vi garantisco che me ne frego, perché mio figlio il suo valore
l’ha già abbondantemente dimostrato con le sue due lauree con lode,
col suo tesserino di giornalista, con la sua musica, con la sua “etica del
lavoro” manifestata facendo il bagnino d’estate. Il suo dottorato era
praticamente concluso e non sarà certo una mancata assegnazione alla
memoria a sminuire il talento di Norman e la portata simbolica del suo
estremo gesto.
Non sarà un miserrimo “pezzo di carta” a certificare la serietà
nello studio e il profitto, di mio figlio.
Lascio questi signori nella loro pochezza umana e civile.
Autunno caldo. Quell’autunno 2010 fu molto caldo. Portò guerra
e tempesta. In qualche modo isolò dal punto di vista morale e culturale quel sistema autoreferenziale che da lì in avanti avrei attaccato senza
tregua e da lì in avanti avrei assimilato alla mafia: la struttura baronale
sulla quale si reggono – purtroppo – le università italiane. Da Nord a
Sud.
Chiarisco: non avevo chiesto niente, ma furono il rettore Lagalla,
pezzi consistenti dell’opinione pubblica, il popolo di Facebook e la
politica italiana ai suoi massimi livelli a prospettare l’ipotesi di un’aula di Lettere intestata a Norman.
Cominciò un giro vorticoso, vertiginoso di dichiarazioni a mezzo
stampa: tutti insieme per Norman, tutti insieme per un’aula alla sua
memoria, che fosse memento e monito.
Ma, ovviamente, si è mai visto il tacchino allestire i preparativi per
il cenone di Capodanno?
Così i baroni di Lettere, prima sommessamente, poi apertamente,
iniziarono a loro volta una sorta di “campagna d’autunno”. In diversi
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consigli di Facoltà espressero il loro diniego all’intitolazione dell’aula,
argomentando in maniera davvero risibile. A volte al di là dei confini
di quell’umanità cui la gente ama appellarsi.
Gli stessi baroni si recarono quasi giornalmente dal rettore, per
invitarlo a non sposare la “folle idea” di un’aula per Norman, o sarebbe stata l’ammissione di colpa.
Altro che dottorato alla memoria: i baroni volevano annichilirmi.
Volevano mettermi a tacere, ma io, invece, rincarai la dose.
Per alcuni professori di Lettere avrei dovuto prima portare le prove
della colpa, avrei dovuto portare il nome del colpevole al rettore, sennò
perché intitolare un’aula in assenza di colpa e colpevole?
Argomentazione retorica che non esitai a bollare come tale pubblicamente.
A parte il fatto che se avessi avuto prove documentali su colpa e colpevole, non le avrei consegnate al rettore, ma alla magistratura, com’è
naturale che fosse, io, in concreto non avrei potuto fare alcun nome, perché so solo quello che in tutt’Italia si dice (cioè che gli atenei sono in
mano ai baroni e la casistica è dalla mia parte) e quello che mi hanno raccontato alcuni universitari. Quello che mi raccontava Norman. Tra l’altro
Norman, suppongo non mi abbia raccontato tutto, primo, perché egli era
un ragazzo molto riservato, e secondo, perché evitava di preoccuparmi al
di là dei suoi moti di rabbia verso il sistema. Ma il senso delle sue accuse
era ed è chiaro, aperto, privo di retropensieri ascrivibili a pregiudizi o
simili. Le università italiane – ahinoi – sono dei grossi meccanismi che si
muovono per via familistica o di sudditanza a un barone. Non lo dico
certo io per la prima volta. Non lo diceva neanche Norman per la prima
volta. Solo che mio figlio ha dovuto esperire sulla propria pelle i risultati
di quel mastodontico totem di guarentigie e raccomandazioni. E me ne
raccontò a tal proposito, tentando subito dopo di ridimensionare, col suo
fare ironico e istrione, ogni cosa, per non preoccuparmi. Preferì somatizzare, assumere su di sé l’ansia e la frustrazione, secondo i canoni del suo
modello di vita altruistico e intellettualmente severo.
Una cosa davvero strana, atipica mise in moto quell’autunno
palermitano. Un attimo, prima di continuare la narrazione devo dare
una notizia (altre le darò in seguito) pubblicata oggi, mentre scrivo, dal
sito on line “Affaritaliani.it”:
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Bari, esami a luci rosse.
Sotto accusa il prof di ingegneria
Lunedì, 26 settembre 2011 - 15:41:27
D’altronde, nei giorni successivi al gesto di Norman, giornali e siti on
line titolavano notizie di questo tenore:
La morte di Zarcone diventa un simbolo.
Oggi insieme tutte le sigle studentesche
– In Piazza per Norman
Posted: 16 settembre 2010 by fenjus in Società
Quanto ciò solo per la memoria (ma potrei inondare centinaia di
pagine), per far comprendere quanto immotivato e strumentale fosse
l’atteggiamento dei baroni di Lettere, quando lanciavo i miei strali al
vetriolo contro i detentori di quel potere tentacolare negli atenei italiani. Come se io avessi scoperto il mistero del Graal. Secondo i rappresentanti della “casta” accademica, “irritanti nella loro rispettabilità stereotipata e nella loro spocchia”, io, padre addolorato, distrutto, privato
del bene più prezioso, non avrei dovuto puntare il dito contro il sistema. Follie di deliranti figli di quel sistema e dei loro vassalli. Non ci
pensai due volte: urlai a squarciagola “mafiosi!” e lo griderò ancora.
D’altronde un altro contributo librario (“L’università truccata” di
Roberto Perotti) cala un carico da undici punti contro le baronie feudali vestite con gli abiti di scena della cultura. Qui sotto, lo stralcio della
recensione del libro edito da Einaudi, da me ripreso dal sito
“DireFareScrivere”:
Università: non-concorsi a Parentopoli,
tra scandali e tagli, riforme e proteste
Parentopoli a Bari. Ma anche a Messina, a Napoli, a Roma…
Il capitolo sul nepotismo dilagante in numerose università italiane, al di là del
caso eclatante della facoltà di Economia di Bari, serve a comprendere alcuni
aspetti scandalosi dei concorsi a cattedra e a motivare perché sia così urgente e necessario rivedere, non solo i meccanismi di ingresso, ma anche le tipologie di intervento per contrastare il cosiddetto baronato.
59
Questa invece la recensione del libro del professor Perotti sul sito
www.ibs.it:
L’università italiana sta morendo di nepotismo […] Questo saggio è la fotografia
impietosa di una catastrofe educativa che
pesa sul futuro dell’Italia. Ma anche la
coraggiosa proposta di alcune riforme
semplici e radicali, per rompere definitivamente con decenni di palliativi. Un
sistema dove sia nell’interesse stesso
degli individui cercare di fare buona
ricerca e buona didattica ed evitare comportamenti clientelari. Un sistema in cui
ogni ateneo possa fare quello che vuole,
ma dove chi sbaglia sia chiamato a pagare. Un sistema che elimini la straordinaria iniquità attuale, in cui le tasse di
tutti finanziano l’università gratuita
dei più abbienti […]
Sempre sulla denuncia del professor Perotti, leggete ancora questo articolo di Gian Antonio Stella, che ha davvero dell’incredibile:
La prof che non pubblicò una riga
Università malata. La denuncia di Roberto Perotti: clientelismo e sprechi
Il bello del calcio è che, qualche volta, può accadere l’impossibile: la
Corea del Nord che batte l’Italia, l’Algeria che batte la Germania,
Israele che batte la Russia. Il brutto dell’università italiana è che troppo spesso accade l’impossibile. Come all’Università di Bari, dove un
concorso del 2002 dichiarò idonea alla cattedra l’aspirante docente
Fabrizia Lapecorella, che aveva zero pubblicazioni nelle quattro categorie delle 160 riviste più importanti del mondo, zero nelle prime
venti riviste italiane, zero in tutte le altre, zero libri firmati come autore, zero libri come curatrice, zero libri come collaboratrice. E ovviamente zero citazioni fatte dei suoi lavori: come potevano citarla altri
studiosi, se non risulta aver mai scritto una riga? Eppure, battendo una
concorrente che aveva un dottorato alla London School of Economics,
10 pubblicazioni e 31 citazioni sulle riviste nazionali e internazionali
60
più importanti, vinse lei. Destinata a essere promossa poco più di tre
anni dopo, dal terzo governo Berlusconi, direttore del Secit per diventare col secondo governo Prodi esperto del Servizio consultivo e ispettivo tributario e infine, di nuovo con Tremonti, direttore generale delle
Finanze. Una carriera formidabile. Durante la quale, stando alla banca
dati centrale di tutte le biblioteche italiane, non ha trovato il tempo per
scrivere una riga […]
Gian Antonio Stella
30 settembre 2008
C’è qualcuno così audace di voler spezzare una lancia – o anche uno
spadino, un pugnale, un coltellino da taschino - a favore di “certo”
mondo accademico che grida allo scandalo quando io ripeto gli stessi
concetti?
Vi è qualche meditazione filosofica da mettere sul tavolo, di fronte a
tanto squallore documentato? Mah…
E allora che ve ne pare di quest’altra chicca del quotidiano britannico
“The Independent” , scritto a pochi giorni dalla morte di Norman (da
me ripreso nella traduzione del “Corriere d’Italia”)?
Feudi di famiglia accusati di contaminare le università
italiane
di Michael Day, da Milano
Sabato 25 Settembre 2010
Lo stato delle nostre università. Quello che di noi pensano gli altri.
Prosegue una inchiesta iniziata proprio dal Corriere d’Italia. Un articolo da The Independent
Il declino delle università italiane, nessuna delle quali figura nella top
200 mondiale, è un motivo di costante dibattito in Italia. Ma la ragio-
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ne di questa spiacevole condizione è messa a nudo da una recente
ricerca che mostra l’estensione del fenomeno del nepotismo nelle università italiane. Il potere dei baroni sta prosciugando i cervelli nel
Paese. Il magazine L’Espresso, insieme con il quotidiano La
Repubblica, hanno rivelato un alto grado di parentela all’interno degli
atenei italiani.
All’Università La Sapienza di Roma, ad esempio, un terzo degli insegnanti ha parenti come colleghi. Nel complesso, è dieci volte più probabile trovare dipendenti della stessa famiglia nelle più alte istituzioni di un Paese piuttosto che in altri posti di lavoro. Roberto Perotti,
professore di economia dell’Università Bocconi di Milano e autore de
“L’Università truccata”, ha confermato che “è un dato certo che il nepotismo si associa a più bassi standard di qualità universitaria.
Se, a Stanford, un professore desse un posto di insegnante a sua
moglie, farebbe subito scalpore. D’altro canto, nelle più importanti
università statunitensi, la gente si trova lì per merito”. Il Professor
Perotti ha dichiarato che le scoperte de L’Espresso seguono le fila delle
nuove ricerche che egli stesso sta per pubblicare. “In alcuni dei dipartimenti universitari d’Italia, il 30% dello staff è composto da parenti
prossimi. Nepotismo e corruzione sono dovunque, sebbene ci siano
alcune zone che sembrerebbero più colpite”. L’Università di Bari, in
Puglia, risalta subito alla mente.
La facoltà di Economia, più che un’università, al Professor Lanfranco
Massari sembrerà casa sua visto che gli non sarà difficile incontrarvi i
figli Lanfranco Jr, Gilberto e Giansiro, o i suoi pronipoti, che lavorano
allo stesso dipartimento. Alla facoltà di architettura di Palermo, il professor Angelo Milone si gode invece la compagnia del fratello, di suo
figlio e sua figlia, in qualità di ricercatori. Anche il Rettore di uno dei
principali istituti d’Italia è nominato nell’inchiesta. Luigi Frati, Rettore
e Professore di medicina all’Università La Sapienza, ha sia moglie che
figlia impiegati nello stesso dipartimento. Suo figlio lavora invece nella
vicina facoltà di Scienze mediche.
E ancora, il Clan Dolci, capitanato dal Professore Giovanni Dolci, gode
di una ancor e ben più grande presenza di componenti della sua famiglia nella facoltà di medicina dello stesso ateneo romano. “Noi ricerchiamo il valore della meritocrazia. Cosa che in Italia non è usanza”,
ha commentato il Professore Frati, negando che i membri della sua
famiglia avessero ottenuto il lavoro grazie a favoritismi. Comunque,
uno psichiatra recentemente laureatosi in medicina presso La
Sapienza, ci ha confessato di aver lasciato Roma per andare a cercare
lavoro a Milano, visto che il nepotismo sembrerebbe essere un feno-
62
meno meno diffuso nel Nord del Paese.
Alessio Vincenti, che ha anche condotto qualche ricerca ad Harvard,
negli Stati Uniti, senza dubbio il top delle scuole di medicina al
mondo, ci ha confessato: “Non potrei mai trovare lavoro a Roma perché non ho agganci. Questa è l’Italia, la terra del cognome. È disgustoso. Ma è così e tutti lo sanno”. Diverse inchieste negli anni hanno
più volte denunciato la fuga di cervelli italiani verso le università statunitensi o inglesi, che possono dar loro un riconoscimento per il loro
lavoro di insegnamento e ricerca piuttosto che per le loro parentele.
D’altronde, nessun ateneo italiano appare nella classifica delle migliori università 2010 stilata dal Times, mentre sono presenti università
del Taiwan, Sud Corea ed Egitto. Nella concorrente lista redatta dal QS,
il più alto posto registrato da un’università italiana è il 176mo, ricoperto dall’ateneo di Bologna.
A Palermo, la scorsa settimana, Norman Zarcone, dottorando
senza borsa in filosofia, si è suicidato dopo aver rivelato al padre di
essere preoccupato per il proprio futuro lavorativo e di non credere di
avere possibilità di poter rimanere a lavorare nel suo dipartimento universitario anche dopo la fine della borsa triennale.
Io sono pazzo a sostenere le mie tesi con rabbia? Norman era bipolare quando ha voluto lanciare il suo lancinante messaggio, l’ultimo,
dopo aver provato schifo per quell’università scoperta “truccata”, purulenta e che dapprima aveva amato tanto?
Pertanto commentiamo – dopo aver giurato a noi stessi che non
cadremo nella trappola del turpiloquio - l’ulteriore notizia, pubblicata
da alcuni quotidiani e dilagante sul web:
Parentopoli. Norman Zarcone e Giacomo Frati:
due storie, due destini
22 Dicembre 2010
Università la Sapienza di Roma, Giacomo ha 36 anni, sta passando in questi giorni dal ruolo di professore associato a quello di
ordinario. Essere già professore ordinario a 36 anni è una specie di rarità nel mondo universitario italiano, di quelle che farebbe pensare che della riforma della Gelmini quasi quasi non ci
sarebbe bisogno. Se a 36 anni si può raggiungere il gradino più
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alto della scalata alla carriera accademica c’è speranza per tutti,
anche per i futuri aspiranti giovani ricercatori.
Le procedure formali per il passaggio all’ordinariato sono andate in porto il 19 novembre. Giacomo ha battuto ben 25 concorrenti (di cui 24 più anziani di lui). Tutto dovrebbe svolgersi
come da copione, e proprio alla vigilia della riforma Gelmini.
Peccato che Giacomo di cognome faccia Frati, e che sia il figlio
del Magnifico rettore della Sapienza, Luigi. Giacomo Frati, dunque, sarà ordinario nella stessa Facoltà, quella di Medicina e
Chirurgia, in cui fino a poco tempo fa insegnava non solo il
padre Luigi, ma anche la madre Luciana Rita Angeletti, prof.
ordinario di Storia della medicina oggi in pensione, e dove insegna anche la sorella Paola, ordinario, laureata in
Giurisprudenza.
Università di Roma Tor Vergata. Paola Rogliani sarebbe stata
assunta lunedì come professore associato alla cattedra di malattie dell’apparato respiratorio. Niente di strano, a prima vista,
solo una concomitanza di tempi, in previsione dell’approvazione della riforma dell’Università. Peccato che la Rogliani sia la
nuora del rettore della seconda università di Roma, Renato
Lauro, 71 anni, ex preside proprio di Medicina e Chirurgia.
Rettore che ha in università anche il figlio Davide, 41 anni, ordinario di Endocrinologia, stessa cattedra del padre prima di lui.
Se il ddl Gelmini fosse stato approvato prima, probabilmente né
Giacomo Frati né Paola Rogliani avrebbero potuto ottenere quel
posto nell’università. Forse a torto, per i loro meriti, questo
vogliamo dirlo, ma probabilmente a ragione, come l’ennesimo
esempio di parentopoli di successo .
Se il ddl Gelmini fosse stato approvato prima, probabilmente il
ministro non avrebbe mai fatto quella telefonata di solidarietà e
di cordoglio a Claudio Zarcone, il padre di Norman, il dottorando palermitano che a settembre scorso si è suicidato perché
non aveva più speranza per il suo futuro […]
Facciamoci del male adesso, evisceriamo con la scrittura le interiora incancrenite e vediamo come potranno osare l’indignazione gli
appartenenti alla Cupola accademica, da Nord a Sud, questi “predatori sociali” che hanno il coraggio di sentirsi una spanna più su degli altri.
Vediamo se tracotanza e certezza dell’impunibilità cammineranno di
pari passo e se qualcuno di lorsignori oserà fare ascoltare il proprio
64
“oscuro e disgustoso mormorio”, il proprio degradante “io non c’entro
niente però, sono gli altri a fare simili cose, io no”.
Mi viene in mente un film stupendo di Elio Petri del 1970, con
Gian Maria Volonté e Florinda Bolkan: “Indagine su un cittadino al di
sopra di ogni sospetto”.
Il dirigente dell’Ufficio politico della Questura di una città italiana, dall’apparente sicurezza ma con gravi, evidenti, disturbi della personalità, uccide la propria amante. Ebbene, l’arroganza di questo funzionario di polizia lo porta ad una anomala sfida: anziché preoccuparsi di non lasciare tracce, sentendosi al di sopra di ogni sospetto, semina indizi che condurranno a lui. Ma va addirittura oltre: si autodenuncia ai suoi superiori immaginando il finale della storia. Malgrado gli
indizi divenuti prove schiaccianti, quegli stessi superiori che avrebbero dovuto arrestarlo, alla fine ridimensionano tutto, impauriti dallo
scandalo che avrebbe provocato l’attestazione di colpevolezza del funzionario di polizia. Pertanto, invece di fare giustizia e servire le leggi
dello Stato, smantellano “le prove ad una ad una, perché egli, come
poliziotto, non può essere che al di sopra di ogni sospetto”. In breve, un
film sui paradossi dell’Autorità che gestisce il potere e un atto d’accusa verso quel potere medesimo, divenuto “malattia sociale”. Qualche
accostamento a caldo?
Somiglianze, similitudini, voli di fantasia, sospetti, pensierini
maliziosi? Fate voi.
Ad ogni modo meditiamo attentamente sulle righe che seguono.
Ripeto: attentamente.
IL LIBRO-INCHIESTA DI DAVIDE CARLUCCI E ANTONIO CASTALDO
L’università dei baroni: ecco come funziona
Un viaggio tra truffe, favori e abusi di potere: i meccanismi
perversi delle fabbriche di cultura italiane
MILANO – Sconcertante, devastante o umiliante? E’ difficile trovare
gli aggettivi giusti per descrivere al meglio lo stato dell’università
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italiana dopo aver letto Un Paese di Baroni, il libro appena uscito
di Davide Carlucci e Antonio Castaldo su «truffe, favori, abusi di
potere. Logge segrete e criminalità organizzata. Come funziona
l’università italiana». Una lunga, dettagliata e approfondita inchiesta con nomi, cognomi, date, pochissime opinioni e tanti fatti .
Un’inchiesta che lascia senza fiato: perché se è vero che tutti sanno
(o dicono di sapere) che è prassi comune e diffusa che per avere
certe cattedre e varcare certe soglie
occorra essere figlio di, amico di o
sponsorizzato da, è altrettanto vero che
leggere 309 pagine che raccontano di
privilegi, concorsi truccati, reti di
parentele intrecciate, infiltrazioni
mafiose, gerarchie nazionali su chi
comanda e dove, criteri gerontocratici
di scelta, lobby bianche, rosse e nere,
intrecci politici ed economici nella selezione dei docenti fa un effetto devastante […]
Alcuni in Italia si chiedono ancora perché nelle graduatorie sulle migliori università del mondo, i nostri atenei facciano sempre una pessima figura. Inutile
chiederselo dopo aver letto questo libro.
Peggio: frustrante. Paolo Bertinetti, preside della facoltà di lingue e
letteratura a Torino afferma di «non aver mai conosciuto nessuno
che sia diventato professore solo in base ai propri meriti». Stefano
Podestà, ex ministro dell’Università nel 1996 ha dichiarato: «I rettori
italiani? La metà di loro è iscritta alla massoneria». Mentre, dati
alla mano, Carlucci e Castaldo scrivono che «i rettori hanno famiglia
in 25 delle 59 università statali italiane. Quasi il 50% (il 42,3 per l’esattezza) ha nella medesima università un parente stretto, quasi sempre
un altro docente». Più chiara ancora la ricostruzione di un dialogo tra
docenti nella deposizione rilasciata all’autorità giudiziaria da
Massimo Del Vecchio, professore di matematica a Bari – «Se non
vengo io, tu non sarai nominato preside» – «Che cosa vuoi in cambio?» – «Due miei parenti falli entrare…». Carlo Sabba, uno dei professori che si è ribellato al sistema dei concorsi truccati, conclude amaramente: «Se non si spezza questa catena, i giovani saranno a
immagine e somiglianza di chi li ha arruolati, e tutto rimarrà
uguale».
Il libro-inchiesta di Carlucci e Castaldo vuole essere «un’istan-
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tanea sullo stato dell’università italiana e delle élite che la governano, nel momento di più profonda decadenza della sua storia». Nel
volume si ripercorrono le vicende che hanno portato intere dinastie
familiari alla conquista di tutte le cattedre disponibili nelle città italiane «calpestando tante volte il merito e eludendo le regole democratiche; con intere bande di cattedratici che si sono spartite il
territorio proprio come fa la mafia; raccontando il sistema dei
baroni e la fitta trama di scambi tra potere politico e mondo universitario. Il tutto a detrimento di chi crede nelle università e nell’eccellenza dello studio con i centinaia di professori, ricercatori e
lettori che nonostante i soprusi e le generali storture di un sistema
che non funziona, resistono e lavorano» […]
L’inchiesta si fa viva. Viene descritto nei dettagli il “sistema mafioso” che vige all’interno di alcune università (caso limite a Messina,
dove «le indagini hanno mostrato le infiltrazioni mafiose e della
‘ndrangheta» e «la cosca Morabito è penetrata profondamente
all’interno della Facoltà di medicina e chirurgia» come scrive il pm
Gratteri della dda di Reggio Calabria). Viene raccontato come agisce la massoneria in cattedra («A Bologna ci sono due lobby, massoneria e Cl. Controllano la sanità e la facoltà di Medicina. E’ sempre stato così. E’ uno spaccato inquietante» dice Libero Mancuso,
ex magistrato, assessore comunale a Bologna). Viene spiegato il
meccanismo della grande truffa dei concorsi («C’è l’assenza di
qualsiasi trasparenza nello stabilire chi merita e chi no. Pilotare i
concorsi è una pratica assolutamente sicura e quasi indolore. I
docenti sanno di partecipare a un teatrino. Il nome di chi deve
vincere si conosce in anticipo. Talvolta è davvero la migliore delle
scelte possibili. Altre volte decisamente no. Ma la domanda è: se
già si conosce il vincitore perché spendere tanti soldi per indire i
concorsi?»). Si scende poi nei dettagli della Parentopoli d’Italia (Tre
esempi soli tra i tanti? «A Roma il rettore è Luigi Frati, ex preside
di facoltà di Medicina dove c’era la moglie, ex professoressa di
liceo diventata ordinario, il figlio, chiamato a insegnare sotto la
presidenza del padre, e la figlia, laureata in giurisprudenza… A
Napoli nelle facoltà di Economia e Commercio della Federico II
sono state rintracciate 140 parentele accademiche su un totale di
877 docenti... A Bari a Economia imperversano famiglie come i
Massari: otto i docenti con questo cognome, tutti imparentati tra
loro») […]
Iacopo Gori
11 febbraio 2009 (ultima modifica: 13 febbraio 2009)
67
E ditemi anche ora, “voi critici, voi personaggi austeri, militanti severi” - ovviamente dopo che io abbia chiesto a priori “scusa a vossia” sapreste illuminarmi sul senso, quantunque di per sé scontato, di questo ennesimo articolo (qui riportato solo nelle righe iniziali e nella titolazione per risparmiarvi la sfilza di “docenti parenti”)?
Padri e figli controllano le facoltà. Una Cupola di clan accademici
si spartisce il sapere
Docenti parenti: 58 a Medicina, 21 a Giurisprudenza, 23 su 129
professori ad Agraria
Palermo, 100 famiglie in cattedra
La “parentopoli” dell’università
di ATTILIO BOLZONI e EMANUELE LAURIA
PALERMO - Una Cupola dotta si spartisce il sapere di Palermo.
Sono cento le famiglie che hanno l’Università nelle loro mani, cento
clan accademici fatti di figli che salgono in cattedra per diritto ereditario, fratelli e sorelle che succedono inevitabilmente ai loro
padri e ai loro zii, nipoti e cugini immancabilmente primi al pubblico concorso. Regnano in ogni facoltà. Si riproducono nell’omertà.
Docenti parenti […]
(24 ottobre 2008)
Oppure, tanto per far capire quanto io sia folle e squilibrato, diamo
un senso (anzi datelo voi) alle dichiarazioni dure, perentorie, del professor Armando Gnisci, insigne cattedratico con una copiosissima attività pubblicistica e universitaria alle spalle, fatte nel corso di un’intervista al “Giornale di lettere e filosofia” del 20 ottobre 2010:
«Ai giovani che intendono intraprendere la carriera universitaria
dico che la situazione è infame. Un mio allievo palermitano, che ho
esortato a scrivere un saggio dalla sua bella tesi di laurea, mi mandò
una mail segnalandomi un fatto di cronaca agghiacciante: Norman
Zarcone, dottorando di 27 anni in Filosofia del Linguaggio alla facoltà di Lettere di Palermo, stava per presentare la tesi di dottorato ma si
era buttato dal settimo piano. Il padre, forse eccedendo, parla di omici68
dio di Stato. Questo giovane pre-ricercatore era molto preoccupato
dalla precarietà che lo attendeva nella difficile carriera di ricercatore.
Prima che essa arrivasse lo ha consumato: la precarietà! Se è questo il
destino che la nostra malasocietà offre alle giovani intelligenze dico
che è veramente difficile dare speranza ai ragazzi. Se l’unica speranza
siete voi, questo non vale per fare carriera universitaria. Dare speranza
su questo punto è nocivo, non si può illudere i giovani. L’assegno di
ricerca e il posto di dottorato lo daranno ai “figli, ai nipoti, agli amici
di ‘QUELLI’ che comandano”. Non puoi non incitarli a provarci, ma
non puoi illuderli minimamente. Anzi, bisogna educarli prima. La
situazione è la peggiore possibile, soprattutto nelle facoltà umanistiche.
Il padre di Norman Zarcone non è un barone di medicina, non è un editore famoso, non è un capomafia né un governatore. Se il padre fosse
stato uno di queste eccellenze forse Norman avrebbe avuto meno angustie d’animo per il suo precariato».
Il professor Gnisci, parla in maniera lapalissiana, non usa termini
edulcorati. Certo, in qualche modo lascia aperta la porta ad una piccola cautela sul cosiddetto “omicidio di Stato”, infatti si affida alla locuzione, «il padre, forse eccedendo, parla di omicidio di Stato». Ma nella
sua conclusione, nell’asserzione relativa alla carriera universitaria, non
tira indietro la gamba, anzi entra a gamba tesa verso il sistema accademico italiano: «Il padre di Norman Zarcone non è un barone di medicina - sottolinea Gnisci - non è un editore famoso, non è un capomafia
né un governatore. Se il padre fosse stato uno di queste eccellenze forse
Norman avrebbe avuto meno angustie d’animo per il suo precariato».
Lo dice a chiare lettere. E ribadisce a lettere altrettanto chiare, che
«l’assegno di ricerca e il posto di dottorato lo daranno ai figli, ai nipoti, agli amici di ‘QUELLI’ che comandano».
Senza giri di parole, lo afferma un noto professore universitario,
non il padre addolorato e inconsolabile del dottorando suicida. E allora, perché i baroni di Lettere si sono sentiti solleticati, visto che il meccanismo è già noto a tutti, interni ed esterni all’università? Perché si
sono accaniti su Norman? Forse perché Norman ha toccato quel vulnus
(sbugiardando ignobili alchimie di potere) che non va toccato e rimestato, in quanto esso è ormai consustanziale al mondo accademico?
Si sa come funziona, lo sanno tutti, lo sappiamo tutti, ma quel
nervo scoperto non si deve toccare in quanto è più di un semplice nervo
scoperto: esso è la nervatura centrale di un gigantesco Leviatano che
agisce su scala nazionale. Mica roba da ridere. E mettere il dito su quel69
la piaga significa attirare l’attenzione della stampa e dell’opinione pubblica su un problema che è meglio lasciare “in sonno”, malgrado sia
arcinoto. Non casualmente Armando Gnisci, una vita spesa dentro
l’università (andato in pensione l’1 novembre 2010), non usa il fioretto, ma il martello del fabbro per raccontare la sua amarezza: «Ho resistito per quarant’anni in un luogo che è diventato sempre di più, a mio
avviso, malato e inadeguato. Per quarant’anni ho fatto resistenza anche
al potere becero della baronia accademica universitaria, alla volgarità e
al malanimo…».
A fargli l’eco il filosofo Salvatore Massimo Fazio, per il quale
«Norman si suicida perché comprende bene che non ha strade aperte:
segnalazioni, raccomandazioni e quant’altro si possa dire.
Io, da filosofo antiaccademico, sono contro l’università tutta. In
questa terra, non puoi ambire alla carriera universitaria se non hai il
papà ammanigliato con mafia-politica».
«C’è qualcosa di peggio che vedersi rubare la felicità? È quello
che mi è successo mentre provavo a fare il mio lavoro di ricercatore»,
dichiara con disgusto Nicola Gardini, che dall’Italia, passando per
Palermo, è dovuto emigrare ad Oxford, dove dal 2007 è professore di
Letterature comparate.
Ma a Palermo, in Italia, per lui non c’era prospettiva per il suo futuro accademico: «Nel ’99 – denuncia - dopo avere ottenuto un dottorato
alla New York University e un posto di ruolo per l’insegnamento del
latino e del greco nei licei, decido di provare un concorso universitario
in Italia. E lo vinco a Palermo, ma subito cominciano i guai: non sono
per nulla accettato. Iniziano ad arrivarmi mail notturne che mi avvertono di compiti da svolgere la mattina dopo, vengo fatto scendere apposta
da Milano per riunioni fantasma». Gardini dichiara di non essersi sentito accettato: lo giuro, è la stessa, identica cosa, che mi confessava un
arrabbiatissimo Norman. È la stessa sensazione di isolamento accusata
da mio figlio, al quale smarrivano i capitoli della tesi di dottorato (più
volte), o che tenevano in disparte senza interessarsi minimamente dei
suoi eventuali progressi sul progetto di dottorato. Nessuno gli chiedeva
niente. Un corpo estraneo all’interno di un organismo già dotato di funzioni vitali proprie. E nessuno sentì mai il bisogno di dargli una pacca
sulle spalle di incoraggiamento, anzi, per quanto ne so, venne esortato
diplomaticamente a “cambiare aria”, per tentare la realizzazione delle
sue legittime aspirazioni nel campo della ricerca.
Ma Norman era determinato, volenteroso e cocciuto. Credette fino
70
alla fine di riuscire a superare gli ostacoli che l’ambiente universitario
gli poneva davanti. Era certo di farcela con le sue forze.
Poi un giorno si accorse che la segretezza del sistema e il suo codice matematico inaccessibile, ermeticamente protetto, erano inviolabili
anche per uno studioso serio e caparbio come lui e da lì, forse da qualche altro “consiglio” pervenutogli dai garanti del sistema, è scaturita la
sua scelta ultima. L’ultima scelta. Gardini, che ha scritto il libro “I
baroni. Come e perché sono fuggito dall’università italiana” per i tipi
della Feltrinelli, affronta il nucleo della questione: «Ci sono quei professori chiamati “baroni”, che pensano di poter gestire l’università
come una loro proprietà… [purtroppo] i giovani dentro gli atenei a
volte sono come narcotizzati, non vedono il marcio o fanno finta di non
vederlo e quindi non protestano». Mio figlio invece, da buon filosofo,
volle vedere fino in fondo e fu a quel punto che si accorse di quanto
contorto e limaccioso fosse il meccanismo di selezione; di quanto esso
fosse protetto da un caveau, la cui combinazione è destinata solo a chi
viene prescelto dal “Big Brother” accademico, secondo criteri di appartenenza, casato e cortesie incrociate.
Lui, protestò. Ha protestato. La sua protesta ancora oggi urla forte
un grido disperato.
Ma ditemi, ditemi pure: sono io a lanciare strali al curaro contro la
“Cupola dotta” (che dalle mie parole si sente “pizzicata”) o c’è un
mondo, interno ed esterno alle università, che ha già capito tutto e lo
denuncia nella sua crudezza allarmante e socialmente depressiva?
Qualche “professorone” che ancora oggi, quando viene intervistato, sciorina curricula stratosferici (o presunti tali) per i suoi “baronetti”,
non prova un briciolo di rossore in viso di fronte all’evidenza, a parole
di fuoco come quelle trascritte dall’Independent? Di fronte alla pletora di “docenti parenti”?
«Non potrei mai trovare lavoro a Roma – dice uno dei cervelli italiani in fuga all’estero - perché non ho agganci. Questa è l’Italia, la
terra del cognome. È disgustoso. Ma è così e tutti lo sanno».
E a dar ragione al professor Gnisci, al professor Gardini, ai tanti
ricercatori fuggiti oltre confine, a me, all’opinione pubblica internazionale e, soprattutto a Norman, ecco un altro filotto di notizie, direi disgustosamente “interessanti”, che tengono mesta compagnia a queste mie
riflessioni e dolenti pensieri notturni – ahimè – disgraziatamente attuali:
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«I baroni padroni del Diritto».
Concorsi, inchiesta su 10 atenei
Ventidue indagati dalla procura di Bari Tra i reati associazione a delinquere, abuso d’ufficio, falso. Si scava sui
posti assegnati per ordinari e associati. «Rete nazionale
di gestione di ruoli accademici»
25/10/2011
Omertà e “guerre” intestine tra i vari gruppi per impadronirsi della
gestione centrale dei concorsi negli istituti di diritto Pubblico di alcune facoltà di Giurisprudenza. Questo uno degli aspetti che sta emergendo dalle indagini dei sostituti procuratori della Repubblica di Bari,
Francesca Romana Pirrelli e Renato Nitti. Un’indagine che ipotizza
l’esistenza di un’associazione per delinquere tra docenti universitari
ben ramificata tra le facoltà di Giurisprudenza di Bari, Milano, Bologna,
Napoli, Reggio Calabria, Teramo, Messina, Macerata, Piacenza e
Firenze, per pilotare i concorsi pubblici. Un’organizzazione piramidale che avrebbe lo stesso metodo rilevato dagli investigatori nelle indagini dell’Antimafia, ma alla cui base ci sarebbe una presunta corruzione dilagante gestita dai cosiddetti “baroni” delle università. Scambi di
favori tra “luminari” del diritto, per inserire propri studiosi di legge nei
vari dipartimenti e riceverne altri. I CARTEGGI SUI CONCORSI. In realtà, però, non si tratterebbe di soli scambi di favore, ma di corruzioni
gestite dalla presunta associazione per delinquere. Hanno rilevato gli
investigatori che i vari candidati vicini ai professori di riferimento ruoterebbero nelle varie università sulla base di accordi e intrecci. Una
lista che potrebbe aumentare dopo che i magistrati avranno studiato i
carteggi acquisiti nelle ultime settimane dalle facoltà, che riguardano
concorsi per ordinari, associati e borse di studio di diritto
Costituzionale, Canonico e Pubblico applicato. Tra gli indagati figurano i baresi Aldo Loiodice, docente di diritto Costituzionale, e Gaetano
Dammacco, ordinario di diritto Canonico ed Ecclesiastico alla facoltà
di Scienze politiche. Poi c’è Roberta Santoro della facoltà di Scienze
politiche, suo padre Innocenzo e Maria Luisa Lo Giacco, ricercatrice di
diritto Ecclesiastico. I concorsi sui quali si indaga riguardano selezioni per posti di prima e seconda fascia, per ordinari e associati. Nel
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fascicolo, aperto per fatti avvenuti tra gli anni 2006-2011, i magistrati ipotizzano i reati di associazione per delinquere finalizzata a
corruzione, abuso d’ufficio e falso ideologico. L’accusa ritiene di
aver scoperto «una rete nazionale di gestione dei concorsi accademici». I 22 docenti coinvolti farebbero parte, sempre secondo gli inquirenti, di una sorta di «circoli privati», all’interno dei quali sarebbe stato
deciso il destino di una decina di concorsi e degli stessi candidati.
Come? Attraverso «accordi, scambi di favore e patti di fedeltà». L’INCHIESTA NATA NEL 2008. Una corruzione dilagante, raccontano fonti
investigative, in grado di azzerare le competenze dei cosiddetti «figli
di nessuno», agevolando gli amici. L’inchiesta, nata nel 2008, è uno
stralcio del procedimento sull’università telematica Giustino Fortunato
di Benevento. Un esposto anonimo all’attenzione del pm Pirrelli, aveva
denunciato che quattro bandi per ricercatore all’università telematica di Benevento, erano stati attribuiti ancora prima che venissero eseguite le prove. Intercettando in questo procedimento sul
docente di diritto Costituzionale di Bari, Loiodice (all’epoca rettore dell’università telematica) gli investigatori si sono imbattuti in alcune
telefonate dal tono eloquente, in cui si discuteva animatamente su chi
dovesse vincere alcuni concorsi, come scambio. Di qui lo stralcio e la
nascita di un nuovo fascicolo che ha coinvolto 9 università italiane.
Dalle intercettazioni, poi, sarebbe emersa la fitta rete di accordi. Gli
investigatori delle Fiamme gialle hanno individuato incontri organizzati nel corso di congressi nazionali sul diritto, ai quali partecipavano i
vari ‘baroni’ col fine di segnalare i candidati che di volta in volta dovevano aggiudicarsi i concorsi nelle varie facoltà italiane. Agli atti, però,
risultano altre intercettazioni tra diversi professori anche della Bocconi
di Milano, dalle quali emergerebbe «una struttura simile ad un’associazione mafiosa», rivela un investigatore. Gelosie e invidie verso altri
docenti che sarebbero riusciti a «piazzare» più amici in altre università e che avrebbe portato altri docenti a tentare di spodestare questi
primati.
UNIVERSITÀ DI PAVIA
Papà e mamma tra i docenti, la figlia
vince il concorso
Il Senato accademico solleva il problema e il rettore
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blocca tutto: atti alla neonata commissione di garanzia
MILANO - Concorso per un posto di ricercatore presso la Chirurgia
plastica e ricostruttiva dell’università di Pavia. Posto pagato per 5 anni
da una onlus ( Humana Forma ) operante nel campo della chirurgia
plastica. Una vincitrice, che doveva entrare in servizio il 31 dicembre.
Ma così non è stato. Tutto sospeso dalla Facoltà stessa: sub iudice .
[…] la vincitrice del concorso si chiama Silvia Scevola. E’ figlia di
Daniele Scevola, docente della Facoltà di medicina di Pavia e all’epoca
componente del consiglio direttivo della onlus, e di Angela Faga,
docente di chirurgia plastica e ricostruttiva, dirigente dell’unico reparto presso la Fondazione Maugeri e all’epoca presidente della onlus
Humana Forma . Nello stesso reparto della Maugeri - scrive la Provincia
Pavese - lavora anche il marito di Silvia, Giovanni Nicoletti. Di qui il
ricorso alla commissione etica […]
Malauniversità: il gup spacchetta la
“Cupola”
Dopo ben dieci anni dall’avvio
delle indagini ecco che il processo
sulla “Cupola” che avrebbe manovrato i concorsi universitari di
cardiologia, giunge a una svolta
con la suddivisione del processo in
cinque differenti provvedimenti.
Secondo l’accusa, a guidare i fatti
tra la fine degli anni 90 e il 2002, il
Tra gli indagati Paolo Rizzon professore Paolo Rizzon.
I cinque procedimenti si terranno
proprio dove accaddero i fatti: cinque imputati a Brescia, quattro a Pisa, uno a Firenze e tre a
Palermo. A Bari oltre ad otto imputati, anche Rizzon. Sono indagati per reati di associazione per delinquere, concussione tentata e
compiuta, truffa, corruzione, falso, tentativo di estorsione e interruzione di pubblico servizio.
Oltre a Rizzon a capeggiare i fatti dell’epoca anche i primari cardiologi Mario Mariani, Maurizio Guazzi e Livio Dei Ca.
20 gennaio 2012
74
(La notizia che leggerete di seguito, anche se datata 2008, è
stata riportata e riattualizzata da “Striscia la notizia” nell’edizione del 23 gennaio 2012, con tanto di intervista al professor Muscio. Io, dopo la denuncia di “Striscia”, sono andato a pescarla nel web per verificare la fitta ragnatela di
parentele all´interno dell´Ateneo foggiano del barone
pugliese)
FOGGIA, mercoledì 30 gennaio 2008 - ORE 13.57
Parentopoli all´Università di Foggia. La grande
famiglia Muscio
Parentopoli anche all’Università di Foggia.
E’ quanto sostiene il quotidiano La Repubblica con un articolo in
cui si parla della famiglia Muscio e della sua fitta ragnatela di
parentele tessuta all’interno dell’Ateneo
foggiano. In nove anni di rettorato
Antonio Muscio avrebbe portato accanto
a sé moglie, figlia con cognata, genero e
nipote […] Muscio avrebbe lavorato per
anni con sua moglie, ora in pensione, dirigente del personale tecnico-amministrativo. La figlia è tuttora responsabile
dell’Area comunicazione dell’Ateneo, mentre suo marito nel 2004
avrebbe vinto un posto da ricercatore in Patologia clinica alla facoltà di medicina. Nella lista dei parenti c’è anche la cognata della
figlia, oggi responsabile dell’ufficio servizi informatici della facoltà
di Medicina ed infine la nipote del Rettore che si occupa del personale amministrativo della facoltà di Agraria […]
Qualche commento in proposito? Ci siamo perduti qualcosa?
Coloro che seguono l’inchiesta avviata dalla magistratura di Bari, non
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esitano a parlare di “struttura simile ad un’associazione mafiosa”. Né
più né meno di quanto avevo dichiarato io alla stampa (provocando le
ire dei docenti di Lettere) nei primissimi giorni che seguirono la morte
di Norman, assimilando il sistema di potere delle baronie accademiche
italiane (non esclusivamente palermitane, sia chiaro), ad un organismo
similmafioso. Io sarò demente, ottenebrato dal dolore, pieno di preconcetti, ve la faccio buona, ma qualcuno dei notabili dei nostri atenei che
io avrei offeso, saprebbe farmi capire con parole semplici, magari con
l’ausilio di un disegnino, in che modo dovremmo intendere noi stupidi
mortali, accuse quali: “quattro bandi per ricercatore all’università telematica di Benevento, erano stati attribuiti prima ancora che venissero
eseguite le prove”, “rete nazionale di gestione dei corsi accademici”,
“corruzione dilagante in grado di azzerare le competenze dei cosiddetti figli di nessuno”, “accordi, scambi di favore e patti di fedeltà”? Le
stesse cose che ripeto da più di un anno a questa parte; le stesse cose
che mi hanno attirato le ire e i livori dei professori di viale delle
Scienze. Sarei davvero curioso di sapere come commenterebbero gli
irritanti “baroni” panormiti queste notizie. Delle bufale? Persecuzione
giornalistiche? O l’ennesima dimostrazione di ciò che non abbisogna
più di dimostrazioni? Rifletteteci. Riflettiamoci tutti.
«E allora la storia non è più la stessa, se un giovane grida, e grida e fa
i nomi da una finestra»
Enzo Iannacci (dalla canzone “I soliti accordi”)
Autunno caldo, si diceva. Sono abbastanza conosciuto come
uomo di destra, giornalista di destra, non foss’altro per il mio impegno
professionale come capo ufficio stampa di AN in Sicilia e portavoce di
diversi assessori in quota AN. La mia esperienza di giovane di destra
atipico l’ho raccontata in un libro, “Il tempo nella bottiglia”.
Come si legge in quel libro, io non ho mai innalzato steccati ideologici o fronti categoriali nella mia ricerca interiore e culturale, tanto
meno nei miei rapporti con gli altri. Infatti, molti uomini di sinistra
sono ancora oggi miei amici. E il mio miglior amico, Sasà (anch’egli
morto prematuramente), era un anarchico.
76
Per farla breve, quell’autunno del 2010 gli studenti del Collettivo
di Lettere (che reputo tutti miei figli adottivi) scesero in campo in
memoria di Norman, chiedendo a gran voce l’intestazione dell’aula.
Con essi mi incontrai e di essi posso dire, diventai un amico, un
padre, un fratello più grande.
Io, l’uomo di destra, mi trovai a lottare per un’idea comune con
giovani di estrema sinistra.
Parlandoci, guardandoci negli occhi, combattendo insieme, abbiamo reso il senso che dovrebbe sottostare ad ogni dialettica serena: le
idee nobili, gli scopi e i princìpi che non scendono a compromessi, le
battaglie per la libertà non appartengono a nessuno. Non hanno collocazione politica, non seguono schema ideologico, non si prestano alla
logica delle barricate.
La simbiosi generazionale fra me e i ragazzi di sinistra, stupì anche
i miei colleghi giornalisti, con i quali avevo sempre lavorato da portavoce della destra italiana: «È accaduto un fenomeno strano. Nella sua
lotta per l’intitolazione di un’aula al figlio, il destrorso Claudio Zarcone
si è trovato accanto “i comunisti”, gli studenti dei Collettivi. Le barriere sono cadute, nel nome di un’identica battaglia. Marco e Alessandro
sono le bocche spalancate di una dolente Guernica, ansiose di dire, raccontare, spiegare. Parlano con un’unica voce», annota il quotidiano on
line “Livesicilia”. Cionondimeno, i ragazzi del Collettivo fecero firmare una petizione a più di duecento studenti di Lettere e la consegnarono
al preside e al rettore: la richiesta, ovviamente, era quella dell’intestazione di un’aula a Norman Zarcone. Ma nessuna risposta arrivò da
Lettere. Però segnali, in compenso, messaggi trasversali, ne pervennero
tanti: tutti non concilianti. Anzi, belligeranti. I baroni erano incazzati, io
stavo infangando l’università, secondo il prof. Lo Piparo, responsabile
del dottorato in Filosofia del linguaggio, al quale non ho mai mosso
accuse a livello personale (né lo faccio adesso).
Lo stesso rettore fu, mettiamola così, “costretto” a rilasciare
dichiarazioni alla stampa che stavolta fecero incazzare me. Ora, non
badate alla cronologia degli eventi perché sto scrivendo a memoria,
non importa se un fatto sia accaduto temporalmente prima o dopo, è
importante, invece, il senso complessivo degli eventi con i loro risvolti (d’altronde la mia non è un’analisi storiografica, anzi, piuttosto di
getto).
77
Iniziai uno sciopero della fame, minacciando anche di sospendere
l’assunzione dei miei farmaci contro l’ipertensione. Da giornalista, trasmisi un comunicato stampa che venne recepito dagli organi di informazione.
«Non sarò certo io a fare un passo indietro», dissi a me stesso,
accecato da rabbia viscerale, col dolore che dilaniava le mie carni,
mentre una spada invisibile forgiata nelle caverne del Tartaro dall’ignominia e dall’arroganza umana, penetrava in ogni momento del giorno e
della notte la mia anima sofferente. Ero pronto ad andare oltre, a seguire il mio fato, a morire se ve ne fosse stato bisogno, pur di affermare la
nobiltà di spirito di mio figlio, il suo diritto ad essere ricordato per le
giuste idee che accompagnarono la sua drammatica ribellione, non per
il gesto in se stesso, che ipocriti moralisti incerottati, benpensanti accesi di pruderie, trafficanti di cultura e farisei dello spirito giudicarono un
oltraggio alla vita.
Già, la vita… E chi sono costoro per parlare di vita, di morte, di
ciò che è giusto o del suo contrario?
Per me vale sempre quanto scritto da Norman e lo difenderò fino
all’ultimo dei miei giorni:
«Esistono due libertà incondizionate: la libertà di pensiero e
la libertà di morire, che è la stessa di vivere»
Il mio sciopero della fame non passò inosservato e i giovani di
Lettere continuarono a far sentire la propria voce. Mi chiamò Clemente
Mimun, dicendomi: «Ti sto mandando un operatore, rilascia la tua
dichiarazione». Qualche tempo prima mi aveva chiamato addirittura il
ministro dell’Università Mariastella Gelmini, esprimendomi il suo cordoglio. Insomma ero riuscito, con i soli mezzi a mia disposizione (la
capacità di legare due frasi di senso compiuto in italiano, di trasmettere un comunicato stampa e il sostegno del Collettivo e degli amici di
Norman), a creare un movimento di opinione che non poteva passare
inosservato agli organi di comunicazione di massa, web compreso. E
ancora una volta, sempre grazie alla partecipazione emotiva e professionale di Mimun e di tutti i colleghi del Tg5, parlai di Norman agli ita78
liani. Gridai il mio sdegno contro i “dinosauri” radicati nei nostri atenei, che ne indirizzano le scelte.
Come lecito attendersi, quei “dinosauri” non volevano ascoltare
ragioni, se non quelle dettate dal loro egoismo e dalla loro rendita di
posizione, quindi senza esporsi singolarmente, ma agendo come gruppo compatto (anche se i nomi di molti di questi signori sono emersi),
adottarono la loro strategia: uniti contro Norman. Uniti contro suo
padre, quel giornalista chiacchierone che sta infangando l’università
con le sue pubbliche accuse.
D’altronde, citando le parole del “giovane Holden”, il personaggio
del libro di Salinger, «tutti gli stronzi non sopportano di sentirsi dare
dello stronzo», perché quindi stupirsi se i baroni non ci stavano a sentirsi definire baroni?
Una di queste dotte e illuminate professoresse, divenuta docente
universitario per meriti propri – non sia mai – chiamò uno dei ragazzi
del Collettivo e gli disse: «Vi siete lasciati plagiare da un vecchio fascista». Già, quel “vecchio fascista” che non poteva darsi pace e che aveva
trovato in quei giovani “avversari”, degli alleati leali e affidabili. Quel
“vecchio fascista” che chiedeva giustizia e meritocrazia, era davvero di
troppo. Una scheggia impazzita che rischiava di delegittimare un intero sistema, collaudato da troppi anni di dominio incontrastato. Un
agente patogeno da far attaccare dal sistema immunitario. Questo era
diventato Norman. E per questo si erano scagliati contro di lui.
Ad ogni modo i ragazzi di Lettere, per nulla plagiati o istigati da
me, decisero un’azione forte, che suscitasse l’attenzione dei media. La
Facoltà era già stata occupata per protesta contro la riforma Gelmini.
Allora si riunirono tutti una mattina e affissero simbolicamente una
targa, con su scritto “Aula Norman Zarcone”, invitarono la stampa e i
media e la esposero all’ingresso dell’aula magna.
Un professore – mi raccontano – si scagliò verso la targa per
rimuoverla, ma venne bloccato dagli studenti (conosco il nome di questo braveheart), allora andò via gridando contro quei giovani, colpevoli di aver infranto le regole della democrazia. Ma su giornali e televisioni la storia fece il botto e venne letta in maniera diversa, rispetto al
professore. Stavamo suscitando un caso nazionale.
79
I ragazzi con la targa in mano prima dell’affissione
La targa appena affissa in segno di protesta
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Applauso degli studenti di Lettere dopo l’affissione della targa
Il clima era tesissimo. I professori oltre a riunirsi per mettere in
atto la propria controffensiva, iniziarono un viavai dal rettore, per farlo
intervenire pubblicamente e far rimuovere la targa.
E non mancarono i botta-risposta sulle colonne dei quotidiani fra
me e Lagalla. Non mancarono neanche le telefonate nel corso delle
quali ce le cantammo a vicenda. E sempre per voce di Alessandro e
Marco (che in quell’occasione parlarono per tutti gli altri: Giorgio,
Peppe, Claudia, Aria ecc…) la ribellione degli studenti invase ogni
angolo di quella facoltà: «I professori non vogliono la dedica. Noi
abbiamo già messo una targa personale. Abbiamo assistito a scene tremende. Una professoressa ha giurato che non metterà mai piede in
un’aula con l’impronta del nostro Norman e ha aggiunto: ‘La pietà finisce’. In consiglio di facoltà ci sono state discussioni accesissime. Il
81
muro dei docenti contrari è praticamente compatto. Solo il professore
Sandro Musco ha avuto il coraggio di intervenire in senso opposto alla
maggioranza. Tra lui e Lo Piparo sono volate frasi grosse».
Intervistato poi, da una testata giornalistica, il professor Musco
avrebbe risposto con queste parole: «Abbiamo scoperto l’acqua calda,
caro signore! Il sistema è perverso ovunque. Dappertutto esiste un
incrocio di interessi e raccomandazioni. Perché l’università dovrebbe
risultare immune dal contagio? Ne convengo: scoprirla infetta è
un’esperienza dolorosa… Certi miei colleghi di facoltà, ed è noto a chi
mi riferisco, si fingono Vergini delle rocce e sbagliano. A chi la raccontano? È un ruolo che non gli si addice. La casta esiste, nell’ateneo
palermitano come in tutti gli atenei. Chi se la prende col papà di
Norman dovrebbe prima avere la decenza di risolvere situazioni di
casato familiare. I miei colleghi, sepolcri imbiancati, queste cose le
sanno benissimo. Sappiamo perfettamente quanto contino gli interessi,
i rapporti e le parentele».
Come avviene per tutte le cose di questo mondo, anche l’occupazione di Lettere calò il sipario, si concluse e gli studenti non furono più
in grado di vigilare sulla targa. Così di notte e notte (perché di giorno i
giovani se ne sarebbero accorti lo stesso), quella targa e quella foto raffigurante Norman con le dita tese in segno di vittoria, vennero rimosse. Non si capì bene da chi fosse partito l’ordine di toglier di mezzo
quei segni indesiderati, quella volontà studentesca, dall’aula magna di
Lettere.
Si assistette ad un pietoso rimpiattino: il preside non ne sapeva
niente, il rettore, idem.
Ovviamente divenni una furia, il sangue mi colò sugli occhi, lo
sguardo – suppongo – divenne la sintesi evidente di tutta la mia collera, lo specchio di chi arrendersi non intendeva.
Scrissi, e ancora scrissi: ai vertici dell’unione Europea, a tutti i
nostri ministri e sottosegretari, a tutti i nostri deputati e senatori, a giornali, siti web, agenzie di stampa, creando attenzione sulla rimozione di
quella targa, simbolo per caduta libera dei giovani precari italiani. Di
Norman parlarono oltre a “The Independent”, decine di siti web e pagine di Facebook e finanche un sito coreano. E il “Wall Street Journal”
mi richiese un’intervista.
A riprova che Norman sia ancora oggi il simbolo di studenti e pre82
cari italiani, dal nord al sud dello Stivale, ecco una notizia ripresa da
molti organi di informazione: durante la manifestazione nazionale dei
precari italiani, veniva gridato il nome di quel ragazzo palermitano,
mio figlio, suicidatosi per protesta contro l’autoreferenzialità del sistema universitario:
La voce del pensiero
10/apr/2011
ROMA MANIFESTAZIONE PRECARI.
L´INDIGNAZIONE DEI GIOVANI. “IL NOSTRO
TEMPO È ADESSO. LA VITA NON ASPETTA”
[…] La città sembra aprirsi e molte persone applaudono dai balconi il
fiume di gente che attraversa le vie del centro, mentre dai megafoni
si ricordano le vittime del precariato, tra tutte Norman Zarcone, giovane ricercatore suicidatosi a causa del baronato universitario […]
Un quotidiano, qualche mese prima della manifestazione dei precari,
aveva legato invece, Norman all’idea di rivolta stessa:
aggiornato alle 20:22 di
Giovedì 10 Febbraio 2011
Sporcarsi le mani
Il giorno in cui Berlusconi ricevette un Duomo sui denti, le ragazze lo
aspettavano per il Bunga Bunga, e il Presidente dovette passare prima
dalla Minetti per farsi sistemare la bocca, lasciando le ragazze in estenuante attesa della bustarella: maledetto Tartaglia! In Italia, non esiste
più qualcuno che teorizzi seriamente la rivolta, se non individuale:
abbandonare il lavoro, abbandonare il paese, non andare a votare,
dare un pugno a Capezzone, suicidarsi come hanno fatto purtroppo
tanti imprenditori nel Nord-Est, l’ultimo a dicembre scorso, o al Sud il
dottorando Norman Zarcone, per il quale ancora si discute a Palermo
se intestargli o meno un’aula.
83
E sempre qualche mese prima della protesta dei precari, in virtù dell’adagio “quod erat demonstrandum”, proprio a sbattere in faccia a quei
baroni che avevano rimosso la targa (i quali continuavano a sostenere
che io stessi discreditando l’università), il milionesimo articolo, recensione di un altro libro-inchiesta, veniva a supportare le mie tesi accusatorie verso quel potere baronale, che mi si era scagliato contro nel corso
di quel tragico autunno 2010:
{PARENTOPOLI} “L’ITALIA CHE TIENE
FAMIGLIA” di Riccardo Bocca (L’espresso)
11 febbraio 2011 | 05:33 |
L’Italia che tiene famiglia di Riccardo Bocca | 5 febbraio 2011 {Il libro:
“TENGO FAMIGLIA – L’ITALIA DEI PARENTI”
di Carlo Puca}
Nei Comuni. All’università. Alla Rai. Negli
ospedali. Negli enti pubblici. Si moltiplicano
le assunzioni di figli, mogli, nipoti e affini di
politici e potenti. E’ Parentopoli. Che adesso
si contende anche i posti meno ambiti…
Norman Zarcone, dottorando in Filosofia del
linguaggio, si è ribellato nel modo più tragico:
gettandosi dal settimo piano dell’università di
Palermo. “Una morte di Stato”, l’ha definita il
padre. La frustrazione di un ventisettenne che a
settembre, dopo anni di sacrifici, ha sbattuto
contro l’impossibilità di lavorare in ateneo. “Il
gesto di Norman”, denunciano gli studenti, è
contro “i responsabili della parentopoli che blocca l’accesso alla carriera universitaria”. Parole che, partendo dal dramma Zarcone, mirano al
potere delle famiglie accademiche. “Ogni facoltà ha il suo elenco”,
mostrano i ragazzi. “A Lettere abbiamo il professore straordinario Attilio
Carapezza, suo fratello Marco ricercatore, il cugino Paolo Emilio docente ordinario e suo figlio Francesco anche lui ricercatore”. A Medicina si
trovano il ricercatore Emanuele Cannizzaro e la sorella docente Carla,
figli dell’ex ordinario di Scienze farmacologiche Gaspare. Ad Agraria
sono marito e moglie i professori Claudio Leto e Teresa Tuttolomondo.
Mentre ad Architettura “il preside si chiama Angelo Milone ed è fratello
di Marco: professore di Diritto urbanistico, assessore comunale e anche
padre dei ricercatori (sempre ad Architettura) Daniele e Manuela”. Una
lista che potrebbe continuare a lungo: dentro e fuori dall’università palermitana […]
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Questa lista tuttavia è in difetto, alcuni nomi sono stati omessi,
suppongo per mancanza di informazioni complete da parte di chi ha
scritto il libro e la recensione, diversi li conosco io stesso, altri, suppongo, siano maturati dopo. Ma tant’è…
Insomma facemmo un po’ di casino in quel “caldissimo autunno”
(ormai già inverno), riuscendo ad attirare l’attenzione della stampa e
dei networks. Ripeto: ci scambiammo una discreta corrispondenza col
rettore, anche se attraverso i quotidiani e ciascuno di noi difese le proprie posizioni. Lui, usando la diplomazia col bilancino. Non poteva
infatti uscire del tutto dal suo ruolo di massimo rappresentante dell’ateneo, stressato dal pressing dei baroni. Ma per contro cosciente che il
vento dell’opinione pubblica soffiava in direzione di Norman.
Suppongo ne fosse estremamente consapevole. D’altronde però, non
poteva obbligare un organismo come il consiglio di Facoltà a deliberare l’intitolazione dell’aula: non poteva d’imperio e non poteva con la
diplomazia, perché i boatos a me pervenuti (molto verosimili) parlavano di uno zoccolo duro dei baroni pronto a delegittimare lo stesso rettore, qualora si fosse schierato. Così Roberto Lagalla rilasciò qualche
dichiarazione che a me non piacque. E replicai a mia volta, con educazione, ma con fermezza. Disposto a non cedere una zolla di terreno a
quel nemico che agiva nell’ombra, coprendosi dietro la collegialità del
consiglio di Facoltà.
Da parte mia, continuai lo sciopero della fame, passando le giornate a scrivere, a trasmettere comunicati, a telefonare a giornalisti e
rappresentanti le istituzioni. Scrissi anche al capo dello Stato, Giorgio
Napolitano (che qualche mese dopo mi avrebbe ricevuto privatamente),
a Barack Obama e al Dalai Lama: ma in mezzo a questi personaggi di
grande carisma internazionale, non mancai di rendere nota la storia di
Norman a centri culturali, riviste e quotidiani on line, siti di movimenti giovanili ecc.
Infatti, basta cliccare su Google Norman Zarcone, per avere a
disposizione decine di pagine da aprire, con centinaia di articoli e foto
a corredo.
Purtroppo per i baroni, l’amaro sapore della mia disperazione
aveva travalicato i confini territoriali di Palermo e tanti, tantissimi giovani e meno giovani, provarono per via riflessa l’aspro retrogusto lega85
to al più grande dei drammi che un uomo possa vivere: la perdita prematura del proprio figlio.
Dai social networks la storia, il dramma, il messaggio, si propagarono e in parecchi scrissero al rettore chiedendo l’intitolazione dell’aula. Stessa cosa fece la politica nazionale e in qualche caso anche internazionale. Ma da Lettere, dai consigli di Facoltà, le notizie non furono
mai buone, anzi, notai un accanimento davvero incomprensibile nei
confronti della memoria di mio figlio, la cui sola colpa era quella di
avere un padre non disposto ad accettare supinamente un “omicidio di
Stato”.
Si tentò addirittura di delegittimare mio figlio, delegittimando me:
«Quello è un uomo che ha fatto cose inenarrabili e suo figlio era un raccomandato», disse una professoressa ad uno degli studenti (che corse a
riferirmelo).
La stessa professoressa aveva qualche tempo prima, pronunciato
queste parole pubblicamente (riferendosi a Norman e all’intestazione
dell’aula): «Non può esservi pietas dentro l’università».
Ovviamente la rabbia fece calare un velo sui miei occhi, non capii
più niente. Telefonai al rettore, ma questi non mi rispose. Telefonai
allora ad un docente a lui vicino e minacciai querele contro l’ateneo,
oltre che contro quella professoressa. Avevo già in mano una lista con
diversi avvocati da cui farmi patrocinare.
Mi chiamò al cellulare il nuovo preside di Lettere, Mario
Giacomarra, insediatosi in sostituzione dell’uscente professor Guarrasi
dopo la morte di Norman e a lui manifestai tutto il mio sdegno per un
tentativo così vile di delegittimare me e mio figlio. Questi mi rispose:
«Provvederò io stesso a far sì che simili illazioni smettano, certo, se suo
figlio fosse stato un raccomandato a quest’ora sarebbe ancora vivo, le
pare?». Riflessione saggia, opportuna, quella del professor
Giacomarra, senza far violenza alla logica e all’evidenza.
Nello stesso tempo dal Rettorato ricevetti un’ulteriore telefonata,
con la quale mi si informava che il rettore medesimo avrebbe provveduto a richiamare a comportamenti più consoni al suo ruolo, la professoressa con la vocazione dell’untrice.
Solo per la memoria: Norman odiava le raccomandazioni e i raccomandati e d’estate faceva il bagnino in un circolo nautico
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dell’Addaura, a Palermo, per 25 euro al giorno. Dodici ore al giorno.
Poi la sera tornava a casa, dopo essersi spaccato la schiena sotto il sole
con ombrelloni e sedie a sdraio, mangiava un boccone e studiava fino
a notte inoltrata. Questa è storia, il resto è solo infamia e mancanza di
onore. Questa è verità inoppugnabile, ogni altra cosa è tragedia (per la
mia famiglia) e vigliaccheria a buon mercato (quella di chi tentava di
delegittimarlo attraverso me).
D’altronde il preside Giacomarra ha colto benissimo il nocciolo
della questione: se Norman avesse goduto di raccomandazioni, a qualsiasi livello, se avesse subito il fascino della raccomandazione, non
avrebbe compiuto il suo gesto estremo. Si sarebbe accontentato di
cogliere i frutti delle sue guarentigie. Non so più se dire purtroppo, o
fortunatamente, mio figlio amava fare e costruire tutto con la sua passione e il suo ingegno, detestava l’idea di raccomandazione e mai ne
chiese una.
E anche questa è storia vera, il nucleo centrale del suo suicidio,
scaturito dalla voglia di gridare un grido disperato e assordante, per
farsi ascoltare, che nei fatti si traduce in una richiesta di meritocrazia e
legalità. Norman faceva il bagnino, non era stato assunto o nominato
consulente in una società partecipata del Comune o della Regione, sia
sempre chiaro questo passaggio fondamentale. Fissatevelo nella capoccia tutti quanti: amici e ipotetici untori.
Poi, mi sembra davvero squallido tentare di legare la storia personale di mio figlio alla mia: ammesso (ma non concesso) che io possa
essermi macchiato delle infamie più invereconde, volete spiegarmi
cosa c’entrerebbe Norman? Questa fu la cosa che mi mandò in bestia,
il voler mettere in moto la “macchina del fango”, diversamente conosciuta come “metodo Boffo”, per autoassolvere un sistema che nessuno si sentirebbe di assolvere. Da destra e da sinistra. Puntare il dito contro di me, senza fondamento o ragione spendibili, indicarmi come un
“vecchio fascista”, per delegittimare Norman delegittimando me, attraverso un effetto a cascata, è stata soltanto un’ossessiva aggressione a
colpi di grossolane falsità (così nel 2010 il direttore di Avvenire, Marco
Tarquinio, definiva il metodo Boffo).
Che io sia vecchio, è un dato di fatto, ma che possa dichiararmi
ancora “fascista”, beh, non lo faccio più da almeno un ventennio, con87
servando ad ogni modo un’idea di destra europea e sociale.
Una destra che non c’è più, ormai custodita nel mondo intimo dei
miei ricordi.
Ma sia perspicuo a tutti: se si trattasse di temi relativi alla libertà
(di stampa, di pensiero ecc.), alla meritocrazia, alla legalità, all’antimafia, non tentennerei neanche un secondo a scendere in piazza con
chiunque. Anche se costoro dovessero chiamarsi sinistra antagonista,
collettivi studenteschi o movimenti analoghi.
E non esiterei nemmeno un nanosecondo a querelare chiunque
dovesse adombrare comportamenti poco lineari nella storia personale
(purtroppo breve) di mio figlio. Consapevole della verità e di vincere
contro chicchessia.
A questa professoressa, tuttavia, vorrei ancora chiedere conto delle
mie presunte nefandezze: sono un ex militante dei movimenti giovanili di destra? Ne vado fiero. Sono ancora un uomo di destra? Bene, sono
orgoglioso di esserlo e la destra rappresenta la mia storia e la mia identità. Ho fatto affari con qualcuno? Sono un tangentista? Vivo nell’illecito? Mi sono arricchito illegalmente? Ho frequentazioni mafiose o
poco limpide?
Ebbene, dimostri tutto ciò ed io mi farò da parte chiedendo scusa
al mondo intero. Anzi, mi chiuderò in un monastero dopo aver preso i
voti. Sono disposto addirittura a fare il volontario in Africa, in un lebbrosario, malgrado io sia conosciuto come un ipocondriaco irrecuperabile. Ma fin quando questa donna dall’animo duro come la pietra non
proverà ogni sua accusa, non smetterò mai di tentare di annichilire lei,
i suoi sodali e l’intero sistema di cui è parte integrante. La mia indignazione rabbiosa – anche per le “grossolane falsità” della docente accesa
da spirito sinistro e menzognero – non potrà certo placarsi, né mai si
placherà. Né si placò in quel finire del 2010.
Per tornare a quel periodo di lotte, agitazioni studentesche e tensioni: ero in continua ebollizione. Una pentola a pressione che poteva
esplodere da un momento all’altro.
Non dormivo la notte, alla ricerca di indirizzi e-mail cui inoltrare
la mia posta, cui partecipare il mio dramma personale e sociale.
Fumavo (e fumo) come un turco.
I ragazzi però, mi stettero vicino. Anzi, si inkazzarono di brutto
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(con la kappa stavolta) e misero in atto un’ulteriore provocazione.
Convocarono la stampa, con un’azione sottotraccia per non insospettire i baroni, e durante un consiglio di Facoltà si catapultarono in blocco
dentro l’aula per leggere un loro documento. I giornalisti delle emittenti locali e nazionali vennero sbattuti subito fuori dai professori riuniti
in conclave, sorpresi e inviperiti. Alcuni operatori tivù vennero anche
allontanati, mettiamola così, in maniera ai limiti della cortesia, ma i
fotografi e un paio di operatori furono bravi a mischiarsi nella folla per
immortalare la protesta. Questo mi raccontarono, ma non ho prove
dirette.
Qualcuno degli stessi ragazzi invece venne “amichevolmente”
invitato ad uscire. E di ciò ho testimonianze dirette e viventi. Vi fu un
breve parapiglia, attimi di nervosismo. Professoresse isteriche in piena
crisi di nervi che inveivano e professori imbestialiti che cercavano la
loro ragione appellandosi alla democrazia appena infranta dai ragazzi,
secondo il loro opinabile punto di vista.
Infatti, cosa c’è di più sovrano e riconosciuto come valore-cornice
di una società, dell’appellarsi alla democrazia?
Basta richiamarsi ad essa (in teoria) ed hai già mezza ragione in
tasca.
Ma la cosa più importante è che i “giovani invasori” furono pacati, pur nella loro fermezza e non reagirono a piccoli spintoni “democratici” e urla isteriche (anch’esse “democratiche”), tant’è che il preside
Giacomarra consentì loro di leggere un documento, poi messo a verbale di quella seduta.
Alessandro, amico e collega di Norman, fu chiaro, netto, chirurgico nella sua dichiarazione: «La nostra è stata un’azione di rottura, ma
pacifica. Quella targa voleva essere soltanto uno stimolo affinché i vertici dell’Ateneo portassero a termine ciò che lo stesso rettore aveva promesso, invece è stata tolta con un gesto totalitario ed egemonico.
Registriamo da parte di molti docenti un atteggiamento di totale chiusura “a testuggine”, mentre noi cerchiamo soltanto un dialogo che sia
finalizzato alla felice conclusione di tutta questa vicenda».
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Ecco la notizia riportata dai quotidiani “La Sicilia” e “Il Giornale
di Sicilia”:
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Se ne parlò. Eccome se ne parlò. Vi lascio immaginare la reazione
scomposta dei baroni, a telecamere spente. Si narra (e dico “si narra”
per pigliarla da lontano, diversamente dovrei entrare nell’antipatico
gioco di nomi e cognomi) che la stanza del rettore, a partire dal giorno
dopo, fu presa d’assalto dai baroni. Uno in particolare. Lettere “baronali” pervennero al rettore medesimo, con a corredo lagnanze per i tentativi di demonizzazione dell’università, il cui artefice principale ero
sempre io. Quel “vecchio fascista” che gridava giustizia per il proprio
figlio e chiedeva il mantenimento delle promesse a lui fatte dalle massime figure istituzionali dell’Ateneo.
Perché vedete, è ora di smetterla con le “lacrime ufficiali”, con la
retorica del necrologio e delle promesse a caldo, per tenere buona l’opinione pubblica, quando si consumano drammi sociali e generazionali
come quello di Norman.
Il discorso del prorettore Cardona, presente in sostituzione del professor Lagalla (che si trovava fuori Palermo) al sit-in che organizzammo a Lettere due giorni dopo il funerale, l’invito del presidente
dell’Ars, Cascio, alle istituzioni accademiche, le stesse promesse fatte
pubblicamente dal rettore, poi ribadite a casa mia; una certa disponibilità dell’allora preside di Lettere, Guarrasi, a discutere di progetti in
memoria di Norman, non possono né devono essere le classiche “buone
intenzioni” da manifestare ad una famiglia distrutta e ad una opinione
pubblica che chiede giustizia e verità, tanto per calmare gli animi nel
pieno del loro surriscaldamento emotivo.
Solo per la cronaca raccolgo in poche righe, ripetendomi, quanto
affermato dal rettore. E a seguire, quanto auspicato dal presidente del
Parlamento siciliano, Francesco Cascio.
«Un giovane impegnato nella ricerca che perde la vita così deve
essere ricordato in modo costante non soltanto con il titolo di dottore
di ricerca ad honorem che pure l’Ateneo gli conferirà». Questo aveva
dichiarato il rettore, completando così il senso della sua dichiarazione,
affidato alle news dell’Ateneo: «Un’aula di Lettere intestata a Norman
Zarcone, il dottorando di ricerca che si è suicidato gettandosi da una
finestra della facoltà. Lo proporrà lunedì in Senato accademico il rettore dell’Università di Palermo Roberto Lagalla».
Mentre il presidente Cascio, rilasciò alle agenzie di stampa la
seguente dichiarazione: «Auspico che l’Ateneo palermitano accolga al
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più presto la petizione degli studenti e intitoli la sala lettura del nuovo
plesso a Norman Zarcone, affinché il suo gesto di protesta estrema non
cada nell’oblio».
Ma fu il coro spontaneo di politica e società civile ad essere unanime, superando ogni muro ideologico e di appartenenza: da Idv al Pd,
dal Pdl a Fli, dall’Udc a Forza del Sud si chiese (e si chiede ancora)
attenzione e rispetto per la memoria di Norman. Mio figlio, mettendo
in gioco la sua giovane vita, è riuscito a creare un fronte comune nella
politica siciliana e nazionale.
Ed ecco che il termine spesso, quasi sempre astratto di “bipartisan”, divenne esperienza concreta, grazie a Norman e al suo gesto
altruistico (infatti i morti non godono di benefici terreni, parrebbe così).
Il mio sciopero della fame proseguiva. Gli studenti stavano attenti ad ogni foglia che si muovesse a Lettere.
Ricevetti numerose telefonate da miei colleghi, amici e via discorrendo, con la stessa richiesta: interrompere lo sciopero della fame.
Risposi picche a tutti, anzi dissi che da lì a poco non avrei più assunto
anche i farmaci che curano la mia ipertensione.
Forse per ultima, ma non ci giurerei che fosse l’ultima, mi pervenne la telefonata di un professore (gran brava persona) che coadiuva il
rettore: «Il Magnifico vorrebbe incontrarti – mi disse – però tu smettila con lo sciopero della fame, me lo prometti? Anche Roberto Lagalla
ti chiede di interrompere lo sciopero, dai vediamoci e parliamo…».
«Va bene, vediamoci – risposi – ma non interrompo la mia protesta. Non sono abituato alle scene madri, io, vado a fondo nelle cose».
Riunione al Rettorato, una mattina invernale del 2011: «Tu sei un
uomo di comunicazione – pronunciò il rettore – ho detto una cosa nell’immediatezza dell’evento [il riferimento è al dottorato alla memoria
e all’intestazione dell’aula, nda] che ovviamente pone tutta una serie di
influssi psicologici. Ognuno è padre e si interroga su ciò che avrebbe
potuto fare e non ha fatto. La tragedia personale va messa su tutto…».
«Comunque – continuò – io devo fare le mie considerazioni, lo sai,
se non le faccio muoio. Al di là dei giudizi positivi che tu hai avuto nei
confronti della persona rettore, ovviamente non si può dissociare la
persona rettore dal governo di un’istituzione. E il governo di un’istituzione deve affrontare passaggi fondamentali quali il senato
Accademico e il consiglio di Facoltà…».
92
Stavolta il riferimento del rettore era alla targa affissa provocatoriamente dai ragazzi di Lettere all’ingresso dell’aula magna e su questo
argomento mi venne sciorinata l’ulteriore lezione di democrazia. Si
continuava a non comprendere la provocazione degli studenti, che tale
era e che non necessitava di una rivisitazione dei capisaldi della democrazia con il corollario delle sue regole a compendio. Non si compresero (per Realpolitik) le parole di Alessandro, dopo l’irruzione al consiglio di Facoltà: «Quella targa voleva essere soltanto uno stimolo affinché i vertici dell’Ateneo portassero a termine ciò che lo stesso rettore
aveva promesso, invece è stata tolta con un gesto totalitario ed egemonico».
Ma io, debilitato dallo sciopero della fame, con propositi non bellicosi nei confronti di Roberto Lagalla, il quale, pur agendo nei dettami di una certa scaltrezza accademica e massmediatica, aveva resistito
ai baroni che lo tiravano per la giacca, mi limitai a dire: «Per adesso
ascolto, poi parlerò, va’ avanti…».
E Lagalla proseguì: «Non posso lasciar passare nell’immaginario
nazionale che l’università di Palermo sia una sentina di vergogna. Poi,
l’università italiana ha le sue porcherie, come le hanno la polizia, la politica che tu hai bazzicato generosamente, ma se tu “attigghi” [cioè, “solletichi”] sempre contro l’università di Palermo, è chiaro che c’è gente
che si sente pizzicata. E questo fatto non ha determinato una semplificazione delle procedure. Ci potranno pure essere problemi, delle colpe
di un sistema, ma se vai a dire in tivù che a Palermo solo chi apre le
gambe può far carriera…».
Il rettore parlò ancora della lettera che aveva scritto il ministro
Gelmini (chiedendo l’intestazione dell’aula) a poche ore dall’approvazione della riforma che porta il suo nome e che mandò fuori di testa i
baroni, i quali, a mio modo di vedere, si sentirono accerchiati: massmedia, studenti, politici e ora anche il ministro dell’Università, nei fatti
avevano chiuso un cerchio. Lo stesso Roberto Lagalla, comunque, non
aveva gradito l’intervento del ministro Gelmini, cui avevo scritto tre
mesi prima: «Dopo la lettera della Gelmini – mi disse – chiddi curnuti
eranu e diavoli addivintaru».
Tradotto alla lettera: “quelli [sottinteso i professori di Lettere] cornuti erano e diavoli sono diventati”. È chiaro che nella traduzione si
perde molto, o quasi tutto il senso dell’affermazione dialettale, però ci
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si può arrivare a capire cosa intendesse dire il rettore: i baroni si indiavolarono ulteriormente.
Il professor Lagalla parlò ancora per un po’, giostrando fra la mezza
requisitoria e la comprensione dei miei comportamenti. Insomma, un
attraversamento sinuoso delle questioni, per chiarire che era nelle sue
intenzioni intitolare un’aula, come da petizione studentesca e da sua stessa promessa, però senza che si avesse l’impressione che l’ateneo intendesse risarcirmi.
L’ho sempre riconosciuto al rettore di voler intitolare l’aula a
Norman e in alcune circostanze l’ho pure elogiato pubblicamente, ma
alla stessa maniera ho preso atto di quanto attorcigliata fosse la politica
accademica, fatta di pressioni, pesature col bilancino e quadrature del
cerchio.
All’argomento dell’impossibile, quanto assurdo risarcimento, nondimeno, avevo già risposto al rettore, epistolarmente e a mezzo stampa,
dicendo: «Ma voi pensate davvero di potermi risarcire? E chi siete voi
per potermi risarcire della perdita di un figlio? Neanche se intitolaste
tutto l’ateneo alla memoria di Norman potreste risarcirmi. Quindi trovo
volgare che la questione possa essere messa in tali termini».
Risarcimento. Ma per favore!
Solo una mente malata, seriamente deviata, avrebbe potuto pensare di risarcirmi. E sarei stato io per primo malato e seriamente deviato,
se mi fossi posto in termini di risarcimento.
Ma il rettore sapeva bene che nessun risarcimento ci sarebbe potuto
mai essere da parte dell’università nei confronti della mia famiglia, né
con un’aula, né con tutto il denaro equivalente al debito pubblico dello
Stato. Però dovette ancora una volta accettare le regole non scritte della
Realpolitik. Sai, sono di quelle cose che devi dire pubblicamente per non
dare l’idea della resa e della colpa morale. Ci misi una pietra sopra su
quello sgradevole retrogusto del risarcimento, «tanto - pensai - qualsivoglia persona dotata di un minimo di senno capirebbe benissimo che niente e nessuno avrebbe potuto risarcirmi della fine anticipata della mia vita
(perché di ciò si sta parlando), di questa dimensione oscura e senza più
senso, che mi accompagnerà fino all’esalazione del mio ultimo respiro».
Pertanto l’intitolazione dell’aula venne posta all’opinione pubblica
sul piatto d’argento della pietas in senso latino (secondo le parole del
rettore medesimo).
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Io dissi la mia, accusando l’ignominia che si era perpetrata in diversi consigli di Facoltà, laddove le vestali dell’università avevano oltraggiato la memoria di Norman: «Non permetterò a nessuno di offendere
mio figlio – gridai al rettore e agli altri presenti, compreso il preside
Giacomarra – e su questa cosa non vi è nessun dialogo possibile».
Rettore, preside e tutti i presenti in qualche modo tentarono di mettere sul tavolo la tesi che nessuno parlasse male di Norman e che
comunque, non sarebbe stato permesso.
Come ormai nostra consuetudine, ce ne scambiammo quattro, in
maniera civile, spostando l’obiettivo sui massimi sistemi piuttosto che
sull’ateneo di Palermo.
Non mi sforzai nemmeno più di tanto nel seguire l’impostazione
impressa dai presenti – dopo aver ricevuto garanzie che mai nessuno si
sarebbe permesso di offendere la memoria di mio figlio - per alcuni
semplici motivi: io per primo avevo sempre detto che il problema non
fosse l’università di Palermo, per quanto circolino fatti e storie che non
potrò mai dichiarare, poiché da me ascoltate da altri. Anche se sono fatti
e storie che quasi tutti conoscono.
E poi, mio figlio in quell’università ci ha studiato, incontrando
anche persone positive che lo hanno aiutato a crescere culturalmente e a
diventare quel filosofo serio e preparato che si è dimostrato.
Io stesso ho studiato in quell’ateneo, infangarlo pertanto – come
sostenuto dalla casta dei bramini accademici – sarebbe stato come sputare nel piatto in cui si è mangiato. La questione, suppongo ogni persona intelligente capirà, andava e va posta su un piano diverso, che non è
quello degli schizzi di fango sull’università, ma ben diversamente quello di tutelare l’università medesima, i suoi rappresentanti, gli studenti,
da un sistema ormai incancrenito che toglie credibilità all’istituzione e
ai suoi docenti preparati.
A un certo punto mi parve di scadere in una sterile logomachia, per
non dire in una “supercazzola denaturata” modello conte Mascetti di
“Amici miei”.
Io a ribadire che avrei mangiato il cuore a chiunque si fosse permesso di offendere mio figlio e gli altri presenti a rassicurarmi che non
sarebbe mai (o più?) avvenuto.
Mi fu chiesto di non intervenire sui giornali per qualche settimana,
per evitare il solito viavai di baroni negli uffici del rettore (con i loro
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musi lunghi come coreografia) e lasciar lavorare serenamente il senato
Accademico. Tanto, ormai l’assunto di base, per sancire la “pace” era
stato stabilito: l’ateneo di Palermo non è la collina del disonore (ma non
mi ero mai espresso in questi termini), pur riconoscendo una certa
impermeabilità al sistema. Quel sistema che anche ora non esito a definire similmafioso.
Mi si propose, quindi, l’intitolazione di uno spazio presso il complesso didattico della cittadella universitaria, che avrebbe preso il nome
di “Generazione Norman”.
Dapprima fui contrario, perché, ribadii, “lo spirito di mio figlio è lì,
a Lettere”. E in quel perimetro ancora oggi non me la sento di andare;
avverto tuttora l’odore pungente del sangue di Norman, della sua materia grigia, sul selciato di quella facoltà, che per colpe o negligenze
oggettive, soggettive, morali o riflesse che siano (non spetta a me indicare quale colpa o negligenza specifica vi sia stata), si è presa insieme
alla vita di un giovane pieno di entusiasmo e con grandi potenzialità di
ulteriore crescita culturale, la vita intera di una famiglia. Io e i miei cari
pagheremo fino all’ultimo giorno della nostra vita, sulla nostra pelle e
sul nostro dolore, le idiosincrasie e i paradossi di un sistema che non
dovrebbe aver ragione di esistere. Proprio perché “quel” sistema alligna
all’interno dell’agenzia formativa e culturale per antonomasia: l’università italiana.
Alla fine accettai la proposta, che piacque anche ai ragazzi. In
fondo lo “Spazio Generazione Norman” avrebbe rappresentato un’intera generazione di studenti, precari e fautori del verbo meritocratico. Un
simbolo di lotta e protesta contro baroni, mafiosi, collusi e negatori delle
speranze e dei sogni giovanili.
Certo, l’università accolse con qualche modifica le motivazioni
degli studenti e spiegò “diplomaticamente” l’affissione di quella targa
bronzea 80x60 e l’intitolazione dello “Spazio” medesimo, puntando
nella propria delibera sul disagio giovanile, le contraddizioni della giovinezza, il contrasto tra il mondo ideale e la difficile realtà della vita.
Non avrebbe potuto diversamente, lo capisco pure. Ma la mia certezza
“certa” è che quel rettangolo di bronzo massiccio, inciso “in memoria di
Norman Zarcone”, oggi rappresenta un grande messaggio di libertà, partecipazione e lotta studentesca ad una generazione mortificata, una
generazione defraudata dei propri sogni, delle proprie energie migliori,
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della propria innata capacità di guardare verso il futuro.
Norman non credo pensasse di diventare un simbolo, quando scelse e decise di urlare a squarciagola la sua scomoda verità contro le baronie feudali e le mafie dei colletti bianchi. Ma suo malgrado, benché
fosse un ragazzo riservato e non amante dei riflettori, egli è diventato la
più forte immagine di lotta contro le élites autoreferenziali. Il vessillo da
innalzare contro il meccanismo contorto delle cosiddette “fabbriche
della cultura”.
E il pomeriggio del 4 maggio 2011 – a conclusione di quell’autunno caldo di lotta e partecipazione studentesca - venne inaugurato lo
“Spazio Generazione Norman” presso l’edificio 19 del complesso didattico di viale delle Scienze. Una targa, da quel giorno in poi, avrebbe
ricordato il mio talentuoso e sfortunato figliolo ai giovani e al mondo.
Una targa che ancora oggi è atto d’accusa e monito contro un certa
abitudine alla sottomissione verso nuclei di potere, che, grido ancor più
forte, non dovrebbero aver ragione d’esistere. Soprattutto in quegli
ambienti che dovrebbero esprimere cultura, progetto e futuro.
La targa affissa in memoria di Norman
97
Quel 4 maggio per la scopertura della targa, venne a Palermo addirittura il presidente dell’Inter, Massimo Moratti, il quale già qualche
mese prima mi aveva telefonato per il suo cordoglio e mi aveva ospitato, insieme alla mia famiglia, a Milano, nella sede della squadra del
cuore di Norman. Della mia squadra del cuore. Della squadra del cuore
di mio figlio David, di sua moglie, Annalisa e di mia moglie Giusy, la
madre alla quale la triste logica del servaggio – negata da Norman con
il suo drammatico volo all’ingiù - ha estirpato la gioia di vivere e di
essere donna, genitrice, in questo mondo. La stessa cosa vale per me.
Purtroppo, la stessa cosa vale anche per David, il fratello “siamese” di
Norman, quantunque fossero nati con sette anni di distacco l’uno dall’altro. E questo aspetto legato a David, aumenta la mia angoscia e le
mie preoccupazioni. Infatti mi sono sempre sforzato, da padre, di creare un legame forte, solido, indissolubile fra i miei due figli. E ahimè,
ho raggiunto lo scopo al di là di ogni più rosea aspettativa: ho cresciuto due fratelli che di fatto erano la stessa persona e ora questo legame
fortissimo è tutto sulle spalle di David. Ne ho paura.
L’Inter è sempre stata il collante generazionale fra me e i miei due
splendidi figli, l’anello di congiunzione fra il loro mondo giovanile e il
mio, quello dei padri di famiglia.
Per l’Inter abbiamo sofferto e subito gli sfottò degli amici, quando
la Beneamata non riusciva a vincere più niente. Ma abbiamo anche
gioito per le sue ultime affermazioni in campo nazionale e internazionale, soprattutto in quel 2010, l’anno magico del “triplete” e dei cinque
trofei vinti.
Ricordo ancora i volti di David e Norman irradiati di felicità…
Ero felice anch’io. Ma la mia felicità era il riflesso della loro felicità. Vedevo i miei figli sempre più uniti, ed ero felice.
Quel 2010 ricco di soddisfazioni calcistiche che, disgraziatamente, si è portato via mio figlio, insieme ad ogni mia speranza del futuro.
Comunque la famiglia-Inter mi è stata vicina con un ineguagliabile Massimo Moratti, col dirigente Stefano Filucchi e col direttore di
“Inter Channel”, Edoardo Caldara. Ancora oggi – soprattutto con
Edoardo – ci sentiamo e scriviamo. Grande esempio di partecipazione
umana, prima ancora che sportiva: davvero unici.
98
Il presidente Moratti parla di Norman e del valore
simbolico della targa
La targa appena scoperta
99
Massimo Moratti con David (primo alla sua sinistra) e gli amici di
Norman, molti dei quali milanisti, però con la maglia dell’Inter
addosso
La mia famiglia dopo la scopertura della targa
100
“La sua morte ha dato importanza anche a noi”, è stato il commento dei suoi amici alla stampa, mentre si scopriva la targa e mentre arrivava anche il ministro per la Gioventù, Giorgia Meloni.
Oggi quella targa bronzea è ancora lì, baluardo morale e di rivendicazione giovanile. Eppur nel muto silenzio degli oggetti che compongono il suo mondo, essa parla, racconta, lancia il suo messaggio di
meritocrazia e legalità. Racconta molto quella targa. Racconta la storia
di un ragazzo, filosofo, musicista e bagnino. Racconta di una ribellione paragonata a quella di Jan Palach, lo studente di filosofia che si dette
fuoco a Praga, per protestare contro l’invasione dei carri armati sovietici:
101
E adesso Palermo ha il suo Jan Palach
Barsanufio mar set 14, 2010 6:07 pm
Norman Zarcone aveva 27 anni, si era laureato con 110 e lode in filosofia della conoscenza e della comunicazione e stava per concludere
il dottorato di ricerca. Norman ieri si è lasciato cadere dal settimo
piano della sua facoltà di lettere e filosofia, depredato dei suoi sforzi
e dei suoi sogni da una società che gli lasciava solamente piantare
ombrelloni in estate. Non si tratta di una esaltazione della morte ma è
il riconoscimento di un sacrificio, di una lezione che tutti noi dobbiamo apprendere. Da ieri Palermo ha il suo Jan Palach: lo studente
boemo di filosofia si era immolato contro il regime comunista che soffocava la Primavera di Praga, Norman invece si è immolato contro questa società degenere e la sua classe dirigente che soffocano le primavere di molte vite. Sono intimamente convinto che questo giovane
non era solo un debole e un depresso, come tenteranno di convincerci, ma era un giovane grandioso e soprattutto un vero filosofo
che seguendo l’esempio dei grandi del passato ha deciso di dare
la sua più grande lezione rinunciando al bene supremo della vita.
Il sacrificio di Norman accusa la nostra sciocca società che quello stesso pomeriggio si preparava ad eleggere la sua Miss Italia in una ragazzetta, senza colpe per carità, ma che leggendo solo libri d’amore e
disinteressandosi di politica ben presto guadagnerà assai di più di
Norman nella sua breve vita. Ma il sacrificio di questo giovane filosofo accusa la classe politica italiana e siciliana, una classe politica
mediocre, ignorante e criminale. I ben pochi casellari giudiziari puliti
dei politici siciliani da oggi contano un omicidio, quello di Norman. Ha
ragione il papà di questo giovane, siamo davanti ad un “omicidio di
Stato” perché Norman e i tanti giovani come lui derubati dei sogni e
del futuro sono vittime di quella massa di inetti arroccata nei palazzi
del potere che mentre affamano la Sicilia si permettono ancora di continuare a calpestare i siciliani con le loro indegne ed illusorie pratiche
clientelari. Da oggi però il sacrificio di Norman li perseguiterà notte e
giorno come una maledizione che li raggiungerà nei loro palazzi, nei
loro preziosi scranni e non risparmierà nessuno: tutti sono colpevoli
al centro, a destra e a sinistra, siano essi consiglieri di circoscrizione
o presidenti della regione, sono colpevoli di una infinità di reati, ma
sono soprattutto colpevoli di rubare i sogni, quei sogni che sono la
vita stessa dei giovani. E mentre cala il silenzio della stampa e della tv
impegnate a seguire lo sciopero dei calciatori miliardari, le alchimie
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politiche e le scalate sociali di nani e ballerine spero che il sacrificio di
Norman non venga dimenticato, spero che questa unica lezione del
professor Norman Zarcone non venga facilmente dimenticata e che
tanti si sentano ribollire il sangue nelle vene e trovino la forza di ribellarsi, di ritrovare la dignità civile di denunciare e combattere con le
armi della democrazia chi si prostituisce e si fa servo per potere, sesso
e denaro. Il teologo cattolico Josef Zeverina, autore della celebre
Lettera ai cristiani d’Occidente, scrisse a proposito dell’estremo gesto
di Palach: “La tragica morte di Jan Palach non fu un suicidio, ma un
sacrificio di sé. […] Palach morì perché vivessero gli altri”. Così è stato
per Norman Zarcone che non si è suicidato ma si è sacrificato perché
gli altri suoi coetanei possano vivere una vita che anche se dura, non
deve mai rinunciare al desiderio di una vita piena e di un futuro migliore.
http://estremocentrosicilia.wordpress.com/2010/09/14/e-adesso-palermo-ha-ilsuo-jan-palach/
Come “la tragica morte di Jan Palach non fu un suicidio, ma un
sacrificio di sé”, altrettanto si può dire per il drammatico volo di
Norman Zarcone: non il gesto inconsulto di un giovane depresso, come
qualcuno ha cercato di spiegare, semplicisticamente, in ossequio al rassicurante teorema del disagio giovanile, ma la pugnace opposizione ai
“rituali barocchi della tirannide”, rappresentata in ogni sua foggia,
forma e variante concettuale. Rappresentata, quel 13 settembre, sul palcoscenico di un’università italiana, laddove il sistema egemonico delle
baronie feudali venne messo a nudo più che in qualsivoglia libro o
inchiesta giornalistica. E l’attore, il primo attore, non cercò applausi e
consensi dal pubblico, né si portò dietro la claque. Egli si limitò a rappresentare il “sacrificio di sé” per lasciarlo in eredità ad altri giovani
che sarebbero venuti dopo di lui e non lo fece per spirito egoistico,
bensì per gridare ai quattro venti il suo messaggio contro il dispotismo
accademico, cartina al tornasole di una più vasta scala di manifestazioni oligarchiche che esprimono – purtroppo – l’attuale società in cui
viviamo.
“Palach morì perché vivessero gli altri. Così è stato per Norman
Zarcone, che non si è suicidato ma si è sacrificato perché gli altri suoi
coetanei possano vivere una vita che anche se dura, non deve mai
rinunciare al desiderio di una vita piena e di un futuro migliore”, è stato
scritto.
103
E il sacrificio del mio splendido, amatissimo ragazzo, va collocato in una visione altruistica del gesto. Niente cercava Norman al di là
del messaggio e niente poteva ottenere dopo aver lanciato quel messaggio (il suo codice morale) denso di angoscia e frustrazione. Un lascito
testamentario ai suoi coetanei e alle istituzioni, laddove senso di isolamento, consapevolezza di veder infranti contro un muro di cemento
armato i suoi sogni e le sue aspirazioni, sentimento di impotenza divenuto rifiuto del disonore, attraverso il rifiuto della propria esistenza,
esprimono la rappresentazione che volle mettere in scena Norman,
quale implacabile j’accuse che rimarrà indelebile nella percezione di
migliaia di giovani volenterosi e studiosi.
«Tu sei il mio canto, la mia memoria,
non c’è nient’altro, nella mia storia…»
Roberto Vecchioni
(brano dedicato alla madre di Che Guevara che attende, invano, il
ritorno del figlio)
Il mio adorato figliolo ha lasciato un segno fortissimo del suo passaggio in questa, spero non ultima, presenza terrena. Un anno fa mi
sarei detto sicuro del “ritorno”, adesso, onestamente, non sono per
niente sicuro e quanto ciò aumenta la mia angoscia. Come potrei pensare, senza impazzire e morire a mia volta, di non vedere mai più il sangue del mio sangue?
Vorrei – ma so di chiedere l’impossibile – che i baroni universitari facessero un pubblico atto di contrizione, dicendo che il sistema, la
grande Matrix degli atenei, è un’aberrazione che va superata con un
ritorno all’etica e all’impegno di tutti. Ma so che non avverrà mai.
Eppure questi uomini che decidono le sorti dei nostri ragazzi, hanno dei
figli, dei nipoti, delle persone che amano, non gli dovrebbe bastare
molto per comprendere il mio dolore. Basterebbe un piccolo atto di
riflessione nell’intimo di ciò che si ama, e pensare: «Se fosse capitato
a me?».
Sfortunatamente la sete di potere e di dominio non ti fa valutare in
maniera serena, altrimenti non ci sarebbero stati quegli attacchi immotivati alla memoria di Norman, reo soltanto, di aver squarciato un velo,
oltre il quale la realtà vera delle cose ci lascia intravedere quel sistema
104
clientelare nella sua nudità. Nella sua oscenità.
Ma per fortuna gran parte dell’opinione pubblica ha capito, sa già
cosa succede dentro quegli edifici ammantati di cultura. E sa già – lo
sa bene – che dietro il paravento di quella cultura, si celano giochi di
palazzo, alchimie clientelari, lotte intestine per comandare più degli
altri. Né più né meno, “riflessi di consolidate strutture di potere”, come
avviene nella politica e in ogni anfratto del nostro mondo sociale, dove
– per dirla con un proverbio popolare – “comandare è meglio di fottere” (in dialetto siciliano: u cumannari è megghiu i futtiri). Già, solo che
spesso comandare e fottere camminano per lo stesso sentiero e più si
comanda, più si fotte. A Norman non piaceva questo mondo di inciuci,
scambi di cortesie, giochi di bottega e complicità sottobanco. Egli era
un “filosofo dentro”, uno che avrebbe studiato tutta la vita se solo
l’avessero pagato con la cifra, piuttosto esigua (si parla di 1200 euro
circa), di un assegno di ricerca: questo aveva confidato all’amico
Giovanni.
Amava la filosofia e per essa è morto. Sembrerebbe un paradosso,
ma così non è se si guardano i fatti e la dirittura morale del mio ragazzo.
Quel “filosofo dentro” ucciso dai baroni
E’ il 13 settembre 2010. Norman Zarcone, un giovane dottorando di
27 anni dell’Università di Palermo, decide di porre fine alla sua vita
gettandosi dal settimo piano della Facoltà di Lettere. Norman si era
laureato con il massimo dei voti in Filosofia della conoscenza e della
comunicazione e stava per conseguire il dottorato in Filosofia del linguaggio. Una vita dedicata allo studio, all’amore per la conoscenza,
“un filosofo dentro”, come lo descrive in due parole Giovanni Liguri,
amico fraterno e compagno di band. Giovanni ci tiene a che Norman
non venga raffigurato come un giovane afflitto dal male di vivere. No,
105
Norman era un giovane gioioso, entusiasta della vita, talmente allegro
e scherzoso da essere soprannominato dagli amici “Zuzzurellone”.
Coltivava tante passioni e riusciva a viverle tutte in modo intenso. Tra
le sue passioni un posto di riguardo occupava lo studio. Giovanni
ricorda una frase ricorrente dell’amico Norman: “ Mi pagassero tutta la
vita per studiare lo farei “. E lo avrebbe fatto davvero: il suo sogno era
mettere il proprio amore per la conoscenza al servizio degli altri.
Qualcosa o qualcuno però lo aveva indotto a credere che le sue sarebbero rimaste vane illusioni, che per lui, nonostante i meriti, non ci
sarebbe stato posto all’interno dell’Ateneo palermitano. Frequenti
erano state, ricordano amici e familiari, le constatazioni di Norman
riguardo un sistema universitario che sopprime i talenti e premia,
invece, chi del talento ne può fare abbondantemente a meno, forte del
sistema clientelare al quale si appoggia.
Non usa mezzi termini
il padre di Norman,
Claudio Zarcone, quando afferma che suo
figlio è stato ucciso
dallo Stato, dalla mafia
baronale che serpeggia
negli
atenei
delle
nostre città, in un’Italia
che ha deciso di chiudersi ai giovani meritevoli e capaci. Un giovane uomo, cresciuto nei
valori della legalità,
della giustizia, della indipendenza di pensiero e nell’eticità dell’azione,
non ha potuto non ritenere mortificante ed indecoroso il trattamento
che il nostro Paese, la nostra politica, riservava e continua a riservare ai
ragazzi ed alle ragazze che con lo studio intendono dar forma alle proprie esistenze. L’estremo gesto di Norman, spiega Giovanni, non è
stato un atto di debolezza, è stato un atto di denuncia contro un sistema universitario corroso; più volte, continua l’amico, Norman aveva
parlato della necessità di un gesto forte, ma nessuno certo avrebbe
immaginato un tale epilogo. La famiglia e gli amici del giovane studente intendono fare in modo che il sacrificio di Norman non rimanga
vano, ma costituisca un momento di riflessione al quale l’Università italiana, lo Stato italiano deve costringersi.
L’Università di Palermo, dopo un’iniziale ritrosia, ha dedicato uno spazio dell’Ateneo a Norman Zarcone. La cerimonia si è tenuta mercoledì 4 maggio alla presenza del Rettore Roberto Lagalla, di alcuni pro-
106
fessori, di rappresentanti delle istituzioni e del presidente dell’Inter,
squadra di cui Norman era tifoso.
All’interno dello spazio, crocevia del polo
didattico palermitano, è stata scoperta una
targa intitolata “Spazio Generazione Norman”.
La Generazione Norman, una generazione
mortificata, una generazione defraudata dei
propri sogni, delle proprie energie migliori,
della propria innata capacità di guardare verso
il futuro.
Cristina Musumeci
«Oggi possiamo andare al primo piano dell’edificio 19 della Cittadella
universitaria di viale delle Scienze di Palermo per trovare “Spazio
Generazione Norman”: uno spazio che rappresenta idealmente tutti i
Norman della Sicilia, dell’Italia, di tutto il mondo e una targa, in loro
onore, è stata affissa» (Mag Magazine, anno 4, n° 15, giugno-luglio
2011).
107
L’ENIGMA DEL MAGO
Norman Zarcone, uno dei tanti giovani brillanti d’Italia o il precursore
di un’indignazione giovanile? Tutt’e due le cose potrei dire senza il
timore di essere smentito.
Ma potrei aggiungere: uno dei tanto cervelli del nostro Paese, che alla
fuga ha preferito la negazione del sistema clientelare a spregio della
propria, giovane, esistenza. Un ragazzo onesto, innamorato della vita,
che troppi fatti – alcuni noti, altri ignoti – hanno condotto alla protesta
nella sua forma più eclatante possibile. Come avrebbe fatto, pochi mesi
dopo, un giovane venditore ambulante tunisino, Mohamed Bouazizi,
imprimendo un segno indelebile alla ribellione che ha infiammato il
Nord Africa (il britannico Times lo ha proclamato persona dell’anno
2011).
Così, il portavoce di Italia dei Valori, Leoluca Orlando, ha commentato il gesto e la vicenda di Norman: «Una figura scomoda quella di
Norman, un gesto estremo il suo, che ha posto i riflettori su un sistema
universitario scorretto, che non dà spazio alla meritocrazia».
Mentre qualche mese dopo, in un blog si leggeva questo:
gracespace
31 gennaio 2011
DIARI
Nel Nome di Norman
Gad Lerner, stasera, all’INFEDELE, commentando la
rivoluzione in Tunisia generata dal suicidio di un giovane
ambulante, dice testualmente:
“Fortunatamente da noi, in Italia, non si è ancora arrivati
a dover vedere qualcuno che si suicida per protesta”
Interviene subito la sua ospite, Ouedjane Mejri: “No,
infatti. Speriamo che non si arrivi mai a tanto”.
Pur essendo entrambi ottimi giornalisti e persone che io
109
stimo tanto, stavolta anche loro sono caduti nella trappola
preferita di questo Paese, anche loro cioè hanno
dimenticato.
Hanno dimenticato lui, NORMAN ZARCONE, 27 anni.
Norman si è suicidato nemmeno 5
mesi fa, durante le
proteste contro la Riforma
Gelmini, gettandosi giù dalla
terrazza della Facoltà di Lettere
dell’Università di
Palermo. Lo ha fatto per paura,
per disperazione, per
mancanza di fiducia in un futuro
che non vedeva più. Lui,
che si era laureato con 110 e
lode, che sgobbava come un
matto per poche centinaia di euro
al mese, che vedeva il
suo misero posto di ricercatore
cancellato dalle nuove
leggi, togliendogli così quella fame di sapere e di dare che
era tutta la sua vita!
Lui che dava tutto se stesso per passione, per vero
impegno, mentre negli stessi giorni una trentina di
ragazze senza cervello si guadagnavano milioni e posti da
assessore semplicemente accarezzando “culi flaccidi” di
vecchi rimbambiti in una famosa villa presidenziale.
Norman si è tolto la vita perchè la riteneva inutile, in un
Paese che premia i corruttori, gli arrampicatori sociali,
la gente senza merito che va avanti fottendo il prossimo!
La differenza tra la Tunisia e l’Italia è proprio questa. In
Tunisia, un intero paese si è alzato in piedi e ha onorato la
memoria di un giovane suicida disperato combattendo per i
suoi ideali. In Italia si sono voltati tutti dall’altra parte,
tanto CHISSENEFREGA. E un intero Paese è tornato a
dormire un sonno pesante da schiavi senza dignità ...
http://gracespace.ilcannocchiale.it/2011/01/31/nel_nome_di_norman.html (2 di 4)
01/02/2011 07:56:02
110
Voglio chiarire ancora una volta, spero ultima : mio figlio dall’università non cavava un euro, quindi non “sgobbava come un matto per
poche centinaia di euro al mese”, però il senso complessivo del discorso che si legge nelle righe accanto riportate, è da me condiviso.
Norman era un amore di ragazzo, un lord, lo definivano i familiari della sua ragazza, tanto era educato e di buone maniere. Sapeva
ascoltare tutti e a tutti dava il suo consiglio, aiutando, come un novello Socrate, il proprio interlocutore.
Il suo amico e collega, Vitaliano Catanese, rese pubblicamente
questa dichiarazione: «Norman ascoltava sempre tutti. Confortava
sempre chiunque avesse bisogno dei suoi consigli. Io stesso, che ho
dieci anni in più del mio amico Norman, ho fatto ricorso alle sue parole. Mi dispiace di non aver potuto fare altrettanto con lui…».
Lo stesso Vitaliano, a un anno dalla scomparsa di mio figlio, ha
scritto questa lettera, che, vi prego di leggere con attenzione particolare, poiché in essa sono contenute opportune riflessioni filosofiche e
morali (fatte da un filosofo) e squarci di vita vissuta che meritano il
vostro tempo nella sua lettura:
Una frase per saluto
Nella foto: Norman e Vitaliano
«Tutto comin-
cia e finisce con
una frase, una
breve frase, lasciata lì, tra le pagine
di un quaderno che
ricorda tanto quello delle scuole elementari.
Giusto
nella prima di queste pagine, apparentemente simile
alle altre, risalta
una scritta: ‘libertà
111
di pensare è anche libertà di vivere o di morire’. Diversi sono gli interrogativi che questa particolare proposizione ha innescato in chi scrive
queste poche righe. Essa richiama, forse per il modo in cui è stata scritta, e quindi per stile e aspetto, i primi scarabocchi di uno scolaretto.
Indubbiamente, almeno a primo acchito, l’aspetto e la grafia sono in
questo caso segno del fatto che chi l’ha scritta non avesse molta dimestichezza con carta e penna; o forse, più semplicemente, questa volta
scriveva per nuovi intenti. Forse il modo con cui è stata scritta è segno
di una insolita finalità. Forse il suo autore non era solito scrivere per
altri. Forse non usava scrivere per esternare le proprie considerazioni
rendendole di pubblico dominio.
Effettivamente, io che ho avuto la fortuna di conoscere chi ha
scritto la frase, posso confermare che la sua grafia non era il massimo
in termini di comprensibilità. Ma, in questo caso, la scrittura particolarmente tremolante e insicura è dovuta al fatto che, quando Norman scriveva con carta e penna, non lo faceva mai per gli altri. No, non per
egoismo. Norman usava carta e penna solo per gli appunti; quegli
appunti che poi lo stesso Norman, più anziano di qualche ora, andava
a rileggere. Ma questa volta le cose stanno diversamente: la scrittura
insolita credo stia giusto a segnalare un’intenzione insolita. In questa
occasione credo che, più che in ogni altra occasione, Norman non si
sentisse a suo agio. Il modo in cui questa frase è stata scritta evidenzia
delle forme del tutto nuove, mai viste prima. Quelle parole, dal suono
vagamente profondo, sono state scritte per qualcuno, qualcuno che
sicuramente non avrebbe dovuto essere un Norman più vecchio. Questa
volta, questa particolare proposizione è stata concepita per essere letta
da qualcuno, un qualcuno in particolare, qualcuno cui Norman si riferiva chiamandolo compà. Potrei continuare cercando di chiarire, tanto
a voi quanto a me stesso, il destinatario reale di queste parole, lasciate
come una specie di testamento. Ma il risultato che ne verrebbe fuori
non farebbe altro che dividere, ancora una volta, le persone che in un
modo o nell’altro sono state condizionate dalla personalità e dalle scelte di Norman.
Ma che vuol dire ‘libertà di pensare è anche libertà di vivere e di
morire’? La cosa non è semplice. Qui non parliamo di cosa ognuno di
noi sia portato a credere; o cosa ognuno debba interpretare secondo una
specifica prospettiva ideologica. Qui bisogna cercare di comprendere il
112
senso globale dell’atto, che ha inizio proprio dalla fine: proprio da questa frase. Ritengo che ancora a oggi, a un anno dalla triste data che
segna in modo indelebile la storia di una persona speciale, non si sia
riflettuto abbastanza su questa frase, che non a caso sia anche tra le ultime cose che ci ha lasciato. Ci tengo inoltre a precisare che qui non si
voglia affatto insegnare qualcosa a qualcuno; e nemmeno procedere in
discussioni varie, sinceramente fuori luogo per un argomento così tristemente solenne. Non voglio affatto provare a interpretare i motivi o i
fatti che hanno dato il via a questa triste escalation. Vorrei solo dare lo
spunto per un’attenta riflessione sull’enorme peso e sul profondo valore filosofico di questo principio, esposto con quelle poche, tremanti
parole, in un quaderno ‘finale’.
Qui bisogna solo provare a comprendere fino in fondo cosa sia in
realtà questa frase, cosa significhi effettivamente, e cosa essa possa
restituirci di una persona così speciale come chi l’ha scritta. Tutto questo può essere ottenuto solo dopo aver inquadrato a dovere in quale
prospettiva essa vada letta e interpretata. Va infatti premesso che si tratta della realtà di Norman. Mi permetto di farlo solo per dar fiato e modo
di espressione a qualcosa che nella sua natura non vuol essere altro che
questo: pura espressione.
Quando ho fatto il mio ingresso nell’aula dove avrei dovuto seguire la prima delle materie che avrebbero costituito il corso in Filosofia
della Conoscenza e della Comunicazione, solo alcuni minuti dopo aver
preso posto, mentre osservavo quelli che sarebbero poi stati i miei futuri colleghi, la mia attenzione fu catturata da un ragazzo con uno zainetto ‘Invicta’ e una sahariana verde, con l’andatura particolare. Prima del
mio sguardo Norman riuscì a catturare l’interesse delle mie orecchie
col frastuono provocato dal suo goffo inciampare in una delle sedie
vuote. Se il buongiorno si vede dal mattino, allora devo solo aggiungere che il primo istante in cui lo vidi fu solo il preludio di tanti momenti esilaranti che l’alchimia tra mondo e Norman usava offrire. Dopo
averlo conosciuto, dopo aver scambiato alcune parole su quella prima
lezione seguita assieme, Norman diventò il mio collega di riferimento.
Spesso ci soffermavamo a commentare le caratteristiche dei docenti, o
le nostre preferenze per questa o quella materia. Inutile dire che ci trovavamo quasi sempre d’accordo sugli argomenti in questione. Il nostro
chiacchierare era un vero e proprio confronto. Nonostante fosse più
113
piccolo di me di quasi dieci anni riusciva con naturalezza a farsi ascoltare e, talvolta, anche a farmi cambiare idea, cosa peraltro poco frequente. Uno degli argomenti che spesso affrontavamo era la Fede.
Norman non era un credente. Non era un cristiano praticante. A
suo dire se c’era una qualche divinità che potesse essere Principio e
Ordine del tutto non avrebbe affatto potuto seguire i princìpi militareschi della Chiesa. Non posso nascondere che questo era uno degli argomenti che separavano nel modo più netto le nostre posizioni intellettuali. Come se non bastasse, i suoi ultimi interessi per la fisica non facevano altro che aumentare le distanze tra le nostre prospettive teologiche. Anche se iniziavamo un discorso parlando di sport, finivamo spesso per affrontare ‘battaglie’ dialettiche a sfondo religioso. Ricordo bene
che una delle mie argomentazioni più forti, seppure indimostrabili, era
quella che essendo stati educati secondo canoni cristiani non potevamo
che essere, anche senza rendercene conto, in qualche modo cristiani.
Quando arrivavamo al momento fatidico in cui facevo riferimento a
questa posizione, smettevamo di parlare dell’argomento e cambiavamo
discorso. Spesso Norman chiudeva il discorso con un suo morbido ‘può
essere’. Ero convinto che Norman fosse un ottimo cristiano. Norman
era il prototipo del cristiano. Generoso come pochi. Non voglio per
questo fare uno stupido e insignificante elenco delle sue doti d’animo.
Devo solo dire che Norman aveva una predisposizione all’ascolto e al
culto dell’altro che non ho mai riscontrato in nessuno; neanche in coloro che dovrebbero avere questa prerogativa per vocazione o perché
comunque ne hanno fatto un mestiere. L’altro era il protagonista della
giornata e della vita di Norman. A costo di sembrare stupido era disposto a fare il pagliaccio per strappare un sorriso a chiunque fosse con lui.
I suoi momenti pubblici erano tutti dominati dalla presenza e dall’esistenza degli altri. Cosa pensava quando fosse da solo è ormai poco utile
a tutti quanti siamo rimasti digiuni del suo affetto, delle sue parole,
della sua esistenza. Dopo la tragica scelta di Norman in molti hanno
indossato il camice della scienza, molti hanno preferito il commento al
forse più opportuno silenzio; in molti ci siamo concentrati per capirne
il perché, ciascuno a modo suo. Qualcuno si è anche cimentato in commenti poco felici, talvolta mossi da princìpi apparentemente cristiani.
Ma questo Norman probabilmente se lo aspettava. È forse proprio questo il motivo di quella frase. È forse questo il motivo del suo inneggia114
re alla libertà. Libertà di pensare è anche libertà di vivere o di morire.
Egoisticamente non posso fare a meno di leggere in quelle parole un
saluto, un ultimo abbraccio del mio amico, del mio fratello minore. Le
parole di Norman sono un riferimento, fin troppo chiaro, al dono più
bello che Dio abbia mai dato all’essere umano: l’intelletto. Molte
‘coscienze morali’ hanno puntato il dito contro il gesto di Norman, catalogandolo alla voce ‘problemi familiari’ o ‘depressione’; pronti a condannare Norman come chi semplicemente commette un delitto contro la
vita. Certo non si può invitare nessuno a condividere la sua scelta, ma
credo ci sia, in questo caso, l’obbligo di comprendere a fondo l’accaduto nella sua interezza. Il messaggio finale di Norman vuole proprio essere una richiesta speciale. Con quella frase credo che abbia proprio voluto chiedere scusa, forse perché sfinito e dilaniato dai morsi del suo possente pensiero interiore, ricordando ai suoi futuri giudici che: se Dio ci
ha regalato il libero arbitrio; e se i Padri della Chiesa hanno pensato proprio al libero arbitrio come ciò che libera Dio stesso, o qualsiasi entità
divina abbia creato l’essere umano, dal concetto di ‘male’; allora necessariamente possiamo anche pensare di essere liberi di scegliere; anche
di fermarci e di scendere dal rumoroso treno che chiamiamo vita. Se esiste e se vogliamo una completa libertà di pensiero, allora dobbiamo ritenerci liberi di scegliere. E se possiamo ancora scegliere, allora la scelta
verte su tutti gli argomenti possibili, anche quelli più tristi. Non voglio
giustificare tutte le scelte, ma solo ricordare e sottolineare come sembri
facile emettere giudizi sulle scelte altrui. A queste persone dal giudizio
facile vorrei ricordare che un giudizio viene concepito solo attraverso
parole, e che ogni parola indica e fa riferimento a una rappresentazione
di un numero molto ampio di cose. Pertanto ogni giudizio, essendo fatto
di parole, descrive cose in generale. In questa storia, in questo brutto
esodo, molti giudicano con superficialità la scelta di Norman, forse perché fanno riferimento ad esperienze precedenti proprio in modo astratto
e generale. La scelta di Norman non è stata qualcosa di generale: è stata
la scelta di Norman, e solo la sua. Anch’io vorrei sentire dalla sua bocca
le sue motivazioni, certamente interessanti; vorrei sentirgli pronunciare
queste stesse parole con quella sua esse leggermente felpata; ma
Norman ha deciso da tempo di andare via; di andare chissà dove.
L’unica cosa di cui sono certo, ancora oggi, è che se qualcuno lo starà
ascoltando in questo momento si sentirà sicuramente meglio di me che
115
posso ormai solo ricordarlo, insieme a quanti lo hanno giustamente
apprezzato e adorato».
Concordo con molte cose dette da Vitaliano, con il quale Norman
aveva pubblicato un saggio scientifico di logica. Un altro saggio
Norman lo aveva pubblicato da solo, sui princìpi filosofici di meccanica quantistica: entrambi i libri non hanno avuto valutazione presso le
“divinità” accademiche. Strano vero?
Quando negli atenei vengono quotati “certi” libri a cura dei “baronetti” o degli stessi baroni, i libri di Vitaliano e Norman, quantunque
tratti dalle loro tesi di laurea, non hanno ottenuto credito scientifico e
punteggio (per quel che ne so, i punteggi sono a discrezione del collegio dei docenti). Norman e Vitaliano non avevano “adiacenze” personali col triste mondo del mercimonio universitario, non potevano trarre vantaggi e punteggi dalle loro prime esperienze editoriali, per questa
ragione sarei curioso di vedere se e quanto abbiano inciso in termini di
punteggio tutte le pubblicazioni allegate agli atti del dottorato. Leggasi:
tutte.
Ma nessuno ha mai sentito il bisogno di avviare un’indagine interna per verificare la legittimità di ogni atto e deliberato del collegio dei
docenti, che sarà poi ispirato al massimo della trasparenza, non lo
discuto e neanche lo metto in dubbio. Una sbirciatina alla documentazione e alle prove d’esame (con relativa valutazione dei curricula e dei
titoli), comunque, io l’avrei data volentieri. E quando dico “io”, intendo un “io” impersonale che potrebbe vestire i panni di qualunque autorità accademica, ministeriale o di altra natura.
Ripeto: benché si trattasse di argomenti filosofici ripresi dalle loro
tesi di laurea, per quanto mi è dato conoscere, i saggi di Norman e
Vitaliano sono stati, per così dire, sottovalutati. Resta il fatto incontrovertibile, ad ogni modo, che diversi saggi prodotti dai dottorandi sono
una riproposizione di tesi di laurea, con la differenza che se hai le
“spalle coperte” il tuo libro viene valutato positivamente e in una data
maniera, diversamente sei messo fuori gioco e il tuo saggio per il collegio dei docenti non varrà proprio nulla, o giù di lì.
Ma torniamo a quei testi “a cura di”, molto in voga nelle università. Questi libri dalla scaturigine baronale, spesso a pagamento presso
case editrici note per pretendere l’acquisto di un certo numero di copie,
si ha pure la pretesa di farli studiare (e, ovviamente, comprare) ai gio116
vani universitari. Libri “a cura di”. Non testi dove emerga il contributo
personale di ricerca, la propria qualità scientifica e di scrittura, ma libri
di grandi autori del passato, passi scelti, ai quali il “bravo ricercatore”
scrive qualche paginetta di introduzione, presentazione o critica. Certo,
vi è un lavoro di documentazione bibliografica, ma a mio giudizio
(credo condiviso), si tratta appena di attività archivistica, non di ricerca in senso stretto. Eppure questi libri dei “baronetti” e dei loro potenti mentori, fanno punteggio, ti fanno scalare le vette della carriera universitaria, uniti ad altre guarentigie in sordina offerte dalla premiata
ditta “Baronie feudali e soci”. C’è gente che non sa distinguere la filosofia dalla filatelia, eppure occupa posti all’interno dell’università,
assolutamente usurpati. Grazie alla compiacenza del barone di turno e
a qualche libercolo “a cura di”. O quando si vuole lanciare uno dei propri “baronetti”, si fa pubblicare la sua tesi di laurea: in quel caso sì che
la tesi di laurea ottiene punteggio e vale come pubblicazione a tutti gli
effetti. Voltastomaco? Mais oui! No, non ci sto, un esempio pratico
voglio farlo. Ho qui, sulla mia scrivania uno di quei libri “a cura di” un
dottorando/a. Uno di quelli inseriti nel sistema feudale. Si tratta di un
ciclo di lezioni di un filosofo italiano, tenute alla fine dell’Ottocento su
Aristotele. Ebbene, 301 pagine di lezioni cui fanno da contorno otto
facciate e mezza di introduzione (“a cura di”). Si tratta quindi, di appena quattro pagine abbondanti scritte dal “bravo dottorando/a”. Poi, una
facciata e un pezzetto di “Nota al testo” (una scarna paginetta e mezza)
sempre per la penna del dottorando/a, completano il libro che avrà una
sua valenza nella carriera di colui (o colei) che ha dato alle stampe le
lezioni su Aristotele di un noto filosofo. La casa editrice, infine, con
tutto il rispetto per la sua storia e la sua attività editoriale, non è
Laterza, Adelphi o Einaudi, bensì una piccola realtà locale.
Domande? Digressioni? Commenti? Supercazzole varie? E vuoi
vedere che il libro “a cura di” è stato pubblicato a pagamento?
117
Per contro succede anche questo, non stupitevi più di tanto:
Scienziati italiani scoprono gene
Erano fuggiti negli Usa per nepotismo
Hanno rivelato l’esistenza di un gene chiave per lo sviluppo di
cellule staminali, utile anche contro i tumori cerebrali. Sono due
scienziati italiani, Antonio Lavarone e Anna Lasorella, ma la rivoluzionaria scoperta l’hanno fatta negli Usa, dove si erano trasferiti per un caso di nepotismo. Lavarone lasciò l’Italia in seguito
a una causa giudiziaria con i “baroni” dell’università di Roma. I
due sono negli States da dieci anni[…] WWW.SOCRATE2000.COM
Ad ogni modo, torniamo alla lettera di Vitaliano, che giudico
molto toccante e scritta col cuore, prima ancora che con la ragion filosofica. Ma mi soffermerò solo su pochi punti nodali, per non cadere
nella tentazione esegetica di un testo spontaneo, che non va interpretato, bensì fruito come una vestigia antica: nella sua bellezza.
Norman “generoso come pochi”, Norman che diviene collega di
riferimento di Vitaliano perché sapeva ascoltare e farsi ascoltare,
Norman, il “lord”, l’indiscusso bravo ragazzo, custode di un “possente
pensiero interiore”; Norman che “se qualcuno lo starà ascoltando in
questo momento si sentirà sicuramente meglio di me che posso ormai
solo ricordarlo, insieme a quanti lo hanno giustamente apprezzato e
adorato”.
Non sono io a parlare. Non è il padre a tessere l’elogio del proprio
figlio, ma l’ennesima testimonianza di chi ha conosciuto e stimato
Norman. Di chi ha studiato e dialogato con lui, piangendo la sua grande umanità scomparsa.
Vitaliano però non esita a definire mio figlio quale “cristiano”,
anzi “prototipo del cristiano”.
118
Con questa parte della lettera non concordo, mi scusino lo stesso
Vitaliano, mia moglie, mio padre, mio figlio David e mia nuora
Annalisa che sono cristiani convinti. La bontà di Norman, il suo altruismo, la sua generosità e la sua predisposizione nei confronti dell’altro,
non sono il prodotto di una maturazione religiosa, in qualsiasi direzione.
La grande anima di Norman era frutto di alcune qualità donategli
direttamente all’atto del suo concepimento: quindi una inclinazione
naturale all’altruismo e alla bontà d’animo; e poi una buona educazione, la sua storia personale fatta di incontri con persone perbene e intelligenti, le sue letture, la filosofia quale ago della bilancia nei suoi comportamenti di giovane studioso. Fondamentalmente però, sono certo
che Norman fosse buono dentro per regalo della natura e per consapevolezza civile, così come è per l’altro mio figliolo, David, speculare al
fratello per bontà, educazione, generosità e predisposizione verso gli
altri. Poi, se a quella che io chiamo “natura”, qualcuno vorrà dare un
altro nome più preciso, ben venga.
Il Seneca moderno contro i baroni. Il mio pargolo dagli occhi
dolci ha preferito volare altrove. È andato alla ricerca di nuove dimensioni, forse meno paradossali di quella che noi, ancora vivi, accettiamo
ogni giorno. Sarebbe da stupidi voler stabilire quali siano il principio,
il senso e il fine di questa nostra dimensione terrena. Io, oggettivamente, non potendo e sapendo offrire spiegazioni convincenti al mio intelletto finito (figuriamoci agli altri), mi limito a sospendere prudenzialmente ogni giudizio. Non mi hanno mai convinto – e affascinato - le
spiegazioni delle dottrine monoteistiche e con una buona dose di paganesimo precristiano, comunicante a volte con forme di panteismo filosofico, ho immaginato, sperato, l’esistenza di flussi di coscienza superiori, benché imperscrutabili. Volevo crederci in un mondo di pure
energie nel quale avrei incontrato ancora la mia famiglia – punto fermo
del mio peregrinare terreno – perché, diversamente, non avrei visto più
nessuno scopo nell’eterna dialettica di nascita e morte.
Ora non so più. Vorrei credere ancora in un aldilà nel quale gli
affetti, l’amore, si incontrino ancora, si incontrino sempre, si uniscano
“sub specie aeternitatis”.
Non riesco a pensare, senza rischiare d’impazzire, che l’immanen119
za della nostra quotidianità sia il punto di partenza e d’arrivo di questo
nostro viaggio chiamato esistenza. Se penso che l’unico nostro scopo
sia vivere e morire, vivere per morire, mi viene l’angoscia. Se solo per
un attimo mi sfiora l’idea di non dover mai più incontrare la mia
famiglia, conclusa questa fase della nostra vita individuale, beh, allora
la mia angoscia monta a tal punto che sfiora la pazzia e mi fa imprecare, bestemmiare, contro dèi ignoti e conosciuti. Come potrei infatti,
minimamente pensare di non dover mai più stare vicino a Norman,
David, mia moglie e tutti gli altri a me cari? Questa ipotesi è davvero
sconvolgente, pericolosa per l’equilibrio psichico. Anche se non ho più
progetti da realizzare in questa (spero non ultima) vita, non ce la farei
a continuare senza la dolce illusione del ritorno. Malgrado queste mie
considerazioni-aspirazioni, però, voglio dire che oggi sono lontano dal
concetto di Dio. Non so nemmeno se sia diventato ateo, non saprei.
Rita Borsellino, alla quale confidai questo mio stato d’animo, ebbe a
dirmi: «Lei non è diventato ateo, è solo arrabbiato col Padreterno».
Anche questo è vero, ma io, che ho sempre apprezzato le virtù degli dèi
pagani e della religiosità orientale e nordica, che non mi sono mai detto
ateo, ora come ora mi sento molto vicino a consumare un’idea di ateismo, che confliggerebbe, tuttavia, con la mia aspirazione al ricongiungimento di uomini e sentimenti.
Ecco perché mi dichiaro soltanto “confuso”. Offeso dagli dèi.
Norman ha compiuto un gesto solenne e misterioso che merita
rispetto. Giusto io, il padre, la persona che più soffre insieme ai suoi
familiari, chiede rispetto per il suicidio del proprio figlio.
Ho ascoltato e letto troppe cazzate, commenti severi da parte del
“becchino” di turno, i cori ululanti dei cosiddetti “difensori della vita”,
tanto da provare una nauesea sartriana verso costoro, bravi a sparare
sentenze basate su meri valori-cornice e incapaci di cogliere la solennità e l’imperscrutabilità di un gesto tanto antico e conosciuto, quanto
attuale in ogni contesto sociale e storico. Farisei, parolai, vuoti retori
affetti da dislessia mentale, non potrei definirli diversamente coloro
che difendono in astratto la vita, prescindendo dalle contingenze individuali e dall’energia magmatica che scorre nelle vene di un aspirante
suicida. Un gesto da rispettare, se proprio non lo si vuol comprendere,
che non può essere commentato con superficialità dai soliti, orridi,
censori, e dagli altrettanto soliti, orridi, moralisti di casa nostra.
120
Oggi 29 novembre 2011 leggo del suicidio assistito di Lucio
Magri. Una selta ponderata, meditata ampiamente da un uomo di 79
anni, per il quale la vita non aveva più scopo. Non un pischello andato
fuori di testa, ma un uomo maturo, colto, protagonista di pagine importanti della politica italiana, sebbene posto agli antipodi della mia
visione culturale e di partecipazione alle sorti del Paese. Anche Lucio
Magri merita rispetto, allo stesso modo di Mario Monicelli, altro intellettuale che nella fase più matura della sua vita, a 95 anni, scelse di
anticipare il suo vis-à-vis con la morte. Tutti dobbiamo tributargli
rispetto, tutti dobbiamo accettare la loro scelta senza ricorrere ad
armonie segrete infrante o ad inviolabili dogmi sanciti dal Verbo divino all’atto della Creazione.
Quanto al mio adorato ragazzo, che ha visto violata la sfera delle
proprie aspirazioni giovanili, dei propri sogni, del proprio mondo fatto
di innumerevoli passioni e ricerca del Sé, ha scritto bene la criminologa Irene Messina dalle pagine della rivista “Mag”, con un articolo dal
titolo “Norman Zarcone: il Seneca moderno contro i baroni”.
«Con il suicidio non è la morte che s’impossessa del soggetto, e
quindi della vita – osserva Irene Messina – ma è il soggetto che s’impossessa della morte, così come ricorda Norman stesso nella sua frase:
“La libertà di pensare è anche la libertà di morire”. Norman, il Seneca
dei nostri giorni che scrive all’amico Lucilio con parole tanto più inquietanti e profetiche se si pensa che lo stesso filosofo si sarebbe, poi, rifugiato nell’estremo gesto del suicidio: La vita, come sai non sempre
merita di essere conservata. Non è un bene vivere, ma il vivere bene.
Perciò il sapiente vivrà tutto il tempo che ha il dovere di vivere, non
tutto il tempo che può vivere [...] Se gli si presentano molte disgrazie
che turbano la sua serenità, dà l’addio alla vita».
Per la criminologa, «Norman, il Seneca dei nostri giorni, l’eroe
moderno dai ‘nobili’ ideali, studioso e dotato di moralità, quando ha
sentito che la società in cui viveva lo deludeva e lo feriva, decide di
togliersi la vita. Un gesto ‘dimostrativo’, dunque, come atto di protesta
estrema, non violenta, attraverso il quale dire no ai soprusi subiti».
Quello di Norman, pertanto, «potremmo ancora definirlo» un
«suicidio altruistico», «un gesto affinché gli altri non debbano subire
dagli altri, dalla politica. Un atto contro il potere e le baronie».
Mio figlio ha vissuto un’epoca brutta per le giovani generazioni,
121
priva di prospettive, oscura nei valori. Egli ha scelto, sebbene la sua
scelta sia stata quella della ribellione assoluta. Però a modo suo, ha
scelto. Mi sforzo di comprendere anche le ragioni di chi crede alla vita
come entità metafisica, sacra e inviolabile, ma allo stesso tempo mi
pongo come un bastione in difesa delle idee di mio figlio: anch’esse
sacre e inviolabili.
Purtroppo una certa forma di “parrocchialismo” fa presa nella percezione delle cose di molta gente e ho dovuto subire, a pochi giorni
dalla morte di Norman, i commenti cattivi, velenosi, di alcuni blogger
affetti da oltranzismo pseudo-religioso. Ricordo che molti, amici di
mio figlio o semplici sconosciuti, insorsero contro le idiozie scritte sul
web, tanto che questi blogger furono costretti a cancellare le loro “altissime meditazioni” sulla vita.
Voglio ricordare solo un tale, sedicente cristiano, cattolico, che
scrisse pressappoco così: «Norman è stato cattivo perché ha trasgredito la legge di Dio e adesso sarà all’Inferno. Suo padre non lo vedrà mai
più, tranne che non sia stato cattivo come suo figlio e allora si incontreranno all’Inferno».
Non spreco una riga per commentare queste cattiverie che si commentano da sole.
Ribadisco invece la libertà di scegliere degli uomini, che in quanto scelgono, per il solo fatto di scegliere, si pongono sempre in posizione “eretica” (infatti “háiresis”, scelta, viene da “hairêisthai”, fare la
propria scelta).
Comunque, della libertà di scegliersi il proprio destino parleremo
più avanti, in questo momento, 2 dicembre 2011, voglio riportare una
notizia dei media che parla da sola, non necessita di interpretazione
alcuna. Oppure c’è qualcuno che intenda spiegarla meglio?
122
“Esami comprati all’Università”,
30 indagati c’è anche il fratello di
Angelino Alfano
Falsi risultati nei registri informatici, nel mirino ex studenti di
Economia e Scienze politiche. Una dipendente dell’Ateneo era già
stata licenziata. Una materia costava anche tremila euro
di SALVO PALAZZOLO
PALERMO - Un esame di Economia costava anche tremila euro. Per
Scienze Politiche, c’erano prezzi più popolari, meno di mille euro. Per
gli esami di Ingegneria si poteva pure pagare a rate. E così, all’università del capoluogo siciliano, la laurea era quasi un gioco da ragazzi,
ragazzi benestanti s’intende. Bastava pagare, naturalmente in contanti, e l’agognato esame appariva d’incanto nel sistema informatico
dell’Università: a tutto provvedeva un’impiegata infedele della segreteria di Economia, che aveva accesso ai registri informatici di molte
facoltà. C’è anche Alessandro Alfano, fratello di Angelino, il segretario
del Pdl, fra i trenta ex studenti che avrebbero conseguito facilmente
alcuni esami universitari: la Procura di Palermo gli ha notificato un
avviso di proroga delle indagini. Il fratello dell’ex ministro della
Giustizia è indagato per concorso in frode informatica: si è laureato
nel 2009, a 34 anni, in Economia, e adesso il suo titolo di studi è traballante. Alfano junior è dall’anno scorso segretario generale della
Camera di Commercio di Trapani. Nel 2006, quando ancora studiava
alla facoltà di Economia, era già stato nominato segretario generale di
Unioncamere Sicilia […]
02 dicembre 2011
Certo vi sono ancora delle indagini in corso, alcuni aspetti dovranno essere chiariti completamente, altri comunque sono già chiari (in
ogni caso non terrò certo gli aggiornamenti della vicenda, non rientra
negli obiettivi di queste pagine).
Si dovrà appurare chi sono stati i beneficiari e i complici della truf123
fa informatica, ma il reato è confermato, consumato. Quindi ripeto: c’è
qualcuno che intenda spiegare meglio la notizia?
Questa frode informatica all’interno dell’Ateneo di Palermo è
venuta alla luce proprio nel mese di settembre 2010, negli stessi giorni
di quando mio figlio spezzava la propria vita in opposizione a sistemi
clientelari e ingressi agevolati da tutele baronali all’interno dei quadri
accademici. Sembrerebbe quasi una burla del destino, dove, purtroppo,
di burlesco non c’è assolutamente niente. Pensateci, parrebbe una
burla. Se non fosse un dramma.
L’enigma del mago. Quando venne la polizia a portarmi la nefasta notizia – “Ah, che terribili cinque della sera!” – rinvenimmo sul
bracciolo di un divano un quadernetto a quadri, nel quale erano contenute le ultime riflessioni di Norman. Non certo una canonica lettera
d’addio con le spiegazioni del gesto che si apprestava a compiere. Un
florilegio, invece, di pensieri e saluti dai quali si capiscono molte cose
di carattere filosofico ed esistenziale, oltre che umano e affettivo. Cose,
che narrano la sua scelta, al di là di spiegazioni elementari, retoriche,
usuali nella casistica di chi compie quel gesto. Non trovammo un foglio
con su scritto “la faccio finita per questo e quell’altro motivo, chiedo
scusa a tutti e ricordatevi che vi voglio bene…”.
Non sarebbe stato da lui. Norman era, “filosofo dentro”, non poteva pertanto raccontarci una storiellina sul perché della sua decisione,
come se si trattasse di una banale lettera d’addio. Come ogni filosofo
che si rispetti, egli aveva cominciato da qualche tempo a lasciare tracce, segni, messaggi ipertestuali, per aiutarci a comprendere dopo, a
“cose avvenute”. E come ogni filosofo che si rispetti ha preferito, volutamente, lasciare spazio anche alle critiche, alle fantasiose elucubrazioni di sedicenti specialisti dell’anima, opinionisti, tuttologi, moralisti
incancreniti e imbecilli sempre presenti.
Un paio di giorni prima di morire, Norman aveva mandato questo
messaggio ai suoi amici, tutti, contenente un enigma: «Un mago, il
quale non sbaglia mai le sue previsioni, prevede durante un sogno la
propria morte, che sarà per impiccagione. Allora racconta al re di aver
visto lui in sogno, mentre veniva giustiziato, dopo essere stato condannato a morte.
Il giorno seguente il re decide di abolire dal regno la pena di morte,
tranne quella per impiccagione. A tal punto, il mago, preoccupato,
124
escogita un piano per cercare di salvarsi. Torna dal re e preannuncia
che, se non eliminerà ogni pena di morte, compresa quella per impiccagione, lui, cioè il re stesso, morirà impiccato: questa, la sua terribile
visione. Il re intimorito, alla fine, elimina tutte le forme di pena di
morte, compresa quella per impiccagione. Il mago sarà finalmente
salvo, oppure sarà ugualmente vittima del corso degli eventi che ha
appena costruito e determinato?».
Gli amici, ovviamente, rimasero interdetti.
Norman poi spiegò con la sua solita naturalezza ai suoi amici sbigottiti: «Non c’è soluzione all’enigma. Si può solo dire che ognuno è
artefice del proprio destino». Questa la sua grande, ultima, lezione di
filosofia. Già, ognuno è artefice del proprio destino. Ogni singolo
uomo ha, deve avere, la libertà di scegliere la propria strada.
Qualunque essa sia. Che essa sia condivisa, condivisibile, o meno.
Nessuno ha, dovrebbe avere, il diritto di biasimare le scelte esistenziali di un uomo, il suo diritto alla scelta, sebbene dolorosa, “eretica” e di non facile comprensione. E ve lo dico giusto io, il più deflagrato degli uomini.
Una vita dentro un quadernetto. Purtroppo il “deserto cresce” e
colui che custodisce al suo interno un’anima nobile, dovrà fare i conti
con la desertificazione culturale e morale che appartiene a noi tutti, in
quanto eredi e costruttori di questa civiltà ossessionata dal guadagno e
dal consumo, povera di spirito, priva di eleganza in senso etico e civile. Eleganza, in questa sede la intendo come “ciò che è ben selezionato”, appunto elegans, dalla radice leĝ, da cui discendono léghein (“raccogliere”, “riunire insieme”) e soprattutto logos: “ciò che ordina, raccoglie e comprende”. Quindi: “il discorso coerente, la parola sensata, il
detto memorabile, l’oracolo, l’origine, l’indagine”. In breve: parola e
ragione. Queste precisazioni (per me opportune al fine di valutare l’uso
del termine eleganza da me qui usato), sono di Elémire Zolla, illuminante come sempre.
Un pensatore molto acuto e sottovalutato quale Ernst Jünger, tratteggiando la figura del suo “ribelle” come colui che “passa al bosco”,
che “prende la via del bosco” (mutuando un’antica leggenda islandese),
ci dice che serve una nuova forma di ribellione per sottrarsi “all’irregimentazione zoologico-politica” cui ci ha consegnato il nichilismo, nato
da una cristallizzazione della tradizione culturale occidentale.
125
Laddove il “bosco”, la “terra selvaggia”, il rifugio segreto dal
quale fare partire la propria ribellione individuale, sono “la metafora
per indicare un territorio vergine in cui ritirarsi dalla civiltà ormai
segnata dal nichilismo, in cui sottrarsi agli imperativi delle chiese e alle
grinfie del Leviatano” (A. Gnoli – F. Volpi, I prossimi titani.
Conversazioni con Ernst Jünger).
Vi dico subito e in tutta sincerità: non scrivo per compiacere il mio
Io. Non voglio sfoggiare alcunché; non è il caso di sciorinare frammenti di cultura, quindi vi prego di credermi, queste citazioni di pensatori
sono funzionali alle pagine di questo scritto.
Cionondimeno, continuo a pregarvi di leggere queste righe qui
sotto riportate, inserendole nel contesto che andremo a delineare.
Jünger scrive così nel 1950, in occasione del sessantesimo compleanno
di Martin Heidegger (“Oltre la linea”):
«Ma la libertà non abita nel vuoto, essa dimora piuttosto
nel disordinato e nell’indifferenziato, in quei territori che sono,
sì, organizzabili ma che non appartengono all’organizzazione.
Vogliamo chiamarli “la terra selvaggia” (die Wildinis); la terra
selvaggia è lo spazio dal quale l’uomo può sperare non solo di
condurre la lotta, ma anche di vincere. È il terreno primordiale
della sua esistenza, la boscaglia da cui un giorno irromperà come
un leone»
Norman scelse la “via del bosco”, si ritirò nella sua “terra selvaggia”, preferendo lasciare il suo messaggio devastante (nella forma e nel
contenuto) piuttosto che abbracciare la cieca sottomissione e la connivenza; egli, si ritirò dentro il bosco della sua anima per denunciare la
catastrofe dell’università, ormai nella sua fase cronica di malattia
morale. Norman, irrompendo sulla scena “come un leone”, denunciò e
urlò a squarciagola contro quei “sacerdoti del nulla” adusi ai loro inveterati rituali di potere. E solo in tale contesto osò “l’attraversamento
della linea, il passaggio del punto zero”, per ritrovare “il terreno primordiale della sua esistenza” e compiere la più grande delle metamorfosi (in senso nietzscheano): (ri)diventare fanciullo.
Pedro Calderòn de la Barca diceva che “la vita è sogno”, Pindaro
che “l’uomo è ombra di un sogno” e Aristotele che “tutti gli uomini per
126
natura desiderano conoscere”. Ebbene Norman volle sognare ad occhi
aperti (il modo più difficile di sognare) per uscire dall’ombra e abbracciare il sogno nella sua interezza, incontrando in questo modo la propria, incontaminata, essenza. Ma nello stesso tempo – come sosteneva
Aristotele - conoscendo nuove dimensioni extratemporali. Così il suo
grido di belva ferita (nella dignità, nell’umanità, nell’ethos, nella libertà) in un istante divenne sogno, realtà e conoscenza.
Non poteva essere diversa, purtroppo – e dico purtroppo – la morte
di un “filosofo dentro” che intendeva ribellarsi al nulla, assurto – ahinoi – ad esperienza umana. Adesso mi fermerò con le mie considerazioni – definitele pure stucchevoli – di carattere pseudo-filosofico, per
aprire al pensiero di Norman. Alla vera filosofia, benché racchiusa in
poche, brevi, taglienti proposizioni di un diario, o negli appunti sul suicidio che egli aveva raccolto, selezionato, forse per scrivere un saggio,
o un articolo. Questo non sarà mai dato saperlo. Lo ha già detto
Vitaliano: mio figlio usava carta e penna solo per annotare i suoi
appunti o per scrivere fiumi di simboli logici o equazioni matematiche,
nei fatti, la sua, non poteva definirsi una bella grafia. In questo ha preso
da me, che alle elementari venivo sempre rimproverato dalla maestra,
per la mia scrittura a “zampa di gallina”. Per fortuna il talento segue
spesso la via opposta della calligrafia, così Norman ha espresso la sua
intelligenza e la sua preparazione facendo marameo alla bella grafia.
Vi sono delle cose, delle riflessioni a posteriori, che lì per lì non
sei in grado di fare, comprendere preventivamente, perché la tua testa
– la testa di un genitore – non riesce a realizzare, forse per qualche
forma di schermo protettivo che impedisce ai nostri pensieri di diventare assillanti, insistenti, anche fuorvianti. Ma oggi, a “cose fatte”,
posso analizzare i segnali che Norman lasciava per strada, credo inconsapevolmente. O con la consapevole “astuzia” di far sì che certi segnali si comprendessero dopo, a “cose fatte”.
In quel periodo (mi riferisco agli ultimi cinque-sei mesi che precedettero la tragedia) Norman, come giornalista, stava agendo su due
fronti: le recensioni di libri con storie di suicidi all’interno, e un’inchiesta sulla mafia. Aveva scritto sulle colonne de “Il Siciliano” un articolo lunghissimo su “ I dolori del giovane Werther” di Goethe e ne stava
preparando un altro su “Le ultime lettere di Jacopo Ortis”, personaggio
foscoliano che nel romanzo epistolare del poeta di Zante, muore
127
anch’egli per mano propria, anticipando il corso della natura. Come
Werther. Come Norman. Come tanti altri.
Mio figlio, il mio ragazzo dallo spirito puro, aveva molto in comune coi personaggi di quei romanzi che recensiva. E, sfortunatamente,
egli ne aveva coscienza chiara e precisa.
Romantico, nobile d’animo, filosofo e poeta ad un tempo. Logicomatematico che riusciva a guardare oltre la realtà fenomenica, o dei
simboli delle sue astruse elaborazioni scientifiche, dei numeri, dei calcoli, della fisica quantistica da lui amata e conosciuta (dottrina “eretica” come “eretico” era mio figlio), con un tuffo nel mondo della poesia: emozionale, intimo e aperto ai flussi di coscienza non conoscibili
dalla fredda razionalità, che pure era oggetto dei suoi studi accademici. Patriota, libertario, nemico delle oppressioni e dei linguaggi mafiosi, grande tensione morale senza mai scadere nel moralismo di dottrina, capace di superbi impeti e pensieri arditi, cuore generoso e temerario, mente affilata come un “rasoio di Occam”, eppure votata alla ricerca di una conoscenza altra, quella del poeta.
La nuova, grande passione di Norman in seno al giornalismo, raccontavo, era scaturita per l’inchiesta. Stava realizzando un documentario sulla mafia di Brancaccio, il quartiere dove noi viviamo. Lo stesso
quartiere di don Pino Puglisi. Lo si vedeva in giro per le strade con la
sua videocamera o con la macchina fotografica, con le quali intendeva
immortalare scene di quotidianità, monotonie esistenziali e fatti strani
legati al contesto delle periferie palermitane, da sempre serbatoio di
manovalanza e materiale umano per la criminalità organizzata. Non ha
fatto in tempo a finire il suo documentario, che avrebbe mandato – mi
diceva – a Current Tv.
Ricordo che il venerdì antecedente quel tragico lunedì 13 settembre 2010, Norman aveva superato il colloquio per essere iscritto
all’Ordine dei giornalisti, dopo aver frequentato un corso organizzato
dall’Ordine medesimo ad Acireale. Era raggiante, pieno di idee e progetti. Ma anche pieno di rabbia verso la mafia, la politica mafiosa, i
sistemi omertosi, le connivenze dei colletti bianchi con le zone oscure
della finanza e dell’economia (e della stessa mafia). Se da un certo
punto di vista veder canalizzata la sua rabbia e la sua tensione di ribellione civile in ambito giornalistico trovava la mia approvazione, da un
altro punto di vista – quello della preoccupazione di un genitore – lo
128
esortavo alla prudenza, tenuto conto della materia che egli stava trattando. Io e suo fratello David, gli dicemmo di stare attento, perché la
mafia ha molti sostenitori, anche fra la gente comune (malauguratamente) e qualcuno avrebbe potuto allertare i rappresentanti della
(dis)onorata società. Quindi, occhio e prudenza. Questo consigliammo
al mio intrepido figliolo, tutto passioni e spirito libertario. Non so perché, né come, mi venne in mente il giovane collega Giancarlo Siani,
ucciso dalla camorra suppergiù all’età di Norman, per le sue inchieste
giornalistiche. Non so perché, né come, ma un brivido sinistro, tanto
imperscrutabile quanto inaspettato, percorse la mia schiena. Ancora
oggi mi interrogo su quel brivido e ancora oggi non so se interpretarlo
come il segno di una tragedia che si sarebbe consumata un paio di giorni dopo.
Poco dopo le cinque della sera insieme alla polizia, trovammo adagiato sul bracciolo di un divanetto dello studio che dividevo con
Norman, il quadernetto a quadri con le sue ultime riflessioni. Il saluto
alla vita e agli amici. Non l’addio, ma il saluto, in quanto il contenuto
di quelle righe appartiene per struttura e forma più ad un saluto che ad
un freddo addio: sembrerebbe quasi un arrivederci, un abbraccio canzonatorio alla morte attraverso il breve fluire dei ricordi da condividere con gli amici, unici veri destinatari di quelle ultime righe. Un arrivederci, forse inconsapevole, o forse consapevolissimo, frutto di una
visione del mondo aperta ad ogni ipotesi, compresa quella del ritorno.
Nel diario manoscritto, si trovano simboli logico-matematici, suppongo per far comprendere alcune cose ad eventuali, pochi specialisti,
oppure perché nello stesso quaderno stava dapprima appuntando alcuni elementi simbolici, poi integrati con messaggi nascosti fra le pieghe
delle brevi proposizioni e saluti finali.
In una pagina di questo quadernetto si trova un riferimento
all’Inter, la squadra del suo, del nostro cuore, insieme al fratello David.
Anche questo passaggio è strano. Si vede un omino nerazzurro disegnato da mio figlio, con accanto scritto “NORMAN”. Disegnato male,
perché Norman come me, a differenza di David e di mia moglie, era
negato per il disegno figurativo.
Poi, sotto emerge quest’altra scritta: “AMALAAAA”. Però c’è
una cosa bizzarra, da interpretare, se mai fosse possibile.
Vi sono tre quadratini con dentro scritto: in uno “sì”, in un altro
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“no”, nell’ultimo, “forse”. Il “no” viene ignorato. Il “forse” viene
segnato con una croce, ma poi una linea ellittica, appuntita da una freccia al suo apice, parte dal “forse” per indicare il “sì”. Lui ha sempre
amato l’Inter, su questo dubbi non ne ho. Penso che fino all’ultimo egli
abbia voluto tracciare, per mezzo di passaggi simbolici, il suo percorso d’amore verso l’Inter: depennando il “no” e percorrendo la parabola che porta dal “forse” al “sì” completo e totale. Potrebbe essere – e
dico potrebbe essere – la strada che ha condotto Norman ad amare la
sua, la nostra Inter. Anche in questo caso, un tracciato esistenziale, benché sportivo, espresso in filosofia nascosta. O, diversamente, per il suo
habitus filosofico e birbone di seminare indizi, ma mai conferme,
potrebbe aver utilizzato l’Inter in senso metaforico per alludere a qualcosa di diverso, ma totalizzante come la sua amata squadra nerazzurra.
Su ciò in ogni caso, sarebbe opportuno sospendere qualsiasi congettura, per la nostra incapacità di decifrare segni che Norman ha voluto
rimanessero tali. Non è proprio il caso di emulare Dan Brown per
affrontare le tappe di un “Codice Norman”, che forse non esiste, o forse
resterà per sempre nascosto in quelle pagine. Limitiamoci alle suggestioni che ciascuno di noi potrebbe ricavare da quelle frasi dense
d’amore (l’amore di Norman verso la vita, i suoi amici, la filosofia e la
conoscenza), affidate alla partecipazione emotiva del lettore, senza
decontestualizzare eccessivamente le annotazioni di un giovane che da
lì a poco avrebbe messo un punto definitivo alle sue speranze. Alla sua
esistenza.
In un’altra pagina Norman scrive ad uno dei suoi amici: «Cumpà
ho sempre pensato che tu fossi il mio angelo custode, letteralmente. E
non potrò mai smettere di pensarti, ti voglio bene. Esistono due libertà
incondizionate: la libertà di pensiero e la libertà di morire, che è la stessa di vivere. Norman».
Già, lo stramaledetto “libero arbitrio”. L’audacia dell’intrepido
nocchiero del pensiero, che ha voluto difendere fino all’ultimo “un
libro, un libro vero”, per dirla con Vecchioni.
Altra pagina del diario sul divano :«Oh compare e Fulvietta,
[due amici, Alessandro, laureato in Filosofia e Fulvia, un’amica, fidanzata di Alessandro] la natura del mondo è il divenire, rinascere come
essere e come nulla. Vi ricordate? Al Massimo “ho fatto una minchiata”, ahahch… [un modo di scherzare, di esclamare di Norman]. Ma
130
quante ne abbiamo combinate? Ricordatemi come il solito folle burlone. Il cane di Zenone è molto più veloce di me. Vi voglio bene,
Normanone».
Burlone fino all’ultimo il mio “Normanone”, altro che depresso:
era nato ed è vissuto come “Zuzzurellone” e gioia di vivere, al di là
della formuletta-stereotipo che piace molto agli autori di best seller,
alla stampa che affonda nella retorica quando non sa trovare altre forme
linguistiche per un pezzo giornalistico, o alla dottrina inossidabile di
quanti credono in un futuro migliore, alla pace nel mondo, alla fratellanza universale, all’amore astratto per l’umanità e ad altre minchiate a
tema (perdonatemi: sono mie riflessioni che esulano dal contesto di
queste righe, ma sono mie e come tali le rivendico).
Qualche tempo dopo Alessandro mi raccontò l’episodio del
Massimo (nome di una piazza e di un Teatro di Palermo) citato da mio
figlio nel suo quadernetto. Piovigginava. Norman, Alessandro e Fulvia
avevano appuntamento nella piazza del Teatro, dal quale prende il
nome. Norman arrivò in anticipo e quando vide i suoi amici, si nascose dietro un’auto posteggiata. Sbucò fuori all’improvviso per spaventare Alessandro e Fulvia, ma scivolò e cadde per terra, suscitando l’ilarità dei passanti, oltre che dei due fidanzatini. Racconta Alessandro:
«Vedemmo una criniera leonina sbucare fuori e poi lo vedemmo cadere, stemmo a ridere per un’ora». Ecco la “minchiata” del Massimo cui
si riferiva Norman. Il burlone. L’innamorato della dimensione briosa e
scanzonata della vita, che andava oltre i princìpi della logica pura e dell’analisi matematica.
La pagina finale del “diario sul bracciolo” è la prova del nove,
di quanto Norman fosse allegro e giocherellone, alla faccia degli
“avvoltoi della morte”, i solerti commentatori ed opinionisti animati
chi da fede religiosa, chi da impegno laico e civile. Sempre pronti a
sputare le loro squallide sentenze morali su gesti impenetrabili nella
loro segreta essenza, anche se non comprensibili dal senso comune,
quando il senso comune preferisce rimanere tale, invece di osare un
gradino oltre per tentare un minimo esercizio di comprensione e apertura della mente.
Queste, le righe di commiato di Norman dai suoi amici e dalla
vita: «Amici, endeheheheh [altra forma di scherzo vocale fra Norman
e i suoi amici] in questi momenti penso ad ognuno di voi e a tutte le
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cose fatte insieme. Quanto cavolo sono? Impossibile ricordarle tutte.
Mi dispiace, ma con fredda lucidità vi devo dire che ho capito tutto,
poco, o niente. Ma devo sapere cosa ho capito. È nella mia natura la
ricerca. Mi attende una nuova scoperta, anche se non potrò commentarla. Avrei voluto trasmettervi il mio essere in un altro modo: con le mie
creazioni, le mie aspirazioni, i miei dubbi, con quello che potevo fare
con tutto me stesso. Avevo grandi idee ma con il mio più… [parola
incomprensibile nella scrittura a mano] vi dico: vi voglio bene.
E comunque – [rivolgendosi all’amico Giovanni, milanista sfegatato] – Balotelli è più forte di Pato. Ahahah…mdceheeheh… [sempre
forma di complicità linguistica con gli amici]. Sono sempre il vostro
clown Zuzzurellone».
L’amico Giovanni nella sua canzone composta per Norman (con la
chitarra magica di Gabriele, co-autore), dal titolo “EnNeZeta”, iniziali
evidenti di Norman Zarcone, canta: «Col tuo pensiero, sei stato libero
di vivere e morire».
Cosa desumere dalle ultime parole di mio figlio? «Devo dire che
ho capito tutto, poco, o niente. Ma devo sapere cosa ho capito». «È
nella mia natura la ricerca. Mi attende una nuova scoperta, anche se
non potrò commentarla». «Sono sempre il vostro clown Zuzzurellone».
Un lascito filosofico senza ombra di dubbio, una dichiarazione
d’amore verso il sapere, anche a costo di ciò che un uomo ha di più prezioso. Filosofo fino in fondo il mio “clown Zuzzurellone”.
Profondo, indagatore, votato alla conoscenza fino all’ultimo respiro. E tutto ciò mantenendo il suo habitus beffardo e meravigliosamente unico: «E comunque Balotelli è più forte di Pato». Ma si è mai visto
tanto spirito ironico in una persona che da lì a poche ore si sarebbe suicidata?
L’incredibile leggerezza di un coreuta espressa attraverso poche
parole, ritmate come una musica suonata direttamente dai satiri, coi
flauti di Pan. La morte, che lo avrebbe ghermito a stretto giro di posta,
è stata sbeffeggiata, irrisa dalla più alta ironia che avrebbe fatto invidia
allo stesso Socrate davanti alla cicuta: «E comunque Balotelli è più
forte di Pato».
E con la stessa leggerezza con la quale ha affrontato la morte, dopo
averla canzonata, Norman ha lanciato la sua sfida radicale al sistema.
Lui ha cercato la morte, abbracciandola consapevolmente dopo aver
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invertito i ruoli del meccanismo ancestrale, anzi accettandola come
“codice della propria identità”, e contemporaneamente ha inferto un
colpo fatale ad una stirpe di “filosofi d’accatto”, incapaci di comprendere gli stessi libri che leggono, stritolati dalla loro spirale di vanità.
La morte non è stata più la morte, perché egli ha stravolto le regole del gioco e il simulacro baronale è stato sbugiardato più che in qualsiasi inchiesta giornalistica o di una procura della Repubblica.
Con amarezza devo dire che questa è stata la più grande vittoria di
Norman. Una vittoria della quale avrei fatto volentieri a meno, è chiaro, tuttavia un messaggio che vola sulle teste di tanti corvi che intendono spacciarsi per usignoli.
Non voglio fare il padre che tesse le lodi del proprio figlio scomparso, ma dico, vi accorgete di quanta bellezza racchiudano le parole di
quel quadernetto? La maestà del libero pensiero che diviene arte, teatro, scena, tragedia, ahimè, esperienza vissuta.
«…vado là dove abita la madre delle cose… »
Novalis
Il cane di Zenone è molto più veloce di me. Mi sono scervellato
su questa ultima annotazione sul cane di Zenone. Anche altri amici di
Norman laureati in filosofia, si sono arrovellati in congetture. Diversi
professori hanno avuto perplessità interpretative sulla massima scritta
in quel quadernetto.
Ho consultato dei testi e internet. E sono andato a ripescare il vecchio, glorioso, manuale universitario di Nicola Abbagnano in tre tomi.
Così mi sono ricordato dell’etica stoica, che comprende il suicidio.
Molti stoici scelsero la morte per mano propria, lo stesso Seneca, che
scrisse (ripreso da Oswald Spengler):“Ducunt fata volentem, nolentem
trahunt”. In sintesi, il destino guida chi lo accetta e lo asseconda, trascina invece chi vi si oppone. Ora la domanda che mi accompagnerà
per tutta la vita è: mio figlio Norman ha assecondato il destino o vi si
è opposto e ne è stato trascinato? Era quello il suo fato, oppure egli ha
deviato la traiettoria dello stesso?
Il discorso si sposta, a mio modesto avviso, nell’era della Stoà (III
secolo a.C.), a Zenone di Cizio quindi, non a Zenone di Elea, e al suo
paradosso della tartaruga e di piè veloce Achille, di qualche secolo
133
prima (sono diversi, comunque, i paradossi formulati dall’Eleate, non
solo quello della tartaruga).
Cercando e curiosando ho trovato questa allegoria famosa degli
stoici, che assimila il rapporto fra l’uomo e la vita, ad un cane legato ad
un carro. Il cane ha due possibilità: seguire armoniosamente la marcia
del carro o resisterle. La strada da percorrere sarà la stessa in entrambi
i casi, ma se ci si adegua all’andatura del carro, il tragitto sarà armonioso. Se, al contrario, si oppone resistenza, la nostra andatura sarà affannosa, affannata e destinata al fallimento. In questo caso saremo trascinati contro la nostra volontà. L’idea centrale di tale metafora è espressa in modo sintetico e preciso da Seneca, col detto già citato: Ducunt
fata volentem, nolentem trahunt. Oggettivamente, penso che mio figlio
si riferisse alla morale stoica piuttosto che ad altro, salvo che non abbia
inteso qualcosa di altro ancora, il cui segreto ha portato nella tomba.
Adesso sono io il cane legato al carro dell’allegoria stoica e non so davvero se avrò la forza di assecondarne il tragitto, o diversamente attendere di essere spazzato via come un fuscello dal fiume impetuoso del
fato.
D’altronde un vecchio proverbio cinese (raccontato dallo psicoterapeuta Giorgio Nardone) recita così: «Ognuno di noi va a dormire
ogni notte con una tigre accanto. Non puoi sapere se questa al risveglio
vorrà leccarti o sbranarti».
La similitudine di fato e tigre è molto accattivante ed io per primo
conoscerò meglio, in seguito, se verrò sbranato o leccato, trascinato dal
carro, o saprò correre più velocemente del cane di Zenone.
I motti estremo-orientali adoperano molto la simbologia della tigre
per affermare la vittoria dell’uomo che saprà essere fermo, saldo nei
princìpi, nel coraggio e nella volontà. Un filosofo un tantino “antipatico” (per carattere schivo e per aver scritto in maniera un po’ farraginosa), tuttavia sottovalutato a mio modo di vedere, quale Julius Evola, ci
parla del “cavalcare la tigre” nell’introduzione all’omonimo libro: «Se
si riesce a cavalcare una tigre, non solo si impedisce che essa ci si
avventi addosso, ma, non scendendo, mantenendo la presa, può darsi
che alla fine di essa si abbia ragione».
Norman aveva recensito per un magazine il libro di Giorgio
Nardone, “Cavalcare la propria tigre”, chissà come avrà maturato interiormente l’allegoria orientale. Non ci è dato saperlo. Però io so bene –
134
anche per aver letto il libro di Evola – cosa mi rimane dell’antico proverbio orientale, riscontrabile inoltre nella cultura persiana (Mithra
cavalca il toro al posto della tigre e dopo averlo sfiancato lo uccide): la
tigre che dovrò cavalcare si chiama dolore per la perdita di mio figlio,
angoscia di non vederlo più, sentimento di impotenza per una giustizia
che preferisce la benda agli occhi, assenza di prospettive per il futuro e
tante altre cose che non sto qui ad elencare.
Potrei anche battere questa tigre, così, in questo modo che il pensare comune ritiene giusto e condivisibile, cioè vivendo e continuando
a lottare. Ma poi, siamo sicuri che questa vittoria non sarebbe invece la
vittoria della tigre?
Fuoriuscendo dall’apparenza della metafora e superando il suo
strato di superficie, chi ci dice che quella da noi tutti considerata una
vittoria, non sia viceversa una sconfitta abilmente camuffata dai nostri
schemi mentali, incapaci di riconoscere il trionfo della tigre?
Sono argomentazioni che non finirebbero mai di dilatarsi oltremodo, quindi lascio le cose per come sono, per non dispiacermi il senso
comune, per non farmi puntare i fucili addosso.
In fondo chissenefrega se a conti fatti sarà la tigre a vincere, oppure chi avrà la tenacia di cavalcarla.
Cosa importa e soprattutto a chi importa, se io batterò la mia tigre
o verrò sbranato da essa?
Lasciamo le cose come stanno, regaliamo ai rapaci sputasentenze
il compito di formulare delle verità assolute, a me non interessano più.
So solo che Norman mi ha lasciato, cosa volete che mi importi di sconfiggere la mia tigre, quando non ho saputo fronteggiare quella che ha
fatto a pezzi mio figlio? Quando non sono riuscito a pararmi contro di
essa e a farmi dilaniare al posto di quel “filosofo dentro”, che era, è, la
mia vita?
Ma la domanda finale, guardando da angolo visuale diverso, è
sempre la stessa (riflettete prima di rispondere): è la vittoria sulla tigre
la vittoria dell’uomo, o è la vittoria della tigre una forma sconosciuta,
comunque non accettata, l’altra faccia delle vittoria dell’uomo?
Discorsi troppo complicati, lasciamo le cose per come sono…
135
Nelle foto: 2011 - gli studenti della scuola “Don Milani” di
Palermo, durante le manifestazioni per Giovanni Falcone e la sua
scorta, espongono lo striscione dedicato a Norman, assunto come
esempio di legalità e meritocrazia
136
IL MISTERO DELLA LIBERA MORTE
Sono andato a riguardare alcuni articoli scritti da Norman, dopo
aver rinvenuto sul computer una cartellina con annotazioni e citazioni
di libri di filosofi. I filosofi e le loro citazioni fanno riferimento al suicidio in quelle pagine raccolte da Norman.
«Vi è solamente un problema filosofico veramente serio: quello
del suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta è rispondere al quesito fondamentale della filosofia».
Questo è l’incipit del saggio “Il mito di Sisifo” di Albert Camus,
citato da Norman in un suo articolo.
Da queste battute di Camus, sottolineate in un pezzo giornalistico
da mio figlio, già si capisce come quello della morte fosse un problema filosofico, oltre che di natura biologica, anche per Norman stesso.
Nello stesso articolo è citato un capitolo del “Così parlò
Zarathustra” di Friedrich Nietzsche, dal titolo “Della libera morte”
(penultimo capitolo della Parte prima).
Sono andato a riprendere quel libro di Nietzsche, che per me è
stato una sorta di testo sacro nel periodo giovanile, riletto ancora un
paio di volte attorno ai miei trenta-quarant’anni e qualche volta solo
consultato.
Si trovano queste affermazioni: «Muori al momento giusto: così
insegna Zarathustra».
«Vi faccio l’elogio della mia morte, la libera morte, che viene a
me, perché io voglio».
«Libero per la morte e libero nella morte…».
Non sto qui a commentare queste sentenze molto forti dal punto di
vista di una morale come il senso comune la intende, dubito che la persona non avvezza a Nietzsche capirebbe il traslato filosofico in esse
contenute. Mi limito, per quanto possibile, a fare il notaio, a trascrivere
gli ultimi pensieri di Norman e sono certo che in qualche modo, cederò
alla tentazione di offrire un mio punto di vista. Spero di resistere.
Tuttavia Norman colse, e lo scrisse, come Zarathustra invitasse i
suoi amici-discepoli a morire al momento opportuno: ripeto, mi terrò
fuori da ogni eventuale disputa filosofica in proposito.
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Allo stesso modo, vi inviterei a non percepire la superficie delle
cose, delle affermazioni, dei pensieri (sia di Nietzsche, di Camus, che
di Norman medesimo) poiché sconfineremmo in un territorio mai
esplorato del tutto, mai esplorabile del tutto.
Che facciamo allora: proibiamo i libri degli autori morti suicidi? O
allarghiamo il campo e mettiamo all’Indice tutti i libri in cui si parla del
suicidio, o un personaggio di quel libro – per quanto di fantasia muoia suicida?
Proibiamo Goethe, Foscolo, Balzac, Tolstoj, Dostoevskij e un
elenco interminabile di autori per aver scritto sul suicidio?
Per rimanere ai nostri giorni, poi, mettiamo al rogo i film di
Monicelli e gli articoli di Magri?
Come nel paradosso qui sotto riportato, che non stenterei a definire quale pacchiano rigurgito di un moralismo d’antan:
Dostoevskij induce a suicidio: rinviata inaugurazione metro
Mosca
Una ‘fermata’ decorata con le immagini dei romanzi più famosi
L’immagine incombente di Fëdor Dostoevskij sulle mura della nuova
stazione metropolitana di Mosca potrebbe indurre i viaggiatori a gesti
inconsulti. E per evitare che possa trasformarsi in una sorta di “mecca
del suicidio”, le autorità moscovite hanno deciso di rinviare l’inaugurazione della nuova stazione dedicata all’autore di Delitto e Castigo
Per quanto a noi possibile, dunque, cerchiamo una dimensione
meno ridicola della questione, cercando di comprendere (come ammoniva Sartre nella Nausea), che «il mondo delle spiegazioni e delle
ragioni non è quello dell’esistenza».
Un giorno Norman venne da me sorridente e mi disse: «Papà,
conosci Yukio Mishima?».
I suoi occhi luminosi per la scoperta di un nuovo autore li ho ancora dentro, marchiati a fuoco: dolci, vivi, brillanti, esprimenti curiosità,
gioia. Che strana la vita. Mi stava parlando di Mishima, un autore che
ho letto e che è stato un’icona per la mia generazione. Uno scrittore
morto suicida per protesta contro il governo nipponico che, a suo modo
di vedere, aveva smantellato le difese militari. Un suicidio rituale (sep138
puku) contro un Regno del “Sol Levante”, ormai noncurante della propria, millenaria, tradizione culturale. Fra filosofi e scrittori, si può
morire anche così, per questi motivi.
No, vi prego, non scagliatemi il vostro “crucifige”, non ho nessuna intenzione di iniziare una campagna pro suicidio, proprio io non
potrei. Sto solo dicendo che fra uomini dalla sensibilità elevata può
anche nascere una diversa considerazione del proprio rapporto con la
vita e con la morte. Oggi rifletto e credo che mio figlio avesse già deciso da tempo (non so quanto tempo) e per tale motivo, da buon filosofo
e indagatore della conoscenza, stesse cercando riscontri alla sua idea,
resoconti di altri che lo avevano preceduto.
Io comunque gli risposi: «Il vecchio Yukio? Certo che lo conosco».
«Hai qualche libro suo?».
«Certo amore mio, ho almeno sei libri di Mishima, più un paio che
parlano di lui».
«Davvero? Fammene leggere qualcuno».
Presi da uno scaffale due libri dello scrittore giapponese e lui era
contento, soddisfatto, entusiasta, anche del fatto che suo padre conoscesse bene Mishima, del quale forse qualcuno gli aveva parlato. O
forse nessuno gliene aveva parlato, ma la sua curiosità inesauribile lo
aveva condotto occasionalmente alla conoscenza della figura di
Mishima, poiché, presumo, non lo avesse studiato all’università.
E allora, vietiamo anche Mishima insieme agli altri?
In percentuale, quante persone che hanno letto – fra milioni di lettori – Mishima e Majakovskij, Von Kleist e Pavese, si sono suicidate
per spirito di emulazione?
E di un matematico geniale come Alan Turing, grande studioso
dell’intelligenza artificiale, vessato e condannato per la sua omosessualità e poi morto per libera scelta, ne vogliamo parlare?
Ditemi, vi prego ditemi, quanti illustri filosofi contemporanei e del
passato, hanno scelto la morte volontaria solo per imitare Socrate?
Ditemi quanti. Forse nessuno? Sicuramente nessuno.
Bene, facciamoci del male, bandiamo dalle nostre scuole anche i
dialoghi platonici. E per cortesia, non mi si venga a rifilare la pappardella sull’“eticità” della scelta di Socrate, quando decise di bere la cicuta.
Non vi sono suicidi di seria A e suicidi di serie B, e fin quando non
139
entrerà nelle coscienze di ciascuno di noi quest’assunto spesso ignorato, la strada che ci separa dalla comprensione del fenomeno più antico
della storia dell’uomo, sarà sempre in salita.
Per tornare a Norman e al suo nuovo interesse per un autore controverso come Mishima, devo dire che a tutta prima fui orgoglioso per
come il mio ragazzo allargasse i suoi orizzonti dalla logica alla fisica
quantistica, dalla filosofia alla letteratura di frontiera.
Ma quel giorno in cui gli passai fra le mani i testi di Mishima,
accusai uno strano brivido dentro le ossa. Lo stesso che avrei accusato
tre giorni prima del suo volo “come un aquilone”, quando mi raccontò,
a tavola, che stava realizzando un reportage sulla mafia: quella volta lì,
lo ricordo ai più disattenti, mi venne in mente il giovane collega
Giancarlo Siani, assassinato dalla camorra.
Brividi, presagi, premonizioni. Tutta roba che ho sempre guardato
con paura, proprio perché non sono uno scettico incallito. Elementi che
solo oggi potrei valutare come tali, a carte scoperte, mentre a quel
tempo cercavo, forse inconsciamente, di accantonare dai miei pensieri.
Anche in questo caso che fai: chiudi tuo figlio in una stanza? Gli
togli di mezzo tutti i libri? Lo porti da un prete per un consiglio? Cose
viste a posteriori, che allora non potevano trovare una loro ratio: non
tutti i presagi diventano realtà, anzi, spesso sono solo proiezioni delle
nostre paure. E non tutto ciò che chiamiamo presagio, sovente è tale.
E poi Norman – ripeto anche questo – non manifestava sindromi
depressive, la sua allegria faceva frizzare tutti coloro che gli stavano
vicino. Essere arrabbiati contro il sistema è un fenomeno fisiologico
per un giovane vulcanico e intellettualmente onesto. La depressione,
per dio! è ben altra cosa. Ho un paio di amiche eternamente depresse e
il loro deficit psicologico lo si annusa già nell’aria. In Norman, a differenza, respiravi voglia di comunicare, di esserci, di fare nuove scoperte. Quanto ciò fino alla domenica sera di quel settembre 2010. Il lunedì, la sua tensione verso nuovi orizzonti di conoscenza, diviene dramma personale, familiare e generazionale. Con lui, infatti, si è suicidata
idealmente una generazione intera.
Leggiamo cosa scrive la giornalista Alessia Orlando:
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«E pensare che era un antidepressivo»
Il ricordo degli amici e del fratello. «Aveva una missione:
tirarti su»
PALERMO. Il viaggio a Liverpool e un
caffè veloce. Questi sono i primi ricordi
che affiorano alla mente di Giovanni e
Alessandro, quando si parla di Norman.
“È stato un viaggio fantastico – racconta
Giovanni – Ci siamo divertiti un botto.
Ricordo che siamo andati al Lunapark.
Non è stato facile convincere Norman a
salire sulla ruota panoramica. Ne era
terrorizzato, soffriva terribilmente di
vertigini. Eppure. Ha deciso di superare
anche questa paura lanciandosi nel
vuoto. Questo mi fa riflettere su quanto
forte e pensato sia stato il suo gesto. Non
era depresso era solo demoralizzato,
arrabbiato perché sapeva che contro i
raccomandati non aveva chance”.
“Norman era uno che pensava –
aggiunge - forse pensava troppo. Viveva
per lo studio. Lavoravamo insieme in un
lido balneare d’estate e alla fine del
turno, invece di rilassarsi, Norman
cercava carta e penna per risolvere
qualche calcolo o per scrivere un
pensiero su cui stava riflettendo. Lo
chiamavo il Mozart della filosofia”.
L’ultima volta. “La sera prima – continua
Giovanni – eravamo con amici in un
locale, lo sentivo distante. E siccome è
141
sempre stato uno ‘zuzzurellone’, sempre
con la battuta pronta, sembrava strano
vederlo così pensieroso. Ma non
potevamo immaginare. A turno tutti gli
abbiamo chiesto cosa avesse, alla fine
mi ha detto: ‘Domani ti racconto’. Ma non
l’ha fatto”. Anche Mirko e Fabiola
ricordano il loro Norman, sono sempre
presenti in casa Zarcone, hanno fatto il
presepe e stanno lavorando su un video.
Intanto David e Annalisa, il fratello e la
cognata, preparano la cena per la
famiglia allargata, formata da amici e
conoscenti che si alternano. “Norman –
spiega Alessandro – era un
‘antidepressivo’. Aveva il potere di farti
stare bene e soprattutto di farti sentire
qualcuno. La sua missione era tirarti su il
morale. Faceva sembrare importante
ogni iniziativa personale. È difficile da
spiegare ma era terapeutico. La sua dote
era il suo altruismo. Ci manca Norman,
manca a tutti noi”. Quel saluto veloce.
“L’ultima volta che ho visto Norman –
conclude – è stato ‘quel’ giorno. Ci siamo
incontrati durante la pausa pranzo,
abbiamo preso un caffè insieme, ma poi
lui se ne è andato senza salutarmi. Non
mi ha guardato negli occhi. Non era da
lui. Io ho un grande rimpianto, quello di
non aver capito cosa gli stesse
succedendo. Era bravissimo ad aiutare
gli altri ma non ha voluto che nessuno lo
aiutasse. È morto da filosofo”.
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Le righe scritte da Norman per la recensione de “I dolori del
giovane Werther”, quando lessi l’articolo sul settimanale “ Il
Siciliano”, non mi crearono particolare apprensione, in fondo si stava
parlando del suicidio del protagonista, di un amore impossibile, dello
spirito pre-romantico di quell’epoca, di accostamenti e similitudini con
altri pensatori, di astrazioni letterarie. Ci pensarono i suoi amici, dopo
la tragedia, a farmi rileggere con occhi diversi il contenuto di quelle
frasi, anche se essi stessi non percepirono alcunché di anormale a
primo acchito. Tutto, purtroppo, avviene col comodo senno del dopo.
Ecco un frammento del commento di Norman: «Ma non sarebbe
difficile riconoscere in Werther il nemico mortale della decadenza
morale, della mediocrità insulsa dell’uomo, ossia dell’individuo forgiato coi pregiudizi intellettualistici della virtù socratica, della compostezza figurale e della limpida sobrietà comportamentale, che vuole portare nella latenza entro forme equilibrate e ornamentali, l’ebbrezza creativa e la forza istintiva della passione. E se Werther sente l’impellente
necessità di predicare nel suo dialogo con se stesso l’etica del suicidio,
Nietzsche dedica in Così parlò Zarathustra un capitolo sull’autoeliminazione del Sé, intitolato Della libera morte, nel quale esorta alla morte
volontaria in tempo opportuno».
Miseriaccia porca! Norman stava progettando, dopo una personale e completa maturazione filosofica, di abbandonare il mondo coi suoi
pregiudizi intellettualistici e la sua decadenza morale, espressioni dell’insulsa mediocrità dell’uomo.
Una scelta consapevole, la sua, dettata dallo schifo provato per
questo mondo nel quale primeggiano mezze tacche, servi, affaristi e
personaggi disposti a vendersi.
Mio figlio non intendeva vendersi. E in questo spaccato esistenziale si inserisce la sua opposizione alle baronie universitarie. Da qui, sciaguratamente, discende il successivo suo diniego alla vita medesima.
Cionondimeno, eviterò di appesantire queste pagine con eccessive
considerazioni filosofiche, dunque vi citerò appena, per sommi capi,
altri due libri dello stesso autore, dei quali alcuni passaggi vennero
inseriti da Norman in una cartella sul computer. Testi, ovviamente, che
sviluppano nelle parti scelte da Norman, anche il tema del suicidio.
Si tratta di Arthur Schopenhauer e delle sue opere “Il mondo come
volontà e rappresentazione” e “Parerga e paralipomena”.
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Vi offro uno spaccato sintetico di quanto scriveva Schopenhauer:
«Il suicida vuole la vita, ed è scontento solo delle condizioni che gli
sono capitate. Egli non rinuncia pertanto in alcun modo alla volontà di
vivere, ma soltanto alla vita, distruggendone il singolo fenomeno. Egli
vuole la vita, vuole la libera esistenza ed affermazione del corpo; ma
l’intreccio delle circostanze non glielo consente, e gliene deriva un
grande dolore».
Va chiarito a scanso di grossolani equivoci, che Schopenhauer non
celebrava l’elogio del suicidio tout court, né volgarizzò mai la discussione sul tema: egli si preoccupò, secondo la propria natura filosofica,
di affrontare l’argomento (inserito in un contesto tipico del suo pensiero), di darne una spiegazione teoretica.
E maledettissima miseria! il mio filosofo dentro, quella birba del
mio figliolo, chissà da quanto tempo aveva iniziato il suo percorso di
pensiero in direzione della “scelta” e del “momento opportuno”.
Attenzione, ho detto percorso di pensiero: questa è, e deve essere, la
nostra chiave di lettura.
Purtroppo come ci rammenta anche
Schopenhauer, “il suicida vuole la vita, ed
è scontento solo delle condizioni che gli
sono capitate”.
E il gesto di Norman non stride con il suo
amore per la vita. Egli voleva la vita. Non
voleva più vivere in una società livellata
verso il basso, laddove chi è disposto a
scendere a patti gode di corsie preferenziali rispetto a chi, dei patti, non vuole proprio saperne.
A cavallo dell’anno 2011 e i primi del 2012, cioè nel giro di una
settimana, in Italia si sono suicidate cinque persone. Cinque vite spezzate in poche ore. Ciascuna di esse per motivi, parrebbe, legati alla crisi
economica.
«Le ragioni per un suicidio si trovano sempre», ci rammenta saggiamente l’editore italiano del libro “American dust”, nella sua nota
introduttiva all’opera di Richard Brautigan, scrittore americano inserito (a torto o a ragione) fra i guru della “Beat generation”. Veniva chiamato l’“hippy gentile”, anche se egli, parecchio scontroso e fuori dagli
schemi, rifiutò sempre l’etichetta di “hippy”. Particolare da non dimen144
ticare: Brautigan morì suicida. Si sparò un colpo di fucile calibro 44
nella sua casa californiana (era il 1984).
«Il suicidio è un sublime tema filosofico e un grandioso tema
sociologico e statistico, ma è un altro affare nei fatti, e nei fatti i suicidi sono altrettanto diversi quante sono le persone che li compiono», in
esso, per esso e attraverso esso non si esprimono “formule burocratiche” o commenti che discendano da un pensiero monocefalo. Il suicidio, non è un bianco sudario o un concetto fatto con parole scritte in
aramaico.
Con ciò voglio dire che sarebbe ora di smetterla con i commenti
imbevuti di moralismo, perché la “libera morte” è stata scelta in passato dagli uomini e lo sarà ancora. Non c’è bisogno di alta filosofia e
immensa dottrina per capire, basta un po’ di ragionevolezza. E talora è
sufficiente scrollarsi di dosso quella patina di perbenismo che spesso ci
induce a riflessioni contorte, oltre che acritiche. I miei fratelli, a poche
ore dalla morte di Norman, trovarono nel suo letto alcuni libri con delle
pagine segnate. Uno di questi, faceva riferimento al suicidio altruistico
(questa pagina era piegata con una “orecchietta”), opposto al suicidio
egoistico. Non è certo questo semplice episodio a supportare le mie
idee, molti indizi concorrono in una unica e sola direzione: mio figlio
si è ucciso per amore, per altruismo. Amore verso il pensiero, gli altri,
la vita. Questa è la vera chiave di lettura, tutto il resto, è appena un
mero brusio di voci fastidioso e superficiale (come tutti i brusii).
E non mi stancherò mai di gridarlo: Norman si è dato la morte
volontaria, perché “vivere gli era diventato intollerabile”. Per lui era
intollerabile vivere in una dimensione sociale fatta di troppi compromessi e accordi in sordina. Ha preferito scagliare la sua profezia da quel
settimo piano di Lettere, piuttosto che cedere a quelle “regole” non
scritte e non sancite da nessun atto legale.
Immagino anche i pensieri di molte persone: avrebbe potuto cercare fortuna altrove, partire, emigrare, fuggire all’estero – come fanno
in tanti - insieme al suo cervello libero e pensante.
Io per primo avrei preferito tale soluzione, non mettetelo in dubbio. Ma purtroppo, mio figlio faceva parte di quella categoria di intellettuali, di uomini, di idealisti, che alla fuga preferisce la morte.
Non vi chiedo pertanto di capire completamente, sarebbe chiedere
troppo. Vi chiedo soltanto di immedesimarvi più che potete.
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D’altronde un grande scrittore russo quale Ivan Turgenev, scrisse: «La
maggior parte della gente non capisce come altri possano soffiarsi il
naso in modo diverso dal loro».
«La libertà è l’evasione dalla tirannia di un unico sistema mentale, la
libertà è questo pensiero incompleto, aperto, antidogmatico,
l’incertezza, la nebulosa delle probabilità»
Norman Manea
Cosa si prova ad essere un pipistrello? Qualcuno potrebbe mai pensare che io, padre di un suicida, possa
celebrare l’elogio del suicidio? Qualcuno
riesce minimamente a immaginare come
si è dilaniati dai ricordi, dai sensi di
colpa, dall’impotenza di non poter tornare indietro nel tempo? E sempre qualcuno, ha una vaga idea della vita di un genitore cui muore un figlio, avviluppata per
sempre dalle spire potentissime di figure
spettrali dalle mille sembianze, che fanno rabbrividire?
Quindi non incenserò il suicidio, ci mancherebbe, ma non voglio
neanche che questo gesto venga banalizzato alla semplice formula di
“mal di vivere”, come qualche imbecille intenderebbe fare. Sarebbe un
errore imperdonabile e un’offesa alla solennità del gesto, quantunque
problematico. D’altronde, alzi la mano chi non è stato mai sfiorato
almeno una volta (anche per un solo attimo), dall’idea del suicidio in
determinate situazioni di disagio psico-fisico, esistenziale o di particolari drammi che investono il proprio privato personale. Alzi la mano chi
non ha mai detto, anche senza pensarlo realmente: «Se continua così,
mi ammazzo!». Dicevo: non voglio enfatizzare il suicidio e chi lo compie, ma ad un tempo, non voglio che una questione così delicata possa
essere volgarmente ridotta, a insano gesto, per dirla con i cronisti, o con
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certa psicologia citrulla. Quindi, osiamo al di là del pensiero monolitico che alimenta il chiacchiericcio di molti commentatori e opinionisti
del suicidio.
Agli “integralisti della vita” e a coloro che hanno contrapposto a
Norman (e al mistero della libertà individuale), chi invece sceglie di
restare – per i “professionisti della vita” solo chi sceglie di restare è un
vero uomo – dico che ci vogliono più coglioni a lanciarsi dal settimo
piano di Lettere, che a restare, magari vivendo una vita di compromessi, disumanizzazioni, mortificazioni e rinunce alla propria dignità.
Rinunciare alla dignità forse per qualcuno è più facile. Ed è più comodo, magari, spacciare la rinuncia alla propria dignità per lotta quotidiana.
In tutto questo senza peraltro voler istigare al suicidio, che resta
sempre una soluzione di difficile comprensione e accettazione dalla
società. Ma vi garantisco che mio figlio il suo gesto non lo ha compiuto per trarne un vantaggio personale, bensì per lanciare un messaggio
straziante; per gridare e per essere ascoltato da chi difficilmente ascolta i nostri giovani. Norman, mettendo in pratica il suo altruismo viscerale, ha costretto l’opinione pubblica e le istituzioni ad ascoltarlo.
Norman, sacrificando se stesso, ha rilanciato le istanze giovanili. Le
loro speranze. Le loro ambizioni. Il loro futuro. Mio figlio ha detto
“no” agli inchini obbligati e alle sodomizzazioni imposte dalla casta
braminica. Poi ciascuno di noi è libero di pensare quel che crede, è
chiaro. Io per primo, avrei preferito mio figlio più “pirla” e meno rivoluzionario dentro di sé, a quest’ora non sarei qui, a piangerlo: ti hanno
tolto il futuro, figlio mio, luce dei miei occhi. Occhi che ormai non
vedono più. Solo buio.
La domenica, il mercoledì di Champions, come vedremo con tuo
fratello le partite dell’Inter?
Ogni suicidio, sto cercando di spiegare, è tuttavia diverso da un
altro. Dicevo: le motivazioni sono diverse, i contesti culturali sono
diversi, le modalità sono diverse. Ridurre il suicidio allo schema semplicistico di “mal di vivere”, a mio avviso, non ci spiegherà perché
molti giovani scelgano tale via dolorosa, per se stessi e per le loro famiglie.
Tanti scrittori e pensatori illustri sono morti con la propria mano,
gente che malgrado tutto aveva dei resoconti culturali fortissimi con i
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quali confrontarsi e attraverso i quali evitare di autoinfliggersi la morte.
Empedocle – racconta il mito – si gettò nell’Etna per amore di
conoscenza, Tito Lucrezio Caro morì suicida, Seneca morì suicida.
Georg Trakl, Otto Weininger, Wladimir Majakovskij, Carlo
Michelstaedter, Drieu La Rochelle, Yukio Mishima morirono suicidi. E
non stiamo parlando di giovani invaghiti dal “velinismo” televisivo o
infatuati dal mito di Kurt Cobain, il leader dei “Nirvana”, anch’egli
morto (ufficialmente) suicida.
Stiamo parlando di fior di pensatori e letterati, che ciascuno, per
vie diverse, per motivazioni diverse, volle uscire fuori dal mondo per
sconfiggere gli eventi con un terribile atto di decisione.
L’ho già scritto altrove, ma voglio rammentarlo ancora: Egesia di
Cirene, filosofo di scuola greca vissuto intorno al IV/III secolo a.C. si
rese conto che la felicità, per quanto anelata non fosse mai raggiungibile. Siccome «l’anima soffre e si turba col corpo e la fortuna impedisce di conseguire ciò che si spera», pare che per lui, l’unico tentativo
di cercare la felicità fosse la morte. «La vita è un bene per lo sciocco,
è indifferente per il sapiente», diceva nello scritto “Colui che si lascia
morire di fame”, conosciuto anche come “Il suicida”.
Per tale ragione venne definito “peisithanatos”, ossia “persuasore
di morte” (o “avvocato della morte”).
Per il suicidio non vi è un teorema unico: può valere un amore
impossibile e l’aspirazione a ricongiungersi col Tutto primigenio, può
essere atto decisionale a causa di una bocciatura a scuola che avrebbe
deluso i genitori, può anche essere determinante, a volte, quella banalizzazione che chiamiamo “mal di vivere” (ma non deve diventare un
assioma), può essere scelta filosofica come predicava Egesia e si chiedevano Camus, Nietzsche e Schopenhauer. Può essere, ancora, un
umano, troppo umano problema economico o di crisi coniugale, o può
anche essere un gesto di straziante protesta: vi dice niente Jan Palach,
già citato qualche pagina addietro?
Vi sono, è ovvio, delle costanti, ma vi sono, credetemi, ve lo dice
uno che piange quotidianamente il proprio figlio, troppe variabili indipendenti che a volte portano a negare il proprio corpo.
Voglio farvi un esempio. Il filosofo statunitense Thomas Nagel,
nel 1974 scrisse un articolo/saggio che ancora oggi fa riflettere: «Che
cosa si prova ad essere un pipistrello?».
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Eccolo qua, in sintesi, il suo contenuto: «Non serve cercare di
immaginare di avere sulle braccia un’ampia membrana che ci consente di svolazzare qua e là all’alba e al tramonto per acchiappare insetti
con la bocca; di avere una vista molto debole e di percepire il mondo
circostante mediante un sistema di segnali sonori ad alta frequenza
riflessi dalle cose; e di passare la giornata appesi per i piedi, a testa in
giù, in una soffitta. Se anche riesco a immaginarmi tutto ciò (e non mi
è molto facile), ne ricavo solo che cosa proverei io a comportarmi come
un pipistrello. Ma non è questo il problema: io voglio sapere che cosa
prova un pipistrello a essere un pipistrello. Ma se cerco di figurarmelo,
mi trovo ingabbiato entro le risorse della mia mente, e queste risorse
non sono all’altezza dell’impresa».
Cosa voglio dire con l’esempio di Nagel? Che noi potremo solo
pensare, in base alla nostra coscienza (ed esperienza) soggettiva cosa
provi un suicida ad essere un suicida, ma sarà sempre e ad ogni modo,
un nostro punto di vista. Quello che ci sfuggirà sempre è il punto di
vista individuale del suicida, ciò che scorre dentro le sue vene. Potremo
forse immaginare, arzigogolare col pensiero, ma non potremo mai formulare una casistica universale, uno schema categoriale perfetto e
rispondente al vero.
Quindi, eviterei semplificazioni e generalizzazioni, poiché il
magma interiore che si muove nella mente di un aspirante suicida mancando il presupposto di una conoscenza oggettiva della sua
coscienza - non potremo mai intenderlo del tutto.
«Divergevano
due strade in un bosco, e io…
Io presi la meno battuta,
E da qui tutta la differenza è venuta»
Robert Frost
Io piango mio figlio quotidianamente e lo piango di lacrime dal
sapore del suo sangue versato sul suolo della Facoltà di Lettere, per
protestare contro coloro che gli stavano rubando i sogni. Ne avverto
ancora l’odore pungente, di quel sangue dispersosi in mille rivoli sul
selciato di Lettere. Non posso più andare a Lettere senza essere stordito da quell’odore acre che brucia le mie narici; un odore ormai permanente dentro il mio sistema olfattivo.
Per questo sono pieno di rabbia, quando leggo che qualcuno
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lamenta che a mio figlio si stia dando troppa celebrità. Chi dice questo
è inopportuno (e anche stronzo, se mi è consentito), dimentico del grande dolore che ha colpito la mia famiglia. Io, ne avrei fatto a meno di
questa indesiderata “celebrità”. Ne avrebbe fatto a meno anche mio
figlio, cui sono stati contrapposti, inoltre, coloro che svolgono opera di
volontariato: Norman il suo “volontariato” lo aveva fatto conseguendo
due lauree con lode, e presto anche un dottorato di ricerca, studiando
otto ore al giorno, diventando giornalista, suonando e componendo
musiche, come quella dedicata a Falcone e Borsellino, praticando l’antimafia a Brancaccio.
A mio figlio la celebrità non interessava, e non voleva fare il “tronista” dalla De Filippi o il partecipante al “Grande Fratello”. Lui era
solo studio e ricerca, musica e passioni dalle molte forme. Lui era filosofia, il grande amore della sua vita e ad essa si voleva dedicare per
quei 1200 euro al mese dell’assegno di ricerca, se gliene avessero concesso la possibilità.
Infatti Norman non aspirava a posti di lavoro strapagati o a sottogoverni regalati dalla politica: egli era solo tensione etica e filosofia.
Era nato per questo. E per questo è morto. La sua grande dignità ed
“etica del lavoro” egli le declinava, inoltre, facendo il bagnino d’estate in un circolo nautico di Palermo per 25 euro al giorno, 12 ore al giorno. E non certo perché in famiglia ci fosse un bisogno economico
oggettivo, ma per una pura esigenza interiore di guadagnarsi qualche
soldo col sudore della propria fronte. Questo è stato anche il suo
“volontariato” civile in una società che divora i suoi figli migliori per
paura che le intelligenze più pure, possano aiutare gli altri a destarsi dal
torpore e dall’assopimento che sta comodo a chi manipola i gangli vitali del potere a tutti i suoi livelli.
I Norman d’Italia sono “pericolosi”, in quanto messaggeri di ribellione. E dove vi è ribellione l’assuefazione scema, per cedere il posto a
nuove concezioni di lotta e di conquista sociale. Chiedetevi come mai
i “satrapi” di Lettere col loro “tanfo di bottega” e il loro indisponente
perbenismo di copertina, si siano scagliati contro la memoria di mio
figlio in diversi consigli di Facoltà.
Chiedetevi come mai i giovani di Lettere abbiano iniziato una
lotta, insieme a me, per ottenere l’intitolazione di un’aula, culminata il
4 maggio 2011 nell’inaugurazione dello Spazio “Generazione
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Norman”, all’interno della cittadella universitaria di Palermo. Una
bella vittoria. Solo che a quell’inaugurazione è venuto appena un professore di Lettere, gli altri sentitisi sconfitti da quella lotta studentesca,
non hanno partecipato, preferendo i loro sterili veleni ad una presenza
dovuta, quantomeno sotto il profilo morale. I baroni hanno annusato da
subito l’odore del “j’accuse” in quella lapide bronzea 80x60 esposta a
futura memoria nell’edificio 19 della cittadella universitaria, ergo
hanno disertato la manifestazione restando avviluppati in quell’atmosfera disgustante di moralismo esteriore e formale.
Ma, vedete, la cosa più grave, è che anche gli studenti hanno disertato la manifestazione. Infatti, a parte quelli che hanno lottato per la
memoria di Norman, gli altri hanno disertato l’inaugurazione insieme
ai baroni: questo, è un brutto sintomo. Vuol dire che ancora vi è troppa
assuefazione a quel sistema di micropotere similmafioso, nauseabondo,
che produce nei nostri atenei la narcosi delle libere coscienze. Vuol dire
che molti giovani non hanno ancora fatta propria la dimensione della
lotta, preferendo l’acquiescenza complice ad una visione di impegno
volta a scardinare decenni di sudditanza psicologica e fisica nei confronti di questi signorotti feudali, dei quali tutti conoscono tutto, ma sui
quali un vero repulisti non è mai stato fatto. La magistratura, purtroppo, non è mai andata fino in fondo.
Pertanto vi dico, ritornando al discorso iniziale sul suicidio, evitiamo giudizi sommari, semplificazioni di stampo religioso e generalizzazioni come “mal di vivere” e “disagio giovanile”. Così come nessuno
saprà mai veramente cosa si prova ad essere un pipistrello, nessuno
potrà capire mai cosa provi un suicida ad essere un suicida. Ve lo dice
chi non smetterà mai più di piangere, che non smetterà mai più di annusare l’odore del sangue sull’asfalto di Lettere. Il sangue di mio figlio.
Il mio sangue, Sangue mio…
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NORMAN ZARCONE
«E la morte non avrà più dominio.
I morti nudi saranno una cosa
con l’uomo nel vento e la luna d’Occidente;
Quando le loro ossa saranno spolpate e le
ossa pulite scomparse,
ai gomiti e ai piedi avranno le stelle.
E la morte non avrà più dominio»
Dylan Thomas
Chi era Norman Zarcone? O per meglio dire: chi è ancora Norman
Zarcone? Già, perché quello che è stato e quello che è ancora, fanno di
lui la stessa cosa, la stessa persona, la stessa storia da raccontare. Il
tracciato di un ragazzo serio, perbene, studioso, che volle guardare in
faccia l’amore della sua vita prima di donare le proprie spalle al vuoto
sottostante, mentre continuava a guardarla negli occhi, “gridando fino
all’ultimo il suo nome: Filosofia”.
Ho immaginato con queste parole una canzone (una delle tante),
dedicata a mio figlio.
Le ho dato il nome de “Il salto degli amanti”, poi l’ho incisa presso uno studio di registrazione con le voci di mia moglie e di Giovanni
e la chitarra di Gabriele (gli amici che suonavano con Norman). Il mito
racconta che sull’isola di Leucade, dove sorgeva il santuario di Apollo,
coloro che vivevano un amore impossibile si lanciavano dalla rupe, giù
nella “scogliera insanguinata”. Il balzo dalla rupe di Leucade, compiuto secondo la narrazione mitologica anche dalla poetessa Saffo – di cui
parla anche Leopardi – venne così conosciuto come il “salto degli
amanti”. E Norman saltò giù per il suo “amore impossibile”, affidandoci il suo testamento etico fatto di concetti importanti quali meritocrazia
e legalità.
Ma soprattutto fatto di esempio: il suo. L’esempio di un tesoro di
ragazzo, la cui anima esprimeva Bellezza attraverso un’educazione
civica e umana davvero esemplare; attraverso la musica, la poesia, la
scienza, la filosofia. E a proposito di scienza, c’è da ricordare che
Norman in attesa di entrare al dottorato (senza borsa), si era iscritto in
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Fisica. In quella facoltà scientifica, lui, che proveniva dal liceo classico e da Lettere, aveva sostenuto “Analisi matematica”, superando
l’esame con 28.
Una materia che molti, provenienti da istituti scientifici, a volte
non superano al primo appello.
Ma lui aveva preso 28 al primo appello . Lui, sempre immerso nei
suoi fogli disordinati, con la sua grafia non certo dalle linee armoniose, a scrivere formule, equazioni e simboli logici: lui, un bravissimo
ragazzo, serio e diligente, fatto a pezzi da un sistema che misconosce il
merito e il valore.
Con queste parole, un giovane emigrato al Nord per motivi di studio, ricorda il 17 febbraio 2012, il mio ragazzo su Facebook. Parole che
mi fanno venire i brividi di commozione:
«Oggi qualcuno qui a Milano, mi ha detto: “Ho portato l’esempio
di Norman ai miei figli, per sottolineare che chi dà un segnale,
non lo fa solo per se stesso, ma per tutti voi giovani”.
Avevo i brividi, ciao compà... P.S. Norman vive anche qui»
Gabriele Gabbo Lo Re
Vorrei proprio sapere come giudicherebbe la storia di mio figlio il
viceministro Michel Martone, il giovane rampollo assurto agli onori
della cronaca non per aver formulato chissà quale teoria scientifica
sconvolgente, ma per aver detto “sfigati” a coloro che non si laureano
entro i 28 anni d’età.
Questo è il curriculum di Martone: “Dottorando a 23 anni, ricercatore di ruolo e avvocato a 26, professore associato a 27, infine professore ordinario a 29. Poi la collaborazione con il governo Berlusconi
come consulente di Brunetta all’età di 35 anni e adesso in prima fila
con il governo Monti come vice della Fornero”.
Brillantissimo il professor Martone, non c’è nulla da dire. Ma così,
grosso modo, mi pare un tantino anomala la sua carriera da Speedy
Gonzales: ordinario neanche trentenne, quando in Italia molti studiosi,
con parecchie pubblicazioni alle spalle, vanno in pensione da ricercatore o associato. Quando non espatriano.
Sul web e sulla carta stampata si è abbattuta la scure di chi è anda154
to a spulciare la carriera del giovane viceministro e, a occhio e croce,
la sensazione che si riceve, netta, è quella di un figlio di papà – brillante, per carità! – che ha avuto una corsia privilegiata nella sua scalata
alle posizioni accademiche e politiche.
Con un padre importante alle spalle. Con una famiglia importante
alle spalle.
Ma io gli chiederei: Norman era uno “sfigato”? Eppure a 27 anni
era già al terzo e ultimo anno del dottorato di ricerca in Filosofia del
linguaggio, con due lauree con lode nel cassetto dei sogni.
Cosa mancava a mio figlio? E cosa ha in più il giovane viceministro, per aver bruciato ogni tappa in un lasso di tempo che definirei illogico e innaturale?
Forse un nome importante? E dubito seriamente che il professor
Martone nella sua vita non da “sfigato”, piuttosto da “fighetto”, abbia
fatto il cameriere in un pub o il bagnino (come Norman e tanti altri),
per non pesare sulla propria famiglia; per apprendere l’“etica del lavoro”. Chissà quanti barili di sudore avrà versato Martone da studentelavoratore in un ristorante, come cameriere. Ma sono arcisicuro che
avrà fatto anche questo, quindi mettiamoci una pietra sopra.
Simbolicamente ci metto sopra la pietra tombale di mio figlio.
Norman, anima mia, sangu miu, era un bambino vivacissimo,
discolo, curioso da sempre.
Lo ricordo a cinque-sei anni, mentre recita a memoria due film:
“Mery per sempre”, è il primo.
Chi ha visto il film di Marco Risi sa bene che ad un certo punto il
professore (Michele Placido), affronta a muso duro Natale (Francesco
Benigno) e gli dice: «Minchia, minchia, minchia! Ma solo minchia sai
dire?».
«Sì solo minchia so dire: c’è chi nasce minchia secca e chi minchia dura. A me mi chiamano Minchiarura».
Era troppo grazioso. Non me la sentivo di rimproverarlo mentre
ripeteva il dialogo fra i due attori di “Mery per sempre”. Ho ancora la
sua vocina nelle orecchie: «Sì solo minchia so dire!».
L’altro film che il mio “angiolo soave” recitava, è “Ritorno al futuro”, di Robert Zemeckis.
Si metteva dentro la Cinquecento rossa di mia moglie e ripeteva
ogni parola del film, fingendo di essere nella macchina del tempo.
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Aveva una memoria straordinaria. Fin da allora dimostrava interesse
per il cinema (che avrebbe mantenuto negli anni) e in seguito avrebbe
ampliato i suoi orizzonti spaziando dalla musica alla filosofia, dalla
scienza al giornalismo. Sangue del mio sangue, fino all’ultimo hai
dimostrato di essere, come si dice a Palermo, un Minchiarura.
Mi si strazia il cuore scrivere, ricordare episodi del passato. Gli
stessi amici di Norman, sovente mi chiedono: «Ma come fai a scrivere? Io non ci riuscirei a ripercorrere le tappe del mio dolore».
Già, come faccio? Ho un’immagine del mio splendido ragazzo che
mi fa male. Lui bambino che combina una marachella ed io che gli
assesto due sberle. L’immagine di Norman che piange mi dilania, mi fa
stare troppo male.
No, non fottetevi la testa. Non sono stato un padre violento, anzi,
con i miei figli ho avuto un rapporto unico: come rimpiango quando
entrambi, a tavola, mi prendevano per il culo.
Io appartengo a una generazione in cui il padre ogni tanto mollava uno schiaffo al figlio. Mio padre le ha prese da mio nonno, io le ho
prese da lui ed i miei figli si sono sciroppati qualche mio scappellotto.
Tutto entro i limiti. Tant’è che mio nonno (che a sua volta le avrà
buscate dal mio bisnonno), mio padre, io ed i miei figli, siamo cresciuti in maniera sana. Lavorando, studiando, nel rispetto delle regole civili. Certo, oggi forse non userei più la sberla come sistema pedagogico,
ma sarebbe un’altra storia. Oggi, purtroppo, mi viene in mente mio
figlio mentre piange. Oggi, il suo pianto fanciullesco è un qualcosa che
non riesco a cancellare dai miei pensieri. È sempre davanti ai mie occhi
con grande commozione. Con nostalgia, rammarico per averlo fatto
piangere. Con grande dolore. Il flashback di Norman che piange –
povero amore mio! – ormai è la mia condanna. La mia condanna è, non
aver saputo salvare mio figlio. La mia condanna è anche, non aver capito che dalla teoria filosofica sul suicidio, egli aveva progettato anche la
prassi, l’attuazione di quelle teorie.
Se qualche volta un brutto pensiero sfiorava la mia mente, ripetevo a me stesso di essere troppo apprensivo. Forse avrei potuto fare
qualcosa, non so, qualcuno mi dica cosa. Questo sarà il mio eterno tormento. Il cruccio che accompagnerà la mia esistenza su questa terra.
Oggi mi sento vecchio. Più vecchio degli anni che già disegnano
le mie rughe sul volto, ormai maschera di spasimo e fotografia della
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tragedia. Ora vivo di ricordi, solo di ricordi e rimpianti. Ho nostalgia di
quando mangiavamo tutti insieme e non capivo che la felicità fosse
quella: stare insieme alla mia famiglia. Scherzare con i miei figli che
mi sfottevano per come pronunciavo in inglese Champions League. Le
partite dell’Inter seguite con Norman e David, erano il sigillo della felicità a me donata dagli dèi, poi bruscamente negata dagli stessi. Sì, sono
arrabbiato col Padreterno. Ce l’ho con lui, niente e nessuno potrà modificare questa mia rabbia.
La stessa cosa mi ha scritto un filosofo apprezzato da me e da
Norman, Gianni Vattimo: «Caro dottor Zarcone, grazie di avermi scritto, io stesso temo di aver prestato troppo poca attenzione alla vicenda
che mi racconta. Intanto, sono profondamente commosso e nuovamente indignato per ciò che essa significa anche sul piano politico. Le sono
vicino come posso nel dolore che vive; anch’io, avendo perduto due
compagni di vita molto più giovani di me, sono arrabbiato col
Padreterno e faccio i conti con questo sentimento che non mi lascia
mai». Un sentimento – per dirla con Vattimo – che non mi lascerà mai:
ecco la mia situazione emotiva che alimenta una visione per niente
pacificata della vita.
Troppa sofferenza dentro la mia anima. Vi prego, signori che
conoscete tutto della vita e della morte, voi, che amate esprimere giudizi, raccontatemi con parole povere: dove è adesso la mia vita? Io non
lo so più. Darei tutto me stesso per rivivere quegli attimi con la mia
famiglia, mentre il televisore proietta le immagini dei Simpson, amati
da David e Norman.
Se mi fermo un attimo – e mi capita quotidianamente – mi sembra
di impazzire. È come se vivessi una vita non mia, infatti ancora non riesco a realizzare che tutto sia finito. Mi pare di vivere una vita che non
mi appartiene, una sorta di brutto sogno dal quale cerco disperatamente di destarmi. Poi, quando mi accorgo che è tutto vero, cado nella
depressione più totale e prego, bestemmio, imploro affinché ogni cosa
ritorni al suo posto. Dov’è il mio mondo? Dov’è ciò che ho costruito?
Dov’è mio figlio? Vorrei che il tempo si potesse riavvolgere come una
videocassetta, tornare indietro, fermare quel momento e modificare gli
eventi, emulando il film “Ritorno al futuro” che Norman recitava a
memoria quand’era un bambino. Poi capisco di vaneggiare, di aggrapparmi all’irrealtà, ai fantasiosi intrecci narrativi da film americano… e
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il nulla mi spalanca la sua botola. La botola che scende fino al baratro.
Il baratro che mi appartiene, che mi comunica la fine, la tragedia, quantunque mi comunichi allo stesso tempo e nello stesso modo la nobiltà
ribelle di Norman, il quale non volle appaltare né subappaltare il proprio cervello (e la propria dignità) al barone di turno, o a chicchessia.
Sono tormentato dai pianti di David, quotidiani, terribili a vedersi.
Ripeto: erano due fratelli siamesi. Le sue lacrime stringono il mio
cuore in una morsa ferrea e non so che fare e dire. Solo piangere in
silenzio, mentre ascolto “285”, la colonna sonora composta da Norman
e Gabriele per il cortometraggio del regista Daniele Lupo.
Sono lacerato in mille pezzi dalle lacrime di mia moglie, la madre
che ha generato David e Norman.
Sono straziato dal suo viso – il viso della madre che non si può
neanche descrivere - mentre arriva da fuori e trova la bara di suo figlio
(lei, era dal dentista). Il suo sguardo non ho più il coraggio di incontrarlo. Tutto è finito. Questa vita non è più la nostra, non ci appartiene.
Rivoglio indietro la mia! Cazzo, restituitemela, vi prego!
Non so più scrivere, raccontare emozioni. Tutto è tremendamente
vero. Cerco di tuffarmi in un mondo fittizio, surreale, aggrappandomi
ad una improbabile fuga dalla realtà. Purtroppo la realtà non fugge e
soprattutto non permette che si fugga da essa.
Così mi ritornano alla memoria, implacabili, le immagini del
corpo spiaccicato al suolo di mio figlio. Immagino la paura dentro i
suoi occhi mentre attraversa velocemente, uno dopo l’altro, i sette piani
di quell’edificio maledetto. Bastardi, cosa avete fatto?
Non riesco a immaginare invece cosa egli avrà pensato durante il
suo tragitto verso il selciato, forse coperto dalle prime foglie gialle dell’imminente autunno. Non c’è poesia in quelle foglie gialle, solo angoscia. E cosa facevo io in quel momento, mentre ti lanciavi dalla rupe di
Leucade? Forse dormivo il mio sonno pomeridiano o forse leggevo.
Però ricordo l’inquietudine che mi pervadeva, senza che ne capissi la
ragione. Ora lo so. So che mi stavi salutando, amore mio incolpevole.
Te ne sei andato – come canta il tuo amico Giovanni in una sua
canzone a te dedicata – solamente con i tuoi vestiti addosso, subito
nascosto in una bara di legno affinché non ti si vedesse, tanto eri
maciullato, inguardabile. Non ricordo cosa tu indossassi quel giorno,
ma credo non sia importante. Hai portato con te la tua dignità e l’ono158
re di chi non vuole sottomettersi, abiti più importanti per la memoria
della gente che ti ricorderà. Ma col mio dolore ci faccio i conti solo io,
gli altri – già gli altri – possono solo “intrecciare ghirlande” di compassione. Il dolore è mio e tale resterà.
Ancora su Norman Zarcone:
«POI ANCORA ATTIMI, CHE GRIDANO NEL VENTO, PAROLE, ODIO E UN
FUOCO CHE SI E’ SPENTO.
E SEMPRE ATTIMI, COME INCUBI DI NOTTE, URLANO, PREGANO, DISPERANO LA SORTE.
INFINE ATTIMI, CHE SCAVANO NELL’ANIMA, ATTIMI, DI ETERNA DANNAZIONE, PER SEMPRE ATTIMI, DESCRITTI IN POCHE RIGHE, SCAVATI
DENTRO IL TEMPO E UN’ESPERIENZA IN “SI” MINORE».
Queste sono le parole della canzone “Attimi”, che ho composto
con Norman. L’altra che abbiamo scritto insieme, “Un cielo senza stelle”, è dedicata a Falcone e Borsellino. Quegli attimi da noi messi in
musica e versi, sono forse l’anticipazione subconscia, arcana, di ciò che
sarebbe accaduto. Essi sono la realtà odierna del mio ininterrotto incubo a occhi aperti.
Norman e la musica. Era onnivoro, ascoltava diversi generi musicali, che lo avrebbero formato nella sua sensibilità artistica e umana.
Dai Pink Floyd ai Genesis a Mina, da Verdi a Mascagni, dal jazz al
rock, da Morricone e le musiche da film, a Bach. Proprio su Bach
aveva una teoria. Per Norman, infatti, Bach, nelle sue composizioni
musicali, rappresentava lo spirito matematico-geometrico più di ogni
altro. Ovviamente mio figlio argomentava a menadito la sua teoria, che
io, qui, maldestramente, racchiudo in una semplice proposizione,
magari commettendo errori attraverso la mia sbrigativa semplificazione.
Ho troppi ricordi di mio figlio, non basterebbero tutti i tomi della
Treccani, per raccontarli.
Mi limito, pertanto, solo a ciò che è immediato. A ciò che ha colpito la mia attività mnemonica a primo impatto, senza spremermi le
meningi. Ma rivisitiamo la storia di Norman, pure attraverso gli occhi
e l’esperienza di uno sconosciuto. Righe davvero vibranti:
Norman – per esempio – era un amico di un mio amico, Tonino
Pintacuda. Non lo conoscevo, pensavo di non conoscerlo, ma poi ho
scoperto di averci passato insieme due giorni di corso dell’Ordine dei
Giornalisti ad Acireale. Quest’estate. Ci siamo scambiati forse due
159
parole. Lui ha passato tutto il tempo a leggere e sottolineare libri fotocopiati. Se ne stava in fondo, per i cazzi suoi. Seguiva i seminari e leggeva nelle pause tra un intervento e l’altro. “Studi?” gli ho chiesto. “Sì,
sì, per il dottorato all’Università. Un casino”. Un’occhiata sfuggente.
Un sorriso di complicità appena abbozzato. Poi di nuovo la testa giù
in mezzo al libro. Dopo due anni di dottorato a titolo gratuito, due
anni di lavoro aggratis, aggrappato alla speranza che questa è la
gavetta, bellezza, che sì, ok, ti fai il mazzo adesso ma poi raccoglierai
i tuoi frutti, il professore l’ha mandato a quel paese, gli ha detto che
no, caro Norman, non ti rinnoviamo il dottorato. Cercati qualcos’altro
da fare, ricomincia da capo. Sono tempi duri, caro il mio ragazzo. E
lui si è buttato giù. Era un gran bel ragazzo, aveva la fidanzata, era
colto e intelligente. Aveva una passionaccia per la filosofia e per l’insegnamento, quello che lui voleva fare nella vita. Si era dato anima e
corpo a quella sua missione. Già si immaginava professorone, intellettuale, sempre concentrato e insieme distratto, sognatore, con la pipa
e le toppe ai gomiti della giacca. Invece all’ennesima delusione è crollato, è caduto giù. Io ci ho scambiato due parole. Nemmeno ci siamo
presentati.
http://marcofantesca.wordpress.com/2010/12/19/gesta-estreme/#more-435
Che dire ancora? Se mio figlio è stato un pazzo, secondo i messaggi sotterranei a me pervenuti da Lettere, dobbiamo riconoscere che
gran parte del mondo è fatto di pazzi.
Per Norman sono intervenuti i presidenti del Parlamento e della
Commissione europea, Buzek e Barroso, l’allora ministro
dell’Università Gelmini, l’ex sottosegretario Giovanardi, il ministro
della Gioventù, Meloni, il presidente dell’Inter Moratti, un numero
impressionante di deputati, senatori e assessori, il rettore di Foggia (di
lui parleremo dopo), Carla Bruni, il sindaco di Milano Pisapia, il professor Franco Cardini ecc.
Sempre per lui, quando dovevamo stampare un cd e un dvd sulla
sua storia, sulla sua musica e sulla musica da lui amata, abbiamo ricevuto le liberatorie di Franco Battiato, dei New Trolls, di Vasco Rossi e
addirittura dei Genesis. Mica pizza e fichi, eh!
A Norman sono intestate diverse pagine sul social network e centinaia di internauti, quotidianamente, lo ricordano con commenti, foto,
articoli e musiche.
Sempre alla sua storia, un gruppo di giovani registi e sceneggiato160
ri ha dedicato il corto “Come un aquilone”, nel quale si paragona, poeticamente, il “volo” di mio figlio a quello di un aquilone: ma anche in
questa mezz’ora di filmato, gli autori, non mancano di puntare il dito
contro le devianze del sistema universitario.
I ragazzi del suo gruppo musicale, i “Malatempora”, hanno invece voluto rendere omaggio alla memoria di mio figlio con un cd,
“eNneZeta” (iniziali di Norman Zarcone), che contiene l’omonima
canzone.
Anche il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, è stato
profondamente colpito dalla storia di Norman e dal suo straziante messaggio. Egli, ricevendomi privatamente, ha manifestato la sua vicinanza alla mia famiglia e ha detto che il grido di mio figlio non deve passare inascoltato. Scusatemi se è poco, eh, scusatemi!
Nella foto: io, mio padre e Giovanni col Capo dello Stato, Giorgio
Napolitano
Ma del mio “pargolo soave” si è occupato anche il procuratore
161
nazionale antimafia, Piero Grasso, premiato nello stesso giorno di
Norman (per il mio bambino, ovviamente, riconoscimento alla memoria), con una benemerenza civica assegnata dalla Provincia di Palermo
nel 2011.
L’ho invitato ad una manifestazione organizzata dai “Malatempora”
(il gruppo musicale di Norman) presso lo Spazio “Generazione
Norman”, il 18 gennaio 2012, data in cui mio figlio avrebbe compiuto 29
anni.
Grasso mi ha risposto con queste parole: «Gent. Claudio Zarcone,
sono lusingato dall’invito per il 18 gennaio, ma purtroppo impegni istituzionali non mi consentono di allontanarmi da Roma. Sarei felicissimo di partecipare all’evento, perché ritengo che la morte di Norman
non può essere vana e non può lasciare indifferente il sistema che l’ha
determinata e che in sua memoria, con qualsiasi mezzo, dobbiamo cercare di cambiare. Non so se lei lo sappia, ma spesso nei miei incontri
coi giovani cito il caso di Norman, che commuove e dà la forza di contribuire a cambiare un sistema così ingiusto e crudele. La prego di portare il mio saluto a tutti coloro che parteciperanno all’evento e di considerarmi lì a Palermo in mezzo a voi. Mi faccia conoscere per tempo
la programmazione di altri eventi, in modo da poter essere presente.
Cari e affettuosi saluti».
Siamo tutti pazzi? Fate voi. So solo che altri “pazzi” a Norman
hanno dedicato tesi di laurea e tesine di diploma (studenti che vivono
al di là dello Stretto), una pièce teatrale da parte della compagnia
pugliese “Il Velario”, due libri dei quali parlerò di seguito e finanche la
pizza “Generazione Norman”.
Il primo libro raccoglie gli atti dell’Osservatorio del dottorato in
Tecnologia dell’Architettura ed è interamente dedicato a mio figlio, il
secondo è dello scrittore danese Ioan Viborg, dal titolo “Marineide
I+SdT”, laddove l’ispettore Marineo – personaggio centrale del racconto – conduce un’indagine su fatti oscuri che avvengono all’università
di Palermo, partendo dalla scomparsa di un ricercatore. La sua attività
investigativa lo porterà tra le facoltà di Chimica ed Economia e
Commercio, a passare sotto la lente d’ingrandimento misteriosi episodi in cui si incrociano il nepotismo universitario e gli interessi economici di grandi compagnie petrolifere. Il libro è primieramente dedicato a Francesca Patané, giornalista in prima linea nelle inchieste sul feu162
dalesimo universitario.
Francesca scriveva per Ateneo palermitano, e, «fedele alla sua
etica professionale e personale, cominciò da subito a percorrere alcune
strade desolate quanto impervie e pericolose che convergono verso un
unico centro nevralgico: la denuncia del baronato universitario».
La giovane giornalista, come ci racconta Ioan Viborg, raggiunse
«uno dei punti culmine delle sue inchieste nel 2006, con la pubblicazione di alcuni articoli riguardanti alcuni docenti indagati per aver pilotato concorsi per l’assegnazione di incarichi di insegnamento».
Dall’inchiesta venne fuori «come presso la facoltà di Agraria
dell’Università di Palermo, su 130 docenti 23 erano legati da relazioni
di parentela: ovvero il 18%». Anche se la percentuale «è molto più
alta».
«Ateneo palermitano si occupò sempre più spesso di concorsi universitari truccati, di bilanci universitari falsi e di tante vicende dalle
tinte fosche che gravitano attorno al buco nero delle cosche baronali».
Purtroppo Francesca si è spenta il 16 settembre 2009, proprio un anno
prima che Norman denunciasse, per altre vie, le stesse cose, offrendo la
propria vita in pegno affinché si puntassero i riflettori sui padroni dell’università e i loro gregari (sulla loro “cosca”, per citare Viborg).
Ioan Viborg poi parla di Norman e spiega che il personaggio di De
Rossi nel libro, «vuole essere un omaggio alla sua memoria». De Rossi
è un bravo ricercatore che lavora seriamente e pubblica i frutti del proprio talento, solo che a firmare i volumi della ricerca al posto suo, è un
professore trentenne, rampollo di una potente dinastia universitaria.
Lo scrittore danese di origine siciliana, infine (pag.139), si consente un personale commento sul «vergognoso stato di cose» all’interno
dell’università e lo fa con un “invito” a chi dovrebbe personificare la
fucina con la quale costruire il futuro della nazione: «Ma vafanculu!».
Pazzi, siamo tutti pazzi. Infatti attorno al nome di Norman i
“pazzi” proliferano, tant’è che la II Circoscrizione (Brancaccio) del
Comune di Palermo, ha presentato prima una mozione per l’intitolazione di una strada del quartiere al mio splendido figliolo e poi, gli ha intestato l’aula dei gruppi consiliari, con la motivazione che potrete leggere qua sotto. Direttamente dalla targa:
163
Per restare in tema di “pazzi”. Dopo la morte fisica di Norman,
vengo contattato da una dottoranda romana (che non conoscevo), la
quale mi dice che il gesto di mio figlio le ha dato la forza di ribellarsi
a sua volta e di denunciare una vicenda di baronato universitario all’interno del suo dipartimento. Ha usato le mie parole, pronunciate nel
corso della trasmissione Exit su La7: «La mafia non è solo Totò Riina,
è anche dentro l’università». Ebbene è stata espulsa dal dottorato e querelata dai vertici della sua facoltà. Ma lei, sta andando avanti, forte
nello spirito guerriero grazie a Norman. Lei, senza aver mai conosciuto mio figlio, lo ringrazia ancora oggi. La cosa che lascia perplessi,
164
semmai, è come mai i signorotti del suo ateneo abbiano denunciato lei
e non me che ho fatto quelle affermazioni. Io una risposta ce l’ho, non
ve la dico, ma pensateci su, non è poi così difficile.
Pazzi, siamo completamente pazzi. E “pazzo” è finanche Giuliano
Volpe, insigne cattedratico e rettore dell’Ateneo di Foggia, il quale,
all’apertura dell’anno accademico, nella sua prolusione ha parlato
dell’“Ultima lezione di Norman”.
Ecco un passaggio cruciale della sua intervista al settimanale
“Centonove”:
Volpe: «Una mente simbolo»
Il rettore di Foggia inaugura l’anno accademico
ricordando il “sacrificio” del giovane filosofo
PALERMO. “Da quel terrazzo si è gettata un’intera
generazione”. Le parole testuali sono del professore
Giuliano Volpe, rettore dell’università di Foggia.
“Io ho parlato di Norman – dichiara – durante il discorso
per l’inaugurazione dell’anno accademico. Era presente
anche il presidente della Camera, Gianfranco Fini.
Norman è il simbolo delle giovani menti che sentono di non
avere un futuro certo, ma precario. Mi stupisce come a
livello nazionale, la vicenda di questo giovane ricercatore,
non abbia avuto il riscontro meritato”. E continua:
“Nonostante le numerose proteste studentesche che
attraversano l’Italia, Norman non viene citato come gli
spetterebbe. Mi auguro che in futuro sia data più
attenzione al suo sacrificio” […]
Simbolicamente, è vero, con Norman si lanciata giù un’intera
generazione di giovani, di talenti, di cervelli. Ma anche di operai e di
imprenditori che si suicidano per mancanza di lavoro o di fidi bancari.
Un giovane palermitano che studia al Nord, su Facebook mi ha detto:
165
«Lei è il padre della Generazione Norman». Sinceramente non so che
dire, se essere orgoglioso di un appellativo che passa dalla morte di mio
figlio. Ma la vicinanza mostratami da questi giovani è davvero un toccasana per la mia anima ormai fatalmente malata. Li ringrazio tutti.
Molti hanno sognato Norman, quasi tutti silenzioso. Mirko lo ha
sognato dialogante, sì proprio dialogante. Nel sogno gli squillava il cellulare e compariva il numero di Norman. I due amici cominciavano a
parlare telefonicamente. Poi Mirko chiedeva: «Compà, ma esistono
l’Inferno e il Paradiso? Esiste Dio?».
«No compà – rispondeva Norman - qui c’è silenzio, esiste solo la
Grande Madre».
Per padre Alessandro, il prete della mia parrocchia, Norman ha
visto la Madonna e si starebbe preparando ad incontrare Dio. Da una
visione cristiana, è chiaro, non ci si può aspettare spiegazione diversa.
Resta il fatto che la Grande Madre è una figura della religiosità arcaica
dei popoli del mito, antecedente alla figura della Madonna. Non saprei
come interpretarlo, quindi evito ogni congettura per non scivolare in
una discussione che non avrebbe senso.
Io l’ho sognato diverse volte e sempre in situazioni di pericolo
(naturali proiezioni del mio inconscio): di fronte ad uno tsunami dal
quale tentavo di portarlo in salvo; affacciato ad un balcone, mentre lo
spingevo dentro casa perché quel vuoto mi metteva paura. E in tanti
altri contesti che non ricordo. Ne ricordo però uno, ne ho sempre avuta
la visione chiara: io seduto sul marciapiede di casa mia, dove mio figlio
si accoccolava per telefonare nei pomeriggi estivi. Stavolta ero io seduto. A piangere la sua morte. A disperarmi per la sua assenza. Norman si
materializzava al mio fianco, con le mani in tasca, raccolto nelle sue
spalle, e mi parlava sicuro, un po’ indispettito dal mio pianto: «Lo vuoi
capire che qui sto bene? Non c’è bisogno di piangere, non fare al solito tuo».
Le sue parole voglio ricordarle per sempre. Voglio sperare di essere io ad aver sognato la cosa giusta. Voglio sperare che stia bene sul
serio. Mi auguro che quella visione onirica sia davvero il contatto
osmotico fra i diversi piani della realtà (quello noto e l’altro, ignoto) e
che il mio bambino stia bene come da egli stesso confidatomi in sogno.
Voglio incontrarlo ancora. Voglio abbracciarlo ancora. Quale senso ci
sarebbe, sennò, in questa vita di tormenti e solitudini?
166
Ripeto allora la domanda principale: chi era (è) Norman Zarcone?
Un giovane dallo spirito puro e ardito. Un bambino tenerissimo,
vivace e ricettivo. Un pargolo da stringere al petto come un mazzo di
fiori profumati da regalare alla donna amata.
Uno splendido ragazzo pieno di umanità e partecipazione alle
vicende altrui, dalle grandi orecchie, a lui assegnate per ascoltare i problemi della gente. Norman, quel senso fondamentale della mia vita di
cui sono orgoglioso, ma che nel contempo rimette in discussione ogni
mia credenza o interpretazione dell’esistenza.
Ma vi è un’altra domanda decisiva da porsi, come la pose
Pierangelo Maurizio, il giornalista di Tg5 in un suo servizio: «A chi fa
paura Norman Zarcone?».
Fa paura ai fanatici della menzogna, a chi intende fondare la società e le nostre università attraverso “un essere umano irreggimentato e
registrato e addestrato e diplomato e pervertito e depresso come tutti gli
altri”, tanto per usare le parole di Thomas Bernhard in “Antichi
Maestri”.
Fa paura a tutti quegli ipocriti che ancora si ostinano a dire che le
baronie non esistono nelle università italiane. Ma perlopiù i “negazionisti” sono gli stessi baroni. D’altronde cosa aspettarsi, quando Totò
Riina ha avuto la faccia tosta di dire pubblicamente, nel corso di un
processo a suo carico, di essere un semplice “agricoltore”.
A proposito di “negazionisti”, voglio chiedermi ancora (e non
smetterò mai) cosa significhi l’accanimento dei baroni di Lettere, quando diversamente avrebbero potuto fare “la parte del picciotto” (cioè del
buono, dell’eroe, nell’espressione dialettale) intestando un’aula di
quella facoltà a Norman. Hanno preferito affrontare il giudizio dell’opinione pubblica invece di fare la cosa più ovvia, normale. Naturale.
Un giudizio che pesa su di essi come un’ordalia, o verdetto degli
dèi. Un giudizio che graverà sulle loro spalle più del “macigno di
Sisifo” e come lo stesso “masso mitologico” rotolerà indietro (benché
essi tentino di spingerlo in avanti), se si tiene conto che a Norman, i
“generosi” docenti della sua facoltà, oltre ad opporsi all’intestazione di
un’aula, hanno negato il dottorato alla memoria. Ribadisco: un dottorato ormai concluso, questione di pochi mesi; un dottorato promesso a
me personalmente, a mezzo stampa e a casa mia; un dottorato che
chiunque avrebbe sentito il dovere morale di assegnare. Un grado di
167
umanità, malauguratamente, non contemplato nella scala di valori dei
professori di Lettere. Troppo risentiti con me, a mia volta colpevole di
aver gridato il mio sdegno, di aver “infangato l’università”. Avrei voluto vedere loro al posto mio… Gli auguro di non trovarsi mai al posto
mio.
Riprendendo dunque la domanda iniziale: mio figlio fa paura per
il semplice fatto di essersi opposto, per aver gridato dalla finestra di un
settimo piano i nomi di coloro che stanno cloroformizzando il pensiero (e il destino) dei nostri giovani dentro gli atenei. Questi nomi sono
tanti, purtroppo troppi, non puoi identificarli sempre (ma spesso sì) nei
loro connotati evidenti. Ma questi volti hanno un nome complessivo
non desumibile da un singolo documento d’identità anagrafico; tuttavia
un nome vero, tanto esecrabile, quanto tossico: baronie universitarie.
Uno dei motivi di frizione fra me, i docenti di Lettere e il rettore
in quell’autunno maledetto, è stato questo qua: loro mi chiedevano
nomi, prove e responsabilità precise. Ora, se tutto ciò che è stato scritto, le indagini della magistratura e quanto si sa per certo, non dovesse
bastare, allora siamo un perfetto popolo di ipocriti. Con un paraocchi
grande così.
Fare un nome, non assolverebbe comunque il sistema. Il problema,
vedete, non è questo o quel nome, piuttosto un consolidato circuito di
compiacenze, patti di fedeltà e comportamenti omertosi da cosca criminale, che va interrotto una volta per tutte. Senza una consolidata struttura di potere con le sue regole interne, il singolo barone non avrebbe
campo, né storia. Anzi, non sarebbe nemmeno un barone.
Amici miei cari, negare ciò che è chiaro ed evidente, le responsabilità di un apparato affaristico e (sfortunatamente) ramificato, aggrappandosi a surrettizie – confermo, surrettizie – richieste di dimostrazioni di responsabilità personali, è un qualcosa di osceno che offende il
mio dolore, insieme al lavoro di tanti giornalisti, magistrati, esponenti
delle forze dell’ordine, che sui casi di baronato universitario lavorano
(e dimostrano) con risultati da far drizzare i capelli.
Secondo alcuni, se non c’è un nome preciso non c’è colpa. Se non
c’è la classica pistola fumante in mano a qualcuno, il Male non è andato in scena. Errato. Fallacia logica bell’e buona.
Perché “quando tutti sono sospettabili, nessuno è veramente innocente”, recita un trailer dei canali tivù Fox Crime.
168
E sempre sugli stessi canali, tempo fa ascoltai questo aneddoto,
molto in sintonia con le mie affermazioni.
L’aneddoto raccontava di un orafo cinese che aveva truffato un
gruppo di orafi cinesi suoi concorrenti (non ricordo se 130 o più).
Ebbene, questa folta brigata di orafi cinesi per punire il collega
truffaldino, lo aveva ucciso a morsi.
Però si erano limitati ad un morso ciascuno, per far sì che non si
capisse quale morso gli avesse dato la morte. La sottigliezza cinese
aveva concepito che con un mozzico a testa nessuno avrebbe potuto
accusare qualcuno di omicidio. Esclusi forse i primi morsi, infatti, da
una certa serie in poi, tutti gli altri avrebbero potuto causare la morte
del ribaldo. È stato il ventesimo, oppure il centesimo morso a provocarne il decesso? Impossibile da stabilire.
Come si vede, i cinesi sono riusciti a taroccare anche le prove di
un omicidio, inquinando inoltre, con il gran numero di persone partecipanti al delitto, la scena del crimine.
Richiedere una responsabilità personale all’interno di un gruppo di
persone che rappresenta una potente corporazione, è un depistaggio;
sarebbe come cercare l’assassino cinese, colui che ha assestato il morso
mortale (e sappiamo tutti, che gli “orafi” accademici, proprio perché
tanti, inquinano la scena del crimine già con la loro presenza e col loro
gioco di complicità).
Chi era (è), dunque Norman Zarcone? Un dottorando che forse
“aveva sbagliato scuderia” dentro l’università (come affermato alla
rivista “Gioia” dal suo tutor, Gianni Rigamonti), senza dimenticare
mai, tuttavia, che fu (è) il modello di giovane studioso pieno di interessi, che ogni padre vorrebbe avere. Il prototipo dell’“indignado” che
mette sul piatto della bilancia la propria vita per scoperchiare il “vaso
di Pandora” con le innumerevoli porcherie contenute al suo interno.
Il Jan Palach dei nostri tempi che offre se stesso ai cingoli dei carri
armati del nemico, per mero altruismo. Il fiero oppositore ai “sepolcri
imbiancati” della sua facoltà, immersi nella loro stucchevole ipocrisia,
insensibili di fronte ad una tragedia familiare e generazionale.
Quel filosofo dentro ucciso dai baroni, come si legge nel titolo di
un articolo a lui dedicato e che potrete leggere o rileggere qualche pagina indietro, qualora vi fosse sfuggito.
Cari professori, il dottorato alla memoria, no vero? Non vi sentite
169
patetici? E l’aula a Lettere, dove si è sparso l’innocente sangue di
Norman, no vero? Non vi bruciano le narici come se avessero inalato i
fumi del più potente acido chimico? Come cazzo fa il vostro olfatto a
non annusare il sangue di Norman, ogni volta che entrate in quell’edificio, me lo spiegate? E come cazzo fate voi a turarvi il naso, pur di
continuare a nutrire la vostra doppiezza?
Io non sono capace di provare sentimenti come l’odio, pertanto vi
auguro una vita serena – per quanto gli eventi possano consentire
all’uomo – e di godervi figli e nipoti. Ve lo dico di cuore.
Vorrei soltanto che vi fermaste un attimo a ragionare al di là delle
posizioni di campo, che rifletteste su una cosa: io non potrò più godermi mio figlio e non conoscerò mai i nipoti che egli mi avrebbe dato. Io,
non potrò mai tenere sulle ginocchia i figli di mio figlio. Fate uno sforzo, non è poi così fuori dal comune, pensare in questi termini.
Vergognatevi – almeno un po’ – per la vostra guerra “non santa”
che avete dichiarato alla memoria di mio figlio, quindi, di riflesso, alla
mia famiglia e alle persone che vogliono bene a Norman.
Vergognatevi un po’, se vi è rimasta una minima capacità di rossore in viso, per il resto, hasta la suerte!
«Divina creatura, quante volte ho appannato la tua limpida pace dorata svelandoti il segreto della vita e del dolore. Perdona e dimentica!
Pensami Nuvola che passa sulla luna piena, e torna a splendere, dolce
luce, nella tua ferma bellezza, serena»
Friedrich Hölderlin
Allora chi era (è) Norman Zarcone? Di certo un “pazzo” ammirato da migliaia di “pazzi” che non vogliono più ascoltare i “predicatori
del nulla” delle nostre università, della società in cui viviamo.
Ed è a costoro che egli fa paura. È a questa gente che esercita uno
squallido potere che oggi fa ancor più paura. Altrimenti non ci sarebbero stati quei vigliacchi, spregevoli, assalti all’arma bianca contro la
sua memoria. Contro il mio dolore. Senza rispetto per una scelta drammatica, nei confronti della quale pudore e buonsenso, avrebbero imposto atteggiamento diverso.
170
Norman, una delle due ragioni fondamentali della mia vita (l’altra
è David) della quale sono stato depredato da rapaci mercanti di anime,
i quali amano gli apprendisti stregoni al loro seguito, piuttosto che le
coscienze pure e inconcusse.
Adesso vi prego, leggete le righe che seguono, sono parte del testo
della mia canzone “Anima, carne e sangue”. In esse è contenuta ogni
cosa. La tragedia, il dolore, il sentimento, il ricordo…
Lo so bene, di solito scoccia leggere i testi delle canzoni, però credetemi, in questa circostanza il testo è più importante di ogni altra parola possibile.
… Non è così che la strofa sarebbe dovuta finire, fra le foglie gialle di un viale di Lettere e Filosofia;
E la paura, dentro i tuoi occhi e dentro i libri tuoi, sillogismi resi
vuoti dalla loro ipocrisia.
E l’anima, la carne ed il mio sangue, si son lasciati andare sul selciato, non riesco neanche a immaginare, di te sbattuto al suolo che
ne è stato…
e l’anima, la carne ed il mio sangue, dispersi in mille rivoli di
tempo, io sono solo un uomo nel tormento e tu, di un libro pagina
strappata...
Non ho mai fatto, un sogno da sembrarmi così vero, un incubo da
cui non potersi mai più risvegliare, da non poter distinguere la
veglia con l’oblio…
Non è così che la strofa sarebbe dovuta finire, indosso i tuoi
maglioni per sentirti su di me…
Mio figlio è morto. Ha scelto. E scegliere è decidere. Non voglio
parlare ancora della sua decisione e dei motivi – senz’altro frustranti,
benché mossi da consapevolezza filosofica, etica e civile – che hanno
guidato la sua scelta. Ormai sappiamo tutto. Lo sa anche chi preferisce
ignorare, girandosi dall’altra parte. Io indosso ancora i suoi maglioni
per sentirlo su di me. Anche in questo momento un suo maglione sul
mio corpo, me ne fa avvertire il calore, l’odore, la presenza. Io, purtroppo, non porto buone notizie. Il dolore non porta mai buone notizie. Dal
punto di vista individuale (il mio) posso solo dire che non ci si rialza
più.
Immagino i soliti ottimisti con le loro ricette per la vita: bisogna
continuare, ho ancora moglie, un altro figlio e una nuora (che per me è
una figlia), la vita va vissuta fino in fondo, Dio vede e provvede, devo
171
andare avanti nel nome di Norman ecc.
In quanto all’andare avanti nel nome di Norman, lo sto facendo.
Potrei dire che oggi è il motivo più forte del mio esistere. Ovviamente
insieme al futuro di David e Annalisa e ad un minimo di serenità per
mia moglie, la quale trova lenimento – mi auguro per lei che ci riesca
sul serio – nella preghiera e nella fede.
Io, purtroppo, non porto buone notizie. Neanche la scrittura, la
filosofia, i libri, la musica, potranno mai colmare questa mia assenza di
fini e scopi.
Leggo ancora, sicuro. Ma quanto dolore quando passo dalle librerie di casa mia, quelle che espongono anche i libri sui quali studiava
Norman. Alcuni libri non riesco neanche a toccarli. Rivedo ancora le
scene, vivide nei ricordi, di quando il mio bambino doveva sostenere
un esame su quei testi e poi prendeva 30 e lode. Non ce la faccio a sfiorare neanche con un dito i suoi testi di Logica, Fisica e Filosofia del linguaggio. Piango sempre. La filosofia ha fallito il suo scopo: non è riuscita a consolare Norman e adesso non consola me. La filosofia, bestia
dai mille occhi che guarda ogni dove senza mai guardare se stessa. Ma
essa, Circe seduttrice, si è impossessata di mio figlio, dopo aver rapito
me. Si è presa gioco di noi. Lo sta ancora facendo.
«Il cancro del tempo ci divora. I nostri eroi
si sono uccisi, o s’uccidono. Non c’è
scampo, non cambierà stagione… il caos è
la partitura su cui è scritta la realtà»
Henry Miller
Io non porto buone notizie, purtroppo. Henry Miller definiva il suo
libro “Tropico del cancro” (dal quale sono tratte le parole riportate qui
sopra), “un canto”. Io definisco invece queste pagine, “un grido”.
Il grido disperato di Norman. Il grido di tutta la “Generazione
Norman”, ancora inascoltato, tanto che il deputato Giorgio
Stracquadanio ha definito “sfigati” coloro che guadagnano 500 euro al
mese. Ma forse quest’uomo – che di certo non avrà il problema di far
quadrare i propri bilanci – non tiene conto che molti giovani, oggi, vorrebbero essere “sfigati” e guadagnare almeno 500 euro al mese.
Questo libro è il grido di David. Ancora oggi mi rimbomba nella
172
testa. Quando venne la polizia a portare la notizia del suicidio di
Norman, l’urlo di David prese forma in qualcosa di raccapricciante: è
qualcosa, credetelo, che non si può descrivere con le parole.
È il grido silenzioso di mia moglie, la quale piange ogni notte la
creatura da lei generata. Mentre cerco di leggere a letto, percepisco il
suo pianto. Lei se ne sta girata dall’altro lato del materasso per non farmene accorgere, ma io me ne accorgo inevitabilmente. Odo i suoi singhiozzi silenziosi, strozzati in gola, che gridano aiuto, invocano Dio
così forte, tanto da farli sembrare una bestemmia. E ricordo il suo viso
pietrificato dinanzi alla bara del figlio. Straziante. Anche in questo caso
non basterebbero parole, anzi, proprio non ci sono.
Questo libro è il grido di dolore di noi fortunati ad aver conosciuto Norman, mentre il feretro contenente il suo corpo in mille pezzi,
veniva issato in spalla per essere depositato dentro un carro funebre.
È il grido luttuoso di un amico di Norman, il quale appena laureato in Ingegneria gli ha portato sulla tomba un pacchetto di confetti, con
la scritta: «Ciao compà, mi manchi». Un grido condiviso da tutti gli
amici di mio figlio, giovani perbene che non finiranno mai di tessere le
lodi del loro fratello scomparso in questo modo inaccettabile dall’umana ragione.
È il grido contro chi non vuole cambiare le cose, innaffiando
d’ipocrisia le proprie parole al cospetto dell’opinione pubblica.
È ancora, per sempre, il grido di mio figlio mentre cade vertiginosamente dal settimo piano di Lettere: chissà cosa avrà pensato. Chissà
cosa avrà provato, anima mia…
Spappolato al suolo. Non riesco a crederlo, a pensarci. Chissà per
chi sarà stato il suo ultimo pensiero. E chissà se mentre scivolava via
dalla vita avrebbe voluto tornare indietro, fermando il fotogramma
della sua discesa, un piano prima di toccare il selciato.
Qualcuno sa forse cosa significhi il dolore? Sa cosa voglia dire
piangere le lacrime più amare possibili nell’esperienza di una persona?
Mi auguro che siano in pochi a conoscere tale dolore e abbiano provato il sapore del fiele di queste lacrime. Lacrime che ti soffocano, ti
stringono la gola, si attaccano al palato, non scendono mai giù. E come
potrebbero scendere giù?
Io grido per Norman. Grido per tutti i ragazzi come lui. Grido contro i luridi persuasori di morte della nostra società. Io grido, voglio gri173
dare. Solo gridare. Vi affido questo grido, pertanto, indirizzatelo dove
e contro chi vi pare. Ma fatene tesoro, esso è un grido di libertà e ribellione dei cervelli pensanti, non può andare disperso. Gridatelo insieme,
sarete imbattibili. Fate i nomi da una finestra, gli metterete paura.
Vi lascio questo grido – il grido di Norman – rispettatelo come un
testamento.
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ALBUM FOTOGRAFICO
NORMAN
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©
Copyright by Domenico Claudio Zarcone
Edizioni AINDARTES
Viale della Regione n. 11 - Partinico
e-mail: [email protected]
Finito di stampare nel mese di marzo duemiladodici
dalla tipolitografia Arti Grafiche Campo
Contrada Virgini - Alcamo (Trapani)
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