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I fondamenti fisici e fisiologici del tocco nel pianoforte

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I fondamenti fisici e fisiologici del tocco nel pianoforte
Cose di musica
I fondamenti fisici e fisiologici
del tocco nel pianoforte
A proposito di un brevetto
per il pianoforte verticale
di Paolo Pancino
L’
inferiorità del pianoforte verticale rispetto al pianoforte a coda non è dovuta solo alle dimensioni e al
volume di suono, ma anche ad altri motivi che spesso non sono ben compresi. Alcuni pensano che la differenza stia nella mancanza di dispositivi come la doppia ripetizione o il doppio scappamento. Altri sentono la differenza tra
un tasto che «solleva» qualcosa e uno che risponde solo a una
qualche generica resistenza. Ma la causa reale è ben più complessa, e intreccia strettamente la fisica dello strumento (acustica e meccanica) alla fisiologia (soprattutto neuro-fisiologia)
dell’esecutore. Tale causa è senza ombra di dubbio il «tocco»,
che è possibile nel pianoforte a coda, ma di norma non è possibile nel pianoforte verticale. Nel suo significato intuitivo,
un pianista di qualche esperienza, uno studio condotto esclusivamente sul pianoforte verticale possa compromettere, almeno in una qualche misura, i processi inconsci che sono alla
base dell’esecuzione musicale, mentre in un principiante tali
processi ben difficilmente possono instaurarsi.
Nel cercare una soluzione del problema, ho a lungo pensato (insieme alla maggioranza degli «addetti ai lavori») che si
trattasse di un problema insuperabile. Per fortuna la mia curiosità è stata più forte dell’insuperabile. Osservando gli effetti (che inizialmente mi erano sembrati casuali) di una modifica che avevo fatto effettuare su un vecchio piano verticale (uno strumento di grande formato e di ottima qualità, elemento questo non secondario), ho deciso di continuare la ri-
questa parola indica una qualità del pianista che consiste nella capacità di dare significati musicali al suono, e anche di dare un «bel suono» al pianoforte. La qualità che si richiede invece al pianoforte è semplicemente di render possibile tutto
questo, ma tale qualità in realtà è molto meno intuitiva, e non
è stato facile definirla in termini obiettivi.
Esiste un problema di fondo per qualsiasi tipo di pianoforte, come per qualsiasi tipo di strumento che frapponga una
struttura meccanica tra l’esecutore e l’origine reale del suono
(in pratica per gli strumenti a tastiera). Questo problema riguarda il rapporto tra il musicista e lo strumento musicale, e
tocca l’idea stessa del far musica. Con questo tipo di strumenti, c’è il rischio di trovarsi di fronte, invece che a una «voce»
mediante la quale il musicista può esprimersi, a una «macchina sonora». Purtroppo nell’attuale pianoforte verticale il più
delle volte ci troviamo di fronte alla seconda ipotesi e le conseguenze, sul piano musicale e sul piano didattico, non sono
di poco conto. È ragionevole infatti pensare che, anche per
cerca, che dopo parecchi anni mi ha portato a risultati inattesi. Le intuizioni che mi hanno portato a tali risultati sono nate dalla constatazione che il martello del pianoforte verticale
costituisce, insieme con le parti a esso rigidamente collegate
(stiletto noce e nasello) una leva di particolare struttura, il cui
baricentro durante l’esecuzione avanza verso la corda fino a
superare la verticale del perno. Ciò significa che la resistenza a un certo momento dopo una rapida diminuzione si annulla, e quindi il martello scompare dalla percezione dell’esecutore proprio nel momento decisivo della percussione della corda. Il tocco diviene quindi impossibile, e rimane possibile solo il controllo del volume del suono, che il pianista può
decidere con l’energia iniziale del lancio, quando un momento, benché inferiore a quello del pianoforte a coda, c’è ancora.
Mi è sembrato evidente che tutti i tentativi di «ricostruire» artificialmente la resistenza finale del martello mediante molle
(come la molla di ritorno del martello) o magneti non possono che peggiorare la situazione, proprio perché, introdu-
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Cose di musica
cendo elementi automatici, diminuiscono la reale possibilità
di controllo da parte dell’esecutore anziché aumentarla.
Nella mia ricerca, con tentativi e riflessioni che hanno occupato lo spazio di parecchi anni, ho fatto realizzare sullo stesso
strumento altre modifiche, che hanno alterato di poco l’impianto della meccanica tradizionale, ma ne hanno modificato sostanzialmente la dinamica, consentendo all’esecutore di
percepire la resistenza del martello anche nella fase finale della sua corsa verso la corda quando, per capacità innate o acquisite con lo studio, le sue dita decidono il tipo di suono desiderato. Proprio la modestia delle modifiche apportate allo
strumento mi ha indotto, quando già avevo fatto i primi passi per il deposito all’ufficio brevetti di una prima stesura del
testo, a una serie di ulteriori verifiche. Temevo infatti che i risultati raggiunti fossero dovuti a particolari caratteristiche del
pianoforte sul quale avevo effettuato gli esperimenti, o a elementi casuali di qualche altra natura. Tali verifiche hanno richiesto ancora molto tempo, e competenze che in parte non
le modalità di incontro del martello con la corda è tutto quello che il pianista può fare per influire sulla qualità del suono,
se prescindiamo dal volume. Ma questa possibilità è importante, molto più che in altri strumenti. Nel pianoforte infatti la differenza di intensità tra la percussione e l’onda stazionaria è talmente grande che tutto quello che succede dopo
(a parte la durata del suono) ha un significato tutto sommato secondario.
In secondo luogo, dal punto di vista della fisica meccanica, è evidente che la capacità di un pianista di esercitare il tocco è condizionata dalla possibilità di controllare le caratteristiche della corsa del martello nelle sue diverse fasi, cioè prima l’avvicinamento veloce del martello alla corda e poi la caratterizzazione del suono con la regolazione dell’impatto del
martello secondo l’intenzione dell’esecutore. Questa possibilità c’è nel pianoforte a coda, dove le forze esercitate dalla mano del pianista per lanciare il martello verso la corda vengono
contrastate (oltre che dalle resistenze dovute alla meccanica
possedevo 1, e mi hanno aiutato anche a rispondere al dubbio,
che da qualche parte mi era stato avanzato, che il tocco sia solo un problema psicologico del pianista.
Questa verifica dei termini scientifici del problema mi ha
consentito in primo luogo di definire i risultati dell’invenzione in un sistema di rapporti di pesi e misure sufficientemente
ben definiti, e quindi generalizzabili e applicabili, con diverse ipotesi progettuali, a pianoforti di nuova costruzione, ma
applicabili anche, con modifiche da valutare caso per caso, a
buona parte dei pianoforti già costruiti. Ma soprattutto, in secondo luogo, sul piano dei principi scientifici la verifica mi è
sembrata una sicura conferma della validità dell’invenzione.
Vediamo dunque questi principi, che ci portano sia nel campo della fisica (acustica e meccanica) che della fisiologia (soprattutto neuro-fisiologia).
In primo luogo, dal punto di vista dell’acustica, il tocco consiste nella determinazione del transitorio d’attacco, cioè di
quella fase di vibrazioni apparentemente caotiche che precede l’onda stazionaria. Nel pianoforte (a differenza di quanto avviene in uno strumento ad arco o a fiato) l’esecutore non
può influire sull’onda stazionaria che si ha, dopo l’attacco del
suono, nella sua continuazione. Di conseguenza, la determinazione del transitorio d’attacco mediante il controllo del-
dello strumento, come del resto nel pianoforte verticale), soprattutto dalla resistenza dovuta alla forza di gravità che, dato il movimento verticale del martello, genera una resistenza di valore sostanzialmente costante nella sua corsa verso la
corda. È quindi costante la percezione dell’esecutore nel sentire un’opposizione all’azione del dito sul tasto, e poi nel regolare il tocco, che può essere graduato fino alla fine del movimento. Nel pianoforte verticale invece, a causa della posizione verticale delle corde e della conformazione conseguente della meccanica e in particolare della leva che comprende
il martello, la resistenza generata dal peso del martello stesso passa rapidamente a zero e diventa addirittura forza traente nell’ultima parte della corsa. Ciò significa che, in presenza di variazioni repentine della resistenza e di bassi valori (fattori questi che renderebbero comunque problematica sia la
percezione della resistenza sia la regolazione del tocco) nella
maggior parte degli attuali pianoforti verticali, quando il baricentro del martello (o meglio del sistema di cui il martello fa
parte) oltrepassa la verticale del perno, questi valori scendono
al di sotto dello zero, rendendo impossibile qualsiasi tipo di
controllo da parte dell’esecutore. La percezione della massa
del martello è possibile solo all’inizio della corsa (il momento iniziale è pari a circa i 2/3 di quello del piano a coda) e an-
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che allora le altre resistenze della meccanica rischiano di prevalere nella percezione dell’esecutore. Alla fine, praticamente tutta la resistenza è dovuta solamente alle molle, e quindi
tutta l’azione è automatizzata.
Altri fattori, come la conformazione delle leve che precedono il martello, tasto e cavalletto, oppure gli inevitabili attriti nel funzionamento della meccanica, o l’elasticità delle parti in legno, potrebbero avere una rilevanza teorica. Ma io ho
concentrato l’attenzione, e ho effettuato i calcoli, sulla dinamica del martello (anche se, ovviamente, non sono intervenuto solo sul martello), assumendo come ipotesi di partenza
una situazione «standard» del pianoforte verticale che in effetti non è lontana dalla realtà. Inoltre non sono certamente
irrilevanti i fattori che determinano la qualità della meccanica e dello strumento, ed è abbastanza ovvio che il tentativo di
applicare le modifiche suggerite nel brevetto a uno strumento mediocre potrebbe dare risultati deludenti.
Va invece affrontato il tema delle caratteristiche meccani-
terminante per il tema che sto affrontando. Secondo tale legge, la forza impulsiva che produce il suono è data dalla differenza tra la quantità di moto (cioè massa per velocità) finale e
la quantità di moto iniziale, divisa per la durata dell’impulso.
Un qualche calcolo fatto sulla base di questa legge darebbe risultati sorprendenti. Per chiarire meglio queste affermazioni,
che potrebbero sembrare astratte o difficilmente comprensibili, può essere utile ricordare un esperimento che veniva descritto nei vecchi libri scolastici. Un uomo armato di fucile
spara una candela contro una tavoletta di legno e la perfora.
Poi prende la candela e la preme contro la tavoletta con una
forza tale che la «quantità di moto» (cioè il prodotto della massa per la velocità) sia la stessa. La candela non può attraversare
la tavoletta, al massimo si spiaccica o forse anche si deforma
solo un po’. La sorprendente differenza dell’effetto delle due
azioni si ha perché, data l’estrema brevità dell’impulso, il fucile produce una forza di gran lunga maggiore.
Questi due dati, cioè da un lato l’estrema velocità con la qua-
che del feltro del martello, elemento questo di importanza
probabilmente decisiva per la sua connessione con le dinamiche che determinano il tocco, e utile anche per comprendere il modo di ottenerlo. È un problema estremamente complesso, e non so quale super-computer potrebbe analizzarlo, ma ritengo sufficiente affrontarlo in modo intuitivo. Il feltro usato per i martelli del pianoforte, benché sia particolarmente compatto, mantiene una qualche deformabilità, caratterizzata da una reazione elastica modesta e piuttosto lenta. A lungo termine, manifesta una certa plasticità che dà luogo a dei solchi in corrispondenza delle corde, ma è una caratteristica di misura irrilevante per quel che riguarda il tema che sto affrontando. È quindi evidente che un impatto di
breve durata con la corda metallica in tensione non concede il
tempo necessario a una reazione elastica del feltro, che quindi si comporta come se fosse più duro di quanto non sia, rendendo possibile un suono preciso e controllabile. Un impatto
troppo lento lascerebbe il risultato sonoro in balia delle reazioni incontrollabili e forse in buona parte casuali del feltro.
Per questo la meccanica del pianoforte è concepita in modo
da ottenere, con l’azione di leve successive, un’elevata velocità del martello.
A ciò si aggiunge una legge della fisica, di importanza de-
le il martello deve colpire la corda perché il feltro non soffochi il suono e dall’altro l’estrema brevità dell’impulso necessaria perché questa velocità sia raggiunta con il minimo impegno muscolare, definiscono l’unico modo corretto di usare il
pianoforte: il dito deve lanciare il tasto, in modo che questo
agisca sul martello, per mezzo del cavalletto, come una fionda. Ma, a differenza dell’esempio della fionda, il dito non deve
mai «perdere» il proiettile (cioè il martello), ma ne deve controllare la corsa fino a pochi millimetri dalla fine, quando tale
corsa diviene libera per via del sistema di scappamento.
Tutto questo contrasta evidentemente con la diffusa opinione che sia necessario produrre uno sforzo per produrre
un suono forte, e che comunque suonare richieda forza fisica, per la necessità di scaricare peso sulla tastiera, premendo
o percuotendo il tasto, nella convinzione che il volume, o la
«solidità» del suono dipenda dalla massa con la quale si colpisce o si preme il tasto. E ciò sembra intuitivo osservando un
certo modo «atletico» di suonare che appare come l’immagine stessa della forza muscolare. Ma questa impressione contrasta in modo evidente con la fisica, sia per quanto abbiamo
detto finora, sia perché la meccanica del pianoforte, verticale
o a coda che sia, è costituita da un sistema di tre leve, sostanzialmente indipendenti l’una dall’altra. Il tasto lancia il ca-
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valletto che lancia il martello, ma ciascuna delle leve conserva la sua massa e (a differenza di quel che riguarda la velocità)
non può trasmetterla, e quindi aggiungerla, alla successiva.
Quindi qualunque sia il peso che viene scaricato sulla tastiera, la massa che colpisce la corda è sempre esattamente la stessa, cioè il peso del martello (o meglio della leva di cui il martello fa parte), e su questo fatto il pianista non ha assolutamente
nessuna possibilità di intervenire. Tutto questo rivela un fatto sorprendente, cioè che la meccanica del pianoforte, sia verticale che a coda, ha in realtà un funzionamento contro-intuitivo, del tutto diverso dall’idea che molti ascoltatori abituali di musica (ma anche, talvolta, pianisti e insegnanti) hanno
del modo di suonare il pianoforte. Spesso si insegna a premere per «marcare» la melodia, ma più si preme e meno espressivo è il suono, oppure si insegna a usare spalla, braccio o polso
per suonare più forte, ma ciò inevitabilmente rallenta l’azione e rende più difficile controllare il suono. Molti criticano il
pianista che «pesta». Ma pochi sanno che il suo brutto suono
mentale del nostro corpo istruzioni per le azioni che desideriamo compiere. Se queste istruzioni sono sbagliate, le «capacità illimitate» si riducono più o meno drasticamente o addirittura scompaiono.
Dare istruzioni corrette in realtà è possibile solo costruendo immagini percettive che diventano sempre più dettagliate e nitide man mano che si procede nel corso di uno studio
che certamente non ha tempi brevi, e ciò può avvenire sulla base di certi criteri. Ci sono, intanto, ragioni ben chiare per
cui il martello deve essere lanciato con il dito e non con altre
parti del corpo come spalla, braccio o polso. Accanto alle ragioni della fisica, che ci dicono che lanciare grandi masse (cosa assolutamente inutile, come ho dimostrato prima) rallenta
un’azione nella quale la velocità è di un’importanza decisiva,
le ragioni fisiologiche sono altrettanto chiare, perché le piccole muscolature delle dita sono molto più veloci e sensibili.
Sono più veloci perché composte in prevalenza di fibre muscolari rosse, dotate di una velocità di reazione tripla non solo
dipende dal fatto che le vibrazioni delle corde sono immediatamente soffocate e distorte dal feltro che impedisce loro di
espandersi liberamente. I suoi muscoli uccidono la sua musica, e questo è sempre inevitabile quando si suona forzando,
anche di poco, l’azione muscolare.
Mi pare che il processo che ho descritto quando ho parlato
della meccanica del tocco dimostri questa necessità, ma nello stesso tempo si pone il problema di chiarire come la complessa azione che questo processo meccanico richiede al pianista, in tempi estremamente brevi, sia possibile. Solitamente
a questo riguardo si parla della necessità del rilassamento muscolare, ma questa espressione è troppo generica e non spiega in modo sufficientemente preciso gli elementi fisici che
rendono possibile questa azione. Come si possano controllare le ultime fasi della corsa del martello, decidendo con quale velocità o accelerazione lanciarlo verso la corda, è una cosa che sfugge a ogni ipotesi di misura. In effetti la complessità
dell’atto da compiere e l’estrema brevità del tempo in cui lo si
compie rientrano nelle capacità del nostro cervello, che possiamo considerare praticamente illimitate. Ma non sono illimitate le capacità degli strumenti di cui il cervello si serve, vale a dire le varie parti e le varie funzioni del nostro corpo. Sta
di fatto che continuamente dobbiamo dare all’organo fonda-
delle altre cellule muscolari ma anche degli organi della vista e
dell’udito, e anche perché sono ricoperte da moltissime fibre
muscolari che si inseriscono sulle falangi con angolazioni diverse permettendo movimenti in diverse direzioni. È quindi
evidente che la possibilità di ottenere una elevata velocità del
dito esige il totale disimpegno dalle grandi muscolature, ma
d’altra parte va detto che è fondamentale il totale riposo dopo ogni singola azione, per evitare l’accumulo delle tensioni,
e quindi la fatica, che può giungere fino al blocco muscolare.
Solo questo riposo (potremmo dire questa reale conclusione dell’azione) dà la possibilità di suonare velocemente, che
dipende dalla capacità di modulare il tono e la contrazione
della muscolatura con estrema rapidità tra un’azione e l’altra.
Le piccole muscolature sono inoltre più sensibili perché ogni
singola fibra muscolare è dotata di una innervatura, e quindi
il rapporto tra il numero di terminazioni nervose e il numero di fibre muscolari è addirittura migliaia di volte più favorevole rispetto alle grandi muscolature, che assolutamente non
sarebbero in grado di compiere un’azione sofisticata come il
controllo del tocco. Ma questa sensibilità è possibile solo con
la libertà da qualsiasi interferenza di segnali estranei sulla formazione delle percezioni (penso sia qualcosa di simile al problema del rapporto segnale-disturbo negli impianti di ascolto
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Cose di musica
ad alta fedeltà). Tra questi segnali intendo soprattutto la sensazione di impegno muscolare, anche se minima. Penso che
un allenamento alla fatica muscolare non risolva questo problema (visto che una sospensione di tale tipo di allenamento, anche per pochi giorni, lo ripropone), ma che invece con
tali sistemi lo sforzo continui ad accompagnare l’azione muscolare, e ne venga solo mascherata o attenuata la percezione. Naturalmente con certi tipi di allenamento la muscolatura può aumentare di volume ed esprimere più forza, ma le terminazioni nervose aumentano anch’esse? Certamente ci sono casi diversi, date le diverse attitudini individuali e i diversi livelli dell’attenzione prestata, più o meno spontaneamente, agli aspetti musicali del lavoro che si fa. Ma in generale, è
elevato il rischio che un certo tipo di studio sul pianoforte in
realtà diminuisca la sensibilità muscolare, e quindi la tecnica. Purtroppo un’azione corretta del dito (e in realtà di tutto il
corpo, messo per così dire al servizio delle dita) è qualcosa di
estraneo, nella massima parte dei casi, ai nostri abituali pro-
ne muscolare determina un certo effetto sonoro, e questo influenza in tempo reale l’azione muscolare successiva, e così di
seguito fino a creare un automatismo che è alla base della capacità di dare significati musicali al suono. Ma questo processo parte solo da una certa soglia, che corrisponde al minimo
necessario del livello percettivo. Ciò significa che, se le dita
del pianista non «sentono» il martello a causa dei limiti dello
strumento, l’orecchio non può sentire una variazione di timbro tale da influenzare l’azione motoria. Al di sotto di una soglia così definita, evidentemente non è possibile nessun feedback, e ciò obiettivamente significa che lo strumento in quanto tale non possiede, o più esattamente non consente il tocco. Si tratta di una soglia soggetta solo a una variabilità individuale di modesta misura (e tale variabilità è largamente compresa nei limiti di misura previsti nel brevetto).
Altra cosa è la capacità di distinguere consapevolmente le
sfumature timbriche del suono ottenuto, capacità che non dipende da una soglia percettiva ma va piuttosto definita come
cessi motori, e quindi va costruita con un lungo e paziente lavoro, che non può essere del tutto abbandonato neppure dopo una lunga esperienza.
Ritengo ora necessario chiarire un ultimo problema. Si tratta in realtà del problema di fondo, che ha determinato tutta
la mia ricerca sul brevetto. Cioè se si possa definire in termini obiettivi il rapporto tra una certa struttura della meccanica del pianoforte e le possibilità del pianista di esercitare il
tocco. La risposta è che certamente nessun pianista può controllare le qualità del suono, fatta eccezione per il volume, se
il momento angolare è insufficiente, o addirittura pari o inferiore a zero nel momento in cui il martello viene lanciato sulla corda dal sistema di scappamento. Non potrebbe controllare nemmeno il volume del suono se il momento fosse nullo
anche alla partenza del martello. Esistono quindi certamente delle condizioni fisiche dello strumento che rendono possibile tale controllo, e che possono essere definite e misurate. Ma queste misure sono uguali per tutti, o dipendono dalla sensibilità o dall’esperienza dell’esecutore?
Per rispondere è necessario definire il tocco da un punto di
vista soggettivo, cioè nella percezione del pianista, come prima l’ho definito dal punto di vista fisico. Il controllo del tocco
è un processo a «feedback». Ciò significa che una certa azio-
un’attitudine, talvolta almeno in parte spontanea, ma che comunque deve essere sviluppata con lo studio, che se correttamente impostato porta a un continuo affinamento della sensibilità musicale. È evidente che questo affinamento può avvenire solo su un pianoforte che consente il tocco. Spero che
questo divenga ora possibile anche sul pianoforte verticale.
1. Per l’impostazione del problema in termini fisici, e per tutta la mia
ricerca, è stata essenziale la collaborazione di Elena Pancino, ricercatrice presso l’Istituto nazionale di Astrofisica (osservatorio di Bologna),
mentre per la verifica delle ipotesi scientifiche concernenti la fisica e la
revisione del testo debbo ringraziare Sandro Maluta, ingegnere meccanico, già docente presso il Politecnico di Milano e ora amministratore
delegato in una importante azienda internazionale. Dal punto di vista
fisiologico, sia per la verifica di tutte le mie affermazioni che per la revisione e l’integrazione del testo, anche dal punto di vista terminologico, debbo essere grato a Paola Cesari, titolare della cattedra di Scienze
motorie presso l’omonima facoltà dell’Università di Verona e ricercatrice nel dipartimento di Scienze neurologiche e della Visione della stessa Università, che ho potuto incontrare grazie alla cortesia di Giuseppe
Moretto, direttore dell’unità operativa di Neurologia dell’Azienda ospedaliera universitaria di Verona. A Giuseppe Moretto devo anche alcuni
utili orientamenti sul piano neurologico.
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Cose di musica
Musicoterapia e anziani
di Cecilia Dolcetti
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li anziani hanno spesso delle difficoltà di ragionativo in una struttura per anziani o malati di Alzheimer il tratmento e di linguaggio: i loro pensieri, qualche voltamento musicoterapeutico è di grande importanza e aiuto.
ta, sembrano non seguire una logica precisa, sconfiLa figura dell’assistente o dell’infermiere, capace di coglienando in percorsi nebulosi, e le loro parole non corrispondore quello che si può fare in risposta ai bisogni espressi dagli
no sempre a uno stato d’animo o a una emozione e si smarrianziani, si affianca a quella del musicoterapeuta e tra i due è
scono prima ancora di aver terminato il discorso.
necessaria una continuità, una collaborazione tra area
La «musica», in senso lato, sa suscitare affetti
medica e area «artistica».
profondi ed è un veicolo capace di raggiunIl valore della musicoterapia applicata algere il cuore degli anziani o degli ammala terza età nasce dal riconoscimento dellati di demenza perché sa rinnovare ril’unicità di ogni persona e dal valore che
cordi e stati d’animo che sembrano riogni vita rappresenta, anche quella vimossi. A questa riflessione si è giuncina all’età della morte e quella colti considerando che il suono è la pripita da malattie devastanti come
ma forma di comunicazione umal’Alzheimer.
na: la voce materna, che il feto senMettere al centro del lavoro di
te e interiorizza ancor prima della
musicoterapica la persona anzianascita, e il pianto che il neonato
na o affetta da demenza signifiutilizza per dimostrare di essere
ca considerarla come un indivivenuto al mondo e di avere delduo senza uguali, un essere unile necessità, sono le prime manico, irripetibile e prezioso, indifestazioni di vita indipendente e
pendentemente dal suo grado di
autonoma.
disorientamento.
L’anziano ama la musica che gli
Occorre dare senso ai comporfa rivivere tanti momenti della sua
tamenti insensati e alle stereotipie
vita passata, in qualche modo lo fa
che sono considerati come tattiche
ringiovanire. I guai dell’età lo isoladi sopravvivenza.
no, la musica lo mantiene inserito nel
Vanno utilizzate le potenzialità delmondo. È questa la migliore medicina
la persona e considerati i suoi sintomi,
per lui che, con la musica, riesce a ottenenon solo come i segnali di una sofferente r
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re qualche miglioramento anche in caso di
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o come manifestazioni di patologia, ma
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Alzheimer. Le difficoltà che tante volte ha di
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il risultato di risorse bloccate e anche
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esprimersi, di comunicare con gli altri, si superacome un mezzo di comunicazione di un messagno con la musica che è un contributo alla speranza e
gio dell’inconscio.
alla fiducia nella vita. In pratica, un bel canto, un bel coro, una
Nessuna teoria, neanche la migliore, può pregiudicare il decanzone, la musica classica o operistica, che l’anziano spesso
stino di un uomo. Questa affermazione rimette al centro delconosce bene, gli fanno rivivere tanti momenti del passato e
l’indagine e del fare terapeutico la Persona, mentre la teoria
lo mantengono inserito nel presente. Proprio per questo modiventa solo una «mappa» per comprendere meglio l’oggetms
om
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c.
A
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Cose di musica
to della conoscenza. L’importante è capire che la «mappa»
se e la motivazione e di favorirne la partecipazione in prima
non è il «territorio». Diceva Carl Gustav Jung: «Il terapeuta
persona.
deve ricordarsi che il paziente è lì per essere aiutato e non per
C’è adattamento e personalizzazione della tecnica musicoverificare una teoria». Nel caso specifico degli anziani la coterapeutica in conseguenza alle proposte e ai bisogni dell’ansa importante non è l’invecchiamento, ma l’uomo che è vecziano. Il lavoro in gruppo si concentra sulla socializzazione e
chio. La cosa importante non è la malattia, ma l’uomo che ha
sullo scambio comunicativo tra i membri del gruppo che senla malattia. In questa prospettiva la scelta di un metodo non
tono di non essere soli e sulla valorizzazione del singolo nel
dipende dal suo valore intrinseco, ma dalla sua efficacia nei
gruppo stesso. La finalità è quella di far sentire l’anziano uticonfronti di un dato individuo in un preciso momento delle e accettato.
la sua vita.
La collaborazione con i familiari è auspicabile proprio perIl modello di musicoterapia con anziani si basa sulla relaché la visione e la stessa partecipazione al lavoro consente di
zione, sull’ascolto empatico, sull’accettazione incondizionata
verificare la validità del trattamento. In alcuni casi offre l’opdell’altro per come è nel momento presente e sull’utilizzo del suono e della musica come mezzo per scoprire e sviluppare i potenziali e le risorse della persona.
Si parte dal presupposto che
ogni persona abbia in sé tutte le risorse necessarie per
adattarsi all’ambiente. C’è
una sostanziale fiducia nella persona che possiede tutte le potenzialità per superare le difficoltà nelle quali si
trova e le capacità per fare
dei progressi.
Nel trattamento con gli anziani ciò è possibile quando
l’agire del musicoterapeuta
favorisce l’ascolto empatico:
il musicoterapeuta si pone
all’ascolto dell’altro per cercare di scoprire come l’altro,
l’anziano, vive la realtà, cercando il senso del suo moGiorgione (1477, Castelfranco - 1510, Venezia), Le tre età, Galleria Palatina (Palazzo Pitti), Firenze
do di essere e di comportarsi, andando a ricercare non
ciò che manca, ma quello
che c’è. Il suo compito è quello di «suonare dialogando» con
portunità di scoprire aspetti del proprio anziano o malato,
le persone di cui si prende cura.
inaspettati e sorprendenti.
Le sedute di musicoterapia non sono mai rigidamente strutVengono condotti piccoli gruppi di musicoterapica e consueturate, ma fluiscono liberamente momento dopo momento.
ling per familiari e per chi è impegnato nell’assistenza dei deL’attenzione costante alle risposte e ai segnali che provengomenti e ammalati di Alzheimer. Tali gruppi hanno effetti pono dal singolo e dal gruppo orienta il musicoterapeuta nelsitivi sia nel rapporto con il proprio malato, sia nella gestione
la scelta dell’attività da proporre, ispirandosi a ciò che i malae nel vissuto della malattia stessa. Gli incontri sono molto imti suggeriscono, seguendo le «direzioni» che loro stessi proportanti anche per chi subisce la pesante situazione di convipongono. Viene accolta, in primis, la proposta del soggetto
vere e condividere le conseguenze di queste patologie, perche è ampliata e arricchita in uno scambio reciproco tra pamettendo di stabilire un supporto necessario e indispensabiziente e musicoterapeuta.
le per chi si occupa in prima persona di questi ammalati.
Il lavoro è centrato sulle «parti sane» dell’anziano e del maLa musica, ancora una volta, ci viene in aiuto perché sa aclato di demenza di cui vengono valorizzate tutte le potenziacompagnare e migliorare la nostra vita. Nella terza età, gralità fisiche e intellettive: si parte da ciò che alla persona piace e
zie al suo potere rassicurativo e stimolante, permette l’espressa fare, puntando a mete accessibili nelle quali può sperimensione di emozioni, risveglia abitudini, facilita la riabilitaziotare una riuscita gratificante. L’intervento musicoterapeutico
ne di movimenti.
si orienta verso traguardi raggiungibili e guarda alla globaliNei casi di demenza senile e nell’Alzheimer il grande merito
tà della persona, coinvolgendo tutti i sensi, la fantasia, il modella musicoterapia è soprattutto quello di restituire un senvimento, l’emotività, funzioni cognitive e, di conseguenza,
so, un interesse, uno scopo al vivere quotidiano di questi amutilizza tutte le potenzialità del linguaggio musicale: il canto,
malati. Di sviluppare potenzialità nascoste in virtù di quell’ascolto, il movimento, il suono degli strumenti, la danza.
la universale «arte di vivere» che troviamo in chi si appresta
Vengono proposte «situazioni significative» attraenti per gli
ad affrontare un difficile cammino, nonostante la perdita di
anziani e i dementi, capaci di attivarne la curiosità, l’interesriferimenti.
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