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Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina

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Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina
MONICA TORTORELLI
Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina
SOMMARIO: 1. Contenuto dell’incriminazione. Cenni critici. - 2. I presupposti della fattispecie. La relazione qualificata tra autore e persona offesa. - 2.1. I rapporti familiari. - 2.2. I rapporti parafamiliari. Il potere disciplinare dell’insegnante nei confronti dell’alunno. - 3. La condotta tipica. - 3.1. Tecnica descrittiva e principali criteri ermeneutici. - 3.2. I limiti della nozione di «mezzi di correzione o di disciplina». Caratteristiche strutturali della condotta di abuso. - 3.3. Struttura dell’offesa. - 4. La controversa natura giuridica del «pericolo di malattia nel corpo o nella mente». Risvolti in ordine all’elemento soggettivo del reato. - 5. La fattispecie di cui al 2° comma. Questioni interpretative. - 6. Considerazioni de iure condito sull’incerta collocazione sistematica del reato e brevi riflessioni de iure condendo.
1. Contenuto dell’incriminazione. Cenni critici
La persistente presenza nell’ordinamento penale della figura di reato prevista dall’art. 571 c.p. è emblematica di come, spesso, il legislatore manchi o ritardi nel conformare il contenuto delle singole incriminazioni al mutamento degli orientamenti culturali e delle conseguenti istanze sociali.
Questa ipotesi delittuosa attribuisce rilevanza penale ad un uso distorto del potere disciplinare posto in essere da soggetti che rivestono una
posizione giuridica soggettiva di autorità nei confronti del soggetto passivo del reato o che sono legati alla vittima da un rapporto di affidamento per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, ovvero per l’esercizio di una professione o di un’arte. È opinione diffusa,
infatti, in letteratura, come meglio si specificherà in seguito, che la nozione di abuso «individua il superamento di una soglia ritenuta lecita dall’ordinamento», ossia «un uso smodato di un mezzo lecito» posto in essere per finalità lato sensu correttive1.
1
Così, rispettivamente, M. MENEGHELLO, Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina,
in Diritto penale della famiglia, Vol. IV, a cura di S. RIONDATO, in Trattato di diritto di famiglia
diretto da P. ZATTI, Giuffrè Editore, 2011, p. 616 e M.C. PARMIGGIANI, Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina, in I delitti contro la moralità pubblica, di prostituzione, contro il sentimento per gli animali e contro la famiglia, Parte Speciale – Vol. VI, in Trattato di diritto penale diretto da A. CADOPPI, S. CANESTRARI. A. MANNA, M. PAPA, Utet Giuridica, 2009, p. 589. Nel
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Le critiche avanzate nei confronti di tale fattispecie sono numerose: si contesta, da più parti in dottrina, l’opportunità di aver mantenuto nel codice una norma che, punendo più lievemente condotte che in assenza dello specifico fine assistenziale costituirebbero delitti contro la persona (nella forma di percosse, lesioni e addirittura di omicidio)2, appare anacronistica, in quanto espressione di momenti storici nei quali il diritto legittimava nell’ambito familiare e parafamiliare l’adozione di sistemi disciplinari imperniati sull’uso della violenza e della forza fisica, certamente in assoluto contrasto con il moderno assetto culturale3.
In particolare, si è messo in evidenza che la disposizione in esame
riflette una concezione normativa della famiglia fortemente gerarchizzata, ormai del tutto superata, alla quale si è sostituito un modello di istituzione familiare che, a seguito del mutato quadro costituzionale di riferimento, suffragato dalle disposizioni delle Convenzioni internazionali (prima tra tutte quella delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo del
20.11.89, ratificata e resa esecutiva nel nostro ordinamento con la L.
27.5.1991, n. 176) e della riforma del diritto di famiglia, perde il carattere di ordinamento giuridico autoritario e si pone su basi essenzialmente paritarie: il dovere che incombe sui genitori è quello di «mantenere, istruire ed educare la prole tenendo conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e
delle aspirazioni dei figli» (così, il novellato art. 147 c.c.)4. In questa nuova
medesimo senso, tra gli altri, DELOGU, Art. 571. Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina,
in Commentario al diritto italiano della famiglia, Vol. Settimo, diretto da G. CIAN, G. OPPO, A.
TRABUCCHI, Diritto penale, Padova, Cedam, 1995, p. 598.
2
A conferma di una tale voluntas legis, v. Relazione al progetto definitivo di un nuovo
codice penale, in Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, V, parte II,
Roma, 1929, p. 357 ss., in cui si precisa che il reato in parola si caratterizza per la sussistenza del fine correttivo che l’agente si propone, il quale sminuisce il disvalore oggettivo dell’offesa all’integrità personale o alla vita del soggetto passivo, sì da escludere un’autonoma punibilità di tale offesa.
3
Cfr. G.D. PISAPIA, Abuso dei mezzi di correzione, in Noviss. Digesto It., I, Torino, 1957,
p. 99; F. UCCELLA, La tutela penale della famiglia, Padova, 1984, p. 9; G. PISAPIA, Abuso dei mezzi di correzione e di disciplina, in Digesto pen., I, Torino, 1987, p. 36; M. MAZZA, Maltrattamenti e abuso dei mezzi di correzione, in Enc. Giur., XIX, Roma, 1990, p. 2; F. FIERRO CENDERELLI,
Famiglia (rapporti di famiglia nel diritto penale), in Digesto pen., V, Torino, 1991, p. 128.
4
V., tra gli altri, S. LARIZZA, La difficile sopravvivenza del reato di abuso dei mezzi di correzione, nota a Cassazione penale, 18/03/1996, n. 4904, Sez. VI, in Cass. pen., 1997, I, p. 29; A.C.
MORO, Manuale di diritto minorile, Quarta Edizione, a cura di L. FADIGA, Bologna, Zanichelli, 2008, p. 431 ss. Contra, F. FIERRO CENDERELLI, Profili penali del nuovo regime dei rapporti familiari, Giuffrè, 1984, p. 33, la quale ritiene che «le pur significative innovazioni del legislatore civile esplichino un’efficacia marginale sulla disciplina penale del rapporto genitori-figlio minore dal momento che, pur restringendosi la sfera della potestà dei genitori,
tale rapporto rimane fondato su basi gerarchiche».
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prospettiva, in cui la famiglia viene considerata «una società intermedia
operante a favore dei suoi membri»5, il minore, da oggetto di protezione e tutela (e in alcuni casi di disposizione) da parte degli adulti, quale
era anteriormente considerato, diviene un soggetto di diritto che va guidato nella propria crescita e formazione in maniera tale da renderlo capace di integrale e libera espressione delle sue attitudini e tendenze.
Inoltre, si rileva come i progressi della scienza pedagogica abbiano dimostrato che l’esercizio della funzione correttiva con modalità afflittive ed umilianti, offensive della dignità umana, sarebbe priva di qualsiasi utilità ai fini di una educazione mirante allo sviluppo armonico di
una personalità sensibile ai valori sociali dominanti6.
Tali considerazioni sono fatte proprie anche dalla giurisprudenza
che a partire dalla importante sentenza Cambria7, di cui si tratterà più
approfonditamente nel prosieguo, ha mutato radicalmente orientamento rispetto al passato, statuendo che l’uso della violenza a scopi educativi è sempre illecito.
Ciononostante, una parte della dottrina osserva che «non si potrebbe arrivare al paradosso di una interpretatio abrogans della norma, affermando che sempre tutte le misure disciplinari incidono oramai su diritti costituzionalmente riconosciuti della persona offesa. Secondo un
principio generale, infatti, una norma deve considerarsi valida anche in
un mutato quadro costituzionale, sempreché, attraverso un’interpretazione teleologica, sia possibile riconoscerle ancora un contenuto precettivo utile anche in quel clima; e […] questa utilità di un adeguato uso delle norme appare ancora evidente»8.
Nello specifico, il nucleo di riferimento sul quale fondare oggi la presenza, nel nostro sistema penale, della disposizione in analisi, viene individuato negli artt. 2 e 30 della Carta Costituzionale: proprio alla luce
del dovere di solidarietà e di educazione si giustificherebbe la previsione di poteri disciplinari o correttivi in capo alla istituzione familiare o alle
altre autorità ad essa vicarie.
Tuttavia, nella prospettiva costituzionale il reato di abuso dei mezzi di correzione, il cui ambito di operatività rimane esteso a soggetti che
vanno oltre la cerchia familiare, viene, da alcuni Autori, ricondotto ad una
funzione diversa da quella di tutela dell’ordine interno delle famiglie che
Così, DELOGU, op. cit., p. 583.
Cfr., in questo senso, M.C. PARMIGGIANI op. cit., p. 592; DELOGU, op. cit., p. 583; S. LARIZZA, op. cit., p. 37.
7
Cass. pen., Sez. VI, 18/3/1996, n. 4904.
8
Così, DELOGU, op. cit., p. 583 s.
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originariamente lo caratterizzava: diviene limite esclusivo di ogni potere disciplinare, come tale riconosciuto soltanto se esercitato attraverso mezzi rispettosi dei diritti fondamentali della persona9. In questo senso si afferma che la disciplina della fattispecie de qua, volutamente delineata dal
legislatore attraverso l’utilizzo di espressione elastiche (come ad esempio la locuzione «mezzi di correzione»), risulta ancora compatibile con
la mutata realtà sociale e giuridica10.
2. I presupposti della fattispecie. La relazione qualificata tra autore e persona offesa
Non si esauriscono, comunque, in quelle volte a sindacare l’opportunità politico-criminale della figura di reato ex art. 571 c.p. le critiche della dottrina che si è soffermata sulla disamina di questo delitto. Molteplici risultano essere gli ulteriori aspetti problematici.
Volendo tentare un’analisi, orientata ad una prospettiva de jure condendo, dei principali tratti controversi della disciplina della figura criminosa,
è utile, innanzitutto, individuare l’ambito e i limiti entro cui può instaurarsi il rapporto sorretto dallo jus corrigendi, la cui sussistenza è necessaria per
la configurabilità del reato. Particolare attenzione si presterà, da questo punto di vista, ad un tema discusso e di attuale interesse, cioè quello riguardante le relazioni c.d. di fatto e, segnatamente, la famiglia di fatto.
Prima ancora vanno tuttavia indicati gli altri elementi della fattispecie, su cui si registra una totale concordia di opinioni. È pacifico che si
tratta di un reato proprio11, in quanto soggetti attivi dello stesso, come
V. P.PITTARO, Il delitto di abuso dei mezzi di correzione e disciplina, in Quid Juris, 1998,
II, p. 1329; G. BONILINI, M. CONFORTINI, Codice penale commentato, a cura di M. RONCO – S.
ARDIZZONE, B. ROMANO, Terza Edizione, Utet, 2009, p. 2427 s.
10
Per tutti, cfr. S. LARIZZA, op. cit., p. 36; F. GATTI, I delitti contro l’assistenza familiare,
in Rivista penale 9/2011, p. 865.
11
Alcuni Autori (cfr. A.M. RUFFO, La tutela penale della famiglia. Prospettive dommatiche e
di politica criminale, Napoli, 1998, p. 57 s.), tuttavia, ritengono di dover inserire la fattispecie
de qua nella categoria dei reati comuni però atipici o a soggettività esclusiva. In tale genus si
fanno rientrare quelle ipotesi di reato definite anche «di mano propria». Per tale definizione v.
C. FIORE – S. FIORE, Diritto penale, Parte generale, III edizione, Utet Giuridica, 2008, p.157 s.: «Anche talune fattispecie, in relazione alle quali la legge adopera, per definire l’autore, l’espressione «chiunque», si atteggiano, però, in modo analogo ai reati propri, nella misura in cui, pur potendo essere commessi, in astratto, da «chiunque», richiedono, tuttavia, per realizzarsi in concreto, che al momento del
fatto il soggetto si trovi appunto in una particolare relazione con il bene protetto […]. In relazione a
questa categoria di ipotesi, si parla anche di reati «di mano propria», intendendo con ciò riferirsi al fatto che essi possono configurarsi solo se il fatto tipico è commesso, per così dire, «in prima persona» da
colui che riveste la specifica qualità richiesta dalla legge […]».
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già accennato, possono essere solamente coloro che rivestono una posizione di autorità nei confronti della persona offesa o che sono legati alla
vittima da un rapporto particolare, perché a loro affidata per ragione di
educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, ovvero per l’esercizio
di una professione o di un’arte, e che i soggetti passivi possono individuarsi nelle persone sottoposte all’autorità dell’agente o a lui assegnate per le predette ragioni. Sono tre, inoltre, i presupposti a cui è subordinata la tipicità dell’ipotesi delittuosa: investitura dell’autore di un rapporto qualificato da un potere disciplinare; sottoposizione della vittima
dell’eccesso correttivo a detto potere; esigenza che quest’ultima abbia tenuto un comportamento meritevole di correzione.
Tornando, ora, alle questioni inerenti l’ambito di operatività della
relazione disciplinare che, come detto, deve necessariamente intercorrere tra soggetto attivo e passivo del reato, è opportuno sottolineare come
la lettera della norma imponga una preliminare distinzione tra due categorie di rapporti: quelli di tipo strettamente familiare e quelli c.d. parafamiliari, cioè riconducibili all’esercizio di tutte le funzioni assistenziali, per così dire, vicarie o supplenti o d’ausilio rispetto all’operato della
famiglia in senso proprio.
Presupposto comune è l’individuazione, secondo l’opinione della
dottrina ormai prevalente, della legge come unico fondamento che legittima l’esistenza di tali rapporti12.
Appare, infatti, superato, almeno con riferimento all’originaria impostazione, quell’orientamento che riteneva possibile estendere l’applicazione del reato de quo anche ai soggetti titolari di un mero rapporto
di fatto in nome di un «eccezionale interesse generale alla educazione dei
giovani»13. Si ritiene, oggi, che l’esercizio di fatto di un potere autoritaV., per tutti, G. PISAPIA., op. cit., p. 31. In ordine alla natura giuridica del rapporto potere-dipendenza che deve legare l’autore e la persona offesa, si discute, in dottrina,
se tale rapporto possa trovare la sua fonte esclusivamente in norme di diritto privato o pure
di diritto pubblico. Anche i sostenitori dell’interpretazione restrittiva, tuttavia, in una sola
ipotesi attribuiscono rilevanza ex 571 c.p., e non ai sensi delle disposizioni che disciplinano i delitti contro la pubblica amministrazione, ad abusi di potere disciplinare commessi
nell’ambito di rapporti di diritto pubblico: si tratta di quei casi di abuso che si verificano
all’interno di istituzioni aventi natura pubblicistica preposte ad una funzione di assistenza complementare o sostitutiva di quella spettante alla famiglia. Ci si riferisce alle fattispecie di eccessi disciplinari che avvengono, ad esempio, all’interno delle scuole o di altri istituti di istruzione pubblici, degli ospedali, dei centri pubblici di recupero di tossicomani,
dei centri deputati al servizio sociale minorile, etc. Per una più approfondita disamina della questione, v. DELOGU, op. cit., p. 586 s.
13
Così, G.M. BETTIOL, Aspetti dello jus corrigendi nel diritto penale, in Scritti giuridici,
II, Padova, Cedam, 1966, p. 33.
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rio su un minore sia legittimo soltanto se chi lo esercita si sia assunto l’obbligo di assisterlo in maniera continuativa; costituirebbero, invece, casi
di usurpazione del potere disciplinare le ipotesi di intervento correttivo
avente carattere meramente occasionale, come, ad esempio, quelle giustificabili in base ai principi dell’agere pro alium o della negotiorum gestio14.
Tale premessa opera senza dubbio in chiave restrittiva della valenza applicativa della norma in analisi, posto che, in attuazione dei principi della Costituzione, negli ambiti di possibile operatività della stessa
sono intervenuti mutamenti legislativi che, da una parte, hanno ridimensionato la rosa dei rapporti in cui lo jus corrigendi può essere riconosciuto e, dall’altra, hanno bandito o espressamente vietato l’uso di qualsiasi tipo di violenza nelle relazioni da questo sorrette.
2.1. I rapporti familiari
Riguardo, in particolare, ai rapporti familiari, alla luce dell’abolizione dell’istituto della patria potestas, attuata con l’entrata in vigore, nel 1975,
del nuovo diritto di famiglia, è fuori discussione che alcuna potestà disciplinare spetti al marito nei confronti della moglie: i coniugi vengono
ormai considerati alla stregua del principio costituzionale di eguaglianza morale e giuridica; così, pure, è pacificamente negata la sussistenza
di un potere disciplinare dei genitori nei riguardi dei figli maggiorenni,
anche se conviventi, e dei fratelli nei confronti di altri fratelli15.
Possibili soggetti passivi del reato sono i figli minori, fermi restando i limiti, in precedenza indicati, imposti all’attività educativa esercitabile da ambedue i genitori dall’art. 147 c.c., ed indipendentemente dallo status dei figli stessi: siano essi, cioè, legittimi, naturali riconosciuti, naturali non riconosciuti o non riconoscibili, adottivi.
Possibili soggetti attivi sono considerati anche coloro che diventino titolari, mediante un atto giuridico, di poteri-doveri riconducibili alla potestà genitoriale, come, ad esempio, tutori, affidatari e genitori adottivi16.
Si ritiene, inoltre, che alla formale investitura del potere disciplinare possa equipararsi l’esercizio di fatto di poteri-doveri identici a quelli
contenuti nella potestà genitoriale.
Secondo questa logica vengono, quindi, in rilievo, ad avviso della
Per un approfondimento di questa tematica, v. DELOGU, op. cit., p. 588 s.
V., tra gli altri, DELOGU, op. cit., p. 573 ss.; riguardo specificamente ai figli maggiorenni, anche se conviventi, Cass., Sez. VI, 8 maggio 1984, Cipriani, in Cass. pen., 1985, p. 2006.
16
M.C. PARMIGGIANI, op. cit., p. 578 s.
14
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dottrina maggioritaria17, i rapporti c.d. di fatto, come quello intercorrente tra il minore ed il genitore decaduto dalla potestà genitoriale o il tutore esonerato, rimosso o sospeso dal suo ufficio qualora questi ultimi continuino (ecco il riferimento al sopra accennato carattere della continuità che necessariamente deve caratterizzare l’obbligo di assistenza) ad occuparsi della cura del fanciullo. Oltre a queste ipotesi, si considerano rapporti sorretti dallo jus corrigendi quelli che si instaurano nei contesti familiari riconducibili alla tipologia della famiglia di fatto, come nel caso
del convivente more uxorio che si prende carico dell’assistenza dei figli
dell’altro convivente; tuttavia, il potere disciplinare gli è attribuibile, secondo il citato orientamento, per la già richiamata volontaria e continuata assunzione di una funzione educativa nei loro confronti, e non per il
fatto in sé della convivenza more uxorio che, peraltro, in questa ipotesi viene in rilievo ponendosi nell’area di significato più circoscritta, non ancora oggetto di un serio esame a livello penalistico, riconducibile al concetto ormai dilagante di famiglia di tipo fattuale c.d. amalgamata, quale unione di due persone delle quali una o entrambe portino con sé i figli avuti da un precedente connubio sciolto per vedovanza, divorzio o
altra causa.
Nell’ambito della letteratura più tradizionalista18, infatti, si ritiene che
il problema della rilevanza giuridica della famiglia di fatto sia stato posto in evidenza, soprattutto di recente, per ragioni di natura ideologica,
nel tentativo di legittimare una equiparazione de jure condendo di tale tipologia di famiglia a quella fondata sul matrimonio. De jure condito, tuttavia, il concetto non avrebbe molto senso visto che sino ad oggi una siffatta equiparazione non sarebbe avvenuta in linea generale, ma solo frammentariamente in alcune leggi speciali prive di attinenza penalistica, come
ad esempio in materia di assistenza e previdenza nel lavoro, di locazioni di immobili urbani o in materia tributaria19. Nel codice civile, inoltre,
si individua solamente un parziale riconoscimento della c.d. coppia di fatto: ci si riferisce all’art. 317 bis il quale, al secondo comma, dispone che se
Cfr. DELOGU, op. cit., p. 592; G. BONILINI, M. CONFORTINI, op. cit., p. 571; M. MENEop. cit., p. 623.
18
V., in tal senso, DELOGU, Dei delitti contro la famiglia, in Commentario al diritto italiano della famiglia, Vol. Settimo, diretto da G. CIAN, G. OPPO, A. TRABUCCHI, Diritto penale, Padova, Cedam, 1995, p. 36 ss.
19
Art. 3 l. 20 febbraio 1950, n. 64, in materia di infortuni sul lavoro; l. 23 maggio 1950,
n. 253, in materia di locazioni di immobili urbani; art. 28 l. 2 luglio 1952, n. 703, in materia di imposta di famiglia. Cfr., per una rassegna di leggi e di giurisprudenza, G. PIEPOLI,
Realtà sociale e modello normativo nella tutela della famiglia di fatto, in Riv. trim. di dir. e proc.
civ., 1972, p. 1433 ss.
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tutti e due i genitori hanno riconosciuto il loro figlio naturale, l’esercizio
della potestà genitoriale spetta ad entrambi congiuntamente qualora siano conviventi, proprio come avviene nel caso della famiglia legittima.
Al contrario, alcuni Autori20 pongono in evidenza come il diritto penale, contrariamente a ciò che accade in altri ambiti dell’ordinamento giuridico, sia aperto al recepimento ed alla valorizzazione di concezioni della famiglia diverse da quella propriamente giuridica, quale, appunto, il caso
delle realtà familiari fattuali o addirittura di modelli familiari un tempo imprevedibili oppure appartenenti all’area del giuridicamente irrilevante.
Questo assunto evoca l’idea, oggi comunemente seguita, che anche
quando la norma penale richiama concetti e categorie propri di altri settori dell’ordinamento (è innegabile, infatti, che la nozione di famiglia trovi la propria fonte e regolamentazione originaria nel diritto privato) ne
ricostruisce il significato in via autonoma, nel caso le specifiche esigenze
della tutela penalistica lo richiedano. È ormai del tutto superata l’impostazione secondo cui il diritto penale avrebbe una funzione meramente
sanzionatoria, e cioè andrebbe semplicemente a sanzionare comandi o divieti già previsti altrove, in particolare nell’ordinamento privatistico21. Infatti, viene unanimemente recepita la concezione autonomistica o costitutiva che riconosce allo stesso un carattere primario ed autonomo, dal pun-
20
Per una approfondita disamina della tematica, v. S. RIONDATO, Introduzione a «famiglia» nel diritto penale italiano, in Trattato penale della famiglia, Vol. IV, a cura di S. RIONDATO, in Trattato di diritto di famiglia diretto da P. ZATTI., Giuffrè Editore, 2011, p. 43 ss.
21
La c.d. concezione sanzionatoria, le cui premesse storico-culturali rimandano al pensiero di Hobbes, Pufendorf, Bentham, Rousseau e si riallacciano al principio di non ingerenza dello Stato nella sfera privata, attribuiva al diritto penale una funzione secondaria o
accessoria e sanzionatoria. In particolare, secondo l’orientamento teorico risalente a Karl Binding (Teoria delle norme. K. BINDING, Die Normen und ihre Ubertretung, I, 1916, p. 73), il precetto (norma primaria) atterrebbe ad un ramo particolare del diritto pubblico, mentre il diritto penale si comporrebbe solo di precetti secondari - le sanzioni - e si occuperebbe, quindi, delle sole conseguenze giuridiche dei comportamenti vietati o comandati dalle norme.
Questa teoria è stata recepita in Italia soprattutto nella riformulata versione del carattere
ulteriormente sanzionatorio del diritto penale (Grispigni), per cui ogni condotta costituente
reato sarebbe in ogni caso vietata anche da un’altra norma di diritto pubblico o privato.
In altri termini, il precetto penale presupporrebbe necessariamente un altro precetto non
penale e la sanzione penale andrebbe, così, a rafforzare o completare un’altra sanzione giuridica stabilita dalla norma che, anteriormente al diritto penale, ha vietato la medesima condotta (F. GRISPIGNI, Diritto penale italiano, I, Milano, 1952, p. 232).
Sull’argomento, tra gli altri, cfr. C. FIORE – S. FIORE, op. cit., p. 7; F. MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, VII edizione, Cedam, 2011, p. 48 s.; G. FIANDACA – E. MUSCO, Diritto penale, Parte generale, V edizione, Zanichelli Editore, 2007, p. 34 ss.; T. PADOVANI., Diritto penale, II edizione, Milano, Giuffrè Editore, 1993, p. 3 ss.; I. LEONCINI, Reato e contratto, Milano 2006, p. 121 ss.
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to di vista nozionale e funzionale, in quanto, «[...] d’ordinario, il precetto penale si presenta coma regola originaria»22, seppure concorra con altri strumenti giuridici alla realizzazione degli scopi di tutela dei beni giuridici.
Non è infrequente, tuttavia, specie nella legislazione complementare, un uso di tipo sanzionatorio dello strumento penalistico rispetto alla
disciplina di una singola materia contenuta in fonti normative extrapenali. La tendenziale autonomia dell’illecito penale, osserva la citata dottrina,
non è comunque messa in discussione dal fatto che a volte l’applicazione
della fattispecie incriminatrice richiede rinvii a presupposti ricavabili da
altri settori dell’ordinamento. In ogni caso, la ratio dell’incriminazione penale sottende valutazioni proprie, prima tra tutte quella ricollegabile al principio di frammentarietà della protezione penalistica che, rivolgendosi alla
sfera di interessi maggiormente rilevanti per la collettività, rimane circoscritta a specifiche forme di aggressione o modalità di lesione23. Inoltre, le
peculiari esigenze dell’imputazione penalistica conferiscono ai beni oggetto della propria tutela un’impronta nuova ed originale.
Si individua24, così, all’interno della parte speciale del codice penale, e già propriamente nel Titolo dedicato ai reati contro la famiglia, cui
la norma in analisi appartiene, l’alternanza di varie concezioni della famiglia che in altri ambiti del diritto rimangono prive di rilevanza.
Vi sarebbe, innanzitutto, quella di famiglia come istituto etico-giuridico, intesa nel significato di convivenza o comunione familiare in cui
i genitori con il dialogo e, soprattutto, con l’esempio formano la personalità del giovane che poi sarà il cittadino; ecco che tale consorzio o società coniugale e/o parentale deve essere tutelato contro l’attività criminosa (una tale ratio di incriminazione sarebbe sottesa, ad esempio, ai reati ex artt. 570 e 572 c.p.). Originariamente il dato fondante della famiglia
concepita nella predetta maniera si riteneva essere il matrimonio, così da
attribuire rilevanza alla famiglia coniugale legittima. Era questa la logica cui ricondurre quelle ipotesi delittuose contro il matrimonio, poi og-
Così, v. ancora C. FIORE – S. FIORE, op. cit., p. 7.
Riguardo all’ulteriore carattere di sussidiarietà del diritto penale, secondo cui la sanzione penale deve costituire l’ultima ratio cui ricorrere solo quando le misure apprestate da
altri settori dell’ordinamento risultano impraticabili o inadeguate, una parte della dottrina ritiene che esso nulla abbia a che vedere con la questione, ormai risolta in senso negativo, della funzione meramente sanzionatoria del diritto penale. V., per tutti, C. FIORE – S.
FIORE, op. cit., p. 7. Altri Autori, invece, ravvisano un possibile collegamento tra il carattere secondario del diritto penale e la necessaria sussidiarietà dello strumento penalistico rispetto agli altri sistemi di tutela. Cfr., ad esempio, G. FIANDACA – E. MUSCO, op. cit., p. 35.
24
S. RIONDATO, op. cit., p. 43 ss.
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getto di pronunzia di incostituzionalità della Corte Costituzionale, quali le fattispecie di adulterio (art. 559 c.p.) e di concubinato (art. 560 c.p.).
Si fa, tuttavia, notare che nella legislazione del 1930 comparirebbe
un’apertura rispetto alla filiazione un tempo chiamata illegittima e oggi
anche detta naturale (vedi, ad esempio, l’abrogata figura criminosa dell’incesto ex art. 546 c.p.); ciò, nel corso del tempo, avrebbe favorito la valorizzazione ed il recepimento di una morale familiare che prescinde dall’istituto del matrimonio. Da qui l’idea, prospettata inizialmente, che la famiglia in senso penalistico (legittima o naturale) rimane solo tendenzialmente ancorata alla concezione giuridica o istituzionale, dal momento che essa
non è più considerata esclusivamente alla stregua di rapporti già riconosciuti dal punto di vista giuridico, ma tende ad ammettere e tutelare anche realtà che appaiono come familiari nella vita individuale e sociale: si
pensi alla c.d. famiglia di fatto, che si àncora non solamente a rapporti similari a quelli coniugali, ma a qualsiasi tipo di relazione familiare.
A tal proposito, si rammenta la rilevanza penale attribuita dalla giurisprudenza e, di recente, dallo stesso legislatore alla convivenza more uxorio
ai fini della configurabilità di una fattispecie delittuosa contigua, non solo
per posizione “topografica”, al reato di Abuso dei mezzi di correzione o di
disciplina, e cioè quella dei Maltrattamenti contro familiari o conviventi di
cui al novellato articolo 572 c.p., la quale ha costituito il vero banco di prova rispetto all’ampliamento della istituzionale concezione della famiglia25.
25
In giurisprudenza, inter alia, v. Cass. pen., Sez. V, 3/3/2010, n. 24668; Cass. pen., Sez.
III, 19/1/2010, n. 9242: in tema di maltrattamenti in famiglia è idea ormai consolidata che
la concezione di famiglia possa identificarsi in ogni consorzio di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà, senza la necessità di un fondamento legittimo del rapporto; ne consegue che il delitto si consuma anche tra persone legate soltanto da un puro rapporto di fatto, che, per le intime relazioni e consuetudini di vita correnti tra le stesse, presenti somiglianza ed analogia con quello proprio
delle relazioni coniugali. Tale orientamento giurisprudenziale è stato recentemente recepito anche dal legislatore, il quale, con l’art. 4, 1°co., lettera d), l. 172/2012 (di ratifica ed esecuzione della Convenzione di Lanzarote del 25 ottobre 2007), ha sostituito il vecchio testo dell’art. 572 c.p. («Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli»), novellando la rubrica, ora intitolata «Maltrattamenti contro familiari o conviventi», ed aggiungendo nel novero dei soggetti passivi del reato, per l’appunto, i conviventi. Inoltre, altre modifiche hanno riguardato l’aumento dei livelli edittali di pena (adesso compresi tra un minimo di due e un massimo di sei anni
di reclusione) e la trasformazione del fatto commesso nei confronti dell’infraquattordicenne da ipotesi base a circostanza aggravante ad effetto ordinario.
In certa parte della giurisprudenza, poi, si è giunti finanche a negare la necessità di una
convivenza tra i soggetti coinvolti nel reato ai fini della sua configurabilità, allorchè la condotta del soggetto realizzi comunque gli estremi strutturali tipici della ipotesi criminosa ex art
572 c.p. attraverso ripetute manifestazioni di offensività e aggressività attuate in danno del
coniuge separato. Cfr., Cass. pen., Sez VI, 21 gennaio 2009., n. 16658, in Cass. pen., 2010, 606.
782
Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina
Inoltre, viene messo in evidenza26 come nella realtà odierna l’interprete sia chiamato a porre la sua attenzione su modelli familiari provenienti da culture diverse dalla nostra, i quali sottendono la questione del
multiculturalismo27 e della consequenziale esigenza di contemperare la
tutela della singola persona con il rispetto di statuti familiari profondamente differenti da quelli riconosciuti dalla tradizione culturale cui si rifà
il legislatore storico.
Il concetto di «società multiculturale»28 - sul quale si faranno brevi
cenni in considerazione del suo problematico rapporto con il diritto penale e delle conseguenti, seppure indirette, implicazioni con il reato de
quo - è emerso già da lungo tempo negli Stati Uniti d’America. Lo stesso è divenuto, poi, oggetto anche della riflessione della dottrina italiana:
il fenomeno dell’immigrazione, diffusosi in maniera crescente negli ultimi decenni, ha portato in Italia, così come è avvenuto in altri Stati europei, individui e famiglie provenienti da luoghi e culture diversi. Accade, allora, che nel Paese d’arrivo i migranti si imbattono in un differente modo di regolamentazione della comune convivenza, ossia in un diritto penale difforme da quello di origine.
All’interprete, quindi, è posto il compito di individuare la risposta
Cfr. S. RIONDATO, op. cit., p. 54 ss.
Sul tema, tra gli altri, v. F. BASILE, Immigrazione e reati culturalmente motivati, Milano, Giuffrè editore, 2010; P. PITTARO, Impiego di minore nell’accattonaggio part-time: maltrattamento in famiglia o riduzione in schiavitù?, in Fam. dir., 2009, p. 238; F. BASILE., Premesse per
uno studio sui rapporti tra diritto penale e sicietà multiculturale. Uno sguardo alla giurisprudenza europea sui c.d. reati culturalmente motivati, in Riv. it. dir. proc. pen., 2008 p. 149; C. DE MAGLIE, Culture e diritto penale. Premesse metodologiche, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2008, p. 1088
ss.; S. RIONDATO, Diritto penale e reato culturale, tra globalizzazione e multiculturalismo. Recenti novità legislative in tema di opinione, religione, discriminazione razziale, mutilazione genitale
femminile, personalità dello Stato, in S. RIONDATO (a cura di), Discriminazione razziale, xenofobia, odio religioso. Diritti fondamentali e tutela penale, Cedam, 2006.
28
Un’importante distinzione messa in evidenza in dottrina è quella esistente tra società (o Stato) multiculturale di tipo multinazionale e società (o Stato) multiculturale di tipo
polietnico. Nel primo caso il pluralismo culturale deriva dall’assorbimento (a seguito di processi di colonizzazione, conquista o confederazione) in uno Stato più grande di gruppi culturali territorialmente concentrati che, in precedenza, si governavano da soli e che costituiscono le c.d. minoranze nazionali autoctone. Nel secondo caso il pluralismo culturale
discende dall’immigrazione, anche da Paesi molto distanti da quelli d’arrivo, di individui
e famiglie che spesso si raccolgono in associazioni flessibili, le quali di regola desiderano,
almeno in parte, integrarsi nella società dominante, pur rivendicando un maggiore riconoscimento della loro identità culturale. In Italia le minoranze autoctone, tranne l’eccezione costituita dai Rom, sono totalmente assenti; di conseguenza, la coesistenza di culture
diverse trae origine dal fenomeno dell’immigrazione. Sull’argomento v. F. BASILE., Immigrazione e reati culturalmente motivati, cit., p. 43 ss.
26
27
783
Monica Tortorelli
penale più adeguata riguardo a quei fatti commessi dagli immigrati nel
Paese ospitante, previsti come reati nell’ordinamento giuridico di quest’ultimo ma considerati leciti nel sistema del loro Stato di provenienza.
Si presenta, cioè, il problema concernente la disciplina dei reati che la dottrina chiama culturali o culturalmente orientati o culturalmente motivati29,
la cui incidenza è particolarmente frequente proprio nell’ambito che forma oggetto della presente trattazione. Dall’analisi della casistica giudiziaria emerge che tali reati sono riconducibili a diverse categorie delittuose, tra cui gli illeciti contro l’onore, di riduzione in schiavitù a danno di minori, contro la libertà sessuale, in materia di sostanze stupefacenti; tuttavia, il maggior numero di casi finora giunto all’attenzione della giurisprudenza italiana riguarda il contesto familiare. Si pensi a quelle condotte fondate su un’idea dello jus corrigendi e della potestà maritale ormai superata, come si è visto, nel nostro sistema sociale e giuridico: sempre più spesso la cronaca racconta di vicende in cui gli autori dei
reati di Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina e di Maltrattamenti contro familiari o conviventi giustificano le loro azioni attraverso il riferimento alle usanze e ai costumi dei propri luoghi di provenienza. In
particolare, si tratta di episodi in cui con la violenza si punisce chi tenta di ribellarsi alle regole sociali ed al codice etico imposto dal capofamiglia o dal leader del gruppo d’origine, oppure di casi di mutilazioni genitali femminili30, di sequestri di giovani donne finalizzati ad imporre matrimoni combinati o con spose bambine, di violenze sessuali su ragazze
minorenni o intraconiugali, oppure di fatti consistenti nel rifiuto dei genitori di mandare i figli a scuola a causa di riserve di tipo religioso-culturale rispetto all’istituto scolastico cui i ragazzi sono stati assegnati31.
29
Una più dettagliata definizione proposta in letteratura è quella che fa riferimento ad «un comportamento realizzato da un soggetto appartenente ad un gruppo culturale di minoranza, che è considerato reato dall’ordinamento giuridico del gruppo culturale di maggioranza.
Questo stesso comportamento, tuttavia, all’interno del gruppo culturale del soggetto agente è condonato, o accettato come comportamento normale, o approvato, o addirittura incoraggiato o imposto». Così F. BASILE, Immigrazione e reati culturalmente motivati, cit., p. 41 ss. Formulazione
similare era stata elaborata già da C. DE MAGLIE, op. cit., p. 1115.
30
Questa pratica è oggi gravemente punita in Italia: il legislatore, con la legge n. 7
del 2006, ha introdotto nell’ordinamento specifiche norme volte a disciplinare quello che
si configura come il nuovo reato di mutilazione degli organi genitali femminili.
31
Tra le altre, cfr. Tribunale di Torino 21 ottobre 2002, in Quest. Giust., 2003, p. 666,
con nota di F. MAZZA GALANTI, I bambini degli zingari e il reato di maltrattamenti in famiglia;
Cassazione 16 dicembre 2008, n. 46300, in Guida dir., 14 marzo 2009, p. 63; Cassazione 29
maggio 2009, n. 22, in Quotidiano Diritto e Giustizi@ del 19.10.2009; Cassazione 17 dicembre 2009, n. 48272, udienza 7 ottobre 2009. Allargando l’analisi della casistica giurisprudenziale a quella inglese, in essa si rinviene un’ipotesi specifica di inosservanza dell’obbligo
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Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina
Altro esempio di reato culturalmente motivato è quello di bigamia
(art. 556 c.p.), la cui configurabilità si è diffusa nel nostro Paese a seguito della immigrazione di soggetti legati a modelli culturali legittimanti
la poligamia, distanti anni luce dalla concezione della famiglia fondata
sul matrimonio quale relazione esclusiva tra due individui32.
La possibile soluzione a questi casi, e quindi l’individuazione della più corretta reazione del diritto penale di fronte a tale tipologia di reati, postula la necessità di stabilire, preliminarmente, se attribuire o meno
rilevanza alla motivazione culturale spesso invocata dagli imputati come
elemento condizionante della propria condotta. Inoltre, una impostazione volta a risolvere in senso positivo la questione implica l’ulteriore indagine circa i criteri attraverso cui valutare i fattori implicanti il richiamo a culture “altre”.
Il dibattito dottrinale sviluppatosi in Italia è certamente influenzato dalle riflessioni avviate in America a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta. Tuttavia, come osserva un Autore particolarmente sen-
scolastico da parte dei genitori, dovuta a motivi religiosi. Questo è ritenuto l’unico caso noto
di inadempimento degli obblighi scolastici che rileva come reato a sé stante, e non si inserisce in una fattispecie più ampia, quale, di regola, quella di Maltrattamenti contro familiari o conviventi. V., per una ricostruzione di questa vicenda giudiziaria, F. BASILE, Immigrazione e reati culturalmente motivati, cit., p. 237.
32
A riguardo, parte della dottrina fa riferimento ad un’ordinanza del Tribunale di
Bologna (ordinanza del 12 marzo 2003) che avrebbe indirettamente riconosciuto quello che
si ritiene possa atteggiarsi come un vero e proprio «diritto alla poligamia» anche in Italia,
sostenendo che «il reato di bigamia può essere commesso solo dal cittadino italiano sul territorio nazionale, essendo irrilevante il comportamento tenuto all’estero dallo straniero la
cui legge nazionale riconosce la possibilità di contrarre più matrimoni» e che «nessun principio di ordine pubblico appare leso laddove i matrimoni contratti all’estero dal padre siano privi di effetti civili per l’ordinamento italiano». Cfr. S. RIONDATO, Introduzione a «famiglia» nel diritto penale italiano, cit., p. 57. In realtà, si tratterebbe di una pronuncia isolata, in
quanto altra parte della dottrina ravvisa interpretazioni sostanzialmente restrittive nell’ambito delle elaborazioni di quei pochi Autori che si sono occupati delle questioni ruotanti
intorno al delitto di poligamia: in esse si tenderebbe a negare, infatti, la possibilità di invocare in funzione scriminante un diritto riconosciuto da un ordinamento giuridico straniero, quale appunto quello alla poligamia. V. F. BASILE., Immigrazione e reati culturalmente
motivati, cit., p. 371 s., il quale richiama S. FERRARI – I.C. IBAN, Diritto e religione in Europa
occidentale, Bologna, 1997, p. 101 ss. Si consideri, inoltre, che la pratica della poligamia ha
trovato una ferma censura nella Carta dei diritti e doveri degli immigrati (Decreto Ministro dell’Interno 23 aprile 2007) ove all’art. 17 si afferma espressamente: «Il matrimonio è
fondato sulla eguaglianza di diritti e di responsabilità tra marito e moglie, ed è per questo a struttura monogamica. La monogamia unisce due vite e le rende corresponsabili di
ciò che realizzano insieme, a cominciare dalla crescita dei figli. L’Italia proibisce la poligamia come contraria ai diritti della donna, in accordo con i principi affermati dalle istituzioni europee».
785
Monica Tortorelli
sibile alle problematiche giuridico-penali legate al fenomeno del multiculturalismo33, dall’analisi dell’esperienza statunitense è possibile ricavare indicazioni importanti, ma certamente non risolutive, in quanto emergono in letteratura posizioni divergenti e anche lo stesso legislatore non
ha preso esplicita posizione. Il concetto di cultural defense, elaborato dalla dottrina penalistica ed inteso quale strategia difensiva utilizzata nel
processo penale dall’imputato, basata sulla sua appartenenza ad una cultura di minoranza, non è stato formalizzato dalle fonti del diritto americano. Lo stesso, comunque, continua ad essere invocato dinanzi alle Corti, però non risulta agevole stabilire neppure quale sia il prevalente orientamento della giurisprudenza d’oltre Oceano riguardo al peso da attribuire alla diversa cultura dell’imputato in sede di accertamento e valutazione del reato contestatogli.
Le medesime questioni si pongono anche nell’ordinamento italiano. La citata dottrina evidenzia che la difficoltà di giungere a soluzioni
univoche discende essenzialmente dalla necessità di contemperare varie esigenze contrapposte nel momento in cui si riflette su quale trattamento giuridico riservare alle condotte che sottendono consuetudini legate ad una determinata cultura. Si tratta di considerazioni contrastanti: si pensi, da un lato, a quelle che attengono alla individuazione dell’effettivo grado di colpevolezza dell’autore, alla opportunità di favorire il
processo di integrazione degli immigrati, alla valorizzazione del principio di uguaglianza e, dall’altro lato, a quelle che si riferiscono alle esigenze di tutela della vittima, alla attuazione concreta delle finalità della pena,
soprattutto in un’ottica general-preventiva, alle difficoltose implicazioni pratiche legate al concetto di cultura, principalmente in ragione della sua notevole polisemia.
Le difficoltà investono anche l’aspetto probatorio, in sede processuale, e cioè le modalità attraverso cui fornire la prova del fattore culturale condizionante la commissione del reato.
L’obiettivo ultimo si ritiene essere, comunque, quello di «conciliare il rispetto della diversità culturale con il rispetto della uniformità e della credibilità del sistema penale»34.
In realtà, nessuno degli ordinamenti giuridici dei Paesi occidentali destinatari dei flussi immigratori, tantomeno l’Italia, ha introdotto disposizioni ad hoc per disciplinare le ipotesi dei reati culturalmente mo-
33
34
F. BASILE, Immigrazione e reati culturalmente motivati, cit., p. 348 ss.
Così ancora ivi, p. 11.
786
Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina
tivati35. Le possibili soluzioni provengono, come spesso avviene, dalle elaborazioni frutto del dibattito dottrinale: allo stato attuale pare prevalente l’idea di applicare le norme e gli istituti già esistenti nel diritto penale vigente, tenendo sempre in considerazione i differenti fattori caratterizzanti il caso specifico, quali, ad esempio, il livello di offensività del fatto o il grado di integrazione del soggetto agente. Quindi, a seconda delle circostanze concrete, la motivazione culturale potrebbe avere rilievo
in sede di esclusione del fatto tipico, in ragione della sua reale efficacia
condizionante (ritenendo assente il dolo, ad esempio), o di valutazione
dell’antigiuridicità attribuendo ad essa valore scriminante (v., a titolo esemplificativo, l’invocato esercizio del diritto alla poligamia), oppure nel momento di accertamento e graduazione della effettiva colpevolezza dell’autore venendo in considerazione, ad esempio, come ipotesi eccezionale di ignoranza legis scusabile. Inoltre, il fattore culturale potrebbe essere considerato in sede di valutazione della risposta sanzionatoria, eventualmente attraverso l’applicazione di circostanze attenuanti (si pensi a
quella integrata dall’aver agito per motivi di particolare valore morale
o sociale), o addirittura negando l’inflizione della pena stessa. Non si esclude, comunque, che possa essere del tutto irrilevante, ai fini dell’accertamento della responsabilità del soggetto, una motivazione di tipo culturale nel caso essa appaia pretestuosa o ininfluente36.
Pertanto, ancora una volta - lo esplicita con fermezza la richiamata dottrina - ci si affida alla sensibilità dei giudici: sono questi che, in ul35
L’assenza, a livello legislativo, di riferimenti a questa tipologia di reati accomuna
gli Stati, come la Francia, che adottano una politica della immigrazione improntata al modello c.d. assimilazionista-integrazionista, caratterizzato da una logica di neutralità rispetto
alle differenze culturali, ai Paesi, come l’Inghilterra, che hanno ufficialmente aderito al modello c.d. multiculturalista propenso a riconoscere, accettare e valorizzare le culture “altre”.
L’Italia non ha accolto in maniera netta nessuno dei due modelli e, di volta in volta, sembra ispirarsi a logiche di segno opposto: si pensi, da una parte, alle specifiche disposizioni di legge che prevedono regimi giuridici speciali nei confronti di coloro che appartengono ad un gruppo culturale di immigrati (v., ad esempio, l’art. 5 del d. lgs. n. 333 del 1998,
che ha consentito la macellazione secondo il rito islamico); e, dall’altra parte, al già indicato reato di mutilazione degli organi genitali femminili introdotto dalla legge n. 7 del 2006
e punito molto gravemente, alla circostanza aggravante c.d. della clandestinità, inserita dalla l. n 92 del 2008 nel nuovo art. 61 n. 11 bis c.p., nonchè al reato di clandestinità introdotto dalla l. n. 94 del 2009 ed, inoltre, alla proposta di legge n. 2769, presentata alla Camera
il 2 ottobre 2009, per la modifica dell’art. 5 della l. n. 152 del 1975 e volta a vietare l’uso, in
luogo pubblico o aperto al pubblico, degli «indumenti indossati in ragione della propria
affiliazione religiosa».
36
Per una dettagliata ricostruzione dei vari elementi del reato all’interno dei quali
può assumere rilevanza la motivazione culturale, v. F. BASILE, Immigrazione e reati culturalmente motivati, cit., p. 359 ss.
787
Monica Tortorelli
tima analisi, sono chiamati ad “interrogare” il diritto vigente e valutare
come risolvere l’eventuale conflitto normo-culturale posto dalla commissione di un reato culturalmente orientato. Il limite a qualsiasi forma di
riconoscimento della diversità culturale ed alla sua possibile rilevanza
in sede penale è costituito, senza dubbio, dal rispetto dei valori fondanti un dato sistema giuridico, primi tra tutti quelli che impongono la tutela dei diritti fondamentali dell’individuo.
A conferma di questa conclusione si pone anche la già citata pronuncia della Corte di Cassazione37, risolutiva di una vicenda giudiziaria avente ad oggetto proprio un’ipotesi di maltrattamenti nei confronti del figlio minore da parte di un padre marocchino che, condannato per
tale reato, aveva, con ricorso al Giudice di legittimità, invocato la derubricazione del fatto in Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina, in
quanto la sua condotta sarebbe stata finalizzata ad attuare esigenze educative rispecchianti anche le consuetudini del Paese di origine. La Suprema Corte ha respinto il ricorso adducendo la contraddittorietà di qualsiasi mezzo violento rispetto alle finalità disciplinari. Inoltre, la stessa ha
posto in evidenza che «[...] Né diverso criterio interpretativo può evidentemente essere adottato in relazione alla particolare concezione socio-culturale di cui sia eventualmente portatore l’imputato, posto che in materia vengono in gioco valori fondamentali dell’ordinamento (consacrati
nei principi di cui agli artt. 2, 3, 30 e 32 Cost.), che fanno parte del visibile e consolidato patrimonio etico-culturale della nazione e del contesto sovranazionale in cui la stessa è inserita e, come tali, non sono suscettibili di deroghe di carattere soggettivo e non possono essere oggetto, da
parte di chi vive e opera nel nostro territorio ed è quindi soggetto alla legge penale italiana, di valida eccezione di ignoranza scusabile».
2.2. I rapporti parafamiliari. Il potere disciplinare dell’insegnante nei confronti dell’alunno
Tornando alla descrizione del più esteso concetto di famiglia recepito dal diritto penale, un ulteriore spazio sarebbe occupato, seguendo
la ricostruzione della richiamata dottrina38, dalla famiglia in un senso romanistico. Si fa riferimento, tra le varie ipotesi, proprio a quelle estensioni nominalistico-normative cui ricorre l’art. 571 c.p. quando ascrive al
novero familiare la serie di rapporti disciplinari caratterizzati dalla loro
funzione di ausilio o supplenza rispetto ai compiti di educazione e for37
38
Cass. pen., Sez. VI, 17 dicembre 2009, n. 48272.
S. RIONDATO, Introduzione a «famiglia» nel diritto penale italiano, cit., p. 52 ss.
788
Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina
mazione appartenenti stricto sensu alla famiglia.
Si tratta dei rapporti c.d. parafamiliari, costituiti dagli affidamenti
«per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, ovvero per l’esercizio di una professione o di un’arte», rispetto ai quali l’ambito di operatività della norma si è sensibilmente ristretto, se non di fatto completamente azzerato in molte ipotesi, come ritiene la dottrina prevalente, a seguito dei vari interventi legislativi che – lo si è già in precedenza accennato - hanno vietato l’uso della violenza e, contestualmente, hanno individuato le ammissibili sanzioni disciplinari comminabili,
le quali possono assumere natura coercitiva solo in casi eccezionali e sempre nei confronti di soggetti che, ad esempio, potrebbero nuocere a se stessi o ad altri39. Si pensi alla materia dei rapporti di lavoro, la cui disciplina è contenuta nella legge n. 300 del 1970 (Statuto dei lavoratori): l’art. 7
della stessa dispone che le misure disciplinari applicabili sono esclusivamente il rimprovero verbale, la multa (per un importo non superiore
a quattro ore della retribuzione base), la sospensione dal servizio e dalla retribuzione (per non più di dieci giorni), il licenziamento (per giusta
causa o giustificato motivo soggettivo: l. 15 luglio 1996, n. 604, e art. 18
St. Lavoratori). Ai sensi dell’art. 2106 c.c., inoltre, l’applicazione di sanzioni disciplinari deve avvenire «secondo la gravità dell’infrazione»40.
Quanto, poi, ai rapporti tra agenti di custodia e detenuti o internati nelle strutture penitenziarie, la normativa di riferimento è data dalla
legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà) e dal d.p.r. 30 giugno 2000, n. 230 (Regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà): le sanzioni che possono irrogarsi a fronte di certe e ben definite infrazioni (elencate nell’art. 77 del citato d.p.r.) sono tassativamente individuate dalla legge. Si tratta delle seguenti misure: «1) richiamo del direttore; 2) ammonizione, rivolta dal direttore, alla presenza di appartenenti al personale e di un gruppo di detenuti o internati; 3) esclusione da attività ricreative e sportive per non
più di dieci giorni; 4) isolamento durante la permanenza all’area aperta
per non più di dieci giorni; 5) esclusione dalle attività in comune per non
più di quindici giorni» (art. 39, l. 354/1975). È espressamente previsto che
«nell’applicazione delle sanzioni» si debba «tener conto, oltre che della
natura e della gravità del fatto, del comportamento e delle condizioni per-
39
Cfr., tra i molti, M.C. PARMIGGIANI, op. cit., p. 580 ss.; M. MENEGHELLO, op. cit., p.
619 ss.; P. PITTARO, Il delitto, cit., p. 1332.
40
Cfr., tra le altre, Cass., VI, 22 gennaio 2001, n. 10090.
789
Monica Tortorelli
sonali del soggetto»; che le «sanzioni» debbano essere «eseguite nel rispetto della personalità» di chi le subisce (art. 38); che non si possa fare
ricorso a mezzi di coercizione fisica a fini disciplinari (art. 41).
Si fa notare, dunque - in dottrina - che in entrambe le tipologie di rapporti parafamiliari appena richiamati residui uno spazio applicativo del
reato di Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina nei casi di irrogazione di qualcuna di quelle sanzioni, specificamente indicate, in forma o
misura sproporzionata (per eccesso) rispetto alla gravità dell’infrazione
o del fatto41. Nelle ipotesi, invece, di impiego eccessivo di misure diverse da quelle previste saranno ravvisabili altri reati, quali ingiurie, percosse, lesioni, maltrattamenti42, e mai quello disciplinato dall’art. 571 c.p.
Relativamente, inoltre, alle relazioni tra pazienti ed operatori sanitari, rispetto alle quali la riforma del settore sanitario (l. n. 833 del 1978)
ha sancito che «la tutela della salute fisica e psichica deve avvenire nel
rispetto della dignità e della libertà della persona umana», si ritiene che
non si configuri il presupposto del reato in esame, e cioè la titolarità di
un potere correttivo e disciplinare e, quindi, di una posizione di supremazia in capo al personale medico nei confronti del paziente, essendo quest’ultimo posto su un piano di sostanziale parità rispetto al primo43.
Tuttavia, una valenza alla norma è stata talvolta riconosciuta riguardo alle ipotesi di affidamento per ragioni di vigilanza connesse a quelle di cura, custodia ed educazione esclusivamente di minori custoditi da
governanti stabili o affidati alla pubblica assistenza o di adulti infermi
di mente non ricoverati in luoghi di cura, ma bisognosi di essere vigilati o custoditi 44.
41
V. A. SPENA, Reati contro la famiglia, in Trattato di diritto di famiglia, diretto da C.F.
GROSSO, T. PADOVANI, A. PAGLIARO, Giuffrè, 2012, p. 334 s.
42
La Corte di Cassazione ha ritenuto sussistente la fattispecie di cui all’art. 572 c.p.
riguardo a comportamenti posti in essere dagli ospiti-datori di lavoro di una persona extracomunitaria alla quale non venne corrisposta retribuzione e fu sistematicamente imposto di non uscire, di non comunicare con alcuno, di lavarsi e vestirsi in giardino, di non guardare la televisione. In tal caso, in un contesto di rapporti di autorità/dipendenza, l’esercizio della funzione disciplinare sarebbe avvenuto con modalità afflittive della personalità, in assoluto contrasto con la pratica pedagogica e con una abituale frequenza, nei confronti dello stesso soggetto, tale da escludere l’intento comunicativo. Cass. pen., 25/9/1995,
n. 2609, in Giust. pen., 1998, II, p. 84.
43
M.C. PARMIGGIANI, op. cit., p. 583.
44
Così, Cass. pen., Sez. VI, 16/1/1996, in Dir. Famiglia, 1997, p. 507 (con nota critica di D. BONAMORE, Illiceità della violenza fisica e psichica nell’esercizio dei doveri di formazione
della persona umana, p. 516 ss.), che ha confermato la sentenza del Pretore di Isernia-Venafro, il quale aveva accolto la richiesta delle parti di derubricazione dei contestati reati di
maltrattamenti e lesioni volontarie in quello di abuso dei mezzi di correzione aggravato
790
Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina
Non vi sono dubbi, invece, che un potere disciplinare spetti all’insegnante nei confronti dell’alunno; tra questi soggetti viene ad istaurarsi un rapporto di tipo pedagogico.
Preminente se non esclusivo rilievo assume, quindi, nell’ambito dei
rapporti parafamiliari, per la frequenza delle vicende concrete che lo hanno riguardato e con cui la giurisprudenza si è trovata costantemente a doversi confrontare, l’affidamento «per ragioni di educazione, istruzione».
Si è chiarito che «a rigore il concetto di «educazione» di un minore abbraccia lo svolgimento di tutte le attività necessarie a formargli una
personalità socialmente adeguata, mentre il concetto di «istruzione» ha
una portata più ristretta, in quanto comprende l’attività necessaria a procurare al minore il bagaglio culturale, generale o tecnico, che possa poi
permettergli di svolgere un ruolo sociale e lavorativo adeguato alla sua
posizione. In pratica le due finalità vanno congiunte»45. Esempi di affidamenti per detti fini, oltre a quello attuato attraverso l’iscrizione ad una
scuola pubblica o privata, si rinvengono nelle ipotesi di inserimento di
un fanciullo in un collegio pubblico o privato, di autorizzazione al minore di frequentare un circolo religioso, oppure associazioni laiche con
finalità culturali o sportive.
Con specifico riguardo ai rapporti tra insegnanti ed alunni, deve
rilevarsi, tuttavia, che anche in tale contesto sono intervenute numerose modifiche di natura restrittiva: gli ordinamenti scolastici, infatti, escludono l’uso di mezzi violenti nell’esercizio del potere disciplinare. A titolo esemplificativo può citarsi il Regolamento generale sui servizi dell’istruzione elementare, r.d. 1297/192. Esso, all’art. 412, dispone che «i soli
mezzi disciplinari» che, «secondo la gravità delle mancanze, si possono
usare verso gli alunni che manchino i loro doveri» sono: «ammonizione; censura notata sul registro con comunicazione scritta ai genitori, che
la debbono restituire vistata; sospensione dalla scuola, da uno a dieci giorni di lezione; esclusione dagli scrutini o dagli esami della prima sessione; espulsione dalla scuola con la perdita dell’anno scolastico». È espressamente «vietata qualsiasi forma di punizione diversa da quelle indica-
con riguardo alla condotta degli imputati che, nella «Casa Famiglia Fidat», cui i minori di
14 anni erano affidati per ragioni di cura, vigilanza, custodia ed educazione, ricorrevano
ai battipanni e alla frusta per cavalli e sottoponevano a varie vessazioni i minori stessi, provocando lesioni ad uno di essi. La Corte ha così motivato la propria decisione: «[…] risultano sì episodi in cui gli imputati hanno chiaramente abusato dei propri poteri di affidatari nei confronti dei minori, ma anche il fatto che essi facevano uso di un metodo educativo dagli stessi ritenuto innovativo, ed anche pubblicizzato».
45
Così, DELOGU, Abuso, cit., p. 593.
791
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te in questo articolo».
Sulla base di tale considerazione, la dottrina prevalente riconosce
la configurabilità del delitto in esame esclusivamente nell’ipotesi in cui
l’insegnante faccia un uso distorto o abnorme di una sanzione consentita46, così da ricondurre i casi di utilizzo di punizioni corporali o comunque gravemente afflittive ed umilianti della persona dell’alunno, determinanti pericolo o danno per l’incolumità della stessa, alla disciplina di
altre fattispecie di reato, quali i maltrattamenti, le lesioni, le percosse47.
La giurisprudenza, dal canto suo, non ha invece esitato, peraltro
anche in pronunce recenti, a riconoscere operatività al più lieve delitto
di abuso di mezzi di correzione in diverse vicende, verificatesi in contesti scolastici, caratterizzate dall’uso eccessivo di strumenti correttivi sfociato in pratiche violente ed umilianti: utilizzo di espressioni ingiuriose
(«bestia», «asino»), avvilenti dileggi in ragione di un basso rendimento
scolastico, addirittura minacce e percosse48. Da ultimo, la stessa Corte di
Cassazione49 ha confermato la sentenza di condanna in appello di un insegnante che aveva costretto un alunno a scrivere per cento volte sul quaderno la frase «io sono un deficiente». I Giudici hanno ritenuto che integra il reato di Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina il comportamento dell’insegnante che umili, svaluti, denigri o violenti psicologicamente un alunno causandogli pericoli per la salute atteso che, in ambito scolastico, il potere educativo o disciplinare deve sempre essere esercitato con mezzi consentiti e proporzionati alla gravità del comportamento deviante del minore, senza superare i limiti previsti dall’ordinamento o consistere in trattamenti afflittivi dell’altrui personalità.
Diversamente, in altra decisione la medesima Corte ha ravvisato il
delitto di maltrattamenti, e non quello di abuso di mezzi di correzione,
nella condotta di una maestra che, con finalità correttiva, costringeva i
bambini a stare in piedi per ore, ad imitare gli animali, ad assistere impotenti alla distruzione dei giochi che avevano portato da casa, e li ag46
Si fa, a questo proposito, l’esempio dell’espulsione dalla classe di un alunno che
porti quest’ultimo a sostare in un luogo eccessivamente freddo per lungo tempo così da
provocargli una malattia. V. M.C. PARMIGGIANI, op. cit., p. 582.
47
Cfr., in tal senso, F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, Parte speciale, I, XIV ed., integrata ed aggiornata a cura di L. CONTI, Milano, 2002, p. 417; M. MENEGHELLO, op. cit., p.
619 ss.; D. BONAMORE, Illiceità della violenza fisica e psichica nell’esercizio dei doveri di formazione della persona umana in Dir. Famiglia, 1997, p. 523.
48
Così, Trib. Milano, 02 luglio 2010, in Corriere Merito, 2010, 10, p. 953; Cass. pen.,
Sez. VI, 16 febbraio 2010, n. 18289; Trib. Palermo, 2 dicembre 2003, in Giur. di Merito, 2004,
p. 1810.
49
Cass. pen., Sez. VI, 14/6/2012, n. 34492.
792
Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina
grediva verbalmente con espressioni ingiuriose, nonché fisicamente50.
È evidente, allora, come la scarsa precisione della formulazione della norma in questione non consenta una puntuale ricostruzione del fatto vietato, comportando, così, il concreto rischio di un’applicazione discrezionale della stessa51.
In realtà, appare fondato ritenere che l’analisi delle principali questioni applicative riguardanti la disposizione de qua possa trasferirsi nel
solo ambito scolastico, rispetto al quale valutare di circoscrivere l’operatività del reato da essa disciplinato. Tale contesto, come dimostra anche la casistica concreta, è quello che più facilmente si presta a ricomprendere le vicende dubbie, rispetto alle quali frequentemente - stante appunto la vaghezza della norma - è il giudice a dover tracciare il confine tra
ciò che costituisce esercizio coattivo della funzione disciplinare, quindi
di per sé illecito, e ciò che invece può considerarsi utilizzo consentito di
un mezzo correttivo, in linea con la funzione educativa.
In altri termini, i casi palesi di impiego di pratiche violente, o comunque lesive dell’incolumità psichica e morale del soggetto passivo, certamente sono riconducibili ad altre ben più gravi fattispecie (ad esempio contro la persona o a quella contigua dei maltrattamenti in famiglia).
Così pure, dovrebbero ricevere una considerazione particolareggiata ad
opera del legislatore gli abusi posti in essere, per finalità ritenute disciplinari, nella cerchia familiare, la cui specifica rilevanza trova ragione nella peculiarità delle relazioni genitori-figli che, per il forte vincolo che le
caratterizza, non sono assimilabili a quelle intercorrenti tra educatori ed
allievi. Riguardo a queste forme di eccessi non risulta, dunque, giustificata la permanenza del reato in parola nell’attuale sistema penale.
Il rapporto scolastico-disciplinare, invece, costituisce un utile ban-
Cass. pen., 8/10/2002, in Cass. pen., 2003, 6, p. 1844.
A conferma di come l’indeterminatezza della fattispecie possa generare un’estensione oltre misura della potenzialità applicativa del delitto de quo, cui ricorrere ogniqualvolta vi sia necessità di attribuire rilevanza ad ipotesi di dubbia collocazione, si consideri la condanna in primo e secondo grado, per Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina, di una maestra di asilo nido, la quale aveva posto in essere comportamenti consistiti
in baci sulle labbra ed abbracci molto intensi ai bambini. Invero, risulta palese che atteggiamenti simili, seppure discutibili, non costituiscono certamente una condotta di eccessi disciplinari. Difatti, nel terzo grado di giudizio, la Corte di Cassazione ha escluso la sussistenza del reato ex art. 571 c.p.: questo non risulta integrato – si legge in sentenza – da
«[…] condotte le quali, come quelle di specie, per le concrete modalità non violente e tipicamente
affettuose non possono essere interpretate, appunto per la loro connotazione di piccolo eccesso o mancanza di misura nel relazionarsi educatore-bambino, come abuso in ambito scolare materno infantile» (Cass. pen., Sez. VI, 12/2/2013, n. 11795).
50
51
793
Monica Tortorelli
co di prova per verificare la tenuta effettiva del delitto, e cioè la reale superabilità delle problematiche interpretative ad esso legate, alla luce del
rinnovato contesto socio-culturale e delle conseguenti modifiche normative. Quindi, come meglio si specificherà nel prosieguo, è solo relativamente a tale rapporto che la fattispecie potrebbe ragionevolmente conservare uno spazio applicativo.
3. La condotta tipica
3.1. Tecnica descrittiva e principali criteri ermeneutici
Venendo all’individuazione della condotta tipica del reato in esame,
si deve innanzitutto rilevare, esplicitando ciò che è già emerso dalle considerazioni sin qui svolte, come essa sia stata descritta dal legislatore attraverso l’utilizzo di una formula alquanto generica e vaga, la quale sottintende il rinvio all’elemento normativo rappresentato dai «mezzi di correzione o di disciplina», il cui abuso va ad integrare l’ipotesi delittuosa
qualora ad esso faccia seguito un pericolo di malattia o, nell’ipotesi aggravata, un danno alla persona, e la cui determinazione implica il richiamo a valutazioni, tendenzialmente inadeguate, di tipo etico e sociale.
Questa tecnica di tipizzazione, che nel caso di specie non precisa quali siano i mezzi di correzione consentiti o, viceversa, quelli vietati, né fornisce alcuna definizione del concetto di abuso, da un certo punto di vista
viene valutata con favore in quanto, come in precedenza accennato, consente di modellare il contenuto della norma ed i criteri di giudizio cui essa
si riferisce al mutare del contesto valoriale proprio del momento storico
nel quale la stessa deve applicarsi, assolvendo a quella funzione, in dottrina, definita di «organo respiratore» del sistema: il ricorso a criteri valutativi, implicanti il rinvio ad altre fonti, sarebbe stato giocoforza necessario nella redazione della norma de qua, perché essa richiama situazioni non
suscettibili di cristallizzazione in termini descrittivi. Pertanto, la considerazione di questi elementi normativi comporta la opportunità di «individuare il significato da attribuire al caso concreto, già previsto in astratto
dal legislatore ed inglobato in un dato di normazione sintetica»52.
Da un altro angolo visuale, anche la medesima dottrina che legit-
52
Così F. BRICOLA, La discrezionalità nel diritto penale, Giuffrè, 1965, p. 183. Nel medesimo senso, M.C. BISACCI, Gli sfumati contorni dello jus corrigendi alla prova della individuazione degli strumenti di contrasto al fenomeno del “bullismo” nelle scuole, nota a Ufficio indagini preliminari Palermo, 27/06/2007, in Cass. pen., 2007, 12, p. 4726.
794
Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina
tima in determinate circostanze il ricorso, nella redazione delle norme penali, a formule ed espressioni elastiche, riconosce che tale tecnica normativa difetti certamente di quei fondamentali requisiti di tassatività, precisione e determinatezza imposti alla formulazione di ogni fattispecie incriminatrice dal principio di legalità. Essa implica, perciò, una difficoltosa attività interpretativa, volta a ricercare altrove, ad esempio nelle scienze pedagogiche nel caso dell’ipotesi delittuosa in esame o addirittura nel
comune sentire, gli elementi attraverso cui costruire la regola giuridica
che dovrebbe guidare l’operato del giudice, con il rischio di sconfinare
nella discrezionalità assoluta ed incontrollata, e quindi nell’arbitrio53.
Ecco, dunque, che la presenza nell’ordinamento penale di una disposizione quale quella contenuta nell’art. 571 c.p., priva di specifici riferimenti riguardo sia al bene giuridico che intende proteggere, sia alle
possibili modalità di aggressione a cui è riserva la risposta penale, ha
finito per legittimare quegli stessi comportamenti, implicanti un uso distorto dello jus corrigendi, che il legislatore, nelle sue originarie intenzioni, mirava a reprimere. In altri termini, la scarsa precisione della formulazione del reato e, di conseguenza, la difficile riconoscibilità del comando imposto limitano l’efficacia del messaggio legislativo, la cui maggiore incisività sarebbe derivata da una selezione ex ante dei mezzi disciplinari ritenuti illeciti o, comunque, da indicazioni più chiare riguardo alle
forme di abuso rilevanti ai sensi e per gli effetti della norma penale. Risulta allentato, pertanto, anche il vincolo della previsione normativa nei
confronti dell’interprete nel momento in cui lo stesso si appresta a compiere la necessaria ricerca del giusto equilibrio volto a ben definire il rapporto tra generalità della norma e concretezza del precetto54.
Una prima indicazione per tentare di delimitare la condotta tipica
della fattispecie di Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina si ritiene, in certa parte della dottrina55, possa essere offerta da un confronto di
ordine sistematico ed in particolare dalla considerazione della clausola
di sussidiarietà con cui si apre la disposizione dell’articolo 572 del codi-
53
V., ad esempio, M.C. BISACCI, op. cit., p. 4726 ss.; S. LARIZZA., op. cit., p. 29 ss. Sulla tendenziale imprecisione dei concetti normativi etico-sociali: G. MARINUCCI – E. DOLCINI, Corso di diritto penale, II ed., Giuffrè, 1999, p. 77 ss. V. anche, sulla fondamentale importanza nella tecnica di redazione delle fattispecie penali dei principi di tipicità, determinatezza e tassatività, C. FIORE – S. FIORE., op. cit., p. 66 ss.
54
Cfr., per una ricostruzione, in generale, di tale rapporto di equilibrio, C. FIORE –
S. FIORE., op. cit., p. 69 ss.
55
V. M.C. BISACCI, op. cit., p. 4726 ss. V. anche, in giurisprudenza, Cass. pen., Sez. V,
9 gennaio 1992, Giay, in Riv. Pen., 1992, p. 651.
795
Monica Tortorelli
ce penale, immediatamente successivo a quello in esame, dedicato ai maltrattamenti in famiglia: «fuori dei casi indicati dall’articolo precedente».
Un tale inciso sarebbe finalizzato a risolvere un eventuale concorso di reati in un concorso apparente di norme, così che, qualora uno dei soggetti titolari dello jus corrigendi reiterasse l’abuso di siffatto potere e determinasse conseguentemente una abituale condizione di sofferenza nella
vittima, andrebbe ad integrare il più grave reato di maltrattamenti, posto che a quello ex art. 571 c.p. viene concordemente negato il carattere
di reato necessariamente abituale56.
Secondo un’altra impostazione, questa ricostruzione non convince:
nel caso in cui la reiterazione dell’abuso dei mezzi di correzione trasmodasse nel delitto di maltrattamenti, risulterebbe palese come la portata
offensiva dell’azione delittuosa posta in essere, scevra da qualsiasi traccia dello jus corrigendi, sia qualitativamente differente rispetto a quella
riconducibile al primo reato: insomma, l’ipotesi dei maltrattamenti sarebbe altra cosa rispetto a quella dell’abuso, che concretizzerebbe, invece, un esorbitare dal fine correttivo. E una spiegazione della citata clausola di apertura dell’art. 572 c.p. sarebbe rinvenibile nella coincidenza quasi totale dei soggetti attivi e passivi dei due reati57.
Tale tesi si ricollega, seppure indirettamente, a quella interpretazione, in passato dominante in dottrina ed in giurisprudenza58, che ricostruiva il rapporto tra le due ipotesi delittuose non in termini di specialità tra
le condotte descritte, ma attraverso il riferimento al diverso atteggiamento psicologo dell’autore: laddove il comportamento vessatorio dell’agente fosse stato accompagnato dall’animus corrigendi non si sarebbe
potuto neppure ipotizzare la configurabilità del reato di maltrattamenti, caratterizzato, invece, da una sorta di animus nocendi.
Questa visione soggettivamente orientata della norma in analisi enfatizzava il riferimento al fine correttivo in quanto la sua sussistenza si riteneva sufficiente a far confluire automaticamente nell’esteso ambito di operatività dell’art. 571 c.p. qualsiasi tipo di condotta a prescindere dalle concrete modalità oggettive del fatto. Lo jus corrigendi andava, così, a giustificare condotte corrispondenti a fattispecie di reato (percosse, ingiurie, ecc.)
56
Nel senso della natura non necessariamente abituale del delitto ex art. 571 c.p., v.,
da ultimo, Cass. pen., Sez. VI, 16 febbraio 2010, n. 18289.
57
V., tra gli altri, M.C. BISACCI, op. cit., p. 4726 ss.
58
Cfr., in dottrina, V. MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, V ed. (aggiornato da
P. NUVOLONE e G.D. PISAPIA), Torino, 1984, p. 901. In giurisprudenza, v., tra le tante, Cass.
pen., Sez. II, 9 giugno 1964, Damiano, in Giust. pen., 1964, II, p. 882; Sez. IV, 8 maggio 1990,
Faini, in Cass. pen., 1992, n. 1255, p. 2339.
796
Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina
che potevano concretarne l’esercizio. Pertanto, la suddetta ricostruzione
si avvicinava, a sua volta, alla linea di pensiero, avallata anche attualmente da una parte della dottrina, che riconduce il preteso diritto all’educazione nell’ambito della esimente prevista dall’art. 51 c.p.59.
Nel corso del tempo l’impostazione soggettivistica viene ampiamente superata: ad essa, in particolare, si è mossa la critica di poter giungere a legittimare l’uso della violenza purchè accompagnato da un intento lato sensu educativo; tale abuso, infatti, risulta punibile esclusivamente nell’eventualità che da esso derivi un pericolo di malattia nel corpo o
nella mente per il soggetto passivo.
Si fa strada, quindi, un’altra interpretazione che meglio si focalizza sul significato da attribuire al verbo «abusare» e all’altro elemento di
valutazione della tipicità dell’ipotesi delittuosa, rappresentato dal mezzo correttivo definito, da certa parte della dottrina, come «elemento normativo ancipite della fattispecie» o come «il prius logico dell’abuso»60.
Nella vaghezza della norma bisogna, secondo alcuni Autori61, definire l’Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina, suscettibile di incriminazione ex art. 571 c.p. qualora da esso derivi un pericolo o un danno, come un uso abnorme, smodato, eccessivo di un mezzo educativo
astrattamente lecito; l’operatività della norma, dunque, si riflette in un
uso del mezzo correttivo, non solo palesemente contrario allo scopo disciplinare, ma effettuato fuori dei casi consentiti o con modalità non ammesse dall’ordinamento che ne snaturano l’essenza. Il concetto di abuso, che vale a definire esattamente la tipicità dell’azione rilevante ai sensi della norma de qua, è descritto precisamente come la «condotta di un
soggetto che, effettivamente investito di un potere, lo usa impiegando i
mezzi consentiti, quando ricorre una situazione che ne legittima l’esercizio e per il fine per il quale il potere stesso è concesso, ma nell’esercitarlo ne travalica i limiti ad esso posti dall’ordinamento»62. Si trattereb-
59
Per la dottrina più risalente, v. F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale. Parte generale, XIV ed., Giuffrè, 1994, p. 280; G.M. BETTIOL, op. cit., p. 585. Per la dottrina attuale, cfr. G.
FIANDACA – E. MUSCO, op. cit., p. 269 s.
60
Così, M.C. BISACCI, op. cit., p. 4726 ss.
61
Per tutti, v. F. ANTOLISEI, Osservazioni in tema di jus corrigendi, in Scritti di Diritto
Penale, Milano, 1955, p. 589; F. MANTOVANI, Abuso dei mezzi di correzione e di disciplina, in Riv.
dir. matr., 1964, n. 6, p. 514 s. Si afferma che la fondatezza di questa impostazione sarebbe
confermata anche dalla Relazione ministeriale, cit., p. 357, secondo cui il reato di Abuso dei
mezzi di correzione o di disciplina «tipicamente presuppone un’azione inizialmente lecita, la quale nell’eccesso ulteriore si riveste del carattere dell’illecito penale per il prodursi di una situazione
di pericolo che ha carattere preterintenzionale».
62
Così, DELOGU, Abuso, cit., p. 598.
797
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be, quindi, secondo l’impostazione della dottrina richiamata, di una condotta non a forma libera ma, nonostante l’elastico astrattismo della sua definizione, a forma vincolata. Qualora dovesse, pertanto, essere utilizzato un
mezzo non consentito, il fatto commesso per ragioni disciplinari non potrebbe, indipendentemente dallo scopo che anima l’azione dell’agente, essere incriminato ai sensi del delitto in esame, ma di altre fattispecie.
3.2. I limiti della nozione di «mezzi di correzione o di disciplina». Caratteristiche strutturali della condotta di abuso
I principali problemi interpretativi che emergono dalla lettura da
ultimo descritta concernono, tuttavia, la paventata necessità di una tipizzazione garantistica dei comportamenti da giudicare contrari a regole disciplinari; inoltre, nel momento in cui si tratta di precisare quando un mezzo correttivo si reputi lecito, le posizioni divergono notevolmente.
Riguardo al primo punto, si evidenzia che una tale tipizzazione risulterebbe possibile soltanto nell’ambito di istituzioni organizzate secondo schemi normativi predeterminati, o di materie regolamentate dalla legge, quale ad esempio – come si è visto - l’ordinamento della scuola; non
lo sarebbe, invece, nell’ambito della famiglia, in cui il legislatore si è astenuto dall’intervenire ai fini di delineare una indispensabile autonomia
di governo e ha lasciato largo spazio agli usi sociali63. Ovviamente, si riconosce che anche rispetto al contesto familiare non è più concepibile un
potere disciplinare illimitato nella definizione degli illeciti.
In ordine alla seconda questione si rileva che, seppure in determinati contesti sarebbe possibile far riferimento a norme giuridiche per l’individuazione dei mezzi correttivi consentiti, si pensi ancora una volta al
settore della scuola in cui – lo si è in precedenza indicato - sono riconosciuti dai regolamenti ministeriali come strumenti disciplinari leciti ad
esempio la nota o l’espulsione, l’individuazione di tali mezzi non sembrerebbe esaurirsi nelle predette fonti che non conterrebbero mai
un’elencazione chiusa, ma consentirebbero solo una delimitazione in negativo dello jus corrigendi. Si fa, in merito, anche l’esempio dei già richiamati rapporti tra datore di lavoro e lavoratore subordinato, rispetto ai quali lo Statuto dei lavoratori esclude che possa farsi ricorso a qualsiasi forma di violenza, e tra agenti di custodia e detenuti riguardo ai quali pure
è precluso l’utilizzo di mezzi disciplinari coercitivi64.
Ivi, p. 595.
M. MIEDICO, Art. 571, in Codice penale commentato, a cura di E. DOLCINI – G. MARINUCCI, II ed., Ipsoa, 2006, p. 3747.
63
64
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Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina
Altra parte della dottrina ritiene, invece, che in questi ambiti in cui
è intervenuto il legislatore extrapenale il problema non si ponga, o comunque non rilevi, perché attraverso un procedimento mentale a contrariis si
potrebbe ricavare esattamente il novero dei mezzi vietati, in quanto sarebbero stati indicati tassativamente gli strumenti leciti. La vera e propria
questione problematica si porrebbe nel solo contesto familiare, riguardo
al quale non si rinvengono parametri normativi di riferimento, e dove tradizionalmente si è riconosciuto legittimo il ricorso a forme di violenza65.
Tuttavia, alcuni Autori fanno notare che l’aspirazione ad uniformare il diritto disciplinare al principio di legalità, attraverso una tipicizzazione tassativa anche delle sanzioni applicabili, potrebbe avere delle
ricadute pratiche alquanto pericolose: si correrebbe, cioè, il rischio che,
in assenza di una espressa indicazione delle misure non applicabili in un
dato rapporto, l’impiego di qualunque strumento disciplinare, anche dotato di un alto grado di offensività, se non espressamente vietato, potrebbe considerarsi consentito per la finalità che esso persegue; e pure se seguito da pericolo di danno, da lesioni personali o anche dalla morte della persona offesa dovrebbe essere sussunto sotto la fattispecie dell’Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina, certamente preferenziale o degradata rispetto a quelle dei comuni delitti contro la persona66.
Tra l’altro, si osserva67 che, nella realtà dei casi concreti, non sarebbe quasi mai agevole individuare il criterio discretivo tra il piano dell’uso
illecito del mezzo di per sé lecito e quello della illiceità del mezzo stesso,
prescindendo dal fine correttivo. Potrebbe, infatti, verificarsi che l’illiceità delle modalità di impiego di un mezzo educativo risulti tale da tramutarne la natura, così da precludere ogni riferimento alla configurabilità stessa di uno strumento di tipo disciplinare. Di conseguenza, il sottile discrimine che intercorre con la fattispecie dei maltrattamenti verrebbe ancora una volta in rilievo, mostrando il suo carattere ambiguo ed incerto.
Nella prassi giudiziale, inoltre, non sarebbe infrequente che, senza indugiare troppo nella indagine circa la correttezza dell’esercizio consentito dello jus corrigendi, ci si arresti al momento dell’accertamento
della liceità del mezzo, il quale neanche si presta ad una univoca interpretazione.
Con specifico riferimento ai rapporti familiari, difatti, parte della dot-
Così, ad esempio, M.C. PARMIGGIANI, op. cit., p. 593.
Cfr., DELOGU, Abuso, cit., p. 599 s.
67
Cfr., G.D. PISAPIA, Delitti contro la famiglia, Torino, 1953, p. 720 ss.; G. PISAPIA, Abuso, cit., p. 32 s.; M.C. BISACCI, op. cit., p. 4726 ss.
65
66
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trina ritiene lecita la vis modica68. Viene richiamata, a tal proposito, la stessa Relazione ministeriale al codice vigente nella parte in cui afferma che
«la semplice percossa non può costituire la materialità del reato, perché
la vis modica è un mezzo di correzione lecito»69.
Altri Autori, invece, reputano ammissibile la sola vis modicissima e,
peraltro, in via del tutto eccezionale quando le circostanze del caso concreto lo richiedano70.
In certa parte della letteratura, infine, si considera imprescindibile
una risoluzione del problema caso per caso71.
Sulla base di questi rilievi non manca chi sottolinea che la richiamata linea interpretativa volta a richiedere come presupposto del reato de
quo l’uso di mezzi leciti, seppure condivisibile de jure condendo, andrebbe a svuotare di significato la norma de jure condito, posto che nella costruzione della stessa l’intenzione dell’agente si rifletterebbe sulla liceità del mezzo. Anzi, lo stesso mezzo sarebbe qualificato proprio dal fine
correttivo o disciplinare che anima l’agente72.
Autorevole dottrina73, pertanto, data l’insufficienza dei predetti parametri ermeneutici, privilegia il ricorso a criteri più effettuali, quale quello dell’adeguatezza sociale del mezzo disciplinare impiegato: è la corrispondenza agli usi generalmente praticati, in un determinato momento storico, nella collettività a fungere da parametro di liceità dell’esercizio di
moderati mezzi di correzione che si pongono, quindi, al di sotto della soglia di rilevanza penale tracciata dall’art. 571 c.p., senza che vi sia necessità di ricorrere alla problematica applicazione della causa di giustificazione ex art. 51 c.p.
«L’idea della adeguatezza sociale – ben sottolinea la citata dottrina74 –
68
F. MANTOVANI, Abuso, cit., p. 516, specificando, tuttavia, che ad essa possa farsi ricorso soltanto come extrema ratio; G.M. BETTIOL, op. cit., p. 380; I. FIGIACONI, Metodi ”educativi” violenti tra abuso e maltrattamento, in Digesto pen., Torino, 1996, p. 1137.
69
Relazione ministeriale, cit., p. 358.
70
Tra gli altri, F. ANTOLISEI, Osservazioni, cit., p. 392; P. PITTARO, Il delitto, cit., p. 1332;
S. MONARI, Sulla violenza a fini educativi tra abuso di mezzi di correzione e maltrattamenti in famiglia, in Giust. pen., 1997, II, p. 549.
71
G.D. PISAPIA, Delitti, cit., p. 720 ss.; G. PISAPIA, Abuso, cit., p. 32 e F. MANTOVANI, Abuso, cit., p. 515, secondo il quale si tratterebbe di una questione che esula dalla cognizione
del giurista, ma che dovrebbe essere risolta dalla scienza pedagogica.
72
G.D. PISAPIA, ult. op. cit., p. 720 ss.; G. PISAPIA, ult. op. cit., p. 32 ss.
73
V. C. FIORE, L’azione socialmente adeguata nel diritto penale, Morano, 1964, p. 25 ss.;
C. FIORE, Esercizio dei mezzi di correzione e adeguatezza sociale, in Foro pen., 1964, p. 35 ss.; C.
FIORE – S. FIORE, op. cit., p. 286 ss. e p. 347 s.
74
Ancora, C. FIORE – S. FIORE, op. cit., p. 286.
800
Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina
non è altro che un punto di vista nella interpretazione della fattispecie, che serve ad escludere dalla previsione normativa le condotte che, in realtà, non vi corrispondono, perché in esse manca una reale dimensione aggressiva del bene». Il
referente normativo, in questi casi, è rappresentato dall’art. 49, 2° co., c.p.,
che enuncia la regola della necessaria idoneità offensiva dei fatti penalmente rilevanti: ne deriva la irrilevanza delle cc.dd. «azioni socialmente adeguate»: «quelle azioni, cioè, che – per la loro coerenza con lo stile di vita,
storicamente condizionato, della comunità – non possono farsi rientrare, al tempo stesso, nella fattispecie di un reato» e che, anzi, «si inquadrano in una attività di promozione degli stessi beni che, sul piano causale, possono tuttavia soffrire di un pregiudizio»75.
Anche la giurisprudenza si muove secondo criteri differenti.
Un decisivo arresto della Corte di Cassazione si è avuto con la storica sentenza Cambria (n. 4904 del 18 marzo 1996), in precedenza già richiamata, la quale, con riferimento al comportamento di un padre che,
di fronte agli insuccessi scolastici di una bimba di dieci anni e alle frequenti bugie della stessa, perseguiva lo scopo educativo «a suon di sberle e calci» nella convinzione che «le sante cinghiate che suo padre gli infliggeva quando da ragazzo non studiava o mal studiava e a scuola riportava talora scadenti voti di profitto» potessero ancora costituire un insuperabile metodo disciplinare, ha ritenuto sussistente il più grave delitto di maltrattamenti in famiglia e non quello di abuso dei mezzi di correzione. Il Supremo Giudice, proponendo una soluzione interpretativa
radicalmente opposta a quella di segno tradizionale, peraltro ribadita solo
due mesi prima dalla stessa Sezione76, ha, così, ridisegnato i confini tra
le due fattispecie: è da ritenersi esclusa la configurabilità del delitto ex art.
571 c.p. quando il mezzo di correzione sia di natura tale da negare in radice ogni pretesa di sostegno dello sviluppo della persona bisognevole di
correzione. La qualificazione giuridica della condotta vessatoria viene, pertanto, fondata esclusivamente sull’analisi dell’elemento oggettivo.
75
C. FIORE – S. FIORE, op. cit., p. 286 s. In tale prospettiva, altro caso, ad esempio, in
cui si è parlato dell’adeguatezza sociale come criterio di liceità di una determinata condotta è quello dell’esercizio della violenza fisica nello sport. Cfr. S. FIORE, Cause di giustificazione e fatti colposi, Padova, 1996, p. 50 ss.
76
Cass. pen., Sez. VI, 16 gennaio 1996, in Cass. pen., 1997, p. 40, secondo cui non è
sufficiente la c.d. «illiceità del mezzo» per escludere la sussistenza del reato di cui all’art.
571 c.p. Assume rilevanza per stabilire se ricorre la configurabilità del delitto ex art. 571 c.p.,
oppure di altro reato (maltrattamenti), l’esame dell’elemento oggettivo della fattispecie concreta, e cioè la correlazione tra i mezzi e i metodi e la finalità educativa e disciplinare, e dell’elemento soggettivo, cioè che il motivo determinante per l’agente sia quello disciplinare e correttivo.
801
Monica Tortorelli
Sulla stessa scia si sono poste altre successive pronunce della medesima Corte, la quale - tra i vari casi - ha stabilito che il comportamento del padre che sottoponga la figlia minore ad un regime di prevaricazione e violenza, tale da rendere intollerabili le condizioni di vita, impedendole, come nel caso di specie, di frequentare persone di sesso maschile e di uscire di casa se non per andare a scuola o a fare la spesa, configura il reato di maltrattamenti in famiglia e non quello meno grave di
abuso di mezzi di correzione, «[…] che presuppone un uso consentito
e legittimo dei mezzi correttivi, che, senza attingere a forme di violenza, trasmodi in abuso a cagione dell’eccesso, arbitrarietà o intempestività della misura»77.
Tuttavia, nella giurisprudenza recente, anche di legittimità, non
mancano decisioni completamenti difformi dal predetto indirizzo. Si rammenta la già citata sentenza (Cass. pen., Sez. VI, n. 18289 del 16 febbraio 2010) secondo cui il reato di abuso non ha necessariamente natura
abituale, di conseguenza lo ha ravvisato riguardo ad un caso in cui alcuni bambini affidati ad un’insegnante di scuola materna erano stati,
in più occasioni, oggetto di minacce e percosse, ovvero sottoposti a pratiche umilianti per il loro basso rendimento scolastico. Ed ancora, la decisione (Cass. pen., Sez. VI, 21 ottobre 2010, n. 11251) secondo cui perfeziona il reato ex art. 571 c.p. il comportamento della madre che con
violenza impone il taglio dei capelli alla propria figlia minorenne recalcitrante, «[…] essendo risultato che alla isterica reazione della bambina aveva fatto riscontro altrettanta isterica reazione della madre, che
[…] aveva inteso proseguire nelle sue operazioni particolarmente pericolose, proprio per affermare la propria autorità sulla piccola abusando dei mezzi di correzione e di disciplina». Ed inoltre, la sentenza (Cass.
pen., Sez. VI, 28 giugno 2007, n. 42648) che ha affermato la sussistenza del delitto di abuso rispetto alla fattispecie in cui un genitore, che
avendo ritenuto la figlia minore responsabile della sottrazione di un monile, l’aveva costretta con minaccia di percosse a scrivere ripetutamente sul quaderno le frasi: «io sono una ladra, non devo rubare», provocandole in tal modo un trauma psichico consistito in un conflitto emotivo e psicologico di valutazione della personalità.
77
Così, Cass. pen., Sez. VI, 20 febbraio 2007, n. 34460; nel medesimo senso, cfr. Cass.
pen., 7 novembre 2007, n. 45283, che ha sancito la sussistenza del delitto di maltrattamenti, e non di abuso, rispetto all’uso, da parte della madre nei confronti dei tre figli minori
d’età, di mezzi e metodi privi di finalità correttive o pedagogiche, quali percosse e punizioni umilianti e gratuite.
802
Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina
Ha, infine, suscitato un certo clamore nell’opinione pubblica una pronuncia del Tribunale di Palermo del 27 giugno 200778, la quale ha addirittura negato la possibilità di ravvisare il reato di Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina, «perché il fatto non sussiste», riguardo al caso –
in precedenza indicato - di una professoressa che aveva fatto scrivere ad
un alunno undicenne sul quaderno, a titolo punitivo, per cento volte la
frase «sono un deficiente» per aver beffeggiato un compagno a causa di
una sua supposta diversità sessuale. Il Giudice non solo ha ritenuto che
la condotta dell’imputata non abbia comportato il pericolo di una malattia, ma ha valutato tale iniziativa non sproporzionata al fatto, efficace nelle modalità di effettuazione e mossa solamente da incombenti ragioni di tipo educativo.
Tornando, ora, ad analizzare da un punto di vista strutturale la condotta di abuso, è opportuno rilevare che la medesima dottrina che ne riconosce la forma vincolata rispetto alla sussistenza del requisito della natura di misura disciplinare del mezzo (lecito) impropriamente impiegato e dell’efficienza causale pericolosa o dannosa dell’eccesso, ritiene, poi,
che essa non sia condizionata nella sua tipicità da nessun altro requisito di forma. Il reato in parola non avrebbe, perciò, natura necessariamente commissiva ma anche omissiva, posto che una misura disciplinare potrebbe pure consistere nel non fare qualcosa a vantaggio del soggetto sottoposto al potere correttivo e il pericolo di una malattia, così come le lesioni o la morte, potrebbero venire causati anche da una condotta omissiva, ricalcando la dinamica, pur trattandosi di condizioni di punibilità
(vd. infra par. 4), dei reati commissivi mediante omissione79.
Ugualmente, secondo la giurisprudenza di legittimità, «da una sorpassata e limitativa nozione di abuso, inteso come comportamento attivo dannoso sul piano fisico del bambino, l’attuale letteratura e clinica psicologica e psicopatologica qualificano come abuso anche le omissioni di
cure e l’abuso psicologico, correlato allo sviluppo di numerosi e diversi disturbi psichiatrici»80.
In certa parte della letteratura, tuttavia, si sostiene che la condotta
rilevante sia solo quella commissiva, in quanto il mancato uso del pote-
78
V. Corriere Merito, 2007, 12, p. 1455. L’iter giudiziario di tale vicenda si è concluso, comunque, con la sentenza n. 34492/2012 della Corte di Cassazione che, confermando la pronuncia d’appello, ha completamente ribaltato il giudizio di primo grado: l’insegnante è stata condannata alla pena di quindici giorni di reclusione per aver commesso il
reato in parola.
79
Così, DELOGU, Abuso, cit., p. 604. Nello stesso senso, v. V. MANZINI, op. cit., p. 909.
80
Cass. pen., Sez. VI, 3/5/2005, n. 16491, sul sito web www.abusi.it.
803
Monica Tortorelli
re disciplinare in casi nei quali vi sia ragione di usarlo non potrebbe costituire una forma di manifestazione del comportamento illecito ai sensi dell’art. 571 c.p. Ciò sulla base di due argomentazioni. Innanzitutto,
si afferma che sarebbe difficile immaginare un omesso impiego della potestà disciplinare da cui possa derivare un danno nel corpo o nella mente, e che comunque non sia tale da rientrare in altre e più pregnanti fattispecie incriminatrici (ad es., violazione degli obblighi di assistenza familiare, ex art. 570 c.p.; abbandono di minore, ex art. 591 c.p.). Inoltre, la
norma, per come è formulata, sembrerebbe rivolta a proteggere il soggetto dai mali eccessivi che potrebbero derivare da un cattivo esercizio
del potere correttivo, così da escludere che il reato possa essere realizzato mediante l’omesso esercizio di tale potere81.
Vi è concordia di opinioni, invece, nel riconoscere – come si è in precedenza accennato – che la stessa condotta tipica di abuso non sia vincolata a particolari modalità di durata nel tempo: non sarebbe richiesta né la
reiterazione né l’abitualità. Alcuni Autori ritengono pure che essa possa avere, indifferentemente, forma istantanea o permanente, a seconda di quale
sia la dinamica applicativa della misura disciplinare utilizzata dall’autore
dell’eccesso82; altri, viceversa, escludono che il delitto sia permanente83.
3.3. Struttura dell’offesa
Dal punto di vista dei suoi contenuti offensivi, la tesi prevalente della dottrina è che la fattispecie di cui al 1° comma dell’art. 571 c.p. costituisca un reato di pericolo concreto: figurando espressamente nella struttura
della norma, il pericolo di una malattia nel corpo o nella mente del soggetto passivo deve concretamente verificarsi a seguito dell’eccessivo esercizio
del potere disciplinare ed essere effettivamente accertato dal giudice84.
In giurisprudenza, invece, si tende ad interpretare il requisito in parola come pericolo astratto, il quale «[…] non deve essere accertato ne-
In questo senso, cfr. A. SPENA, op. cit., p. 327.
Cfr. DELOGU, Abuso, cit., p. 604.
83
Così, V. MANZINI, op. cit., p. 915.
84
V., tra gli altri, F. ANTOLISEI, Osservazioni, cit., p. 534; V. MANZINI, op. cit., p. 914; P.
PITTARO, Il delitto, cit., p. 1329. Riguardo alla nozione di malattia, la mancata definizione
della stessa, da parte del legislatore, permetterebbe una sua interpretazione conforme ai
tempi: essa andrebbe ad identificarsi in qualsiasi alterazione dell’integrità personale. La
malattia psichica è equiparata a quella fisica e si ritiene possa manifestarsi in vari disturbi quali ansia, insonnia, depressione, anomalie caratteriali e comportamentali anche nell’età adulta. In questo senso, v. M.C. PARMIGGIANI, op. cit., p. 596. In giurisprudenza, cfr. Cass.
pen., Sez. VI, 3/5/2005, n. 16491; Cass. pen., Sez. III, 22/10/2009, n. 49433.
81
82
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cessariamente attraverso una perizia medico-legale, ma può essere desunto anche dalla natura stessa dell’abuso, secondo le regole della comune esperienza; e può ritenersi, senza bisogno di alcuna indagine eseguita sulla base di particolari cognizioni tecniche, allorquando la condotta
dell’agente presenti connotati tali da risultare suscettibile in astratto di
produrre siffatta conseguenza»85.
Non manca, tuttavia, chi sottolinea che tale pericolo rappresenterebbe solo un aspetto (non essenziale) dei contenuti offensivi della fattispecie, mentre il loro nucleo principale sarebbe composto dagli effetti
negativi che gli eccessi disciplinari producono sugli interessi che formano oggetto degli obblighi di assistenza violati dall’autore: effetti che già
di per sé costituiscono un danno. La norma de qua disciplinerebbe, perciò, un reato di danno (astratto), condizionato però al verificarsi di un effettivo pericolo per un interesse ulteriore: pericolo che avrebbe solo la funzione di limitare la punibilità degli eccessi stessi86.
4. La controversa natura giuridica del «pericolo di malattia nel corpo o
nella mente». Risvolti in ordine all’elemento soggettivo del reato
Le ultime considerazioni richiamano l’opportunità di affrontare un’altra questione dibattuta, che concerne la qualificazione del pericolo di una
malattia nel corpo o nella mente della persona offesa come condizione
obiettiva di punibilità o come elemento costitutivo del reato (ossia evento dello stesso), la cui soluzione non è priva di rilevanza pratica. Invero, a seconda che si scelga di propendere per l’una o per l’altra impostazione, differirà la valutazione circa il disvalore del fatto, il tempus ed il
locus commissi delicti e l’elemento soggettivo del reato.
Riguardo a quest’ultimo, è pacifico che esso consista nel dolo dell’agente; controversa è invece la sua natura, oltre che, appunto, il suo contenuto.
Secondo un primo indirizzo, sarebbe sufficiente un dolo generico:
pur essendo il delitto caratterizzato dal fine correttivo che l’autore si propone, tale particolare finalità non realizzerebbe un dolo specifico, perché
la stessa sarebbe insita nel fatto tipico dell’abuso e non potrebbe quindi
considerarsi qualificazione dell’elemento soggettivo87.
85
Così, Cass., Sez. VI, 1 aprile 1998, n. 6001; nello stesso senso, più recentemente, Cass.,
Sez. III, 22 ottobre 2009, n. 49433.
86
Cfr. DELOGU, Abuso, cit., p. 604 s.; A. SPENA, op. cit., p. 342 s.
87
In questa direzione è orientata la recente giurisprudenza: v., tra le altre, Cass., Sez.
VI, 7 febbraio 2005, n. 16491; Cass., Sez. VI, 16 febbraio 2010, n. 18289. In dottrina, cfr. G.D.
PISAPIA, Delitti contro la famiglia, cit., p. 734.
805
Monica Tortorelli
Altri Autori88, viceversa, ritengono che il fine disciplinare vada oltre la realizzazione della fattispecie oggettiva (integrata dall’eccesso correttivo) e che, pertanto, debba essere presente nel dolo dell’agente, posto che, nel caso esso mancasse o fosse diverso, il fatto costituirebbe altro delitto, ad esempio contro la persona. In questo senso il dolo dovrebbe considerarsi specifico, e non perché esso consisterebbe nella volontà
di esercitare il potere disciplinare: infatti – seguendo detta ricostruzione - il fine che deve indirizzare l’agente sarebbe quello di un uso istituzionale del potere connesso al suo obbligo assistenziale, e non quello di
una mera affermazione di autorità. Rispetto a tale qualificazione dell’elemento soggettivo della fattispecie de qua emergono dei profili di criticità, che comunque, alla stregua della medesima impostazione, si ritengono superabili.
Risulta innanzitutto poco significativo il rilievo che di solito il fine
specifico richiesto dalla norma trasforma il reato in uno più grave ed invece, nel caso in analisi, opera come elemento che attenua il disvalore della fattispecie, determinandone il titolo preferenziale. In particolare, la minore gravità dell’ipotesi delittuosa non pare sia sufficiente a negare la natura specifica del dolo degli eccessi disciplinari, considerato che caratteristica peculiare di tale requisito psichico sarebbe quella di modificare la portata offensiva della condotta, indirizzandola verso la lesione di
un bene giuridico diverso da quello che, in assenza del fine specifico, sarebbe colpito, a nulla rilevando il fatto che il diverso titolo delittuoso creato sia più o meno grave.
Si registra, poi, un’ulteriore anomalia: di regola, lo scopo cui è diretto il dolo specifico può indifferentemente essere realizzato o meno dall’agente; al contrario, nell’ipotesi dell’abuso lo stesso non può, per definizione, essere raggiunto, in quanto gli effetti offensivi della condotta consistono proprio nella frustrazione dell’intento correttivo-assistenziale. Tuttavia, ciò costituirebbe «un’accidentalità», che pure non sarebbe idonea
ad influire sul carattere del dolo così come appena descritto.
Per quanto concerne il profilo dei suoi contenuti, si ritiene concordemente in dottrina che il momento intellettivo e conoscitivo comprenda la consapevolezza dell’agente di essere investito del potere disciplinare legato all’attività assistenziale cui è tenuto; che a questo potere sia
sottoposta la persona destinataria della misura correttiva; che detta persona abbia tenuto un comportamento che richiede l’intervento punitivo;
che il mezzo usato sia qualitativamente o quantitativamente eccessivo. Ri-
88
V., per tutti, ancora DELOGU, Abuso, cit., p. 616 ss.
806
Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina
guardo a quest’ultimo elemento, in realtà, vi è chi - apparentemente non
senza ragione - opina diversamente. Invero, alla stregua di tale ricostruzione, il delitto de quo, nel suo aspetto soggettivo, si configura indipendentemente dalla consapevolezza dell’agente circa il carattere spropositato dello strumento educativo rispetto ai comuni standard giuridico-sociali89. Infatti, l’autore dell’abuso, di solito, ritiene la misura adottata adeguata allo scopo. Se lo stesso, invece, si rappresentasse la sproporzione
del mezzo utilizzato in rapporto alla finalità correttiva (a prescindere dalla complessità di accertamento di siffatto profilo psicologico), dovrebbe
comunque escludersi la sussistenza del reato per mancanza di uno dei suoi
elementi essenziali, quale il fine disciplinare, propendendo per l’applicazione di altre fattispecie incriminatrici. Il che costituisce un’ulteriore conferma delle problematiche interpretative e delle incertezze applicative derivanti da una tecnica di redazione normativa poco precisa.
Il momento volontaristico racchiude certamente la volontà di applicare la misura disciplinare. Si discute, invece, se sia oggetto del dolo
la potenzialità pericolosa della condotta di abuso.
La soluzione di quest’ultima questione dipende, come in precedenza accennato, dalla qualificazione che si dà al requisito del pericolo di malattia nel corpo o nella mente della vittima del reato nell’ambito della struttura dello stesso. La dottrina prevalente ritiene che il legislatore, nell’intento di circoscrivere l’ambito di azione della norma in parola e di limitare, così, le intrusioni dello Stato nell’autogoverno della famiglia, abbia
subordinato la punibilità del reato, già perfettamente integrato in tutti i
suoi elementi costitutivi, al verificarsi di quel particolare pericolo, il quale si atteggerebbe appunto come condizione obiettiva di punibilità, estranea alla volontà del soggetto90.
Secondo l’opinione minoritaria, invece, il pericolo di malattia deve
essere considerato elemento essenziale del delitto in analisi, ossia evento naturalistico della fattispecie e, pertanto, lo stesso rientrerebbe nella
sfera del dolo che anima l’agente e concorrerebbe a definire il disvalore
del fatto91.
Riguardo, poi, al tempo di consumazione del reato, in base alla prima teoria esso si perfeziona quando l’agente, con coscienza e volontà, realizza l’abuso del mezzo correttivo. Ai sensi della seconda, invece, il deCfr. A. SPENA, op. cit., p. 340.
Tra gli altri, v. V. MANZINI, op. cit., p. 919; DELOGU, Abuso, cit., p. 605 s.; P. PITTARO,
Il delitto, cit., p. 1329 ss.
91
Per tutti, F. ANTOLISEI, Osservazioni, cit., p. 391; G.P. DEMURO, Profili funzionali ed imputazione soggettiva in tema di abuso di mezzi di correzione, in Giur. di Merito, 1993, p. 1348.
89
90
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litto è perfetto quando anche il pericolo è soggettivamente voluto e materialmente realizzato92.
Di sicuro, però, l’aspetto più problematico dell’inquadramento di
tale pericolo nella categoria delle condizioni obiettive di punibilità è quello che attiene all’imputazione soggettiva dell’evento condizionante. Secondo la previsione dell’art. 44 c.p., quest’ultimo è imputato a carico dell’agente a titolo oggettivo, senza che vi sia alcun bisogno di ricollegarlo
alla volontà del soggetto attivo. Ciò, tuttavia, pone seri dubbi di compatibilità con il principio costituzionale di colpevolezza, soprattutto alla luce
delle sentenze 364/1988 e 1085/1988 della Corte Costituzionale.
In particolare, i problemi nascono rispetto alle condizioni di punibilità definite intrinseche dallo stesso Giudice delle leggi, le quali determinerebbero una forma di progressione e aggravamento dell’offesa già
racchiusa nella commissione del fatto. Infatti, la medesima Corte ha sottratto le condizioni cc.dd. estrinseche alla regola della rimproverabilità ex
art. 27, 1° co., Cost., in quanto «elementi estranei alla materia del divieto». Si tratta di accadimenti che nulla aggiungerebbero alla lesione del
bene protetto e che rifletterebbero valutazioni di opportunità connesse
ad un interesse esterno alla portata offensiva del reato. Da tale assunto
dovrebbe derivare, allora, argomentando a contrario, la rilevanza del profilo soggettivo dell’imputazione per le condizioni intrinseche che, secondo le indicazioni della Corte, costituirebbero parte integrante dell’offesa e quindi, alla stregua degli «elementi più significativi della fattispecie tipica» ossia di «tutti e ciascuno degli elementi che concorrono a contrassegnare il disvalore della fattispecie», non potrebbero non essere coperti almeno dalla colpa dell’agente e pure allo stesso «rimproverabili e cioè
anche soggettivamente disapprovati».
92
Stesse considerazioni valgono per la definizione del locus commissi delicti. Anche
in merito alla configurabilità del tentativo, occorre distinguere. Nella prospettiva del reato condizionato, essa è discussa: l’opinione prevalente è che il tentativo sia ammissibile,
sempre che la condizione si sia effettivamente verificata e il suo verificarsi non richieda necessariamente la consumazione del delitto (così C. FIORE – S. FIORE, op. cit., p. 481; F. MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 453 s.). Qualora, invece, si faccia rientrare il pericolo tra gli elementi costitutivi del reato, il tentativo è ipotizzabile, ma il dubbio rimane se si qualifica la
fattispecie come reato di pericolo, posto che la dottrina maggioritaria, onde evitare un’eccessiva anticipazione della soglia di tutela penale, nega la sua punibilità a titolo di tentativo. V., per quest’ultima impostazione, F. MANTOVANI, ult. op. cit., p. 452 s.; G. FIANDACA –
E. MUSCO, op.cit., p. 434. In senso parzialmente diverso, C. FIORE – S. FIORE, op. cit., p. 480:
gli Autori operano una distinzione all’interno della categoria dei delitti di pericolo e ritengono non configurabile il tentativo soltanto in relazione a quelli di pericolo concreto; lo ammettono, invece, rispetto ai reati di pericolo astratto o presunto.
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Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina
Peraltro, sulla base delle enunciazioni appena descritte, si osserva,
in letteratura, che quest’ultima categoria di condizioni perde la propria
autonomia concettuale, andando a confluire nella dimensione del fatto
tipico. Le vere e proprie condizioni ex art. 44 c.p., imputabili oggettivamente, sarebbero, quindi, solo quelle estrinseche93.
Nell’ambito del delitto in esame, la dottrina prevalente ritiene che
il pericolo di malattia sia proprio una condizione di tipo intrinseco; pertanto, bisognerebbe necessariamente riscontrare un collegamento psicologico, quantomeno di tipo colposo, tra l’agente e l’evento condizionante, ossia la prevedibilità di un pericolo di malattia come conseguenza dell’abuso disciplinare94.
Tuttavia, secondo una diversa impostazione95, non sarebbe esatto
affermare che un’indipendenza dal principio costituzionale di colpevolezza debba riconoscersi solo alle condizioni di punibilità estrinseche, e
non anche a quelle intrinseche, solo perché queste concorrono a contrassegnare la portata offensiva dei delitti a cui si riferiscono. Pure esse, difatti, al pari delle prime, varrebbero a limitare la punibilità della condotta tipica, nel caso di specie costituita dagli eccessi correttivi: in particolare, posto che l’abuso è di per sé offensivo dell’interesse del soggetto passivo a beneficiare di un’adeguata attività assistenziale e, ciononostante,
diventa punibile solo se si realizza il pericolo di malattia, allora quest’ultimo limiterebbe la punibilità delle offese al bene giuridico tutelato dalla fattispecie dell’abuso, e sotto tale profilo opererebbero a favore del reo.
Da ciò deriverebbe la legittimità costituzionale della detta condizione a
prescindere da qualsiasi suo rapporto con la colpevolezza dell’autore. Sarebbe richiesta, quindi, la prevedibilità e prevenibilità dell’evento condizionante accertate non sulla base delle personali capacità dell’autore
di una fattispecie concreta di eccessi disciplinari, ma di quelle dell’uomo medio, della categoria sociale cui l’autore medesimo appartiene; pertanto, tale valutazione non sconfinerebbe sul piano della colpevolezza,
ma atterebbe al giudizio di accertamento della derivazione causale dell’evento-condizione dalla condotta dell’agente secondo i parametri della causalità adeguata. Si ritiene, infatti, che se si esigesse la prevedibilità
della condizione intesa come necessario requisito di colpevolezza, la norma preferenziale dell’abuso non sarebbe mai applicabile, perché verrebPer tale ricostruzione, v. C. FIORE – S. FIORE, op. cit., p. 379 ss.
In questo senso, v. P. VENEZIANI, Spunti per una teoria del reato condizionato, Padova, 1992, p. 71 ss.; A. CADOPPI – P. VENEZIANI, Elementi di diritto penale, Parte generale, II ed.,
Padova, 2004, p. 462.
95
Così, DELOGU, Abuso, cit., p. 619 ss.
93
94
809
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bero integrati altri delitti, ad esempio contro la persona. A conferma di
tale assunto, si fa riferimento al trattamento sanzionatorio molto più lieve previsto dall’art. 571 c.p., rispetto ai reati contro la vita o l’integrità personale, non solo per la valenza positiva da attribuire ad un’attività disciplinare, ma anche per l’assoluta estraneità alla colpevolezza dell’agente del verificarsi della condizione.
Altri Autori96 inquadrano diversamente la tematica delle condizioni di punibilità, tentando di fondarne la rilevanza oggettiva attraverso
il riferimento al principio di necessarietà della pena: mentre gli elementi costitutivi del reato renderebbero il fatto «meritevole di pena», perché sufficientemente offensivo, le condizioni lo farebbero diventare anche «bisognoso di pena», in quanto accadimenti estranei all’offesa ma che rendono opportuna la punibilità, oppure accadimenti che arricchiscono la
sfera dell’offesa perché ne comportano un ulteriore aggravamento o perché sono offensivi di beni estranei all’oggetto giuridico del reato. In questo modo si arriva ad affermare che non risulta violato il principio della responsabilità personale: le condizioni, quelle cui si riferisce l’art. 44
c.p. e che sono riconducibili all’agente a prescindere da un collegamento psicologico con lo stesso, non fanno altro che limitare la sfera di operatività della norma incriminatrice rispetto a fatti che, altrimenti, sarebbero già perseguibili.
E così, nel caso dell’art. 571 c.p., il legislatore avrebbe ritenuto opportuno circoscrivere le interferenze della legge penale nel rapporto educativo alle sole ipotesi in cui l’offesa raggiunga una certa intensità, decidendo di punire il reato soltanto quando si realizzi, come conseguenza dell’abuso, un pericolo di malattia nel corpo o nella mente del soggetto passivo.
Una tale scelta normativa, certamente, si pone in linea con il canone di offensività, fondamentale principio di un diritto penale indirizzato alla repressione dei fatti che abbiano un’effettiva attitudine lesiva degli interessi tutelati. La stessa consente, inoltre, di recuperare il riferimento al carattere di extrema ratio dell’intervento punitivo, come garanzia implicita sottesa alla categoria delle condizioni obiettive di punibilità.
Tuttavia, andando a considerare il detto pericolo una mera condizione di punibilità (estrinseca), estranea al disvalore del fatto, e quindi
completamente svincolata dalla sussistenza di un legame psicologico con
l’agente, si giunge ad una sostanziale dilatazione della potenzialità applicativa della norma. L’area della penalità, infatti, andrebbe a ricomprendere ogni condotta integrata dall’utilizzo di un mezzo disciplinare che
96
Cfr. F. MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 803 ss.
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Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina
degeneri in pericolo, a prescindere dall’esistenza di un substrato soggettivo dell’azione.
Ed invece, il rischio di una malattia nel corpo o nella mente della persona offesa, pur non costituendo evento del reato, concorre a fondare il carattere antigiuridico del comportamento eccessivo dell’educatore e, per poter essere allo stesso attribuibile, deve essergli ricondotto anche in termini
di colpevolezza e, quindi, di rimproverabilità. Si condivide, pertanto, la tesi
del necessario accertamento della colpa. Ciò equivale a dire che, nella situazione concreta in cui viene a trovarsi l’autore dell’abuso, affinchè egli sia
punibile, occorre riscontrare la prevedibilità e/o previsione del pericolo in
questione, come conseguenza della propria condotta, e la sua evitabilità attraverso l’osservanza di cautele preventive idonee ad escludere o contenere l’eventualità dell’evento pericoloso, sempre che tale ottemperanza possa dirsi esigibile effettivamente da parte dell’agente medesimo.
Riguardo a quest’ultimo aspetto, tuttavia, il discorso andrebbe articolato diversamente a seconda di quale sia il ruolo del soggetto attivo nei
confronti del corrigendo; ancora una volta, dunque, viene in rilievo la differente considerazione che il legislatore dovrebbe avere in ordine ai rapporti scolastici, rispetto a quelli strettamente familiari. Nel primo caso, a
differenza che nel secondo, il livello di esigibilità è maggiore, data la posizione professionale rivestita dall’insegnante che, sulla base della propria
preparazione ed esperienza, potrebbe essere in grado di antivedere e valutare anticipatamente la potenzialità pericolosa di un determinato strumento correttivo. Un addebito in termini di colpa, comunque, sarebbe da
escludere in presenza di fattori (ad esempio, una particolare condizione
personale) atti a denotare un decorso anomalo delle circostanze in cui si
agisce, tale da condizionare la capacità di previsione dell’educatore.
5. La fattispecie di cui al 2° comma. Questioni interpretative
Il capoverso della disposizione de qua disciplina, invece, le ipotesi
di abuso da cui derivino delle lesioni personali o addirittura la morte della persona offesa. Anche in questo caso non mancano difficoltà interpretative, in particolare in ordine al raccordo tra queste fattispecie e quella
descritta al 1° comma.
L’opinione prevalente è che si tratti di delitti aggravati (o qualificati) dall’evento97. Tali sono quelli che subiscono un aumento di pena per
97
V., per tutti, C. FIORE – S. FIORE, op. cit., p. 453; G.D. PISAPIA, Delitti contro la famiglia, cit., p. 737; V. MANZINI, Trattato, cit., p. 921.
811
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il verificarsi di un evento o di un evento ulteriore, più grave, come conseguenza della condotta del reo. Controversa è la natura giuridica di questa tipologia di illeciti.
Parte della dottrina ritiene che siano reati circostanziati: l’evento ulteriore concorrerebbe ad aumentare i contenuti offensivi di un fatto già
di per sé punibile98. Così, le lesioni e la morte costituirebbero due aggravanti della prima ipotesi disciplinata; identica, infatti, sarebbe la struttura del delitto, mentre risulterebbe più grave l’evento, che determina la punibilità dell’autore, dato che il pericolo previsto nel reato-base si tramuta in danno. Inoltre, a conferma della correttezza di tale qualificazione si
fa riferimento anche al dato che il capoverso si applicherebbe solo quando il fatto concreti tutti i requisiti della fattispecie descritta al 1° comma99.
Altri negano la natura unitaria dei reati aggravati dall’evento, poiché solo certe ipotesi potrebbero qualificarsi come delitti circostanziati,
mentre altre rappresenterebbero figure autonome di reato: tra queste sarebbero riconducibili al delitto preterintenzionale quelle in cui l’evento ulteriore deve essere non voluto100. E proprio in quest’ultimo ambito, da alcuni, viene fatta rientrare la fattispecie di cui al 2° comma dell’art. 571 c.p:
si afferma che l’agente non deve aver voluto le lesioni o la morte, perché
altrimenti non dovrebbe applicarsi la norma preferenziale, ma quelle comuni disciplinanti le lesioni personali o l’omicidio101. Andando, così, a classificarla come figura autonoma di delitto preterintenzionale, si riuscirebbe anche a superare quello che è considerato il punctum dolens dell’impostazione secondo cui gli eventi lesione o morte sarebbero circostanze aggravanti del reato-base, costituito dall’abuso previsto dal 1° comma: e cioè
il rischio di farli entrare nel giudizio di bilanciamento tra circostanze di
segno diverso, ex art. 69 c.p., e di vedere in tal modo neutralizzata la gravità di detti eventi dal concorso di circostanze attenuanti, ad esempio ge-
98
Cfr. C. FIORE – S. FIORE, op. cit., p. 432 ss.: gli Autori, tuttavia, non mancano di sottolineare l’analogia di struttura dei delitti aggravati dall’evento con la responsabilità preterintenzionale o comunque le possibili interferenze dei primi con altre fattispecie illecite; v. anche F. ANTOLISEI, Diritto penale. Parte generale, cit., p. 391 s.; G. FIANDACA – E. MUSCO, op. cit., p. 587 ss.
99
Cfr., per tale interpretazione, tra gli altri, V. MANZINI, op. cit., p. 920 ss.
100
V. F. MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 395 ss. Alla tradizionale bipartizione dei delitti aggravati dall’evento a seconda che lo stesso possa o debba essere voluto, l’Autore ritiene opportuno sostituire la quadripartizione tra quelli in cui l’evento: a) non può essere
voluto, poiché già il reato-base è colposo; b) non può che essere voluto, essendo l’evento
la realizzazione del fine del reato-base; c) non deve essere voluto, pena altrimenti la configurabilità di altro reato doloso; d) può, indifferentemente, essere o non essere voluto.
101
Cfr. G.D. PISAPIA, Abuso, cit., p. 103.
812
Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina
neriche (art. 62 bis c.p), che un giudice ritenesse prevalenti102.
In entrambi i casi, invece, sia che si ricorra alla categoria del reato aggravato dall’evento come reato circostanziato, sia che si propenda per quella del delitto preterintenzionale, l’interprete dovrà accertare l’atteggiamento psicologico dell’agente rispetto all’evento morte e lesioni (non voluto).
Certamente la tesi del reato circostanziato appare più coerente con
le esigenze poste dal rispetto del principio di colpevolezza, dato che, alla
luce dell’attuale regime di imputazione delle circostanze aggravanti, ex
art. 59, 2° comma, c.p., viene superata la regola della loro imputazione
oggettiva: la maggiore responsabilità può derivare solo dalla valutazione di una circostanza la cui esistenza sia nota all’agente o rispetto alla quale gli si possa muovere almeno un rimprovero in termini di colpa. Tale disciplina si applica a tutte le aggravanti e quindi anche ai delitti qualificati dall’evento, con la sola precisazione che riguardo ad essi la formula della conoscenza o conoscibilità, valevole per le circostanze ai sensi dell’art. 59, 2° comma, c.p, va intesa in termini di rappresentazione o rappresentabilità dell’evento come conseguenza della condotta illecita. Richiedere la colpa rispetto all’evento aggravante, nel caso in parola costituito dalle lesioni personali o dalla morte, significa allora impedire il ricorso a forme di responsabilità basate sull’applicazione dell’antico
principio del versari in re illicita, alla cui stregua può essere imputato all’autore del fatto qualsiasi evento che sia oggettivamente riconducibile
alla sua azione od omissione, a prescindere dall’esistenza di un atteggiamento psicologico a copertura della stessa103.
A conclusioni analoghe, seppure con maggiori difficoltà interpretative, si giunge seguendo la diversa impostazione che fa ricorso alla categoria del delitto preterintenzionale. In particolare, il capoverso dell’art.
571 c.p. sarebbe composto dagli elementi di un delitto doloso, ossia l’abuso di cui al 1° comma (punito se oggettivamente pericoloso), e da un evento ulteriore (le lesioni o la morte) che non deve essere voluto, neppure a
titolo di dolo eventuale (altrimenti, come detto, sussisterebbe altra più
grave ipotesi criminosa), e rispetto al quale sarebbe necessaria la colpa
dell’agente. Quindi, una lettura conforme a Costituzione della preterin-
102
Per questa considerazione, v. P. PITTARO, Il delitto, cit., p. 1331 s.; DELOGU, Abuso,
cit., p. 608 s. Tuttavia, è stato da altri sottolineato che tale inconveniente, per quanto possibile, non sia insuperabile, dato che il giudice nell’operazione di bilanciamento è chiamato ad usare molta cautela, in modo da evitare le incongruenze più vistose. Cfr. G. FIANDACA – E. MUSCO, op. cit., p. 604.
103
Per tale ricostruzione dell’attuale regime di imputazione delle circostanze in rapporto ai delitti aggravati dall’evento, v. C. FIORE – S. FIORE, op. cit., p. 432 ss.
813
Monica Tortorelli
tenzione ravviserebbe in essa un’ipotesi di dolo misto a colpa; quest’ultima presupporrebbe un accertamento in concreto che dovrebbe portare ad identificarla nella prevedibilità ed evitabilità dell’evento secondo
l’ordinario parametro dell’agente modello calato nella stessa situazione dell’autore concreto104.
Altra dottrina105, invece, nega la natura circostanziale degli eventi
lesione personale e morte, di cui al capoverso della norma in analisi, sulla base dell’argomentazione secondo la quale gli stessi non potrebbero
essere considerati varianti quantitative o specificazioni dell’evento «pericolo di malattia nel corpo o nella mente» disciplinato al 1° comma, poiché si porrebbero con esso in un rapporto di esclusione reciproca, dato
che il danno effettivo all’integrità fisica e addirittura alla vita rappresenta la lesione, e non il mero pericolo, di detti beni giuridici. Pertanto, la
condotta di abuso seguita da tali eventi costituirebbe un autonomo titolo delittuoso, riconducibile alla categoria del reato condizionato, al pari
di quello previsto dal 1° comma. Ed infatti – si aggiunge – se in una fattispecie concreta di abuso si eliminassero mentalmente le lesioni o la morte, la stessa sarebbe comunque offensiva dell’interesse ad un adeguato
esercizio del potere disciplinare, ma ciononostante non sarebbe punibile, e perché torni ad essere incriminabile sarebbe necessario reinserire in
essa uno dei predetti eventi. Una conferma che l’intenzione del legislatore fosse quella di creare una struttura condizionale comune a tutte le
fattispecie di abuso descritte si troverebbe, inoltre, nel tenore letterale della norma. In particolare, il riferimento è alla continuità formale del discorso descrittivo: le proposizioni normative di cui al 2° comma acquisterebbero un senso solo se collegate con quella contenuta nel 1° comma;
a questa conseguenzialità espositiva corrisponderebbe anche una continuità del ruolo attribuito all’evento al cui verificarsi l’applicazione della pena è, in ogni fattispecie, subordinata. Ciò vanificherebbe anche i dubbi in merito ai rapporti degli eventi-condizione con il principio di colpevolezza, considerato che, come si è già indicato in precedenza riguardo
all’abuso seguito dal pericolo di malattia, si ritiene che allo stato attuale della situazione normativa non potrebbe esigersi che le condizioni di
punibilità, anche intrinseche, rientrino necessariamente nel fuoco della
colpevolezza106.
104
Cfr. G.P. DEMURO, op. cit., p. 1350. Altra parte della dottrina fa, tuttavia, notare che
il delitto preterintenzionale, più che configurare un’ipotesi di dolo misto a colpa, mostra analogie strutturali con la condotta colposa: v., ancora, C. FIORE – S. FIORE, op. cit., p. 374 ss.
105
Per tutti, DELOGU, Abuso, cit., p. 575 ss. e p. 606 ss.
106
La medesima dottrina (DELOGU, ult. op. cit., p. 607 s.) rifiuta la tesi, peraltro net-
814
Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina
Le stesse invece, secondo la citata dottrina107, non potrebbero essere estranee al rapporto causale con l’azione illecita: accertamento imprescindibile, allora, sarebbe quello riguardante il dinamismo causale
che porta al verificarsi degli eventi-condizione, i quali per essere imputabili all’agente devono «derivare» dalla condotta che costituisce l’eccesso disciplinare.
Il criterio utilizzabile si ritiene essere quello dell’adeguatezza causale, considerato il più idoneo a fondare la rilevanza di eventi imputabili
oggettivamente e, quindi, a ridurre la portata di un addebito senza colpevolezza delle condizioni di punibilità intrinseche.
Questa sarebbe una scelta obbligata per accertare il collegamento eziologico tra la condotta tipica di abuso e la condizione consistente nel pericolo di una malattia nel corpo o nella mente della persona offesa, di cui al
1° comma: mancando il dato certo di una malattia in atto, l’accertamento
del pericolo come conseguenza della condotta di eccesso disciplinare potrebbe avvenire solo attraverso un giudizio di prognosi postuma, basato sul
ricorso a criteri d’esperienza, comune o scientifica, gli stessi su cui si fonda l’idea di causa adeguata intesa come antecedete che verosimilmente sia
in grado di produrre l’evento. Ma la medesima teoria varrebbe anche per
le condizioni costituite dalla lesione o dalla morte del soggetto passivo. Sicuramente, quando, per causarne l’avverarsi, alla condotta di abuso si sia
aggiunta una concausa sopravvenuta: a quest’ultima, infatti, si riconosce
un’efficacia interruttiva del decorso causale originato dalla condotta tipica, e quindi un’efficienza causala esclusiva, nel caso essa si identifichi in un
accadimento eccezionale, non prevedibile dall’uomo medio perché difforme dall’id quod plaerumque accidit. Esempio emblematico è quello del suicidio della persona offesa a seguito degli eccessi disciplinari subiti: seguendo tale impostazione, ci si troverebbe di fronte ad una causa sopravvenuta da sola sufficiente a provocare la morte, non prevedibile, anche perché
sproporzionata rispetto alla gravità degli eccessi correttivi108.
tamente minoritaria, che ricorre in queste ipotesi alla categoria, di matrice tedesca, delle
condizioni oggettive di maggiore punibilità: si tratterebbe di elementi di fattispecie che agiscono con effetto aggravante, ma oggettivamente, a prescindere cioè da ogni loro rapporto con
la colpevolezza. V., per tale interpretazione, O. VANNINI, Manuale di diritto penale, Parte speciale, Milano, 1951, p. 261.
107
DELOGU, ult. op. cit., p. 612 ss. Contra: tra gli altri, G. BETTIOL - L. PETTOELLO MANTOVANI, Diritto penale, Padova, 1986, p. 255, secondo cui caratteristica delle condizioni obiettive di punibilità sarebbe la loro estraneità non solo alla colpevolezza, ma anche ad un rapporto causale con la condotta illecita.
108
Non manca, tuttavia, chi ritiene che, in tal caso, la causa della morte sarebbe data
dall’eccesso. V. V. MANZINI, op. cit., p. 925.
815
Monica Tortorelli
Allo stesso modo, però, se si ammette che il principio di adeguatezza operi come correttivo alla mancanza di un accertamento di colpevolezza dell’agente in ordine agli eventi-condizione, si dovrebbe giungere alla conclusione che l’applicazione dei titoli delittuosi più gravi, di
cui al 2° comma, è esclusa anche quando la lesione o la morte siano derivate, oltre che dalla condotta delittuosa, dal necessario concorso di una
concausa preesistente o concomitante ignorata e non prevenibile dall’autore del reato, come ad esempio la presenza di un vizio organico della
vittima mai rivelatosi, che abbia fatto sì che alle lesioni seguisse la morte; oppure un’improvvisa malattia, indipendente dagli eccessi ma sopraggiunta quando essi erano ancora in corso, la quale aggravi gli effetti degli stessi a causa di una diminuzione della resistenza dell’organismo della persona offesa.
A prescindere, comunque, dalla classificazione dogmatica dell’ipotesi di abuso a cui segua una lesione personale o la morte del soggetto
passivo, emerge la “pericolosità” di una simile previsione, dal momento che essa consente (attraverso la valorizzazione dell’intento disciplinare) di ricondurre la punibilità di delitti gravi, contro la vita, alla più blanda fattispecie degli eccessi correttivi (aggravati), determinando conseguenze inique non solo dal punto di vista del trattamento sanzionatorio, ma
anche in termini di percezione da parte della collettività del disvalore del
fatto. Da un’approfondita disamina della casistica concreta emerge, tuttavia, soltanto una isolata pronuncia in cui la giurisprudenza ha condannato a titolo di abuso aggravato (dalla morte) un imputato a cui era stato originariamente contestato il reato di omicidio preterintenzionale109.
Ciò non toglie che una siffatta disposizione legittimi l’interprete a soluzioni diverse, comportando il rischio di applicazioni irragionevoli, le quali dovrebbero trovare un limite nel disposto del legislatore e non nell’attività interpretativa, più o meno coerente, dei giudici.
6. Considerazioni de iure condito sull’incerta collocazione sistematica
del reato e brevi riflessioni de iure condendo
Risultano certamente fondati i dubbi sull’opportunità di mantenere l’ipotesi delittuosa dell’Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina
all’interno del sistema penale. Si sono già evidenziati i profili di maggiore criticità: in particolare, si è fatto riferimento all’anacronismo morale, so-
109
Così, Cass. pen., 15 ottobre 1981, in Riv. Pen., 1982, p. 1051.
816
Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina
ciale e giuridico della disposizione, preso atto delle conquiste della moderna pedagogia, e alle perplessità riguardanti la tecnica di redazione della fattispecie, poco conforme al principio di tassatività e determinatezza.
Incertezze, inoltre, si manifestano pure riguardo all’oggetto specifico della tutela normativa. Il reato de quo è collocato tra i delitti contro
l’assistenza familiare, ma tale posizione “topografica” non è da tutti ritenuta corretta: come fa notare una parte della dottrina110, il prevalente
bene giuridico tutelato sarebbe l’integrità personale del soggetto passivo, posto che il fatto è punibile se da esso derivi un pericolo di malattia
nel corpo o nella mente oppure, nell’ipotesi aggravata, l’evento lesioni
o morte. Altri Autori111 ravvisano, invece, l’interesse tutelato nell’individualità della persona, specie nelle sue espressioni più profonde.
In base ad una diversa prospettiva, l’inesattezza della collocazione
del reato deriverebbe dalla circostanza che l’art. 571 c.p. non contempla
soltanto, in modo esclusivo o prevalente, i rapporti familiari, ma qualsiasi rapporto disciplinare, anche estraneo alla compagine familiare112. Si
fa notare, altresì, che l’inadeguatezza della classificazione emergerebbe
dalla valutazione secondo cui il delitto in parola, anche laddove si consumi all’interno delle mura domestiche, non violerebbe, comunque, doveri di assistenza e il dato che la tutela giuridica sia prestata al soggetto non solo per la sua essenza di persona, ma anche per il particolare rapporto di dipendenza in cui si trova, non verrebbe ugualmente meno se
si incriminasse la fattispecie tra i delitti contro la vita e l’incolumità individuale113.
Tali considerazioni legittimano, allora, il dubbio su quale sia il significato che il reato di abuso possa ancora oggi rivestire. Da più parti,
come accennato all’inizio della presente trattazione, de iure condendo, se
ne suggerisce l’abrogazione114. Anche gli ultimi progetti legislativi di riforma della parte speciale del codice penale non ripropongono un articolo identico al vigente 571 c.p., ma lo eliminano completamente115 opV., tra gli altri, G.D. PISAPIA, Delitti, cit., p. 730.
M. MAZZA, op. cit., p. 3.
112
Così, V. MANZINI, op. cit., p. 730.
113
V. MANZINI, op. cit., p. 901; G.D. PISAPIA, Abuso, cit., p. 101. Il previgente codice Zanardelli collocava il delitto tra quelli contro la persona.
114
G.D. PISAPIA, ult. op. cit., p. 99; G. PISAPIA, Abuso, cit., p. 37; F. UCCELLA, op. cit., p.
9 ss., il quale rileva che «nel campo familiare si dovrebbe ritenere significante e, quindi, accentuata la tutela penale solo se realizzata per la sottolineatura di valori personalistici, non
altrimenti garantiti o garantibili»; S. LARIZZA, op. cit., p. 39; D. BONAMORE, op. cit., p. 520.
115
Il progetto Pagliaro del 1991, di riforma della parte speciale del codice penale, introduce nel Titolo III (Dei reati contro la famiglia) del Libro II (Dei reati contro i rapporti civi110
111
817
Monica Tortorelli
pure introducono norme sostitutive dello stesso116.
Altra parte della dottrina117 reputa, invece, opportuna una riformulazione della fattispecie, tale da adattarne i contenuti al mutato assetto sociale e culturale, salvaguardando così l’esigenza, ritenuta ancora preminente, di protezione degli interessi dei soggetti deboli del rapporto di autorità.
Non manca chi ritiene corretta anche l’attuale collocazione sistematica del reato: il bene giuridico tutelato dovrebbe ravvisarsi non nell’integrità psico-fisica del corrigendo in quanto tale, ma nell’interesse del soggetto sottoposto ad un potere disciplinare, di natura familiare o parafamiliare, che tale potere, riconosciuto in capo a chi deve assisterlo, venga esercitato in modo utile alla formazione della sua personalità e non degeneri, invece, nell’abuso, rivelandosi controproducente o, addirittura, lesivo della
sua incolumità. I rapporti parafamiliari sarebbero del tutto assimilabili a quelli propriamente familiari, posto che i titolari degli stessi sono chiamati a svolli, sociali ed economici) il Capo II intitolato Dei reati contro la solidarietà familiare, senza tuttavia prevedere alcuna disposizione che riproduca, anche in parte, il contenuto dell’art. 571,
mentre ripropone norme quali i maltrattamenti in famiglia, la sottrazione consensuale di
minore e la sottrazione di incapace. V. PISANI (a cura di), Per un nuovo codice penale. Schema di legge- delega al Governo, Padova, 1993, p. 52. Richiedono l’abrogazione dell’articolo
anche la proposta di legge n. 154/1992 «Modifiche alle norme penali per la tutela dei minori»; la n. 730/1992 «Norme per la individuazione e la prevenzione dei reati di violenza
in danno dei minori e modifica dell’art 61 c.p. per l’introduzione di una aggravante comune»; la n. 121/2004 «Norme in materia di reati contro i minorenni e contro l’assistenza familiare»; la n. 145/1994 «Norme per la tutela dei minori»; la n. 1903/1995 «Norme per la
tutela dei minori»; la n. 2191/1995 «Norme per la tutela e lo sviluppo dei soggetti in età
evolutiva»; il disegno di legge n. 12/1992 «Nuove norme in materia di delitti contro l’assistenza familiare»; il n. 487/1992 «Norme regolatrici dei rapporti tra genitori e figli»; il n.
65/2004 «Modifica alle norme penali per la tutela dei minori»; il n. 352/1994 «Norme per
la tutela dei minori».
116
Il disegno di legge n. 384/1988 (Jervolino-Vassalli: «Norme sulla tutela penale della personalità del minore») propone l’introduzione di un nuovo delitto (art. 584) di «Atti lesivi dello sviluppo della personalità del minore», che così dispone: «Chiunque abusa della funzione che esercita su un minore per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, ovvero omette di adempiere ai dovei inerenti alla funzione è punito, se dal
fatto deriva un pericolo per la salute fisica o psichica del minore, con la reclusione da sei
mesi a tre anni». Cfr. Relazione al Disegno di l. n. 384, in Atti parlamentari, X Legisl., Senato
della Repubblica, codice e legislazione penale, p. 1. Sulla scia di questo disegno di legge si sono
mosse altre due proposte di legge (la n. 671/1996 e la n. 1432/1996) che ne hanno sostanzialmente riprodotto il testo, abrogando il delitto di abuso dei mezzi di correzione e introducendo quello di atti lesivi dello sviluppo della personalità del minore.
117
F. ANTOLISEI, Osservazioni, cit., p. 393; G. FRACCHIA, Profili dell’abuso dei mezzi di correzione o di disciplina, in Giust. Pen., 1985, II, p. 105; G.P. DEMURO, op. cit., p. 1351e, con differenziazioni, F. FIERRO CENDERELLI, Profili penali, cit., p. 61 e p. 181, la quale si chiede se la
rilevanza dell’abuso non sia forse assorbita in quella di cui all’art. 570 c.p.
818
Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina
gere una funzione di supplenza o di ausilio alla famiglia118.
Secondo altra ricostruzione, poi, a seguito dei vari interventi normativi che hanno vietato espressamente o, quantomeno, regolato tassativamente l’uso di mezzi coercitivi, l’applicazione della fattispecie de qua
sarebbe, oggi, limitata ai soli rapporti familiari. Ciò si porrebbe in linea
con la collocazione della disposizione nell’ambito dei delitti contro l’assistenza familiare, che costituirebbe la vera e propria oggettività giuridica del reato. Diverso sarebbe, invece, il bene giuridico tutelato: questo
si identificherebbe nell’integrità fisica, nell’incolumità e nella libertà personale del soggetto, che l’art. 571 c.p., a differenza di altre norme, tutelerebbe in relazione a coloro nei confronti dei quali possono esercitarsi
mezzi di correzione o di disciplina119 .
La giurisprudenza, come si è visto, nel corso degli anni non ha mostrato un orientamento costante e consolidato; in quella più recente, tuttavia, si registra la tendenza ad avallare la tesi abolizionista: attraverso
una serie di interpretazioni adeguatrici, la Corte di Cassazione si è mossa nel senso dell’eliminazione di quella zona di favor o di trattamento preferenziale previsto nei confronti dei comportamenti pericolosi, e addirittura dannosi, caratterizzati da finalità educative120.
118
Così, DELOGU, Abuso, cit., p. 577 ss. Nella Relazione ministeriale al codice vigente,
la classificazione dei fatti in esame fra i reati contro la famiglia era ritenuta «intuitiva, perché con essi si violano i doveri di assistenza familiare inerenti al vincolo parentale o legale» (Rel. Min., cit., p. 730).
119
Cfr. G. PISAPIA, Abuso, cit., p. 33 ss.: secondo l’Autore, proprio il fatto che i soggetti passivi di tale reato siano sottoposti all’altrui autorità, li renderebbe meritevoli di una
tutela particolare, oltre a quella offerta dalla legge a tutti gli individui. Nello stesso senso,
v. M. ROMANO, Legislazione penale e tutela della persona umana (Contributo alla revisione del Titolo XII del Codice Penale), in Riv. it. dir. e proc. pen., 1989, p. 53.
120
V. Cass. pen., Sez. VI, 10/5/2012, n. 36564, avente ad oggetto un caso relativo al ripetersi di episodi di violenza commessi dall’agente nei confronti del figlio, con lo scopo dichiarato di insegnargli «come stare al mondo». Al riguardo la Corte dispone che «[…] L’uso
sistematico della violenza, quale ordinario trattamento del minore, anche lì dove fosse sostenuto da “animus corrigendi”, non può rientrare nell’ambito dell’art. 571 c.p., bensì concretizza sotto il profilo oggettivo e soggettivo il più grave delitto di maltrattamenti». Cfr. anche Cass. pen., 14/6/2012, n. 34492.
I Giudici, ritenuto quanto disposto dalla normativa nazionale, comunitaria ed internazionale sulla tutela d’ogni minore, in conformità agli attuali, consolidati ed ormai irreversibili postulati delle scienze psicologiche e pedagogiche, statuiscono che non può considerarsi lecito,
ex art. 571 c.p., l’uso della violenza fisica o psichica finalizzata, sul piano soggettivo, a scopi
ritenuti educativi perché correttivi e disciplinari, tanto più quando il mezzo è usato con modalità d’ordine chiaramente vessatorio, o con finalità di punizione “esemplare”, o con umiliazione della dignità personale e relazionale del minore, oppure per mero esercizio di “autorità” o di esibizionistico prestigio: invero, «[…] non può perseguirsi, quale meta educativa, un
risultato di armonico sviluppo della personalità, sensibile ai valori di pace, tolleranza, convivenza e solidarietà, utilizzando mezzi violenti e costrittivi che tali fini contraddicono».
819
Monica Tortorelli
Ciò che si sta verificando è, allora, una disapplicazione diffusa del
delitto in parola, benchè negli ultimi tempi dalla cronaca giudiziaria emergano, sempre più spesso, notizie di processi in corso o di sentenze di condanna (non ancora definitive) concernenti il reato di eccessi disciplinari, probabilmente come diretta conseguenza della rinnovata attenzione
in ordine alla tematica della violenza domestica ed, in generale, alle esigenze di tutela dei soggetti deboli.
Come di consueto avviene nel nostro ordinamento, di fronte all’indeterminatezza e all’incompletezza delle norme, i giudici si sostituiscono ad un legislatore inerte, manchevole e, per molti versi, approssimativo, generando quelle incertezze applicative che sono la dimostrazione
di ciò che può accadere quando si deraglia dalla ripartizione costituzionale dei poteri.
Non si vuole certamente mettere in discussione l’importanza, ai fini
dell’effettività nel sistema penale dei precetti posti dalla legge, dell’attività interpretativa della giurisprudenza chiamata a garantire, attraverso il processo razionale di sussunzione, l’adeguamento del diritto all’evoluzione sociale, che - come detto - ha influito molto anche sull’ambito di
operatività della fattispecie in analisi. Il giudice, non essendo automatico strumento di riconduzione del fatto alla norma, filtra tra il caso concreto ed il comando astratto assumendo un ruolo di integrazione e rifinitura di un quadro normativo che, però, dovrebbe essere predisposto
in linea generale, e in maniera sufficientemente dettagliata, dal legislatore. Quel che sembra certo è che l’opera ermeneutica della giurisprudenza non può atteggiarsi a fonte creativa del diritto penale. Diversamente, si andrebbe a minare il basilare principio di certezza e la fondamentale funzione di garanzia che, nella cornice di uno Stato di diritto, non
può che essere assegnata alla legge.
Auspicabile sarebbe dunque, nella materia de qua, un intervento legislativo. Una considerazione privilegiata dovrebbe essere data alle ricorrenti proposte di riformulazione della disciplina attraverso l’abrogazione del vigente art. 571 c.p.: il disvalore dei fatti in esso sussumibili potrebbe, infatti, essere ricompreso in altre fattispecie incriminatrici, che bene
si prestano ad assorbire la rilevanza di quegli eccessi correttivi che sfociano nella causazione di un pericolo o un danno alla persona. Invero,
si è già ampiamente dimostrato che l’utilizzo di un mezzo disciplinare
coattivo, o comunque lesivo dell’incolumità fisica o della personalità psichica e morale del soggetto passivo, è di per sé contrario allo scopo educativo: viene meno, in tal caso, lo stesso jus corrigendi che renderebbe il
fatto - a seconda della ricostruzione a cui si decidesse di aderire - giustificato, lecito, socialmente adeguato e, pertanto, penalmente irrilevante.
820
Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina
L’esercizio della funzione disciplinare con tali modalità afflittive perde
in nuce il suo carattere educativo; è, quindi, di per sé illecito. Risulta, pertanto, ingiustificata l’assoggettabilità di quei fatti ad un trattamento preferenziale: essi costituiscono tout court lesioni o percosse e a queste norme possono essere ricondotti, onde evitare di legittimare indirettamente quegli stessi comportamenti che formano oggetto dell’incriminazione penale. Del resto, l’eventuale intento correttivo potrebbe trovare riconoscimento attraverso la previsione di una speciale circostanza attenuante dei vari delitti che la condotta andrà ad integrare, oppure potrebbe essere valutato ai sensi dell’attenuante comune già disciplinata dall’art. 62
n. 1 c.p. («l’aver agito per motivi di particolare valore morale e sociale»)
o di quelle generiche ex art. 62 bis c.p.
In questo modo, verrebbero anche superate le attuali incertezze derivanti dalla difficile demarcazione tra le ipotesi di eccessi disciplinari e quella di maltrattamenti. La storia del reato di abuso è, in realtà, anche storia del rapporto con quest’ultima fattispecie. Come visto, in letteratura, si è dibattuto a lungo su quali potessero essere i criteri utilizzabili per rintracciare il discrimen tra i due reati: in un primo momento l’attenzione si concentra sull’elemento soggettivo e, cioè, su quell’animus corrigendi che, requisito tipico dell’abuso, risulta incompatibile con
la condotta di maltrattamenti; successivamente, parametro di riferimento diventa l’adeguatezza del mezzo correttivo al conseguimento di finalità educative.
E, allora, la possibilità di sovrapposizione delle due disposizione potrebbe superarsi attraverso l’eliminazione di quella “norma-cuscinetto”
atta a ricomprendere tutti i comportamenti che non raggiungendo la soglia del penalmente rilevante ai sensi dell’ art. 572 c.p., ad esempio per
le difficoltà probatorie in ordine al necessario requisito dell’abitualità, potrebbero essere sussunti sotto la più blanda fattispecie ex art 571 c.p., per
effetto di un semplice automatismo.
Anche l’efficacia del messaggio legislativo acquisirebbe maggiore
valenza, in termini di chiarezza della regola di condotta a cui uniformarsi e di fondamentale limite al concreto rischio di arbitrio dell’interprete.
Un margine di possibile operatività del delitto de quo - lo si è in precedenza accennato - pare tuttavia residuare in ordine al contesto scolastico. Occorrerebbe, dunque, accertare la affettiva applicabilità dello stesso rispetto a tutti quei casi incerti, in cui l’esercizio dell’attività educativa da parte dell’insegnante si esplichi attraverso l’inflizione di punizioni degradanti ed umilianti o, comunque, degeneri in forme di condizionamento tali da incidere negativamente sulla dignità personale e relazionale dell’alunno, in qualche modo diverse dalla violenza fisica.
821
Monica Tortorelli
Pur auspicando un’imminente riforma (che possa tener conto di tali
considerazioni), la norma, così come è formulata, non può che trovare applicazione mediante una lettura conforme ai valori costituzionali e alle
acquisizioni dell’attuale contesto sociale e culturale, nel rispetto dei fondamentali principi di legalità, colpevolezza e sussidiarietà del diritto penale; e alla luce delle Convenzioni internazionali.
822
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