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racconti da due mondi
Alberto Arecchi racconti da due mondi ed. Liutprand, Pavia, 2006 L’autore Alberto Arecchi è nato a Messina e vive a Pavia. È architetto, professore di Disegno, Storia dell’Arte, Tecnologia e Costruzioni. Ha avuto una lunga esperienza in progetti di cooperazione allo sviluppo, in diversi Paesi africani (dal 1975 al 1995), come professore ed esperto di tecnologie appropriate per la pianificazione dell’habitat. Arecchi è autore di diversi articoli e saggi sulla storia di Pavia e del suo territorio, ma anche sulle culture africane, sull’habitat e le tecnologie appropriate, sul’uso di materiali locali migliorati per le costruzioni. È fondatore e presidente del’Associazione culturale Liutprand, di Pavia, che pubblica studi di storia e tradizioni locali, senza trascurare i rapporti inter-culturali. Ho pensato che avrei dovuto – o potuto – dedicare questa raccolta di racconti a qualcuno, ma erano troppe le persone a cui mi sarebbe piaciuto dedicarla. Molti di loro la riceveranno dalle mie mani, e ciò costituirà una dedica. Ad altri non mi è più possibile consegnarla, ma in realtà non c’è motivo per gridare al mondo il loro nome, basta che io l’abbia nel cuore. Rimangono però alcune migliaia di bambini, incontrati sui sentieri dell’Africa. Tre bambine, tra tutte, emergono in modo particolare dai ricordi, conosciute rispettivamente in Mozambico, in Senegal, in Mali. Oggi le loro età dovrebbero essere comprese tra i 21 ed i 35 anni. Lasciamo che anche questa sia una dedica “segreta”. La prima raccolta di “storie” scritta da Arecchi è stata: La Saga del Ticino, ed. I Quaderni del Ticino, Magenta, 1982. Altre sue opere di narrativa: Waraba, ed. EMI, Pavia, 1988. Anonimo Ticinese e l’ultimo templare, Liutprand, Pavia, 1996 (seconda edizione, modificata, di Waraba). La Maledizione di San Siro. La verità pericolosa , Liutprand, Pavia, 1999. Menzione d’onore al V Premio Nazionale di Poesia e Narrativa Pinayrano, 2005. Il Tesoro dell’Antipapa, nei sotterranei segreti della Certosa di Pavia, Liutprand, Pavia, 2003. Racconti premiati o segnalati in concorsi letterari: “Il Prione”, La Spezia, 2003 – Premio speciale per racconto con soggetto “il mare” (Noi che siamo stati a Ngazobil, racconto n. 8). “L’Albero dei Racconti”, Ass. Cult. Nero Puro, Chieti, 2004 – Finalista. “Un racconto per l’estate”, Borghetto Santo Spirito (SV), 2004 – Segnalato (Lettera dall’Africa, racconto n. 7). “Il Prione”, La Spezia, 2004 – Finalista; “Il Molo”, Viareggio (LU), 2005 – Segnalato (La luna rossa, racconto n. 22). “Club des Poètes”, Rivoli, 2005 – Quinto Premio (Il diavolo di Numidia, racconto n. 1). “Un racconto per l’estate”, Borghetto Santo Spirito (SV), 2005 – Segnalato. “Alla luce delle Mainarde”, Rocchetta a Volturno (IS), 2005 – Finalista (Il pozzo, racconto n. 4). “Piccole storie d’acqua”, Culturaglobale – Vileg novella dal Judri, San Giovanni al Natisone (UD), 2005 – Terzo premio ex aequo (Pioggia, racconto n. 5). “XIV Premio letterario interlingue Montagne d’Argento - Il Primo Amore”, Aosta, 2005 – Finalista al XVII posto (L’Albero nella risaia, racconto n. 20). “Scrittori inediti” – Circolo culturale Archeosofia, Modena – Sesto premio (Culex Park – Il Parco delle Zanzare, racconto n. 16). Prima edizione: aprile 2006. © Associazione Culturale Liutprand via Folla di sopra 7 – 27100 Pavia sito internet: http://www.liutprand.it e-mail: [email protected] Tutti i diritti riservati. INDICE Oltre lo specchio: 1 – Il diavolo di Numidia 2 – Ai piedi della duna gialla 3 – L’oasi dell’uguaglianza 4 – Il pozzo 5 – Pioggia 6 – La casa di Mosé 7 – Lettera dall’Africa 8 – Noi che siamo stati a Ngazobil 9 – Dikko Harakoy, la Regina del Fiume Niger 10 – Il mito della Regina Aura Abla Poku 11 – Lettera dall’Africa Centrale 12 – Le raccomandazioni d’un padre Da questo lato dello specchio: 13 – L’eredità del Patriarca 14 – Nelle paludi del Sigmàr 15 – La Mosca 16 – Culex Park – Il Parco delle Zanzare 17 – Il campo dei morti 18 – Il santo del prosciutto 19 – Il miracolo di Santa Sofia Ponti tra mondi diversi: 20 – L’albero nella risaia 21 – Rose, ragazza della notte 22 – La luna rossa Oltre lo specchio: 1 – IL DIAVOLO DI NUMIDIA Sono pronto a scommettere che nessuno di voi ha mai incontrato il diavolo di Numidia. Io credo d’averlo visto nel gennaio del 1979, mentre viaggiavo col mio Maggiolino Volkswagen per attraversare le montagne della Medjerda, tra la Tunisia e l’Algeria. Era una notte molto piovosa e la strada, stretta e ricca di tornanti, non era dotata di protezioni adeguate per garantire al viaggiatore di non volare diritto nel prossimo burrone. Portavo con me tutti gli effetti di casa, perché mi stavo trasferendo ad Algeri. Mi ero imbarcato a Genova, sotto la pioggia. Allo sbarco alla Goulette, pioveva. Ventiquattr’ore d’acqua dietro le spalle, l’acqua dei laghi di Tunisi da una parte e dall’altra, acqua anche dal cielo. Veramente troppo: provate a raccontarlo a chi è convinto che in Africa non piova mai. Abbandonai la primitiva intenzione di trascorrere una giornata a Tunisi e decisi di non fermarmi. Lungo la strada costiera sarei arrivato per la notte ad Annaba, ma la città portuale era famosa per i suoi ladri, capaci di tagliarvi le gomme agli incroci per obbligarvi a scendere e derubarvi… io avevo l’auto carica di tutti i miei beni, compresi libri, caffettiera e lenzuola, e volevo riuscire a trasferire il tutto nella mia nuova casa. Così mi ero avventurato su quella strada, che sulla carta non sembrava troppo disagevole, nella convinzione d’arrivare prima del buio a Souk Ahras, l’antica Thagaste, città natale di Sant’Agostino, oggi tranquilla cittadina di montagna, dall’altra parte della frontiera. La pioggia e le terribili curve di quella strada di montagna stavano invece per regalarmi una notte da tregenda. Era un percorso ricco di memorie storiche: sulla cartina abbondavano i simboli indicatori di “rovine” romane e numidiche. Lungo quella direttrice, nella seconda guerra mondiale, le forze alleate erano partite alla riconquista del Maghreb. Su quelle montagne, vent’anni prima, avevano combattuto i fellagha (ribelli algerini, in rivolta contro l’Algeria francese). Le truppe coloniali avevano cercato allora di costruire una linea “impenetrabile” di fortini e di filo spinato, per impedire l’approvvigionamento dei ribelli. Le segnalazioni erano scarse, ma non temevo di perdermi: la stretta strada asfaltata, tutta curve e tornanti, continuava a salire verso il cielo, priva di deviazioni, nel nero invisibile della notte. Pensavo che Sant’Agostino, da piccolo, poteva aver cercato funghi o ciclamini per quei boschi, sotto le querce da sughero… anche Apuleio era originario della zona… ma queste riflessioni non contribuivano a migliorare la visuale quando – nei tornanti più esposti – un improvviso scroscio di pioggia sembrava cancellare la strada sotto le ruote. Cercavo di non pensare a ciò che mi poteva attendere dopo la prossima curva, canticchiando tra i denti qualche canzone quasi dimenticata. Dopo una decina di minuti, però, la tensione riprendeva il sopravvento. Stavo per dimenticare una cosa. Oltre la pioggia, le curve, il buio, i lampi improvvisi che rischiaravano la notte e le canzoncine borbottate tra i denti (o forse strillate ad alta voce, non mi ricordo bene), avevo una “paura blu” che qualche animale selvatico, all’improvviso, venisse ad attraversarmi la strada: un marcassin (piccolo cinghiale), una scimmia, un cane randagio, una volpe o qualsiasi altro essere vivente. Nella notte buia l’auto si sarebbe potuta fermare e non ripartire più… meglio non pensarci troppo. Questo può forse contribuire a spiegare perché non mi fermai, ma esitai un momento – un lunghissimo momento… – quando nel bel mezzo d’uno stretto tornante verso destra, col buio che s’apriva di fronte a me, e non sapevo se fosse un dirupo, un bosco o che cos’altro, una sagoma bianca mi apparve all’improvviso. Una grande ombra pallida, ad ali spiegate: doveva essere un rapace notturno in caccia, forse un bururu, un barbagianni. Si fermò un momento a mezz’aria, volteggiò nella luce gialla dei fari e scomparve verso la mia sinistra, mentre il mio sguardo cercava nuovamente di riconoscere la strada. Un istante – o un secolo – dopo, ritorno in me da un breve mancamento, con la fronte imperlata di sudori freddi. Mi scuotono i sibili dei colpi di mortaio. Sono sempre sulla strada, nella notte tempestosa, ma alla guida d’un mezzo blindato. Da due osservatori, posti su speroni che sovrastano il percorso, i raggi delle fotoelettriche sciabolano la montagna, alla ricerca dei “ribelli”. Lunghe raffiche di mitragliatrice tagliano la notte. Come ombre che si dissolvono nel buio, i fellagha non si vedono. Il mio mezzo passa proprio nel tiro incrociato dei proiettili traccianti e vedo di fronte a me, distintamente, una maschera ghignante che mi sorride: una specie d’arpia, appollaiata per un attimo sul cofano del mio automezzo. Come un fuoco fatuo, o come se fosse di fosforo, la larva brilla di luce propria e volteggia e si sposta, di qua e di là. Mi sento in pericolo immediato, l’apparizione ballerina mi spaventa di più delle raffiche e della tempesta. Devo sforzarmi per rimanere saldo e padrone di me stesso, gli occhi ben aperti nella notte, devo cercare di non distrarmi. So per istinto che il seguire con lo sguardo i movimenti dell’apparizione mi porterebbe senza scampo fuori strada, giù per il burrone scosceso. Il vento del nord porta violente raffiche di pioggia. La scaramuccia sembra finita, ma qualche colpo isolato scuote il buio. Gli occhi corrono tra le ombre delle tuie e delle querce, alla ricerca del luccichio di un’arma o del movimento delle djellabat (i lunghi mantelli) dei ribelli. Vedo invece soltanto turbinii di tempesta e rami che ondeggiano nelle raffiche del vento; ma nel gioco di luci e d’ombre, a tratti, trapela ancora il ghigno atroce della visione. La maschera luminosa pulsa come una lucciola e sembra invitarmi a seguirla. Volteggia e va a fermarsi presso una radura, ad una cinquantina di metri dalla strada. Proprio in quel momento, il volto dal ghigno satanico esplode in mille frammenti: schegge di luce, di legno, di terra umida e di metallo. Un colpo di mortaio ha centrato una baracca, un piccolo deposito di munizioni. Lunghi secondi di fuochi artificiali. Mi fermo, scendo dall’automezzo e mi avvicino con circospezione alla radura. Riverso nel proprio sangue, un giovane soldato in tuta mimetica, dal volto sfigurato per l’esplosione, rantola ancora e spira tra le mie braccia. Non potrò mai sapere se fosse un francese, un mercenario della Legione o un “ribelle”. Nessun segno l’identifica e di fronte alla morte i giovani sono tutti uguali. Negli ultimi sussulti, ha tratto dalla tasca la foto d’una ragazza ed ora la stringe convulsamente in mano, come se tentasse d’aggrapparsi a quell’ultima speranza, a quell’ultimo ricordo. Lo lascio là, sotto la pioggia, nel buio e nel silenzio che sono diventati assoluti. Sulla strada, coi fari accesi, mi aspetta il mio Maggiolino. Durante quel viaggio, nel 1979, arrivai a Souk Ahras che era già notte avanzata ed incontrai non poche difficoltà a trovare una camera per riposare. Ebbi la fortuna d’incontrare per le strade deserte un funzionario pubblico, che si offrì ad accompagnarmi alla polizia, per telefonare ai pochi alberghi della città, per riuscire a farmi dare un giaciglio. Mi ricordo ancora dello squallido alberghetto, le cui lenzuola avevano definitivamente perduto il loro candore ed erano così incrostate da poter rimanere appoggiate al muro, in posizione verticale, senza afflosciarsi. Rimasi nel letto completamente vestito, grato alla stagione per la nottata fredda. Dormii poco, ancora scosso dal viaggio nella tempesta, dalla visione, dagli spari, dall’immagine di quel giovane straziato. Mi svegliai e ripresi sonno almeno quattro o cinque volte: la notte non passava mai. L’indomani la tempesta si era calmata e il cielo andava aprendosi verso nord: il vento non portava più nubi dal mare. Non appena vi fu luce a sufficienza, saltai sul mio Maggiolino e proseguii il viaggio verso Algeri. Nel mio lungo soggiorno in quei Paesi ho potuto scoprire, da libri e da conversazioni, le leggende che si narrano, relative ad apparizioni simili a quella che avevo visto quella notte. Il “diavolo di Numidia” si materializza come una larva o un fantasma, in particolari occasioni, per predire – o rievocare – eventi infausti, in certe vallate abitate dalle popolazioni berbere, sui monti tra la Tunisia e l’Algeria. Dicono che il diavolo appaia in Numidia quando qualcuno deve morire di morte violenta, ma anche che apra brecce temporali, squarci che permettono di conoscere il passato o il futuro. In quella notte di tempesta, la larva non era venuta a prendere me… o forse… chi può dirlo? È certo che la morte si è presa una vita in quel luogo, in quell’ora – ma di quale anno, di quale dei tanti mondi paralleli?… – e il diavolo di Numidia era là. 2 – AI PIEDI DELLA DUNA GIALLA “L’ho visto di nuovo!” Franco si sveglia di soprassalto, un sudore freddo gli imperla la fronte. Per la terza notte consecutiva, lo tormenta la visione d’una mummia terribile, maestosa, assisa in trono. Si direbbe un papa, dal volto scheletrito, con la tiara sul capo, coperto di gioielli. Anelli a tutte le dita, coperti di pietre preziose, ed una pesante croce pettorale, tutta d’oro. La tiara massiccia brilla nel buio, come di luce propria, tanto è ricoperta d’oro e d’argento. Il caporale François (Franco) è di servizio presso il fortino di ’Ain-Sefra (“la sorgente gialla”, cosiddetta dall’intenso color zafferano della sabbia), lungo la linea ferrata di Colomb-Béchar, nel sud-ovest dell’Algeria. Ha compiuto da poco vent’anni e si trova in quel forte da circa quattro mesi. L’abbiamo chiamato Franco e quello è il suo vero nome, o almeno lo era sino a due anni prima, quando in fretta e furia ha passato la frontiera a Ventimiglia ed è corso ad arruolarsi nella Legione Straniera. Dopo pochi mesi d’addestramento in Corsica, è partito per l’Algeria col 2° REI e da Sidibel-Abbès l’hanno spedito qui, tra gli alberi di pistacchi e le praterie d’alfa, a far la guardia alle frontiere occidentali dell’Algeria francese. Franco è un bel giovane, dagli occhi chiari e dai riccioli biondi. Agile e sportivo, sempre scattante, forse dimostra qualcosa meno dei suoi vent’anni. Lo chiamano “il biondino”. Il giovane caporale della Legione è ossessionato da anni da quella visione notturna, che l’ha risvegliato anche lì, tra rocce e dune. Il vento freddo scende dalla cresta del Djebel Aissa, oltre mille e duecento metri più in alto, e fischia tra le concertine di filo spinato stese a protezione dei convogli militari, in quella fredda notte di dicembre del 1958. I ribelli (fellagha) penetrano silenziosi dalle montagne del Marocco, s’infiltrano nei territori del Sud per combattere contro la presenza degli Europei, e i giovani della Legione devono guardare i convogli che percorrono la linea fortificata, per mille chilometri nel deserto, verso un lontano orizzonte giallo come lo zafferano… A nord, ai lati della linea ferrata, le praterie d’alfa sono state incendiate, perché l’altezza delle piante poteva fornire un facile nascondiglio ai ribelli. Verso sud, la lunga duna gialla, con i suoi canaloni di sabbia, offre altri rifugi agli uomini che si muovono come ombre. Ma non è la guerra, non sono i fellagha che angosciano il caporale Franco: è il ricordo d’un lontano sotterraneo, sepolto sotto le risaie della sua terra d’origine, in cui un giorno ha visto – o forse solo sognato? – una processione di mummie, immobili e silenziose, coperte d’ori e di gioielli. È una notte senza luna, adatta alle imboscate. Le stelle brillano nel cielo terso dell’inverno. Il vento che fischia nello stretto canalone, sotto il fortino, ha assunto i toni della voce della mummia, per dire al giovane: “Ci rivedremo, t’aspetto”. François s’è risvegliato di colpo, la fronte imperlata di sudori freddi. In realtà non è stata la voce della mummia a scuoterlo: il biondino si sveglia tra i sibili dei colpi di mortaio. Dai due osservatori, posti sugli speroni a sud e a nord del fortino, i raggi delle fotoelettriche sciabolano la montagna, alla ricerca dei “ribelli”. In pochi minuti, l’intero posto è in allarme. Come ombre dissolte nel buio, dei fellagha non c’è alcuna traccia. Domani, forse, si troveranno i soliti massi sui binari, collocati a disturbo dei convogli, nei passaggi più stretti e tortuosi. È l’ora del cambio, e il biondino deve montare di guardia alla ridotta nord, all’imbocco della valle dei pistacchi. La notte, per lui, è finita. Il suo incubo ricorrente, quello d’ogni sogno, da quando era ragazzo, si è dissolto con le poche ore di sonno. Forse ritornerà domani. Ora bisogna tenere gli occhi aperti, pur sapendo che il nemico silenzioso non tenta mai di colpire due volte nella stessa notte… Il vento si alza da sud e porta ampie folate di sabbia. Qualche sentinella, ogni tanto, lascia partire un colpo, per tenersi o per “sentirsi” sveglia. Col suo joint de kif tra le labbra (inseparabile compagno del legionario), il biondino scruta in continuazione le dure pareti del Djebel Aissa; i suoi occhi corrono tra le ombre delle tuie e delle querce, per cercare d’individuare il luccichio di un’arma o il movimento delle djellabat dei ribelli. Vede soltanto folate di sabbia, turbinanti sui fianchi del monte, e rami che ondeggiano nelle raffiche del vento; ma nel gioco di luci e d’ombre, ogni tanto, trapela ancora il ghigno atroce della mummia. A casa di Geggiga Ya rumi, arwah! Vieni qui, cristiano! L’unico svago consentito a ’Ain Sefra per i giovani militari, quando hanno qualche ora di libera uscita, è “addar Geggiga” (chez Geggiga, a casa di Geggiga), in una casetta, posta in fondo ad un vicolo a zig-zag, in cui una donna berbera, di nome Geggiga, offre i propri favori, con cinque giovani ragazze. Il villaggio è uno snodo di grande importanza strategica, una delle porte di passaggio tra l’Algeria e le montagne del Marocco, ma è veramente “uno sputo”, composto di qualche centinaio di case, immerse in un ciuffo di palme, proprio nel letto del wed (torrente). La strada attraversa a guado l’acqua, quando c’è e quando non è troppo violenta. Siamo in inverno e quindi, ora, l’acqua è tanta. Si ricordano le grandi piene di questa stagione, quando la pioggia ha portato giù dai monti milioni di metri cubi d’acqua ed ha causato danni e morti. Nel piccolo villaggio si ricordano ancora le gravissime devastazioni del 21 ottobre 1904, causate da una piena improvvisa, che portò via praticamente tutte le case e uccise anche la ventisettenne Isabelle Eberhardt, un’avventuriera svizzera d’origine russa, autrice di opere poetiche che ricordano nello stile quelle d’Arthur Rimbaud, che si era convertita all’Islam, si era stabilita qui; qui, nel cimitero musulmano, è oggi sepolta. Da ’Ain Sefra, l’anno prima, era partito il generale Lyautey, governatore del Marocco, per “riappacificare” il sud della regione d’Orano ed esorcizzare la possibilità d’una rivolta antifrancese, dopo l’imboscata al governatore Jonnart, al passo di Figuig. Franco oggi è in libera uscita. Si mette l’uniforme bella, esce con due compagni e s’inoltrano per le viuzze del villaggio, diretti a casa di Geggiga. Il corso d’acqua è in piena, lo superano su una passerella precaria, per non bagnarsi gli stivali d’ordinanza. Percorrono le stradine tutte angoli, tra il profumo d’aranci e limoni coi frutti maturi. Incrociano qualche contadino che ritorna dal palmeto, seduto sul posteriore del proprio asino. Tutti salutano cordialmente i legionari: sembra che la guerra sia lontana mille miglia da quest’angolo di paradiso. Vicino alla casa di Geggiga, i tre incontrano l’immancabile ronda. Si salutano cordialmente: nulla di nuovo, il posto è tranquillo. La piccola Aisha è la ragazza preferita da Franco. Ogni volta che è libera, il ragazzo sceglie lei. La metà del suo sangue è tuareg, è come una piccola pantera. Quando è in forma, si scatena e nessuno la può fermare. Oggi non l’ha vista, nell’entrare. Può darsi che fosse impegnata. Il giovane, però, oggi ha proprio voglia d’incontrarla e chiede di lei. Aisha non sta tanto bene, ha un po’ di febbre: shuya shuya hamma, soltanto un po’. Franco ha voglia di parlare e quella ragazza gli offre una gran pace, indipendentemente dall’aspetto erotico dell’incontro. I due giovani bevono insieme un tè alla menta (latay an-nanà) e s’intrattengono in conversazione. Lui vuole raccontarle del proprio incubo ricorrente, il gran sacerdote dei rumi, trasformato in mummia e coperto di gioielli, nascosto in un sotterraneo da qualche parte, laggiù, nei dintorni della sua città d’origine. Ha voglia di parlare e confidarsi, come non fa da tempo. Le racconta dell’impresa di qualche anno prima, quando era proprio convinto di riuscire a trovare il tesoro, un enorme tesoro nascosto sotto terra… Gli occhi di Aisha brillano nella penombra. Seduta in un angolo, sui propri talloni, la ragazza leva la cuccuma dal fornello a carbone, mescola le foglie nell’acqua bollente, rompe il blocco di zucchero col fondo d’un bicchiere, infine versa il tè nei bicchierini decorati ad arabeschi, col nobile gesto d’un signore che elargisca quanto ha di più prezioso… il liquido scende nei bicchieri con un ampio arco, con una precisione calibrata. Finita l’operazione, la ragazza si copre il capo con un foulard (mharma, “che nasconde”), se lo avvolge due volte intorno ai capelli, pone un bastoncino tra le braci e lo muove lentamente… “Ashkar! Shuf! Guarda, biondino!” Ad Aisha piace spesso chiamarlo così, con un gioco di parole intraducibile: “Askari ashkar, il mio soldatino biondo”. Il biondino si volge di scatto, al richiamo imperioso della ragazza. Sulla parete in ombra si delinea come una figura, un’immagine luminosa, fluttuante. È un santone barbuto con un rubino rosso sulla fronte, che sembra uscire dai fumi del fornello. Un momento dopo è soltanto una vampa di calore. Poi l’immagine si stabilizza, si definisce ed assume i contorni quasi nitidi d’una figura vestita d’ampio manto, e all’improvviso si rivela: è una mummia, la mummia dell’incubo! Franco fa un balzo indietro e la mano gli corre istintivamente al fianco, si stringe alla baionetta. “La, la, b-essyâsa, lasnàm makesh” (No, sta’ tranquillo, non ci sono fantasmi), lo rassicura la ragazza. “Quell’immagine viene dalla tua mente, volevo vedere il tuo sogno, hâdikishuf: ecco, guarda”. Sulla parete si snodano le immagini del viaggio sotterraneo: la volta di mattoni, le porte delle celle, le mummie, immobili, dalle grandi occhiaie cave, coperte di gioielli, anelli, pietre preziose, collane, bracciali, anfore d’oro… Franco rimane immobile, sconvolto. Non s’aspettava di vedere quelle figure, che sembrano passare su uno schermo, come se fosse al cinema. “Ma come fai, kêfâsh?” S’avvicina e scosta il velo dalla fronte della ragazza. Aisha ha gli occhi arrovesciati all’indietro, si vede soltanto il bianco. Un sudore freddo le imperla la fronte e le tempie. Pare fuori conoscenza. Franco non sa come comportarsi. Sono momenti brevi, ma è come se durassero un’eternità. Aisha è in transe e non accenna a svegliarsi. La maestosa figura del papa si muove, invece, sul muro sul quale è proiettata. Anzi: esce dal muro. La mummia pare sporgersi in avanti, muovere la mandibola in modo disarticolato. Non pronuncia neppure una sillaba, ma il cervello di Franco sembra esplodere. Arretra di due passi, impugna la baionetta e si mette automaticamente in posizione di guardia. In quel momento, Aisha si riscuote; emette un piccolo lamento, si rimette a sedere, si leva il velo e lo piega con cura sulle ginocchia, come se niente fosse successo. Ciò ha distratto per un attimo l’attenzione di Franco; quando i suoi occhi ritornano alla parete, vede soltanto un muro in ombra: nessuna traccia di corridoi segreti, né di celle o di mummie. Soltanto un muro, dall’intonaco di gesso rustico, un po’ screpolato. Franco guarda la ragazza con un misto di stupore e di timore, non sa cosa chiederle. “Aisha, tu sai rivelarmi queste cose?” “Io posso solo aiutarti, sei tu, in realtà, che le riveli a me. Quando ritornerai, ne saprai di più”. Le ombre della sera calano rapide, il giovane saluta e scende a ritrovare i compagni. Chissà – pensa – dov’è nascosto il segreto, e qual è veramente: mi sarà mai dato raggiungerlo? Il terzetto varca la porta del forte giusto in tempo, ai primi squilli della ritirata. Due giorni dopo, smontato da un altro duro turno di notte, il biondino ritorna da Aisha. Questa volta, la ragazza è in piena forma. Trascorrono insieme un’ora meravigliosa, ma Franco non si dimentica della propria ossessione e – alla fine – chiede alla ragazza: “Mi sai dire qualcos’altro sul mio tesoro lontano, sul passaggio segreto che cercavo nel mio paese?” Aisha si fa improvvisamente seria e gli dice: “Ascoltami, mio caro, asm’, azizi: è pericoloso per te quell’uomo con l’alto copricapo d’oro. È una visione terribile e nefasta. Porta con sé molto oro, ma anche una maledizione, e non voglio che ti colpisca. Non puoi dimenticarlo?” La notte dopo il turno di guardia, ha diritto al riposo. Non riesce però ad avere un sonno tranquillo: è un incubo senza apparizioni, in cui il giovane precipita attraverso un pozzo senza fondo, con le pareti ispide di lame affilate, che gli lacerano le carni. L’incubo infinito si ripresenta ogni volta che arriva il sonno profondo. Che cosa ci sarà in fondo al pozzo? La fine, o la luce? Nella mente del giovane, si riverbera una specie di domanda senza risposta: come può esserci la luce in fondo a un pozzo? E che specie di luce sarà? È quasi che la sua mente dialogasse, e ponesse le domande ad un’altra entità: ma a chi? Si ritrova sveglio, in piena notte, seduto sulla sua branda, con la coperta arrotolata addosso, come se avesse lottato con essa. Per fortuna, non ha disturbato nessun altro. Tutta la camerata dorme, fuori si sentono soltanto i rumori della notte e il vento del djebel, che fischia sopra i tetti della caserma. Un bururu (gufo), a caccia di prede, emette il suo grido lamentoso. L’evocazione Quel lunedì è un giorno stanco, a casa di Geggiga. Il cielo coperto mette addosso un languore che fa aspettare chissà cosa, come se il vento del deserto dovesse portare grandi novità, sulle ali di grandi uccelli neri. Aisha è in compagnia della sua più cara amica, Djemila. Le ragazze invitano il biondino a prendere il tè in loro compagnia. Djemila viene dalle montagne della Kabylia, è una berbera del nord. Ha grandi e profondi occhi scuri, resi ancor più profondi dal kohl (polvere nera d’antimonio), ma un corpicino ancora esile, da adolescente. “Aisha m’ha detto che tu speri di trovare una dahira (tesoro), al tuo paese? Ti ricorderai delle tue amiche, quando sarai ricco?” Gli occhietti delle due ragazze brillano allusivi, divertiti. Franco guarda Aisha in modo interrogativo. Non gli piace che altri raccontino i fatti suoi. Ma la ragazza lo previene: “Sai, Djemila è la mia più cara amica, forse sa come aiutarti”. Franco sente di potersi fidare, e lascia che le ragazze facciano a modo loro. I tre si siedono intorno ad un piccolo braciere, sul quale Djemila getta alcuni pizzichi d’incenso e di legno di sandalo. Si sprigiona un’acre nuvola di fumo, intenso e profumato. Le due ragazze si coprono il capo e cominciano a recitare una sequenza di formule incomprensibili, una specie di nenia ipnotica, cantilenata, facendo oscillare le teste di qua e di là. Franco si lascia trasportare dallo stesso ritmo. La stanzetta è piena di fumo, i contorni delle figure si sfocano. Luci e ombre fluttuano. La nenia (o forse è una preghiera?) dura a lungo, Franco sente dentro di sé una grande emozione, una grande attesa, come se le porte del mistero dovessero aprirsi… ma nulla di straordinario accade. Qualche decina di minuti, forse mezz’ora, poi la nenia s’acquieta, diventa un tenue sussurrio, e infine sfuma in un silenzio carico d’attesa… Djemila si scopre il capo e comincia a snocciolare un discorso in berbero, fitto fitto, che ovviamente per il giovane è misterioso quanto la nenia che lo precedeva. Parla alla compagna, Aisha, che rimane attenta ad ascoltarla. Alla fine, nel suo modesto francese, Aisha traduce per il ragazzo. Il sotterraneo del sogno esiste, lui è arrivato sin sulla soglia, ma vi è entrato soltanto col ricordo, il ricordo di vite passate, la sua o d’altri non si sa, perché quel luogo è denso di memorie… è un castello, tanto grande che in confronto il forte della Legione è soltanto una casetta… da quel castello parte un tunnel, ma non è scavato nella roccia, è un corridoio costruito, sotto la sabbia o forse nella terra, ed è pieno di trabocchetti, nessuno sa quanti e nessuno li ha mai superati, da quando il gran signore di quei luoghi l’ha costruito, più di 500 anni fa… in fondo al corridoio si trova seduto il gran prete dei cristiani, che appare nelle visioni del soldato biondino, è sepolto là in fondo con tutti i suoi ori ed i suoi ricordi, e quell’immagine ha preso la mente di Franco e la possiede, ma non c’entra più nulla con lui, con la sua vita. La sua vita ora è tutta qui, tra le palme, gli aranci, i pistacchi e le praterie d’alfa, a guardare una linea di confine che è fatta con un treno, un confine mobile, di convogli con mitra e cannoni, che serve a tener lontani i contadini ribelli dalle loro terre e dalle loro famiglie… È vero – riconosce Franco – tutto ciò è come appartenesse ad un’altra vita. La sua, o d’un altro, poco importa: non è la vita che egli sta conducendo “qui ed ora”. Non c’entra niente con gli stivali anfibi che non si devono bagnare dell’acqua sporca del wed, non c’entra con lo scovolo per pulire la canna del fucile, coi profumi dell’oasi, né coi fischi dei proiettili delle imboscate notturne. Sente questo pensiero come se lo svuotasse: è come se gli togliessero un pezzo, ma s’accorge che quell’incubo, quella figura di mummia, appartiene di colpo ai sogni da bambino. Djemila estrae qualcosa da un cofanetto di sandalo, lo stringe, pronunciando strane parole, glie l’appende al collo e gli raccomanda di tenerlo sempre sul suo petto. È una manina di Fatima, in filigrana d’argento, con un pezzetto di corallo rosa . “Non toglierli mai: – gli raccomanda anche Aisha – questi due oggetti ti proteggeranno, a nome nostro”. Consuetudini pre-islamiche, religiose e magiche, affiorano qua e là dagli usi femminili: le donne non disdegnano di recarsi a pregare sulle tombe dei santi, usano accendere lumini a olio in apposite nicchie, presso le tombe o in altri particolari luoghi, scrivono frasi augurali e segnano impronte di mani – con le cinque dita aperte – sugli intonaci, sui muri delle case. Il numero cinque, il segno della mano aperta, fa parte degli antichi usi magici delle genti berbere, ma l’Islam ha poi “benedetto” quei segni: li ha identificati con la mano di Fatima, la figlia del Profeta, ed ha posto la stella a cinque punte sulla cima più alta dei luoghi sacri, insieme alla luna crescente. Altri antichissimi culti si perpetuano nella venerazione delle grotte, ricettacoli ombrosi, freschi e umidi, archetipi della natura femminile; tutti aspetti di religiosità primitiva, che il puritanesimo nasconde, ma non ha potuto cancellare nei secoli. Anche Franco, come tutti i rumi passati per questi luoghi, ha sentito raccontare che in certi palmeti della regione abitata dai Berberi si trovi l’Aren nu Fighar, una grotta meravigliosa proibita agli stranieri, dalla quale si dice sia possibile entrare in contatto con “altri mondi”. Oggi gli altri mondi siano entrati anche nella vita del giovane soldato, grazie alle forze ignote che le ragazze sono capaci d’ascoltare e d’interpretare. 3 – L’OASI DELL’UGUAGLIANZA Poco dopo l’anno Mille, in quella che oggi si chiama Algeria, Sidi bu Gemma fugge con la famiglia ed un gruppo di seguaci dalla città berbera d’Isedraten, attaccata dagli arabi dell’emiro El Mansùr. Sidi bu Gemma ed i suoi appartengono alla setta degli Ibaditi. Considerati puritani e fanatici dagli altri musulmani, sostengono che la volontà di Dio si esprime attraverso il parere democratico ed ugualitario di tutti i credenti, e che chiunque può diventare Califfo – “anche uno schiavo abissino” – purché sia il migliore di tutti i musulmani. Presso di loro, chiunque può accedere alle massime cariche civili e religiose grazie ai propri meriti, indipendentemente dalla nobiltà delle origini. Costretti alla fuga dalle guerre che insanguinano l’Africa del Nord, gli Ibaditi s’inoltrano nel deserto e risalgono il corso del torrente (wed) M’Zab, sino ad una vallata rocciosa, apparentemente inospitale, che offre però un rifugio sicuro. Fermatosi per piantare la tenda, Sidi bu Gemma s’innamora d’una donna locale, che vive in una grotta, e mette su casa. Lungo il corso d’acqua stagionale, che scende verso oriente a perdersi nelle sabbie d’una gran depressione, nasce una delle realizzazioni più incantevoli dell’ingegno e della fede dell’uomo. Un grappolo di cinque città, arroccate su coni rocciosi ai lati del wed. I loro nomi: Ghardaia, Beni Izguen, Melika (“regina”), Bou Noura (“luminosa”), El Atteuf (“il gomito”, l’ansa). I discendenti di Sidi bu Gemma sono conosciuti come Mozabiti, dal nome del corso d’acqua presso il quale si sono stabiliti. Hanno creato un mondo esclusivo in una fossa, scavata dalla natura sotto la quota del deserto, con un orizzonte ben delimitato che li isola dal mondo esterno. Gli orti, i palmeti, le città, le case, gli individui, dialogano direttamente col cielo. Solo dalla cima dei minareti e delle torri di guardia si può gettare lo sguardo lontano, sulle distese desertiche. I Mozabiti evitano ogni decorazione nelle costruzioni e sulle loro moschee non appaiono nemmeno i classici motivi calligrafici, con versetti del Corano. Le donne vivono sulle terrazze, fatte come una vera e propria “seconda città”. Quando escono di casa, sono completamente velate e osservano il mondo con un occhio solo (ora l’uno ora l’altro, a turno, per non stancarli troppo), stringendosi accuratamente il velo con la mano, di fronte al volto. Il culto dei santi è ufficialmente proibito. Per ragioni egualitarie, i Mozabiti non scrivono nemmeno il nome sulla tomba dei morti. Per riconoscere i propri defunti, le famiglie contrassegnano le tombe con vasi e cocci di terracotta: un uso che richiama l’antica Cartagine e le tradizioni berbere. Consuetudini pre-islamiche, religiose e magiche, affiorano qua e là dagli usi femminili: le donne non disdegnano di recarsi a pregare sulle tombe dei santi, di accendere lumini ad olio in apposite nicchie, scrivere frasi augurali e imprimere segni di mani – con le cinque dita aperte – sugli intonaci, sui muri delle case. L’Islam ha “consacrato” quei segni, affermando che si tratta della mano di Fatima, la figlia del Profeta. Antichi culti risiedono nelle grotte dei palmeti, archetipi di femminilità: si dice ne esistano di meravigliose, dove si può entrare in contatto con atri mondi... aspetti di religiosità berbera primitiva, che il puritanesimo ibadita nasconde, ma non ha potuto cancellare. Ho conosciuto la Valle dello M’Zab nel 1978, quando insegnavo in Algeria. Ho scoperto la meravigliosa sinfonia d’accordi dell’architettura mozabita, la modulazione di spazi e di materiali in un equilibrio spesso precario, ma sempre molto meditato, sempre elegante. Su quelle moschee e quei mausolei di santi, su quelle tombe e quei minareti che si ergono verso il cielo come capezzoli o come bianche dita, ma soprattutto su quelle case, in cui nessuno spazio è superfluo, aleggia anche il mito di Le Corbusier, il grande architetto che negli anni Trenta trovò ispirazione nello M’Zab per un’architettura “a misura d’uomo”. Una buona architettura, bella e semplice, può diventare monumento, pur senza volerlo. È questa la vera grandezza dell’architettura mozabita. Ho imparato ad amare le fresche notti nel palmeto, scandite dai fruscii di piccoli animali e dall’improvviso esplodere dei richiami alla preghiera, da parte dei muezzin. A gustare il té alla menta e rimanere per ore ad ascoltare i discorsi teologici d’un vecchio saggio, presso i mausolei dei cimiteri, mentre il sole cala dietro i bordi del deserto. Quante volte sono partito la sera per andare a trascorrere il week-end nello M’Zab! Viaggiavo in auto per tutta la notte, oltrepassavo la montagna, dove al lume di lampade a petrolio si servivano rapidi ristori ai viaggiatori. Dopo otto ore di viaggio notturno, sfidavo i primi raggi del sole che sorgeva sul deserto, per immergermi nelle ombre della vallata, prima che fossero dissolte dalle luci e dai rumori del mattino. La valle si è trasformata. Nuove costruzioni, con gli spigoli taglienti del cemento armato; grandi loggiati bianco-azzurrini, allineati lungo le vie, alterano un paesaggio di pietre color ocra, modellate e smussate dai secoli. Oggi l’integralismo religioso vorrebbe distruggere le antiche tombe dei santi, quali espressioni d’un condannabile costume superstizioso. Ciò che è sopravvissuto alla modernizzazione rischia di soccombere in nome del tradizionalismo. 4 – IL POZZO C’è un pozzo nel cuore del deserto. Vi potreste immaginare un pozzo con la vera di pietra scolpita e con la carrucola issata su un arco di ferro, come quelli che si vedono nei campielli veneziani, nelle fiabe, oppure nelle tavole della grammatica d’inglese, accanto alla scritta “well”… forse anche con un rampicante che lo ricopre e si nutre delle sue chiare, fresche e dolci acque… Non è così: un pozzo nel deserto è come una fossa a forma d’imbuto, scavata nel suolo in uno dei rari punti in cui la falda d’acqua affiora, e dev’essere mantenuto pulito dagli abitanti del luogo, perché la sabbia non lo riempia. Nella fossa, di solito, cresce almeno una palma da datteri. È come un segnale, si vede a distanza ed aiuta il viaggiatore stanco, assetato, stremato, a trovare il punto d’acqua. Inoltre fornisce un alimento ricco e completo. Uno dei proverbi che si raccontano, a proposito delle palme, vuole che un uomo del deserto riesca a nutrirsi per tre giorni, con un solo dattero. Sotto la palma, una misera pozza d’acqua, sporca e salmastra, è “il pozzo”. Un punto di ristoro prezioso e vitale per viandanti e pellegrini, che hanno percorso centinaia di miglia attraverso le lande più desolate, e da giorni sono rimasti privi dell’ultima goccia d’acqua. Nessuna reggia al mondo potrebbe valere quanto quell’acqua sabbiosa e viscida, per le gole bruciate che hanno conosciuto i venti dell’altopiano. Molti non sanno che il pozzo, l’oasi e la palma non possono sopravvivere, se non grazie alle mani che mantengono sempre aperto quell’imbuto, libero dalla sabbia, grazie ad una generazione dopo l’altra di “custodi del pozzo”. Non ci sono archivi né biblioteche, ma per miglia e miglia, all’intorno, i vecchi dai vestiti di color indaco, col velo che difende il volto dallo sguardo impuro degli stranieri, potrebbero raccontarvi per filo e per segno l’elenco completo dei viaggiatori che si sono abbeverati a quell’acqua sporca e salmastra, nel corso degli ultimi mille anni. Sono passati principi, condottieri, pellegrini, predicatori, predoni e miseri viandanti. Ci sono passato anch’io. Era una ventosa giornata d’inverno dell’89. Nulla frenava le raffiche fredde che battevano la spianata rocciosa del Ténéré, il “deserto dei deserti”. Sedici anni prima, un albero quasi pietrificato, che indicava da secoli il percorso alle carovane, come un faro nel vasto mare, era stato accidentalmente abbattuto da un camionista, che forse “non l’aveva visto”. Ora, al suo posto, si ergeva una specie di gigantesco attaccapanni metallico, tetra e sarcastica parodia dell’albero d’altri tempi. Non lontano, una pompa eolica faceva pensare alla presenza d’acqua; ma si trattava di rottami, come tanti altri pezzi di metallo di cui è costellato il deserto. Avrei dovuto percorrere ancora centottanta chilometri, prima d’incontrare “il mio pozzo”. Finalmente, ad una distanza incalcolabile, vidi la macchia scura della palma, che gli strati d’aria calda riflettevano e trasformavano in miraggio. Arrivai stremato al bordo della minuscola oasi, rallentai e rimasi sommerso dalla nuvola di polvere che io stesso avevo sollevato. Mi precipitai alla pozza, ma la trovai asciutta: solo un po’ di terra scura rivelava la presenza dell’umidità nel suolo. La delusione fu enorme, ma per fortuna portavo con me l’attrezzatura necessaria per scavare. Mi riposai un attimo all’ombra della palma, e poi mi misi all’opera. Fornii il mio contributo alla salvaguardia del piccolo pozzo. Scavai e spalai la terra tutt’intorno, arrivai a quasi un metro di profondità, prima che sul fondo cominciasse a raccogliersi, goccia a goccia, circa mezzo litro d’acqua sporca e quasi potabile. Con un po’ di pazienza, riuscii ad accrescere la riserva, per dissetarmi e rinnovare – allo stesso tempo – la vitalità del punto d’acqua. Il vento aveva fatto cadere alcune “mani” di datteri. Così si chiamano le infiorescenze a grappolo e ciascun piccolo frutto è detto “dito”. Deglet nuur, “dito di luce”, è l’appellativo per quelli più brillanti, più zuccherini e pregiati come cibo dell’uomo. Approfittai di quel dono della natura e ne assaggiai qualcuno. Mi attendeva un sonno ristoratore, in quell’oasi che sembrava tratta da un aneddoto sui miraggi. Mi addormentai, avvolto in una specie di burnus o mantella di lana, che mi aveva protetto dal vento e dalla sabbia per tutto il lungo viaggio. Un sonno pesante, in compagnia dei secolari ricordi e dei fantasmi di quel posto, ben più pregnanti di quelli d’un castello scozzese. Non so quanto durasse, né mi accorsi se qualcun altro fosse arrivato all’oasi, mentre ero immerso nel sogno. Sognai un elefante o forse un mammut che correva con la proboscide alzata e sollevava sbuffi d’acqua da uno stagno pieno di piante acquatiche. Lo guardavo e non fuggivo… quando mi caricò un feroce guerriero dall’armatura nera di catafratto armato di lancia e scimitarra con un alto elmo a punta. Non so come ma mi ricordo i suoi occhi di brace che mi fissavano pieni d’odio – o di divino furore? – e mi risuona ancora nelle orecchie il suo grido di guerra. Passavano carovane cariche d’oro di pelli e d’oggetti preziosi caricati su piccoli cavalli nervosi condotti da servi di pelle nera. Poi vidi tanti cammelli anzi dromedari. Erano carichi d’oro ed era il seguito d’un gran re nero diretto verso Oriente, alla Mecca dei credenti. È comprensibile che fossi stupito e un po’ atterrito, al risveglio, al trovarmi in mezzo ad un gruppo di predoni del deserto che cuocevano pezzi di montone su un fuoco di sterpaglie. Mi aveva svegliato il fumo acre del grasso che sfrigolava sulle fiamme e sulle braci. Il capo del gruppo, al vedermi con gli occhi aperti, mi offrì il tè alla menta. Era un buon segno: bere il tè insieme è una dichiarazione d’ospitalità e d’amicizia. A gesti, e con il ricorso alle mie scarse conoscenze della lingua dei nomadi (berbero, con influssi arabi), nacque una divertente conversazione. Chiunque abbia attraversato il deserto sa che da tali chiacchiere intorno al fuoco sono nati molti miti coloniali, ma anche alcune fantastiche “scoperte” etnografiche. Interi libri sono scritti su usi, costumi, tradizioni e leggende dei nomadi, si sono basati su interviste e racconti interpretati da autori accademici, che avevano una scarsissima conoscenza della lingua in cui si esprimevano i loro interlocutori. Così si sono diffuse tante leggende sugli uomini del deserto, ben più fantastiche di quelle autentiche, che raccontavano soltanto di streghe, orchi e fantasmi. Sono nati racconti di viaggi extraterrestri e di presunte conoscenze straordinarie, conservate negli archivi del deserto, in un mondo in cui l’unica memoria è garantita dalla tradizione orale, come si usava ai tempi d’Omero. Dopo la cottura, la carne del piccolo montone finì sul piatto comune, in mezzo ai commensali sdraiati in cerchio. La cena era condita da chiacchiere e racconti, in un dialetto stretto che ben presto risuonò alle mie orecchie come un rumore di fondo, mentre il mio pensiero cominciava a viaggiare. Cambiai leggermente posizione e ruotai lo sguardo al cielo. Le foglie della palma erano mosse dal vento, che aveva rapidamente rinfrescato la piccola oasi. Sul tappeto di velluto nero del cielo, le stelle brillavano come diamanti purissimi. Cercai le costellazioni di cui mi ricordo la forma: le due Orse, Orione dalla cintura brillante, l’Auriga di forma pentagonale… Quella notte, con gli occhi rivolti al cielo, vidi le più belle stelle cadenti, attraverso un cielo terso e nero come l’inchiostro. Mi addormentai in pace con il mondo, nella notte fresca del deserto. La mattina seguente ero solo, avvolto nel mio burnus. Intorno a me, nessuna impronta, nessuna traccia visibile. Intorno alla pozza d’acqua rinnovata era tutto un brulichio di vita: coleotteri e scorpioni, venuti a dissetarsi. Poi fu la volta delle lucertole. Più tardi arrivò persino una coppia d’uccellini, giunta sino a lì da chissà quale distanza. La settimana dopo, a Djanet, appresi che il punto in cui mi ero fermato era chiamato Hassi genùnn, “il pozzo degli spiriti”, e che nessuno vi aveva più trovato l’acqua da almeno quindici anni. Solo la palma era sopravvissuta, attingendo con le radici ad un qualche misterioso rivolo sotterraneo. Non ho mai saputo se quei predoni fossero uomini viventi, oppure genùnn (spiriti folletti, apparizioni) o ancora immagini del mio lungo sogno ristoratore, dopo un sorso d’acqua sporca e un dattero magico. Mi piace pensare che da qualche parte, laggiù nel grande nulla del deserto, un vecchio velato ricordi ancora il mio nome, distorto dalla pronuncia locale, come quello del rumi (bianco, europeo) che un giorno ha ridato la vita al pozzo degli spiriti. 5 – PIOGGIA Piove. Piove sul deserto. Non è certo la nostra “pioggerellina di marzo”, né il tempo uggioso d’una nostra giornata d’autunno. Ieri sera si vedeva un addensamento di grandi nuvole nere verso ovest, proprio sopra il massiccio dell’Adrar. Dopo il tramonto, il buio stellato del cielo notturno era colpito da lampi improvvisi, provenienti dalla macchia oscura, che troneggiava sopra la montagna lontana. La nostra guida, dopo avere scrutato l’orizzonte, ha fatto spostare l’accampamento in una posizione elevata. Solitamente ci sistemavamo in qualche depressione, riparata dai venti e dai turbinii improvvisi di sabbia. Stanotte invece abbiamo dormito su un rilievo piuttosto elevato, fuori del letto del torrente (wed), al sicuro da piene improvvise. Sembra un paradosso parlare di piene qui, davanti ad un letto di torrente secco come una spugna strizzata, dopo quaranta giorni di siccità assoluta e di cieli tersi, senza aver visto neppure una goccia d’acqua. Eppure, verso le cinque del mattino, ci sveglia un lontano brontolio, che ben presto si trasforma in rombo cupo. Un fenomeno piuttosto preoccupante, che sembra avvicinarsi verso di noi. Cresciuti con i film western, siamo tentati di pensare al galoppo d’una mandria di bisonti. Venti minuti dopo, preceduto da un fronte d’aria veramente freddo, un muro d’acqua nera irrompe nel letto dell’wed, alla velocità d’un treno merci. Il letto del torrente si riempie rapidamente, per un’altezza di cinque metri. Se ci fossimo accampati laggiù, saremmo già ridotti a relitti e trasportati qualche chilometro più in là, insieme ai sassi che la piena trasporta e fa rotolare sul fondo. La nostra fortuna è stata quella di trovarci ad una distanza ridotta dal massiccio e di poterci accorgere delle piogge imminenti. Cinquanta chilometri più in là, l’ondata di piena arriverà senza alcun preavviso. Rimaniamo sbalorditi, mentre la nostra guida si affanna a ritirare le tende, a fissare tutto quanto possa essere trascinato via dal vento, e grida di metterci al coperto. In effetti, all’ondata di piena segue – quasi subito – una violentissima bufera di vento, accompagnata da fitta polvere e dai primi scrosci di pioggia. È come se qualcuno ci lanciasse addosso, a ripetute ondate, il contenuto di un’enorme betoniera in cui avesse rimescolato acqua, sabbia, terriccio e piccoli sassi taglienti. Siamo chiusi sui camion, ma nessuna chiusura ermetica potrebbe ripararci dagli schizzi d’acqua e di terra, che penetrano comunque nell’abitacolo. Dai finestrini non riusciamo a vedere al di là d’un metro, né a renderci conto se ci troviamo ancora ben saldi al suolo o se – per caso – siamo scivolati sul fondo dell’wed, trascinati dalla corrente. Le forti scosse del vento, che fanno oscillare i mezzi, ci confortano di non essere sott’acqua e d’avere ancora i piedi – o almeno le ruote – per terra, e ci rassicurano di non essere trascinati via dall’impeto dell’acqua. Nel buio più totale siamo sballottati, come su un treno in corsa, in una tempesta di polvere di carbone bagnato. L’aria è diventata irrespirabile e satura d’umidità. Una quarantina di minuti di vero incubo. Rapida e improvvisa, come era arrivata, la pioggia se ne va. Si fa luce tra i vapori cangianti che emanano dalla terra bagnata. Scendiamo dai mezzi sul suolo fradicio e pieno di pozzanghere, in tempo per vedere la nascita d’un grande arcobaleno verso est, intorno ai raggi del sole che perforano la nube. Sotto di noi, nel letto del torrente, l’acqua si è fermata. Il nastro dell’wed forma una barriera insuperabile, lunga alcune centinaia di chilometri. Intorno a noi, il deserto si sta rapidamente popolando. Sciami d’insetti volano nell’aria e sulle pozzanghere, mosche, moscerini, coleotteri, effimere con ali cangianti. Scarabei dai vividi colori escono dal suolo. Riconosco un insetto color rosso vermiglione, che in Mali è chiamato “l’angelo della pioggia”: non poteva mancare. Lucertole e piccole rane sono comparse, come dal nulla, e con loro una miriade d’uccellini. C’è persino qualche mammifero che viene ad abbeverarsi. Una piccola gazzella cerca d’andare a bere, tenendosi a distanza da noi. Un fenech (volpe del deserto) si arrischia invece ad avvicinarsi alle nostre provviste, in cerca di cibo. Prima del pomeriggio, i lontani orizzonti appaiono come praterie. Non è un miraggio, ma il risultato della rinascita di semi che attendevano – forse da anni – una goccia d’acqua. È come se la terra avesse aperto il proprio grembo, per una seconda creazione. Qui nel deserto si percepiscono e si comprendono il pieno fulgore e la totale energia degli elementi primordiali: fuoco, terra, aria, acqua. L’acqua è l’elemento finale, con cui tutto termina e tutto rinasce, in un nuovo ciclo di vita. Abbiamo deciso di fermarci per qualche giorno in questa piccola oasi improvvisata. Muoverci ora tra i sassi e le placche sabbiose potrebbe essere più pericoloso che sull’asciutto, perché rischieremmo d’affondare con le ruote nel fango. Ma – soprattutto – non vogliamo perderci questa gioia primordiale, di sentirci agli albori della creazione, di vedere la nascita e la primavera della vita dove prima era il Sahara: il grande nulla. Si fa sera, un’altra giornata è trascorsa. Abbiamo giocato come bambini, abbiamo osservato con i binocoli ed i teleobiettivi ogni specie di piante e d’animali, per fissare il ricordo di questo raro fenomeno. Il deserto vive ed è come se tutti gli esseri che lo popolano fossero usciti da un ripostiglio teatrale, per occupare ciascuno il proprio posto. Sappiamo però che domani, o un altro giorno, ci sveglieremo e ritroveremo il deserto di sempre, arido e rinsecchito. Il sole s’abbassa sull’orizzonte, non si vede neppure una nuvola. Uno scorpione cattura la preda, una piccola rana, già paralizzata dal veleno della coda. Una grande lucertola dalla testa gialla osserva la scena e scuote il capo, come un essere umano che continui a negare. Il fenech decide d’allontanarsi: sa che la lucertola si è accorta della sua presenza, e sa che è più scattante di lui. Dovrà cercarsi un’altra cena, per oggi. La nostra guida stende il tappetino per la preghiera (salât) e s’inchina in direzione di un oriente in cui il cielo s’incupisce, rapidamente. Gesti millenari, in una natura in cui si ripetono i riti della nascita, della vita e della morte. Ci sentiamo come foglie, trasportati in questo scenario da una nuvola e da un soffio di vento passeggeri. 6 – LA CASA DI MOSÉ Un lago salato dalle acque rosa. Solo la duna costiera lo separa dall’Oceano. Oltre la duna, il mare sprofonda in una fossa oceanica: un vero e proprio abisso sottomarino che arriva in prossimità della costa. Perciò le grandi piroghe che partono dalla spiaggia di Kayar riportano sempre una ricca pesca. Siamo in Senegal, lungo la “spalla” della penisola del Capo Verde. L’alta duna raccoglie, conserva e talvolta rivela il passato degli uomini, dall’età della pietra sino agli ultimi frammenti di ceramica precoloniale. Basta grattare le sabbie con le mani e si trovano cocci, strumenti, ossa e denti d’animali. Il lago è stretto e lungo, parallelo alla costa, non più largo d’un chilometro e lungo cinque. Il vento spinge sulla superficie dell’acqua strie di sali rosati e densi fiocchi di schiuma, che si ammucchiano presso la sponda e rotolano sul terreno, come bioccoli di lana. Da lontano sembrano pecore giocose, da cartoni animati. Il sole batte con forza. Le uniche zone d’ombra sono le macchie di vegetazione sulla duna. Alti nel cielo, quasi immobili nel vento, i nibbi dalla coda biforcuta. Di tanto in tanto, uno di loro volteggia, scivola lateralmente e rotea nell’aria tersa. Quando la marea sale, la spiaggia è battuta da lunghe onde, che arrivano ora da una parte, ora dall’altra, e sembrano giocare tra loro come in una partita di tennis. La sabbia rifluisce in centinaia di lunette percorse da correnti spumose. Si rimane ipnotizzati, a seguire i moti della risacca. Spesso ho immaginato d’identificarmi con una goccia, una molecola, una minuscola particella d’acqua, e di cullarmi nel seguire il suo percorso: su e giù con l’onda, lungo i ricami delle anse che continuano a formarsi e disfarsi tra acqua, terra e riflessi di cielo. Miriadi di granchi fanno la loro comparsa durante la bassa marea. Si rivelano i depositi di conchiglie, sul gradino da cui il mare scende più profondo. Le ondate si ritirano e prendono la rincorsa per ritornare all’assalto, mentre lasciano intravedere la soglia del regno profondo delle sirene, dei signori degli abissi. Su quella spiaggia ci si sente fuori del tempo, ogni incontro è la scoperta d’un miracolo. La minima increspatura, il più piccolo foro che si apre nella sabbia ed emette bolle d’aria, è un mondo da studiare. Pochi chilometri più a sud, s’incontra il monastero benedettino di Keur Moussa (letteralmente: “la casa di Mosé”). In un’oasi di pace, tra i giardini d’ibisco e di buganvillea fiorita, monaci che vivono nel rispetto d’una regola millenaria, nata sotto altri cieli, hanno adattato gli strumenti della musica tradizionale africana (in particolare la kora) per modulare la musica dei salmi. La kora è l’arpaliuto dell’Africa Occidentale, lo strumento favorito dei popoli mandinghi. Conosciuta sin dal medioevo, essa usa una scala di sette toni, in un genere musicale molto simile al sistema occidentale, e si è diffusa con l’espansione dell’impero del Mali. Sulle sue corde sono state cantate le glorie di tutti gli eroi della regione. La cassa armonica è fatta con metà d’una gran calebassa (specie di zucca), grande come un’anguria, coperta di pelle bovina, su cui s’innesta un bastone diritto e ben tondo e ventun corde in due ordini: undici per la mano sinistra e dieci per la destra. Il koraista suona di preferenza seduto e afferra lo strumento per mezzo di due “antenne”, in modo che i pollici e gli indici, rimasti liberi, possano pizzicare le corde. Queste erano fatte un tempo di pelle intrecciata, oggi sono di nylon. I monaci di Keur Moussa hanno dotato lo strumento di bischeri, per regolare la tensione delle corde, ed hanno provato anche a modernizzare le grandi scodelle delle casse armoniche, a realizzarle in resina, come gusci di barche. Non ha funzionato: il materiale, troppo rigido e tagliente, rovinava la pelle tesa sull’apertura. Una piccola rivincita della natura e della tradizione, nei confronti di un’innovazione improvvida, pur se animata da buone intenzioni. La kora nasce dalla calebassa, è uno strumento vivo ed effimero, come tutta la cultura africana. Le tradizioni orali si mantengono sino a che dura il gruppo sociale che le ha prodotte, con la propria discendenza, la propria lingua, i propri usi, costumi e credenze religiose. Le case, fatte di terra e di materiali vegetali, alla morte del capofamiglia si scoperchiano per “morire” con lui. Le migrazioni continue di popoli, il fluire della vita che si fonde con la morte, il sangue col latte e con la terra rossa. Quella terra rossa che è dappertutto, dello stesso colore del sangue e del sole al tramonto. I monaci benedettini hanno fatto tesoro della lezione, hanno abbandonato le casse armoniche di resina e si sono messi a coltivare calebasse. Una bella calebassa, grande e ben tonda, richiede del tempo. La natura non fa sconti sul tempo: la kora è uno strumento che non si può produrre in serie, non se ne può calibrare il diametro a perfezione per unificarne il suono. Ciascuna kora ha la propria individualità, il proprio timbro ed il proprio carattere, proprio come un bambino, come la cultura d’un popolo. L’Africa è un pianeta rosso, antico, che può digerire quasi tutto. Ha assimilato a modo suo le vite e le buone intenzioni di tanti di noi, impazienti uomini bianchi, convinti per secoli di poter insegnare qualcosa, con la nostra fretta. Siamo noi, invece, ad avere imparato i veri ritmi della vita. 7 – LETTERA DALL’AFRICA Maam Cumba Lambaye (“la madre dei gatti”) è il genio tutelare di Rufisque (Teng Ghegg, in lingua wolof), magica città che sorge sulla costa sud della penisola del Capo Verde, in Senegal. Sull’estremo lembo occidentale dell’Africa, Rufisque è stata colonizzata dai portoghesi nel ’500, poi dai francesi. Nell’800 è diventata per un’effimera stagione la capitale del commercio dell’arachide, poi è decaduta ed è stata disertata dai coloni, offuscata dal nascere della metropoli di Dakar. La nuova capitale ha un altro genio tutelare, che si chiama Leuk Daur. Altari feticisti e boschi sacri sorgono persino sui grattacieli, e c’è chi tiene un baobab sul balcone del quinto piano, per le offerte propiziatorie. Da queste spiagge, per secoli, le razzie degli europei hanno portato via ondate di schiavi, verso coste lontane. Da qui continuano a salpare le piroghe dei pescatori, per portare a casa il cibo quotidiano. Sugli arenili si svolgono sessioni di lotta, si trascorrono lunghi pomeriggi giocando alla dama africana (wurè), mentre i vecchi conversano sotto le tettoie delle cases à palabres. Nelle piatte distese lungo il mare, durante la stagione delle piogge, si generano vasti stagni, con boscaglie di mangrovie dalle radici aeree che sembrano trampoli, sbarre di gabbie o piuttosto palafitte, ma che possono assumere anche l’aspetto d’una selva stregata. Oggi lo scalo coloniale è in abbandono e i moli in legno del vecchio porto sono popolati solo da stormi di gabbiani. A Tiawlène, un quartiere della periferia di Rufisque, abita Fat Seck, la grande veggente guaritrice, una delle poche persone abbastanza forti da ospitare in permanenza dentro di sé, senza impazzire, il proprio rab (spirito infestante). Fat ha dedicato la propria vita a curare le possessioni degli altri, grazie ad un dono che le ha trasmesso sua nonna, che proviene dall’antichità della sua famiglia e che lei stessa trasmetterà ad una discepola (non necessariamente legata da parentela), quando saprà che “è giunta l’ora”. Dietro la casa, un vasto campo è pieno di recipienti che contengono acqua, latte, sangue, pezzetti di legno e ossa d’animali sacrificati. Ogni recipiente (canarì) corrisponde ad un malato, venuto da Fat Seck per farsi guarire, e contiene il rab o ginn, lo spiritello malvagio che perseguitava e faceva impazzire. A volte, però, l’ossessione deriva da pratiche umane, qualche nemico ha assunto un marabù (stregone malvagio) per praticare un interdetto (xalá). In tali casi, l’esorcismo si fa più complesso: è necessario praticare una “contro– magia” e liberare forze che devono ricadere su qualcuno, non soltanto sull’animale sacrificato, ma anche sull’autore del maleficio. Per ogni guarigione, Fat Seck prepara tre oggetti: un gran canarì (vaso di terracotta), pieno di latte cagliato; una calebassa (specie di zucca seccata e vuotata), nella cui acqua galleggiano pezzetti di legno, che rappresentano la famiglia del paziente, ed i suoi rapporti col mondo esterno; un pestello da mortaio infilato nel suolo, cioè il paziente stesso ed il suo destino terrestre. Tutt’intorno, vengono deposti ossa e corna degli animali sacrificati. I poteri di Fat Seck sono noti. Un mio collega – un finlandese, appassionato di studi sulle culture sciamaniche – ha letto un articolo su di lei, prima ancora di venire in Senegal. Un pomeriggio, ci rechiamo insieme a Tiawlène. La vecchia ci riceve, attorniata da donne della famiglia, ci scruta con i suoi occhi penetranti, rivela i nostri segreti più intimi, poi ci fa chiedere dall’interprete perché siamo venuti (Fat Seck comprende il francese, ma non vuole parlarlo: capisce di più guardando nelle persone, di quanto la loro bocca possa dirle). Il cortile è pieno di canarì, che imprigionano i ginn usciti dai malati guariti, le pelli degli ultimi animali sacrificati si stanno seccando al sole. Prima della partenza, Fat Seck ci regala due bastoncini di legno, uno ciascuno, e c’invita a ritornare dopo qualche giorno: ci sarà una cerimonia di ndepp, un esorcismo. Uno ndepp “medio”: per le possessioni più violente è richiesto il sacrificio d’un toro, per le più lievi bastano due galletti. Il sacrificio cui stiamo per assistere prevede un capretto, come vittima sacrificale. Il martedì successivo, alle nove e mezzo del mattino, entriamo nel cortile. Fat Seck è rimasta in camera sua, a ricevere visite e offrire consulti. L’officiante dell’esorcismo è una donna piuttosto giovane, Senabou: par di capire che sia l’erede designata del rab di Fat. C’introduce nel cortile della cerimonia e ci fa uscire, ci permette o ci proibisce di fotografare secondo i momenti, per rispettare i significati e le persone interessate (la malata e la sua famiglia). Un solo uomo partecipa alla cerimonia. Coperto d’amuleti intorno alla vita e alle braccia, sgozza il capretto e fa colare il sangue in una calebassa. Poi, la cerimonia si frammenta. L’uomo appende il capretto per le corna e comincia a scuoiarlo, seguendo un rituale prefissato e mettendo da parte, in un recipiente, alcune parti: il cuore, il fegato, una zampa. Su questi organi, ancora sanguinanti, sarà scaricata una parte delle forze maligne che infestano la paziente. Da un’altra parte, in un angolo del cortile dei canarì, una giovane donna sta facendo meticolose abluzioni col sangue della vittima. Infine, quasi di fronte al capretto scuoiato, un gruppo di donne prende un canarì nuovo, vi pratica un foro, e poi si fa consegnare le budella del capretto e comincia ad annodarle: una serie di nodini, uno dietro al’altro, come una corona del rosario. Una di loro ha la faccia terribilmente erosa. Non è lebbra, non è una scottatura: anche l’osso della mandibola è orribilmente deformato. Veniamo allontanati, facciamo una chiacchierata con l’officiante che si prepara all’esorcismo vero e proprio. Quando ritorniamo nel cortiletto, la paziente è seduta e ci volge le spalle. L’officiante la copre con un panno, le impone le mani, recitando formule. Poi le impone sul capo due galletti vivi e li fa roteare più volte intorno alla sua persona, sempre più lentamente, scuotendoli ad ogni giro verso le membra del capretto, appositamente raccolte da parte. L’uomo continua a scuoiare. La paziente rimane seduta e canta, con le mani sulle ginocchia, le palpebre rivolte verso l’alto. Senabou scuote più volte il panno, con forza, la ricopre, le toglie il rab dal capo e da ogni altra parte del corpo e lo scarica su certe parti del capretto. Nessuno le mangerà, ma saranno conservate, imprigionate nel canarì del cortile. L’uomo recide il membro del capretto, che comincia a girare di mano in mano: le donne presenti si strofinano la fronte col ciuffo di pelo, pronunciando espressioni augurali. Poi ripetono l’operazione e lo schiacciano, per farne uscire il sangue, che si passano sulla persona e sotto la pianta del piede. Veniamo allontanati. Poco dopo l’officiante ci raggiunge, beviamo il caffé insieme. Passiamo a salutare Fat Seck, arriva la figlia della malata e veniamo presentati. L’iniziazione segreta di sette giorni e sette notti, il lavoro quotidiano di preparazione che si svolge nella casa di Fat Seck, tutto questo ci sfugge ancora. Quando una nostra amica le rende visita e le sfugge di dire che anche sua nonna era veggente e sensitiva, la ‘madre’ non si trattiene e – con una punta di scettico orgoglio – fa domandare tramite l’interprete: “Com’è possibile? Non ho mai creduto che i rab parlassero anche ai tubàb” (il tubàb è l’uomo bianco). Ho vissuto in Africa vent’anni, una delle mie vite. Ero in un villaggio sulla riva del fiume Chari, un tardo pomeriggio, mentre il sole infuocava le acque e le ombre si facevano più scure. Avevo trascorso diverse giornate in discorsi, con l’uomo–medicina di quel villaggio. Niente di particolare, ma di tanto in tanto percepivo nei suoi occhi una strana espressione, come se il suo sguardo volesse entrarmi nel profondo. Poi quel tramonto, i trampolieri nel controluce, sull’acqua che s’increspava ad onde dolci ed ampie. L’acqua diveniva rossa e luminosa, mentre tutto il resto del mondo si riduceva a pura linea e sagoma nera. Stavo accoccolato a bere la mia birra di miglio, come se il tempo si fosse fermato. Cominciai a fluttuare, sopra e dentro l’acqua. Vedevo chiaramente i vortici e mi sentivo entrare nelle spire del liquido, colorato come un denso inchiostro, brillante come metallo fuso. In un silenzio gorgogliante, il vortice si faceva sempre più profondo e aumentava la sensazione di un equilibrio instabile, sorretto dal mezzo liquido. La luminosità rossa era ormai totale ed erano scomparse le ombre della terra. Percepii qualcosa, come un gran serpente con un occhio luminoso al centro della fronte, un serpente strano, dalla lunga barba bianca che si avvolgeva in ampie spire intorno al corpo fluttuante. Non so cosa avvenisse di preciso, o se fosse soltanto allucinazione. Mi trovai avvinghiato col serpente, in una lotta senza appigli e senza tempo. La lotta fu lunga, il serpente mi lasciò solamente quando riuscii a soffiargli negli occhi – nei due occhi normali, fisici e concreti – il tabacco spento della mia pipa. Quella notte rimasi inconscio, sospeso tra l’acqua e la terra. Mi ritrovarono l’indomani, sulla riva del fiume, ancora bagnato fradicio e febbricitante. Avevo in una mano la mia pipa, spenta, e nell’altra una pietra bianca, di quarzo rilucente: il terzo occhio che ero riuscito a strappare al serpente. L’uomo–medicina mi ha rivelato che gli antenati hanno mostrato la loro benevolenza, dandomi accesso ad un’iniziazione straordinaria. Così ora sono stato accolto nel loro popolo e tutti mi trattano con enorme rispetto, mi sento davvero a casa mia. Sono venuto come antropologo, per studiare una realtà che mi affascinava molto, ma – per usare un gioco di parole – “sono rimasto studiato”, perché sono diventato io, ora, il fenomeno, la persona strana che dalla propria cultura è stata assimilata in un’altra. Potrei descrivere ed analizzare le mie esperienze, ma la descrizione del fenomeno non m’interessa più: perché mai, infatti, descrivere ciò che si vive? Perché cercare di renderlo con lo strumento inadeguato della comunicazione parlata? Scrivere, descrivere, sono nozioni appartenenti a quell’altro mondo, da cui provengo. A volte vivo come se fossi due persone in una: l’occidentale scettico razionale e l’africano vitalista non possono coincidere, ma riescono a sovrapporsi, con segni ed espressioni di uguale importanza per il mio essere. Se mai verrai qui nel mio “regno”, non ti posso assicurare un safari per vedere gli elefanti; ma la vita quotidiana dell’Africa, con tutto ciò che essa rappresenta, il rapporto con la natura e col mondo degli antenati, la preparazione del cibo, la bellezza delle giornate trascorse al villaggio, questo sì. 8 – NOI CHE SIAMO STATI A NGAZOBIL C’è un angolo di paradiso terrestre che si chiama Ngazobil, sulla sponda africana dell’Oceano Atlantico. Si trova in Senegal, vicino a Joal, nei luoghi d’infanzia del poeta Senghor. Si esce da Dakar per quei pochi chilometri di “autostrada” che collegano la città, posta sulla punta d’una stretta penisola, al resto del Paese. Lungo quella strada gli incidenti non si contano, soprattutto presso i quartieri popolari di Pikine e Guediawaye. Specialmente verso la fine di giugno, quando le prime piogge rendono viscido l’asfalto e difficile la guida, per veicoli che da mesi hanno dimenticato i tergicristalli. Dopo una trentina di chilometri, si giunge in vista della città di Rufisque e si passa alle spalle del quartiere Diokoul. Una ventina d’anni fa venivo qui quasi tutti i giorni: ero impegnato con gli abitanti in lavori di autocostruzione, per consolidare la spiaggia contro l’erosione delle correnti. Dopo Diokoul, la strada principale sfiora appena l’antico scalo coloniale, fatto d’isolati quadrati, ormai quasi in abbandono. Si vedono i resti dei moli in legno del vecchio porto, popolati soltanto da stormi di gabbiani. Si attraversa il quartiere di sud-est, dove abitava Fat Seck, una grande veggente guaritrice, famosa nel circondario; si passa presso il cementificio, che imbianca di polveri le spiagge, l’aria e le campagne e corrode i polmoni della gente. Più oltre ha inizio il grande bosco di baobab, meraviglia della natura. Dicono che i baobab identifichino le antiche piste degli elefanti, i quali ne vanno ghiotti e contribuiscono, con i loro escrementi, a diffonderne i semi. Una sorta di “simbiosi tra giganti”, del mondo animale e di quello vegetale. In tutta l’Africa occidentale, dove ormai gli elefanti sono conosciuti solo in fotografia, i loro tragitti d’un tempo sono ancora riconoscibili perché segnati da una scia di baobab, piante sacre dal tronco cavo, sepolcri di griots. Il griot è il cantore dell’Africa nera, uomo “di casta”, che ricorda e celebra i fasti e le tragedie; quando conclude la propria vita, viene sepolto all’interno del grande albero sacro. Verso sud si sviluppa la Petite Côte, punteggiata da spiagge e da villaggi. Da qui, per secoli, le razzie degli europei hanno portato via ondate di schiavi, verso coste lontane. Da qui continuano a salpare le piroghe dei pescatori, per portare a casa il cibo quotidiano. Sugli arenili si svolgono le sessioni di lotta, si trascorrono lunghi pomeriggi nel gioco della dama africana, mentre i vecchi conversano sotto le tettoie delle cases à palabres. Nelle basse terre lungo il mare, durante la stagione delle piogge, si aprono vasti stagni pieni di mangrovie, con le loro radici aeree che sembrano trampoli, sbarre di gabbie o palafitte, ma possono assumere anche l’aspetto d’una selva stregata. A Mbour c’è uno stabilimento dove si affumica il pesce. Il fumo acre riempie l’aria ed i polmoni, penetra dappertutto e stordisce persino le mosche: sembra l’anticamera dell’inferno. Solo pochi chilometri più avanti, invece, in mezzo a panorami saheliani desolati da decenni di siccità, si scopre il “paradiso” di Ngazobil. Nulla di miracoloso, se non la presenza di un convento di suore e di una recinzione, che ha impedito alle capre di rendere deserto anche questo fazzoletto di terreno, come tutto il territorio circostante. Su queste spiagge, sotto un baobab, la tradizione vuole che (verso la fine dell’Ottocento) San Pietro in persona sia apparso al primo vescovo del Senegal. La visione è ricordata da una targa, affissa sul tronco di quel baobab. Qui venivamo – piccolo gruppo d’amici – nei giorni festivi, a ristorarci delle fatiche settimanali, in mezzo ad una natura rigogliosa, lungo la spiaggia battuta da lunghe ed alte onde, con la sabbia che rifluiva in centinaia di anse, percorse da correnti spumose. Miriadi di granchi facevano la loro comparsa durante la bassa marea. Sembrava di trovarsi fuori del tempo, ogni incontro su quella spiaggia era la scoperta di un miracolo: i bambini della scuola o i seminaristi al bagno, il passaggio di qualche pescatore o contadino dei dintorni. C’erano capanne di rami e casette di mattoni, vicino alla spiaggia e al baobab di San Pietro, seminascoste dalla folta vegetazione, alcune ormai in abbandono e altre ancora abitabili. Le suore le prestavano, più che affittarle, per una somma modestissima. Ci si poteva abitare, vivere, cucinare, volendo, forse anche per un tempo indefinito. Le notti erano spezzate dallo schioccare delle foglie dei rôniers (palme dalle foglie a ventaglio), mosse dal vento: forti come colpi di enormi fruste, o come petardi. Animali misteriosi sembravano muoversi nel buio, mentre il vento spazzava l’aria del sottobosco e manteneva terso il cielo: una mostra di lampadari lampeggianti e di fuochi d’artificio, che quaranta cieli dei nostri, con le loro stelle, non basterebbero a riempire. Forse ora rimpiango di non essermi fermato in quell’angolo di paradiso. Forse invece, come tutte le cose della vita, quel mondo poteva essere vissuto solo allora, al tempo giusto: non poteva durare né di più né di meno. Gli amici di allora si sono persi, annegati ognuno nel proprio mondo quotidiano. Chissà dove sono, in questo momento... forse solo la veggente Fat Seck – se vivesse ancora – saprebbe quando e dove farli ritrovare... Come quella Safia, giovane somala incontrata di nuovo, a distanza di quasi tredici anni, allo stesso tavolo, nella stessa discoteca di Mogadiscio, proprio mentre raccontavo agli amici il ricordo del mio primo ingresso in quel locale. La sala da ballo era molto decaduta, negli anni: da appendice del migliore albergo della città a balera malfamata. Safia era ancora lei, con il corpo (e la testa) da sedicenne e ventinove anni non dichiarati, reduce da matrimoni e convivenze nello Yemen, a Djibouti, in Italia. Due fili si riannodavano quella sera, per un momento, nello svolgersi dell’enorme gomitolo del tempo, come quelle onde che sciacquano a lungo le anse a lunetta della spiaggia, sulla costa dell’Oceano: si separano e poi ritornano da direzioni diverse, anche opposte, come se d’improvviso avessero una gran fretta d’incontrarsi. Vivere in Africa è stato come essere una di quelle onde, che lambiscono i lidi degli Oceani: fra tante altre, un giorno o l’altro, ne incontri di nuovo qualcuna. La Boscaglia, la Savana, il Deserto sono come mari, le piste li attraversano come rotte e i porti, dove chi ritorna è riconosciuto per i suoi ricordi: “lei ha conosciuto l’Hôtel Transat?” Non c’è più, ma tu sei come uno della famiglia, perché ci sei stato. Il deserto avanza verso sud, nel Sahel, più per causa degli uomini che abbandonano la terra che non del clima, che va e viene: la pioggia ritorna, ma gli uomini non sono più là per coltivare. Hanno lasciato le oasi e i campi fertili, per andare a vendere accendini e paccottiglia nelle città dei bianchi. Qui il ritmo della vita quotidiana è scandito dal denaro, dal traffico, dai supermercati, dagli oggetti venduti ad ogni angolo di strada, come i corpi delle ragazze; dall’arrangiarsi a vivere senza la grande famiglia, senza il villaggio, senza l’albero sacro dei propri antenati. I ricordi dell’Africa sconfinano con il mito: dove sono ormai le verdi colline, percorse come il deserto da migliaia e migliaia di fuoristrada... e dov’è quella signora, nata a Mogadiscio da uno dei primi italiani sbarcati al tempo della guerra d’Africa, che ricordava la sua gioventù come “il tempo in cui i barambara volavano...” Barambara, in lingua somala, è il nome del rosso scarafaggio africano, dalle lunghe antenne, che appare soltanto di notte, in orde fameliche, per impossessarsi della casa buia, per fuggire alle prime luci del giorno. I barambara volano in un solo periodo dell’anno, nella stagione degli amori. Un volo goffo, che dura poco, come quello della più elegante farfalla. Come tutte le cose effimere, come la fioritura del baobab o la felicità della stagione giovanile. ... e Ngazobil è sempre lì, al suo posto, vivo nel ricordo d’un piccolo gruppo d’amici, con quell’incredibile San Pietro apparso vicino ad un baobab, che fiorisce un solo giorno all’anno, con quell’altrettanto incredibile chiesona di cemento armato che le suore non finivano mai di costruire e di ampliare, con gli scorpioncini nello scarico della doccia, i rab (spiriti folletti) che nella notte facevano volare via ogni cosa e schioccare le foglie di palma, il profumo dei fiori d’acacia che si sentiva a centinaia di metri di distanza, gli eserciti di granchi occupati a forare tane e a correre sulla sabbia umida... ...le onde. 9 – DIKKO HARAKOY, LA REGINA DEL FIUME NIGER I popoli Djerma e Songhai vivono nella valle del fiume Niger. Secondo le loro convinzioni ancestrali, l’universo (Andunya) è stato creato in sette giorni da Irkoy (Nostro Signore). Esistono sette terre, abitate rispettivamente dalle stelle e dagli uomini. A ciascun essere umano corrisponde una stella, la cui grandezza e il cui splendore sono proporzionali al successo sociale, al valore morale ed all’importanza politica dell’individuo. Dopo l’universo, Dio creò Adamo ed Eva. Un giorno decise di render loro visita, ma la coppia, timorosa, nascose nella boscaglia i figli più robusti, più belli e più intelligenti, per mostrargli soltanto i meno dotati. Perciò Dio, cui nulla può sfuggire, decise di punirli: volle benedire i figli visibili, ma fece calare la propria maledizione su quelli nascosti. Questi si trasformarono così in entità invisibili, chiamate gangi boro (gli abitanti dei boschi), mentre i primi rimanevano umani (koyra boro, gli abitanti dei villaggi). Gli uomini, tuttavia, per poter padroneggiare la natura e apprendere le tecniche per la caccia, la pesca, l’agricoltura, devono far ricorso agli abitanti dei boschi, che detengono i poteri magici. Non vi sembra quasi che si stia parlando del ‘piccolo mondo’ dei Celti, con le entità di natura, nani, fate e folletti? Nel mondo invisibile dei gangi boro abitano anche gli holley (mitici antenati o numi protettori: i manes degli antichi latini). I più importanti tra loro (tooru), secondo le diverse tradizioni, sono sette o otto, sono giunti direttamente dall’Egitto e sono i geni tutelari dei principali ceppi di popolazioni che abitano la vallata del fiume Niger. Occorre elencarli, e ci scusiamo con chi non conosca la complessità etnica di questa valle. Zaa Beri (il grande Zaa), è il più antico e, secondo le differenti versioni, è il nume protettore dell’etnia kurumba oppure dei songhai. Dikko, la regina delle acque (Harakoy), è figlia di Zaa e di una donna peul (fulbe, fulani). I cinque geni che seguono sono – a loro volta – i figli avuti da Dikko con uomini delle altre varie stirpi circostanti. Per consiglio dei saggi, Dikko fu obbligata a cambiare marito dopo la nascita di ciascun figlio. Questi risultarono così per tre quarti umani (koyra boro) e solo per un quarto eredi di Zaa Beri. Kirey o Cirey (songhai), il genio dei sapienti; Mahama Surgu o Zangina (tuareg), il pastore nomade; Mussa Niawri (gurma, gurmancé), il cacciatore; Hawsakoy Manda (haussa), il fabbro (ricordiamo la rigida suddivisione in caste di molte società africane); Faran Baru Koda (la beniamina, tuareg); questo genio è spesso raffigurato come un androgino. Infine la regina Dikko, secondo certe tradizioni, avrebbe ‘adottato’ un sesto figlio, Dongo, d’origine bariba. La figura di Dikko è la più pittoresca fra quelle degli holley, il cui culto è stato rivelato agli uomini. È una sirena dalle fattezze d’una bellissima donna peul, con i capelli chiari, che al cadere della sera esce dalle acque profonde, si siede sulla sponda del fiume e attende un nuovo amante. Identifica il prescelto e lo trascina con sé sotto le acque, nel proprio mondo favoloso. Il suo culto è molto diffuso anche nei paesi della costa del golfo di Guinea (Togo, Ghana, Nigeria), ove prende il nome di Mami Wata (dall’espressione pidgin’ english che significa: Mamy of the waters, la Signora delle acque). In Brasile, la Regina delle acque si è incrociata con il culto della Vergine cristiana ed è diventata Yemanjá, la Vergine sempre incinta. I figli di Dikko, antenati mitici dei vari popoli, si dispersero per la vasta regione, mentre Dikko viveva a Katakambe, nelle acque del grande fiume Niger. Un giorno, però, commise l’errore di sposarsi con un ginn (genio) che si chiamava Sangay Moto. Quando volle divorziare da lui, tutti i ginn si unirono, la scacciarono dal fiume e la costrinsero a stare sulla terraferma, nel villaggio di Latakabiyey. Se fosse rimasta a lungo fuor d’acqua, avrebbe rischiato la morte. I primi sei figli, l’uno dopo l’altro, accorsero per salvarla, ma furono sconfitti dagli spiriti e rimasero essi stessi prigionieri. Rimase solo Mussa – il cacciatore – il quale, ignaro di tutto, conduceva una vita spensierata presso il nonno gurmancé. Correva tutto il giorno nella natura, si appostava, tendeva trappole agli animali. Dikko riuscì ad inviare sino a lui una richiesta d’aiuto, grazie ad una gru coronata che poté sfuggire in volo alla vigilanza dei ginn. Mussa, il grande cacciatore, accorse prontamente e – dopo lunghi appostamenti e tranelli – sconfisse i geni. La sua grande esperienza, l’allenamento al confronto con la natura e con gli animali dei boschi gli furono preziosi. Così Mussa liberò la madre e le consentì di ritornare nelle acque del grande fiume. Potrete sentire il canto di Dikko, nelle notti serene, quando tutti gli uomini dormono. In quelle notti è pericoloso per i giovani pescatori attardarsi lungo le rive perché la Regina delle acque, nonostante l’età, reclama sempre nuovi amanti e li trascina con sé, nei fondali misteriosi. Dopo queste vicende, la gru coronata è ritenuta un uccello benefico, quasi un animale sacro. 10 – IL MITO DELLA REGINA AURA ABLA POKU Dopo la mitica regina delle acque, nume tutelare di molti popoli dell’Africa occidentale, che è umana soltanto a metà, conosceremo un’altra antenata, una donna, l’eroica regina del popolo Baulé. I Baulé vivono in un territorio che gli atlanti odierni indicano come Côte d’Ivoire (Costa d’Avorio). Sono rinomati per l’arte con cui lavorano gli oggetti d’oro. I loro costumi, la loro religione e la loro arte riflettono strane similitudini con ciò che si conosce della cultura dell’antico Egitto. Dalle insegne del potere regale (scettro di legno nero e d’oro, frustino “scaccia–mosche”, croce ansata, sciabola da parata, bastone), alla successione matrilineare, ai tratti fondamentali della scultura e del bassorilievo. Anche i Baulé, come gli antichi Egizi, praticavano la mummificazione rituale ed ornavano le loro mummie di gioielli d’oro. Leggenda e storia si mescolano. Vediamo la vera storia della formazione del regno baulé. Verso il 1730, alla morte del re Ossei Tutu, fondatore di Kumasi, due suoi nipoti, Dakô e Apoku detto Apoku–Ware, si disputarono la successione. Dakô rimase ucciso nella lotta, ma sua sorella Poku, conosciuta come Aura Poku (la regina Poku), raccolse i partigiani di Dakô e fuggì con loro da Kumasi. Le truppe di Apoku–Ware inseguirono i fuggiaschi sino alle rive del fiume Comoe e li raggiunsero nei dintorni di Attaku. Aura Poku riuscì ad attraversare il fiume con i suoi prima dell’arrivo dei nemici, che interruppero l’inseguimento. Poku proseguì la marcia verso ovest e giunse al bacino del Bandama, allora territorio dei Senufo. Trovò delle miniere d’oro e decise di fermarsi. Respinse i Senufo verso nord e una parte dei Guro sulla riva destra del Bandama, sottomise gli altri popoli della zona e si spinse a sud sino a Brubru, sul basso Bandama. Aura Poku morì verso il 1760 e fu sepolta a sud–ovest di Buaké, a Waxebo, dove aveva posto la propria capitale. La sua nipote Akwa–Boni le succedette e completò la conquista dell’ovest, annettendo il paese aurifero dello Yo–Uré, sulla riva destra del Bandama Bianco. Akwa–Boni morì nel 1790 e il suo corpo fu trasportato a Waxebo, che fu allora ribattezzata Akwa–Boni Sakassu, o semplicemente Sakassu, e divenne la città sacra dei Baulé. Presso i Baulé, la figura femminile ha sempre avuto un ruolo importante. Nella regione di Buaké, l’antica capitale, tutti conoscono la bella leggenda della regina Aura Abla Poku. Ve la vogliamo raccontare, come fu raccolta nell’Ottocento dall’africanista Maurice Delafosse. Quando i sudditi della regina Poku, sconfitti, raggiunsero la sponda del fiume Comoe, Poku fu ispirata da una visione e disse: ‘Voi tutti, prendete i vostri neonati e gettateli nel fiume: sarà il sacrificio che ci permetterà di salvarci’. Tutti però si rifiutarono: nessuno intendeva sacrificare i propri figli. La regina Poku aveva un solo figlio; lo ricoprì con tutti i gioielli d’oro che possedeva e lo lanciò nel fiume. A quel gesto, un grande albero, che si ergeva sull’altra sponda, si piegò sulle radici e raggiunse con la propria cima la sponda su cui si trovavano Poku e la sua gente. Tutti salirono sul tronco e lo usarono come un ponte, per attraversare il fiume e salvarsi. La traversata fu lunga e faticosa, e furono necessari diciotto giorni perché passassero tutti. Gli Ascianti, che li inseguivano, arrivarono anch’essi alla sponda del fiume, ma in quel momento l’albero – che si stendeva come un ponte sulle acque – si raddrizzò di colpo. Gli Ascianti, privi di piroghe, non poterono attraversare il fiume Comoe e gli inseguiti furono salvi. Allora la regina Poku disse a tutti coloro che l’avevano seguita: ‘Io sarò per sempre la vostra regina’. ‘Perché mai?’ dissero. ‘Ecco perché sarò la vostra regina – disse Poku: quando siamo arrivati alla sponda del fiume, vi ho chiesto di prendere i vostri neonati e gettarli in acqua, ma voi tutti avete rifiutato. Io ho preso il mio unico figlio e l’ho gettato in acqua. Così voi avete ottenuto di passare il fiume. Ecco perché vi dico che sarò la vostra regina’. Ed essi risposero: ‘È giusto! Sei proprio la nostra regina’. Allora Aura Abla Poku disse al popolo: ‘Darò dei nomi a tutte le tribù che sono qui. Quelli si chiameranno Atutu (gli spennatori), perché saranno loro a spennare le mie galline. Voi che siete i miei fratelli e miei soldati, vi chiamerò Nzipuri (i forti). Voialtri che camminate zoppicando come se aveste dei vermi nelle gambe, sarete chiamati Ngban (i vermi di Guinea). Voi che siete il mio braccio destro, vi chiamerò Faabué (quelli di destra). Voi che siete dei selvaggi, che ve ne andate in giro nudi e portate sempre in giro il fuoco, vi chiamerò Nanâfué’. Il vero nome che la regina Poku aveva dato dapprima a questi Nanâfué era Bonâfué (i selvaggi), ma poi fu mutato, per non offenderli. Quanto agli Agba, che vestivano indumenti di corteccia, il loro nome significa proprio questo. Akwa–Boni disse a Poku: ‘Madre, bisogna chiamarli Agbaon (i vestiti di corteccia)’. E così furono detti Agba. Rimanevano i Sa, che parlano sempre tutti insieme. Akwa–Boni disse: ‘Saranno chiamati Sa (semi di zenzero) perché hanno un carattere acceso, come il sapore dello zenzero...’ Infine la regina Poku, ancora addolorata per il ricordo della morte del figlio, che aveva gettato nel fiume Comoe e che era annegato, disse: ‘D’ora in poi, questo paese si chiamerà Baulé (morte di bambino)’. Questi sono gli elementi che si ritrovano in tutte le varianti della leggenda di Aura Abla Poku, fondatrice del regno baulé. La regina vi appare come l’eroina della lunga marcia, come Mosé che conduce il proprio popolo; e si tratta d’una donna, d’una madre. Ella è l’esempio del trionfo della ragione di stato, del bene pubblico sui sentimenti privati, l’incarnazione dello spirito comunitario. Aura Poku ed i suoi primi tre successori esercitavano presso i Baulé una vera e propria autorità feudale. Come si è visto, le prime due regine della dinastia furono donne, a riprova sia del peso della discendenza matrilineare, sia dell’importanza che questa società attribuisce al ruolo della donna. Poi si svilupparono lotte intestine, per il possesso delle miniere d’oro e dei territori più fertili. Dopo il 1850, i discendenti della grande regina mantennero il rispetto della popolazione, ma la loro autorità si esercitava ormai poco al di là del villaggio di Sakassu e non si estendeva più sul vasto territorio dei Baulé, popolato ormai da circa due milioni d’abitanti. Fra gli aspetti tipici della cultura baulé vi è proprio questa dissoluzione del potere centralizzato: nel sec. XIX non si riconoscevano più né re né capi tribù. 11 – LETTERA DALL’AFRICA CENTRALE Sono partito per l’Africa centrale per un servizio giornalistico sulle “donne leone”. Si trattava di controllare la notizia, apparsa su un quotidiano locale, di ragazze che, in una zona compresa tra il Camerun e il Centrafrica, venivano rapite da piccole per essere addestrate, come bestie carnivore, a compiere assassini su commissione; inoltre, qualora mi fosse stato possibile, avrei dovuto partecipare al processo contro i capifila della banda in questione e raggiungere i loro villaggi, per un servizio più circostanziato, corredato da fotografie. Per qualche mese ho sognato d’essere perseguitato dalla setta delle donne–leone o dai loro “imprenditori”, che costituivano un’associazione a delinquere molto pericolosa. Era un potere occulto, nelle foreste del Centrafrica, che non esitava a porsi al servizio di chiunque pagasse per compiere un assassinio. Lo strumento di morte erano ragazzine, rapite alle famiglie in tenera età e allevate in gabbie, nutrite di carne umana, tutto il tempo a quattro zampe come bestie, infine addestrate ad uccidere per avere la loro ricompensa. Quando dovevano compiere un assassinio, le ragazze erano travestite con pelli e artigli da leone, per perpetuare la leggenda e diffondere il terrore. Si sapeva e non si sapeva, ma soprattutto si temeva di dire o di vedere troppo. Una domanda, una parola, un gesto, una foto in più potevano essere pericolosi, tanto per il giornalista come per chi fosse entrato in contatto con lui. Purtroppo il fotografo che mi accompagnava si è reso indisponibile – o meglio, rimase indisposto da una di quelle diarree fulminanti che colpiscono i golosi imprudenti, alla loro prima esperienza d’Africa. Mi è toccato fare tutto da solo. Il processo non si terrà prima del prossimo marzo. Così, dopo una ricerca condotta sugli articoli della stampa locale e dopo qualche tentativo d’intervista agli avvocati degli imputati e al professor Mbé, decano dell’Università e docente di antropologia criminale, sono partito verso N’Djamena, la capitale del Ciad. In quella città, semidistrutta dalla lunga guerra civile, esiste un museo. Dopo averlo depredato di tutto l’avorio e d’ogni altro oggetto dotato di valore venale, hanno trovato il tempo di risistemare ciò che restava. Così, in bella vista tra gli altri cimeli, c’è lo scheletro d’un elefante completo... tranne le zanne, segate alla radice. Nella veranda d’ingresso, sotto il porticato, si possono vedere due catafratti, cioè due cotte complete di maglia, simili a quelle portate dai guerrieri d’ambo le parti durante le Crociate. La tradizione vuole che i guerrieri musulmani, partiti da questi luoghi per combattere al fianco dei Saraceni, le abbiano poi riportate sino a qui, al ritorno alle terre d’origine. Ancor oggi, nel vicino Bornu, le guardie dei sultani locali montano a cavallo con elmi di stile antico, corazze e maglie di ferro. In certi luoghi è un’usanza ancor diffusa, durante le feste annuali, vedere catafratti a cavallo. Alla vista di quelle armature mi è nata la curiosità d’andare nei villaggi, per conoscere meglio le fonti della tradizione. Non è stato facile conciliare le esigenze del mio lavoro con questa curiosità. Ho potuto dedicare alla mia ricerca solo un breve periodo di cinque giorni, dopo aver visitato i villaggi delle donne–leone e prima del volo di ritorno. In tre villaggi non lontani dal lago Ciad, dei quali preferisco tenere segreto il nome, ho raccolto testimonianze di tradizioni che mi sembrano molto interessanti. Dopo lunghe trattative ho potuto anche vedere dei cimeli, conservati presso la casa di un capovillaggio. Si tratta di parti di armature molto antiche. Qualcosa ho anche potuto fotografare. è difficile, forse persino impossibile, dare un’attribuzione storica precisa a quei frammenti: un elmo, parti di scudi, di cotte di maglia e di altri pezzi d’armatura. Credo che la tradizione locale, che li presenta come cimeli strappati ai guerrieri cristiani durante le Crociate e giunti qui in epoca lontana, meriti una verifica più approfondita. Nei villaggi kanuri delle regioni del Kanem e del Bornu, intorno al lago Ciad, con qualche parola di arabo e, soprattutto, con molto rispetto per le persone e le situazioni, sono riuscito a farmi ricevere da parecchi capivillaggio, a superare la naturale diffidenza che si ha sempre verso un estraneo e a farmi mostrare i cimeli più preziosi dei loro tesori di famiglia. Ricordo quei lunghi pomeriggi trascorsi intorno a un tè, mentre il capo, seduto sull’immancabile pelle – segno del suo potere e del suo rango – snocciolava interminabili genealogie d’antenati. Purtroppo il poco tempo a mia disposizione mi ha impedito di registrare quelle testimonianze, che potrebbero avere un certo valore nelle mani d’un etnologo. È cominciato così il mio tuffo in un Medioevo, incontrato al di là del deserto, che mi avrebbe riportato a storie di casa nostra. Da quel viaggio sono ritornato con molte sensazioni, con un taccuino di appunti interessanti e molte diapositive. La mia attenzione si fissava naturalmente a quei pezzi più grossi di armature che potevo identificare, e soprattutto ai due elmi con indubbie caratteristiche europee, medievali. Ogni volta che li rivedo in fotografia, si riaccende lo stupore di averli trovati là, migliaia di chilometri a sud del deserto e così lontano dai luoghi delle Crociate, dai quali anch’io mi sono convinto che provengano. Nel rivedere le fotografie ho scoperto quei piccoli simboli incisi su alcune parti d’armatura: un albero pieno di spine stilizzato, su un frammento di pettorale, e il monogramma “B” accompagnato da un piccolo scudo con simboli che ricordano gli stemmi di due famiglie pavesi. La cosa accende la curiosità, la fantasia e anche un fondo di scettica disillusione: pur volendo avvalorare la leggenda delle Crociate, come può verificarsi il caso che proprio io, arrivato sin lì da Pavia, vi scopra tracce di crociati provenienti dalla stessa città? Sarebbe una di quelle combinazioni rarissime, per le quali “chi ci crede” sosterrebbe che c’è una volontà occulta, misteriosa, che le fa realizzare. Quante famiglie, nell’Europa meridionale, potevano avere gli stessi simboli, gli stessi monogrammi... un’eventuale ricerca sarebbe faticosissima e, forse, non avrei mai la certezza di avere preso in esame tutti i possibili candidati. Come conoscere, oggi, tutti i nomi dei guerrieri nobili partiti per l’Oriente in secoli di Crociate, quando è già difficile identificare le vittime di un incidente aereo o sapere quanti furono i morti di una guerra di cui abbiamo seguito le cronache solo pochi anni fa (ad esempio, quella del Vietnam, o dell’Afghanistan o dell’ex Jugoslavia)? 12 – LE RACCOMANDAZIONI D’UN PADRE da un racconto del Mali Questa storia è stata raccolta da Lona Tunkaré, vecchia griotte (cantastorie) che viveva nel villaggio di Ballè, ed è stata tramandata da padre a figlio, attraverso diverse generazioni. Un uomo che stava per morire disse al figlio: “Figlio mio, mi rimane poco tempo e ti voglio lasciare il tesoro più prezioso: la mia saggezza, che a mia volta ho ricevuto da mio padre. Ecco i consigli che ti do: non confidarti mai con una donna, nemmeno con tua madre; non contrarre debiti con un commerciante, quali che possano essere i vostri rapporti; non stringere mai amicizia con uomo di potere”. Il giovane osservò per un certo tempo le raccomandazioni del padre, ma la tentazione è sempre stata più forte della pazienza umana. Così, si chiese perché mai suo padre gli avesse rivolto tali parole in punto di morte. Si dice che bisogna scuotere l’albero per sapere che cosa nasconde. Il giovane decise dunque di fare le tre cose proibite, per vederne le conseguenze. Innanzitutto andò a chiedere un prestito al suo amico Bakary, il più importante commerciante del villaggio, con la scusa di comprarsi un’ascia nuova. Il commerciante gli rispose: “Per una somma così piccola, non dovevi nemmeno scomodarti. Potevi mandarmi qualcuno, a chiederla a nome tuo”. Il giovane fu molto contento di tale accoglienza, e decise di controllare il secondo precetto di suo padre. Un giorno, dopo il lavoro nei campi, disse a sua moglie Sitan: “Dammi la mia ascia, vado nei boschi a cercar legna per il fuoco”. Prima di uscire tagliò un pezzo di stoffa bianca lungo sette metri. Arrivato nel bosco, tagliò un ramo d’albero e l’avvolse nel lungo lenzuolo. Ritornò al villaggio che era ormai notte. Sua moglie gli disse: “Non rimanere tanto tempo nel bosco, il lavoro è importante ma devi pure riposarti”. “Moglie, sai bene che non è mia abitudine tornar tardi a casa, ma oggi, mentre tagliavo la legna, è arrivato un brigante che mi ha provocato, cercando di attaccar lite. Io mi trattenevo, ma poi non ne ho potuto più. Gli ho dato un colpo d’ascia e l’ho ucciso. Il suo corpo è avvolto in questo lenzuolo, finché non riusciremo a seppellirlo. Sei la sola a saperlo, mi raccomando, non dirlo a nessuno. Alla minima indiscrezione, potremmo finir male”. “Ma insomma. gli uomini non capiscono mai! Perché non date confidenza alle vostre donne? Ci sono al mondo tante donne coraggiose. Ti prometto che nemmeno le travi della nostra casa sapranno mai niente del nostro segreto”. Così Sitan rassicurò suo marito. “Perché allora mio padre mi ha consigliato di non dar fiducia ad una donna, nemmeno a mia madre? Mia moglie mi ha appena dimostrato che questo è falso”. L’indomani, il giovane andò ancora, nei campi di buon’ora. Sua moglie gli portò da mangiare a mezzogiorno. Quel giorno non voleva fermarsi a lavorare: aveva fretta di andare a chiacchierare con le amiche. “Marito mio, scusami ma non sto bene e non riuscirei a lavorare oggi”. “Va’ a casa, prendi una medicina e riposati” le rispose il marito, convinto. Appena a casa, la donna prese il cotone e gli attrezzi per filare e si recò a casa della vicina. Dopo un po’ che lavoravano insieme, cominciò a dire: “Binta, ho una cosa estremamente confidenziale da dirti. Ieri un brigante ha attaccato mio marito mentre tagliava la legna. Ma mio marito, dopo una lunga lotta, è riuscito a vincere e gli ha rottola testa con un colpo d’ascia. Il corpo del brigante è a casa nostra, finché non sapremo come seppellirlo. Mi raccomando, non raccontare questo segreto a nessun altro”. Binta le disse: “Sitan, viviamo insieme da dieci anni e non ti basta per avere fiducia in me? Puoi stare tranquilla, questa storia non passerà la soglia di casa mia”. Sitan era appena uscita di casa, che già la sua amica informava la vicina, insistendo sul fatto che non dovesse raccontare la cosa a nessun altro. In meno d’una giornata, la notizia fu risaputa ai quattro angoli del villaggio. Le autorità se ne immischiarono e l’uomo fu arrestato. Fu il suo stesso amico, personalità importante, che l’arrestò. Quando il commerciante seppe la notizia, corse dalle autorità a dire: “Signori, voi che amministrate la giustizia, vi chiedo di ritirare da quel criminale il denaro che gli ho prestato, prima che sia trascinato in giudizio. L’aveva preso a credito da diversi anni; è vero che era mio amico, ma non ho mai pensato che potesse uccidere un uomo a sangue freddo. Come possono essere malvagi gli uomini!” L’accusato ottenne finalmente di essere interrogato e poté condurre le autorità a casa sua. Disfatto il lenzuolo, non si trovò altro che un pezzo di legno. Gli chiesero perché si fosse comportato così. “Signori, era per controllare le ultime raccomandazioni di mio padre, che mi aveva detto con insistenza, prima di morire: ‘Non avere mai fiducia in una donna, nemmeno in tua madre, non indebitarti mai con un commerciante, in qualsiasi difficoltà tu ti trovi; non legare mai amicizia con un uomo di potere’. Ebbene, questo pezzo di legno era un segreto fra me e mia moglie. Nonostante le mie raccomandazioni, lei ha raccontato la mia storia alla vicina, e via via la notizia ha finito per raggiungervi. Il mio migliore amico è venuto ad arrestarmi senza lasciarmi spiegare. Il commerciante, amico mio, si è preoccupato più del suo denaro che della nostra amicizia. Non ho ascoltato mio padre e non l’ho rispettato. ed ecco che oggi mi trovo preso tra due fuochi. Il bambino può anche giocare con i propri escrementi, ma deve sempre rispettare i consigli di suo padre”. Da questo lato dello specchio: 13 – L’EREDITÀ DEL PATRIARCA Il Cecchino Un grappolo di sordide case abbarbicato al fianco nord della vecchia Cattedrale, fra gli archi rampanti che sostengono le volte della navata e la torre di città. Finestre che mai hanno visto il sole. L’esposizione verso tramontana, all’ombra della grande torre, e una corrente d’aria permanente, che s’incanala nella strettoia tra la cattedrale e le case, rendono quei tuguri particolarmente insalubri e malsani. Lassù, ad oltre cinquanta braccia d’altezza, appesa al muro orientale della torre, un’unica stanzetta, come una baracca, fatta alla bell’e meglio con pareti e pavimenti di tavole. Vi si arriva per un dedalo aereo di scale, che s’inerpicano sui tetti d’altre case fatiscenti, prive di serramenti, esposte ai venti ed alle intemperie, popolate dai rifiuti della città. Oltre centotrenta gradini e, se non vi sarete stancati o persi per strada, se non sarete scivolati in qualche falda di tetto pericolante, se nessuno vi avrà puntato un coltello alla gola in qualche passaggio buio, potrete raggiungere un precario nido di falchi, rifugio d’un certo Cecchino Cristiani. Un uomo che non ha combinato nulla d’importante in tutta la sua vita ed ora, a 52 anni, mendica alla porta settentrionale del Duomo, per procurarsi un tozzo di pane e – soprattutto – un bicchiere di vino, che lo aiutino a terminare la giornata. Cecchino è il nipote di Bernardo, detto ‘della polvere’, un celebre necromante che, nella seconda metà del Cinquecento, ha passato molti guai con la Santa Inquisizione e con la giustizia civile a causa delle propria attività. Arrestato più volte, ha dovuto subire il sequestro di filtri, libri ed amuleti ed ha concluso male i suoi giorni su un patibolo, dopo che l’avevano più volte storpiato, per estorcergli confessioni, sotto i ferri della tortura. Bernardo o Bernardino Cristiani, detto ‘della polvere’, è stato perseguitato e processato qui a Pavia dall’inquisitore Pietro Solero da Quinzano per la detenzione di libri magici e per l’esercizio delle arti di geomanzia, astrologia e alchimia. Egli stesso si proponeva di comporre un trattato di arti magiche. Studiava il modo di trasmutare l’argento in oro e guariva gli spiritati. Era capace di prevedere “se una dona parturiva maschio o femina” e di “ritrovare qualcosa perduto, guadagnando in cambio un paio di scarpe”. Subì un primo ammonimento dall’Inquisizione nel 1564 e gli fu imposto di smettere di operare. Nel novembre del 1567 Fra Solero lo fece nuovamente arrestare. Fra i reperti sequestrati in casa di Bernardo, si citano calamite, pezzi di ossi, un trattato per tingere i panni di lana, un “rimedio contra ogni puzor di bocca”, testi di Raimondo Lullo e la celeberrima Clavicola di Salomone. Quella stanzetta inerpicata lassù, tra i tetti e i nidi dei falchi, abbarbicata alla Cattedrale e alla Torre Civica, era rimasta il nascondiglio segreto di Bernardino ‘della polvere’ sino ai suoi ultimi giorni ed è poi passata in eredità al nipote, con ciò che rimane dei ‘ferri di mestiere’ dello stregone: qualche alambicco, misture varie, una cassa di libri e grimori, con formule magiche, di varia provenienza. Tutte cose che per Cecchino contano poco o nulla, visto che non sa neppure leggere. La vita di Cecchino è monotona, uguale, giorno dopo giorno. Su e giù per le impervie scale di quel nido di falchi, dove si rifugia per dormire, e poi su e giù per altre scale, quando offre una mano al sacrestano del Duomo per fare le pulizie, spostare mobili, andare a sistemare qualcosa sui tetti o nella cella campanaria. Nella propria vita, ha certamente fatto più gradini che passi in orizzontale. La stanza di Bernardino è diventata il suo rifugio, dal giorno in cui è rimasto solo: morto malamente lo zio, in odore di stregoneria; morti l’uno dopo l’altro i genitori, in un’epidemia di peste nera che ha spopolato la città. La sua sola sorella è scomparsa da tempo. Dicono che abbia sposato un olandese, uno dei tanti ufficiali delle truppe spagnole, il quale, dopo qualche anno di servizio da queste parti, è partito per le Indie occidentali col grado di vice–governatore. Di loro non si è saputo più nulla. La stanza basta appena per accogliere un misero pagliericcio, una specie di tavolo ed uno sgabello. Due mensole sul muro ed un vecchio baule, che contiene i pochi ricordi dello zio Bernardo, completano l’arredamento. E i servizi igienici? Per i propri bisogni, Cecchino non si sforza troppo: esce al primo angolo dell’incerta rampa di scale e si libera direttamente sui tetti, quando nessuno lo vede. La prima pioggia s’incarica di portarli via. Ogni tanto, quando il clima non è troppo inclemente, il Cecchino si concede una spruzzata d’acqua alla fontana pubblica, sullo scalone del Palazzo di città – o Broletto – verso Piazza Cavagneria. Le mattinate trascorse a mendicare, seduto sotto l’atrio d’ingresso della Cattedrale, sono dense di rapporti umani, né più né meno, come quelle di un mercante o di un notaio. Tutti conoscono Cecchino, dall’ultimo passante sino al Vescovo e al Podestà. Persino l’Inquisitore ogni tanto si sofferma a scambiare due parole con quel mendicante. Molti mantengono l’abitudine di scambiare qualche parola con il mendicante. Le chiacchiere quotidiane con i passanti, ma soprattutto con gli altri mendicanti, col sacrestano e con qualche prete sono più che sufficienti a tenere il Cecchino costantemente informato sulle novità del mondo. Benché Cecchino non sappia leggere, conserva con somma cura alcuni libroni ricevuti in eredità dallo zio, ed è sua segreta speranza di riuscire un giorno a decifrarli. Sfogliandoli, s’è reso conto che non tutti i testi erano scritti in lettere latine, ma che strani geroglifici si mescolano alle scritte in alfabeto ‘normale’ e ai disegni. Tuttavia, memore delle brutte avventure occorse allo zio, si guarda bene dal chiedere aiuto a qualcuno, che possa fornirgli una qualche indicazione sul contenuto dei libri. I due amici Con il trascorrere degli anni, la curiosità del Cecchino, rimasta insoddisfatta, si è fatta sempre più viva. Dopo aver superato i 45 anni, ha cominciato a sentirsi invecchiare e si chiede se mai riuscirà a superare l’inconveniente di non saper leggere. Sino a che, un giorno, gli è capitato di conoscere Ottavio, un ragazzino brillante, sveglio e socievole. Fra il mendicante e il ragazzo è nata una strana amicizia. Ottavio studia in seminario, sa abbastanza di latino e di greco e riesce a riconoscere i caratteri d’altre lingue morte. La confidenza creatasi fra i due fa sì che un bel giorno il Cecchino porti il ragazzo sui tetti, sino al suo tugurio, per mostrargli i suoi tesori nascosti: i libri che lo zio gli ha lasciato, sua unica eredità. Due età dell’uomo a confronto con la magia e col mistero, nel luogo più sacro della città, vicino al nido dell’Inquisizione. Questa città, che secondo i cronisti ortodossi “non aveva conosciuto né eresia né bisogno di martiri”, cela in realtà una quantità di misteri, che neppure Bernardino della Polvere, da vivo, avrebbe potuto immaginare. Un freddo giorno festivo, il Cecchino è rimasto rintanato lassù, nella sua stanza, e Ottavio è salito a rendergli visita. Per la prima volta, dopo molti anni, il vecchio baule dagli spigoli rinforzati in ferro è stato tirato fuori da sotto il letto e, con grande rispetto e cautele infinite, i due ne hanno estratto qualche poderoso volume. Non si tratta di libri a stampa, ma di vecchi testi manoscritti, su spessi fogli di pergamena, con inchiostri di vari colori. Prendono, quasi a caso, il primo dei volumi manoscritti, quello che sembra di più agevole lettura, per l’assenza di formule magiche e di altre espressioni in lingue morte o esotiche. Il titolo del volume, scritto in caratteri capitali, è: ‘La vera historia della maledictione del sancto Syro, protovescovo’. I due s’immergono nella lettura e, con uno stupore via via crescente, scoprono che proprio lì, sotto i loro piedi, molto tempo prima erano stati i simulacri e il santuario d’un cruento culto pagano, consacrato alla dea Cibele. Quel culto s’era mantenuto a lungo ed il tempio, il principale della città, non fu smantellato, neppure nei secoli del dominio longobardo. Gruppi di fedeli della crudele dea orientale avevano mantenuto la loro roccaforte proprio nel cuore della città. Solo molto tardi la nuova religione riuscì a smantellare il tempio pagano ed a costruire al suo posto una nuova Cattedrale. Alcuni resti del vecchio culto non sono mai andati distrutti, ma sono stati incorporati nelle strutture del nuovo Tempio. “La città nata sul pigro, ma grande ed infido fiume non potrà conoscere alcun vero rinnovamento, se non a prezzo di sangue e di divisione. Sarà soggetta, nella sua storia, a trenta assedi e dodici volte sarà distrutta, spesso per opera dei suoi stessi abitanti. Quando il mondo sarà operoso e industre, essa affogherà nell’ignavia, nell’ozio e nella noia. I suoi abitatori sono destinati ad invidiarsi l’uno con l’altro e le ondate di rinnovamento potranno sempre e solo provenire dall’esterno, ma sono destinate a non durare mai per più di una generazione. Ecco la profezia, la maledizione di San Siro. La gente del luogo non volle tramandarla e fece l’impossibile per nasconderla, per dimenticarla. Basta però rileggere la storia: quanti assedi, quante guerre e distruzioni, quante rivalità e quanti odi intestini... il re stesso che distrugge la propria capitale (come fece il marito di Teodolinda, quell’Ago o Agilulfo che regnò sui Longobardi). Il popolo che mette la propria città a ferro e a fuoco, come avvenne intorno all’anno Mille, per ostilità verso il re, e come poi durante le lunghe guerre civili... non devi dimenticare la tragica lezione che, al di là dei fatti storici, emerge da questa profezia. L’unica fama venne a questa città dagli ozi di Re e Signori invasori, che qui stabilirono la propria sede di delizie e si fecero servire dagli abitanti. La fama guerriera dei Pavesi fu ben conosciuta, nei secoli passati, e fu spesso posta al servizio d’altri eserciti, di altri interessi, di altre guerre. Mai però essi si adoperarono compatti per ottenere un beneficio comune, a vantaggio della propria città, ma sempre anteposero a tutto il litigio e la guerra intestina”. I due trascorrono i lunghi pomeriggi dell’autunno nebbioso a scorrere polverosi manuali, con formule di erboristeria e di “medicina dei poveri”, accorgimenti che facevano parte del patrimonio dei guaritori, maghi e ciarlatani e che avrebbero potuto guarire un raffreddore, lenire un mal di testa o risolvere una comune inappetenza, guarire vari tipi di brufoli e di eruzioni cutanee, o persino arrestare la caduta dei capelli. Riescono così a censire il contenuto di circa metà della cassa. Sul fondo, in mezzo ai libri, giacciono alla rinfusa vari strumenti, ossicini, piume, sacchetti ed ampolle, ma i due, trattenuti da un religioso timore, non si azzardano a toccarli, almeno sino a che qualche manuale non spieghi loro con chiarezza che uso convenga farne. La vera maledizione Un altro testo pretende di rivelare la vera “maledizione di San Siro”, scritta in inchiostro di colore rosso sangue su antichi testi. Esso dice che questa città, la cui storia è sempre stata camuffata e riscritta in dispregio ai perdenti, non avrebbe più potuto trovare nel proprio seno la forza e la dignità di riconoscere le proprie vere origini. Pertanto essa è destinata ad essere governata con la menzogna. A nulla, nei secoli, sarebbero valsi gli sforzi di chi volesse ricercare e far trionfare la verità. “Per oltre tredici secoli – dice la profezia – la falsità trionferà; gli uomini si avvicineranno intanto all’anno mille più mille. Quando la grande cupola del tempio centrale minaccerà rovina, si aprirà qualche piccolo spiraglio di verità, ma neppure ciò basterà. Ora che è stato innescato il circuito della falsità, pubblicamente dichiarata ed ostentata come verità ufficiale, l’antica capitale è destinata a vivere nei secoli una vita misera, immersa nell’arroganza e nella presunzione, come un parassita privo delle radici necessarie alla sopravvivenza. In essa s’insegnerà, vi saranno anche scuole d’alto livello, ma a poco frutterà tutta tale saggezza di fronte all’assenza di verità. Tutto ciò che in questa città si farà, di una qualche importanza, sarà sempre osteggiato dalle chiacchiere, dalla malignità e dalla falsità. Si tratta di un luogo che della falsità storica ha fatto il proprio blasone”. A chiusura di quel libello appare, scritta in un rozzo latino, la seguente frase: “Questi testi sono stati redatti da Michele, Diacono della chiesa del San Sir, che si è lasciato deperire talmente – a seguito delle note vicende della distruzione della nostra Chiesa – da morire di consunzione. Io Gundmar, suo confratello, le ho raccolte e le concludo oggi, giorno di San Giovanni Battista dell’anno di Grazia 663, sotto il regno del nostro splendido e glorioso re Grimuald, per affidarle alla memoria dei posteri”. Una maledizione pesante, scagliata dagli ultimi preti ariani, condannati all’oblio. Per i sacerdoti ariani e per i loro seguaci, eredi del modo di pensare gnostico, non era neppure lontanamente concepibile alterare la storia e la verità in nome della ragione di stato. Il documento è passato di mano in mano, a rischio della testa di chi lo possedeva, sino a giungere in possesso di una piccola comunità càtara. Da costoro, per vie inesplicabili, è stato trasmesso agli archivi dei Templari e qui è rimasto, sepolto nell’oblio, grazie all’assoluto segreto che l’Ordine garantiva ai propri documenti. Poiché però non faceva parte delle carte più importanti, esso è rimasto nei forzieri della Magione pavese, affidata ai Cavalieri dell’Ordine di San Giovanni di Gerusalemme. Le distruzioni del sec. XVI hanno sepolto quei cimeli e, quasi per un disegno imperscrutabile, essi finiscono nelle mani del Cecchino e di Ottavio, che stanno cercando la chiave del mistero di San Siro. I due compari si rendono conto di non potere andare impunemente in giro a rivelare i misteri che hanno letto. Anzi, quei segreti hanno il valore della loro stessa vita. Decidono di comune accordo di non raccontare a nessuno ciò che hanno scoperto. Evocazioni Con la fine d’ottobre s’avvicina il giorno d’Ognissanti, data indicata dai testi magici come la più importante per compiere determinate azioni d’antichi riti. Cecchino e il giovane Ottavio decidono di sperimentare – dal libro magico trovato nel baule – un incantesimo particolare, per evocare lo spirito d’un trapassato. Il ragazzo s’è esercitato per giorni, ha letto e riletto attentamente le varie fasi dell’incantesimo, e i due hanno predisposto con cura tutti gli oggetti necessari: alcuni erano nella cassa, fra un libro e l’altro, mentre altri (come il sale e le candele) sono reperibili in giro, senza grandi difficoltà. Hanno deciso di comune accordo di evocare Bernardino ‘della polvere’, l’antenato stregone di Cecchino. La giornata è stata limpida e, prima della ventiquattresima ora, il sole s’è immerso in un’apoteosi di rosso, in quella lunga lama frastagliata che si può vedere dal piccolo nido di falco, tra le gronde e i tetti delle case sulla sinistra e, a destra, le mensole con figure mostruose che reggono i tetti della Cattedrale. Dritto, in fondo alla stretta via che lambisce la facciata del Broletto, si staglia sul cielo orientale, sempre più scuro, il profilo del convento dei Domenicani di San Tommaso, come un monito inquisitorio perennemente rivolto contro eretici e stregoni. In quel tramonto, San Tommaso pare lanciare strali fiammeggianti in alto nel cielo e minacciare le fiamme di un’eterna dannazione ai due impudenti che, rannicchiati contro la Torre di città, si apprestano a violare i sacri interdetti. Le ombre s’allungano rapidamente e quella della Torre ha ormai annegato tutta la viuzza sottostante. Ai tocchi dei Vespri, i brusii dei negozi si attutiscono e qualche lanterna s’accende a rischiarare la penombra. Le porte della città si chiudono, mentre dai campanili si chiamano a turno i rintocchi delle campane. Quando l’ultimo raggio del sole calante scompare, il Cecchino si dispone diligentemente a tracciare sul pavimento i segni che Ottavio gli suggerisce, e che tante volte ha ripetuto mentalmente, sino ad impararli a memoria. Segna i quattro punti cardinali sulle pareti della stanzetta, sgombra il centro del pavimento e vi traccia con la cenere una stella a cinque punte, con una punta rivolta verso il nord. Nel pentagono interno alla stella inserisce un cerchio, poi colloca con cura cinque candele, una al centro del cerchio e le altre lungo le pareti, dove ha segnato le direzioni dei punti cardinali. Il buio avanza e una leggera bruma si leva dal fiume, serpeggiando tra le case e risalendo per le vie della città. Sugli spalti dei bastioni gli armigeri si gettano sulle spalle le mantelle di panno, che ben presto l’umidità appesantirà come coltri inzuppate. Lontano, nella campagna, qualcuno osa sfidare l’autorità ecclesiastica e comincia ad accendere falò, che dureranno tre notti; le fiamme rompono l’oscurità e si vedono a distanza, in un alone di nebbiolina incipiente. Nessuno, però, s’azzarda più a danzare la carola intorno a quei fuochi, per paura di non finire arrostito su altri bracieri, allestiti per i reprobi, accusati – a torto o a ragione – di tenere viva la stregoneria antica. Nella stanzetta appesa al fianco della torre s’è creata un’atmosfera densa di fumo degli incensi, ma anche di attesa e di paura, quasi palpabile. I due ripassano fra i denti ogni parte del rituale, timorosi di poter commettere anche il minimo errore. Finalmente, il ragazzo inizia, con voce stentorea, ma un po’ sopratono e tremante per l’emozione, a declamare il rituale evocatorio. Rigidi, tesi sino allo spasimo, i due seguono ogni minima vibrazione delle luci e del fumo delle candele, inseguono con la coda dell’occhio ogni ombra che sembri passare sulle ruvide pareti di assi. Nulla: pare che anche i topi li abbiano abbandonati. Trascorrono così le prime sei ore della notte, sino a quella che noi chiamiamo mezzanotte, in letture e complicate cerimonie, infarcite di formule recitate in lingue strane, ma Bernardino non dà alcun segno. Chi passasse a quella tarda ora della notte per la via del Campanile potrebbe sentire, là in alto, uno strano borbottio; certamente noterebbe, fra le folate di nebbia che si è levata sulla città, il lume che filtra tra le assi del ricovero precario. I due insistono nel tentativo di richiamare Bernardino ‘della polvere’ dal sonno della morte, ma devono concludere, dopo avere seguito a puntino le complicate procedure, che il suo spirito sia impegnato in altre faccende, e non possa rispondere ai loro ripetuti richiami. La delusione è cocente, ma la logica conseguenza che i due ne traggono è unanime: “Riproviamo domani!”? Intanto Ottavio spulcia, in fretta, altri testi contenuti nel baule, per cercare qualche riferimento che possa perfezionare il rituale. Sul lato d’un manoscritto che parla di materializzazioni, s’imbatte nella seguente nota: “Quando il sole tramonta, nulla è conveniente intraprendere se prima non ottieni il consenso di Layla, il dèmone della notte. Perciò tutte le evocazioni notturne devono iniziare nel suo nome, e terminare con un ossequioso ringraziamento alla sua grazia, anche quando Layla non fosse altrimenti direttamente invocata”. Segue un preciso rituale, di gesti e di invocazioni, per rabbonire la capricciosa Signora della Notte. La città è ormai immersa per intero in una fitta e densa nebbia. Anche nella misera stanza passano folate di fredda umidità, che piegano la fiamma delle candele e mettono i brividi giù per la schiena. Sembra di stare sul ponte d’una nave, un traghetto rivolto a destinazioni oscure ed insicure, attraverso un oceano di mistero e di malsana umidità. Il mondo esterno è rimasto avvolto in una bambagia grondante, in cui suoni e luci, come i sensi delle persone, diventano ottusi e soffocati. Non è stato facile accendere tutte le candele, perché l’esca dell’acciarino s’era inumidita e la fiamma tremolante, esposta a tutti quegli spifferi, più volte s’è spenta. Finalmente si può dare inizio al rito. Con grande rispetto, Ottavio pronuncia alcune formule in un idioma sconosciuto: l’indirizzo a Layla, Regina della Notte, perché vegli con benevolenza sulle loro intenzioni... e Layla el aziza, la prediletta, scivola quasi di soppiatto tra loro, anche se sul principio i due non se ne accorgono. La sera dopo l’atmosfera è carica di elettricità, quando i due si trovano lassù, nel buio della stanzetta, che sembra la cabina d’una nave in procinto di salpare tra flutti tempestosi, verso mete ignote. Ormai esperti dei rituali preliminari, li compiono quasi meccanicamente, mentre si concentrano sul reale indirizzo della loro evocazione: Layla, la Regina della Notte. Le loro attese e le loro speranze si concentrano sulla figura dell’affascinante e pericoloso Dèmone della Notte. La passione e la concentrazione sono tali da sembrare palpabili, nell’atmosfera fumosa per le candele e per l’aria bassa. L’ala della notte avvolge il nido dei due cospiratori, quasi come una pesante coperta di lana grezza. I due si concentrano, con qualche brivido di sudore freddo. Stanno per tuffarsi in un incubo terribile e di difficile ritorno. è come se si aprisse una porta e i due percepiscono distintamente la presenza nella stanza di qualcun altro, che cerca di comunicare con loro. Un personaggio sicuramente temibile. Non ne sentono la voce, né la vedono. Entrambi però hanno la netta sensazione che si tratti di un’entità femminile, cupa e possessiva nel suo fascino d’altri mondi. Che cosa accade realmente, nella notte autunnale, sull’alto del fianco est della Torre Civica? I due rimangono posseduti dall’incubo per la notte intera. Creazione delle loro menti, infestazione diabolica o presenza di qualche antica entità, ormai sepolta nel tempo e rimossa dalla memoria degli uomini, che i due sono riusciti realmente ad evocare e a richiamare da recondite lontananze? Sta di fatto che la mattina dopo i tetti della via del Campanile sono ricoperti di uno spesso strato di duro ghiaccio, con lucentezze del colore del sangue. Tutti i fuochi sono spenti, quella notte, e qualche vecchietto non si risveglierà più dalla fredda morsa del gelo. Gli abitanti dei quartieri adiacenti sentono grida e ululati atroci, come se si stessero sgozzando decine d’agnelli. Da quella notte, i capelli del Cecchino rimarranno segnati del candore della vecchiaia – o della pazzia – e il ragazzo Ottavio non sarà più lo stesso, ma mostrerà d’avere il doppio dei suoi anni. I giochi infantili non lo attrarranno più e si ritirerà nella lettura dei libri... e in quali strane letture: antichi bestiari, manuali di esorcismo, trattati sull’esistenza degli esseri soprannaturali (demoni, angeli e folletti) saranno i testi che più l’appassioneranno, e il giovane si applicherà con gran passione alla decifrazione dei manoscritti lasciati da Bernardino, custoditi nel baule sotto il letto, nella stanza presso la torre. Le evocazioni si ripetono, regolari. Nella notte, il freddo e gli ululati attanagliano nell’angoscia il cuore stesso della città. La luna splende sopra i tetti e sembra irridere dall’alto e dal profondo del mistero, dagli abissi della sua femminilità, la stupida ignoranza degli uomini, macchine di guerra e di potere. Layla appare loro con sembianze femminili, i capelli corvini e gli occhi fiammeggianti, con un sottile diadema che le cinge la testa e reggeva un grosso smeraldo, posto proprio al centro della candida fronte. L’entità prende possesso con forza dei loro pensieri, domina talmente le loro volontà che i due non aspettano altro che la sera per potersi prostrare ai piedi dell’antico demone dalle sembianze di donna. Questo rimane l’unico appuntamento delle loro notti insonni, dedicate allo studio della magia tradizionale. Un giorno, non riuscendo a capire una riga del testo manoscritto, Ottavio esclama: “Ah, se fosse qui Bernardino, lui sì che potrebbe spiegarmi di persona!” I due si guardano negli occhi e si ricordano dell’idea di evocare lo zio, morto in fama di stregoneria. Quella sera, quando i fumi e i rituali colmano la stanza ed il quartiere con le consuete orride presenze, si rivolgono a Layla e umilmente, in ginocchio, la supplicano di portare sino a loro lo zio, oppure di condurli ad incontrarlo, in qualunque posto, anche solo per pochi istanti, il tempo di guardarlo negli occhi e di rivolgergli le poche domande cruciali che li avevano spinti a muovere i primi passi. Layla impone loro d’abbassare gli occhi e di sdraiarsi, proni, completamente distesi al suolo. La stanza si riempie d’un fumo acre, che brucia gli occhi. Uno scroscio di risate sardoniche riempie l’aria, come se una porta si aprisse su un locale pieno di persone. Una voce maschile, profonda e gutturale, ordina ai due d’alzarsi e d’aprire gli occhi. L’ambiente che appare loro non è più l’angusta stanzetta di tavole: sembra piuttosto la gran sala d’un castello, con un enorme camino nel quale ardono grossi ceppi. In un angolo, un gruppo di persone sembra condurre una vivace conversazione e, di tanto in tanto, esplode in uno scroscio di risate sgangherate. Sono uomini e donne, vestiti in foggia antiquata. Nessuno di loro sembra accorgersi della presenza del Cecchino e di Ottavio. I due raccolgono tutto il proprio coraggio, perché l’atmosfera li mette in uno stato d’imbarazzo e soggezione, e si avvicinano al gruppetto che tiene salotto. Finalmente, una dama li vede e – con un breve, secco colpetto di tosse – attira su di loro l’attenzione degli altri. Un personaggio che somiglia alla lontana al Cecchino è al centro della combriccola. Indossa uno strano abito rosso, con un alto bavero nero che gli avvolge il mento e le guance, come in una nuvola oscura. è lui a rivolgere la parola per primo ai due nuovi venuti: “Che cosa desiderano lorsignori?” “Ci scusiamo – risponde il ragazzo – non era nostra volontà il disturbare cotesta amabile compagnia, ma... a dire il vero, cercavamo una persona”. “E chi, di grazia, se si può saperlo?” “Messer Bernardo Cristiani, che fu parente del signore che mi accompagna”. L’attenzione di tutti si fa più palpabile. “Bernardino Cristiani son io – risponde il personaggio ai due ospiti – ma non ricordo, a dire il vero, di avervi mai incontrati, né l’uno né l’altro. Come sarebbe a dire ch’io ‘era’ parente del qui presente... signore...?”. “Francesco Cristiani, detto ‘Cecchino’, per servirvi. Sono tuo nipote, zio. Non ti ricordi più dell’ultimo figlio di tuo fratello?” “Mi ricordo d’un bambino, ma tu dimostri la mia età. A dir il vero, somigli a mio fratello Antonio. Sei davvero quel Cecchino che dici di essere?” “Sì, zio, e da quando manchi fra noi... quante volte t’ho rimpianto. Ho sempre conservato i tuoi libri, sai, e finalmente questo giovine mi ha aiutato, sia nel leggerli e capirli, sia nel cercarti”. “Mi fa piacere, Cecchino... a qual pro faceste tanta fatica per cercarmi? E chi è, di grazia, questo giovinotto, che non mi hai ancora presentato?” “Il mio nome è Ottavio, Messere, e sono lieto di poter parlare con voi questa notte. Vi cercavamo per la naturale curiosità che nutre l’ingegno umano, quando è posto di fronte ad un enigma. Voi lasciaste un libro sulla maledizione di Sancto Syro, ed esso ci ha molto attratti nelle vicende storiche ed umane ch’esso trattava, ma noi non siamo riusciti a leggerlo sino in fondo. Infatti, le ultime pagine risultavano strappate ovvero illeggibili. L’affetto che il vostro nipote sempre nutrì per Voi ci ha spinti a tentare il vostro incontro, per domandarvi di meglio chiarire il vostro pensiero e la vostra narrazione, e per prendere nel contempo diletto dal vostro incontro”. Il giovine Ottavio rivolge con ardire la parola in modo diretto a quello che ritiene essere il fantasma del mago Bernardino. E quello accoglie con benevolenza le sue parole, e risponde: “Bene hai parlato, ragazzo. Vi ringrazio di essere qui con me, questa notte. Benché prima non ti conoscessi, le tue parole mi fanno capire che hai letto i miei libri. E questo scambio di sapere è il modo più profondo di conoscenza reciproca, tra due uomini. Ebbene, vi racconterò ciò che desiderate sapere: la vera storia della maledizione di San Siro. Siro era invecchiato anzitempo, a causa delle preoccupazioni che in questa vostra città lo avevano angosciato. Un gruppo di seguaci si era unito al missionario e lo aveva aiutato nel difficile compito di organizzare la nuova Chiesa, ma la piccola comunità era composta per lo più da legionari, da commercianti che provenivano da fuori, e non era riuscita a fare proseliti tra gli abitanti del luogo. I pagani si riunivano a celebrare i loro riti nel tempio di Cibele e in altri templi dedicati a divinità minori; erano insomma i padroni della città. Questa città, figlio mio – lascia che ti chiami così – è sempre stata ostile ad ogni novità e, in modo particolare, a quelle che provengono dall’esterno. Come in ogni società umana, sono le donne, le madri, che garantiscono e tramandano la forza della conservazione. Siro, nella sua vecchiaia, ebbe una rapida visione profetica degli eventi futuri. Così, quella che la gente ricorda come una maledizione potrebbe piuttosto essere definita come un’intuizione, una visione, una profezia”. I toni di Bernardino si sono fatti appassionati. I due che l’hanno evocato, e che stanno ascoltando le sue parole, fremono con un brivido nelle ossa. Si guardano negli occhi e si rendono conto di trovarsi entrambi nella misera stanzetta, appollaiata in alto sui tetti di Pavia, e di essere entrambi sdraiati al suolo. Le candele si sono consumate e qualche stoppino sfrigola, nella cera ormai tutta sciolta. La stanza è freddissima, avvolta in un fumo denso e acre. Nessuna presenza estranea. Sembra loro, per un attimo, di aver sognato tutto. Solo dal confronto dei rispettivi ricordi si rendono conto d’aver trascorso un’esperienza di sensazioni in comune. Entrambi si ricordano di Bernardino e delle sue parole. Il cunicolo sotto il Duomo Ottavio e Cecchino si ritrovano nell’alloggio dell’uomo ad accendere candele, a ripetere formule antiche e ad invocare la gelida Layla. Appare il demone splendente, ai due prostrati al suolo nel cerchio di candele, accetta i loro omaggi, li prende per mano e li conduce ancora una volta sino alla larva di Bernardino, evanescente, avvolta da una nebbia bluastra. Il vecchio mago li riconosce e si rivolge loro con familiarità. “Dovete sapere che in un pilastro della Cattedrale è murata una statua dell’antica religione, di quel giovane pastore che fu amato dalla terribile Cibele, divinità degli Orientali. Il pastore Attis vi appare in atteggiamento di riposo, col berretto frigio in testa, inquadrato da un tempietto di sapore classico. Quella statua fu lasciata nello stesso luogo che da sempre occupava, nel tempio antico, affinché non si sconvolgessero le credenze della popolazione, ma anche perché essa costituisce come una porta d’accesso ad antichi misteri. Quando essa fosse rimossa, tutto potrebbe cambiare. Dal simulacro ha origine una scala segreta, che conduce nelle più profonde voragini della città. Laggiù, su tavole di pietra, sono incisi i destini della città di Pavia, delle sue istituzioni e dei suoi abitanti. Era scritto in antichi libri che tale scala dovesse rimanere murata per mille anni. Ebbene, figli miei – lasciate ch’io vi chiami così – i mille anni cadranno esattamente nel decimosettimo giorno dopo il Carnevale, il terzo venerdì della Quaresima dell’anno prossimo. Solo per due giorni sarà possibile visitare quei luoghi reconditi, un tempo riservati ai misteri degli adepti di Cibele. È forse l’occasione unica, irripetibile della vostra vita. Preparatevi dunque, e coglietela, se la vostra natura di uomini vi spinge a cotale impresa”. I due non hanno bisogno d’altro stimolo per la loro curiosità ormai sfrenata. Non si chiedono neppure a che cosa possano andare incontro, ma da quella notte in poi dedicano il loro tempo a studiare il modo di penetrare nella scala segreta. Non è facile individuare il pilastro col simulacro di Attis, per cercarvi una scala che penetrasse nelle viscere della terra. Benché sperino di vedere il pavimento aprirsi miracolosamente sotto i loro piedi, rimangono comunque sorpresi un venerdì, quando, presso un pilastro, scoprono che il pavimento si è aperto, lasciando un varco largo poco meno d’un braccio. Nel pertugio, tra i mattoni, si scorge un grosso blocco di marmo incorporato nel pilastro. Alla luce d’una candela, il blocco di marmo si rivela scolpito ed appare il volto d’un giovane imberbe, pensieroso, come descritto da Bernardino. I due sono combattuti tra mille tentazioni: entrare nel varco, rinunciare, avvisare altri che li possano aiutare... ma se poi li denunciassero? Come potrebbero spiegare perché si trovano lì in quel preciso momento? Ottavio penetra ad esplorare la cavità, mentre Cecchino rimane in un angolo della chiesa a “fare il palo”. Porta con sé un acciarino e un mazzetto di candele. S’infiltra a fatica in quel varco del pilastro e, alla luce della candela, vede di fronte a sé il volto spettrale d’un giovane, scolpito nel marmo, dallo strano copricapo. Sembra che voglia comunicargli qualcosa, ma che ne sia impedito da un’immobilità paralizzante. Sembra persino, al chiarore tremolante della candela, che accenni a muovere le labbra e il volto. Il ragazzo, con un brivido, e si cala nello stretto cunicolo, al di sotto del pavimento della chiesa. Si tratta d’una galleria costruita in mattoni e poco più larga d’un braccio. Il giovane capisce che gli conviene muoversi come un serpente e fare presa con in fianchi e con i piedi, alternativamente, sui due lati del percorso. La cosa si fa più complicata quando il cunicolo scende in maniera sensibile: è più facile procedere, ma Ottavio si chiede con angoscia come farà a ritornare. Scende, non sa quanto, e si trova nell’acqua corrente, che penetra attraverso le pareti di mattoni e gli fluisce intorno. Cerca di proteggere l’acciarino e l’esca, senza i quali non potrebbe vedere niente di ciò che l’antro gli riserva. Finalmente, a tastoni, riconosce che lo spazio si apre e che può appoggiare i piedi su un fondo, per rimanere quasi eretto. Accende una candela e vede che si trova in una camera dalle pareti e la volta di mattoni, totalmente prive di ornamenti. Il pavimento è coperto di resti d’animali, forse bovini, vittime d’antichi sacrifici. Al centro, su un rozzo altare sul quale si condensa uno spesso strato di viscida umidità, sono depositate alcune tavole scolpite, incise con strani segni. Nel chiarore delle candele, Ottavio cerca d’annotarsi ciò che gli pare di comprendere dei disegni e dei geroglifici di quelle tavole, su un quadernetto che si è portato addosso. Ritorna infine in superficie. Deve arrampicarsi su per lo stretto cunicolo fangoso, sforzando coi gomiti contro le pareti. La camera sotterranea si trova a poco più di dieci braccia di profondità, ma il percorso è lungo almeno trenta braccia e ripercorrerlo in salita costa al giovane parecchia fatica. Cecchino esulta di gioia, quando vede riapparire dal pilastro la testa del giovane, grondante acqua e sudore. Poi emerge l’intera figura di Ottavio, più sporco di un minatore, con i vestiti incredibilmente inzuppati di sangue, come se un toro fosse stato sgozzato sopra di lui. Devono allontanarsi di soppiatto, come se avessero commesso qualche crimine orrendo, per non farsi notare dai fedeli o da qualche passante occasionale, e corrono a ripulirsi nel misero alloggio. La fine di Cecchino Esplode finalmente la primavera, anche in questa terra di nebbie. Rovi ed ortiche ricoprono di spine e di nuove foglie verdi le parti abbandonate delle collinette che si affacciano ai bastioni orientali della città e mascherano le tane delle volpi e dei conigli, ma anche ogni traccia di accesso ai segreti sotterranei di epoche passate. La salute di Cecchino peggiora. Una tosse violenta lo scuote e le sue notti sono tormentate da frequenti risvegli. Incontra sempre maggiori difficoltà a respirare. Nelle notti febbricitanti, popolate da incubi, vede roghi su roghi: bruciano indistintamente i documenti e le chiese degli Ariani, streghe e stregoni su roghi di fortuna, con tutte le loro biblioteche di grimori e di testi proibiti, gli atti della Corte longobarda, gli archivi dei Càtari e quelli dei Templari. Secoli di storia passano nel regno della dannazione perpetua. Cecchino sente nella gola e nel petto il bruciore di tanti roghi, di tanto fumo, e si sveglia. Nessuna posizione riesce a tranquillizzarlo per più di una mezz’ora, e si risveglia madido di sudore, col bisogno di bere. La mattina è sempre più stanco di quando si è messo a letto. Ottavio va spesso a rendergli visita. La sola compagnia del giovane sembra alleviare un poco le sofferenze dell’uomo. È stato il solo amico dei suoi ultimi anni e lo considera ormai come un figlio, o piuttosto come un fratello più giovane, col quale ha percorso molte strade. Le sofferenze di Cecchino durano a lungo. Trascorre una terribile estate, afosa e umida. La tosse ormai quasi continua e le convulsioni notturne l’hanno ridotto ad una larva. Inizia il mese di settembre, l’aria si rinfresca e, dopo una forte pioggia, vi sono alcune giornate di sole radioso. Cecchino trascorre finalmente una giornata tranquilla, ripensando a tutti gli strani eventi che, con la memoria ormai provata per la malattia, non sa ricordare se siano stati realmente vissuti o solo incubi d’una mente febbricitante. Le visite d’Ottavio si fanno più frequenti, perché dall’aspetto del vecchio amico si rende conto della gravità del momento. Un giorno, seduto vicino al capezzale del vecchio, rompe la consegna di silenzio che insieme si sono data e insieme ricordano gli incontri con Bernardino e le scoperte incredibili che hanno avuto modo di compiere. Se erano stati sogni, li avevano percorsi entrambi nello stesso modo. Cecchino si spense nella notte. Gli pare che ancora una volta Layla “el aziza” gli appaia, con gli occhi che sembrano fanali gialli, come quelli d’un gatto – o d’una volpe – nel buio. Il demone della notte lo prende per mano, nel più totale silenzio, e lo con- duce verso quelle porte che gli aveva già fatto attraversare, per prendere contatto col fantasma dello zio. Questa volta, però, per Cecchino non c’è ritorno. Il suo giovane amico Ottavio non saprà trattenere le lacrime, al momento di calarlo nella terra. 14 – NELLE PALUDI DEL SIGMÀR Notte di luna piena. Dal cielo limpido, sembra che tutte le stelle vogliano assistere. Il terreno va coprendosi d’una crosta di gelo, sopra i resti delle scarse nevicate. La veggente brasiliana, Josina Maria do Carmo Guimarães, abita a circa sei chilometri da Pavia, in una cascina che era un antico monastero, dall’aria tetra, che si affaccia dall’alto sulla valle del Ticino. Corre voce che in certe notti, quando la luna è piena ed il cielo sereno, mille fuochi si muovano intorno ai muri dell’edificio come in una danza macabra e una palla di fuoco rutilante esca da una finestra del monastero. Sul davanzale si vedono le bruciature. La palla rotea nell’aria della notte, terrorizza i contadini e penetra in un vallone. Qui la tradizione racconta che due guerrieri longobardi si siano affrontati in duello, molti secoli fa. In un sotterraneo, in una camera segreta di quel monastero, deve trovarsi una chiave fondamentale per l’interpretazione dei destini della città di Pavia. Viviana ha l’appuntamento con Josina per le sette di sera, col buio fitto. Lungo la strada, ammira il paesaggio d’argento illuminato dalla luna e pensa che è una notte adatta agli incantesimi. Josina è una donna minuta dalla pelle scura, dall’età indefinibile. Dopo aver bevuto un caffé denso e nerastro, si fa raccontare nei dettagli da Viviana i fatti inspiegabili avvenuti negli ultimi mesi. Il Cavagna era un misterioso prete del Trecento, forse un po’ pazzo, autore di pagine fitte di misteri, per le quali Viviana sta cercando di trovare una spiegazione. Nelle sue pergamene, egli parla della necessità di recarsi in due luoghi, per svelare i misteri maggiori della città di Pavia. Quando esamina quelle antiche pergamene, Viviana si sente trasportata fuori del tempo, della realtà concreta, e comincia a ragionare nel mondo dei sogni e delle fantasie. Le riappare prepotente, di tanto in tanto, uno dei disegni del Cavagna che più l’aveva colpita: l’Europa trasformata nella Grande Meretrice, col seno purulento eroso da una schifosa malattia e il sesso aperto, offerto alle voglie del gran caprone. Il vecchio prete cercava di rimuovere l’ossessione, di carattere sessuale, ma quell’immagine s’era fissata nella memoria e corrispondeva regolarmente ai luoghi del suo vissuto giovanile. La Grande Meretrice, come la Grande Bestia, ossessionava i sogni del Cavagna. Josina scruta col suo sguardo penetrante gli appunti che Viviana ha portato, per cercarvi un’indicazione, una traccia utile al viaggio che la giovane chiede di percorrere: “Acho que você terá que viajar muito, e demais por baixo da terra: credo che dovrai muoverti molto, e sottoterra”. La veggente tace, immersa in profonda meditazione, gli occhi sbarrati che fissano il nulla. In quegli occhi Viviana comincia a vedere il riflesso di strane ombre in movimento: ombre indistinte di mondi lontani, evocati con la sola forza del pensiero. Trascorre un tempo che sembra interminabile. Con voce roca, che non è la sua, la veggente chiede un bicchiere d’acqua. Beve, si alza dalla sedia lentamente, gira diverse volte intorno al tavolo rotondo e a Viviana, intona una nenia lenta e cadenzata, dalle parole incomprensibili. Viviana conta i giri: cinque, sette, nove... Dopo il lungo girotondo, condotto con passo strascicato e accompagnato dalla stessa monotona nenia, Josina apre un cassetto per trarne alcune penne di gallo nero, un gran vassoio di legno e sassolini di vari colori. Rimescola con cura gli oggetti, li fa stringere in mano a Viviana e quindi li lancia a più riprese sul piatto, osservandone la ricaduta e le forme in cui si compongono. Borbotta tra sé e sé delle parole incomprensibili. Poi esce dalla stanza. Ritorna con alcuni candelieri e con bracieri in cui ardono profumi, che dispone su mobili, in giro alla stanza. Spegne la luce elettrica. Il fumo dei bracieri forma una cupola su tutta la stanza e scende lentamente sul tavolo, filtrando e colorando la luce prodotta dalle candele. Josina borbotta strane formule con le labbra socchiuse. La luce dei candelieri ha un rapido cambiamento, una serie di vibrazioni. Si odono colpi, dapprima staccati e poi in sequenza. Viviana pensa che ci sia qualcuno nella stanza accanto. Ben presto il rumore diviene assordante, come un rullo di tamburi che riempie l’atmosfera e penetra nel cervello. La veggente rovescia la testa all’indietro e comincia a scuotersi, singhiozzando o danzando, non si capisce bene. Le escono dalla gola suoni inarticolati e gli occhi roteano in tutte le direzioni. Di colpo, ogni rumore cessa e la fiamma delle candele riprende una luce stabile. Josina rimane con la testa rovesciata all’indietro. Alcuni minuti – o forse pochi secondi – di silenzio totale, poi una voce, che non è la sua ma esce dalla sua bocca, comincia a parlare. Viviana intraprende con la voce una lunga conversazione. L’entità si presenta come lo spirito che ossessiona la ragazza ed è in grado di ripetere diversi dettagli delle sue descrizioni, sui quali la giovane non si era soffermata con Josina. Spiega che, a suo vedere, tutto quanto è accaduto negli ultimi mesi deve essere concatenato e far parte di un unico disegno misterioso. La voce si spegne, mentre il rullio dei tamburi prosegue in sottofondo e la veggente è scossa tutta da un fremito. Si alza dalla sedia e comincia a danzare una sarabanda, seguendo il ritmo delle percussioni. Tutto il suo corpo si scuote e un filo di bava le scende dall’angolo della bocca. Il rullio ha un crescendo e Josina crolla esanime sul pavimento. Nel silenzio, una voce esce dalla gola di Josina. Una voce maschile, che sembra venire dal profondo, come gorgogliante nell’acqua. Viviana riconosce l’espressione d’un amico lontano, che sta in Africa. Come se parlasse da una profondità abissale e avesse difficoltà a scandire le parole, è di una lentezza esasperante, ma non ammette pause o domande. Parla a lungo, come se tenesse una lezione. Racconta che legami di magia astrale si stabilirono, in tempi assai lontani, tra Pavia, allora centro del Regno, e le diverse direzioni del mondo: oriente, meridione e occidente. Solo verso il Nord non esisteva alcun canale di comunicazione. Ora occorre che i canali magici vengano di nuovo collegati. La chiave sta proprio lì sotto, a pochi metri di profondità. Occorre rileggere le carte, per trovare un indizio. “Se incontrerai dei serpenti, non temere: essi indicano la mia presenza e la protezione della grande sirena che vive nelle acque sacre. Abbi fede, puoi affrontarli e vincerli, ma non perdere altro tempo”. La figura evocata scompare, le candele si spengono e Josina rimane a terra, come morta. Viviana riesce a vincere lo spavento, corre a riaccendere la luce ed è obbligata a prendere una rapida decisione. La brasiliana non dà segni di vita. Le parole dell’entità appena scomparsa risuonano ancora nelle orecchie della ragazza: “cerca subito... non avrai altro tempo...” Ritorniamo ad un lontano giorno del Trecento, quando il Cavagna parte da Pavia, lungo la strada che, al di là dell’antico ponte quasi cadente, punta verso le colline. Attraversa i miasmi esalanti dallo stagno dell’Acqua morta, detta anche Acqua negra. Uno sguardo indietro, verso la città irta di torri che troneggia contro il cielo plumbeo. Le Basiliche dai tetti di rame sembrano aver assorbito tutta l’umidità dell’autunno, il verderame delle loro coperture ricorda il muschio dei sottoboschi. La strada prosegue su un arginello, in mezzo a terre strappate alle paludi. Quei territori sono stati chiamati con voce longobarda Sigmàr, un nome che i chierici amavano latinizzare in Terra arsa. Il significato è il medesimo: pantani prosciugati, vinti dal faticoso lavoro degli uomini grazie alle conoscenze tecniche accumulate e tramandate per generazioni e grazie all’uso delle ruote ad acqua. Nelle scorse settimane le acque del Ticino si sono gonfiate e le campagne sono state allagate, per salvare la città e il suo vecchio ponte dalla furia della piena. È consuetudine, in simili casi, fare in modo che l’eccesso di portata del fiume si sfoghi nei vasti territori del triangolo della sua confluenza col Po, e per qualche giorno si ricostituiscono le antiche paludi che con tanta fatica sono state messe a coltura dal secolare lavoro di monaci. Ai lati del cammino è tutta una distesa acquitrinosa. L’acqua non ha più la forza della piena montante, ma ristagna o rifluisce lenta, in mille vortici, tra i rami bassi delle piante. Il cielo si riflette plumbeo nelle pigre onde e negli sciabordii causati da qualche animale acquatico che si tuffa: una lontra, o forse un ratto. Il grigiore e l’umidità sembrano permeare tutto, penetrano nelle ossa. Dopo una svolta, all’improvviso, anche la strada fangosa scompare, come inghiottita dalle acque. Il Cavagna sente una stretta al cuore: bisogna continuare, a tutti i costi. L’ora già avanzata non permetterebbe di ritornare sui propri passi. Si rimbocca le falde dell’abito ed avanza deciso. Esausto, il giovane cade due volte nell’acqua. È fradicio, ma riparte con la forza della disperazione. Comincia a dubitare persino d’andare nella direzione giusta, perso nella grande palude, tra i rami neri degli arbusti che si contorcono in forme strane, quasi a volerlo ghermire. La luce va diminuendo sensibilmente. Procede lentamente, infreddolito, tra le nebbie che si levano. I vapori si srotolano come fasce di lebbrosi, fanno intuire gli antichi fantasmi del tempo, della putrefazione, evocano antiche angosce, radicate profondamente nel cuore degli uomini sin dalla notte dei tempi. Ogni più lieve rumore, ogni ombra, sembrano nemici dell’uomo e della vita che, nonostante tutto, continua nella palude, nel buio, in mezzo alle acque. L’acqua e la putrefazione sono vita, ma sembrano la più terribile delle minacce. Il Cavagna sente pesare, come un lugubre presagio, il timore di non riuscire a vincere l’immensità della palude. Stormi di pipistrelli che volteggiano sulle acque per saziarsi degli insetti della sera non fanno che accrescere la sensazione d’incubo. Il suono d’una campanella, riflesso dall’acqua, annuncia l’ora dell’Ave Maria dal convento non lontano. Le fa prontamente eco un coro di latrati, che si amplificano, riflessi dalle acque, e che fanno volar via tutt’intorno gli uccelli palustri, nel raggio di qualche miglio. Diversi racconti parlano d’entità soprannaturali, buone o malvagie, che si aggirano per le acque del Sigmàr nelle notti buie, tra i miasmi che esalano dalla putrefazione vegetale e dalla corruzione d’innumerevoli carogne di animali, rimasti intrappolati nelle paludi senza scampo. Un’antica leggenda descrive l’animale più terribile di quelle paludi come un enorme gallo nero, che si aggirava intorno alle case nel buio delle notti senza luna per portarsi via i bambini imprudenti o troppo capricciosi. Così i figli dei contadini, che non temevano né bisce né serpenti e che raramente avrebbero potuto incontrare un lupo, a meno di addentrarsi nel folto dei boschi, avevano tuttavia un sacro terrore del gallo nero che poteva aggirarsi per le campagne in qualsiasi momento dopo il tramonto. Il Cavagna arriva ad un passaggio sotterraneo, unica via d’accesso alla parte segreta del monastero, che una serie di cedimenti hanno reso impraticabile. Ai suoi occhi, che vanno abituandosi all’oscurità, appaiono sette nicchie coperte da strani simboli. Gli sembrano antichissimi simboli di magia: riconosce una civetta, uno strumento astronomico simile a certe navette di bronzo usate dai naviganti per fare il punto, una sirena a due code, una figura barbuta con due volti, né uomo né donna. Con precauzione e con un po’ di ribrezzo, si mette a frugare tra le ragnatele e la muffa. Sei mummie stanno nelle nicchie, mentre la settima appare vuota. La settima mummia è stata forse rubata e trasportata altrove. I sette sono personaggi antichissimi, forse i sette mitici re posti alle origini della città di Pavia, antenati di tutti gli abitanti della zona. La loro esistenza si perde nella notte dei tempi. Il Cavagna rimane in quel sotterraneo due giorni e due notti, senza alcuna nozione dello scorrere del tempo, prima di trovare una via d’uscita. Infine, attraverso un cunicolo sotterraneo, riesce a risalire al monastero di Santa Maria, che s’affaccia al ciglio della valle. Lì – da tempo immemorabile – gli antichi praticavano riti di sacrifici umani e poi, all’epoca dei pellegrinaggi, i poveri fratelli conversi del Tempio stabilirono un posto d’osservazione. Nel leggere quelle righe, Viviana ha un’illuminazione, un sobbalzo: la via indicata risale proprio in quella cascina, forse in quella stessa stanza. Josina giace ancora sul pavimento, esanime. Viviana sposta freneticamente i mobili addossati alle pareti. Ci sono ragnatele e sporcizia dappertutto, l’intonaco delle parti basse dei muri si screpola in larghe chiazze di salnitro. Finalmente, dopo avere sconvolto tutta la stanza, si accorge che in un angolo non il muro è dipinto di una vecchia mano di calce, ma una specie di sportello di legno, che dà segno di non essere stato rimosso da tantissimo tempo. Con gran fatica riesce a spostarlo e ad aprire una fessura, dalla quale emana un acre sentore di muffa. In quel momento Josina si ridesta. Messa al corrente di quanto è avvenuto dal momento della sua transe in poi, la veggente non ha esitazioni. Afferma che tocca a Viviana, da sola, scendere per affrontare il mistero. Le cose si sono messe in modo tale, quella sera, da indicare un più che probabile successo. Lei cercherà d’aiutarla restando lì, per frenare le forze maligne che volessero ostacolare l’impresa. La veggente fa indossare a Viviana una specie di tuta, che le consenta di non sporcarsi troppo, e le mette a tracolla uno zainetto con poche cose: un po’ di carta, una penna, e per precauzione (ma a che cosa potrebbero servire?) anche una boccetta di profumo e dei cerotti, poi la ragazza s’introduce a fatica nello stretto e sporco cunicolo. Dopo pochi passi, si rende conto che la luce della stanza non le può essere d’alcun aiuto. Per fortuna ha con sé anche una torcia elettrica, altrimenti nell’umidità del sottosuolo le speranze di avanzare sarebbero molto poche. Raccoglie tutto il suo coraggio, fa un ultimo cenno di saluto a Josina e prosegue. Buio, oscurità. Poi una fila di ripidi gradini, consunti dal tempo, scende viscida e stretta nel buio fitto. Si fa coraggio e prosegue. Avanza con cautela appoggiandosi alle pareti con le mani, per non ruzzolare e non battere la testa. Si sente addosso la terra, che s’incolla alle mani, alla tuta, ai capelli. La discesa sembra non finire mai. Il piede destro affonda dolcemente in una specie di fango, o muschio morbido, e Viviana si rende conto che inizia a camminare in piano. L’umidità è fastidiosissima, come l’odor di muffa. Le mani, il naso e le sopracciglia si impigliano in ragnatele, che sembrano esser lì da un’eternità. Di tanto in tanto, una delle mani perde il contatto con la parete di terra, che gronda umidità e salnitro. Corridoi si aprono a destra e a sinistra. Vede cardini e resti di vecchie porte, anelli per catene ancora assicurati ai muri, e ancora gradini, che scendono o che salgono. Non si rende più conto in che direzione stia andando, a che profondità possa essere. Attraversa un rigagnolo d’acqua piuttosto rapido, con un letto di mattoni e di pietre. Forse uno dei canali d’età romana. Certamente quella rete di passaggi sotterranei si estendeva un tempo sino alla città. Gli assedi e le vicende politiche avevano consigliato da tempo i pavesi a garantirsi vie di comunicazione e di salvezza al di fuori da sguardi indiscreti. Viviana è stretta dall’angoscia di potersi perdere. Rallenta il passo, tasta attentamente i muri laterali ed il terreno davanti a sé, esplora col braccio alzato l’altezza della volta, per non battere la testa o ricevere qualche cosa negli occhi. Quando meno se l’aspetta, le sembra d’intravedere un lontano chiarore. Dopo un buon minuto di adattamento, lo sguardo le permette di utilizzare quel poco di luce che penetra per rendersi conto di dove sia. È un pozzo rotondo, profondo sì e no cinque metri. Circa a metà altezza del pozzo, un passaggio dà accesso a dei gradini che salgono probabilmente sino in superficie. La debole luce filtra da un tavolato d’assi che chiudono la bocca del pozzo. Con gran fatica, approfittando delle irregolarità della parete e di qualche chiodo che vi è rimasto infisso, riesce ad issarsi sino ad aggrapparsi ai gradini dell’apertura laterale. Entra così nella sala delle sette nicchie. Uno strano effetto di luce, dovuto al riflesso della luna piena, penetra da qualche parte e trae mille bagliori dall’umidità che cola sulle pareti dell’antro. Sul muro di fondo si allineano sette piccole arcate, come il Cavagna le aveva descritte, sei secoli prima: sei sono occupate da forme fasciate, dal vago aspetto umano, poste in piedi e agganciate al muro di fondo. La settima nicchia è vuota. La muffa e le ragnatele coprono tutto. Con un poco di ribrezzo, Viviana si accinge a frugare le mummie per cercare eventuali documenti. L’umidità ha decomposto le mummie e le bende sono ricoperte di muffe e d’incrostazioni dall’aspetto indefinibile. Le sembra di cogliere su quei vecchi corpi rinsecchiti un brulichio d’insetti, di vermi e d’altri piccoli animali. Due o tre pipistrelli, svegliati dal loro letargo, accennano qualche movimento. Il fruscio e i lievi squittii soffocati accrescono il disagio di Viviana e le fanno scendere un brivido giù per la schiena. Le prime due mummie non hanno nulla tra le mani. Sarà stato il Cavagna o qualcun altro, ma se recavano qualche messaggio è stato asportato da molto tempo. Nessuna collana, nessun amuleto o altro segno di riconoscimento. La terza mummia da sinistra è quella indicata dal Cavagna. Il teschio è rotolato via e al suo posto, ora, è acciambellata una biscia in letargo. Sul petto, la mummia reca un sigillo con l’immagine misteriosa del leone a sei zampe, coronato. I piedi e il volto del leone sembrano quelli di un uomo e un gran paio di ali completa l’immagine mostruosa della Bestia. Tra le mani ossute, pare a Viviana di scorgere un rotolo di pergamena. La quarta e la quinta mummia recano nelle loro mani una scodella di legno, putrefatta e corrosa dai secoli, ed una coppa di vetro, della medesima forma della scodella. La sesta ha le mani vuote ed è in un tale stato di decomposizione da confondersi con la terra della parete. Viviana s’accosta lentamente alla terza mummia, con la sensazione che occhi maligni la stiano spiando, dalle pareti umide coperte di vegetazione putrefatta. Teme che la biscia le voglia saltare addosso, nonostante la stagione del letargo. Giunta al limite della pazienza, strappa con un rapido gesto il rotolo dalle mani dello scheletro e si lancia sulla via del ritorno. Emerge nella stanza della veggente, col rotolo stretto tra le mani. Josina l’attendeva tra il fumo degli incensi e l’accoglie senza pronunciare una parola, l’aiuta a ripulirsi e le offre una bevanda calda. Quando la ragazza è in grado di parlare, le lascia raccontare la sua avventura e osserva con calma il rotolo. Solo allora apre bocca: “Chega por esta noite, a hora não dá mais. Basta per stanotte, l’ora non è più propizia. Conserva con cura il tuo rotolo e ritorna qui esattamente tra quindici sere, con la luna calante. Lo leggeremo insieme”. In quel momento, nel cuore dell’Africa, vicino alla palude degli elefanti, giace un uomo che sembra privo di vita. Un’ora prima è stato assalito da convulsioni febbrili e ha cominciato a scuotersi, come fosse stato avvelenato. Gli occhi sbarrati all’indietro, si è quasi lanciato nel fuoco che arde tra le capanne. A stento tre uomini sono riusciti a trattenerlo. Poi l’uomo si è accasciato e ha pronunciato strane parole in una lingua che i presenti non capiscono, come in un lungo colloquio con una presenza invisibile. Nella transe, è parso che l’uomo si assentasse per un viaggio e che spendesse molte delle sue energie, tanto da rimanerne stremato. Ha visto da vicino la nera Donna del Mistero, è arrivato sin quasi a toccarla. Si è sentito preso da una gran pace e da una grande sicurezza. Per un attimo gli è sembrato di aver capito tutto. Tutto: “che cosa”? “Tutto” non si può dire, si può solo capire, cogliere in un attimo. Ma quell’attimo gli è sfuggito. Mentre sta per toccare la Donna del Mistero, questa gli sorride e gli mormora soavemente: “No, non è ancora il momento”. La vede allontanarsi rapidamente, mentre un brivido fortissimo gli fa vibrare la schiena e un vortice nero lo risucchia, al di là d’ogni bene e d’ogni male. Colui che custodisce la saggezza della tribù ora gli si avvicina, gli rovescia le palpebre, gli pone alcune erbe sotto il naso e fa un cenno ai tamburi, perché tacciano: “Il nostro amico bianco ha vinto la prova ed è tornato a noi. Lasciamolo riposare”. Le fiamme vanno spegnendosi. Un giovane pitone passa lentamente sopra il corpo dell’uomo esanime, come volesse accarezzarlo, e gli rimane vicino a proteggerlo. Ora il suo sonno è tranquillo, gli pare d’andare mano nella mano con Viviana, attraverso tunnel sotterranei che d’un tratto si riempiono di luce e di fiori. Le gallerie vanno a sboccare su una spiaggia assolata, lambita dalle onde dell’Oceano. Le palme, i baobab, i cespugli. La terra rossa, al di là della sabbia, si rompe in mille canali percorsi dalle acque fresche di qualche sorgente. Corrono insieme sulla sabbia umida, tra i granchi e le alghe depositate dalla risacca. Un volto, misterioso e potente, lo ossessionerà però, da stanotte, per tutta la vita. Sa di conoscere quel volto, sa che un giorno la ritroverà, ma non sa né dove né quando. Non sarà lui a scegliere il momento. Ora non ci sono più mostri, né prove da affrontare. L’uomo ha la certezza che la grande prova sia stata superata. 15 – LA MOSCA Luglio 1974 – Il seme Un globo di luce, come i fuochi greci d’una volta… poco prima di mezzanotte, con un sibilo soffocato, un lampo attraversò il cielo del quartiere Vallone. Sembrava un fuoco d’artificio partito male. Qualcuno era fuori casa, oppure sui balconi, a cercare un po’ di refrigerio dalla calura estiva. Chi alzò gli occhi vide una cascata di luminarie. La luce principale si avvicinò, s’ingrandì, scomparve dietro un palazzo, come se fosse caduta qualche chilometro più ad est. Un giovane e solerte agente municipale balzò in auto e corse a vedere. Uscì dall’abitato e si allontanò tra i campi. Arrivò alla cascina Maestà. Sembrava tutto buio quando all’improvviso, proprio dietro la stalla abbandonata, rimase abbagliato da una vivida luce e vide una specie di grande zuccotto arancione, che con un lampo s’innalzava nel cielo. Il giovane rimase per un attimo attonito, poi ritornò in città a precipizio, ad avvertire i Carabinieri. Il campo dietro la cascina puzzava di bruciato. Le spighe di grano erano abbrustolite in tre lunghe strisce, che si diramavano da una chiazza centrale verso i vertici d’un triangolo equilatero, e fumavano ancora. Questo accadeva nella città di Pavia, nell’estate del 1974. Dalle cronache dei giornali sappiamo che i Carabinieri, la mattina dopo, fecero radere l’erba ed arare il campo del misterioso atterraggio: segno che qualcosa di strano c’era, in quelle bruciature. Per qualche mese, tutti a Pavia parlarono dell’UFO del quartiere Vallone. Ho conservato per anni i ritagli dei giornali relativi a quegli eventi. Durante quell’estate si registrarono diversi avvistamenti d’oggetti volanti, sulle colline dell’Oltrepò: “si vedevano le luci”… ma quella, si sa, è terra di vino e d’assenzio… Questo invece – a quanto pare – fu l’unico evento che interessasse direttamente la città. Mancò veramente poco perché non fosse un contatto diretto, di quelli che si chiamano “di terzo tipo”. Se ne parlò per tutta l’estate, molti continuarono a guardare con attenzione il cielo. Il giovane agente municipale rimase a lungo al centro dell’attenzione dei giornalisti e delle chiacchiere nei bar. In seguito, gli amici cominciarono a burlarsi di lui, come d’un visionario. Certo è che a Pavia non si sono più ripetuti eventi tanto importanti. 1988–1989 – Il virus Erano passati molti anni dall’atterraggio dell’UFO presso la cascina Maestà. Quattordici anni, per la precisione. Nell’ombelico della città, la millenaria Torre Civica si ergeva ancora maestosa al fianco del Duomo, a ricordare l’antica grandezza del libero Comune. La sua altezza era stata superata da quella della gigantesca cupola, progettata nel Cinquecento ma voluta e realizzata solo dopo la metà dell’Ottocento. Un giorno, proprio durante l’ora del passeggio, la vecchia torre diede qualche segno di stanchezza: frammenti di pietra e di mattoni caddero dal loggiato superiore, da una quarantina di metri d’altezza. Qualcosa stava lavorando, nelle viscere della torre. Lunghe crepe serpentine andavano formandosi, nella sua materia. Ramificazioni che somigliavano al percorso d’un fulmine nell’aria elettrizzata. Era come se un essere estraneo, un virus parassita, stesse prendendo possesso del corpo millenario. Il segnale d’allarme, purtroppo, non fu raccolto. Circa un anno dopo la caduta dei frammenti, in una mattina di febbraio, il diffondersi dell’infezione provocò il collasso dell’intera torre. Un boato di tuono, una nuvola rossa coprì il cielo cittadino. Quattro persone rimasero uccise sotto le macerie del monumento caduto. Anche il Duomo fu scosso, leggermente sbocconcellato nella facciata, danneggiato nei resti dell’antica Cattedrale di Santo Stefano, che s’incastravano ancora sull’angolo nordovest, proprio dietro la torre… Così lo stesso Duomo è rimasto infettato dal misterioso virus. Le cause del collasso della torre sono tutte da accertare. Si aprì un’inchiesta che durò anni e non risolse tutti i dubbi. La colpa principale fu attribuita ai costruttori medievali, che facevano torri capaci di durare “soltanto” un migliaio d’anni… come se un qualsiasi condominio, di quelli costruiti oggi, fosse capace di vivere… non dico la metà, ma neppure la quarta parte di quel lasso di tempo! Nessuno, nella ridda dei tecnici delle costruzioni che si affollò a monitorare, diagnosticare, suggerire cure, notò un piccolo passaggio, una sorta di cunicolo che si apriva dietro un orifizio, simile al covo d’un formicaleone, nelle murature superstiti del Duomo vecchio, proprio in adiacenza alla Torre. Dietro una fitta ragnatela, un attento indagatore avrebbe potuto trovare un flaccido uovo giallastro, privo di guscio, bisognoso di protezione, deposto dall’essere che per quindici anni aveva preso alloggio nella Torre e s’era nutrito delle residue energie vitali dell’antica città. 2001 – La cupola L’accesso del pubblico al Duomo di Pavia era vietato da anni. Ufficialmente, si dichiarava che erano in corso importanti lavori di consolidamento della cupola e dei suoi sostegni. In realtà, come si usa per certi malati terminali, le prognosi erano sempre vaghe e a mezza bocca: nessuno sapeva veramente se, quando né come la Cattedrale potesse essere riaperta. Nel frattempo la Fabbrica del Duomo era divenuta – insieme ai progetti del nuovo Ospedale – la principale fonte di finanziamenti a lavori pubblici… ragione per cui si sarebbe potuta prevedere una durata pressoché infinita dei cantieri in corso. In verità, la cupola stessa era nata male e si era rotta in due subito dopo la costruzione: chi non ha visto quella gran lesione che la percorre dal basso in alto, verso sudest? Così, già alla fine dell’Ottocento si era dovuto chiudere il Duomo, per ben sette anni. La nuova chiusura fu programmata per almeno un decennio. Cominciarono a scavare, per riempire molte delle cripte segrete che percorrevano il sottosuolo dell’antico santuario (un tempo dedicato al culto di Cibele, severa Madre divina). Su grandi massicci di fondazione, come stampelle colossali, furono eretti piloni metallici per reggere il guscio della cupola infranta. I vecchi pilastri dovevano essere curati, ad uno ad uno, con piastrine al titanio e malte speciali, con un’attenta opera degna più d’un dentista che d’un costruttore. Infine… si sperava che – un giorno o l’altro – tutto questo lavoro potesse rendere il Duomo rinnovato alla città. Ottobre 2004 – La nascita Cominciò ad aprirsi una crepa nel guscio della cupola: una fessura serpeggiante, dapprima sottile e crepitante, che procedeva e si allargava dal basso verso l’alto. Brandelli di muratura si distaccarono e caddero, ma le due parti del guscio rimasero quasi intatte, mentre si aprivano come le valve di un’enorme conchiglia… tra le quali affondava la lanterna sommitale, mentre compariva, come una crisalide, un’enorme massa filamentosa avvolta da muco giallastro. Le due parti del guscio si sfaldarono e rovinarono sui tetti delle case circostanti, mentre ai raggi del sole il neonato essere dispiegava le ali per asciugarle. Era un enorme moscone grigio, di proporzioni tali che un suo solo occhio aveva le dimensioni del cupolino che copriva la lanterna. Il gigantesco insetto volse un ampio sguardo sulla “sua” città, provò il primo battito d’ali e spiccò il volo. Un soffio di vento scosse i tetti, poi un’intensa vibrazione, cento volte superiore al motore d’un elicottero, fece volare via le tegole e abbatté le antenne. Le torri furono scosse, l’ombra della mosca passò rapida sopra il centro di Pavia. Era come se si realizzasse finalmente un oscuro presagio, atteso e covato da oltre trent’anni. Era mezzogiorno, ma il cielo s’intorbidò come se una spessa coltre di polvere ammorbasse l’aria. Quella notte, il latte e la panna s’inacidirono, anche se erano conservati nei frigoriferi. Non si videro più voli d’uccelli sopra la città e dappertutto aleggiava uno strano fetore, come da un deposito di carogne, o come se nei campi avessero sparso una doppia dose di prodotti diserbanti. Nessuno sapeva dove avesse preso dimora il mostruoso insetto, nessuno lo vide più per lungo tempo. Gli animali domestici, però, scomparivano e non venivano più ritrovati. Gatti, cani, tutto ciò che non era chiuso in gabbia. I canarini non cantavano più e deperivano a vista d’occhio, colti da inspiegabili angosce. Persino i ratti e gli scarafaggi avevano disertato le cantine ed i cunicoli fognari. Giungevano le prime nebbie autunnali. L’aria non era più limpida: era come insozzata da una nebbia giallastra, un fetido aerosol, goccioline nebulizzate d’uno strano liquame. Si viveva con l’oppressione di non respirare liberamente e nulla rimaneva candido per più di qualche ora: né i panni stesi, né le pagine dei libri o i fogli dei quaderni di scuola. Un diffuso odore oleoso e irritante pervadeva l’atmosfera. Era come se fossero ritornati i giorni del grande sviluppo industriale, quando acidi nebulizzati e polveri di fonderia inquinavano l’aria in modo permanente. 2005 – Le elezioni del Sindaco Questo è un anno di campagna elettorale. All’interno degli opposti schieramenti divampa la lotta per le candidature eccellenti. Trattative segrete s’intessono, tra le segreterie di partito ed i circoli più esclusivi della città: “quelli che contano” fanno i loro giochi. Non è certo un mistero, ed ogni mattina, al bar, i curiosi sfogliano il giornale alla ricerca di novità. Il giorno prima della chiusura delle liste, avviene un inatteso colpo di scena: dallo schieramento favorito emerge un candidato sindaco “outsider”, un noto professionista che non riscuote grandi simpatie nell’opinione pubblica, ma ben gradito ai cosiddetti “poteri forti” della città. Il colpo è duro, tanto per gli avversari come per gli stessi alleati, che rimangono spiazzati. Il candidato già designato, “sicuro” sino al giorno prima, si ritira sull’Aventino, cercando di mostrarsi indifferente, ma in realtà giura odio eterno agli autori del ribaltone. Il segretario di un partito dello schieramento rassegna le proprie dimissioni, mentre altri, più tattici e opportunisti, si adattano prontamente alla nuova situazione. La campagna elettorale si svolge così in un disordine apparentemente totale. Tutti i giochi appaiono possibili, tutti i pronostici sembrano ribaltarsi. Alla fine il candidato outsider, espresso in extremis dalla lista favorita, riesce a vincere per pochissimi voti. Non faremo il suo nome, per motivi di riservatezza; lo chiameremo – come tutta la città lo ha soprannominato – “la Mosca”. Il soprannome deriva dal suo aspetto, sempre un po’ sudicio, e dal suo modo di fare, spesso insistente, fastidioso per gli interlocutori. Ora tutti si chiedono: la Mosca sarà l’Antisindaco, colui che ribalterà i modi di vita ormai consolidati della città di Pavia, o la spunterà l’eterno genius loci, che ha fatto della sonnolenta cittadina padana il “ventre molle” di tutto l’emisfero boreale, il luogo in cui nulla cambia e nulla di buono si crea, in nome della leggendaria “maledizione di San Siro”, pronunciata dal primo vescovo e radicata nei destini della città? Una leggenda di cui tutti parlano, a Pavia, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare… Dopo aver ripercorso le vicende degli ultimi trent’anni, per cercare di riallacciare un filo di continuità, dobbiamo porci un’altra questione, che potrebbe comportare gravi conseguenze: quali sono i rapporti della Mosca col gran moscone grigio, l’essere spaventoso nato dall’uovo spaziale, che si è rintanato da qualche parte, tra i miasmi delle risaie o nel sottosuolo di Pavia? Riti misteriosi Il nuovo sindaco si è circondato di strani collaboratori. Tre uomini con gli occhiali scuri lo seguono costantemente, in ogni spostamento, e il suo consulente principale è un uomo misterioso, dalla pelle color del bronzo ed il naso affilato, che si dice originario dell’isola di Haiti. Molti sussurrano – quando sono sicuri che nessun estraneo possa ascoltarli – che il sindaco ed il suo consulente pratichino i riti d’una misteriosa setta segreta. Si mormora di evocazioni di fantasmi, di cerimonie notturne con marce sui carboni ardenti, di misteriosi malefici. Qualcuno è pronto a giurare che sui mercati della zona non si trovino più galletti neri, perché i due li avrebbero requisiti per le loro cerimonie. Quanto ai gatti neri, sappiamo già che sono fuggiti tutti, nel momento della nascita del gran moscone. Una parte dell’opposizione finisce per cercare rimedio al malessere della città con gli stessi metodi attribuiti a colui che tutti ormai definiscono con un termine di sapore apocalittico: “l’Antisindaco”. Moira è una giovane donna dai lunghi capelli lisci e neri, impegnata in politica sin dai tempi dell’adolescenza. È stata assessore nel suo paese di nascita, prima di trasferirsi in città. È diventata assessore anche qui, nel capoluogo, per un breve periodo, prima dell’elezione della Mosca. La ragazza ha indubbiamente amicizie che contano e sa bene come giocarle. Moira ha una formazione razionalista e scettica, tuttavia si lascia convincere dalle amiche a partecipare ad una sessione evocativa a casa di Josina, una veggente brasiliana che vive in un quartiere popolare. In una cupa serata di fitta nebbia, due amiche hanno fissato a Moira un appuntamento, alla periferia ovest, a ridosso della tangenziale. Qui conosce la veggente brasiliana, una donna minuta, dall’età indefinibile. Dopo le presentazioni e le solite chiacchiere di circostanza, Josina chiede alle amiche di lasciarla sola con Moira. Apre un cassetto per prendere un gran vassoio di legno e sassolini colorati. Da un sacchetto di velluto, estrae alcune penne di gallina nera. Rimescola con cura gli oggetti, li fa stringere per alcuni secondi a Moira (nella mano sinistra) e quindi li getta a più riprese sul piatto, osservando le forme in cui si compongono ad ogni lancio. Sussurra parole incomprensibili, poi accende alcuni candelieri e due bracieri, in cui ardono profumi. Spegne la luce elettrica. Il fumo dei bracieri filtra il chiarore delle candele. Si odono alcuni colpi, forti e nitidi, dapprima staccati e poi in sequenza. Ben presto il rumore diviene come un rullo di tamburi, riempie l’atmosfera e penetra nel cervello. La veggente rovescia la testa all’indietro e comincia a scuotersi in convulsioni. Le escono dalla gola suoni inarticolati e gli occhi roteano in tutte le direzioni. Di colpo, ogni rumore cessa e la fiamma delle candele si stabilizza. Josina rimane con la testa rovesciata all’indietro. Alcuni lunghi minuti – o forse brevissimi secondi – di silenzio totale, poi una voce, che non è la sua ma esce dalla sua bocca, comincia a parlare a Moira, che si azzarda a formulare le domande che le premono tanto. Il potere occulto della veggente costringe l’entità misteriosa a rivelarsi: è l’inconscio d’un viaggiatore spaziale, arrivato trent’anni prima sui prati del quartiere Vallone. Quello era stato l’inizio della sua missione, sviluppatasi con l’incubazione e la nascita del moscone e con la presa di potere della Mosca, nelle vesti dell’Antisindaco. L’extraterrestre è rimasto sulla Terra con un compito ben preciso: un disegno di dominio della città e di controllo della società umana. Il contatto con l’entità è reso difficile dalla diversità dei linguaggi. Il modo di ragionare dell’essere alieno sfugge alla comprensione umana. Josina fa rientrare le altre due amiche e le quattro donne elaborano un piano d’azione per sconfiggere la Mosca. È necessario che la natura dell’alieno appaia di fronte a tutti, in modo tale da togliere ogni dubbio. Le quattro amiche sono convinte che solo l’azione decisa d’una donna potrà smascherare la Mosca e rivelarne le false sembianze umane. Il finale Il piano d’azione di Moira si deve attuare il 9 dicembre, nel giorno della festa di San Siro, il patrono della città. Le quattro ragazze introducono di nascosto in città quattro tacchini, aggirando lo stretto controllo esercitato dal gran moscone e dai suoi scherani. Li portano con sé, nascosti sotto gli abiti, nel salone d’onore del Comune, alla festa solenne che si celebra ogni anno, per attribuire le onorificenze ai cittadini benemeriti. Qui liberano i tacchini da sotto le ampie gonne che hanno indossato. Grazie al loro istinto innato, i pennuti riconoscono l’odore della Mosca e si lanciano all’assalto, tutti e quattro insieme, inferociti. L’Antisindaco si scompone, perde ogni controllo. Dall’abito scuro spuntano le ali e l’essere abbandona le sembianze umane per librarsi in volo, nel tentativo di sottrarsi all’assalto dei tacchini. Il pubblico rimane sconvolto. Sono bastati quattro pennuti “fuori ordinanza” per distruggere ogni illusione e smascherare una trama ordita, con pazienza e con astuzia, nell’arco di trent’anni. La Mosca si dirige impazzita contro la grande finestra della sala ed emette strilli acuti, che riempiono le orecchie del pubblico. Il suo consigliere di fiducia e le guardie del corpo rimangono perplessi sul comportamento da tenere. Si scambiano una rapida occhiata e decidono di non agire. In quel momento il cielo s’oscura e un mostruoso battito d’ali sconvolge la città: è il moscone che interviene direttamente, a salvare la propria creatura. Il pubblico fugge in maniera scomposta, ormai la Mosca è smascherata: l’Antisindaco non esiste più. Il colossale insetto infrange la finestra del Palazzo e prende la creatura sotto la propria protezione. I due mosconi sono simili da ogni punto di vista, ora che l’ex Antisindaco ha abbandonato la maschera umana, e ronzano minacciosi verso la folla che inveisce. In quel momento, dal pubblico, un uomo in divisa estrae la propria arma d’ordinanza. Si tratta dell’agente che trent’anni prima aveva assistito all’atterraggio dell’UFO. Al grido: “Io l’ho sempre saputo!”, l’uomo protegge la folla e vuota contro i due mostruosi insetti l’intero caricatore della propria pistola. Gli esseri alieni si allontanano, librandosi nell’aria in ampie spirali. Il pericolo sembra sventato, almeno per il momento. I mosconi – però – rimangono tra noi, sulla Terra, pronti a colpire di nuovo… quanti altri ne possono essere atterrati, in quali posti del nostro mondo? 16 – CULEX PARK – IL PARCO DELLE ZANZARE Ogni realtà locale ha il dovere di rivalutare il proprio patrimonio storico e naturalistico, di salvare le specie animali e vegetali che la natura e gli antenati hanno fatto giungere sino a noi, di proteggerle e trasmetterle ai posteri. Ecco perché abbiamo maturato la consapevolezza dell’opportunità – anzi della necessità vitale – di promuovere un parco di salvaguardia, potenziamento e diffusione della zanzara nostrana: “Il Parco delle Zanzare”. Memori delle nostre matrici linguistiche, che affondano le radici nel patrimonio della latinità, vorremmo chiamarlo “Parcus Cúlicum”. È più semplice e rapido, però, adottare uno di quegli orribili neologismi, intrecci d’inglese e latino, tanto di moda oggi, e proporre un nome in “latinglese”: “Culex Park”. Noi viviamo nel cuore più umido e nebbioso della bassa e piatta Pianura di Mezzo. La zanzara è una ricchezza caratteristica della nostra fauna, ma i ceppi originali di questo meraviglioso insetto, capace di attraversare spesse protezioni, bucarvi la pelle e di provocarvi un ponfo dalle proporzioni cento volte più grandi di lei, solo per succhiarvi pochi milligrammi di sangue, necessari alla fertilità della femmina… i ceppi originali sono stati profondamente modificati dalla civiltà moderna delle macchine: altro che OGM! I primi squilibri sono derivati dalle campagne d’estirpazione della malaria, che hanno concretamente estinto l’anofele autoctona del nostro territorio. Poi gli insetticidi, progressivamente più forti nel tempo… e se il DDT era un’arma letale, quelli successivi hanno provocato una sorta di “guerra buona”, con l’attivazione d’anticorpi via via più resistenti negli organismi delle povere zanzare che sopravvivevano: una sorta di razza vaccinata, geneticamente selezionata ma modificata. È poi storia degli ultimi quindici anni l’importazione d’esemplari alieni, come la cosiddetta “zanzara-tigre” di origini asiatiche (Aedes Albopictus), che nidifica in acqua corrente, e assale persino di giorno i poveri bambini indifesi e le massaie sulla soglia del supermercato, o l’anofele extracomunitaria che svolazza nei dintorni degli aeroporti intercontinentali, alla disperata ricerca d’un compagno con cui accoppiarsi, ma che può pungere – se si tratta d’una femmina già accoppiata – e trasmettere agli abitanti locali una malaria perniciosa. Naturalmente è facilissimo distinguere una zanzara-tigre dalle altre: non ruggisce e non ha i denti a sciabola, ma una riga bianca sulla schiena (un po’ come le puzzole) e braccialetti bianchi alle zampe (ah, la vanitosa…). È soltanto un po’ difficile fermare la zanzara e – prima di farsi pungere – intimarle: “Mostrami i braccialetti!” I contadini d’una volta erano relativamente difesi, perché la presenza di maiali, di polli, bovini e d’altri animali a sangue caldo diluiva l’interesse delle zanzare per i corpi umani. Oggi, invece, ci affidiamo ai fornelletti che avvelenano l’ambiente per 45 notti, ma uccidono gli insetti più di noi. I meno attenti si dotano della griglia luminosa, che attira zanzare, vespe, calabroni ed insetti ancor più grossi da tutto il circondario, da chilometri di distanza, per portarli a grigliarsi sopra le loro teste. Una grigliata? Un vero spreco di biomassa, che basterebbe un filo d’olio per gustare adeguatamente… eppure c’è chi afferma che cibarsi d’insetti sia la migliore delle diete possibili… L’insieme di questi elementi crea una situazione d’elevato pericolo per la sopravvivenza dell’autentica Culex Pipiens autoctona, ragion per cui riteniamo necessario salvaguardare lo storico animaletto, che ha popolato le nostre paludi sin dagli antichi tempi in cui i liberi Celti vagavano per la valle del nostro fiume, a venerare le possenti forze della natura, e offrivano i loro nudi petti villosi alle punture del tenero insetto. La zanzara è bella, è un esserino tipico della nostra terra e rende vive le notti estive, quando senti il suo ronzio sibilarti vicino all’orecchio… oh dolce musicalità, mille volte superiore a qualsiasi concerto di strumenti usciti dalle nostre mani! Le sue ali, la sua trivella perforatrice, le bellissime antenne piumate dei maschi, sono capolavori d’ingegneria genetica, che l’uomo non riuscirebbe mai a riprodurre. Il nostro progetto ha previsto la creazione d’un ampio parco umido, in cui fossero mantenute le migliori condizioni per la riproduzione e la proliferazione delle zanzare nostrane, secondo modalità scientificamente controllate. È infatti vero che le Amministrazioni locali hanno già operato da decenni in questa direzione, evitando ogni bonifica di stagni, pozze d’acqua stagnanti ed altre zone umide e organizzando frequenti manifestazioni e concerti nelle piazze, in modo da garantire alle zanzare la disponibilità di sangue, visto che non possono più trovarlo nelle stalle o nei pollai e neppure negli ambienti chiusi, a causa del dilagante diffondersi di spirali affumicanti e di fornelletti mefitici. Tuttavia, l’ibridazione della zanzara nostrana con altre specie di dubbia provenienza ha creato una situazione di pericoloso squilibrio ecologico. Occorreva imporre severi controlli all’evolversi disordinato dell’habitat dei cúlici. Ardua fu l’impresa di convincere gli amministratori locali, affinché riservassero l’area per il Parco e non v’installassero una discarica d’immondizie, attività che all’epoca andava molto di moda e che rendeva cospicui introiti su terreni ormai abbandonati, nei quali era impossibile ogni altra attività (salvo – ben inteso – un potenziale Parco delle Zanzare). Dopo una fitta serie di riunioni preparatorie, con diversi politici ed amministratori di piccole realtà locali, per individuare le aree da destinare al Parco, il progetto di massima cominciò finalmente a prender forma sulla carta. Naturalmente, l’accesa litigiosità tipica dei piccoli paesi non rendeva agevole la presentazione del progetto e rischiò diverse volte di danneggiare i nostri fegati. Ad esempio, nel paese di Coda di Rospo, l’opposizione, capeggiata da un certo Narcisi – che odiava il sindaco nel modo più sincero – inscenò una protesta, su basi sedicenti ambientaliste, e ci attaccò con una vivace campagna di diffamazione, accusandoci di avere stabilito accordi preventivi di sfruttamento per la “mungitura” delle zanzare, al fine di vendere il sangue a laboratori di ricerca e ad ospedali bisognosi di sangue umano. Con Narcisi si schierarono tutti i cacciatori della zona, sempre contrari per principio a tutto ciò che si chiami “parco”. Gli diede man forte persino l’ala più intransigente del locale Fronte autonomista per l’autodeterminazione degli insetti, che vedeva la nostra proposta come “un tentativo di addomesticare le zanzare in batteria”, con lo scopo occulto di confinarle in una riserva. D’altra parte, i gestori del locale “Parco dei Topi e dei Rospi” misero in atto una campagna di “purezza etnica”, convinti che topi e rospi fossero specie più autoctone delle zanzare e dovessero essere salvaguardate in linea prioritaria, indipendentemente ed anzi contro i cúlici. Infine riuscimmo ad identificare una bella zona umida, ricca di canneti, con salici, bambù e sambuchi, che desse ricovero a miriadi di zanzare. Quindi si procedette ad una radicale bonifica degli stagni da tutti quei pesci che sono soliti cibarsi di uova di zanzare. A questo punto, occorrevano appoggi ed entrature idonee “in alto loco”. Si trattava di rassicurare gli amministratori locali della “solvibilità” del progetto, di reperire i fondi necessari per la creazione del Parco e per le relative attrezzature: innanzi tutto – ovviamente – la rete di recinzione, e poi lampade che attirassero gli insetti dai campi circostanti, senza però grigliarli o danneggiarli, repellenti per allontanare pipistrelli, rondini ed uccelli insettivori, macchie d’ombra e nidi accoglienti per l’accoppiamento degli amati insetti e pozzanghere per deporvi le uova, umidificatori per elevare in modo permanente il coefficiente d’umidità relativa almeno al 90%, controlli all’ingresso sull’identità degli insetti accolti e sulla loro genuina origine locale, infine – ma non certo trascurabile – la necessaria dotazione di sangue umano, d’alta qualità, per garantire la fertilità dei nostri “ospiti”. A tale scopo era necessaria la collaborazione dei centri d’informazione turistica, per promuovere il Parco in ambito metropolitano e attirare folle di visitatori. È entrato così nel nostro gruppo operativo un personaggio straordinario. Gaetano è un autentico mago delle pubbliche relazioni. Ha all’attivo, nel suo campionario, almeno quattro tipi diversi di strette di mano e diversi saluti iniziatici: in aria o sul petto, a braccio teso o gomito ripiegato, a mano aperta o rigida. Conosce formule scaramantiche o propiziatorie che possono aprire ogni porta, quali “a Dio piacendo”, “inch’allah”, oppure “come ti butta, fratello?” e sa usare in ogni occasione l’appellativo più appropriato per il suo interlocutore: fratello, compare, amico, collega, camerata… compagno non si usa più… ma il “gran mediatore” sa bene che – se compiuti con discrezione e al momento opportuno – alcuni semplici gesti come una fraterna “pacca” sulla spalla dell’interlocutore o una toccatina alle proprie parti intime possono generare un’atmosfera di complicità che facilita molte transazioni. La grande abilità di Gaetano consiste nel saper gestire i propri contatti uno per volta e riuscire a far credere a ciascuno di essere schierato dalla sua stessa parte, anima, cuore e corpo. Mai una gaffe, mai un capello fuori posto, mai un granello di polvere sulla scarpa o di forfora sul colletto. In ogni caso, all’occorrenza, è capace di giustificare le proprie attitudini sulla base di precetti evangelici e con adeguate citazioni delle lettere di San Paolo. Gaetano è la persona giusta per accedere agli “alti luoghi” e chiedere autorizzazioni, finanziamenti, aperture di credito, spazi promozionali utili al decollo del nostro Parco. Il suo primo approccio è stato con il “senatore storico”, colui che da trent’anni guida felicemente le sorti politiche del comprensorio delle zanzare, fa e disfa amministratori locali ed altre cariche. Dopo diversi incontri ed un’intensa stagione di cene di lavoro, cui partecipavano altri misteriosi personaggi, Gaetano ha ottenuto un interessamento al Parco, che si è ben presto concretizzato in una serie di espressioni palesi, nel comportamento di tutti i nostri interlocutori: funzionari e amministratori, dapprima freddi, hanno incominciato a rivolgersi a noi come se fossero vecchi amici, se non compagni di scuola o di giochi d’infanzia. Naturalmente, l’accordo concluso da Gaetano prevede che gran parte delle attività economiche del futuro Parco rechino benefici alla cooperativa “Sangue e Arena”, organizzazione senza fine di lucro, che appartiene alle opere fondate dal nostro amico senatore. Per un momento, sono stato tentato di dare ragione a Narcisi, l’ambientalista di Coda di Rospo… se non che la cooperativa che gestisce tali attività proviene proprio dal suo gruppo politico e d’opinione. Nel contempo, abbiamo ricevuto diverse telefonate da parte di imprenditori, molto interessati a sponsorizzare la realizzazione del Parco: produttori di accessori e cibo per zanzare, fornitori di nebbia spray per le giornate troppo secche, costruttori di pozzanghere, vivaisti di germogli di salice spontaneo… ci ha contattati persino l’intraprendente progettista d’un museo storico della zanzara, realizzato con supporti didattici in DVD e su pannelli portatili e componibili, ad uso di scuole, biblioteche e rassegne itineranti. Alcune note ditte d’insetticidi hanno convertito la loro linea di produzione, ed ora stanno per lanciare sul mercato nuovi prodotti, con slogan del tipo: “Volete che le vostre zanzare abbiano le ali più brillanti e cangianti? Usate olio X, rende il vostro sangue più fluido e vitaminico!” “Zanzare più belle? Usate sulla vostra pelle il prodotto Y, che renderà più agevole il lavoro al loro trombino e lo manterrà liscio, resistente e diritto”. Un circolo culturale ha commissionato ad una ditta specializzata la realizzazione d’un grande modello di zanzara, con tutte le caratteristiche somatiche della zanzara nostrana: alto più di due metri e mezzo e lungo otto, in posizione di succhiata, il modello è elegantissimo, interamente percorribile al suo interno, e contiene la biglietteria del Parco, il servizio informazioni, nonché gli indispensabili servizi igienici. Pur nell’entusiasmo della promozione commerciale, non abbiamo certo trascurato i due elementi fondamentali che caratterizzano il nostro parco: la purezza autoctona delle zanzare ospitate e la qualità del sangue che viene loro fornito. Anzi, sono questi gli elementi certificati, atti a garantirci la patente di qualità europea e regionale di cui il nostro Parco – insieme a pochissimi altri – può fregiarsi. La prima di queste due caratteristiche è senza dubbio la più difficile da raggiungere. Non è facile porre filtri efficaci all’immigrazione della zanzara-tigre e una selezione delle zanzare ibridate appariva troppo complessa, oltre che accusabile di razzismo. Abbiamo perciò dovuto optare per una precisa e completa catalogazione dei nidi di rifugio. Siamo oggi in grado di tenere un’accurata anagrafe delle zanzare presenti nel nostro Parco e stiamo procedendo all’inserimento non doloroso sottochetinico d’un chip d’identificazione personale, per ciascuna di loro. All’atto dell’inserimento, un piccolo prelievo di tessuti consente l’accertamento del DNA dell’insetto, che viene automaticamente inserito in una banca dati centrale. È così possibile selezionare rapidamente i ceppi di zanzare autoctone e quelli compatibili, per avviarli verso zone di riproduzione più accoglienti e migliorare geneticamente la composizione degli ospiti del parco. Per quanto riguarda la zanzara-tigre, l’uso delle tecnologie più avanzate ci ha permesso di mettere a punto un tipo speciale di scanner ottico, accoppiato ad un puntatore laser. Il primo riconosce i braccialetti chiari intorno alle zampine, mentre il secondo provvede alla sterilizzazione dell’insetto in volo. Purtroppo, però, si può prevedere che – nel giro di poche generazioni – il nostro congegno provochi la naturale selezione d’un nuovo tipo di zanzara-tigre, privo dei braccialetti bianchi: una specie che potremmo definire “zanzara-pantera nera”. Occorrerà allora prevedere altri sistemi di riconoscimento (forse basati sull’impronta dei globi oculari, o sul timbro del ronzio). È inoltre allo studio un delicato esperimento di clonazione, che potrebbe restituirci entro poche generazioni il ceppo dell’anofele nostrana (priva, però, del pernicioso plasmodio infettivo della malaria). Sarà il vero successo genetico del nostro Parco, infinitamente superiore agli esperimenti, già condotti in altri luoghi, di clonazione dell’uro europeo e del mammuth. Grazie all’apertura del nostro Parco, gli studi genetici sulle zanzare hanno compiuto indicibili progressi e ci hanno dischiuso le porte di un universo meraviglioso, fatto di ali iridescenti, antenne a quindici ciuffi – che… nemmeno le piume di struzzo! – di tromboncini succhianti, di fantastiche articolazioni snodate, capaci di prestazioni di gran lunga superiori a quelle dei nostri arti, di orgogliosi e goffi “vertici della creazione”. Il pubblico del Parco dovrà ovviamente essere selezionato. Un primo controllo garantirà che i visitatori non portino sulla pelle o con sé alcun tipo di sostanza repellente, tale da disturbare l’olfatto delle zanzare. Queste sostanze saranno assolutamente vietate, non soltanto dell’area del parco, ma anche nei dintorni. Vietati gli stick all’ammoniaca, vietati i profumi troppo intensi. Inoltre, appositi annusatori di professione saranno preposti all’analisi del sudore degli ospiti, in modo da poter indirizzare i più gustosi direttamente verso i luoghi ove siano più numerose le femmine di zanzara gravide. Il secondo passo per essere ammessi alla visita consisterà nella compilazione d’un apposito questionario, per individuare e neutralizzare eventuali tendenze zanzarofobe. La psicologa del Parco dovrà agire discretamente: l’eventuale visitatore sospetto non sarà respinto, ma gli saranno affiancati due agenti osservatori, che lo controllino attentamente, per impedire qualsiasi azione di danneggiamento o di sabotaggio Appositi “Mosquito Parties” saranno organizzati nelle serate estive e culmineranno col “Culex Summer Festival”, l’ultima domenica di luglio. In tale occasione, subito prima delle grandi vacanze d’agosto, saranno eletti Re e Regina della Zanzara coloro che esibiranno sulla propria pelle il maggior numero di ponfi arrossati. L’organizzazione delle feste è delegata all’associazione “Alzati e cammina”, un’altra cooperativa senza fini di lucro (dello stesso gruppo della “Sangue e Arena”), ormai rinomata su tutto il territorio: è quella che organizzò le celebri risottate alla salsiccia per il gemellaggio con quarantaquattro cittadine della Polonia, i risotti con polenta per le “cene medievali”, la risottata alla salsiccia in onore del capo indiano Lakota, in visita ai nostri territori, e che preparò lo stesso tipo di risottata alla salsiccia per l’arrivo dello sceicco Ben Yahya, rappresentante di non so quale sultanato arabo, salvo la necessità d’una successiva smentita, in cui si dichiarava formalmente che nella salsiccia non era contenuta carne di suino. D’altronde non devono avere affermato il falso, perché molti sono convinti che – sin dai lontani anni ‘80 – quella cooperativa abbia usato salsicce “esclusive”, fatte con zoccoli d’animali macellati e piedi di polli, in un’ottica ecologista di completo riciclaggio dei rifiuti… eppure, in un eccesso di spirito di servizio, non se ne sono mai vantati, mai hanno chiesto un premio o una piccola facilitazione, in cambio dei servizi resi alla comunità! I servizi di promozione turistica si stanno ora aprendo al mercato dell’estremo Oriente, tramite la partecipazione alle fiere internazionali. Abbiamo richiesto alcuni campioni di sangue di quelle popolazioni, al fine di valutarne la compatibilità con l’olfatto, il gusto e le necessità riproduttive delle nostre zanzare. Qualora tale compatibilità fosse accertata e non comportasse alterazioni genetiche per i nostri ospiti insetti, si schiuderebbe un mercato dalle immense potenzialità economiche (ed ematiche), qualcosa come due milioni di visitatori l’anno, pronti a pagare per venire a fasi pungere nel nostro Parco. Proprio oggi, il nostro pubblicitario mi ha mostrato la proposta per il video promozionale del Parco. Vi appare un omino verde, con due esili antenne sul capo, che si addentra in una macchia di vegetazione umida. Il campo visivo si apre e l’omino diventa sempre più piccolo e lontano, mentre appare – in primo piano, grandissima – la meravigliosa antenna piumata d’una zanzara nostrana. L’inquadratura si sposta sull’occhio dell’esserino, che spia l’intruso alieno. Intorno al capofamiglia, tutte le femmine del gruppo stanno “affilando” le trombettesucchiatoi, con i tovaglioli al collo. Nell’inquadratura successiva, l’omino è diventato un ponfo unico. Non è più verde, ma cangiante, di tutti i colori dell’iride. La sua faccia beata, gli occhi stralunati, le antennine che vibrano in continuazione, esprimono l’estasi dei pruriti che lo pervadono. Lo slogan recita: “La Zanzara è bella, la Zanzara è piccola, ma forte. Conosci e valorizza le tradizioni nostrane”. Credo che farò modificare quel termine “nostrano”, che mi ricorda un salame. Inoltre, vorrei proporre una serie di spot in sequenza, con un’intera famigliola di ET, di tutti i colori: giallo, rosso, verde… non tanto per ispirarmi ai semafori, quanto piuttosto per attirare al Parco i visitatori di tutto il mondo… Dobbiamo rivolgerci a tutti, senza razzismi né particolarismi, e… – perché no? – proporrei come titolo per la sequenza pubblicitaria: “The united colours of Culex Park”. 17 – IL CAMPO DEI MORTI Abito tra Pavia e la sua Certosa, nell’area di quel vasto Parco che vide la ‘battaglia dei giganti’, in una brumosa mattina di quattrocento e ottant’anni fa. Tra alberi, sentieri e ruscelli, dove oggi corrono giovani in tuta e passeggiano le famigliole, i Visconti avevano creato recinti con orsi, struzzi, levrieri, conigli e leopardi. In un’umida notte del febbraio 1525, gli uomini del re di Francia Francesco I, acquartierati nel Parco, si ritenevano protetti dall’alto muro di cinta. Invece furono colti di sorpresa dalle truppe imperiali. C’erano personaggi che avrebbero influito sulla storia d’Europa e delle Americhe, come il venticinquenne Pedro de Valdivia, che dieci anni dopo partecipò all’occupazione del Venezuela e del Perù, con Francisco Pizarro. A Pavia cadde il fiore della nobiltà francese, centinaia di rampolli delle migliori famiglie. Morì Jacques secondo, signor de la Palice, e i suoi soldati cantarono: “Se non fosse ancora morto, sarebbe ancora in vita”. Il termine ‘lapalissiano’ è così diventato sinonimo di ‘ovvio’, per uno scioglilingua di soldati: un modo strano, per un baldo guerriero, di passare alla storia. Al fianco della cavalleria pesante francese coperta di ferro, dei nobili gendarmes, ‘gente d’armi’, comandati dal re in persona, combatteva la fanteria: archibugieri e picchieri erano in gran parte svizzeri e tedeschi. Nello schieramento avversario, insieme agli hidalgos spagnoli, altri soldati italiani, tedeschi, olandesi, svizzeri. Nel furore della battaglia si scontrarono migliaia di figli di montanari e di contadini, trasformati in soldati. I lanzichenecchi e gli svizzeri arruolati nelle due fazioni, armati di picche lunghe da cinque a sette metri, si accanirono all’ultimo sangue, come dieci anni prima a Marignano, e fu massacro. Persero la vita diverse migliaia di uomini al servizio del re francese. Qualcuno afferma che ne morissero diecimila. Tra le nebbie che si levavano nella tarda mattinata, bande armate spogliavano i cadaveri dei nemici e andavano in giro cantando strofe oscene, con le teste degli sconfitti sulla punta delle picche. Il corpo del signor de la Palice fu riportato al feudo avito e sepolto con tutti gli onori. I morti nobili erano imbalsamati per chiedere un riscatto alle loro famiglie, valevano oro sonante. Gli anonimi cadaveri dei poveri soldati, invece, spogliati d’ogni effetto che avesse un minimo di valore, dovevano essere sepolti in fretta, prima che la putrefazione potesse provocare epidemie perniciose. Poeti e pittori hanno narrato le ‘glorie’ della battaglia, ma nessuno ha descritto le penose corvées dei contadini che dovettero caricare sui carretti migliaia di cadaveri mutilati, per andare a seppellirli… dove? Non esiste una sola memoria, non una cronaca che ricordi la sorte di quelle spoglie mortali. L’altro giorno, mentre passeggiavo lungo il margine settentrionale dell’antico Parco ducale dei Visconti, dietro la Certosa, presso l’antica cascina della Porta d’Agosto, mi sono apparse nei campi arati migliaia d’impronte quadrate e rettangolari. Nel terreno che si asciugava dalle piogge primaverili, ci doveva essere una scacchiera sotterranea fatta di ‘qualcosa’ che assorbiva l’acqua in modo diverso… tombe? tombe romane? o forse i sepolcri dimenticati di tutti quei francesi, quei tedeschi, quegli svizzeri, quegli olandesi rimasti senza nome, che erano partiti dalle loro case cinquecento anni fa, per venire a morire qui, nelle nebbie di un mattino d’inverno? I segni, più chiari del terreno circostante, apparivano e sparivano, un giorno dopo l’altro, secondo l’umidità. Pioveva e tutto il campo diventava scuro; dopo ventiquattro, trenta ore, le macchie si rivelavano di nuovo. Poi il terreno si asciugava completamente e diventava del tutto chiaro, sino alla prossima pioggia. Quattro volte il terreno si è inzuppato, questa primavera, e quattro volte le macchie sono ricomparse. Si sono fatte insistenti le voci di ritrovamenti d’ossa, apparse in diversi momenti in quei campi, e il nome di ‘campo dei morti’ si ripete nei racconti, unito alla credenza popolare, che vuole i campi dietro la Certosa ‘segnati’ da un’antica maledizione. Il Nord è sempre stato il punto cardinale del freddo e del male, nel sentimento dei popoli che hanno vissuto in queste terre. Il Meridione indica il sole, il calore e la vita; il Levante, il sorgere del sole stesso, ossia l’origine della luce divina; l’Occidente, verso il tramonto, è la fine della vita, la terra dei morti, l’oblio eterno; e infine il Nord il freddo, il regno del male, l’eterna condanna. La Porta d’Agosto, col nome del mese più caldo e luminoso dell’anno, era rivolta a settentrione del Parco Visconteo, verso il freddo e il male. La gente pensa che quel luogo ‘porti male’, sia segnato dalla cattiva sorte. Un terribile incrocio, tra un ripido cavalcavia sopra la linea ferroviaria ed una curva cieca che ‘scivola’ dietro il muro di cinta della Certosa, è un vero posto maledetto. Qui tutte le attività commerciali hanno avuto scarsa fortuna. Ora si scopre la presenza di migliaia di tombe, sepolte sotto quei terreni. Sembra che vogliano gridare: “Siamo qua, venite a guardarci! Abbiamo atteso quattrocento ottant’anni, ma siamo sempre in questo campo!” Sul Castello dei Visconti aleggia un’aura di mistero e di maledizioni, come accade per molte dimore medievali. Qui persero la vita due segretari ducali, per presunto tradimento: Pasquino Capelli, murato vivo, e Cicco Simonetta, decapitato sul ponte levatoio. Le ossa del primo giacciono ancora murate nelle pareti dell’attuale museo e si vuole che il suo fantasma si aggiri, di notte, per le sale deserte. Nelle stanze di questo castello, appena costruito, visse la propria gioventù quella Valentina, figlia di prime nozze di Gian Galeazzo, che avrebbe avuto una vita difficilissima. Figlia d’una principessa francese, fu inviata sposa al cugino, cadetto del re di Francia, per allontanarla da un’altra cugina, che aveva dato a suo padre – in seconde nozze – il tanto agognato erede maschio. Valentina fu accusata di stregoneria da un’altra cugina, regina di Francia, e vide il proprio sposo cadere con la testa fracassata, nei vicoli di Parigi, sotto i colpi di un agguato. I discendenti di Valentina, Luigi XII e poi Francesco I, mossero guerra al Ducato di Milano, per reclamare l’eredità dell’antenata. C’era nel Castello di Pavia un meraviglioso astrario che indicava il moto dei Pianeti su sette quadranti, grazie ad un perfetto meccanismo fatto d’un bronzo speciale, capace di autolubrificarsi per ridurre gli attriti. Lo aveva realizzato alla fine del Trecento il dottor Giovanni Dondi da Padova, astrologo di corte. L’astrario funzionava ininterrottamente da centoquarant’anni, ma quella mattina del 24 febbraio si fermò. Forse un granello di polvere, o forse un’imperscrutabile volontà superiore, aveva fatto inceppare i meccanismi e nessuno fu mai più in grado di rimetterli in moto. Ciò che non si racconta è che il comandante delle forze imperiali aveva convocato al Castello di Pavia, occupato dagli spagnoli, una temibile incantatrice, già condannata a morte per diversi malefici. Alla strega era stata promessa la salvezza dal rogo, in cambio d’un aiuto alla causa imperiale. La donna fu condotta dalle carceri comunali al Castello sotto stretta scorta. Aveva ottenuto che un gran braciere, con quantità di carboni roventi, fosse sistemato sotto l’astrario. Dalla massa nerastra si sprigionava un forte calore e nell’oscurità si levavano improvvise scintille, faglie rossastre serpeggiavano nelle braci. Per tutta la notte, al chiarore di poche candele, la strega trafficò con erbe velenose e carogne strane, che si era fatta portare dal proprio armamentario. Tutt’a un tratto, l’astrario si fermò. Sui merli del Castello risuonò lo stridio d’un ratto, catturato da un barbagianni. In quella fatidica mattina le forze francesi, nettamente superiori per numero e per armamento, stavano per avere il sopravvento sugli assalitori, quando una fitta nebbia, acre come il fumo, salì dai campi e dai cespugli, coprì tutto e tutti. Il mondo intero appariva come immerso nella bambagia. Sul campo di battaglia la vita s’arrestò. Mentre il bilanciere dell’astrario del Castello si bloccava, i combattenti rimasero congelati nei loro gesti, per un lunghissimo istante. Quando la nebbia scese, una sorta di ‘sacra follia’ aveva colto le truppe dei francesi, che non sembravano più in grado né di combattere, né di orientarsi sul campo. Gli ufficiali si guardavano intorno, incerti, mentre le truppe si muovevano in modo disordinato, senza riconoscere i nemici. Al contrario, nonostante la fluttuante foschia, gli archibugieri imperiali mantenevano una mira precisa. Fu una vera e propria strage. I francesi si lasciarono massacrare sul campo come conigli, mentre molti di coloro che cercavano d’allontanarsi affogarono, nel tentativo d’attraversare le acque del Ticino. Sembrava che una maledizione biblica avesse colpito le truppe del giovane Francesco I, odiato dalla borghesia locale come fosse il protettore degli ebrei e dei protestanti, il difensore d’ogni eresia. I bottegai pavesi avevano consacrato un voto solenne: se le truppe del cattolicissimo imperatore avessero vinto, essi avrebbero cacciato dalla città tutti gli studenti stranieri (fonte di disordine, come sono sempre stati gli studenti, e per di più in odore d’eresia) e tutti gli ebrei (incamerandone i beni, ovviamente). Gli imperiali vinsero, ma solo settant’anni dopo l’ultima famiglia ebrea avrebbe lasciato Pavia, dopo essere stata risarcita dei propri averi. La riproduzione dell’astrario del Dondi, realizzata in tempi moderni e custodita in un celebre Museo di Milano, non è mai stata in grado di funzionare. Oggi, però, si può leggere sui giornali che improvvisamente il meccanismo, senza neppure essere caricato, ha cominciato a ticchettare e che le sue sfere descrivono sui quadranti – come avveniva un tempo nella macchina originale – il movimento dei sette Pianeti dell’antica astrologia. Lungo la strada che costeggia il mulino di Mirabello, stamattina, c’è una leggera nebbia. Mentre passo in auto, diretto al mio lavoro, sento provenire dai campi alla mia destra un nitrito nervoso e mi appare, lanciato ad attraversare la strada, un cavallo bianco, privo di cavaliere, con parti d’armatura d’oro. Sulla gualdrappa color turchese, reca i gigli inconfondibili del re di Francia. Come tutti i fantasmi che si rispettino, mi taglia la via e scompare di nuovo, nel nulla del tempo. 18 – IL SANTO DEL PROSCIUTTO Dietro la facciata della Certosa di Pavia, nel risvolto a sud, c’è un tondo scolpito che raffigura un santo dalle caratteristiche inusuali. Fra le mani, infatti, stringe un cosciotto d’animale, dall’inconfondibile sagoma di un prosciutto. La posizione del bassorilievo è tale che ve lo trovate davanti agli occhi, quando uscite dal chiostro piccolo dopo la visita al complesso monumentale, in controluce, a circa due metri e mezzo di altezza. Non si può fare a meno di osservarlo e infatti, per anni, l’ho ricordato come “il Santo del prosciutto”: un certosino, a giudicare dall’abito, che doveva essere talmente importante (o familiare) da meritarsi quella posizione, solo apparentemente un po’ nascosta, ma in realtà sotto gli occhi di tutti. Finalmente, un giorno, scoprii che quel santo era stato un umile converso certosino, di nome Guglielmo Fenoglio, vissuto tra il sec. XI e il XII nella Certosa di Casotto (oggi conosciuta come Castello di Casotto, circa 17 km a ovest di Garessio – CN). Era addetto al vettovagliamento del monastero e raccoglieva viveri, granaglie e legumi dalle varie cascine, facendo la spola con la mula del monastero tra Casotto e le località circostanti, talvolta sino ad Albenga e a Mondovì. Le strade allora erano infestate da briganti e accadeva abbastanza spesso che fratel Guglielmo fosse rapinato lungo il suo cammino. Il Priore, di fronte al suo profondo abbattimento, gli disse un giorno tra il serio e il faceto: “La prossima volta che incontrerai i ladri, impugna una gamba della mula e mettili in fuga!” L’umile Guglielmo ebbe occasione di prenderlo in parola. Non trascorse molto tempo che dovette subire un altro assalto dei ladroni. Memore delle parole del Priore, afferrò una gamba della giumenta, la staccò e la impugnò contro gli assalitori i quali, atterriti da tale gesto, se la diedero a gambe. Il frate rimise la zampa al suo posto e ritornò alla Certosa. Nella fretta, però, aveva riattaccato la zampa a rovescio e la mula zoppicava. Questo fatto confermava le chiacchiere che rapidamente si diffusero, nel monastero e nel circondario, sull’impresa di Guglielmo, tanto che il Priore decise d’indagare. Fratel Guglielmo non ebbe difficoltà a raccontare, con candore, la sua storia incredibile: non aveva fatto altro che applicare i consigli del Priore. Deciso a chiarire se si trattasse davvero di un miracolo, il Priore finse di rimproverare Guglielmo per la sbadataggine e gli chiese di rimettere a posto la zampa della mula. Il fraticello, pronto, si affrettò a staccare di nuovo l’arto per ricollocarlo nel modo giusto, scusandosi per l’errore precedente. Ciò avvenne di fronte a diversi testimoni, senza che la mula perdesse sangue né mostrasse il minimo segno di dolore. Il Beato Guglielmo morì nel 1120. Poco tempo dopo, il suo corpo venne esumato a furor di popolo dal camposanto, per tutti i miracoli che compiva. Fu trovato incorrotto e posto in un’urna, rischiarata da una lampada sempre accesa. Quell’urna fu in seguito nascosta in una nicchia nei muri della chiesa. All’epoca della Rivoluzione francese si perse ogni memoria sul punto esatto del nascondiglio. Il miracolo della mula fu rappresentato dappertutto in Europa, nei monasteri certosini: dalla Spagna al Portogallo, dall’Inghilterra alla Francia, all’Italia. Nel bassorilievo tondo della Certosa di Pavia, il Beato Guglielmo impugna il cosciotto della mula, dalla tipica forma “a prosciutto” (o piuttosto dovremmo dire “a bresaola”, data la specie dell’animale). Ragioni di spazio non hanno consentito di mostrare tutta l’immagine della fedele mula. In altre raffigurazioni il Beato impugna non l’intera gamba, ma solo lo stinco dell’animale. Pio IX, il 19 marzo 1860, proclamò ufficialmente Beato Guglielmo Fenoglio e consacrò una fama che si era diffusa nei secoli attraverso l’Europa intera. A quel tempo, però, la tomba di Guglielmo era scomparsa e la religiosità popolare era in fase di declino. La partenza dei Certosini da Pavia e l’assenza d’un “atlante topografico” delle sculture e dei bassorilievi della Certosa avevano complicato la mia ricerca del nome del santo. Poi, un giorno, mi ha all’improvviso chiarito l’enigma la domanda d’un amico piemontese: “Sai se alla Certosa di Pavia è raffigurato un Santo che impugna l’arto d’un equino?” “Non mi ricordo nessun dipinto – gli rispondo io – ma... se vuoi, c’è ‘il santo del prosciutto’”. Ecco ristabilito il ponte: nelle storie della Certosa di Casotto si dice che a Pavia esiste almeno una figurazione del Beato Guglielmo, mentre qui nessuno più racconta la storia di quell’immagine. Infine, mi sono reso conto che l’immagine di Guglielmo era dipinta anche all’entrata del primo vestibolo, quello esterno. Un affresco di grandi dimensioni: la figura è alta più di due metri e mezzo. Proprio a sinistra di chi entra, dietro il muro del portone principale, dove sfugge all’ospite frettoloso: una posizione simile a quella del tondo in bassorilievo dietro la facciata. Non è solo la presenza del Beato Guglielmo a solleticare l’interesse del visitatore curioso che si attardi a esaminare le decorazioni della facciata o dei chiostri della Certosa. Le figure seguono una loro logica e indicano percorsi precisi: le teorie degli imperatori romani intrecciate a scene delle sacre scritture, le lunghe teorie di teste mozzate di Mori, che sembrano ricordare gli antichi culti dei santuari celtici, stemmi viscontei ed immagini araldiche sforzesche, delfini, aquile e dragoni, San Bartolomeo scorticato che mostra la propria pelle, San Rocco vestito da pellegrino, lassù sull’angolo si vede un San Martino che taglia il mantello, e poi, nei chiostri, le figure allegoriche, gli itinerari di meditazione, con le tentazioni (la ricchezza, il potere, l’orgoglio, la carne), i vizi, i teschi (riflessioni sulla morte), le strade che conducono alla santità. La ricchezza decorativa costituì, nei secoli, una guida alla lettura del monumento, vero e proprio libro di pietra. I significati di questo libro rischiano di sfuggirci, oggi, perché non siamo più abituati a soffermarci sui particolari, sulle iconografie, sui simboli figurati. Al di là del colpo d’occhio, però, degli spazi e dei volumi costruiti, il libro di pietra è aperto di fronte ai nostri occhi e ci invita a leggerlo, pagina per pagina, una parola dopo l’altra. La collocazione, l’esatto ordine delle figure, il modo e i particolari in cui sono rappresentate, tutto parla. Troveremo il dizionario per tradurre, nel linguaggio nostro di uomini moderni, la parola dipinta e scolpita degli antichi monumenti? 19 – IL MIRACOLO DI SANTA SOFIA Narrava un’antica cronaca, un tempo conservata negli archivi dei marchesi Pecorara, che il 25 maggio del 1594 la piccola Caterina, di sei anni, figlia di un pescatore che abitava a Villanova d’Ardenghi, era salita sulla barca di suo padre Giacomo, che andava a pesca nella Val del Lupo. Giacomo manteneva la famiglia con quanto riusciva a pescare nelle acque del Ticino e delle sue valli. Giunto verso la foce del canale laterale, ormeggiò la barca con la piccola Caterina, che si era portata qualche rametto e qualche pezza per i suoi giochi, e si allontanò di poco per scegliere il posto migliore per la pesca. Il cielo era scuro, le acque erano alte per i temporali scatenatisi nei giorni precedenti sul Lago Maggiore. Era difficile trovare pesce nelle acque torbide, che trascinavano rami e fronde d’albero, ma era pur necessario mangiare e nutrire la famiglia. D’improvviso si levò sulla zona un furioso temporale, con forte vento e scrosci d’acqua. I salici furono piegati e divelti e la barca, strappata all’ormeggio, fu trascinata dalle acque del canale, gonfio e impetuoso. La barca entrò senza danno nel Ticino e prese il largo, tra le urla di richiesta d’aiuto della bambina e quelle impotenti di Giacomo, immediatamente accorso ma bloccato sulla riva. Al pescatore disperato non rimase altra speranza che invocare l’aiuto del cielo. Aveva già perso altri due figli maschi, qualche anno prima, annegati in una roggia mentre cercavano di scovare i pesci dalle loro tane. Giacomo cadde in ginocchio e pregò. Quasi come una risposta, sull’altra sponda, un fulmine scoppiò sulla fortezza di Santa Sofia, che dominava cupa le acque. Ne nacque un focolaio d’incendio su una torretta. I soldati spagnoli, lassù, avevano ben altro da fare che dar retta alle grida di un povero pescatore. Lo scroscio di pioggia non durò a lungo, ma l’imbarcazione era ormai scomparsa, portata via dalla corrente. Il padre disperato si rialzò e andò a cercare un parente, che pescava lungo la valle. Ritornarono sul fiume, lasciandosi trasportare dalla corrente, per cercare la barca di Giacomo. Al di là della corrente gonfia di rami e tronchi d’albero, sembrò loro di vedere un barcé fermo sull’altra sponda, lungo la riva boscosa, con la prua incastrata tra due salici. Era proprio la barca di Giacomo, con a bordo la bambina svenuta, inzuppata fradicia, ma viva. Appena il padre riuscì a prenderla in braccio, la corrente portò via la barca, ormai piena d’acqua, che affondò roteando in un vortice. Proprio in quel momento, tra le nuvole, si aprì uno squarcio. In alto, sul terrazzo, un raggio di sole colpì in pieno la Cappella di Santa Sofia. I due giurarono in seguito di aver visto nel raggio di luce, vicino alla pianta di alloro che fiancheggiava la chiesa, una bellissima giovane sorridente, che improvvisamente scomparve, mentre si dileguava il raggio celeste. La gente racconta che la Vergine, effigiata sulla facciata della Cappella di Santa Sofia, aveva sino a quel giorno un’aria maestosa e distaccata. Dopo il miracolo, invece, essa si trasformò in una leggiadra fanciulla, colta a passeggiare sui prati in fiore, quasi senza nemmeno sfiorarli coi piedi nudi, incorniciata tra alcuni salici e un alloro, come quello piantato nuovamente di fronte alla facciata della Cappella restaurata. Quanto a Caterina... si sposò ed ebbe figli e nipoti, come in tutte le storie a lieto fine, ma i suoi eredi attuali ne hanno ormai perso il ricordo. Ponti tra mondi diversi: 20 – L’ALBERO NELLA RISAIA Bakary è nato in uno sperduto villaggio dell’Africa occidentale, del quale conserva solo un lontano ricordo. Da piccolo era fermamente convinto che i bianchi portassero via i bambini neri per mangiarseli. Gli zii, nelle lunghe serate intorno al fuoco, raccontavano di uomini bianchi e cattivi, armati di fucili, che portavano via i bimbi del villaggio… e i bambini non ritornavano più. Nei racconti dei vecchi, i bianchi apparivano come persone d’un altro mondo, con modi strani di vestirsi e di parlare. Persino l’odore dei loro corpi era diverso, sapeva di morte e di putrefazione. I ricordi più importanti dell’infanzia di Bakary sono il volto della madre e la cerimonia del passaggio all’età adulta, quando lo lasciarono per un’intera settimana nel bosco, con i compagni della stessa età, a contatto con gli spiriti degli antenati. Una specie di “corso di sopravvivenza”, destinato a forgiare il cacciatore della selva. Il destino, però, sembra essersi preso gioco di Bakary, perché lo ha allontanato dalle boscaglie e lo ha spinto nella terra dei bianchi, a vendere paccottiglia ai passanti agli angoli delle vie. È sera e la giornata gli è andata male. Ha venduto poco e gli hanno anche sequestrato la merce che esponeva. Il giovane ambulante non ha né la voglia né il coraggio di ritornare al lercio dormitorio per fare i conti dei magri incassi. Si mette a vagare per vie sconosciute; gli ritornano alla mente i pericoli della foresta, i grandi alberi abitati da ogni specie d’uccelli e dalle scimmie, il boschetto sacro vicino al villaggio, dove erano custoditi i feticci di lontani antenati. Bakary cammina, senza rendersi conto del tempo che passa. Attraversa la periferia, supera il capolinea dell’autobus e attraversa discariche di rifiuti, passa oltre la tangenziale e prosegue, tra quartieri dormitorio e ruderi di vecchi cascinali. Il buio lo coglie in mezzo a campi di riso allagati. È una notte di luna piena, saturata dal gracidìo delle rane, da voli di pipistrelli e da nugoli di feroci zanzare. Un acre odore di spazzatura e di diserbanti pesa sulla campagna. Il riflesso della luna sullo specchio delle risaie gli ricorda il suo lontano Paese, nella stagione delle piogge. Bakary tocca con devozione gli amuleti, i grisgris che porta sempre con sé, appesi al braccio, dal giorno dell’iniziazione. Si accoccola sui talloni. Nei riflessi, sulla superficie dell’acqua, gli appare la forma d’una sirena, bianchissima, i lunghi capelli che sembrano serpi. È la signora delle acque, come appare ai pescatori, nelle lagune d’Africa, tra i boschi di mangrovie. Tutti conoscono e temono il potente genio femminile, la figura più pittoresca fra gli spiriti ancestrali. È una bellissima sirena dai capelli chiari, che al cadere della sera esce dalle acque profonde, si siede sulla sponda del fiume e attende un nuovo amante. Identifica il prescelto e lo trascina con sé, nel proprio mondo favoloso. Sotto la luna piena, come in un antico rito d’iniziazione, Bakary danza sul bordo della risaia. Il canto dei grilli e delle rane sale al cielo, ritma la danza, come strumenti di terre lontane. La sirena lo chiama a sé, con movimenti flessuosi. Bakary, con i pantaloni rimboccati, scende nell’acqua. Le sue gambe s’intrecciano con le code della sirena, i capelli di lei gli avvolgono i lineamenti sudati e si avvinghiano come serpenti, i due sorrisi s’incontrano. Le forme si contorcono, sotto le livide luci d’una periferia urbana e della luna piena. Nell’acqua d’una risaia, ai margini della grande città, sembra che si tocchino due mondi: quello d’un tempo, con le entità che popolano la natura, e quello di domani, in cui l’uomo stenta a trovare il proprio posto. Ora sembra che un baobab affondi le radici nell’acqua della risaia: l’albero magico nel quale i poeti e i cantastorie raggiungono il riposo eterno. I baobab crescono lungo le antiche piste degli elefanti, i quali ne sono ghiotti e contribuivano, con i loro escrementi, a diffonderne i semi. Una sorta di “simbiosi tra giganti”. Dove ormai gli elefanti sono conosciuti solo in fotografia, i loro antichi tragitti sono ancora riconoscibili perché segnati da una scia di baobab, piante sacre, nel tronco cavo si seppelliscono i griots. Il griot è il cantore dell’Africa nera, che ricorda e celebra i fasti e le tragedie; quando conclude la propria vita, viene sepolto all’interno del grande albero sacro. Ogni anno l’albero si anima, per una sola notte, sotto la luna piena. Si copre di fiori bianchi ed è popolato, dagli spiriti degli antenati e della natura, da tutti gli uccelli e gli animaletti del mondo dei vivi. È il sabba d’una notte, che vede partecipare Bakary, la Signora delle Acque e la luna e si svolge senza testimoni. L’indomani un albero spoglio si ergerà al centro del campo allagato e tenderà al cielo i suoi rami, come moncherini privi di mani. Pochi fiori bianchi, dischiusi, appassiti e caduti nel breve tempo d’una notte, galleggeranno sulle acque come barchette di carta. Qualcuno troverà sul bordo della risaia un amuleto, un grisgris di cuoio, ornato da una conchiglia di spiagge lontane. L’albero dal tronco cavo, uscito dal passato, da un’altra terra e da un’altra luna, accoglierà il griot, il poeta venuto da lontano. 21 – ROSE, RAGAZZA DELLA NOTTE Una sera, sul treno da Torino verso Voghera, fra gli studenti che ritornavano dall’Università, mi trovo seduto accanto a Rose. Ha venticinque anni, è una Ibo ed è nata nel Biafra. Rose è cittadina della Nigeria. I suoi documenti recano una fotografia che le somiglia, ma un altro nome. La ragazza deve proteggersi dalle nostre leggi, è un’immigrata clandestina. Abita nei pressi della stazione di Porta Nuova, in un quartiere popolato da immigrati e da ogni genere di delinquenti. Tutti i giorni si alza dopo mezzogiorno, nella misera stanza che condivide con altre tre ragazze. Scende nelle vie della ‘Casbah torinese’ a mangiare qualcosa e a cercare qualche cliente occasionale. Usa le poche ore libere per chiacchierare con le sue compagne, in attesa della partenza del pomeriggio. Verso le sei di sera, i treni che partono verso Piacenza caricano decine, centinaia di ragazze come Rose, venute a Torino dalla Nigeria, dal Ghana e da altri Paesi della Costa di Guinea, a cercare un po’ di lavoro, nella speranza di una vita migliore. Vanno a vendere il loro corpo, nei paesi e nelle città lungo la via Emilia, accompagnate da giovani nordafricani che le scortano e le controllano, sotto la ‘protezione’ d’un apparato mafioso che le sfrutta. Alla stessa ora altri treni, anch’essi carichi di ragazze, partono da Genova, da Milano. Tutti s’incrociano a Voghera, come nastri di seta, di luci e di profumi esotici che si annodano nella notte. Le ragazze rischiano la salute per un misero guadagno, per risparmiare qualcosa che possa garantire loro un futuro, ma la gran parte dei loro incassi va nelle tasche dell’apparato che le sfrutta. Qualcuna si gioca anche la vita, come quelle due amiche di Rose che sono state uccise e bruciate, di notte, sulla strada, nell’ultimo anno. Rose mi parla della sua vita nel villaggio in mezzo alle lagune, nel gran delta del fiume, dove ha trascorso la propria infanzia, ben lontano dalle nebbie di Stradella e di Castelsangiovanni. La vita della famiglia di contadini e pescatori. I giochi di bambina, la capanna della madre con l’altare degli antenati, i riti d’iniziazione. Non si può ricordare dell’atroce guerra che ha opposto il suo popolo al governo nigeriano, tanti anni fa: lei non era ancora nata. Aveva quattordici anni quando conobbe la città: la grande città di Lagos, dove ha cominciato a prostituirsi, ancora ragazzina. Ricorda la strada, la fame, i missionari. Aveva poche possibilità di far fortuna, anzi una sola: quella che inevitabilmente ha scelto. Le ragazze sono salite sul treno in ciabatte, struccate. Mentre chiacchierano, si truccano e si preparano per il lavoro. à un trucco pesante, su un fondotinta grigio, quasi da cadavere, che attenua la lucentezza quasi cerca del loro volto. Con fare quasi indifferente, mentre mi parla, Rose accavalla una gamba sulle mie e comincia a giocare con la cerniera dei miei pantaloni. La lascio fare: non sono un cliente e voglio vedere sino a che punto si spingerà... la ragazza prosegue, senza esitazioni, come se ci conoscessimo da sempre. Intanto mi parla di nottate gelide e di clienti squallidi, nel suo gergo un po’ pidgin english. Mi parla di mafia e di giri di droga, che costituiscono la sua realtà di tutti i giorni. Così, con semplicità, si chiede perché tutti sanno e tutti fingono di non sapere, come se le delinquenti fossero loro, le povere immigrate che non hanno scelta, che devono rinunciare persino al proprio nome per rischiare la vita ogni notte sui bordi della statale Emilia. Le ragazze intorno a noi ridono, un po’ sguaiate, parlano tra loro una lingua che non capisco. Intuisco che commentano la nostra conversazione. Rose abita in una squallida stanza, vicino alla stazione di Torino, e strade buie, nella notte limpida con la nebbia con la pioggia col gelo, con tanti fari che passano nella notte e a volte si fermano. Tanti angoli freddi di campagna e tanti clienti. Chissà che anagrafe potrebbe tenere, se organizzasse un archivio... eppure, Rose non è particolarmente bella né seducente. Non è una di quelle ragazze eritree e somale che riempivano i sogni dei nostri nonni e dei nostri padri, quando partivano per l’Africa lontana. Lei e le sue amiche si sono specializzate ad animare le notti della grande strada, ma non rimangono nei sogni di nessuno. lì loro sogno, poi, sarebbe quello di poter ritornare un giorno laggiù, sulle rive dell’Oceano, a guardare la spiaggia e le onde di risacca, oltre le quali, un giorno, apparivano le navi negriere. Navi che arrivavano e ripartivano, cariche della sua gente. Oggi come allora, la gente parte senza ritorno. La stazione di Voghera è vicina, mi preparo a scendere. Le ragazze nigeriane hanno quasi finito di truccarsi. Hanno messo in borsa le ciabatte e indossato le scarpe con tacchi esagerati. La mano e la gamba di Rose si ritirano e mi lasciano. Il suo racconto mi ha riempito di tristezza. Non l’ho più rivista. Ho visto però altre decine di Rose, sui treni, agli incroci, nelle foto sui giornali. Oggetti, ‘problemi sociali’, casi di cronaca. Per una volta, ne ho conosciuta una come ragazza. Rose si avvia per la sua strada, io per la mia. La mia auto è parcheggiata poco lontano, a casa mi aspetta la cena con la mia famiglia. Domani forse leggerò sul giornale d’una lite, d’un delitto che si è svolto lungo la strada statale, forse di un’anonima ragazza nigeriana – un’altra, tra le tante – che è rimasta vittima di qualche occasionale ‘cliente’. 22 – LA LUNA ROSSA Gli arabi la chiamano alqamar alahmar: la luna rossa. Quando il vento solleva la sabbia del deserto sino ad oscurare le sommità dell’atmosfera, la luce della luna piena può diventare rossa come il sangue. È impressionante la vista del globo incandescente che si leva enorme dall’orizzonte orientale, mentre il sole cala nella direzione opposta. Un fenomeno che noi, scettici uomini moderni, cerchiamo di spiegare razionalmente, ma che ha sempre costituito per i marinai un presagio di sventura. Dicono che con la luna rossa accadano strane cose, che si possano addirittura creare ponti di comunicazione con altri mondi. In quelle notti tutto può accadere. Navi cariche di uomini, pur dotate di raffinati strumenti, perdono la rotta, mentre antichi vascelli, con ciurme di fantasmi, prendono nuovamente corpo attraverso le nebbie del tempo. I vecchi raccontano la storia di quella feluca carica d’uomini, con gli stendardi della mezzaluna, che fu vista entrare in una notte di luna rossa nel porto di Messina: scivolava lieve sull’acqua, circondata da una coltre di foschia, come un fantasma d’altri tempi. Attraversò l’imboccatura del porto a vele spiegate: vele nere come la pece. Virò all’interno della gran falce sabbiosa che protegge il bacino interno e si diresse verso le banchine. L’imbarcazione puntava sui moli a gran velocità, sembrava non volersi fermare; ma si dissolse nella foschia e negli spruzzi, con tutto il proprio equipaggio, pochi istanti prima di toccare terra. Dopo molti anni, i passanti distoglievano ancora gli occhi con timore da una gran macchia nera, rimasta impressa sul molo, e si facevano il segno della croce, biascicando qualcosa tra i denti. Una notte di luna rossa mi trovavo su una nave greca, da qualche parte nel Canale di Sicilia, a sud-est di Malta. Era un piccolo scafo di pescatori, che viaggiava per lo più a vela. Aveva solo un vecchio motore che non consentiva una grande autonomia, ma serviva solamente per le manovre d’attracco o d’uscita dai porti. Quella notte il mare era calmo, quasi piatto, coperto da una foschia irreale. Il vento di sabbia proveniente dalla Sirte s’era trasformato in uno scirocco asfissiante e riempiva i polmoni e l’aria d’un pulviscolo impalpabile, rossiccio, dall’acre sentore d’ammoniaca. Tra quelle nubi da palude dello Stige stentava a levarsi una luna piena, con la forma d’un enorme globo rosso, leggermente schiacciato. I marinai videro nettamente l’ombra d’una grande ala nera, come d’un drago, che passava ad oscurarla per un momento. E fu tutto… o quasi. Le bussole della nave impazzirono. Non si vedevano stelle, nella foschia rossiccia che copriva il cielo, e la nave rimase come perduta in una nebbia senza tempo. Quale non fu la sorpresa, al sorgere del sole, nell’accorgerci che ci trovavamo all’imbocco d’una baia, dominato sulla destra da una maestosa rocca; a sinistra, come una visione di fiaba, appariva una città dominata da una collina, meno alta della rocca prospiciente. La città si sviluppava su una serie di giri concentrici e culminava in un maestoso edificio, coperto da una cupola di smeraldo. Le sue mura scintillavano ai raggi del sole nascente, come coperte di metallo, di bagliori d’argento, d’oro e di fuoco. Vedevamo altre navi immobili all’ancora nella rada, ma nessuna traccia d’attività umana. Era come se tutti dormissero, o si fossero trasferiti altrove. Non una voce, non un suono, né un filo di fumo s’alzava dai tetti della città fantasma. Istintivamente, qualcuno dei marinai si fece il segno della croce e borbottò scongiuri tra i denti stretti. Per tutta risposta, un bronzo cominciò a tintinnare, da qualche parte, ritmicamente, come una sinistra campana che battesse a morto… La nave non riusciva ad entrare in porto: il timoniere regolava il timone, gli uomini manovravano le vele, ma era come se una forza invisibile ci respingesse ogni volta, sulla bocca della rada. In quella zona di mare le correnti, forti come fiumi in piena, trascinano le navi per sei ore verso oriente e per altre sei nel verso opposto, ma la nostra nave non si spostava. Sembrava che una volontà soprannaturale ci trattenesse immobili. Si tentò persino d’avviare il debole motore, benché potesse essere di scarso aiuto (perché sapevamo d’essere in alto mare, nonostante la visione). Nulla: non si avviò neppure. Le apparecchiature di bordo erano morte: la radio di bordo, i telefoni, gli altri strumenti di navigazione. Tutto il giorno durò il tentativo. Il sole salì alto nel cielo ed ebbe il tempo di calare, tra la rossa foschia dello scirocco mescolato col simùn del deserto. Si distinguevano bene i tetti e le mura della città misteriosa, che mutavano lentamente tonalità e riflessi abbaglianti sotto il sole, ma non vi appariva anima viva. Avevo con me una macchina fotografica e pensai bene di riprendere qualche inquadratura della misteriosa città, con gli effetti cangianti di luce. Poiché – però – la nave rimaneva immobile, ben presto le riprese fotografiche divennero ripetitive. Decisi d’ingannare il tempo calando una lenza in mare e illudendomi di pescare, mentre riflettevo su tutto e sul nulla della vita. Preferivo isolarmi, per non confrontare il mio nervosismo e alimentarlo con quello degli uomini dell’equipaggio. Ci sentivamo come sospesi nel tempo e nello spazio, avevamo la sensazione che la vita di tutti gli altri uomini del mondo proseguisse indisturbata, mentre noi rimanevamo paralizzati in quel braccio di mare. Non mezz’ora, né mezza giornata: sembrava che un’eternità s’interponesse tra la nave e la sua meta. Mi vedevo, come Odisseo, impegnato nell’impari lotta contro un’oscura volontà. Mi aspettavo di sentire il canto delle sirene: l’avrei preferito a quella calma spettrale. Era come se il miraggio silenzioso fosse uscito dai recessi del nostro inconscio: sogni di marinai, o di gente che ha studiato. Un’isola galleggiante su abissi profondi. Un’Atlantide dai tetti d’oricalco, in cui ciascuno di noi potesse sognare una regina bellissima, esclusiva e crudele, che attendeva soltanto lui. Il silenzio innaturale sembrava preludere ad un tremendo agguato. La calma superficiale non placava la tensione, perché eravamo coscienti di trovarci in una delle zone più infide e pericolose del Mediterraneo, sia per i mutamenti meteorologici, talvolta repentini, sia per la frequentazione dei nostri simili, non sempre raccomandabili. La nostra stessa nave sembrava trasformata in un vascello fantasma. Solo pochi uomini dell’equipaggio giravano in coperta, con un atteggiamento furtivo, di finta indifferenza. Ero certo che il capitano, col personale più fidato, si fosse armato, preparato ad ogni evenienza. Nulla interveniva a spezzare il silenzio: uno squillo di tromba, il cinguettio d’un passero o un’esplosione, che ci risvegliassero dall’incubo angoscioso… Eravamo avvolti in quella bonaccia ovattata e lattiginosa, che trasformava in acque di palude uno dei bracci di mare più insidiosi del mondo. Un giovane marinaio, incapace di rimanere inattivo, volle tuffarsi in acqua. Cercai di trattenerlo. I sensi dicevano che l’acqua era calma, che c’erano un porto ed una città, ma la ragione continuava a ripetere: no. Al contrario, eravamo in balia d’un mare sempre instabile, su fondali profondi centinaia di metri. Se il miraggio si fosse dissolto e se il vento si fosse levato improvviso, come è solito fare da quelle parti, il recupero del giovane sarebbe stato difficile. Altri marinai cercarono di fermare il loro compagno, nel dubbio che potesse esserci un pericolo nascosto…ma fu invano. Nulla da fare, il ragazzo si tuffò. S’immerse in una sorta di nebbia evanescente, come se uno sbuffo di vapore l’avesse avvolto, e scomparve alla nostra vista. Credevamo d’averlo perso. Invece ritornò, ma soltanto dopo diverse ore, stanco e stordito. Appariva innaturalmente invecchiato. I suoi occhi sbarrati avevano visto eventi troppo forti. Da quel momento ha raccontato cose strane: dicono che non abbia più avuto la testa a posto. Il sole non si vedeva più, nascosto dalla foschia, e la luminosità andava scemando. Le ombre s’infittivano tra la bruma che saliva ed il paesaggio intorno si offuscava, come se la città scintillante volesse spegnersi e ritirarsi lontana da noi… senza che l’avessimo mai potuta raggiungere o toccare. Si stava approssimando il tramonto, quando una folata più densa nascose ogni cosa allo sguardo. Un’intensa raffica di vento, carico di sabbia pungente, che durò circa mezz’ora. La sabbia turbinava nei capelli, tra le sartie ed il fasciame delle scialuppe, mentre l’oscurità calava rapida, come pece di calafato spalmata nell’aria densa. Mi ritirai in gran fretta sotto coperta, con tutte le mie cose. Durante la notte, finalmente, il tempo si schiarì. A distesa d’occhio, sotto il chiaro d’una luna ritornata d’argento, nessuna terra colpiva lo sguardo. L’acqua era calma e cupa e la corrente ci trascinava. Solo onde e torme di gabbiani, in cerca di cibo. Le code d’una famiglia di delfini – o forse di sirene? – sembravano sventolare fuor d’acqua, come per salutare. Gli strumenti di bordo erano ritornati in funzione. La mattina seguente, la nave approdò in un piccolo porto della costa tunisina. Scendemmo a terra e ben presto la nostra avventura entrò a far parte delle leggende locali. Cercammo d’individuare la posizione in cui la nostra imbarcazione era rimasta bloccata, durante quella lunga giornata. Non eravamo però in grado d’identificare con precisione il luogo del misterioso evento, vista la lunga paralisi subita dagli strumenti di bordo. Allora scoprii con stupore che in quella zona di mare esiste un bassofondo, chiamato dai pescatori del Canale ‘banco Medina’, con un termine che in arabo significa ‘città’. Nessuno sapeva spiegarmene la ragione. Forse – dicevano i vecchi del paese – qualche barca di pescatori aveva rotto le reti, in passato, proprio in quella posizione, ed aveva ripescato qualche oggetto: frammenti di marmo, oggetti metallici. Perciò il nome di ‘città’ era stato dato da oltre cent’anni a quel bassofondo misterioso. Nonostante tutti i miei sforzi, non riuscii a rintracciare nessun oggetto ripescato dal mare. Inoltre non c’era memoria di visioni, né di fantasmi di città emersi dalle onde. La chiglia della nostra nave appariva striata da lunghi e profondi graffi, come se gli artigli d’un essere gigantesco avessero cercato di trattenerla. Il giovane che si era tuffato in acqua, ed era tornato con gli occhi sbarrati per sempre verso un vuoto lontano, continuava a ripetere frasi smozzicate. Era vittima d’incubi notturni, sembrava che continuasse ad assistere ad un immane cataclisma, con uomini, donne e bambini che, sotto i suoi occhi, soccombevano vittime d’una strage superiore ad ogni comprensione umana. Dopo breve tempo, i suoi capelli divennero tutti bianchi. Non riuscivo a spiegarmi se l’intero equipaggio fosse stato vittima di un’allucinazione collettiva, o se la notte della luna rossa avesse veramente creato le condizioni favorevoli per un ‘ponte’ tra due mondi, ed avesse fatto riemergere dagli abissi una città che – chissà quante migliaia d’anni fa – poteva essere rimasta sommersa in quel luogo. Lì o altrove – chi sa dirlo? – la memoria collettiva dei marinai, che nei secoli hanno percorso i mari, può dar corpo ai fantasmi, agli incubi, alle paure, ma anche ai sogni più meravigliosi che abbiano ossessionato la vita dell’uomo. Nel primo pomeriggio fui colto da un profondo sonno. Non dormivo da oltre quaranta ore e mi risvegliai l’indomani, a mattinata ben inoltrata. Avevo sudato e mi ero agitato, mi rimaneva ancora la testa ben pesante e uno strano sogno, o piuttosto un lungo e contorto incubo, mi turbinava nella memoria. Mi riappariva, per qualche istante, la visione della città misteriosa. Non era più una città fantasma, era diventata piena di vita. Mercanti, donne, bambini si muovevano chiassosi per le strade. L’animazione più frenetica sembrava volersi prendere la rivincita sulla pausa d’immobilità, che la città aveva manifestato il giorno precedente. Mi muovevo in sogno per le vie, pienamente a mio agio, come se quell’ambiente mi fosse familiare, anzi come se fosse stato la mia culla naturale. Poi la visione si offuscava e tutto tremava, sotto l’urto improvviso d’un terremoto. Diverse scosse, lunghissime, terribili, che sembravano rompere in pezzi l’intero globo terrestre. Una pausa, un lungo silenzio innaturale, come il ‘fermo–immagine’ d’un film… e subito un cupo rombo minaccioso scendeva dalla montagna. La valle verde di messi e di vegetazione, percorsa dal fiume che aveva dato vita alla città ed alle sue terre, si stava trasformando in un’immane cascata di terra e fango. In una lunga ora di panico, l’intera città comprese che non v’era salvezza. Non verso la terra, che andava scomparendo sotto quella marea di sporca fanghiglia. Non verso il mare, già percosso da lunghe ondate di maremoto, che avevano creato scompiglio nella flotta. La catastrofe era inevitabile. Nel mio incubo ne rivissi tutto il dramma, come se una memoria ancestrale stesse riemergendo dalle nebbie del tempo, dopo migliaia di generazioni. Era come se un vortice mi roteasse intorno e cercasse di trascinarmi, anche quando mi alzai e cercai di ritornare agli affari quotidiani: mi sentivo travolto da un turbine d’acqua, di vento, di schiume fangose. Alla calma innaturale, all’inattività forzata del giorno prima, era subentrato nella mia mente un parossismo di movimento, di torsione. Come un uragano, o piuttosto un gorgo che mi abbracciasse, per trascinarmi nelle nere profondità. Mi sentivo instabile e percepivo come un richiamo ancestrale, una viva presenza che mi spingesse a chiudere gli occhi, per ritrovare le sensazioni, le immagini, i rumori e le voci del sogno. Per quanto quelle esperienze fossero state angosciose, mi animava il bisogno di riviverle; ma non riuscivo a richiamare il filo conduttore. Mantenevo soltanto la vaga sensazione di presenze, di fantasmi intorno a me, che mi accoglievano e mi suggerivano memorie, sensazioni, moniti. Dal buio dell’orrore si distaccava e si ripeteva incalzante, angoscioso, il singhiozzo d’un bambino. Nelle mie fotografie di quella lunga giornata di bonaccia, quando le feci sviluppare, non appariva null’altro che una vuota, piatta distesa di mare. Nessuna traccia del porto, dell’isola, della rada misteriosa, né dei tetti della misteriosa città. Sono passati molti anni. Altre volte ho visto strani fenomeni, nel cielo e all’orizzonte. Mi è capitato di vedere altre notti di ‘luna rossa’. L’esperienza di quel viaggio, però, è rimasta unica. Mai più mi sono sentito direttamente coinvolto, come ‘protagonista’, in un fenomeno inspiegabile. Ogni volta che il pensiero ritorna all’immagine di quella città, rivivo il senso di totale impotenza di quella giornata. Era come se sotto i tetti, dietro le facciate di quelle case deserte ci spiassero schiere di fantasmi, come se là si celasse la grande rivelazione, che avrebbe potuto cambiare tutta la mia vita – o forse i destini del mondo intero. Un’occasione perduta… o rimandata? Quando ci ripenso, ‘sento’ che dovrà ancora capitarmi. Percepisco l’esperienza di quel giorno, sul Canale di Sicilia, come un’oscura premonizione. Conservo ancora i due robusti ami, con cui pescavo, per cercare d’ingannare il tempo, in quel giorno di bonaccia. Secondo le carte ci dovevamo trovare su un fondale di quasi duecento metri, ma io vedevo il canale d’imbocco del misterioso porto. Quel giorno, il primo amo rimase impigliato. Riuscii a recuperarlo con grandi sforzi: si era deformato. Pensai che si fosse agganciato a qualche relitto sommerso. Lo cambiai. Il secondo riemerse con una sorpresa. Se mai verrete a casa mia, vi mostrerò il giocattolo d’un bambino d’Atlantide: un bronzetto dorato, che raffigura un carro da guerra o da caccia, con le ruote mobili ed una catenella per trascinarlo. L’auriga leva alta una frusta. Una misteriosa iscrizione corre lungo tutte le sponde del carro. Nessuno è mai riuscito a decifrarla ma, ogni volta che la tocco, mi sembra che desideri raccontarmi una storia triste e remota. Una storia tanto angosciante, che le semplici parole non saprebbero narrarla. Su quel piccolo oggetto è rimasta incrostata la proiezione della tragedia d’un popolo privo d’eredi, un intero popolo sepolto negli abissi, sotto una spessa coltre d’acqua e di fango. Nessuno li ricorderà, perché le loro memorie sono scomparse per sempre, travolte da un’ondata di dimensioni bibliche. Era l’epoca in cui Mosé attraversò il mare col suo popolo. Nello stesso tempo laggiù, nella Piccola Sirte, a duemilacinquecento chilometri di distanza in direzione del tramonto, una serie di terremoti fece incrinare alcuni sbarramenti rocciosi che contenevano le acque. Un enorme bacino idrico si svuotò su un popolo di sventurati e trascinò negli abissi una civiltà millenaria, che era sopravvissuta al deserto, aveva saputo prevalere sui popoli circostanti ed aveva saputo imporre la propria supremazia sui mari. Gli eredi di coloro che avevano eretto tumuli nel cuore dell’Africa, quando le terre – un tempo fertili – erano state conquistate dal deserto, si erano stabiliti in una pianura fertilissima, circondata dai mari più belli del mondo. Avevano eretto grandi monumenti di pietra, ricoperti di metalli preziosi; avevano costruito grandi navi e creato un impero, esteso al di là dei mari. La loro capitale, su un’isola, dominava l’imbocco della baia più bella del mondo. Ancora una volta, però, la natura si accanì contro di loro. Questa volta furono proprio i mari, quei mari che avevano contribuito a creare la loro fortuna: l’uno li travolse, l’altro li seppellì per sempre. Le acque si erano richiuse sulla profonda tomba di quel bambino che giocava col carrettino di bronzo, e di tutta la sua gente. Non avrebbero più avuto eredi che cantassero la loro memoria. Le loro tracce misteriose sarebbero rimaste mute, per gli archeologi che le interrogavano. Il mare dà la vita, il mare la porta via; il mare crea e distrugge, da sempre. Il mare, in certe circostanze, è capace anche del miracolo di creare un ponte attraverso il tempo, per portare a noi brandelli di conoscenze del passato. Solo il mare e la terra, i grembi primordiali della vita, riescono a realizzare tale miracolo, come nessun archivio artificiale potrà mai compiere. Il mare, la terra… o la luna rossa? BIBLIOGRAFIA (in ordine cronologico) Waraba, ed. EMI, Pavia, 1988. Il Santo del prosciutto, “Pavia Economica”, n.3, 1993. Il miracolo di S. Sofia, “Pavia Economica”, n.3, 1995. Anonimo Ticinese e l’ultimo templare, ed. Liutprand, Pavia, 1996. La Maledizione di San Siro, ed. Liutprand, Pavia, 1999. Il Tesoro dell’Antipapa, nei sotterranei segreti della Certosa di Pavia, ed. Liutprand, Pavia, 2003. I racconti del Prione, Selezione 2003, ed. Giacché, La Spezia, 2003. I racconti del Prione, Selezione 2004, ed. Giacché, La Spezia, 2004. Club des Poètes, Premio di Poesia e Narrativa “Rivoli 2005”, Poesie e racconti premiati, Rivoli, 2005.