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racconti da due mondi
Alberto Arecchi
racconti
da due mondi
ed. Liutprand, Pavia, 2006
L’autore
Alberto Arecchi è nato a Messina e vive a Pavia. È architetto, professore di Disegno, Storia
dell’Arte, Tecnologia e Costruzioni. Ha avuto una lunga esperienza in progetti di cooperazione allo
sviluppo, in diversi Paesi africani (dal 1975 al 1995), come professore ed esperto di tecnologie
appropriate per la pianificazione dell’habitat.
Arecchi è autore di diversi articoli e saggi sulla storia di Pavia e del suo territorio, ma anche sulle
culture africane, sull’habitat e le tecnologie appropriate, sul’uso di materiali locali migliorati per le
costruzioni. È fondatore e presidente del’Associazione culturale Liutprand, di Pavia, che pubblica
studi di storia e tradizioni locali, senza trascurare i rapporti inter-culturali.
Ho pensato che avrei dovuto – o potuto – dedicare questa raccolta di racconti a qualcuno, ma
erano troppe le persone a cui mi sarebbe piaciuto dedicarla. Molti di loro la riceveranno dalle mie
mani, e ciò costituirà una dedica. Ad altri non mi è più possibile consegnarla, ma in realtà non c’è
motivo per gridare al mondo il loro nome, basta che io l’abbia nel cuore. Rimangono però alcune
migliaia di bambini, incontrati sui sentieri dell’Africa. Tre bambine, tra tutte, emergono in modo
particolare dai ricordi, conosciute rispettivamente in Mozambico, in Senegal, in Mali. Oggi le loro
età dovrebbero essere comprese tra i 21 ed i 35 anni. Lasciamo che anche questa sia una dedica
“segreta”.
La prima raccolta di “storie” scritta da Arecchi è stata:
La Saga del Ticino, ed. I Quaderni del Ticino, Magenta, 1982.
Altre sue opere di narrativa:
Waraba, ed. EMI, Pavia, 1988.
Anonimo Ticinese e l’ultimo templare, Liutprand, Pavia, 1996 (seconda edizione, modificata, di
Waraba).
La Maledizione di San Siro. La verità pericolosa , Liutprand, Pavia, 1999.
Menzione d’onore al V Premio Nazionale di Poesia e Narrativa Pinayrano, 2005.
Il Tesoro dell’Antipapa, nei sotterranei segreti della Certosa di Pavia, Liutprand, Pavia, 2003.
Racconti premiati o segnalati in concorsi letterari:
“Il Prione”, La Spezia, 2003 – Premio speciale per racconto con soggetto “il mare”
(Noi che siamo stati a Ngazobil, racconto n. 8).
“L’Albero dei Racconti”, Ass. Cult. Nero Puro, Chieti, 2004 – Finalista.
“Un racconto per l’estate”, Borghetto Santo Spirito (SV), 2004 – Segnalato
(Lettera dall’Africa, racconto n. 7).
“Il Prione”, La Spezia, 2004 – Finalista;
“Il Molo”, Viareggio (LU), 2005 – Segnalato (La luna rossa, racconto n. 22).
“Club des Poètes”, Rivoli, 2005 – Quinto Premio (Il diavolo di Numidia, racconto n. 1).
“Un racconto per l’estate”, Borghetto Santo Spirito (SV), 2005 – Segnalato.
“Alla luce delle Mainarde”, Rocchetta a Volturno (IS), 2005 – Finalista
(Il pozzo, racconto n. 4).
“Piccole storie d’acqua”, Culturaglobale – Vileg novella dal Judri, San Giovanni al Natisone (UD),
2005 – Terzo premio ex aequo (Pioggia, racconto n. 5).
“XIV Premio letterario interlingue Montagne d’Argento - Il Primo Amore”, Aosta, 2005 – Finalista
al XVII posto (L’Albero nella risaia, racconto n. 20).
“Scrittori inediti” – Circolo culturale Archeosofia, Modena – Sesto premio (Culex Park – Il Parco
delle Zanzare, racconto n. 16).
Prima edizione: aprile 2006.
© Associazione Culturale Liutprand
via Folla di sopra 7 – 27100 Pavia
sito internet: http://www.liutprand.it
e-mail: [email protected]
Tutti i diritti riservati.
INDICE
Oltre lo specchio:
1 – Il diavolo di Numidia
2 – Ai piedi della duna gialla
3 – L’oasi dell’uguaglianza
4 – Il pozzo
5 – Pioggia
6 – La casa di Mosé
7 – Lettera dall’Africa
8 – Noi che siamo stati a Ngazobil
9 – Dikko Harakoy, la Regina del Fiume Niger
10 – Il mito della Regina Aura Abla Poku
11 – Lettera dall’Africa Centrale
12 – Le raccomandazioni d’un padre
Da questo lato dello specchio:
13 – L’eredità del Patriarca
14 – Nelle paludi del Sigmàr
15 – La Mosca
16 – Culex Park – Il Parco delle Zanzare
17 – Il campo dei morti
18 – Il santo del prosciutto
19 – Il miracolo di Santa Sofia
Ponti tra mondi diversi:
20 – L’albero nella risaia
21 – Rose, ragazza della notte
22 – La luna rossa
Oltre lo specchio:
1 – IL DIAVOLO DI NUMIDIA
Sono pronto a scommettere che nessuno di voi ha mai incontrato il diavolo di Numidia.
Io credo d’averlo visto nel gennaio del 1979, mentre viaggiavo col mio Maggiolino Volkswagen
per attraversare le montagne della Medjerda, tra la Tunisia e l’Algeria. Era una notte molto piovosa
e la strada, stretta e ricca di tornanti, non era dotata di protezioni adeguate per garantire al
viaggiatore di non volare diritto nel prossimo burrone. Portavo con me tutti gli effetti di casa,
perché mi stavo trasferendo ad Algeri. Mi ero imbarcato a Genova, sotto la pioggia. Allo sbarco alla
Goulette, pioveva. Ventiquattr’ore d’acqua dietro le spalle, l’acqua dei laghi di Tunisi da una parte e
dall’altra, acqua anche dal cielo. Veramente troppo: provate a raccontarlo a chi è convinto che in
Africa non piova mai. Abbandonai la primitiva intenzione di trascorrere una giornata a Tunisi e
decisi di non fermarmi. Lungo la strada costiera sarei arrivato per la notte ad Annaba, ma la città
portuale era famosa per i suoi ladri, capaci di tagliarvi le gomme agli incroci per obbligarvi a
scendere e derubarvi… io avevo l’auto carica di tutti i miei beni, compresi libri, caffettiera e
lenzuola, e volevo riuscire a trasferire il tutto nella mia nuova casa. Così mi ero avventurato su
quella strada, che sulla carta non sembrava troppo disagevole, nella convinzione d’arrivare prima
del buio a Souk Ahras, l’antica Thagaste, città natale di Sant’Agostino, oggi tranquilla cittadina di
montagna, dall’altra parte della frontiera. La pioggia e le terribili curve di quella strada di montagna
stavano invece per regalarmi una notte da tregenda.
Era un percorso ricco di memorie storiche: sulla cartina abbondavano i simboli indicatori di
“rovine” romane e numidiche. Lungo quella direttrice, nella seconda guerra mondiale, le forze
alleate erano partite alla riconquista del Maghreb. Su quelle montagne, vent’anni prima, avevano
combattuto i fellagha (ribelli algerini, in rivolta contro l’Algeria francese). Le truppe coloniali
avevano cercato allora di costruire una linea “impenetrabile” di fortini e di filo spinato, per impedire
l’approvvigionamento dei ribelli.
Le segnalazioni erano scarse, ma non temevo di perdermi: la stretta strada asfaltata, tutta curve e
tornanti, continuava a salire verso il cielo, priva di deviazioni, nel nero invisibile della notte.
Pensavo che Sant’Agostino, da piccolo, poteva aver cercato funghi o ciclamini per quei boschi,
sotto le querce da sughero… anche Apuleio era originario della zona… ma queste riflessioni non
contribuivano a migliorare la visuale quando – nei tornanti più esposti – un improvviso scroscio di
pioggia sembrava cancellare la strada sotto le ruote. Cercavo di non pensare a ciò che mi poteva
attendere dopo la prossima curva, canticchiando tra i denti qualche canzone quasi dimenticata.
Dopo una decina di minuti, però, la tensione riprendeva il sopravvento.
Stavo per dimenticare una cosa. Oltre la pioggia, le curve, il buio, i lampi improvvisi che
rischiaravano la notte e le canzoncine borbottate tra i denti (o forse strillate ad alta voce, non mi
ricordo bene), avevo una “paura blu” che qualche animale selvatico, all’improvviso, venisse ad
attraversarmi la strada: un marcassin (piccolo cinghiale), una scimmia, un cane randagio, una volpe
o qualsiasi altro essere vivente. Nella notte buia l’auto si sarebbe potuta fermare e non ripartire
più… meglio non pensarci troppo.
Questo può forse contribuire a spiegare perché non mi fermai, ma esitai un momento – un
lunghissimo momento… – quando nel bel mezzo d’uno stretto tornante verso destra, col buio che
s’apriva di fronte a me, e non sapevo se fosse un dirupo, un bosco o che cos’altro, una sagoma
bianca mi apparve all’improvviso. Una grande ombra pallida, ad ali spiegate: doveva essere un
rapace notturno in caccia, forse un bururu, un barbagianni. Si fermò un momento a mezz’aria,
volteggiò nella luce gialla dei fari e scomparve verso la mia sinistra, mentre il mio sguardo cercava
nuovamente di riconoscere la strada.
Un istante – o un secolo – dopo, ritorno in me da un breve mancamento, con la fronte imperlata
di sudori freddi. Mi scuotono i sibili dei colpi di mortaio. Sono sempre sulla strada, nella notte
tempestosa, ma alla guida d’un mezzo blindato. Da due osservatori, posti su speroni che sovrastano
il percorso, i raggi delle fotoelettriche sciabolano la montagna, alla ricerca dei “ribelli”. Lunghe
raffiche di mitragliatrice tagliano la notte. Come ombre che si dissolvono nel buio, i fellagha non si
vedono. Il mio mezzo passa proprio nel tiro incrociato dei proiettili traccianti e vedo di fronte a me,
distintamente, una maschera ghignante che mi sorride: una specie d’arpia, appollaiata per un attimo
sul cofano del mio automezzo. Come un fuoco fatuo, o come se fosse di fosforo, la larva brilla di
luce propria e volteggia e si sposta, di qua e di là.
Mi sento in pericolo immediato, l’apparizione ballerina mi spaventa di più delle raffiche e della
tempesta. Devo sforzarmi per rimanere saldo e padrone di me stesso, gli occhi ben aperti nella
notte, devo cercare di non distrarmi. So per istinto che il seguire con lo sguardo i movimenti
dell’apparizione mi porterebbe senza scampo fuori strada, giù per il burrone scosceso. Il vento del
nord porta violente raffiche di pioggia. La scaramuccia sembra finita, ma qualche colpo isolato
scuote il buio. Gli occhi corrono tra le ombre delle tuie e delle querce, alla ricerca del luccichio di
un’arma o del movimento delle djellabat (i lunghi mantelli) dei ribelli. Vedo invece soltanto turbinii
di tempesta e rami che ondeggiano nelle raffiche del vento; ma nel gioco di luci e d’ombre, a tratti,
trapela ancora il ghigno atroce della visione. La maschera luminosa pulsa come una lucciola e
sembra invitarmi a seguirla. Volteggia e va a fermarsi presso una radura, ad una cinquantina di
metri dalla strada.
Proprio in quel momento, il volto dal ghigno satanico esplode in mille frammenti: schegge di
luce, di legno, di terra umida e di metallo. Un colpo di mortaio ha centrato una baracca, un piccolo
deposito di munizioni. Lunghi secondi di fuochi artificiali. Mi fermo, scendo dall’automezzo e mi
avvicino con circospezione alla radura. Riverso nel proprio sangue, un giovane soldato in tuta
mimetica, dal volto sfigurato per l’esplosione, rantola ancora e spira tra le mie braccia. Non potrò
mai sapere se fosse un francese, un mercenario della Legione o un “ribelle”. Nessun segno
l’identifica e di fronte alla morte i giovani sono tutti uguali. Negli ultimi sussulti, ha tratto dalla
tasca la foto d’una ragazza ed ora la stringe convulsamente in mano, come se tentasse d’aggrapparsi
a quell’ultima speranza, a quell’ultimo ricordo. Lo lascio là, sotto la pioggia, nel buio e nel silenzio
che sono diventati assoluti. Sulla strada, coi fari accesi, mi aspetta il mio Maggiolino.
Durante quel viaggio, nel 1979, arrivai a Souk Ahras che era già notte avanzata ed incontrai non
poche difficoltà a trovare una camera per riposare. Ebbi la fortuna d’incontrare per le strade deserte
un funzionario pubblico, che si offrì ad accompagnarmi alla polizia, per telefonare ai pochi alberghi
della città, per riuscire a farmi dare un giaciglio. Mi ricordo ancora dello squallido alberghetto, le
cui lenzuola avevano definitivamente perduto il loro candore ed erano così incrostate da poter
rimanere appoggiate al muro, in posizione verticale, senza afflosciarsi. Rimasi nel letto
completamente vestito, grato alla stagione per la nottata fredda. Dormii poco, ancora scosso dal
viaggio nella tempesta, dalla visione, dagli spari, dall’immagine di quel giovane straziato. Mi
svegliai e ripresi sonno almeno quattro o cinque volte: la notte non passava mai. L’indomani la
tempesta si era calmata e il cielo andava aprendosi verso nord: il vento non portava più nubi dal
mare. Non appena vi fu luce a sufficienza, saltai sul mio Maggiolino e proseguii il viaggio verso
Algeri.
Nel mio lungo soggiorno in quei Paesi ho potuto scoprire, da libri e da conversazioni, le
leggende che si narrano, relative ad apparizioni simili a quella che avevo visto quella notte.
Il “diavolo di Numidia” si materializza come una larva o un fantasma, in particolari occasioni,
per predire – o rievocare – eventi infausti, in certe vallate abitate dalle popolazioni berbere, sui
monti tra la Tunisia e l’Algeria. Dicono che il diavolo appaia in Numidia quando qualcuno deve
morire di morte violenta, ma anche che apra brecce temporali, squarci che permettono di conoscere
il passato o il futuro.
In quella notte di tempesta, la larva non era venuta a prendere me… o forse… chi può dirlo? È
certo che la morte si è presa una vita in quel luogo, in quell’ora – ma di quale anno, di quale dei
tanti mondi paralleli?… – e il diavolo di Numidia era là.
2 – AI PIEDI DELLA DUNA GIALLA
“L’ho visto di nuovo!”
Franco si sveglia di soprassalto, un sudore freddo gli imperla la fronte. Per la terza notte
consecutiva, lo tormenta la visione d’una mummia terribile, maestosa, assisa in trono. Si direbbe un
papa, dal volto scheletrito, con la tiara sul capo, coperto di gioielli. Anelli a tutte le dita, coperti di
pietre preziose, ed una pesante croce pettorale, tutta d’oro. La tiara massiccia brilla nel buio, come
di luce propria, tanto è ricoperta d’oro e d’argento.
Il caporale François (Franco) è di servizio presso il fortino di ’Ain-Sefra (“la sorgente gialla”,
cosiddetta dall’intenso color zafferano della sabbia), lungo la linea ferrata di Colomb-Béchar, nel
sud-ovest dell’Algeria. Ha compiuto da poco vent’anni e si trova in quel forte da circa quattro mesi.
L’abbiamo chiamato Franco e quello è il suo vero nome, o almeno lo era sino a due anni prima,
quando in fretta e furia ha passato la frontiera a Ventimiglia ed è corso ad arruolarsi nella Legione
Straniera. Dopo pochi mesi d’addestramento in Corsica, è partito per l’Algeria col 2° REI e da Sidibel-Abbès l’hanno spedito qui, tra gli alberi di pistacchi e le praterie d’alfa, a far la guardia alle
frontiere occidentali dell’Algeria francese.
Franco è un bel giovane, dagli occhi chiari e dai riccioli biondi. Agile e sportivo, sempre
scattante, forse dimostra qualcosa meno dei suoi vent’anni. Lo chiamano “il biondino”.
Il giovane caporale della Legione è ossessionato da anni da quella visione notturna, che l’ha
risvegliato anche lì, tra rocce e dune. Il vento freddo scende dalla cresta del Djebel Aissa, oltre mille
e duecento metri più in alto, e fischia tra le concertine di filo spinato stese a protezione dei convogli
militari, in quella fredda notte di dicembre del 1958. I ribelli (fellagha) penetrano silenziosi dalle
montagne del Marocco, s’infiltrano nei territori del Sud per combattere contro la presenza degli
Europei, e i giovani della Legione devono guardare i convogli che percorrono la linea fortificata,
per mille chilometri nel deserto, verso un lontano orizzonte giallo come lo zafferano…
A nord, ai lati della linea ferrata, le praterie d’alfa sono state incendiate, perché l’altezza delle
piante poteva fornire un facile nascondiglio ai ribelli. Verso sud, la lunga duna gialla, con i suoi
canaloni di sabbia, offre altri rifugi agli uomini che si muovono come ombre. Ma non è la guerra,
non sono i fellagha che angosciano il caporale Franco: è il ricordo d’un lontano sotterraneo, sepolto
sotto le risaie della sua terra d’origine, in cui un giorno ha visto – o forse solo sognato? – una
processione di mummie, immobili e silenziose, coperte d’ori e di gioielli.
È una notte senza luna, adatta alle imboscate. Le stelle brillano nel cielo terso dell’inverno. Il
vento che fischia nello stretto canalone, sotto il fortino, ha assunto i toni della voce della mummia,
per dire al giovane: “Ci rivedremo, t’aspetto”.
François s’è risvegliato di colpo, la fronte imperlata di sudori freddi. In realtà non è stata la voce
della mummia a scuoterlo: il biondino si sveglia tra i sibili dei colpi di mortaio. Dai due osservatori,
posti sugli speroni a sud e a nord del fortino, i raggi delle fotoelettriche sciabolano la montagna, alla
ricerca dei “ribelli”. In pochi minuti, l’intero posto è in allarme. Come ombre dissolte nel buio, dei
fellagha non c’è alcuna traccia. Domani, forse, si troveranno i soliti massi sui binari, collocati a
disturbo dei convogli, nei passaggi più stretti e tortuosi.
È l’ora del cambio, e il biondino deve montare di guardia alla ridotta nord, all’imbocco della
valle dei pistacchi. La notte, per lui, è finita. Il suo incubo ricorrente, quello d’ogni sogno, da
quando era ragazzo, si è dissolto con le poche ore di sonno. Forse ritornerà domani. Ora bisogna
tenere gli occhi aperti, pur sapendo che il nemico silenzioso non tenta mai di colpire due volte nella
stessa notte… Il vento si alza da sud e porta ampie folate di sabbia. Qualche sentinella, ogni tanto,
lascia partire un colpo, per tenersi o per “sentirsi” sveglia. Col suo joint de kif tra le labbra
(inseparabile compagno del legionario), il biondino scruta in continuazione le dure pareti del Djebel
Aissa; i suoi occhi corrono tra le ombre delle tuie e delle querce, per cercare d’individuare il
luccichio di un’arma o il movimento delle djellabat dei ribelli. Vede soltanto folate di sabbia,
turbinanti sui fianchi del monte, e rami che ondeggiano nelle raffiche del vento; ma nel gioco di luci
e d’ombre, ogni tanto, trapela ancora il ghigno atroce della mummia.
A casa di Geggiga
Ya rumi, arwah! Vieni qui, cristiano!
L’unico svago consentito a ’Ain Sefra per i giovani militari, quando hanno qualche ora di libera
uscita, è “addar Geggiga” (chez Geggiga, a casa di Geggiga), in una casetta, posta in fondo ad un
vicolo a zig-zag, in cui una donna berbera, di nome Geggiga, offre i propri favori, con cinque
giovani ragazze. Il villaggio è uno snodo di grande importanza strategica, una delle porte di
passaggio tra l’Algeria e le montagne del Marocco, ma è veramente “uno sputo”, composto di
qualche centinaio di case, immerse in un ciuffo di palme, proprio nel letto del wed (torrente). La
strada attraversa a guado l’acqua, quando c’è e quando non è troppo violenta. Siamo in inverno e
quindi, ora, l’acqua è tanta. Si ricordano le grandi piene di questa stagione, quando la pioggia ha
portato giù dai monti milioni di metri cubi d’acqua ed ha causato danni e morti.
Nel piccolo villaggio si ricordano ancora le gravissime devastazioni del 21 ottobre 1904, causate
da una piena improvvisa, che portò via praticamente tutte le case e uccise anche la ventisettenne
Isabelle Eberhardt, un’avventuriera svizzera d’origine russa, autrice di opere poetiche che ricordano
nello stile quelle d’Arthur Rimbaud, che si era convertita all’Islam, si era stabilita qui; qui, nel
cimitero musulmano, è oggi sepolta.
Da ’Ain Sefra, l’anno prima, era partito il generale Lyautey, governatore del Marocco, per
“riappacificare” il sud della regione d’Orano ed esorcizzare la possibilità d’una rivolta antifrancese,
dopo l’imboscata al governatore Jonnart, al passo di Figuig.
Franco oggi è in libera uscita. Si mette l’uniforme bella, esce con due compagni e s’inoltrano per
le viuzze del villaggio, diretti a casa di Geggiga. Il corso d’acqua è in piena, lo superano su una
passerella precaria, per non bagnarsi gli stivali d’ordinanza. Percorrono le stradine tutte angoli, tra il
profumo d’aranci e limoni coi frutti maturi. Incrociano qualche contadino che ritorna dal palmeto,
seduto sul posteriore del proprio asino. Tutti salutano cordialmente i legionari: sembra che la guerra
sia lontana mille miglia da quest’angolo di paradiso. Vicino alla casa di Geggiga, i tre incontrano
l’immancabile ronda. Si salutano cordialmente: nulla di nuovo, il posto è tranquillo.
La piccola Aisha è la ragazza preferita da Franco. Ogni volta che è libera, il ragazzo sceglie lei.
La metà del suo sangue è tuareg, è come una piccola pantera. Quando è in forma, si scatena e
nessuno la può fermare. Oggi non l’ha vista, nell’entrare. Può darsi che fosse impegnata. Il giovane,
però, oggi ha proprio voglia d’incontrarla e chiede di lei. Aisha non sta tanto bene, ha un po’ di
febbre: shuya shuya hamma, soltanto un po’. Franco ha voglia di parlare e quella ragazza gli offre
una gran pace, indipendentemente dall’aspetto erotico dell’incontro. I due giovani bevono insieme
un tè alla menta (latay an-nanà) e s’intrattengono in conversazione. Lui vuole raccontarle del
proprio incubo ricorrente, il gran sacerdote dei rumi, trasformato in mummia e coperto di gioielli,
nascosto in un sotterraneo da qualche parte, laggiù, nei dintorni della sua città d’origine. Ha voglia
di parlare e confidarsi, come non fa da tempo. Le racconta dell’impresa di qualche anno prima,
quando era proprio convinto di riuscire a trovare il tesoro, un enorme tesoro nascosto sotto terra…
Gli occhi di Aisha brillano nella penombra. Seduta in un angolo, sui propri talloni, la ragazza
leva la cuccuma dal fornello a carbone, mescola le foglie nell’acqua bollente, rompe il blocco di
zucchero col fondo d’un bicchiere, infine versa il tè nei bicchierini decorati ad arabeschi, col nobile
gesto d’un signore che elargisca quanto ha di più prezioso… il liquido scende nei bicchieri con un
ampio arco, con una precisione calibrata. Finita l’operazione, la ragazza si copre il capo con un
foulard (mharma, “che nasconde”), se lo avvolge due volte intorno ai capelli, pone un bastoncino tra
le braci e lo muove lentamente… “Ashkar! Shuf! Guarda, biondino!” Ad Aisha piace spesso
chiamarlo così, con un gioco di parole intraducibile: “Askari ashkar, il mio soldatino biondo”. Il
biondino si volge di scatto, al richiamo imperioso della ragazza. Sulla parete in ombra si delinea
come una figura, un’immagine luminosa, fluttuante. È un santone barbuto con un rubino rosso sulla
fronte, che sembra uscire dai fumi del fornello. Un momento dopo è soltanto una vampa di calore.
Poi l’immagine si stabilizza, si definisce ed assume i contorni quasi nitidi d’una figura vestita
d’ampio manto, e all’improvviso si rivela: è una mummia, la mummia dell’incubo! Franco fa un
balzo indietro e la mano gli corre istintivamente al fianco, si stringe alla baionetta. “La, la, b-essyâsa, lasnàm makesh” (No, sta’ tranquillo, non ci sono fantasmi), lo rassicura la ragazza.
“Quell’immagine viene dalla tua mente, volevo vedere il tuo sogno, hâdikishuf: ecco, guarda”.
Sulla parete si snodano le immagini del viaggio sotterraneo: la volta di mattoni, le porte delle celle,
le mummie, immobili, dalle grandi occhiaie cave, coperte di gioielli, anelli, pietre preziose, collane,
bracciali, anfore d’oro…
Franco rimane immobile, sconvolto. Non s’aspettava di vedere quelle figure, che sembrano
passare su uno schermo, come se fosse al cinema. “Ma come fai, kêfâsh?” S’avvicina e scosta il
velo dalla fronte della ragazza. Aisha ha gli occhi arrovesciati all’indietro, si vede soltanto il bianco.
Un sudore freddo le imperla la fronte e le tempie. Pare fuori conoscenza. Franco non sa come
comportarsi. Sono momenti brevi, ma è come se durassero un’eternità. Aisha è in transe e non
accenna a svegliarsi. La maestosa figura del papa si muove, invece, sul muro sul quale è proiettata.
Anzi: esce dal muro. La mummia pare sporgersi in avanti, muovere la mandibola in modo
disarticolato. Non pronuncia neppure una sillaba, ma il cervello di Franco sembra esplodere. Arretra
di due passi, impugna la baionetta e si mette automaticamente in posizione di guardia. In quel
momento, Aisha si riscuote; emette un piccolo lamento, si rimette a sedere, si leva il velo e lo piega
con cura sulle ginocchia, come se niente fosse successo. Ciò ha distratto per un attimo l’attenzione
di Franco; quando i suoi occhi ritornano alla parete, vede soltanto un muro in ombra: nessuna
traccia di corridoi segreti, né di celle o di mummie. Soltanto un muro, dall’intonaco di gesso
rustico, un po’ screpolato.
Franco guarda la ragazza con un misto di stupore e di timore, non sa cosa chiederle. “Aisha, tu
sai rivelarmi queste cose?” “Io posso solo aiutarti, sei tu, in realtà, che le riveli a me. Quando
ritornerai, ne saprai di più”. Le ombre della sera calano rapide, il giovane saluta e scende a ritrovare
i compagni. Chissà – pensa – dov’è nascosto il segreto, e qual è veramente: mi sarà mai dato
raggiungerlo? Il terzetto varca la porta del forte giusto in tempo, ai primi squilli della ritirata.
Due giorni dopo, smontato da un altro duro turno di notte, il biondino ritorna da Aisha. Questa
volta, la ragazza è in piena forma. Trascorrono insieme un’ora meravigliosa, ma Franco non si
dimentica della propria ossessione e – alla fine – chiede alla ragazza: “Mi sai dire qualcos’altro sul
mio tesoro lontano, sul passaggio segreto che cercavo nel mio paese?” Aisha si fa improvvisamente
seria e gli dice: “Ascoltami, mio caro, asm’, azizi: è pericoloso per te quell’uomo con l’alto
copricapo d’oro. È una visione terribile e nefasta. Porta con sé molto oro, ma anche una
maledizione, e non voglio che ti colpisca. Non puoi dimenticarlo?”
La notte dopo il turno di guardia, ha diritto al riposo. Non riesce però ad avere un sonno
tranquillo: è un incubo senza apparizioni, in cui il giovane precipita attraverso un pozzo senza
fondo, con le pareti ispide di lame affilate, che gli lacerano le carni. L’incubo infinito si ripresenta
ogni volta che arriva il sonno profondo. Che cosa ci sarà in fondo al pozzo? La fine, o la luce? Nella
mente del giovane, si riverbera una specie di domanda senza risposta: come può esserci la luce in
fondo a un pozzo? E che specie di luce sarà? È quasi che la sua mente dialogasse, e ponesse le
domande ad un’altra entità: ma a chi? Si ritrova sveglio, in piena notte, seduto sulla sua branda, con
la coperta arrotolata addosso, come se avesse lottato con essa. Per fortuna, non ha disturbato nessun
altro. Tutta la camerata dorme, fuori si sentono soltanto i rumori della notte e il vento del djebel,
che fischia sopra i tetti della caserma. Un bururu (gufo), a caccia di prede, emette il suo grido
lamentoso.
L’evocazione
Quel lunedì è un giorno stanco, a casa di Geggiga. Il cielo coperto mette addosso un languore
che fa aspettare chissà cosa, come se il vento del deserto dovesse portare grandi novità, sulle ali di
grandi uccelli neri. Aisha è in compagnia della sua più cara amica, Djemila. Le ragazze invitano il
biondino a prendere il tè in loro compagnia. Djemila viene dalle montagne della Kabylia, è una
berbera del nord. Ha grandi e profondi occhi scuri, resi ancor più profondi dal kohl (polvere nera
d’antimonio), ma un corpicino ancora esile, da adolescente.
“Aisha m’ha detto che tu speri di trovare una dahira (tesoro), al tuo paese? Ti ricorderai delle tue
amiche, quando sarai ricco?” Gli occhietti delle due ragazze brillano allusivi, divertiti. Franco
guarda Aisha in modo interrogativo. Non gli piace che altri raccontino i fatti suoi. Ma la ragazza lo
previene: “Sai, Djemila è la mia più cara amica, forse sa come aiutarti”. Franco sente di potersi
fidare, e lascia che le ragazze facciano a modo loro. I tre si siedono intorno ad un piccolo braciere,
sul quale Djemila getta alcuni pizzichi d’incenso e di legno di sandalo. Si sprigiona un’acre nuvola
di fumo, intenso e profumato. Le due ragazze si coprono il capo e cominciano a recitare una
sequenza di formule incomprensibili, una specie di nenia ipnotica, cantilenata, facendo oscillare le
teste di qua e di là. Franco si lascia trasportare dallo stesso ritmo.
La stanzetta è piena di fumo, i contorni delle figure si sfocano. Luci e ombre fluttuano. La nenia
(o forse è una preghiera?) dura a lungo, Franco sente dentro di sé una grande emozione, una grande
attesa, come se le porte del mistero dovessero aprirsi… ma nulla di straordinario accade. Qualche
decina di minuti, forse mezz’ora, poi la nenia s’acquieta, diventa un tenue sussurrio, e infine sfuma
in un silenzio carico d’attesa… Djemila si scopre il capo e comincia a snocciolare un discorso in
berbero, fitto fitto, che ovviamente per il giovane è misterioso quanto la nenia che lo precedeva.
Parla alla compagna, Aisha, che rimane attenta ad ascoltarla.
Alla fine, nel suo modesto francese, Aisha traduce per il ragazzo. Il sotterraneo del sogno esiste,
lui è arrivato sin sulla soglia, ma vi è entrato soltanto col ricordo, il ricordo di vite passate, la sua o
d’altri non si sa, perché quel luogo è denso di memorie… è un castello, tanto grande che in
confronto il forte della Legione è soltanto una casetta… da quel castello parte un tunnel, ma non è
scavato nella roccia, è un corridoio costruito, sotto la sabbia o forse nella terra, ed è pieno di
trabocchetti, nessuno sa quanti e nessuno li ha mai superati, da quando il gran signore di quei luoghi
l’ha costruito, più di 500 anni fa… in fondo al corridoio si trova seduto il gran prete dei cristiani,
che appare nelle visioni del soldato biondino, è sepolto là in fondo con tutti i suoi ori ed i suoi
ricordi, e quell’immagine ha preso la mente di Franco e la possiede, ma non c’entra più nulla con
lui, con la sua vita. La sua vita ora è tutta qui, tra le palme, gli aranci, i pistacchi e le praterie d’alfa,
a guardare una linea di confine che è fatta con un treno, un confine mobile, di convogli con mitra e
cannoni, che serve a tener lontani i contadini ribelli dalle loro terre e dalle loro famiglie…
È vero – riconosce Franco – tutto ciò è come appartenesse ad un’altra vita. La sua, o d’un altro,
poco importa: non è la vita che egli sta conducendo “qui ed ora”. Non c’entra niente con gli stivali
anfibi che non si devono bagnare dell’acqua sporca del wed, non c’entra con lo scovolo per pulire la
canna del fucile, coi profumi dell’oasi, né coi fischi dei proiettili delle imboscate notturne. Sente
questo pensiero come se lo svuotasse: è come se gli togliessero un pezzo, ma s’accorge che
quell’incubo, quella figura di mummia, appartiene di colpo ai sogni da bambino. Djemila estrae
qualcosa da un cofanetto di sandalo, lo stringe, pronunciando strane parole, glie l’appende al collo e
gli raccomanda di tenerlo sempre sul suo petto. È una manina di Fatima, in filigrana d’argento, con
un pezzetto di corallo rosa . “Non toglierli mai: – gli raccomanda anche Aisha – questi due oggetti ti
proteggeranno, a nome nostro”.
Consuetudini pre-islamiche, religiose e magiche, affiorano qua e là dagli usi femminili: le donne
non disdegnano di recarsi a pregare sulle tombe dei santi, usano accendere lumini a olio in apposite
nicchie, presso le tombe o in altri particolari luoghi, scrivono frasi augurali e segnano impronte di
mani – con le cinque dita aperte – sugli intonaci, sui muri delle case. Il numero cinque, il segno
della mano aperta, fa parte degli antichi usi magici delle genti berbere, ma l’Islam ha poi
“benedetto” quei segni: li ha identificati con la mano di Fatima, la figlia del Profeta, ed ha posto la
stella a cinque punte sulla cima più alta dei luoghi sacri, insieme alla luna crescente. Altri
antichissimi culti si perpetuano nella venerazione delle grotte, ricettacoli ombrosi, freschi e umidi,
archetipi della natura femminile; tutti aspetti di religiosità primitiva, che il puritanesimo nasconde,
ma non ha potuto cancellare nei secoli.
Anche Franco, come tutti i rumi passati per questi luoghi, ha sentito raccontare che in certi
palmeti della regione abitata dai Berberi si trovi l’Aren nu Fighar, una grotta meravigliosa proibita
agli stranieri, dalla quale si dice sia possibile entrare in contatto con “altri mondi”. Oggi gli altri
mondi siano entrati anche nella vita del giovane soldato, grazie alle forze ignote che le ragazze sono
capaci d’ascoltare e d’interpretare.
3 – L’OASI DELL’UGUAGLIANZA
Poco dopo l’anno Mille, in quella che oggi si chiama Algeria, Sidi bu Gemma fugge con la
famiglia ed un gruppo di seguaci dalla città berbera d’Isedraten, attaccata dagli arabi dell’emiro El
Mansùr. Sidi bu Gemma ed i suoi appartengono alla setta degli Ibaditi. Considerati puritani e
fanatici dagli altri musulmani, sostengono che la volontà di Dio si esprime attraverso il parere
democratico ed ugualitario di tutti i credenti, e che chiunque può diventare Califfo – “anche uno
schiavo abissino” – purché sia il migliore di tutti i musulmani. Presso di loro, chiunque può
accedere alle massime cariche civili e religiose grazie ai propri meriti, indipendentemente dalla
nobiltà delle origini.
Costretti alla fuga dalle guerre che insanguinano l’Africa del Nord, gli Ibaditi s’inoltrano nel
deserto e risalgono il corso del torrente (wed) M’Zab, sino ad una vallata rocciosa, apparentemente
inospitale, che offre però un rifugio sicuro. Fermatosi per piantare la tenda, Sidi bu Gemma
s’innamora d’una donna locale, che vive in una grotta, e mette su casa. Lungo il corso d’acqua
stagionale, che scende verso oriente a perdersi nelle sabbie d’una gran depressione, nasce una delle
realizzazioni più incantevoli dell’ingegno e della fede dell’uomo. Un grappolo di cinque città,
arroccate su coni rocciosi ai lati del wed. I loro nomi: Ghardaia, Beni Izguen, Melika (“regina”),
Bou Noura (“luminosa”), El Atteuf (“il gomito”, l’ansa).
I discendenti di Sidi bu Gemma sono conosciuti come Mozabiti, dal nome del corso d’acqua
presso il quale si sono stabiliti. Hanno creato un mondo esclusivo in una fossa, scavata dalla natura
sotto la quota del deserto, con un orizzonte ben delimitato che li isola dal mondo esterno. Gli orti, i
palmeti, le città, le case, gli individui, dialogano direttamente col cielo. Solo dalla cima dei minareti
e delle torri di guardia si può gettare lo sguardo lontano, sulle distese desertiche.
I Mozabiti evitano ogni decorazione nelle costruzioni e sulle loro moschee non appaiono
nemmeno i classici motivi calligrafici, con versetti del Corano. Le donne vivono sulle terrazze, fatte
come una vera e propria “seconda città”. Quando escono di casa, sono completamente velate e
osservano il mondo con un occhio solo (ora l’uno ora l’altro, a turno, per non stancarli troppo),
stringendosi accuratamente il velo con la mano, di fronte al volto.
Il culto dei santi è ufficialmente proibito. Per ragioni egualitarie, i Mozabiti non scrivono
nemmeno il nome sulla tomba dei morti. Per riconoscere i propri defunti, le famiglie
contrassegnano le tombe con vasi e cocci di terracotta: un uso che richiama l’antica Cartagine e le
tradizioni berbere. Consuetudini pre-islamiche, religiose e magiche, affiorano qua e là dagli usi
femminili: le donne non disdegnano di recarsi a pregare sulle tombe dei santi, di accendere lumini
ad olio in apposite nicchie, scrivere frasi augurali e imprimere segni di mani – con le cinque dita
aperte – sugli intonaci, sui muri delle case. L’Islam ha “consacrato” quei segni, affermando che si
tratta della mano di Fatima, la figlia del Profeta. Antichi culti risiedono nelle grotte dei palmeti,
archetipi di femminilità: si dice ne esistano di meravigliose, dove si può entrare in contatto con atri
mondi... aspetti di religiosità berbera primitiva, che il puritanesimo ibadita nasconde, ma non ha
potuto cancellare.
Ho conosciuto la Valle dello M’Zab nel 1978, quando insegnavo in Algeria. Ho scoperto la
meravigliosa sinfonia d’accordi dell’architettura mozabita, la modulazione di spazi e di materiali in
un equilibrio spesso precario, ma sempre molto meditato, sempre elegante. Su quelle moschee e
quei mausolei di santi, su quelle tombe e quei minareti che si ergono verso il cielo come capezzoli o
come bianche dita, ma soprattutto su quelle case, in cui nessuno spazio è superfluo, aleggia anche il
mito di Le Corbusier, il grande architetto che negli anni Trenta trovò ispirazione nello M’Zab per
un’architettura “a misura d’uomo”. Una buona architettura, bella e semplice, può diventare
monumento, pur senza volerlo. È questa la vera grandezza dell’architettura mozabita.
Ho imparato ad amare le fresche notti nel palmeto, scandite dai fruscii di piccoli animali e
dall’improvviso esplodere dei richiami alla preghiera, da parte dei muezzin. A gustare il té alla
menta e rimanere per ore ad ascoltare i discorsi teologici d’un vecchio saggio, presso i mausolei dei
cimiteri, mentre il sole cala dietro i bordi del deserto.
Quante volte sono partito la sera per andare a trascorrere il week-end nello M’Zab! Viaggiavo in
auto per tutta la notte, oltrepassavo la montagna, dove al lume di lampade a petrolio si servivano
rapidi ristori ai viaggiatori. Dopo otto ore di viaggio notturno, sfidavo i primi raggi del sole che
sorgeva sul deserto, per immergermi nelle ombre della vallata, prima che fossero dissolte dalle luci
e dai rumori del mattino.
La valle si è trasformata. Nuove costruzioni, con gli spigoli taglienti del cemento armato; grandi
loggiati bianco-azzurrini, allineati lungo le vie, alterano un paesaggio di pietre color ocra, modellate
e smussate dai secoli. Oggi l’integralismo religioso vorrebbe distruggere le antiche tombe dei santi,
quali espressioni d’un condannabile costume superstizioso. Ciò che è sopravvissuto alla
modernizzazione rischia di soccombere in nome del tradizionalismo.
4 – IL POZZO
C’è un pozzo nel cuore del deserto. Vi potreste immaginare un pozzo con la vera di pietra
scolpita e con la carrucola issata su un arco di ferro, come quelli che si vedono nei campielli
veneziani, nelle fiabe, oppure nelle tavole della grammatica d’inglese, accanto alla scritta “well”…
forse anche con un rampicante che lo ricopre e si nutre delle sue chiare, fresche e dolci acque…
Non è così: un pozzo nel deserto è come una fossa a forma d’imbuto, scavata nel suolo in uno dei
rari punti in cui la falda d’acqua affiora, e dev’essere mantenuto pulito dagli abitanti del luogo,
perché la sabbia non lo riempia. Nella fossa, di solito, cresce almeno una palma da datteri. È come
un segnale, si vede a distanza ed aiuta il viaggiatore stanco, assetato, stremato, a trovare il punto
d’acqua. Inoltre fornisce un alimento ricco e completo. Uno dei proverbi che si raccontano, a
proposito delle palme, vuole che un uomo del deserto riesca a nutrirsi per tre giorni, con un solo
dattero.
Sotto la palma, una misera pozza d’acqua, sporca e salmastra, è “il pozzo”. Un punto di ristoro
prezioso e vitale per viandanti e pellegrini, che hanno percorso centinaia di miglia attraverso le
lande più desolate, e da giorni sono rimasti privi dell’ultima goccia d’acqua. Nessuna reggia al
mondo potrebbe valere quanto quell’acqua sabbiosa e viscida, per le gole bruciate che hanno
conosciuto i venti dell’altopiano. Molti non sanno che il pozzo, l’oasi e la palma non possono
sopravvivere, se non grazie alle mani che mantengono sempre aperto quell’imbuto, libero dalla
sabbia, grazie ad una generazione dopo l’altra di “custodi del pozzo”.
Non ci sono archivi né biblioteche, ma per miglia e miglia, all’intorno, i vecchi dai vestiti di
color indaco, col velo che difende il volto dallo sguardo impuro degli stranieri, potrebbero
raccontarvi per filo e per segno l’elenco completo dei viaggiatori che si sono abbeverati a
quell’acqua sporca e salmastra, nel corso degli ultimi mille anni.
Sono passati principi, condottieri, pellegrini, predicatori, predoni e miseri viandanti. Ci sono
passato anch’io. Era una ventosa giornata d’inverno dell’89. Nulla frenava le raffiche fredde che
battevano la spianata rocciosa del Ténéré, il “deserto dei deserti”. Sedici anni prima, un albero quasi
pietrificato, che indicava da secoli il percorso alle carovane, come un faro nel vasto mare, era stato
accidentalmente abbattuto da un camionista, che forse “non l’aveva visto”. Ora, al suo posto, si
ergeva una specie di gigantesco attaccapanni metallico, tetra e sarcastica parodia dell’albero d’altri
tempi. Non lontano, una pompa eolica faceva pensare alla presenza d’acqua; ma si trattava di
rottami, come tanti altri pezzi di metallo di cui è costellato il deserto. Avrei dovuto percorrere
ancora centottanta chilometri, prima d’incontrare “il mio pozzo”. Finalmente, ad una distanza
incalcolabile, vidi la macchia scura della palma, che gli strati d’aria calda riflettevano e
trasformavano in miraggio.
Arrivai stremato al bordo della minuscola oasi, rallentai e rimasi sommerso dalla nuvola di
polvere che io stesso avevo sollevato. Mi precipitai alla pozza, ma la trovai asciutta: solo un po’ di
terra scura rivelava la presenza dell’umidità nel suolo. La delusione fu enorme, ma per fortuna
portavo con me l’attrezzatura necessaria per scavare. Mi riposai un attimo all’ombra della palma, e
poi mi misi all’opera.
Fornii il mio contributo alla salvaguardia del piccolo pozzo. Scavai e spalai la terra tutt’intorno,
arrivai a quasi un metro di profondità, prima che sul fondo cominciasse a raccogliersi, goccia a
goccia, circa mezzo litro d’acqua sporca e quasi potabile. Con un po’ di pazienza, riuscii ad
accrescere la riserva, per dissetarmi e rinnovare – allo stesso tempo – la vitalità del punto d’acqua.
Il vento aveva fatto cadere alcune “mani” di datteri. Così si chiamano le infiorescenze a grappolo e
ciascun piccolo frutto è detto “dito”. Deglet nuur, “dito di luce”, è l’appellativo per quelli più
brillanti, più zuccherini e pregiati come cibo dell’uomo. Approfittai di quel dono della natura e ne
assaggiai qualcuno.
Mi attendeva un sonno ristoratore, in quell’oasi che sembrava tratta da un aneddoto sui miraggi.
Mi addormentai, avvolto in una specie di burnus o mantella di lana, che mi aveva protetto dal vento
e dalla sabbia per tutto il lungo viaggio. Un sonno pesante, in compagnia dei secolari ricordi e dei
fantasmi di quel posto, ben più pregnanti di quelli d’un castello scozzese. Non so quanto durasse, né
mi accorsi se qualcun altro fosse arrivato all’oasi, mentre ero immerso nel sogno.
Sognai un elefante o forse un mammut che correva con la proboscide alzata e sollevava sbuffi
d’acqua da uno stagno pieno di piante acquatiche.
Lo guardavo e non fuggivo… quando mi caricò un feroce guerriero dall’armatura nera di
catafratto armato di lancia e scimitarra con un alto elmo a punta. Non so come ma mi ricordo i suoi
occhi di brace che mi fissavano pieni d’odio – o di divino furore? – e mi risuona ancora nelle
orecchie il suo grido di guerra.
Passavano carovane cariche d’oro di pelli e d’oggetti preziosi caricati su piccoli cavalli nervosi
condotti da servi di pelle nera.
Poi vidi tanti cammelli anzi dromedari. Erano carichi d’oro ed era il seguito d’un gran re nero
diretto verso Oriente, alla Mecca dei credenti.
È comprensibile che fossi stupito e un po’ atterrito, al risveglio, al trovarmi in mezzo ad un
gruppo di predoni del deserto che cuocevano pezzi di montone su un fuoco di sterpaglie. Mi aveva
svegliato il fumo acre del grasso che sfrigolava sulle fiamme e sulle braci. Il capo del gruppo, al
vedermi con gli occhi aperti, mi offrì il tè alla menta. Era un buon segno: bere il tè insieme è una
dichiarazione d’ospitalità e d’amicizia. A gesti, e con il ricorso alle mie scarse conoscenze della
lingua dei nomadi (berbero, con influssi arabi), nacque una divertente conversazione.
Chiunque abbia attraversato il deserto sa che da tali chiacchiere intorno al fuoco sono nati molti
miti coloniali, ma anche alcune fantastiche “scoperte” etnografiche. Interi libri sono scritti su usi,
costumi, tradizioni e leggende dei nomadi, si sono basati su interviste e racconti interpretati da
autori accademici, che avevano una scarsissima conoscenza della lingua in cui si esprimevano i loro
interlocutori. Così si sono diffuse tante leggende sugli uomini del deserto, ben più fantastiche di
quelle autentiche, che raccontavano soltanto di streghe, orchi e fantasmi. Sono nati racconti di
viaggi extraterrestri e di presunte conoscenze straordinarie, conservate negli archivi del deserto, in
un mondo in cui l’unica memoria è garantita dalla tradizione orale, come si usava ai tempi
d’Omero.
Dopo la cottura, la carne del piccolo montone finì sul piatto comune, in mezzo ai commensali
sdraiati in cerchio. La cena era condita da chiacchiere e racconti, in un dialetto stretto che ben
presto risuonò alle mie orecchie come un rumore di fondo, mentre il mio pensiero cominciava a
viaggiare. Cambiai leggermente posizione e ruotai lo sguardo al cielo. Le foglie della palma erano
mosse dal vento, che aveva rapidamente rinfrescato la piccola oasi. Sul tappeto di velluto nero del
cielo, le stelle brillavano come diamanti purissimi. Cercai le costellazioni di cui mi ricordo la
forma: le due Orse, Orione dalla cintura brillante, l’Auriga di forma pentagonale…
Quella notte, con gli occhi rivolti al cielo, vidi le più belle stelle cadenti, attraverso un cielo terso
e nero come l’inchiostro.
Mi addormentai in pace con il mondo, nella notte fresca del deserto. La mattina seguente ero
solo, avvolto nel mio burnus. Intorno a me, nessuna impronta, nessuna traccia visibile. Intorno alla
pozza d’acqua rinnovata era tutto un brulichio di vita: coleotteri e scorpioni, venuti a dissetarsi. Poi
fu la volta delle lucertole. Più tardi arrivò persino una coppia d’uccellini, giunta sino a lì da chissà
quale distanza.
La settimana dopo, a Djanet, appresi che il punto in cui mi ero fermato era chiamato Hassi
genùnn, “il pozzo degli spiriti”, e che nessuno vi aveva più trovato l’acqua da almeno quindici anni.
Solo la palma era sopravvissuta, attingendo con le radici ad un qualche misterioso rivolo
sotterraneo. Non ho mai saputo se quei predoni fossero uomini viventi, oppure genùnn (spiriti
folletti, apparizioni) o ancora immagini del mio lungo sogno ristoratore, dopo un sorso d’acqua
sporca e un dattero magico.
Mi piace pensare che da qualche parte, laggiù nel grande nulla del deserto, un vecchio velato
ricordi ancora il mio nome, distorto dalla pronuncia locale, come quello del rumi (bianco, europeo)
che un giorno ha ridato la vita al pozzo degli spiriti.
5 – PIOGGIA
Piove. Piove sul deserto.
Non è certo la nostra “pioggerellina di marzo”, né il tempo uggioso d’una nostra giornata
d’autunno.
Ieri sera si vedeva un addensamento di grandi nuvole nere verso ovest, proprio sopra il massiccio
dell’Adrar. Dopo il tramonto, il buio stellato del cielo notturno era colpito da lampi improvvisi,
provenienti dalla macchia oscura, che troneggiava sopra la montagna lontana. La nostra guida,
dopo avere scrutato l’orizzonte, ha fatto spostare l’accampamento in una posizione elevata.
Solitamente ci sistemavamo in qualche depressione, riparata dai venti e dai turbinii improvvisi di
sabbia. Stanotte invece abbiamo dormito su un rilievo piuttosto elevato, fuori del letto del torrente
(wed), al sicuro da piene improvvise.
Sembra un paradosso parlare di piene qui, davanti ad un letto di torrente secco come una spugna
strizzata, dopo quaranta giorni di siccità assoluta e di cieli tersi, senza aver visto neppure una goccia
d’acqua. Eppure, verso le cinque del mattino, ci sveglia un lontano brontolio, che ben presto si
trasforma in rombo cupo. Un fenomeno piuttosto preoccupante, che sembra avvicinarsi verso di noi.
Cresciuti con i film western, siamo tentati di pensare al galoppo d’una mandria di bisonti.
Venti minuti dopo, preceduto da un fronte d’aria veramente freddo, un muro d’acqua nera
irrompe nel letto dell’wed, alla velocità d’un treno merci. Il letto del torrente si riempie
rapidamente, per un’altezza di cinque metri. Se ci fossimo accampati laggiù, saremmo già ridotti a
relitti e trasportati qualche chilometro più in là, insieme ai sassi che la piena trasporta e fa rotolare
sul fondo. La nostra fortuna è stata quella di trovarci ad una distanza ridotta dal massiccio e di
poterci accorgere delle piogge imminenti. Cinquanta chilometri più in là, l’ondata di piena arriverà
senza alcun preavviso.
Rimaniamo sbalorditi, mentre la nostra guida si affanna a ritirare le tende, a fissare tutto quanto
possa essere trascinato via dal vento, e grida di metterci al coperto. In effetti, all’ondata di piena
segue – quasi subito – una violentissima bufera di vento, accompagnata da fitta polvere e dai primi
scrosci di pioggia. È come se qualcuno ci lanciasse addosso, a ripetute ondate, il contenuto di
un’enorme betoniera in cui avesse rimescolato acqua, sabbia, terriccio e piccoli sassi taglienti.
Siamo chiusi sui camion, ma nessuna chiusura ermetica potrebbe ripararci dagli schizzi d’acqua e di
terra, che penetrano comunque nell’abitacolo. Dai finestrini non riusciamo a vedere al di là d’un
metro, né a renderci conto se ci troviamo ancora ben saldi al suolo o se – per caso – siamo scivolati
sul fondo dell’wed, trascinati dalla corrente. Le forti scosse del vento, che fanno oscillare i mezzi, ci
confortano di non essere sott’acqua e d’avere ancora i piedi – o almeno le ruote – per terra, e ci
rassicurano di non essere trascinati via dall’impeto dell’acqua.
Nel buio più totale siamo sballottati, come su un treno in corsa, in una tempesta di polvere di
carbone bagnato. L’aria è diventata irrespirabile e satura d’umidità. Una quarantina di minuti di
vero incubo.
Rapida e improvvisa, come era arrivata, la pioggia se ne va. Si fa luce tra i vapori cangianti che
emanano dalla terra bagnata. Scendiamo dai mezzi sul suolo fradicio e pieno di pozzanghere, in
tempo per vedere la nascita d’un grande arcobaleno verso est, intorno ai raggi del sole che
perforano la nube.
Sotto di noi, nel letto del torrente, l’acqua si è fermata. Il nastro dell’wed forma una barriera
insuperabile, lunga alcune centinaia di chilometri.
Intorno a noi, il deserto si sta rapidamente popolando. Sciami d’insetti volano nell’aria e sulle
pozzanghere, mosche, moscerini, coleotteri, effimere con ali cangianti. Scarabei dai vividi colori
escono dal suolo. Riconosco un insetto color rosso vermiglione, che in Mali è chiamato “l’angelo
della pioggia”: non poteva mancare. Lucertole e piccole rane sono comparse, come dal nulla, e con
loro una miriade d’uccellini. C’è persino qualche mammifero che viene ad abbeverarsi. Una piccola
gazzella cerca d’andare a bere, tenendosi a distanza da noi. Un fenech (volpe del deserto) si
arrischia invece ad avvicinarsi alle nostre provviste, in cerca di cibo. Prima del pomeriggio, i
lontani orizzonti appaiono come praterie. Non è un miraggio, ma il risultato della rinascita di semi
che attendevano – forse da anni – una goccia d’acqua. È come se la terra avesse aperto il proprio
grembo, per una seconda creazione. Qui nel deserto si percepiscono e si comprendono il pieno
fulgore e la totale energia degli elementi primordiali: fuoco, terra, aria, acqua. L’acqua è l’elemento
finale, con cui tutto termina e tutto rinasce, in un nuovo ciclo di vita.
Abbiamo deciso di fermarci per qualche giorno in questa piccola oasi improvvisata. Muoverci
ora tra i sassi e le placche sabbiose potrebbe essere più pericoloso che sull’asciutto, perché
rischieremmo d’affondare con le ruote nel fango. Ma – soprattutto – non vogliamo perderci questa
gioia primordiale, di sentirci agli albori della creazione, di vedere la nascita e la primavera della vita
dove prima era il Sahara: il grande nulla.
Si fa sera, un’altra giornata è trascorsa. Abbiamo giocato come bambini, abbiamo osservato con i
binocoli ed i teleobiettivi ogni specie di piante e d’animali, per fissare il ricordo di questo raro
fenomeno. Il deserto vive ed è come se tutti gli esseri che lo popolano fossero usciti da un
ripostiglio teatrale, per occupare ciascuno il proprio posto. Sappiamo però che domani, o un altro
giorno, ci sveglieremo e ritroveremo il deserto di sempre, arido e rinsecchito.
Il sole s’abbassa sull’orizzonte, non si vede neppure una nuvola. Uno scorpione cattura la preda,
una piccola rana, già paralizzata dal veleno della coda. Una grande lucertola dalla testa gialla
osserva la scena e scuote il capo, come un essere umano che continui a negare. Il fenech decide
d’allontanarsi: sa che la lucertola si è accorta della sua presenza, e sa che è più scattante di lui.
Dovrà cercarsi un’altra cena, per oggi.
La nostra guida stende il tappetino per la preghiera (salât) e s’inchina in direzione di un oriente
in cui il cielo s’incupisce, rapidamente. Gesti millenari, in una natura in cui si ripetono i riti della
nascita, della vita e della morte. Ci sentiamo come foglie, trasportati in questo scenario da una
nuvola e da un soffio di vento passeggeri.
6 – LA CASA DI MOSÉ
Un lago salato dalle acque rosa. Solo la duna costiera lo separa dall’Oceano. Oltre la duna, il
mare sprofonda in una fossa oceanica: un vero e proprio abisso sottomarino che arriva in prossimità
della costa. Perciò le grandi piroghe che partono dalla spiaggia di Kayar riportano sempre una ricca
pesca. Siamo in Senegal, lungo la “spalla” della penisola del Capo Verde. L’alta duna raccoglie,
conserva e talvolta rivela il passato degli uomini, dall’età della pietra sino agli ultimi frammenti di
ceramica precoloniale. Basta grattare le sabbie con le mani e si trovano cocci, strumenti, ossa e
denti d’animali.
Il lago è stretto e lungo, parallelo alla costa, non più largo d’un chilometro e lungo cinque. Il
vento spinge sulla superficie dell’acqua strie di sali rosati e densi fiocchi di schiuma, che si
ammucchiano presso la sponda e rotolano sul terreno, come bioccoli di lana. Da lontano sembrano
pecore giocose, da cartoni animati. Il sole batte con forza. Le uniche zone d’ombra sono le macchie
di vegetazione sulla duna. Alti nel cielo, quasi immobili nel vento, i nibbi dalla coda biforcuta. Di
tanto in tanto, uno di loro volteggia, scivola lateralmente e rotea nell’aria tersa.
Quando la marea sale, la spiaggia è battuta da lunghe onde, che arrivano ora da una parte, ora
dall’altra, e sembrano giocare tra loro come in una partita di tennis. La sabbia rifluisce in centinaia
di lunette percorse da correnti spumose. Si rimane ipnotizzati, a seguire i moti della risacca. Spesso
ho immaginato d’identificarmi con una goccia, una molecola, una minuscola particella d’acqua, e di
cullarmi nel seguire il suo percorso: su e giù con l’onda, lungo i ricami delle anse che continuano a
formarsi e disfarsi tra acqua, terra e riflessi di cielo. Miriadi di granchi fanno la loro comparsa
durante la bassa marea. Si rivelano i depositi di conchiglie, sul gradino da cui il mare scende più
profondo. Le ondate si ritirano e prendono la rincorsa per ritornare all’assalto, mentre lasciano
intravedere la soglia del regno profondo delle sirene, dei signori degli abissi. Su quella spiaggia ci si
sente fuori del tempo, ogni incontro è la scoperta d’un miracolo. La minima increspatura, il più
piccolo foro che si apre nella sabbia ed emette bolle d’aria, è un mondo da studiare.
Pochi chilometri più a sud, s’incontra il monastero benedettino di Keur Moussa (letteralmente:
“la casa di Mosé”). In un’oasi di pace, tra i giardini d’ibisco e di buganvillea fiorita, monaci che
vivono nel rispetto d’una regola millenaria, nata sotto altri cieli, hanno adattato gli strumenti della
musica tradizionale africana (in particolare la kora) per modulare la musica dei salmi.
La kora è l’arpaliuto dell’Africa Occidentale, lo strumento favorito dei popoli mandinghi.
Conosciuta sin dal medioevo, essa usa una scala di sette toni, in un genere musicale molto simile al
sistema occidentale, e si è diffusa con l’espansione dell’impero del Mali. Sulle sue corde sono state
cantate le glorie di tutti gli eroi della regione. La cassa armonica è fatta con metà d’una gran
calebassa (specie di zucca), grande come un’anguria, coperta di pelle bovina, su cui s’innesta un
bastone diritto e ben tondo e ventun corde in due ordini: undici per la mano sinistra e dieci per la
destra. Il koraista suona di preferenza seduto e afferra lo strumento per mezzo di due “antenne”, in
modo che i pollici e gli indici, rimasti liberi, possano pizzicare le corde. Queste erano fatte un
tempo di pelle intrecciata, oggi sono di nylon. I monaci di Keur Moussa hanno dotato lo strumento
di bischeri, per regolare la tensione delle corde, ed hanno provato anche a modernizzare le grandi
scodelle delle casse armoniche, a realizzarle in resina, come gusci di barche. Non ha funzionato: il
materiale, troppo rigido e tagliente, rovinava la pelle tesa sull’apertura. Una piccola rivincita della
natura e della tradizione, nei confronti di un’innovazione improvvida, pur se animata da buone
intenzioni. La kora nasce dalla calebassa, è uno strumento vivo ed effimero, come tutta la cultura
africana. Le tradizioni orali si mantengono sino a che dura il gruppo sociale che le ha prodotte, con
la propria discendenza, la propria lingua, i propri usi, costumi e credenze religiose. Le case, fatte di
terra e di materiali vegetali, alla morte del capofamiglia si scoperchiano per “morire” con lui. Le
migrazioni continue di popoli, il fluire della vita che si fonde con la morte, il sangue col latte e con
la terra rossa. Quella terra rossa che è dappertutto, dello stesso colore del sangue e del sole al
tramonto.
I monaci benedettini hanno fatto tesoro della lezione, hanno abbandonato le casse armoniche di
resina e si sono messi a coltivare calebasse. Una bella calebassa, grande e ben tonda, richiede del
tempo. La natura non fa sconti sul tempo: la kora è uno strumento che non si può produrre in serie,
non se ne può calibrare il diametro a perfezione per unificarne il suono. Ciascuna kora ha la propria
individualità, il proprio timbro ed il proprio carattere, proprio come un bambino, come la cultura
d’un popolo.
L’Africa è un pianeta rosso, antico, che può digerire quasi tutto. Ha assimilato a modo suo le vite
e le buone intenzioni di tanti di noi, impazienti uomini bianchi, convinti per secoli di poter
insegnare qualcosa, con la nostra fretta. Siamo noi, invece, ad avere imparato i veri ritmi della vita.
7 – LETTERA DALL’AFRICA
Maam Cumba Lambaye (“la madre dei gatti”) è il genio tutelare di Rufisque (Teng Ghegg, in
lingua wolof), magica città che sorge sulla costa sud della penisola del Capo Verde, in Senegal.
Sull’estremo lembo occidentale dell’Africa, Rufisque è stata colonizzata dai portoghesi nel ’500,
poi dai francesi. Nell’800 è diventata per un’effimera stagione la capitale del commercio
dell’arachide, poi è decaduta ed è stata disertata dai coloni, offuscata dal nascere della metropoli di
Dakar. La nuova capitale ha un altro genio tutelare, che si chiama Leuk Daur. Altari feticisti e
boschi sacri sorgono persino sui grattacieli, e c’è chi tiene un baobab sul balcone del quinto piano,
per le offerte propiziatorie.
Da queste spiagge, per secoli, le razzie degli europei hanno portato via ondate di schiavi, verso
coste lontane. Da qui continuano a salpare le piroghe dei pescatori, per portare a casa il cibo
quotidiano. Sugli arenili si svolgono sessioni di lotta, si trascorrono lunghi pomeriggi giocando alla
dama africana (wurè), mentre i vecchi conversano sotto le tettoie delle cases à palabres. Nelle piatte
distese lungo il mare, durante la stagione delle piogge, si generano vasti stagni, con boscaglie di
mangrovie dalle radici aeree che sembrano trampoli, sbarre di gabbie o piuttosto palafitte, ma che
possono assumere anche l’aspetto d’una selva stregata.
Oggi lo scalo coloniale è in abbandono e i moli in legno del vecchio porto sono popolati solo da
stormi di gabbiani. A Tiawlène, un quartiere della periferia di Rufisque, abita Fat Seck, la grande
veggente guaritrice, una delle poche persone abbastanza forti da ospitare in permanenza dentro di
sé, senza impazzire, il proprio rab (spirito infestante). Fat ha dedicato la propria vita a curare le
possessioni degli altri, grazie ad un dono che le ha trasmesso sua nonna, che proviene dall’antichità
della sua famiglia e che lei stessa trasmetterà ad una discepola (non necessariamente legata da
parentela), quando saprà che “è giunta l’ora”. Dietro la casa, un vasto campo è pieno di recipienti
che contengono acqua, latte, sangue, pezzetti di legno e ossa d’animali sacrificati. Ogni recipiente
(canarì) corrisponde ad un malato, venuto da Fat Seck per farsi guarire, e contiene il rab o ginn, lo
spiritello malvagio che perseguitava e faceva impazzire. A volte, però, l’ossessione deriva da
pratiche umane, qualche nemico ha assunto un marabù (stregone malvagio) per praticare un
interdetto (xalá). In tali casi, l’esorcismo si fa più complesso: è necessario praticare una “contro–
magia” e liberare forze che devono ricadere su qualcuno, non soltanto sull’animale sacrificato, ma
anche sull’autore del maleficio.
Per ogni guarigione, Fat Seck prepara tre oggetti: un gran canarì (vaso di terracotta), pieno di
latte cagliato; una calebassa (specie di zucca seccata e vuotata), nella cui acqua galleggiano pezzetti
di legno, che rappresentano la famiglia del paziente, ed i suoi rapporti col mondo esterno; un
pestello da mortaio infilato nel suolo, cioè il paziente stesso ed il suo destino terrestre. Tutt’intorno,
vengono deposti ossa e corna degli animali sacrificati.
I poteri di Fat Seck sono noti. Un mio collega – un finlandese, appassionato di studi sulle culture
sciamaniche – ha letto un articolo su di lei, prima ancora di venire in Senegal. Un pomeriggio, ci
rechiamo insieme a Tiawlène. La vecchia ci riceve, attorniata da donne della famiglia, ci scruta con
i suoi occhi penetranti, rivela i nostri segreti più intimi, poi ci fa chiedere dall’interprete perché
siamo venuti (Fat Seck comprende il francese, ma non vuole parlarlo: capisce di più guardando
nelle persone, di quanto la loro bocca possa dirle). Il cortile è pieno di canarì, che imprigionano i
ginn usciti dai malati guariti, le pelli degli ultimi animali sacrificati si stanno seccando al sole.
Prima della partenza, Fat Seck ci regala due bastoncini di legno, uno ciascuno, e c’invita a ritornare
dopo qualche giorno: ci sarà una cerimonia di ndepp, un esorcismo. Uno ndepp “medio”: per le
possessioni più violente è richiesto il sacrificio d’un toro, per le più lievi bastano due galletti. Il
sacrificio cui stiamo per assistere prevede un capretto, come vittima sacrificale. Il martedì
successivo, alle nove e mezzo del mattino, entriamo nel cortile. Fat Seck è rimasta in camera sua, a
ricevere visite e offrire consulti. L’officiante dell’esorcismo è una donna piuttosto giovane,
Senabou: par di capire che sia l’erede designata del rab di Fat. C’introduce nel cortile della
cerimonia e ci fa uscire, ci permette o ci proibisce di fotografare secondo i momenti, per rispettare i
significati e le persone interessate (la malata e la sua famiglia).
Un solo uomo partecipa alla cerimonia. Coperto d’amuleti intorno alla vita e alle braccia, sgozza
il capretto e fa colare il sangue in una calebassa. Poi, la cerimonia si frammenta. L’uomo appende il
capretto per le corna e comincia a scuoiarlo, seguendo un rituale prefissato e mettendo da parte, in
un recipiente, alcune parti: il cuore, il fegato, una zampa. Su questi organi, ancora sanguinanti, sarà
scaricata una parte delle forze maligne che infestano la paziente. Da un’altra parte, in un angolo del
cortile dei canarì, una giovane donna sta facendo meticolose abluzioni col sangue della vittima.
Infine, quasi di fronte al capretto scuoiato, un gruppo di donne prende un canarì nuovo, vi pratica
un foro, e poi si fa consegnare le budella del capretto e comincia ad annodarle: una serie di nodini,
uno dietro al’altro, come una corona del rosario. Una di loro ha la faccia terribilmente erosa. Non è
lebbra, non è una scottatura: anche l’osso della mandibola è orribilmente deformato. Veniamo
allontanati, facciamo una chiacchierata con l’officiante che si prepara all’esorcismo vero e proprio.
Quando ritorniamo nel cortiletto, la paziente è seduta e ci volge le spalle. L’officiante la copre
con un panno, le impone le mani, recitando formule. Poi le impone sul capo due galletti vivi e li fa
roteare più volte intorno alla sua persona, sempre più lentamente, scuotendoli ad ogni giro verso le
membra del capretto, appositamente raccolte da parte. L’uomo continua a scuoiare. La paziente
rimane seduta e canta, con le mani sulle ginocchia, le palpebre rivolte verso l’alto. Senabou scuote
più volte il panno, con forza, la ricopre, le toglie il rab dal capo e da ogni altra parte del corpo e lo
scarica su certe parti del capretto. Nessuno le mangerà, ma saranno conservate, imprigionate nel
canarì del cortile. L’uomo recide il membro del capretto, che comincia a girare di mano in mano: le
donne presenti si strofinano la fronte col ciuffo di pelo, pronunciando espressioni augurali. Poi
ripetono l’operazione e lo schiacciano, per farne uscire il sangue, che si passano sulla persona e
sotto la pianta del piede. Veniamo allontanati. Poco dopo l’officiante ci raggiunge, beviamo il caffé
insieme. Passiamo a salutare Fat Seck, arriva la figlia della malata e veniamo presentati.
L’iniziazione segreta di sette giorni e sette notti, il lavoro quotidiano di preparazione che si
svolge nella casa di Fat Seck, tutto questo ci sfugge ancora. Quando una nostra amica le rende visita
e le sfugge di dire che anche sua nonna era veggente e sensitiva, la ‘madre’ non si trattiene e – con
una punta di scettico orgoglio – fa domandare tramite l’interprete:
“Com’è possibile? Non ho mai creduto che i rab parlassero anche ai tubàb” (il tubàb è l’uomo
bianco).
Ho vissuto in Africa vent’anni, una delle mie vite. Ero in un villaggio sulla riva del fiume Chari,
un tardo pomeriggio, mentre il sole infuocava le acque e le ombre si facevano più scure. Avevo
trascorso diverse giornate in discorsi, con l’uomo–medicina di quel villaggio. Niente di particolare,
ma di tanto in tanto percepivo nei suoi occhi una strana espressione, come se il suo sguardo volesse
entrarmi nel profondo. Poi quel tramonto, i trampolieri nel controluce, sull’acqua che s’increspava
ad onde dolci ed ampie. L’acqua diveniva rossa e luminosa, mentre tutto il resto del mondo si
riduceva a pura linea e sagoma nera.
Stavo accoccolato a bere la mia birra di miglio, come se il tempo si fosse fermato. Cominciai a
fluttuare, sopra e dentro l’acqua. Vedevo chiaramente i vortici e mi sentivo entrare nelle spire del
liquido, colorato come un denso inchiostro, brillante come metallo fuso. In un silenzio gorgogliante,
il vortice si faceva sempre più profondo e aumentava la sensazione di un equilibrio instabile,
sorretto dal mezzo liquido. La luminosità rossa era ormai totale ed erano scomparse le ombre della
terra. Percepii qualcosa, come un gran serpente con un occhio luminoso al centro della fronte, un
serpente strano, dalla lunga barba bianca che si avvolgeva in ampie spire intorno al corpo fluttuante.
Non so cosa avvenisse di preciso, o se fosse soltanto allucinazione. Mi trovai avvinghiato col
serpente, in una lotta senza appigli e senza tempo. La lotta fu lunga, il serpente mi lasciò solamente
quando riuscii a soffiargli negli occhi – nei due occhi normali, fisici e concreti – il tabacco spento
della mia pipa. Quella notte rimasi inconscio, sospeso tra l’acqua e la terra. Mi ritrovarono
l’indomani, sulla riva del fiume, ancora bagnato fradicio e febbricitante. Avevo in una mano la mia
pipa, spenta, e nell’altra una pietra bianca, di quarzo rilucente: il terzo occhio che ero riuscito a
strappare al serpente.
L’uomo–medicina mi ha rivelato che gli antenati hanno mostrato la loro benevolenza, dandomi
accesso ad un’iniziazione straordinaria. Così ora sono stato accolto nel loro popolo e tutti mi
trattano con enorme rispetto, mi sento davvero a casa mia. Sono venuto come antropologo, per
studiare una realtà che mi affascinava molto, ma – per usare un gioco di parole – “sono rimasto
studiato”, perché sono diventato io, ora, il fenomeno, la persona strana che dalla propria cultura è
stata assimilata in un’altra. Potrei descrivere ed analizzare le mie esperienze, ma la descrizione del
fenomeno non m’interessa più: perché mai, infatti, descrivere ciò che si vive? Perché cercare di
renderlo con lo strumento inadeguato della comunicazione parlata? Scrivere, descrivere, sono
nozioni appartenenti a quell’altro mondo, da cui provengo. A volte vivo come se fossi due persone
in una: l’occidentale scettico razionale e l’africano vitalista non possono coincidere, ma riescono a
sovrapporsi, con segni ed espressioni di uguale importanza per il mio essere.
Se mai verrai qui nel mio “regno”, non ti posso assicurare un safari per vedere gli elefanti; ma la
vita quotidiana dell’Africa, con tutto ciò che essa rappresenta, il rapporto con la natura e col mondo
degli antenati, la preparazione del cibo, la bellezza delle giornate trascorse al villaggio, questo sì.
8 – NOI CHE SIAMO STATI A NGAZOBIL
C’è un angolo di paradiso terrestre che si chiama Ngazobil, sulla sponda africana dell’Oceano
Atlantico. Si trova in Senegal, vicino a Joal, nei luoghi d’infanzia del poeta Senghor.
Si esce da Dakar per quei pochi chilometri di “autostrada” che collegano la città, posta sulla
punta d’una stretta penisola, al resto del Paese. Lungo quella strada gli incidenti non si contano,
soprattutto presso i quartieri popolari di Pikine e Guediawaye. Specialmente verso la fine di giugno,
quando le prime piogge rendono viscido l’asfalto e difficile la guida, per veicoli che da mesi hanno
dimenticato i tergicristalli.
Dopo una trentina di chilometri, si giunge in vista della città di Rufisque e si passa alle spalle del
quartiere Diokoul. Una ventina d’anni fa venivo qui quasi tutti i giorni: ero impegnato con gli
abitanti in lavori di autocostruzione, per consolidare la spiaggia contro l’erosione delle correnti.
Dopo Diokoul, la strada principale sfiora appena l’antico scalo coloniale, fatto d’isolati quadrati,
ormai quasi in abbandono. Si vedono i resti dei moli in legno del vecchio porto, popolati soltanto da
stormi di gabbiani. Si attraversa il quartiere di sud-est, dove abitava Fat Seck, una grande veggente
guaritrice, famosa nel circondario; si passa presso il cementificio, che imbianca di polveri le
spiagge, l’aria e le campagne e corrode i polmoni della gente. Più oltre ha inizio il grande bosco di
baobab, meraviglia della natura.
Dicono che i baobab identifichino le antiche piste degli elefanti, i quali ne vanno ghiotti e
contribuiscono, con i loro escrementi, a diffonderne i semi. Una sorta di “simbiosi tra giganti”, del
mondo animale e di quello vegetale. In tutta l’Africa occidentale, dove ormai gli elefanti sono
conosciuti solo in fotografia, i loro tragitti d’un tempo sono ancora riconoscibili perché segnati da
una scia di baobab, piante sacre dal tronco cavo, sepolcri di griots. Il griot è il cantore dell’Africa
nera, uomo “di casta”, che ricorda e celebra i fasti e le tragedie; quando conclude la propria vita,
viene sepolto all’interno del grande albero sacro.
Verso sud si sviluppa la Petite Côte, punteggiata da spiagge e da villaggi. Da qui, per secoli, le
razzie degli europei hanno portato via ondate di schiavi, verso coste lontane. Da qui continuano a
salpare le piroghe dei pescatori, per portare a casa il cibo quotidiano. Sugli arenili si svolgono le
sessioni di lotta, si trascorrono lunghi pomeriggi nel gioco della dama africana, mentre i vecchi
conversano sotto le tettoie delle cases à palabres. Nelle basse terre lungo il mare, durante la stagione
delle piogge, si aprono vasti stagni pieni di mangrovie, con le loro radici aeree che sembrano
trampoli, sbarre di gabbie o palafitte, ma possono assumere anche l’aspetto d’una selva stregata.
A Mbour c’è uno stabilimento dove si affumica il pesce. Il fumo acre riempie l’aria ed i polmoni,
penetra dappertutto e stordisce persino le mosche: sembra l’anticamera dell’inferno. Solo pochi
chilometri più avanti, invece, in mezzo a panorami saheliani desolati da decenni di siccità, si scopre
il “paradiso” di Ngazobil. Nulla di miracoloso, se non la presenza di un convento di suore e di una
recinzione, che ha impedito alle capre di rendere deserto anche questo fazzoletto di terreno, come
tutto il territorio circostante.
Su queste spiagge, sotto un baobab, la tradizione vuole che (verso la fine dell’Ottocento) San
Pietro in persona sia apparso al primo vescovo del Senegal. La visione è ricordata da una targa,
affissa sul tronco di quel baobab.
Qui venivamo – piccolo gruppo d’amici – nei giorni festivi, a ristorarci delle fatiche settimanali,
in mezzo ad una natura rigogliosa, lungo la spiaggia battuta da lunghe ed alte onde, con la sabbia
che rifluiva in centinaia di anse, percorse da correnti spumose. Miriadi di granchi facevano la loro
comparsa durante la bassa marea. Sembrava di trovarsi fuori del tempo, ogni incontro su quella
spiaggia era la scoperta di un miracolo: i bambini della scuola o i seminaristi al bagno, il passaggio
di qualche pescatore o contadino dei dintorni.
C’erano capanne di rami e casette di mattoni, vicino alla spiaggia e al baobab di San Pietro,
seminascoste dalla folta vegetazione, alcune ormai in abbandono e altre ancora abitabili. Le suore le
prestavano, più che affittarle, per una somma modestissima. Ci si poteva abitare, vivere, cucinare,
volendo, forse anche per un tempo indefinito.
Le notti erano spezzate dallo schioccare delle foglie dei rôniers (palme dalle foglie a ventaglio),
mosse dal vento: forti come colpi di enormi fruste, o come petardi. Animali misteriosi sembravano
muoversi nel buio, mentre il vento spazzava l’aria del sottobosco e manteneva terso il cielo: una
mostra di lampadari lampeggianti e di fuochi d’artificio, che quaranta cieli dei nostri, con le loro
stelle, non basterebbero a riempire.
Forse ora rimpiango di non essermi fermato in quell’angolo di paradiso. Forse invece, come tutte
le cose della vita, quel mondo poteva essere vissuto solo allora, al tempo giusto: non poteva durare
né di più né di meno. Gli amici di allora si sono persi, annegati ognuno nel proprio mondo
quotidiano. Chissà dove sono, in questo momento... forse solo la veggente Fat Seck – se vivesse
ancora – saprebbe quando e dove farli ritrovare...
Come quella Safia, giovane somala incontrata di nuovo, a distanza di quasi tredici anni, allo
stesso tavolo, nella stessa discoteca di Mogadiscio, proprio mentre raccontavo agli amici il ricordo
del mio primo ingresso in quel locale. La sala da ballo era molto decaduta, negli anni: da appendice
del migliore albergo della città a balera malfamata. Safia era ancora lei, con il corpo (e la testa) da
sedicenne e ventinove anni non dichiarati, reduce da matrimoni e convivenze nello Yemen, a
Djibouti, in Italia. Due fili si riannodavano quella sera, per un momento, nello svolgersi
dell’enorme gomitolo del tempo, come quelle onde che sciacquano a lungo le anse a lunetta della
spiaggia, sulla costa dell’Oceano: si separano e poi ritornano da direzioni diverse, anche opposte,
come se d’improvviso avessero una gran fretta d’incontrarsi.
Vivere in Africa è stato come essere una di quelle onde, che lambiscono i lidi degli Oceani: fra
tante altre, un giorno o l’altro, ne incontri di nuovo qualcuna. La Boscaglia, la Savana, il Deserto
sono come mari, le piste li attraversano come rotte e i porti, dove chi ritorna è riconosciuto per i
suoi ricordi: “lei ha conosciuto l’Hôtel Transat?” Non c’è più, ma tu sei come uno della famiglia,
perché ci sei stato.
Il deserto avanza verso sud, nel Sahel, più per causa degli uomini che abbandonano la terra che
non del clima, che va e viene: la pioggia ritorna, ma gli uomini non sono più là per coltivare. Hanno
lasciato le oasi e i campi fertili, per andare a vendere accendini e paccottiglia nelle città dei bianchi.
Qui il ritmo della vita quotidiana è scandito dal denaro, dal traffico, dai supermercati, dagli oggetti
venduti ad ogni angolo di strada, come i corpi delle ragazze; dall’arrangiarsi a vivere senza la
grande famiglia, senza il villaggio, senza l’albero sacro dei propri antenati.
I ricordi dell’Africa sconfinano con il mito: dove sono ormai le verdi colline, percorse come il
deserto da migliaia e migliaia di fuoristrada... e dov’è quella signora, nata a Mogadiscio da uno dei
primi italiani sbarcati al tempo della guerra d’Africa, che ricordava la sua gioventù come “il tempo
in cui i barambara volavano...” Barambara, in lingua somala, è il nome del rosso scarafaggio
africano, dalle lunghe antenne, che appare soltanto di notte, in orde fameliche, per impossessarsi
della casa buia, per fuggire alle prime luci del giorno. I barambara volano in un solo periodo
dell’anno, nella stagione degli amori. Un volo goffo, che dura poco, come quello della più elegante
farfalla. Come tutte le cose effimere, come la fioritura del baobab o la felicità della stagione
giovanile.
... e Ngazobil è sempre lì, al suo posto, vivo nel ricordo d’un piccolo gruppo d’amici, con
quell’incredibile San Pietro apparso vicino ad un baobab, che fiorisce un solo giorno all’anno, con
quell’altrettanto incredibile chiesona di cemento armato che le suore non finivano mai di costruire e
di ampliare, con gli scorpioncini nello scarico della doccia, i rab (spiriti folletti) che nella notte
facevano volare via ogni cosa e schioccare le foglie di palma, il profumo dei fiori d’acacia che si
sentiva a centinaia di metri di distanza, gli eserciti di granchi occupati a forare tane e a correre sulla
sabbia umida...
...le onde.
9 – DIKKO HARAKOY, LA REGINA DEL FIUME NIGER
I popoli Djerma e Songhai vivono nella valle del fiume Niger. Secondo le loro convinzioni
ancestrali, l’universo (Andunya) è stato creato in sette giorni da Irkoy (Nostro Signore). Esistono
sette terre, abitate rispettivamente dalle stelle e dagli uomini. A ciascun essere umano corrisponde
una stella, la cui grandezza e il cui splendore sono proporzionali al successo sociale, al valore
morale ed all’importanza politica dell’individuo.
Dopo l’universo, Dio creò Adamo ed Eva. Un giorno decise di render loro visita, ma la coppia,
timorosa, nascose nella boscaglia i figli più robusti, più belli e più intelligenti, per mostrargli
soltanto i meno dotati. Perciò Dio, cui nulla può sfuggire, decise di punirli: volle benedire i figli
visibili, ma fece calare la propria maledizione su quelli nascosti. Questi si trasformarono così in
entità invisibili, chiamate gangi boro (gli abitanti dei boschi), mentre i primi rimanevano umani
(koyra boro, gli abitanti dei villaggi). Gli uomini, tuttavia, per poter padroneggiare la natura e
apprendere le tecniche per la caccia, la pesca, l’agricoltura, devono far ricorso agli abitanti dei
boschi, che detengono i poteri magici. Non vi sembra quasi che si stia parlando del ‘piccolo mondo’
dei Celti, con le entità di natura, nani, fate e folletti?
Nel mondo invisibile dei gangi boro abitano anche gli holley (mitici antenati o numi protettori: i
manes degli antichi latini). I più importanti tra loro (tooru), secondo le diverse tradizioni, sono sette
o otto, sono giunti direttamente dall’Egitto e sono i geni tutelari dei principali ceppi di popolazioni
che abitano la vallata del fiume Niger. Occorre elencarli, e ci scusiamo con chi non conosca la
complessità etnica di questa valle.
Zaa Beri (il grande Zaa), è il più antico e, secondo le differenti versioni, è il nume protettore
dell’etnia kurumba oppure dei songhai.
Dikko, la regina delle acque (Harakoy), è figlia di Zaa e di una donna peul (fulbe, fulani).
I cinque geni che seguono sono – a loro volta – i figli avuti da Dikko con uomini delle altre varie
stirpi circostanti. Per consiglio dei saggi, Dikko fu obbligata a cambiare marito dopo la nascita di
ciascun figlio. Questi risultarono così per tre quarti umani (koyra boro) e solo per un quarto eredi di
Zaa Beri.
Kirey o Cirey (songhai), il genio dei sapienti; Mahama Surgu o Zangina (tuareg), il pastore
nomade; Mussa Niawri (gurma, gurmancé), il cacciatore; Hawsakoy Manda (haussa), il fabbro
(ricordiamo la rigida suddivisione in caste di molte società africane); Faran Baru Koda (la
beniamina, tuareg); questo genio è spesso raffigurato come un androgino. Infine la regina Dikko,
secondo certe tradizioni, avrebbe ‘adottato’ un sesto figlio, Dongo, d’origine bariba.
La figura di Dikko è la più pittoresca fra quelle degli holley, il cui culto è stato rivelato agli
uomini. È una sirena dalle fattezze d’una bellissima donna peul, con i capelli chiari, che al cadere
della sera esce dalle acque profonde, si siede sulla sponda del fiume e attende un nuovo amante.
Identifica il prescelto e lo trascina con sé sotto le acque, nel proprio mondo favoloso. Il suo culto è
molto diffuso anche nei paesi della costa del golfo di Guinea (Togo, Ghana, Nigeria), ove prende il
nome di Mami Wata (dall’espressione pidgin’ english che significa: Mamy of the waters, la Signora
delle acque). In Brasile, la Regina delle acque si è incrociata con il culto della Vergine cristiana ed è
diventata Yemanjá, la Vergine sempre incinta.
I figli di Dikko, antenati mitici dei vari popoli, si dispersero per la vasta regione, mentre Dikko
viveva a Katakambe, nelle acque del grande fiume Niger. Un giorno, però, commise l’errore di
sposarsi con un ginn (genio) che si chiamava Sangay Moto. Quando volle divorziare da lui, tutti i
ginn si unirono, la scacciarono dal fiume e la costrinsero a stare sulla terraferma, nel villaggio di
Latakabiyey. Se fosse rimasta a lungo fuor d’acqua, avrebbe rischiato la morte. I primi sei figli,
l’uno dopo l’altro, accorsero per salvarla, ma furono sconfitti dagli spiriti e rimasero essi stessi
prigionieri. Rimase solo Mussa – il cacciatore – il quale, ignaro di tutto, conduceva una vita
spensierata presso il nonno gurmancé. Correva tutto il giorno nella natura, si appostava, tendeva
trappole agli animali. Dikko riuscì ad inviare sino a lui una richiesta d’aiuto, grazie ad una gru
coronata che poté sfuggire in volo alla vigilanza dei ginn.
Mussa, il grande cacciatore, accorse prontamente e – dopo lunghi appostamenti e tranelli –
sconfisse i geni. La sua grande esperienza, l’allenamento al confronto con la natura e con gli
animali dei boschi gli furono preziosi. Così Mussa liberò la madre e le consentì di ritornare nelle
acque del grande fiume. Potrete sentire il canto di Dikko, nelle notti serene, quando tutti gli uomini
dormono. In quelle notti è pericoloso per i giovani pescatori attardarsi lungo le rive perché la
Regina delle acque, nonostante l’età, reclama sempre nuovi amanti e li trascina con sé, nei fondali
misteriosi.
Dopo queste vicende, la gru coronata è ritenuta un uccello benefico, quasi un animale sacro.
10 – IL MITO DELLA REGINA AURA ABLA POKU
Dopo la mitica regina delle acque, nume tutelare di molti popoli dell’Africa occidentale, che è
umana soltanto a metà, conosceremo un’altra antenata, una donna, l’eroica regina del popolo Baulé.
I Baulé vivono in un territorio che gli atlanti odierni indicano come Côte d’Ivoire (Costa d’Avorio).
Sono rinomati per l’arte con cui lavorano gli oggetti d’oro. I loro costumi, la loro religione e la loro
arte riflettono strane similitudini con ciò che si conosce della cultura dell’antico Egitto. Dalle
insegne del potere regale (scettro di legno nero e d’oro, frustino “scaccia–mosche”, croce ansata,
sciabola da parata, bastone), alla successione matrilineare, ai tratti fondamentali della scultura e del
bassorilievo. Anche i Baulé, come gli antichi Egizi, praticavano la mummificazione rituale ed
ornavano le loro mummie di gioielli d’oro.
Leggenda e storia si mescolano. Vediamo la vera storia della formazione del regno baulé. Verso
il 1730, alla morte del re Ossei Tutu, fondatore di Kumasi, due suoi nipoti, Dakô e Apoku detto
Apoku–Ware, si disputarono la successione. Dakô rimase ucciso nella lotta, ma sua sorella Poku,
conosciuta come Aura Poku (la regina Poku), raccolse i partigiani di Dakô e fuggì con loro da
Kumasi. Le truppe di Apoku–Ware inseguirono i fuggiaschi sino alle rive del fiume Comoe e li
raggiunsero nei dintorni di Attaku. Aura Poku riuscì ad attraversare il fiume con i suoi prima
dell’arrivo dei nemici, che interruppero l’inseguimento. Poku proseguì la marcia verso ovest e
giunse al bacino del Bandama, allora territorio dei Senufo. Trovò delle miniere d’oro e decise di
fermarsi. Respinse i Senufo verso nord e una parte dei Guro sulla riva destra del Bandama,
sottomise gli altri popoli della zona e si spinse a sud sino a Brubru, sul basso Bandama. Aura Poku
morì verso il 1760 e fu sepolta a sud–ovest di Buaké, a Waxebo, dove aveva posto la propria
capitale. La sua nipote Akwa–Boni le succedette e completò la conquista dell’ovest, annettendo il
paese aurifero dello Yo–Uré, sulla riva destra del Bandama Bianco. Akwa–Boni morì nel 1790 e il
suo corpo fu trasportato a Waxebo, che fu allora ribattezzata Akwa–Boni Sakassu, o semplicemente
Sakassu, e divenne la città sacra dei Baulé.
Presso i Baulé, la figura femminile ha sempre avuto un ruolo importante. Nella regione di Buaké,
l’antica capitale, tutti conoscono la bella leggenda della regina Aura Abla Poku. Ve la vogliamo
raccontare, come fu raccolta nell’Ottocento dall’africanista Maurice Delafosse.
Quando i sudditi della regina Poku, sconfitti, raggiunsero la sponda del fiume Comoe, Poku fu
ispirata da una visione e disse: ‘Voi tutti, prendete i vostri neonati e gettateli nel fiume: sarà il
sacrificio che ci permetterà di salvarci’. Tutti però si rifiutarono: nessuno intendeva sacrificare i
propri figli.
La regina Poku aveva un solo figlio; lo ricoprì con tutti i gioielli d’oro che possedeva e lo lanciò
nel fiume. A quel gesto, un grande albero, che si ergeva sull’altra sponda, si piegò sulle radici e
raggiunse con la propria cima la sponda su cui si trovavano Poku e la sua gente. Tutti salirono sul
tronco e lo usarono come un ponte, per attraversare il fiume e salvarsi. La traversata fu lunga e
faticosa, e furono necessari diciotto giorni perché passassero tutti. Gli Ascianti, che li inseguivano,
arrivarono anch’essi alla sponda del fiume, ma in quel momento l’albero – che si stendeva come un
ponte sulle acque – si raddrizzò di colpo. Gli Ascianti, privi di piroghe, non poterono attraversare il
fiume Comoe e gli inseguiti furono salvi.
Allora la regina Poku disse a tutti coloro che l’avevano seguita: ‘Io sarò per sempre la vostra
regina’. ‘Perché mai?’ dissero.
‘Ecco perché sarò la vostra regina – disse Poku: quando siamo arrivati alla sponda del fiume, vi
ho chiesto di prendere i vostri neonati e gettarli in acqua, ma voi tutti avete rifiutato. Io ho preso il
mio unico figlio e l’ho gettato in acqua. Così voi avete ottenuto di passare il fiume. Ecco perché vi
dico che sarò la vostra regina’. Ed essi risposero: ‘È giusto! Sei proprio la nostra regina’.
Allora Aura Abla Poku disse al popolo: ‘Darò dei nomi a tutte le tribù che sono qui. Quelli si
chiameranno Atutu (gli spennatori), perché saranno loro a spennare le mie galline. Voi che siete i
miei fratelli e miei soldati, vi chiamerò Nzipuri (i forti). Voialtri che camminate zoppicando come
se aveste dei vermi nelle gambe, sarete chiamati Ngban (i vermi di Guinea). Voi che siete il mio
braccio destro, vi chiamerò Faabué (quelli di destra). Voi che siete dei selvaggi, che ve ne andate in
giro nudi e portate sempre in giro il fuoco, vi chiamerò Nanâfué’.
Il vero nome che la regina Poku aveva dato dapprima a questi Nanâfué era Bonâfué (i selvaggi),
ma poi fu mutato, per non offenderli. Quanto agli Agba, che vestivano indumenti di corteccia, il
loro nome significa proprio questo. Akwa–Boni disse a Poku: ‘Madre, bisogna chiamarli Agbaon (i
vestiti di corteccia)’. E così furono detti Agba. Rimanevano i Sa, che parlano sempre tutti insieme.
Akwa–Boni disse: ‘Saranno chiamati Sa (semi di zenzero) perché hanno un carattere acceso, come
il sapore dello zenzero...’
Infine la regina Poku, ancora addolorata per il ricordo della morte del figlio, che aveva gettato
nel fiume Comoe e che era annegato, disse: ‘D’ora in poi, questo paese si chiamerà Baulé (morte di
bambino)’.
Questi sono gli elementi che si ritrovano in tutte le varianti della leggenda di Aura Abla Poku,
fondatrice del regno baulé. La regina vi appare come l’eroina della lunga marcia, come Mosé che
conduce il proprio popolo; e si tratta d’una donna, d’una madre. Ella è l’esempio del trionfo della
ragione di stato, del bene pubblico sui sentimenti privati, l’incarnazione dello spirito comunitario.
Aura Poku ed i suoi primi tre successori esercitavano presso i Baulé una vera e propria autorità
feudale. Come si è visto, le prime due regine della dinastia furono donne, a riprova sia del peso
della discendenza matrilineare, sia dell’importanza che questa società attribuisce al ruolo della
donna. Poi si svilupparono lotte intestine, per il possesso delle miniere d’oro e dei territori più
fertili. Dopo il 1850, i discendenti della grande regina mantennero il rispetto della popolazione, ma
la loro autorità si esercitava ormai poco al di là del villaggio di Sakassu e non si estendeva più sul
vasto territorio dei Baulé, popolato ormai da circa due milioni d’abitanti. Fra gli aspetti tipici della
cultura baulé vi è proprio questa dissoluzione del potere centralizzato: nel sec. XIX non si
riconoscevano più né re né capi tribù.
11 – LETTERA DALL’AFRICA CENTRALE
Sono partito per l’Africa centrale per un servizio giornalistico sulle “donne leone”. Si trattava di
controllare la notizia, apparsa su un quotidiano locale, di ragazze che, in una zona compresa tra il
Camerun e il Centrafrica, venivano rapite da piccole per essere addestrate, come bestie carnivore, a
compiere assassini su commissione; inoltre, qualora mi fosse stato possibile, avrei dovuto
partecipare al processo contro i capifila della banda in questione e raggiungere i loro villaggi, per un
servizio più circostanziato, corredato da fotografie. Per qualche mese ho sognato d’essere
perseguitato dalla setta delle donne–leone o dai loro “imprenditori”, che costituivano
un’associazione a delinquere molto pericolosa. Era un potere occulto, nelle foreste del Centrafrica,
che non esitava a porsi al servizio di chiunque pagasse per compiere un assassinio. Lo strumento di
morte erano ragazzine, rapite alle famiglie in tenera età e allevate in gabbie, nutrite di carne umana,
tutto il tempo a quattro zampe come bestie, infine addestrate ad uccidere per avere la loro
ricompensa. Quando dovevano compiere un assassinio, le ragazze erano travestite con pelli e artigli
da leone, per perpetuare la leggenda e diffondere il terrore. Si sapeva e non si sapeva, ma soprattutto
si temeva di dire o di vedere troppo. Una domanda, una parola, un gesto, una foto in più potevano
essere pericolosi, tanto per il giornalista come per chi fosse entrato in contatto con lui.
Purtroppo il fotografo che mi accompagnava si è reso indisponibile – o meglio, rimase indisposto
da una di quelle diarree fulminanti che colpiscono i golosi imprudenti, alla loro prima esperienza
d’Africa. Mi è toccato fare tutto da solo. Il processo non si terrà prima del prossimo marzo. Così,
dopo una ricerca condotta sugli articoli della stampa locale e dopo qualche tentativo d’intervista
agli avvocati degli imputati e al professor Mbé, decano dell’Università e docente di antropologia
criminale, sono partito verso N’Djamena, la capitale del Ciad.
In quella città, semidistrutta dalla lunga guerra civile, esiste un museo. Dopo averlo depredato di
tutto l’avorio e d’ogni altro oggetto dotato di valore venale, hanno trovato il tempo di risistemare
ciò che restava. Così, in bella vista tra gli altri cimeli, c’è lo scheletro d’un elefante completo...
tranne le zanne, segate alla radice.
Nella veranda d’ingresso, sotto il porticato, si possono vedere due catafratti, cioè due cotte
complete di maglia, simili a quelle portate dai guerrieri d’ambo le parti durante le Crociate. La
tradizione vuole che i guerrieri musulmani, partiti da questi luoghi per combattere al fianco dei
Saraceni, le abbiano poi riportate sino a qui, al ritorno alle terre d’origine. Ancor oggi, nel vicino
Bornu, le guardie dei sultani locali montano a cavallo con elmi di stile antico, corazze e maglie di
ferro. In certi luoghi è un’usanza ancor diffusa, durante le feste annuali, vedere catafratti a cavallo.
Alla vista di quelle armature mi è nata la curiosità d’andare nei villaggi, per conoscere meglio le
fonti della tradizione. Non è stato facile conciliare le esigenze del mio lavoro con questa curiosità.
Ho potuto dedicare alla mia ricerca solo un breve periodo di cinque giorni, dopo aver visitato i
villaggi delle donne–leone e prima del volo di ritorno. In tre villaggi non lontani dal lago Ciad, dei
quali preferisco tenere segreto il nome, ho raccolto testimonianze di tradizioni che mi sembrano
molto interessanti. Dopo lunghe trattative ho potuto anche vedere dei cimeli, conservati presso la
casa di un capovillaggio. Si tratta di parti di armature molto antiche. Qualcosa ho anche potuto
fotografare. è difficile, forse persino impossibile, dare un’attribuzione storica precisa a quei
frammenti: un elmo, parti di scudi, di cotte di maglia e di altri pezzi d’armatura. Credo che la
tradizione locale, che li presenta come cimeli strappati ai guerrieri cristiani durante le Crociate e
giunti qui in epoca lontana, meriti una verifica più approfondita.
Nei villaggi kanuri delle regioni del Kanem e del Bornu, intorno al lago Ciad, con qualche parola
di arabo e, soprattutto, con molto rispetto per le persone e le situazioni, sono riuscito a farmi
ricevere da parecchi capivillaggio, a superare la naturale diffidenza che si ha sempre verso un
estraneo e a farmi mostrare i cimeli più preziosi dei loro tesori di famiglia. Ricordo quei lunghi
pomeriggi trascorsi intorno a un tè, mentre il capo, seduto sull’immancabile pelle – segno del suo
potere e del suo rango – snocciolava interminabili genealogie d’antenati. Purtroppo il poco tempo a
mia disposizione mi ha impedito di registrare quelle testimonianze, che potrebbero avere un certo
valore nelle mani d’un etnologo.
È cominciato così il mio tuffo in un Medioevo, incontrato al di là del deserto, che mi avrebbe
riportato a storie di casa nostra. Da quel viaggio sono ritornato con molte sensazioni, con un
taccuino di appunti interessanti e molte diapositive. La mia attenzione si fissava naturalmente a quei
pezzi più grossi di armature che potevo identificare, e soprattutto ai due elmi con indubbie
caratteristiche europee, medievali. Ogni volta che li rivedo in fotografia, si riaccende lo stupore di
averli trovati là, migliaia di chilometri a sud del deserto e così lontano dai luoghi delle Crociate, dai
quali anch’io mi sono convinto che provengano.
Nel rivedere le fotografie ho scoperto quei piccoli simboli incisi su alcune parti d’armatura: un
albero pieno di spine stilizzato, su un frammento di pettorale, e il monogramma “B” accompagnato
da un piccolo scudo con simboli che ricordano gli stemmi di due famiglie pavesi. La cosa accende
la curiosità, la fantasia e anche un fondo di scettica disillusione: pur volendo avvalorare la leggenda
delle Crociate, come può verificarsi il caso che proprio io, arrivato sin lì da Pavia, vi scopra tracce
di crociati provenienti dalla stessa città? Sarebbe una di quelle combinazioni rarissime, per le quali
“chi ci crede” sosterrebbe che c’è una volontà occulta, misteriosa, che le fa realizzare. Quante
famiglie, nell’Europa meridionale, potevano avere gli stessi simboli, gli stessi monogrammi...
un’eventuale ricerca sarebbe faticosissima e, forse, non avrei mai la certezza di avere preso in
esame tutti i possibili candidati.
Come conoscere, oggi, tutti i nomi dei guerrieri nobili partiti per l’Oriente in secoli di Crociate,
quando è già difficile identificare le vittime di un incidente aereo o sapere quanti furono i morti di
una guerra di cui abbiamo seguito le cronache solo pochi anni fa (ad esempio, quella del Vietnam, o
dell’Afghanistan o dell’ex Jugoslavia)?
12 – LE RACCOMANDAZIONI D’UN PADRE
da un racconto del Mali
Questa storia è stata raccolta da Lona Tunkaré, vecchia griotte (cantastorie) che viveva nel
villaggio di Ballè, ed è stata tramandata da padre a figlio, attraverso diverse generazioni.
Un uomo che stava per morire disse al figlio:
“Figlio mio, mi rimane poco tempo e ti voglio lasciare il tesoro più prezioso: la mia saggezza,
che a mia volta ho ricevuto da mio padre. Ecco i consigli che ti do: non confidarti mai con una
donna, nemmeno con tua madre; non contrarre debiti con un commerciante, quali che possano
essere i vostri rapporti; non stringere mai amicizia con uomo di potere”.
Il giovane osservò per un certo tempo le raccomandazioni del padre, ma la tentazione è sempre
stata più forte della pazienza umana. Così, si chiese perché mai suo padre gli avesse rivolto tali
parole in punto di morte.
Si dice che bisogna scuotere l’albero per sapere che cosa nasconde. Il giovane decise dunque di
fare le tre cose proibite, per vederne le conseguenze.
Innanzitutto andò a chiedere un prestito al suo amico Bakary, il più importante commerciante
del villaggio, con la scusa di comprarsi un’ascia nuova. Il commerciante gli rispose: “Per una
somma così piccola, non dovevi nemmeno scomodarti. Potevi mandarmi qualcuno, a chiederla a
nome tuo”. Il giovane fu molto contento di tale accoglienza, e decise di controllare il secondo
precetto di suo padre.
Un giorno, dopo il lavoro nei campi, disse a sua moglie Sitan: “Dammi la mia ascia, vado nei
boschi a cercar legna per il fuoco”. Prima di uscire tagliò un pezzo di stoffa bianca lungo sette
metri. Arrivato nel bosco, tagliò un ramo d’albero e l’avvolse nel lungo lenzuolo. Ritornò al
villaggio che era ormai notte.
Sua moglie gli disse: “Non rimanere tanto tempo nel bosco, il lavoro è importante ma devi pure
riposarti”.
“Moglie, sai bene che non è mia abitudine tornar tardi a casa, ma oggi, mentre tagliavo la legna,
è arrivato un brigante che mi ha provocato, cercando di attaccar lite. Io mi trattenevo, ma poi non ne
ho potuto più. Gli ho dato un colpo d’ascia e l’ho ucciso. Il suo corpo è avvolto in questo lenzuolo,
finché non riusciremo a seppellirlo. Sei la sola a saperlo, mi raccomando, non dirlo a nessuno. Alla
minima indiscrezione, potremmo finir male”.
“Ma insomma. gli uomini non capiscono mai! Perché non date confidenza alle vostre donne? Ci
sono al mondo tante donne coraggiose. Ti prometto che nemmeno le travi della nostra casa
sapranno mai niente del nostro segreto”. Così Sitan rassicurò suo marito.
“Perché allora mio padre mi ha consigliato di non dar fiducia ad una donna, nemmeno a mia
madre? Mia moglie mi ha appena dimostrato che questo è falso”.
L’indomani, il giovane andò ancora, nei campi di buon’ora. Sua moglie gli portò da mangiare a
mezzogiorno. Quel giorno non voleva fermarsi a lavorare: aveva fretta di andare a chiacchierare con
le amiche. “Marito mio, scusami ma non sto bene e non riuscirei a lavorare oggi”. “Va’ a casa,
prendi una medicina e riposati” le rispose il marito, convinto. Appena a casa, la donna prese il
cotone e gli attrezzi per filare e si recò a casa della vicina. Dopo un po’ che lavoravano insieme,
cominciò a dire: “Binta, ho una cosa estremamente confidenziale da dirti. Ieri un brigante ha
attaccato mio marito mentre tagliava la legna. Ma mio marito, dopo una lunga lotta, è riuscito a
vincere e gli ha rottola testa con un colpo d’ascia. Il corpo del brigante è a casa nostra, finché non
sapremo come seppellirlo. Mi raccomando, non raccontare questo segreto a nessun altro”. Binta le
disse: “Sitan, viviamo insieme da dieci anni e non ti basta per avere fiducia in me? Puoi stare
tranquilla, questa storia non passerà la soglia di casa mia”.
Sitan era appena uscita di casa, che già la sua amica informava la vicina, insistendo sul fatto che
non dovesse raccontare la cosa a nessun altro.
In meno d’una giornata, la notizia fu risaputa ai quattro angoli del villaggio. Le autorità se ne
immischiarono e l’uomo fu arrestato. Fu il suo stesso amico, personalità importante, che l’arrestò.
Quando il commerciante seppe la notizia, corse dalle autorità a dire: “Signori, voi che
amministrate la giustizia, vi chiedo di ritirare da quel criminale il denaro che gli ho prestato, prima
che sia trascinato in giudizio. L’aveva preso a credito da diversi anni; è vero che era mio amico, ma
non ho mai pensato che potesse uccidere un uomo a sangue freddo. Come possono essere malvagi
gli uomini!”
L’accusato ottenne finalmente di essere interrogato e poté condurre le autorità a casa sua.
Disfatto il lenzuolo, non si trovò altro che un pezzo di legno. Gli chiesero perché si fosse
comportato così.
“Signori, era per controllare le ultime raccomandazioni di mio padre, che mi aveva detto con
insistenza, prima di morire: ‘Non avere mai fiducia in una donna, nemmeno in tua madre, non
indebitarti mai con un commerciante, in qualsiasi difficoltà tu ti trovi; non legare mai amicizia con
un uomo di potere’. Ebbene, questo pezzo di legno era un segreto fra me e mia moglie. Nonostante
le mie raccomandazioni, lei ha raccontato la mia storia alla vicina, e via via la notizia ha finito per
raggiungervi.
Il mio migliore amico è venuto ad arrestarmi senza lasciarmi spiegare.
Il commerciante, amico mio, si è preoccupato più del suo denaro che della nostra amicizia.
Non ho ascoltato mio padre e non l’ho rispettato. ed ecco che oggi mi trovo preso tra due fuochi.
Il bambino può anche giocare con i propri escrementi, ma deve sempre rispettare i consigli di suo
padre”.
Da questo lato dello specchio:
13 – L’EREDITÀ DEL PATRIARCA
Il Cecchino
Un grappolo di sordide case abbarbicato al fianco nord della vecchia Cattedrale, fra gli archi
rampanti che sostengono le volte della navata e la torre di città. Finestre che mai hanno visto il sole.
L’esposizione verso tramontana, all’ombra della grande torre, e una corrente d’aria permanente, che
s’incanala nella strettoia tra la cattedrale e le case, rendono quei tuguri particolarmente insalubri e
malsani.
Lassù, ad oltre cinquanta braccia d’altezza, appesa al muro orientale della torre, un’unica
stanzetta, come una baracca, fatta alla bell’e meglio con pareti e pavimenti di tavole. Vi si arriva per
un dedalo aereo di scale, che s’inerpicano sui tetti d’altre case fatiscenti, prive di serramenti, esposte
ai venti ed alle intemperie, popolate dai rifiuti della città. Oltre centotrenta gradini e, se non vi
sarete stancati o persi per strada, se non sarete scivolati in qualche falda di tetto pericolante, se
nessuno vi avrà puntato un coltello alla gola in qualche passaggio buio, potrete raggiungere un
precario nido di falchi, rifugio d’un certo Cecchino Cristiani. Un uomo che non ha combinato nulla
d’importante in tutta la sua vita ed ora, a 52 anni, mendica alla porta settentrionale del Duomo, per
procurarsi un tozzo di pane e – soprattutto – un bicchiere di vino, che lo aiutino a terminare la
giornata.
Cecchino è il nipote di Bernardo, detto ‘della polvere’, un celebre necromante che, nella seconda
metà del Cinquecento, ha passato molti guai con la Santa Inquisizione e con la giustizia civile a
causa delle propria attività. Arrestato più volte, ha dovuto subire il sequestro di filtri, libri ed
amuleti ed ha concluso male i suoi giorni su un patibolo, dopo che l’avevano più volte storpiato, per
estorcergli confessioni, sotto i ferri della tortura.
Bernardo o Bernardino Cristiani, detto ‘della polvere’, è stato perseguitato e processato qui a
Pavia dall’inquisitore Pietro Solero da Quinzano per la detenzione di libri magici e per l’esercizio
delle arti di geomanzia, astrologia e alchimia. Egli stesso si proponeva di comporre un trattato di
arti magiche. Studiava il modo di trasmutare l’argento in oro e guariva gli spiritati. Era capace di
prevedere “se una dona parturiva maschio o femina” e di “ritrovare qualcosa perduto, guadagnando
in cambio un paio di scarpe”. Subì un primo ammonimento dall’Inquisizione nel 1564 e gli fu
imposto di smettere di operare. Nel novembre del 1567 Fra Solero lo fece nuovamente arrestare. Fra
i reperti sequestrati in casa di Bernardo, si citano calamite, pezzi di ossi, un trattato per tingere i
panni di lana, un “rimedio contra ogni puzor di bocca”, testi di Raimondo Lullo e la celeberrima
Clavicola di Salomone.
Quella stanzetta inerpicata lassù, tra i tetti e i nidi dei falchi, abbarbicata alla Cattedrale e alla
Torre Civica, era rimasta il nascondiglio segreto di Bernardino ‘della polvere’ sino ai suoi ultimi
giorni ed è poi passata in eredità al nipote, con ciò che rimane dei ‘ferri di mestiere’ dello stregone:
qualche alambicco, misture varie, una cassa di libri e grimori, con formule magiche, di varia
provenienza. Tutte cose che per Cecchino contano poco o nulla, visto che non sa neppure leggere.
La vita di Cecchino è monotona, uguale, giorno dopo giorno. Su e giù per le impervie scale di
quel nido di falchi, dove si rifugia per dormire, e poi su e giù per altre scale, quando offre una mano
al sacrestano del Duomo per fare le pulizie, spostare mobili, andare a sistemare qualcosa sui tetti o
nella cella campanaria. Nella propria vita, ha certamente fatto più gradini che passi in orizzontale.
La stanza di Bernardino è diventata il suo rifugio, dal giorno in cui è rimasto solo: morto malamente
lo zio, in odore di stregoneria; morti l’uno dopo l’altro i genitori, in un’epidemia di peste nera che
ha spopolato la città. La sua sola sorella è scomparsa da tempo. Dicono che abbia sposato un
olandese, uno dei tanti ufficiali delle truppe spagnole, il quale, dopo qualche anno di servizio da
queste parti, è partito per le Indie occidentali col grado di vice–governatore. Di loro non si è saputo
più nulla.
La stanza basta appena per accogliere un misero pagliericcio, una specie di tavolo ed uno
sgabello. Due mensole sul muro ed un vecchio baule, che contiene i pochi ricordi dello zio
Bernardo, completano l’arredamento. E i servizi igienici? Per i propri bisogni, Cecchino non si
sforza troppo: esce al primo angolo dell’incerta rampa di scale e si libera direttamente sui tetti,
quando nessuno lo vede. La prima pioggia s’incarica di portarli via. Ogni tanto, quando il clima non
è troppo inclemente, il Cecchino si concede una spruzzata d’acqua alla fontana pubblica, sullo
scalone del Palazzo di città – o Broletto – verso Piazza Cavagneria.
Le mattinate trascorse a mendicare, seduto sotto l’atrio d’ingresso della Cattedrale, sono dense di
rapporti umani, né più né meno, come quelle di un mercante o di un notaio. Tutti conoscono
Cecchino, dall’ultimo passante sino al Vescovo e al Podestà. Persino l’Inquisitore ogni tanto si
sofferma a scambiare due parole con quel mendicante. Molti mantengono l’abitudine di scambiare
qualche parola con il mendicante. Le chiacchiere quotidiane con i passanti, ma soprattutto con gli
altri mendicanti, col sacrestano e con qualche prete sono più che sufficienti a tenere il Cecchino
costantemente informato sulle novità del mondo.
Benché Cecchino non sappia leggere, conserva con somma cura alcuni libroni ricevuti in eredità
dallo zio, ed è sua segreta speranza di riuscire un giorno a decifrarli. Sfogliandoli, s’è reso conto che
non tutti i testi erano scritti in lettere latine, ma che strani geroglifici si mescolano alle scritte in
alfabeto ‘normale’ e ai disegni. Tuttavia, memore delle brutte avventure occorse allo zio, si guarda
bene dal chiedere aiuto a qualcuno, che possa fornirgli una qualche indicazione sul contenuto dei
libri.
I due amici
Con il trascorrere degli anni, la curiosità del Cecchino, rimasta insoddisfatta, si è fatta sempre
più viva. Dopo aver superato i 45 anni, ha cominciato a sentirsi invecchiare e si chiede se mai
riuscirà a superare l’inconveniente di non saper leggere. Sino a che, un giorno, gli è capitato di
conoscere Ottavio, un ragazzino brillante, sveglio e socievole. Fra il mendicante e il ragazzo è nata
una strana amicizia.
Ottavio studia in seminario, sa abbastanza di latino e di greco e riesce a riconoscere i caratteri
d’altre lingue morte. La confidenza creatasi fra i due fa sì che un bel giorno il Cecchino porti il
ragazzo sui tetti, sino al suo tugurio, per mostrargli i suoi tesori nascosti: i libri che lo zio gli ha
lasciato, sua unica eredità.
Due età dell’uomo a confronto con la magia e col mistero, nel luogo più sacro della città, vicino
al nido dell’Inquisizione. Questa città, che secondo i cronisti ortodossi “non aveva conosciuto né
eresia né bisogno di martiri”, cela in realtà una quantità di misteri, che neppure Bernardino della
Polvere, da vivo, avrebbe potuto immaginare.
Un freddo giorno festivo, il Cecchino è rimasto rintanato lassù, nella sua stanza, e Ottavio è
salito a rendergli visita. Per la prima volta, dopo molti anni, il vecchio baule dagli spigoli rinforzati
in ferro è stato tirato fuori da sotto il letto e, con grande rispetto e cautele infinite, i due ne hanno
estratto qualche poderoso volume. Non si tratta di libri a stampa, ma di vecchi testi manoscritti, su
spessi fogli di pergamena, con inchiostri di vari colori.
Prendono, quasi a caso, il primo dei volumi manoscritti, quello che sembra di più agevole lettura,
per l’assenza di formule magiche e di altre espressioni in lingue morte o esotiche. Il titolo del
volume, scritto in caratteri capitali, è: ‘La vera historia della maledictione del sancto Syro,
protovescovo’. I due s’immergono nella lettura e, con uno stupore via via crescente, scoprono che
proprio lì, sotto i loro piedi, molto tempo prima erano stati i simulacri e il santuario d’un cruento
culto pagano, consacrato alla dea Cibele. Quel culto s’era mantenuto a lungo ed il tempio, il
principale della città, non fu smantellato, neppure nei secoli del dominio longobardo. Gruppi di
fedeli della crudele dea orientale avevano mantenuto la loro roccaforte proprio nel cuore della città.
Solo molto tardi la nuova religione riuscì a smantellare il tempio pagano ed a costruire al suo posto
una nuova Cattedrale. Alcuni resti del vecchio culto non sono mai andati distrutti, ma sono stati
incorporati nelle strutture del nuovo Tempio.
“La città nata sul pigro, ma grande ed infido fiume non potrà conoscere alcun vero
rinnovamento, se non a prezzo di sangue e di divisione. Sarà soggetta, nella sua storia, a trenta
assedi e dodici volte sarà distrutta, spesso per opera dei suoi stessi abitanti. Quando il mondo sarà
operoso e industre, essa affogherà nell’ignavia, nell’ozio e nella noia. I suoi abitatori sono destinati
ad invidiarsi l’uno con l’altro e le ondate di rinnovamento potranno sempre e solo provenire
dall’esterno, ma sono destinate a non durare mai per più di una generazione. Ecco la profezia, la
maledizione di San Siro. La gente del luogo non volle tramandarla e fece l’impossibile per
nasconderla, per dimenticarla. Basta però rileggere la storia: quanti assedi, quante guerre e
distruzioni, quante rivalità e quanti odi intestini... il re stesso che distrugge la propria capitale (come
fece il marito di Teodolinda, quell’Ago o Agilulfo che regnò sui Longobardi). Il popolo che mette
la propria città a ferro e a fuoco, come avvenne intorno all’anno Mille, per ostilità verso il re, e
come poi durante le lunghe guerre civili... non devi dimenticare la tragica lezione che, al di là dei
fatti storici, emerge da questa profezia. L’unica fama venne a questa città dagli ozi di Re e Signori
invasori, che qui stabilirono la propria sede di delizie e si fecero servire dagli abitanti. La fama
guerriera dei Pavesi fu ben conosciuta, nei secoli passati, e fu spesso posta al servizio d’altri
eserciti, di altri interessi, di altre guerre. Mai però essi si adoperarono compatti per ottenere un
beneficio comune, a vantaggio della propria città, ma sempre anteposero a tutto il litigio e la guerra
intestina”.
I due trascorrono i lunghi pomeriggi dell’autunno nebbioso a scorrere polverosi manuali, con
formule di erboristeria e di “medicina dei poveri”, accorgimenti che facevano parte del patrimonio
dei guaritori, maghi e ciarlatani e che avrebbero potuto guarire un raffreddore, lenire un mal di testa
o risolvere una comune inappetenza, guarire vari tipi di brufoli e di eruzioni cutanee, o persino
arrestare la caduta dei capelli. Riescono così a censire il contenuto di circa metà della cassa. Sul
fondo, in mezzo ai libri, giacciono alla rinfusa vari strumenti, ossicini, piume, sacchetti ed ampolle,
ma i due, trattenuti da un religioso timore, non si azzardano a toccarli, almeno sino a che qualche
manuale non spieghi loro con chiarezza che uso convenga farne.
La vera maledizione
Un altro testo pretende di rivelare la vera “maledizione di San Siro”, scritta in inchiostro di
colore rosso sangue su antichi testi. Esso dice che questa città, la cui storia è sempre stata camuffata
e riscritta in dispregio ai perdenti, non avrebbe più potuto trovare nel proprio seno la forza e la dignità di riconoscere le proprie vere origini. Pertanto essa è destinata ad essere governata con la
menzogna. A nulla, nei secoli, sarebbero valsi gli sforzi di chi volesse ricercare e far trionfare la verità.
“Per oltre tredici secoli – dice la profezia – la falsità trionferà; gli uomini si avvicineranno intanto all’anno mille più mille. Quando la grande cupola del tempio centrale minaccerà rovina, si
aprirà qualche piccolo spiraglio di verità, ma neppure ciò basterà. Ora che è stato innescato il
circuito della falsità, pubblicamente dichiarata ed ostentata come verità ufficiale, l’antica capitale è
destinata a vivere nei secoli una vita misera, immersa nell’arroganza e nella presunzione, come un
parassita privo delle radici necessarie alla sopravvivenza. In essa s’insegnerà, vi saranno anche
scuole d’alto livello, ma a poco frutterà tutta tale saggezza di fronte all’assenza di verità. Tutto ciò
che in questa città si farà, di una qualche importanza, sarà sempre osteggiato dalle chiacchiere, dalla
malignità e dalla falsità. Si tratta di un luogo che della falsità storica ha fatto il proprio blasone”.
A chiusura di quel libello appare, scritta in un rozzo latino, la seguente frase: “Questi testi sono
stati redatti da Michele, Diacono della chiesa del San Sir, che si è lasciato deperire talmente – a
seguito delle note vicende della distruzione della nostra Chiesa – da morire di consunzione. Io
Gundmar, suo confratello, le ho raccolte e le concludo oggi, giorno di San Giovanni Battista dell’anno di Grazia 663, sotto il regno del nostro splendido e glorioso re Grimuald, per affidarle alla
memoria dei posteri”.
Una maledizione pesante, scagliata dagli ultimi preti ariani, condannati all’oblio. Per i sacerdoti
ariani e per i loro seguaci, eredi del modo di pensare gnostico, non era neppure lontanamente
concepibile alterare la storia e la verità in nome della ragione di stato.
Il documento è passato di mano in mano, a rischio della testa di chi lo possedeva, sino a giungere
in possesso di una piccola comunità càtara. Da costoro, per vie inesplicabili, è stato trasmesso agli
archivi dei Templari e qui è rimasto, sepolto nell’oblio, grazie all’assoluto segreto che l’Ordine garantiva ai propri documenti. Poiché però non faceva parte delle carte più importanti, esso è rimasto
nei forzieri della Magione pavese, affidata ai Cavalieri dell’Ordine di San Giovanni di
Gerusalemme. Le distruzioni del sec. XVI hanno sepolto quei cimeli e, quasi per un disegno
imperscrutabile, essi finiscono nelle mani del Cecchino e di Ottavio, che stanno cercando la chiave
del mistero di San Siro. I due compari si rendono conto di non potere andare impunemente in giro a
rivelare i misteri che hanno letto. Anzi, quei segreti hanno il valore della loro stessa vita. Decidono
di comune accordo di non raccontare a nessuno ciò che hanno scoperto.
Evocazioni
Con la fine d’ottobre s’avvicina il giorno d’Ognissanti, data indicata dai testi magici come la più
importante per compiere determinate azioni d’antichi riti. Cecchino e il giovane Ottavio decidono di
sperimentare – dal libro magico trovato nel baule – un incantesimo particolare, per evocare lo
spirito d’un trapassato. Il ragazzo s’è esercitato per giorni, ha letto e riletto attentamente le varie fasi
dell’incantesimo, e i due hanno predisposto con cura tutti gli oggetti necessari: alcuni erano nella
cassa, fra un libro e l’altro, mentre altri (come il sale e le candele) sono reperibili in giro, senza
grandi difficoltà.
Hanno deciso di comune accordo di evocare Bernardino ‘della polvere’, l’antenato stregone di
Cecchino. La giornata è stata limpida e, prima della ventiquattresima ora, il sole s’è immerso in
un’apoteosi di rosso, in quella lunga lama frastagliata che si può vedere dal piccolo nido di falco, tra
le gronde e i tetti delle case sulla sinistra e, a destra, le mensole con figure mostruose che reggono i
tetti della Cattedrale. Dritto, in fondo alla stretta via che lambisce la facciata del Broletto, si staglia
sul cielo orientale, sempre più scuro, il profilo del convento dei Domenicani di San Tommaso,
come un monito inquisitorio perennemente rivolto contro eretici e stregoni. In quel tramonto, San
Tommaso pare lanciare strali fiammeggianti in alto nel cielo e minacciare le fiamme di un’eterna
dannazione ai due impudenti che, rannicchiati contro la Torre di città, si apprestano a violare i sacri
interdetti.
Le ombre s’allungano rapidamente e quella della Torre ha ormai annegato tutta la viuzza
sottostante. Ai tocchi dei Vespri, i brusii dei negozi si attutiscono e qualche lanterna s’accende a
rischiarare la penombra. Le porte della città si chiudono, mentre dai campanili si chiamano a turno i
rintocchi delle campane.
Quando l’ultimo raggio del sole calante scompare, il Cecchino si dispone diligentemente a
tracciare sul pavimento i segni che Ottavio gli suggerisce, e che tante volte ha ripetuto mentalmente,
sino ad impararli a memoria. Segna i quattro punti cardinali sulle pareti della stanzetta, sgombra il
centro del pavimento e vi traccia con la cenere una stella a cinque punte, con una punta rivolta verso
il nord. Nel pentagono interno alla stella inserisce un cerchio, poi colloca con cura cinque candele,
una al centro del cerchio e le altre lungo le pareti, dove ha segnato le direzioni dei punti cardinali.
Il buio avanza e una leggera bruma si leva dal fiume, serpeggiando tra le case e risalendo per le
vie della città. Sugli spalti dei bastioni gli armigeri si gettano sulle spalle le mantelle di panno, che
ben presto l’umidità appesantirà come coltri inzuppate. Lontano, nella campagna, qualcuno osa
sfidare l’autorità ecclesiastica e comincia ad accendere falò, che dureranno tre notti; le fiamme
rompono l’oscurità e si vedono a distanza, in un alone di nebbiolina incipiente. Nessuno, però,
s’azzarda più a danzare la carola intorno a quei fuochi, per paura di non finire arrostito su altri
bracieri, allestiti per i reprobi, accusati – a torto o a ragione – di tenere viva la stregoneria antica.
Nella stanzetta appesa al fianco della torre s’è creata un’atmosfera densa di fumo degli incensi,
ma anche di attesa e di paura, quasi palpabile. I due ripassano fra i denti ogni parte del rituale,
timorosi di poter commettere anche il minimo errore. Finalmente, il ragazzo inizia, con voce
stentorea, ma un po’ sopratono e tremante per l’emozione, a declamare il rituale evocatorio. Rigidi,
tesi sino allo spasimo, i due seguono ogni minima vibrazione delle luci e del fumo delle candele,
inseguono con la coda dell’occhio ogni ombra che sembri passare sulle ruvide pareti di assi. Nulla:
pare che anche i topi li abbiano abbandonati. Trascorrono così le prime sei ore della notte, sino a
quella che noi chiamiamo mezzanotte, in letture e complicate cerimonie, infarcite di formule
recitate in lingue strane, ma Bernardino non dà alcun segno.
Chi passasse a quella tarda ora della notte per la via del Campanile potrebbe sentire, là in alto,
uno strano borbottio; certamente noterebbe, fra le folate di nebbia che si è levata sulla città, il lume
che filtra tra le assi del ricovero precario. I due insistono nel tentativo di richiamare Bernardino
‘della polvere’ dal sonno della morte, ma devono concludere, dopo avere seguito a puntino le
complicate procedure, che il suo spirito sia impegnato in altre faccende, e non possa rispondere ai
loro ripetuti richiami. La delusione è cocente, ma la logica conseguenza che i due ne traggono è
unanime: “Riproviamo domani!”? Intanto Ottavio spulcia, in fretta, altri testi contenuti nel baule,
per cercare qualche riferimento che possa perfezionare il rituale. Sul lato d’un manoscritto che parla
di materializzazioni, s’imbatte nella seguente nota: “Quando il sole tramonta, nulla è conveniente
intraprendere se prima non ottieni il consenso di Layla, il dèmone della notte. Perciò tutte le
evocazioni notturne devono iniziare nel suo nome, e terminare con un ossequioso ringraziamento
alla sua grazia, anche quando Layla non fosse altrimenti direttamente invocata”. Segue un preciso
rituale, di gesti e di invocazioni, per rabbonire la capricciosa Signora della Notte.
La città è ormai immersa per intero in una fitta e densa nebbia. Anche nella misera stanza
passano folate di fredda umidità, che piegano la fiamma delle candele e mettono i brividi giù per la
schiena. Sembra di stare sul ponte d’una nave, un traghetto rivolto a destinazioni oscure ed insicure,
attraverso un oceano di mistero e di malsana umidità. Il mondo esterno è rimasto avvolto in una
bambagia grondante, in cui suoni e luci, come i sensi delle persone, diventano ottusi e soffocati.
Non è stato facile accendere tutte le candele, perché l’esca dell’acciarino s’era inumidita e la
fiamma tremolante, esposta a tutti quegli spifferi, più volte s’è spenta. Finalmente si può dare inizio
al rito. Con grande rispetto, Ottavio pronuncia alcune formule in un idioma sconosciuto: l’indirizzo
a Layla, Regina della Notte, perché vegli con benevolenza sulle loro intenzioni... e Layla el aziza, la
prediletta, scivola quasi di soppiatto tra loro, anche se sul principio i due non se ne accorgono.
La sera dopo l’atmosfera è carica di elettricità, quando i due si trovano lassù, nel buio della
stanzetta, che sembra la cabina d’una nave in procinto di salpare tra flutti tempestosi, verso mete
ignote. Ormai esperti dei rituali preliminari, li compiono quasi meccanicamente, mentre si
concentrano sul reale indirizzo della loro evocazione: Layla, la Regina della Notte. Le loro attese e
le loro speranze si concentrano sulla figura dell’affascinante e pericoloso Dèmone della Notte. La
passione e la concentrazione sono tali da sembrare palpabili, nell’atmosfera fumosa per le candele e
per l’aria bassa. L’ala della notte avvolge il nido dei due cospiratori, quasi come una pesante
coperta di lana grezza. I due si concentrano, con qualche brivido di sudore freddo. Stanno per
tuffarsi in un incubo terribile e di difficile ritorno. è come se si aprisse una porta e i due
percepiscono distintamente la presenza nella stanza di qualcun altro, che cerca di comunicare con
loro. Un personaggio sicuramente temibile. Non ne sentono la voce, né la vedono. Entrambi però
hanno la netta sensazione che si tratti di un’entità femminile, cupa e possessiva nel suo fascino
d’altri mondi.
Che cosa accade realmente, nella notte autunnale, sull’alto del fianco est della Torre Civica? I
due rimangono posseduti dall’incubo per la notte intera. Creazione delle loro menti, infestazione
diabolica o presenza di qualche antica entità, ormai sepolta nel tempo e rimossa dalla memoria degli
uomini, che i due sono riusciti realmente ad evocare e a richiamare da recondite lontananze?
Sta di fatto che la mattina dopo i tetti della via del Campanile sono ricoperti di uno spesso strato
di duro ghiaccio, con lucentezze del colore del sangue. Tutti i fuochi sono spenti, quella notte, e
qualche vecchietto non si risveglierà più dalla fredda morsa del gelo. Gli abitanti dei quartieri
adiacenti sentono grida e ululati atroci, come se si stessero sgozzando decine d’agnelli. Da quella
notte, i capelli del Cecchino rimarranno segnati del candore della vecchiaia – o della pazzia – e il
ragazzo Ottavio non sarà più lo stesso, ma mostrerà d’avere il doppio dei suoi anni. I giochi infantili
non lo attrarranno più e si ritirerà nella lettura dei libri... e in quali strane letture: antichi bestiari,
manuali di esorcismo, trattati sull’esistenza degli esseri soprannaturali (demoni, angeli e folletti)
saranno i testi che più l’appassioneranno, e il giovane si applicherà con gran passione alla
decifrazione dei manoscritti lasciati da Bernardino, custoditi nel baule sotto il letto, nella stanza
presso la torre.
Le evocazioni si ripetono, regolari. Nella notte, il freddo e gli ululati attanagliano nell’angoscia il
cuore stesso della città. La luna splende sopra i tetti e sembra irridere dall’alto e dal profondo del
mistero, dagli abissi della sua femminilità, la stupida ignoranza degli uomini, macchine di guerra e
di potere. Layla appare loro con sembianze femminili, i capelli corvini e gli occhi fiammeggianti,
con un sottile diadema che le cinge la testa e reggeva un grosso smeraldo, posto proprio al centro
della candida fronte. L’entità prende possesso con forza dei loro pensieri, domina talmente le loro
volontà che i due non aspettano altro che la sera per potersi prostrare ai piedi dell’antico demone
dalle sembianze di donna. Questo rimane l’unico appuntamento delle loro notti insonni, dedicate
allo studio della magia tradizionale. Un giorno, non riuscendo a capire una riga del testo
manoscritto, Ottavio esclama: “Ah, se fosse qui Bernardino, lui sì che potrebbe spiegarmi di
persona!” I due si guardano negli occhi e si ricordano dell’idea di evocare lo zio, morto in fama di
stregoneria. Quella sera, quando i fumi e i rituali colmano la stanza ed il quartiere con le consuete
orride presenze, si rivolgono a Layla e umilmente, in ginocchio, la supplicano di portare sino a loro
lo zio, oppure di condurli ad incontrarlo, in qualunque posto, anche solo per pochi istanti, il tempo
di guardarlo negli occhi e di rivolgergli le poche domande cruciali che li avevano spinti a muovere i
primi passi.
Layla impone loro d’abbassare gli occhi e di sdraiarsi, proni, completamente distesi al suolo. La
stanza si riempie d’un fumo acre, che brucia gli occhi. Uno scroscio di risate sardoniche riempie
l’aria, come se una porta si aprisse su un locale pieno di persone. Una voce maschile, profonda e
gutturale, ordina ai due d’alzarsi e d’aprire gli occhi. L’ambiente che appare loro non è più
l’angusta stanzetta di tavole: sembra piuttosto la gran sala d’un castello, con un enorme camino nel
quale ardono grossi ceppi. In un angolo, un gruppo di persone sembra condurre una vivace
conversazione e, di tanto in tanto, esplode in uno scroscio di risate sgangherate. Sono uomini e
donne, vestiti in foggia antiquata. Nessuno di loro sembra accorgersi della presenza del Cecchino e
di Ottavio.
I due raccolgono tutto il proprio coraggio, perché l’atmosfera li mette in uno stato d’imbarazzo e
soggezione, e si avvicinano al gruppetto che tiene salotto. Finalmente, una dama li vede e – con un
breve, secco colpetto di tosse – attira su di loro l’attenzione degli altri.
Un personaggio che somiglia alla lontana al Cecchino è al centro della combriccola. Indossa uno
strano abito rosso, con un alto bavero nero che gli avvolge il mento e le guance, come in una nuvola
oscura. è lui a rivolgere la parola per primo ai due nuovi venuti:
“Che cosa desiderano lorsignori?”
“Ci scusiamo – risponde il ragazzo – non era nostra volontà il disturbare cotesta amabile
compagnia, ma... a dire il vero, cercavamo una persona”.
“E chi, di grazia, se si può saperlo?” “Messer Bernardo Cristiani, che fu parente del signore che
mi accompagna”.
L’attenzione di tutti si fa più palpabile.
“Bernardino Cristiani son io – risponde il personaggio ai due ospiti – ma non ricordo, a dire il
vero, di avervi mai incontrati, né l’uno né l’altro. Come sarebbe a dire ch’io ‘era’ parente del qui
presente... signore...?”.
“Francesco Cristiani, detto ‘Cecchino’, per servirvi. Sono tuo nipote, zio. Non ti ricordi più
dell’ultimo figlio di tuo fratello?”
“Mi ricordo d’un bambino, ma tu dimostri la mia età. A dir il vero, somigli a mio fratello
Antonio. Sei davvero quel Cecchino che dici di essere?”
“Sì, zio, e da quando manchi fra noi... quante volte t’ho rimpianto. Ho sempre conservato i tuoi
libri, sai, e finalmente questo giovine mi ha aiutato, sia nel leggerli e capirli, sia nel cercarti”.
“Mi fa piacere, Cecchino... a qual pro faceste tanta fatica per cercarmi? E chi è, di grazia, questo
giovinotto, che non mi hai ancora presentato?”
“Il mio nome è Ottavio, Messere, e sono lieto di poter parlare con voi questa notte. Vi cercavamo
per la naturale curiosità che nutre l’ingegno umano, quando è posto di fronte ad un enigma. Voi
lasciaste un libro sulla maledizione di Sancto Syro, ed esso ci ha molto attratti nelle vicende
storiche ed umane ch’esso trattava, ma noi non siamo riusciti a leggerlo sino in fondo. Infatti, le
ultime pagine risultavano strappate ovvero illeggibili. L’affetto che il vostro nipote sempre nutrì per
Voi ci ha spinti a tentare il vostro incontro, per domandarvi di meglio chiarire il vostro pensiero e la
vostra narrazione, e per prendere nel contempo diletto dal vostro incontro”.
Il giovine Ottavio rivolge con ardire la parola in modo diretto a quello che ritiene essere il
fantasma del mago Bernardino. E quello accoglie con benevolenza le sue parole, e risponde:
“Bene hai parlato, ragazzo. Vi ringrazio di essere qui con me, questa notte. Benché prima non ti
conoscessi, le tue parole mi fanno capire che hai letto i miei libri. E questo scambio di sapere è il
modo più profondo di conoscenza reciproca, tra due uomini. Ebbene, vi racconterò ciò che
desiderate sapere: la vera storia della maledizione di San Siro.
Siro era invecchiato anzitempo, a causa delle preoccupazioni che in questa vostra città lo
avevano angosciato. Un gruppo di seguaci si era unito al missionario e lo aveva aiutato nel difficile
compito di organizzare la nuova Chiesa, ma la piccola comunità era composta per lo più da
legionari, da commercianti che provenivano da fuori, e non era riuscita a fare proseliti tra gli
abitanti del luogo. I pagani si riunivano a celebrare i loro riti nel tempio di Cibele e in altri templi
dedicati a divinità minori; erano insomma i padroni della città.
Questa città, figlio mio – lascia che ti chiami così – è sempre stata ostile ad ogni novità e, in
modo particolare, a quelle che provengono dall’esterno. Come in ogni società umana, sono le
donne, le madri, che garantiscono e tramandano la forza della conservazione. Siro, nella sua
vecchiaia, ebbe una rapida visione profetica degli eventi futuri. Così, quella che la gente ricorda
come una maledizione potrebbe piuttosto essere definita come un’intuizione, una visione, una
profezia”.
I toni di Bernardino si sono fatti appassionati. I due che l’hanno evocato, e che stanno ascoltando
le sue parole, fremono con un brivido nelle ossa. Si guardano negli occhi e si rendono conto di
trovarsi entrambi nella misera stanzetta, appollaiata in alto sui tetti di Pavia, e di essere entrambi
sdraiati al suolo. Le candele si sono consumate e qualche stoppino sfrigola, nella cera ormai tutta
sciolta. La stanza è freddissima, avvolta in un fumo denso e acre. Nessuna presenza estranea.
Sembra loro, per un attimo, di aver sognato tutto. Solo dal confronto dei rispettivi ricordi si rendono
conto d’aver trascorso un’esperienza di sensazioni in comune. Entrambi si ricordano di Bernardino
e delle sue parole.
Il cunicolo sotto il Duomo
Ottavio e Cecchino si ritrovano nell’alloggio dell’uomo ad accendere candele, a ripetere formule
antiche e ad invocare la gelida Layla.
Appare il demone splendente, ai due prostrati al suolo nel cerchio di candele, accetta i loro
omaggi, li prende per mano e li conduce ancora una volta sino alla larva di Bernardino,
evanescente, avvolta da una nebbia bluastra. Il vecchio mago li riconosce e si rivolge loro con
familiarità.
“Dovete sapere che in un pilastro della Cattedrale è murata una statua dell’antica religione, di
quel giovane pastore che fu amato dalla terribile Cibele, divinità degli Orientali. Il pastore Attis vi
appare in atteggiamento di riposo, col berretto frigio in testa, inquadrato da un tempietto di sapore
classico. Quella statua fu lasciata nello stesso luogo che da sempre occupava, nel tempio antico,
affinché non si sconvolgessero le credenze della popolazione, ma anche perché essa costituisce
come una porta d’accesso ad antichi misteri. Quando essa fosse rimossa, tutto potrebbe cambiare.
Dal simulacro ha origine una scala segreta, che conduce nelle più profonde voragini della città.
Laggiù, su tavole di pietra, sono incisi i destini della città di Pavia, delle sue istituzioni e dei suoi
abitanti. Era scritto in antichi libri che tale scala dovesse rimanere murata per mille anni.
Ebbene, figli miei – lasciate ch’io vi chiami così – i mille anni cadranno esattamente nel
decimosettimo giorno dopo il Carnevale, il terzo venerdì della Quaresima dell’anno prossimo. Solo
per due giorni sarà possibile visitare quei luoghi reconditi, un tempo riservati ai misteri degli adepti
di Cibele. È forse l’occasione unica, irripetibile della vostra vita. Preparatevi dunque, e coglietela,
se la vostra natura di uomini vi spinge a cotale impresa”.
I due non hanno bisogno d’altro stimolo per la loro curiosità ormai sfrenata. Non si chiedono
neppure a che cosa possano andare incontro, ma da quella notte in poi dedicano il loro tempo a
studiare il modo di penetrare nella scala segreta. Non è facile individuare il pilastro col simulacro di
Attis, per cercarvi una scala che penetrasse nelle viscere della terra.
Benché sperino di vedere il pavimento aprirsi miracolosamente sotto i loro piedi, rimangono
comunque sorpresi un venerdì, quando, presso un pilastro, scoprono che il pavimento si è aperto,
lasciando un varco largo poco meno d’un braccio. Nel pertugio, tra i mattoni, si scorge un grosso
blocco di marmo incorporato nel pilastro. Alla luce d’una candela, il blocco di marmo si rivela
scolpito ed appare il volto d’un giovane imberbe, pensieroso, come descritto da Bernardino.
I due sono combattuti tra mille tentazioni: entrare nel varco, rinunciare, avvisare altri che li possano aiutare... ma se poi li denunciassero? Come potrebbero spiegare perché si trovano lì in quel
preciso momento? Ottavio penetra ad esplorare la cavità, mentre Cecchino rimane in un angolo
della chiesa a “fare il palo”. Porta con sé un acciarino e un mazzetto di candele. S’infiltra a fatica in
quel varco del pilastro e, alla luce della candela, vede di fronte a sé il volto spettrale d’un giovane,
scolpito nel marmo, dallo strano copricapo. Sembra che voglia comunicargli qualcosa, ma che ne
sia impedito da un’immobilità paralizzante. Sembra persino, al chiarore tremolante della candela,
che accenni a muovere le labbra e il volto. Il ragazzo, con un brivido, e si cala nello stretto cunicolo,
al di sotto del pavimento della chiesa. Si tratta d’una galleria costruita in mattoni e poco più larga
d’un braccio. Il giovane capisce che gli conviene muoversi come un serpente e fare presa con in
fianchi e con i piedi, alternativamente, sui due lati del percorso. La cosa si fa più complicata quando
il cunicolo scende in maniera sensibile: è più facile procedere, ma Ottavio si chiede con angoscia
come farà a ritornare.
Scende, non sa quanto, e si trova nell’acqua corrente, che penetra attraverso le pareti di mattoni e
gli fluisce intorno. Cerca di proteggere l’acciarino e l’esca, senza i quali non potrebbe vedere niente
di ciò che l’antro gli riserva. Finalmente, a tastoni, riconosce che lo spazio si apre e che può
appoggiare i piedi su un fondo, per rimanere quasi eretto. Accende una candela e vede che si trova
in una camera dalle pareti e la volta di mattoni, totalmente prive di ornamenti. Il pavimento è coperto di resti d’animali, forse bovini, vittime d’antichi sacrifici. Al centro, su un rozzo altare sul
quale si condensa uno spesso strato di viscida umidità, sono depositate alcune tavole scolpite, incise
con strani segni. Nel chiarore delle candele, Ottavio cerca d’annotarsi ciò che gli pare di comprendere dei disegni e dei geroglifici di quelle tavole, su un quadernetto che si è portato addosso.
Ritorna infine in superficie. Deve arrampicarsi su per lo stretto cunicolo fangoso, sforzando coi
gomiti contro le pareti. La camera sotterranea si trova a poco più di dieci braccia di profondità, ma
il percorso è lungo almeno trenta braccia e ripercorrerlo in salita costa al giovane parecchia fatica.
Cecchino esulta di gioia, quando vede riapparire dal pilastro la testa del giovane, grondante acqua e sudore. Poi emerge l’intera figura di Ottavio, più sporco di un minatore, con i vestiti incredibilmente inzuppati di sangue, come se un toro fosse stato sgozzato sopra di lui. Devono allontanarsi
di soppiatto, come se avessero commesso qualche crimine orrendo, per non farsi notare dai fedeli o
da qualche passante occasionale, e corrono a ripulirsi nel misero alloggio.
La fine di Cecchino
Esplode finalmente la primavera, anche in questa terra di nebbie. Rovi ed ortiche ricoprono di
spine e di nuove foglie verdi le parti abbandonate delle collinette che si affacciano ai bastioni
orientali della città e mascherano le tane delle volpi e dei conigli, ma anche ogni traccia di accesso
ai segreti sotterranei di epoche passate.
La salute di Cecchino peggiora. Una tosse violenta lo scuote e le sue notti sono tormentate da
frequenti risvegli. Incontra sempre maggiori difficoltà a respirare. Nelle notti febbricitanti, popolate
da incubi, vede roghi su roghi: bruciano indistintamente i documenti e le chiese degli Ariani, streghe e stregoni su roghi di fortuna, con tutte le loro biblioteche di grimori e di testi proibiti, gli atti
della Corte longobarda, gli archivi dei Càtari e quelli dei Templari. Secoli di storia passano nel
regno della dannazione perpetua. Cecchino sente nella gola e nel petto il bruciore di tanti roghi, di
tanto fumo, e si sveglia. Nessuna posizione riesce a tranquillizzarlo per più di una mezz’ora, e si risveglia madido di sudore, col bisogno di bere. La mattina è sempre più stanco di quando si è messo
a letto. Ottavio va spesso a rendergli visita. La sola compagnia del giovane sembra alleviare un
poco le sofferenze dell’uomo. È stato il solo amico dei suoi ultimi anni e lo considera ormai come
un figlio, o piuttosto come un fratello più giovane, col quale ha percorso molte strade.
Le sofferenze di Cecchino durano a lungo. Trascorre una terribile estate, afosa e umida. La tosse
ormai quasi continua e le convulsioni notturne l’hanno ridotto ad una larva. Inizia il mese di
settembre, l’aria si rinfresca e, dopo una forte pioggia, vi sono alcune giornate di sole radioso.
Cecchino trascorre finalmente una giornata tranquilla, ripensando a tutti gli strani eventi che, con la
memoria ormai provata per la malattia, non sa ricordare se siano stati realmente vissuti o solo incubi
d’una mente febbricitante. Le visite d’Ottavio si fanno più frequenti, perché dall’aspetto del vecchio
amico si rende conto della gravità del momento. Un giorno, seduto vicino al capezzale del vecchio,
rompe la consegna di silenzio che insieme si sono data e insieme ricordano gli incontri con Bernardino e le scoperte incredibili che hanno avuto modo di compiere. Se erano stati sogni, li avevano
percorsi entrambi nello stesso modo. Cecchino si spense nella notte. Gli pare che ancora una volta
Layla “el aziza” gli appaia, con gli occhi che sembrano fanali gialli, come quelli d’un gatto – o
d’una volpe – nel buio. Il demone della notte lo prende per mano, nel più totale silenzio, e lo con-
duce verso quelle porte che gli aveva già fatto attraversare, per prendere contatto col fantasma dello
zio. Questa volta, però, per Cecchino non c’è ritorno. Il suo giovane amico Ottavio non saprà
trattenere le lacrime, al momento di calarlo nella terra.
14 – NELLE PALUDI DEL SIGMÀR
Notte di luna piena. Dal cielo limpido, sembra che tutte le stelle vogliano assistere. Il terreno va
coprendosi d’una crosta di gelo, sopra i resti delle scarse nevicate. La veggente brasiliana, Josina
Maria do Carmo Guimarães, abita a circa sei chilometri da Pavia, in una cascina che era un antico
monastero, dall’aria tetra, che si affaccia dall’alto sulla valle del Ticino. Corre voce che in certe
notti, quando la luna è piena ed il cielo sereno, mille fuochi si muovano intorno ai muri dell’edificio
come in una danza macabra e una palla di fuoco rutilante esca da una finestra del monastero. Sul
davanzale si vedono le bruciature. La palla rotea nell’aria della notte, terrorizza i contadini e penetra
in un vallone. Qui la tradizione racconta che due guerrieri longobardi si siano affrontati in duello,
molti secoli fa. In un sotterraneo, in una camera segreta di quel monastero, deve trovarsi una chiave
fondamentale per l’interpretazione dei destini della città di Pavia. Viviana ha l’appuntamento con
Josina per le sette di sera, col buio fitto. Lungo la strada, ammira il paesaggio d’argento illuminato
dalla luna e pensa che è una notte adatta agli incantesimi. Josina è una donna minuta dalla pelle
scura, dall’età indefinibile. Dopo aver bevuto un caffé denso e nerastro, si fa raccontare nei dettagli
da Viviana i fatti inspiegabili avvenuti negli ultimi mesi.
Il Cavagna era un misterioso prete del Trecento, forse un po’ pazzo, autore di pagine fitte di
misteri, per le quali Viviana sta cercando di trovare una spiegazione. Nelle sue pergamene, egli
parla della necessità di recarsi in due luoghi, per svelare i misteri maggiori della città di Pavia.
Quando esamina quelle antiche pergamene, Viviana si sente trasportata fuori del tempo, della
realtà concreta, e comincia a ragionare nel mondo dei sogni e delle fantasie. Le riappare prepotente,
di tanto in tanto, uno dei disegni del Cavagna che più l’aveva colpita: l’Europa trasformata nella
Grande Meretrice, col seno purulento eroso da una schifosa malattia e il sesso aperto, offerto alle
voglie del gran caprone. Il vecchio prete cercava di rimuovere l’ossessione, di carattere sessuale, ma
quell’immagine s’era fissata nella memoria e corrispondeva regolarmente ai luoghi del suo vissuto
giovanile. La Grande Meretrice, come la Grande Bestia, ossessionava i sogni del Cavagna.
Josina scruta col suo sguardo penetrante gli appunti che Viviana ha portato, per cercarvi
un’indicazione, una traccia utile al viaggio che la giovane chiede di percorrere: “Acho que você terá
que viajar muito, e demais por baixo da terra: credo che dovrai muoverti molto, e sottoterra”. La
veggente tace, immersa in profonda meditazione, gli occhi sbarrati che fissano il nulla. In quegli
occhi Viviana comincia a vedere il riflesso di strane ombre in movimento: ombre indistinte di
mondi lontani, evocati con la sola forza del pensiero. Trascorre un tempo che sembra interminabile.
Con voce roca, che non è la sua, la veggente chiede un bicchiere d’acqua. Beve, si alza dalla sedia
lentamente, gira diverse volte intorno al tavolo rotondo e a Viviana, intona una nenia lenta e
cadenzata, dalle parole incomprensibili. Viviana conta i giri: cinque, sette, nove...
Dopo il lungo girotondo, condotto con passo strascicato e accompagnato dalla stessa monotona
nenia, Josina apre un cassetto per trarne alcune penne di gallo nero, un gran vassoio di legno e
sassolini di vari colori. Rimescola con cura gli oggetti, li fa stringere in mano a Viviana e quindi li
lancia a più riprese sul piatto, osservandone la ricaduta e le forme in cui si compongono. Borbotta
tra sé e sé delle parole incomprensibili. Poi esce dalla stanza. Ritorna con alcuni candelieri e con
bracieri in cui ardono profumi, che dispone su mobili, in giro alla stanza. Spegne la luce elettrica. Il
fumo dei bracieri forma una cupola su tutta la stanza e scende lentamente sul tavolo, filtrando e
colorando la luce prodotta dalle candele.
Josina borbotta strane formule con le labbra socchiuse. La luce dei candelieri ha un rapido
cambiamento, una serie di vibrazioni. Si odono colpi, dapprima staccati e poi in sequenza. Viviana
pensa che ci sia qualcuno nella stanza accanto. Ben presto il rumore diviene assordante, come un
rullo di tamburi che riempie l’atmosfera e penetra nel cervello. La veggente rovescia la testa
all’indietro e comincia a scuotersi, singhiozzando o danzando, non si capisce bene. Le escono dalla
gola suoni inarticolati e gli occhi roteano in tutte le direzioni. Di colpo, ogni rumore cessa e la
fiamma delle candele riprende una luce stabile. Josina rimane con la testa rovesciata all’indietro.
Alcuni minuti – o forse pochi secondi – di silenzio totale, poi una voce, che non è la sua ma esce
dalla sua bocca, comincia a parlare.
Viviana intraprende con la voce una lunga conversazione. L’entità si presenta come lo spirito che
ossessiona la ragazza ed è in grado di ripetere diversi dettagli delle sue descrizioni, sui quali la
giovane non si era soffermata con Josina. Spiega che, a suo vedere, tutto quanto è accaduto negli
ultimi mesi deve essere concatenato e far parte di un unico disegno misterioso. La voce si spegne,
mentre il rullio dei tamburi prosegue in sottofondo e la veggente è scossa tutta da un fremito. Si alza
dalla sedia e comincia a danzare una sarabanda, seguendo il ritmo delle percussioni. Tutto il suo
corpo si scuote e un filo di bava le scende dall’angolo della bocca. Il rullio ha un crescendo e Josina
crolla esanime sul pavimento.
Nel silenzio, una voce esce dalla gola di Josina. Una voce maschile, che sembra venire dal
profondo, come gorgogliante nell’acqua. Viviana riconosce l’espressione d’un amico lontano, che
sta in Africa. Come se parlasse da una profondità abissale e avesse difficoltà a scandire le parole, è
di una lentezza esasperante, ma non ammette pause o domande. Parla a lungo, come se tenesse una
lezione. Racconta che legami di magia astrale si stabilirono, in tempi assai lontani, tra Pavia, allora
centro del Regno, e le diverse direzioni del mondo: oriente, meridione e occidente. Solo verso il
Nord non esisteva alcun canale di comunicazione.
Ora occorre che i canali magici vengano di nuovo collegati. La chiave sta proprio lì sotto, a
pochi metri di profondità. Occorre rileggere le carte, per trovare un indizio. “Se incontrerai dei
serpenti, non temere: essi indicano la mia presenza e la protezione della grande sirena che vive nelle
acque sacre. Abbi fede, puoi affrontarli e vincerli, ma non perdere altro tempo”.
La figura evocata scompare, le candele si spengono e Josina rimane a terra, come morta. Viviana
riesce a vincere lo spavento, corre a riaccendere la luce ed è obbligata a prendere una rapida
decisione. La brasiliana non dà segni di vita. Le parole dell’entità appena scomparsa risuonano
ancora nelle orecchie della ragazza: “cerca subito... non avrai altro tempo...”
Ritorniamo ad un lontano giorno del Trecento, quando il Cavagna parte da Pavia, lungo la strada
che, al di là dell’antico ponte quasi cadente, punta verso le colline. Attraversa i miasmi esalanti
dallo stagno dell’Acqua morta, detta anche Acqua negra. Uno sguardo indietro, verso la città irta di
torri che troneggia contro il cielo plumbeo. Le Basiliche dai tetti di rame sembrano aver assorbito
tutta l’umidità dell’autunno, il verderame delle loro coperture ricorda il muschio dei sottoboschi.
La strada prosegue su un arginello, in mezzo a terre strappate alle paludi. Quei territori sono stati
chiamati con voce longobarda Sigmàr, un nome che i chierici amavano latinizzare in Terra arsa. Il
significato è il medesimo: pantani prosciugati, vinti dal faticoso lavoro degli uomini grazie alle
conoscenze tecniche accumulate e tramandate per generazioni e grazie all’uso delle ruote ad acqua.
Nelle scorse settimane le acque del Ticino si sono gonfiate e le campagne sono state allagate, per
salvare la città e il suo vecchio ponte dalla furia della piena. È consuetudine, in simili casi, fare in
modo che l’eccesso di portata del fiume si sfoghi nei vasti territori del triangolo della sua
confluenza col Po, e per qualche giorno si ricostituiscono le antiche paludi che con tanta fatica sono
state messe a coltura dal secolare lavoro di monaci. Ai lati del cammino è tutta una distesa
acquitrinosa. L’acqua non ha più la forza della piena montante, ma ristagna o rifluisce lenta, in
mille vortici, tra i rami bassi delle piante. Il cielo si riflette plumbeo nelle pigre onde e negli
sciabordii causati da qualche animale acquatico che si tuffa: una lontra, o forse un ratto.
Il grigiore e l’umidità sembrano permeare tutto, penetrano nelle ossa. Dopo una svolta,
all’improvviso, anche la strada fangosa scompare, come inghiottita dalle acque. Il Cavagna sente
una stretta al cuore: bisogna continuare, a tutti i costi. L’ora già avanzata non permetterebbe di
ritornare sui propri passi. Si rimbocca le falde dell’abito ed avanza deciso. Esausto, il giovane cade
due volte nell’acqua. È fradicio, ma riparte con la forza della disperazione. Comincia a dubitare
persino d’andare nella direzione giusta, perso nella grande palude, tra i rami neri degli arbusti che si
contorcono in forme strane, quasi a volerlo ghermire. La luce va diminuendo sensibilmente.
Procede lentamente, infreddolito, tra le nebbie che si levano. I vapori si srotolano come fasce di
lebbrosi, fanno intuire gli antichi fantasmi del tempo, della putrefazione, evocano antiche angosce,
radicate profondamente nel cuore degli uomini sin dalla notte dei tempi. Ogni più lieve rumore,
ogni ombra, sembrano nemici dell’uomo e della vita che, nonostante tutto, continua nella palude,
nel buio, in mezzo alle acque. L’acqua e la putrefazione sono vita, ma sembrano la più terribile
delle minacce. Il Cavagna sente pesare, come un lugubre presagio, il timore di non riuscire a
vincere l’immensità della palude. Stormi di pipistrelli che volteggiano sulle acque per saziarsi degli
insetti della sera non fanno che accrescere la sensazione d’incubo.
Il suono d’una campanella, riflesso dall’acqua, annuncia l’ora dell’Ave Maria dal convento non
lontano. Le fa prontamente eco un coro di latrati, che si amplificano, riflessi dalle acque, e che
fanno volar via tutt’intorno gli uccelli palustri, nel raggio di qualche miglio.
Diversi racconti parlano d’entità soprannaturali, buone o malvagie, che si aggirano per le acque
del Sigmàr nelle notti buie, tra i miasmi che esalano dalla putrefazione vegetale e dalla corruzione
d’innumerevoli carogne di animali, rimasti intrappolati nelle paludi senza scampo. Un’antica
leggenda descrive l’animale più terribile di quelle paludi come un enorme gallo nero, che si
aggirava intorno alle case nel buio delle notti senza luna per portarsi via i bambini imprudenti o
troppo capricciosi. Così i figli dei contadini, che non temevano né bisce né serpenti e che raramente
avrebbero potuto incontrare un lupo, a meno di addentrarsi nel folto dei boschi, avevano tuttavia un
sacro terrore del gallo nero che poteva aggirarsi per le campagne in qualsiasi momento dopo il
tramonto.
Il Cavagna arriva ad un passaggio sotterraneo, unica via d’accesso alla parte segreta del
monastero, che una serie di cedimenti hanno reso impraticabile. Ai suoi occhi, che vanno
abituandosi all’oscurità, appaiono sette nicchie coperte da strani simboli. Gli sembrano antichissimi
simboli di magia: riconosce una civetta, uno strumento astronomico simile a certe navette di bronzo
usate dai naviganti per fare il punto, una sirena a due code, una figura barbuta con due volti, né
uomo né donna. Con precauzione e con un po’ di ribrezzo, si mette a frugare tra le ragnatele e la
muffa.
Sei mummie stanno nelle nicchie, mentre la settima appare vuota. La settima mummia è stata
forse rubata e trasportata altrove. I sette sono personaggi antichissimi, forse i sette mitici re posti
alle origini della città di Pavia, antenati di tutti gli abitanti della zona. La loro esistenza si perde
nella notte dei tempi. Il Cavagna rimane in quel sotterraneo due giorni e due notti, senza alcuna
nozione dello scorrere del tempo, prima di trovare una via d’uscita. Infine, attraverso un cunicolo
sotterraneo, riesce a risalire al monastero di Santa Maria, che s’affaccia al ciglio della valle. Lì – da
tempo immemorabile – gli antichi praticavano riti di sacrifici umani e poi, all’epoca dei
pellegrinaggi, i poveri fratelli conversi del Tempio stabilirono un posto d’osservazione.
Nel leggere quelle righe, Viviana ha un’illuminazione, un sobbalzo: la via indicata risale proprio
in quella cascina, forse in quella stessa stanza.
Josina giace ancora sul pavimento, esanime. Viviana sposta freneticamente i mobili addossati
alle pareti. Ci sono ragnatele e sporcizia dappertutto, l’intonaco delle parti basse dei muri si
screpola in larghe chiazze di salnitro. Finalmente, dopo avere sconvolto tutta la stanza, si accorge
che in un angolo non il muro è dipinto di una vecchia mano di calce, ma una specie di sportello di
legno, che dà segno di non essere stato rimosso da tantissimo tempo. Con gran fatica riesce a
spostarlo e ad aprire una fessura, dalla quale emana un acre sentore di muffa. In quel momento
Josina si ridesta. Messa al corrente di quanto è avvenuto dal momento della sua transe in poi, la
veggente non ha esitazioni. Afferma che tocca a Viviana, da sola, scendere per affrontare il mistero.
Le cose si sono messe in modo tale, quella sera, da indicare un più che probabile successo. Lei
cercherà d’aiutarla restando lì, per frenare le forze maligne che volessero ostacolare l’impresa.
La veggente fa indossare a Viviana una specie di tuta, che le consenta di non sporcarsi troppo, e
le mette a tracolla uno zainetto con poche cose: un po’ di carta, una penna, e per precauzione (ma a
che cosa potrebbero servire?) anche una boccetta di profumo e dei cerotti, poi la ragazza s’introduce
a fatica nello stretto e sporco cunicolo. Dopo pochi passi, si rende conto che la luce della stanza non
le può essere d’alcun aiuto. Per fortuna ha con sé anche una torcia elettrica, altrimenti nell’umidità
del sottosuolo le speranze di avanzare sarebbero molto poche. Raccoglie tutto il suo coraggio, fa un
ultimo cenno di saluto a Josina e prosegue. Buio, oscurità. Poi una fila di ripidi gradini, consunti dal
tempo, scende viscida e stretta nel buio fitto. Si fa coraggio e prosegue. Avanza con cautela
appoggiandosi alle pareti con le mani, per non ruzzolare e non battere la testa. Si sente addosso la
terra, che s’incolla alle mani, alla tuta, ai capelli. La discesa sembra non finire mai. Il piede destro
affonda dolcemente in una specie di fango, o muschio morbido, e Viviana si rende conto che inizia
a camminare in piano. L’umidità è fastidiosissima, come l’odor di muffa. Le mani, il naso e le
sopracciglia si impigliano in ragnatele, che sembrano esser lì da un’eternità. Di tanto in tanto, una
delle mani perde il contatto con la parete di terra, che gronda umidità e salnitro. Corridoi si aprono a
destra e a sinistra. Vede cardini e resti di vecchie porte, anelli per catene ancora assicurati ai muri, e
ancora gradini, che scendono o che salgono. Non si rende più conto in che direzione stia andando, a
che profondità possa essere. Attraversa un rigagnolo d’acqua piuttosto rapido, con un letto di
mattoni e di pietre. Forse uno dei canali d’età romana. Certamente quella rete di passaggi sotterranei
si estendeva un tempo sino alla città. Gli assedi e le vicende politiche avevano consigliato da tempo
i pavesi a garantirsi vie di comunicazione e di salvezza al di fuori da sguardi indiscreti.
Viviana è stretta dall’angoscia di potersi perdere. Rallenta il passo, tasta attentamente i muri
laterali ed il terreno davanti a sé, esplora col braccio alzato l’altezza della volta, per non battere la
testa o ricevere qualche cosa negli occhi. Quando meno se l’aspetta, le sembra d’intravedere un
lontano chiarore. Dopo un buon minuto di adattamento, lo sguardo le permette di utilizzare quel
poco di luce che penetra per rendersi conto di dove sia. È un pozzo rotondo, profondo sì e no cinque
metri. Circa a metà altezza del pozzo, un passaggio dà accesso a dei gradini che salgono
probabilmente sino in superficie. La debole luce filtra da un tavolato d’assi che chiudono la bocca
del pozzo. Con gran fatica, approfittando delle irregolarità della parete e di qualche chiodo che vi è
rimasto infisso, riesce ad issarsi sino ad aggrapparsi ai gradini dell’apertura laterale. Entra così nella
sala delle sette nicchie. Uno strano effetto di luce, dovuto al riflesso della luna piena, penetra da
qualche parte e trae mille bagliori dall’umidità che cola sulle pareti dell’antro. Sul muro di fondo si
allineano sette piccole arcate, come il Cavagna le aveva descritte, sei secoli prima: sei sono
occupate da forme fasciate, dal vago aspetto umano, poste in piedi e agganciate al muro di fondo.
La settima nicchia è vuota. La muffa e le ragnatele coprono tutto. Con un poco di ribrezzo, Viviana
si accinge a frugare le mummie per cercare eventuali documenti. L’umidità ha decomposto le
mummie e le bende sono ricoperte di muffe e d’incrostazioni dall’aspetto indefinibile. Le sembra di
cogliere su quei vecchi corpi rinsecchiti un brulichio d’insetti, di vermi e d’altri piccoli animali.
Due o tre pipistrelli, svegliati dal loro letargo, accennano qualche movimento. Il fruscio e i lievi
squittii soffocati accrescono il disagio di Viviana e le fanno scendere un brivido giù per la schiena.
Le prime due mummie non hanno nulla tra le mani. Sarà stato il Cavagna o qualcun altro, ma se
recavano qualche messaggio è stato asportato da molto tempo. Nessuna collana, nessun amuleto o
altro segno di riconoscimento. La terza mummia da sinistra è quella indicata dal Cavagna. Il teschio
è rotolato via e al suo posto, ora, è acciambellata una biscia in letargo. Sul petto, la mummia reca un
sigillo con l’immagine misteriosa del leone a sei zampe, coronato. I piedi e il volto del leone
sembrano quelli di un uomo e un gran paio di ali completa l’immagine mostruosa della Bestia. Tra
le mani ossute, pare a Viviana di scorgere un rotolo di pergamena. La quarta e la quinta mummia
recano nelle loro mani una scodella di legno, putrefatta e corrosa dai secoli, ed una coppa di vetro,
della medesima forma della scodella. La sesta ha le mani vuote ed è in un tale stato di
decomposizione da confondersi con la terra della parete. Viviana s’accosta lentamente alla terza
mummia, con la sensazione che occhi maligni la stiano spiando, dalle pareti umide coperte di
vegetazione putrefatta. Teme che la biscia le voglia saltare addosso, nonostante la stagione del
letargo.
Giunta al limite della pazienza, strappa con un rapido gesto il rotolo dalle mani dello scheletro e
si lancia sulla via del ritorno. Emerge nella stanza della veggente, col rotolo stretto tra le mani.
Josina l’attendeva tra il fumo degli incensi e l’accoglie senza pronunciare una parola, l’aiuta a
ripulirsi e le offre una bevanda calda. Quando la ragazza è in grado di parlare, le lascia raccontare la
sua avventura e osserva con calma il rotolo. Solo allora apre bocca:
“Chega por esta noite, a hora não dá mais. Basta per stanotte, l’ora non è più propizia. Conserva
con cura il tuo rotolo e ritorna qui esattamente tra quindici sere, con la luna calante. Lo leggeremo
insieme”.
In quel momento, nel cuore dell’Africa, vicino alla palude degli elefanti, giace un uomo che
sembra privo di vita. Un’ora prima è stato assalito da convulsioni febbrili e ha cominciato a
scuotersi, come fosse stato avvelenato. Gli occhi sbarrati all’indietro, si è quasi lanciato nel fuoco
che arde tra le capanne. A stento tre uomini sono riusciti a trattenerlo. Poi l’uomo si è accasciato e
ha pronunciato strane parole in una lingua che i presenti non capiscono, come in un lungo colloquio
con una presenza invisibile. Nella transe, è parso che l’uomo si assentasse per un viaggio e che
spendesse molte delle sue energie, tanto da rimanerne stremato. Ha visto da vicino la nera Donna
del Mistero, è arrivato sin quasi a toccarla. Si è sentito preso da una gran pace e da una grande
sicurezza. Per un attimo gli è sembrato di aver capito tutto. Tutto: “che cosa”? “Tutto” non si può
dire, si può solo capire, cogliere in un attimo. Ma quell’attimo gli è sfuggito. Mentre sta per toccare
la Donna del Mistero, questa gli sorride e gli mormora soavemente: “No, non è ancora il momento”.
La vede allontanarsi rapidamente, mentre un brivido fortissimo gli fa vibrare la schiena e un
vortice nero lo risucchia, al di là d’ogni bene e d’ogni male.
Colui che custodisce la saggezza della tribù ora gli si avvicina, gli rovescia le palpebre, gli pone
alcune erbe sotto il naso e fa un cenno ai tamburi, perché tacciano: “Il nostro amico bianco ha vinto
la prova ed è tornato a noi. Lasciamolo riposare”.
Le fiamme vanno spegnendosi. Un giovane pitone passa lentamente sopra il corpo dell’uomo
esanime, come volesse accarezzarlo, e gli rimane vicino a proteggerlo. Ora il suo sonno è tranquillo,
gli pare d’andare mano nella mano con Viviana, attraverso tunnel sotterranei che d’un tratto si
riempiono di luce e di fiori. Le gallerie vanno a sboccare su una spiaggia assolata, lambita dalle
onde dell’Oceano. Le palme, i baobab, i cespugli. La terra rossa, al di là della sabbia, si rompe in
mille canali percorsi dalle acque fresche di qualche sorgente. Corrono insieme sulla sabbia umida,
tra i granchi e le alghe depositate dalla risacca. Un volto, misterioso e potente, lo ossessionerà però,
da stanotte, per tutta la vita. Sa di conoscere quel volto, sa che un giorno la ritroverà, ma non sa né
dove né quando. Non sarà lui a scegliere il momento.
Ora non ci sono più mostri, né prove da affrontare. L’uomo ha la certezza che la grande prova sia
stata superata.
15 – LA MOSCA
Luglio 1974 – Il seme
Un globo di luce, come i fuochi greci d’una volta… poco prima di mezzanotte, con un sibilo
soffocato, un lampo attraversò il cielo del quartiere Vallone. Sembrava un fuoco d’artificio partito
male. Qualcuno era fuori casa, oppure sui balconi, a cercare un po’ di refrigerio dalla calura estiva.
Chi alzò gli occhi vide una cascata di luminarie. La luce principale si avvicinò, s’ingrandì,
scomparve dietro un palazzo, come se fosse caduta qualche chilometro più ad est. Un giovane e
solerte agente municipale balzò in auto e corse a vedere. Uscì dall’abitato e si allontanò tra i campi.
Arrivò alla cascina Maestà. Sembrava tutto buio quando all’improvviso, proprio dietro la stalla
abbandonata, rimase abbagliato da una vivida luce e vide una specie di grande zuccotto arancione,
che con un lampo s’innalzava nel cielo. Il giovane rimase per un attimo attonito, poi ritornò in città
a precipizio, ad avvertire i Carabinieri. Il campo dietro la cascina puzzava di bruciato. Le spighe di
grano erano abbrustolite in tre lunghe strisce, che si diramavano da una chiazza centrale verso i
vertici d’un triangolo equilatero, e fumavano ancora.
Questo accadeva nella città di Pavia, nell’estate del 1974. Dalle cronache dei giornali sappiamo
che i Carabinieri, la mattina dopo, fecero radere l’erba ed arare il campo del misterioso atterraggio:
segno che qualcosa di strano c’era, in quelle bruciature. Per qualche mese, tutti a Pavia parlarono
dell’UFO del quartiere Vallone. Ho conservato per anni i ritagli dei giornali relativi a quegli eventi.
Durante quell’estate si registrarono diversi avvistamenti d’oggetti volanti, sulle colline dell’Oltrepò:
“si vedevano le luci”… ma quella, si sa, è terra di vino e d’assenzio… Questo invece – a quanto
pare – fu l’unico evento che interessasse direttamente la città. Mancò veramente poco perché non
fosse un contatto diretto, di quelli che si chiamano “di terzo tipo”. Se ne parlò per tutta l’estate,
molti continuarono a guardare con attenzione il cielo. Il giovane agente municipale rimase a lungo
al centro dell’attenzione dei giornalisti e delle chiacchiere nei bar. In seguito, gli amici
cominciarono a burlarsi di lui, come d’un visionario. Certo è che a Pavia non si sono più ripetuti
eventi tanto importanti.
1988–1989 – Il virus
Erano passati molti anni dall’atterraggio dell’UFO presso la cascina Maestà. Quattordici anni,
per la precisione. Nell’ombelico della città, la millenaria Torre Civica si ergeva ancora maestosa al
fianco del Duomo, a ricordare l’antica grandezza del libero Comune. La sua altezza era stata
superata da quella della gigantesca cupola, progettata nel Cinquecento ma voluta e realizzata solo
dopo la metà dell’Ottocento. Un giorno, proprio durante l’ora del passeggio, la vecchia torre diede
qualche segno di stanchezza: frammenti di pietra e di mattoni caddero dal loggiato superiore, da una
quarantina di metri d’altezza.
Qualcosa stava lavorando, nelle viscere della torre. Lunghe crepe serpentine andavano
formandosi, nella sua materia. Ramificazioni che somigliavano al percorso d’un fulmine nell’aria
elettrizzata. Era come se un essere estraneo, un virus parassita, stesse prendendo possesso del corpo
millenario. Il segnale d’allarme, purtroppo, non fu raccolto. Circa un anno dopo la caduta dei
frammenti, in una mattina di febbraio, il diffondersi dell’infezione provocò il collasso dell’intera
torre. Un boato di tuono, una nuvola rossa coprì il cielo cittadino. Quattro persone rimasero uccise
sotto le macerie del monumento caduto. Anche il Duomo fu scosso, leggermente sbocconcellato
nella facciata, danneggiato nei resti dell’antica Cattedrale di Santo Stefano, che s’incastravano
ancora sull’angolo nordovest, proprio dietro la torre… Così lo stesso Duomo è rimasto infettato dal
misterioso virus.
Le cause del collasso della torre sono tutte da accertare. Si aprì un’inchiesta che durò anni e non
risolse tutti i dubbi. La colpa principale fu attribuita ai costruttori medievali, che facevano torri
capaci di durare “soltanto” un migliaio d’anni… come se un qualsiasi condominio, di quelli
costruiti oggi, fosse capace di vivere… non dico la metà, ma neppure la quarta parte di quel lasso di
tempo!
Nessuno, nella ridda dei tecnici delle costruzioni che si affollò a monitorare, diagnosticare,
suggerire cure, notò un piccolo passaggio, una sorta di cunicolo che si apriva dietro un orifizio,
simile al covo d’un formicaleone, nelle murature superstiti del Duomo vecchio, proprio in
adiacenza alla Torre. Dietro una fitta ragnatela, un attento indagatore avrebbe potuto trovare un
flaccido uovo giallastro, privo di guscio, bisognoso di protezione, deposto dall’essere che per
quindici anni aveva preso alloggio nella Torre e s’era nutrito delle residue energie vitali dell’antica
città.
2001 – La cupola
L’accesso del pubblico al Duomo di Pavia era vietato da anni. Ufficialmente, si dichiarava che
erano in corso importanti lavori di consolidamento della cupola e dei suoi sostegni. In realtà, come
si usa per certi malati terminali, le prognosi erano sempre vaghe e a mezza bocca: nessuno sapeva
veramente se, quando né come la Cattedrale potesse essere riaperta. Nel frattempo la Fabbrica del
Duomo era divenuta – insieme ai progetti del nuovo Ospedale – la principale fonte di finanziamenti
a lavori pubblici… ragione per cui si sarebbe potuta prevedere una durata pressoché infinita dei
cantieri in corso.
In verità, la cupola stessa era nata male e si era rotta in due subito dopo la costruzione: chi non
ha visto quella gran lesione che la percorre dal basso in alto, verso sudest? Così, già alla fine
dell’Ottocento si era dovuto chiudere il Duomo, per ben sette anni.
La nuova chiusura fu programmata per almeno un decennio. Cominciarono a scavare, per
riempire molte delle cripte segrete che percorrevano il sottosuolo dell’antico santuario (un tempo
dedicato al culto di Cibele, severa Madre divina). Su grandi massicci di fondazione, come stampelle
colossali, furono eretti piloni metallici per reggere il guscio della cupola infranta. I vecchi pilastri
dovevano essere curati, ad uno ad uno, con piastrine al titanio e malte speciali, con un’attenta opera
degna più d’un dentista che d’un costruttore. Infine… si sperava che – un giorno o l’altro – tutto
questo lavoro potesse rendere il Duomo rinnovato alla città.
Ottobre 2004 – La nascita
Cominciò ad aprirsi una crepa nel guscio della cupola: una fessura serpeggiante, dapprima sottile
e crepitante, che procedeva e si allargava dal basso verso l’alto. Brandelli di muratura si
distaccarono e caddero, ma le due parti del guscio rimasero quasi intatte, mentre si aprivano come le
valve di un’enorme conchiglia… tra le quali affondava la lanterna sommitale, mentre compariva,
come una crisalide, un’enorme massa filamentosa avvolta da muco giallastro.
Le due parti del guscio si sfaldarono e rovinarono sui tetti delle case circostanti, mentre ai raggi
del sole il neonato essere dispiegava le ali per asciugarle. Era un enorme moscone grigio, di
proporzioni tali che un suo solo occhio aveva le dimensioni del cupolino che copriva la lanterna.
Il gigantesco insetto volse un ampio sguardo sulla “sua” città, provò il primo battito d’ali e
spiccò il volo. Un soffio di vento scosse i tetti, poi un’intensa vibrazione, cento volte superiore al
motore d’un elicottero, fece volare via le tegole e abbatté le antenne. Le torri furono scosse, l’ombra
della mosca passò rapida sopra il centro di Pavia. Era come se si realizzasse finalmente un oscuro
presagio, atteso e covato da oltre trent’anni.
Era mezzogiorno, ma il cielo s’intorbidò come se una spessa coltre di polvere ammorbasse l’aria.
Quella notte, il latte e la panna s’inacidirono, anche se erano conservati nei frigoriferi. Non si videro
più voli d’uccelli sopra la città e dappertutto aleggiava uno strano fetore, come da un deposito di
carogne, o come se nei campi avessero sparso una doppia dose di prodotti diserbanti. Nessuno
sapeva dove avesse preso dimora il mostruoso insetto, nessuno lo vide più per lungo tempo. Gli
animali domestici, però, scomparivano e non venivano più ritrovati. Gatti, cani, tutto ciò che non
era chiuso in gabbia. I canarini non cantavano più e deperivano a vista d’occhio, colti da
inspiegabili angosce. Persino i ratti e gli scarafaggi avevano disertato le cantine ed i cunicoli
fognari. Giungevano le prime nebbie autunnali. L’aria non era più limpida: era come insozzata da
una nebbia giallastra, un fetido aerosol, goccioline nebulizzate d’uno strano liquame. Si viveva con
l’oppressione di non respirare liberamente e nulla rimaneva candido per più di qualche ora: né i
panni stesi, né le pagine dei libri o i fogli dei quaderni di scuola. Un diffuso odore oleoso e irritante
pervadeva l’atmosfera. Era come se fossero ritornati i giorni del grande sviluppo industriale, quando
acidi nebulizzati e polveri di fonderia inquinavano l’aria in modo permanente.
2005 – Le elezioni del Sindaco
Questo è un anno di campagna elettorale. All’interno degli opposti schieramenti divampa la lotta
per le candidature eccellenti. Trattative segrete s’intessono, tra le segreterie di partito ed i circoli più
esclusivi della città: “quelli che contano” fanno i loro giochi. Non è certo un mistero, ed ogni
mattina, al bar, i curiosi sfogliano il giornale alla ricerca di novità.
Il giorno prima della chiusura delle liste, avviene un inatteso colpo di scena: dallo schieramento
favorito emerge un candidato sindaco “outsider”, un noto professionista che non riscuote grandi
simpatie nell’opinione pubblica, ma ben gradito ai cosiddetti “poteri forti” della città. Il colpo è
duro, tanto per gli avversari come per gli stessi alleati, che rimangono spiazzati. Il candidato già
designato, “sicuro” sino al giorno prima, si ritira sull’Aventino, cercando di mostrarsi indifferente,
ma in realtà giura odio eterno agli autori del ribaltone. Il segretario di un partito dello schieramento
rassegna le proprie dimissioni, mentre altri, più tattici e opportunisti, si adattano prontamente alla
nuova situazione.
La campagna elettorale si svolge così in un disordine apparentemente totale. Tutti i giochi
appaiono possibili, tutti i pronostici sembrano ribaltarsi. Alla fine il candidato outsider, espresso in
extremis dalla lista favorita, riesce a vincere per pochissimi voti. Non faremo il suo nome, per
motivi di riservatezza; lo chiameremo – come tutta la città lo ha soprannominato – “la Mosca”. Il
soprannome deriva dal suo aspetto, sempre un po’ sudicio, e dal suo modo di fare, spesso insistente,
fastidioso per gli interlocutori.
Ora tutti si chiedono: la Mosca sarà l’Antisindaco, colui che ribalterà i modi di vita ormai
consolidati della città di Pavia, o la spunterà l’eterno genius loci, che ha fatto della sonnolenta
cittadina padana il “ventre molle” di tutto l’emisfero boreale, il luogo in cui nulla cambia e nulla di
buono si crea, in nome della leggendaria “maledizione di San Siro”, pronunciata dal primo vescovo
e radicata nei destini della città? Una leggenda di cui tutti parlano, a Pavia, ma che nessuno ha il
coraggio di raccontare…
Dopo aver ripercorso le vicende degli ultimi trent’anni, per cercare di riallacciare un filo di
continuità, dobbiamo porci un’altra questione, che potrebbe comportare gravi conseguenze: quali
sono i rapporti della Mosca col gran moscone grigio, l’essere spaventoso nato dall’uovo spaziale,
che si è rintanato da qualche parte, tra i miasmi delle risaie o nel sottosuolo di Pavia?
Riti misteriosi
Il nuovo sindaco si è circondato di strani collaboratori. Tre uomini con gli occhiali scuri lo
seguono costantemente, in ogni spostamento, e il suo consulente principale è un uomo misterioso,
dalla pelle color del bronzo ed il naso affilato, che si dice originario dell’isola di Haiti. Molti
sussurrano – quando sono sicuri che nessun estraneo possa ascoltarli – che il sindaco ed il suo
consulente pratichino i riti d’una misteriosa setta segreta. Si mormora di evocazioni di fantasmi, di
cerimonie notturne con marce sui carboni ardenti, di misteriosi malefici. Qualcuno è pronto a
giurare che sui mercati della zona non si trovino più galletti neri, perché i due li avrebbero requisiti
per le loro cerimonie. Quanto ai gatti neri, sappiamo già che sono fuggiti tutti, nel momento della
nascita del gran moscone. Una parte dell’opposizione finisce per cercare rimedio al malessere della
città con gli stessi metodi attribuiti a colui che tutti ormai definiscono con un termine di sapore
apocalittico: “l’Antisindaco”.
Moira è una giovane donna dai lunghi capelli lisci e neri, impegnata in politica sin dai tempi
dell’adolescenza. È stata assessore nel suo paese di nascita, prima di trasferirsi in città. È diventata
assessore anche qui, nel capoluogo, per un breve periodo, prima dell’elezione della Mosca. La
ragazza ha indubbiamente amicizie che contano e sa bene come giocarle. Moira ha una formazione
razionalista e scettica, tuttavia si lascia convincere dalle amiche a partecipare ad una sessione
evocativa a casa di Josina, una veggente brasiliana che vive in un quartiere popolare. In una cupa
serata di fitta nebbia, due amiche hanno fissato a Moira un appuntamento, alla periferia ovest, a
ridosso della tangenziale. Qui conosce la veggente brasiliana, una donna minuta, dall’età
indefinibile.
Dopo le presentazioni e le solite chiacchiere di circostanza, Josina chiede alle amiche di lasciarla
sola con Moira. Apre un cassetto per prendere un gran vassoio di legno e sassolini colorati. Da un
sacchetto di velluto, estrae alcune penne di gallina nera. Rimescola con cura gli oggetti, li fa
stringere per alcuni secondi a Moira (nella mano sinistra) e quindi li getta a più riprese sul piatto,
osservando le forme in cui si compongono ad ogni lancio. Sussurra parole incomprensibili, poi
accende alcuni candelieri e due bracieri, in cui ardono profumi. Spegne la luce elettrica. Il fumo dei
bracieri filtra il chiarore delle candele. Si odono alcuni colpi, forti e nitidi, dapprima staccati e poi
in sequenza. Ben presto il rumore diviene come un rullo di tamburi, riempie l’atmosfera e penetra
nel cervello. La veggente rovescia la testa all’indietro e comincia a scuotersi in convulsioni. Le
escono dalla gola suoni inarticolati e gli occhi roteano in tutte le direzioni. Di colpo, ogni rumore
cessa e la fiamma delle candele si stabilizza. Josina rimane con la testa rovesciata all’indietro.
Alcuni lunghi minuti – o forse brevissimi secondi – di silenzio totale, poi una voce, che non è la sua
ma esce dalla sua bocca, comincia a parlare a Moira, che si azzarda a formulare le domande che le
premono tanto. Il potere occulto della veggente costringe l’entità misteriosa a rivelarsi: è
l’inconscio d’un viaggiatore spaziale, arrivato trent’anni prima sui prati del quartiere Vallone.
Quello era stato l’inizio della sua missione, sviluppatasi con l’incubazione e la nascita del moscone
e con la presa di potere della Mosca, nelle vesti dell’Antisindaco. L’extraterrestre è rimasto sulla
Terra con un compito ben preciso: un disegno di dominio della città e di controllo della società
umana.
Il contatto con l’entità è reso difficile dalla diversità dei linguaggi. Il modo di ragionare
dell’essere alieno sfugge alla comprensione umana. Josina fa rientrare le altre due amiche e le
quattro donne elaborano un piano d’azione per sconfiggere la Mosca. È necessario che la natura
dell’alieno appaia di fronte a tutti, in modo tale da togliere ogni dubbio. Le quattro amiche sono
convinte che solo l’azione decisa d’una donna potrà smascherare la Mosca e rivelarne le false
sembianze umane.
Il finale
Il piano d’azione di Moira si deve attuare il 9 dicembre, nel giorno della festa di San Siro, il
patrono della città.
Le quattro ragazze introducono di nascosto in città quattro tacchini, aggirando lo stretto controllo
esercitato dal gran moscone e dai suoi scherani. Li portano con sé, nascosti sotto gli abiti, nel salone
d’onore del Comune, alla festa solenne che si celebra ogni anno, per attribuire le onorificenze ai
cittadini benemeriti. Qui liberano i tacchini da sotto le ampie gonne che hanno indossato. Grazie al
loro istinto innato, i pennuti riconoscono l’odore della Mosca e si lanciano all’assalto, tutti e quattro
insieme, inferociti. L’Antisindaco si scompone, perde ogni controllo. Dall’abito scuro spuntano le
ali e l’essere abbandona le sembianze umane per librarsi in volo, nel tentativo di sottrarsi all’assalto
dei tacchini. Il pubblico rimane sconvolto. Sono bastati quattro pennuti “fuori ordinanza” per
distruggere ogni illusione e smascherare una trama ordita, con pazienza e con astuzia, nell’arco di
trent’anni.
La Mosca si dirige impazzita contro la grande finestra della sala ed emette strilli acuti, che
riempiono le orecchie del pubblico. Il suo consigliere di fiducia e le guardie del corpo rimangono
perplessi sul comportamento da tenere. Si scambiano una rapida occhiata e decidono di non agire.
In quel momento il cielo s’oscura e un mostruoso battito d’ali sconvolge la città: è il moscone che
interviene direttamente, a salvare la propria creatura. Il pubblico fugge in maniera scomposta, ormai
la Mosca è smascherata: l’Antisindaco non esiste più. Il colossale insetto infrange la finestra del
Palazzo e prende la creatura sotto la propria protezione. I due mosconi sono simili da ogni punto di
vista, ora che l’ex Antisindaco ha abbandonato la maschera umana, e ronzano minacciosi verso la
folla che inveisce.
In quel momento, dal pubblico, un uomo in divisa estrae la propria arma d’ordinanza. Si tratta
dell’agente che trent’anni prima aveva assistito all’atterraggio dell’UFO. Al grido: “Io l’ho sempre
saputo!”, l’uomo protegge la folla e vuota contro i due mostruosi insetti l’intero caricatore della
propria pistola. Gli esseri alieni si allontanano, librandosi nell’aria in ampie spirali. Il pericolo
sembra sventato, almeno per il momento. I mosconi – però – rimangono tra noi, sulla Terra, pronti a
colpire di nuovo… quanti altri ne possono essere atterrati, in quali posti del nostro mondo?
16 – CULEX PARK – IL PARCO DELLE ZANZARE
Ogni realtà locale ha il dovere di rivalutare il proprio patrimonio storico e naturalistico, di
salvare le specie animali e vegetali che la natura e gli antenati hanno fatto giungere sino a noi, di
proteggerle e trasmetterle ai posteri. Ecco perché abbiamo maturato la consapevolezza
dell’opportunità – anzi della necessità vitale – di promuovere un parco di salvaguardia,
potenziamento e diffusione della zanzara nostrana: “Il Parco delle Zanzare”. Memori delle nostre
matrici linguistiche, che affondano le radici nel patrimonio della latinità, vorremmo chiamarlo
“Parcus Cúlicum”. È più semplice e rapido, però, adottare uno di quegli orribili neologismi, intrecci
d’inglese e latino, tanto di moda oggi, e proporre un nome in “latinglese”: “Culex Park”.
Noi viviamo nel cuore più umido e nebbioso della bassa e piatta Pianura di Mezzo. La zanzara è
una ricchezza caratteristica della nostra fauna, ma i ceppi originali di questo meraviglioso insetto,
capace di attraversare spesse protezioni, bucarvi la pelle e di provocarvi un ponfo dalle proporzioni
cento volte più grandi di lei, solo per succhiarvi pochi milligrammi di sangue, necessari alla fertilità
della femmina… i ceppi originali sono stati profondamente modificati dalla civiltà moderna delle
macchine: altro che OGM! I primi squilibri sono derivati dalle campagne d’estirpazione della
malaria, che hanno concretamente estinto l’anofele autoctona del nostro territorio. Poi gli insetticidi,
progressivamente più forti nel tempo… e se il DDT era un’arma letale, quelli successivi hanno
provocato una sorta di “guerra buona”, con l’attivazione d’anticorpi via via più resistenti negli
organismi delle povere zanzare che sopravvivevano: una sorta di razza vaccinata, geneticamente
selezionata ma modificata. È poi storia degli ultimi quindici anni l’importazione d’esemplari alieni,
come la cosiddetta “zanzara-tigre” di origini asiatiche (Aedes Albopictus), che nidifica in acqua
corrente, e assale persino di giorno i poveri bambini indifesi e le massaie sulla soglia del
supermercato, o l’anofele extracomunitaria che svolazza nei dintorni degli aeroporti
intercontinentali, alla disperata ricerca d’un compagno con cui accoppiarsi, ma che può pungere –
se si tratta d’una femmina già accoppiata – e trasmettere agli abitanti locali una malaria perniciosa.
Naturalmente è facilissimo distinguere una zanzara-tigre dalle altre: non ruggisce e non ha i denti a
sciabola, ma una riga bianca sulla schiena (un po’ come le puzzole) e braccialetti bianchi alle zampe
(ah, la vanitosa…). È soltanto un po’ difficile fermare la zanzara e – prima di farsi pungere –
intimarle: “Mostrami i braccialetti!”
I contadini d’una volta erano relativamente difesi, perché la presenza di maiali, di polli, bovini e
d’altri animali a sangue caldo diluiva l’interesse delle zanzare per i corpi umani. Oggi, invece, ci
affidiamo ai fornelletti che avvelenano l’ambiente per 45 notti, ma uccidono gli insetti più di noi. I
meno attenti si dotano della griglia luminosa, che attira zanzare, vespe, calabroni ed insetti ancor
più grossi da tutto il circondario, da chilometri di distanza, per portarli a grigliarsi sopra le loro
teste. Una grigliata? Un vero spreco di biomassa, che basterebbe un filo d’olio per gustare
adeguatamente… eppure c’è chi afferma che cibarsi d’insetti sia la migliore delle diete possibili…
L’insieme di questi elementi crea una situazione d’elevato pericolo per la sopravvivenza
dell’autentica Culex Pipiens autoctona, ragion per cui riteniamo necessario salvaguardare lo storico
animaletto, che ha popolato le nostre paludi sin dagli antichi tempi in cui i liberi Celti vagavano per
la valle del nostro fiume, a venerare le possenti forze della natura, e offrivano i loro nudi petti
villosi alle punture del tenero insetto.
La zanzara è bella, è un esserino tipico della nostra terra e rende vive le notti estive, quando senti
il suo ronzio sibilarti vicino all’orecchio… oh dolce musicalità, mille volte superiore a qualsiasi
concerto di strumenti usciti dalle nostre mani! Le sue ali, la sua trivella perforatrice, le bellissime
antenne piumate dei maschi, sono capolavori d’ingegneria genetica, che l’uomo non riuscirebbe mai
a riprodurre.
Il nostro progetto ha previsto la creazione d’un ampio parco umido, in cui fossero mantenute le
migliori condizioni per la riproduzione e la proliferazione delle zanzare nostrane, secondo modalità
scientificamente controllate. È infatti vero che le Amministrazioni locali hanno già operato da
decenni in questa direzione, evitando ogni bonifica di stagni, pozze d’acqua stagnanti ed altre zone
umide e organizzando frequenti manifestazioni e concerti nelle piazze, in modo da garantire alle
zanzare la disponibilità di sangue, visto che non possono più trovarlo nelle stalle o nei pollai e
neppure negli ambienti chiusi, a causa del dilagante diffondersi di spirali affumicanti e di fornelletti
mefitici. Tuttavia, l’ibridazione della zanzara nostrana con altre specie di dubbia provenienza ha
creato una situazione di pericoloso squilibrio ecologico. Occorreva imporre severi controlli
all’evolversi disordinato dell’habitat dei cúlici.
Ardua fu l’impresa di convincere gli amministratori locali, affinché riservassero l’area per il
Parco e non v’installassero una discarica d’immondizie, attività che all’epoca andava molto di moda
e che rendeva cospicui introiti su terreni ormai abbandonati, nei quali era impossibile ogni altra
attività (salvo – ben inteso – un potenziale Parco delle Zanzare). Dopo una fitta serie di riunioni
preparatorie, con diversi politici ed amministratori di piccole realtà locali, per individuare le aree da
destinare al Parco, il progetto di massima cominciò finalmente a prender forma sulla carta.
Naturalmente, l’accesa litigiosità tipica dei piccoli paesi non rendeva agevole la presentazione del
progetto e rischiò diverse volte di danneggiare i nostri fegati. Ad esempio, nel paese di Coda di
Rospo, l’opposizione, capeggiata da un certo Narcisi – che odiava il sindaco nel modo più sincero –
inscenò una protesta, su basi sedicenti ambientaliste, e ci attaccò con una vivace campagna di
diffamazione, accusandoci di avere stabilito accordi preventivi di sfruttamento per la “mungitura”
delle zanzare, al fine di vendere il sangue a laboratori di ricerca e ad ospedali bisognosi di sangue
umano. Con Narcisi si schierarono tutti i cacciatori della zona, sempre contrari per principio a tutto
ciò che si chiami “parco”. Gli diede man forte persino l’ala più intransigente del locale Fronte
autonomista per l’autodeterminazione degli insetti, che vedeva la nostra proposta come “un
tentativo di addomesticare le zanzare in batteria”, con lo scopo occulto di confinarle in una riserva.
D’altra parte, i gestori del locale “Parco dei Topi e dei Rospi” misero in atto una campagna di
“purezza etnica”, convinti che topi e rospi fossero specie più autoctone delle zanzare e dovessero
essere salvaguardate in linea prioritaria, indipendentemente ed anzi contro i cúlici.
Infine riuscimmo ad identificare una bella zona umida, ricca di canneti, con salici, bambù e
sambuchi, che desse ricovero a miriadi di zanzare. Quindi si procedette ad una radicale bonifica
degli stagni da tutti quei pesci che sono soliti cibarsi di uova di zanzare.
A questo punto, occorrevano appoggi ed entrature idonee “in alto loco”. Si trattava di rassicurare
gli amministratori locali della “solvibilità” del progetto, di reperire i fondi necessari per la creazione
del Parco e per le relative attrezzature: innanzi tutto – ovviamente – la rete di recinzione, e poi
lampade che attirassero gli insetti dai campi circostanti, senza però grigliarli o danneggiarli,
repellenti per allontanare pipistrelli, rondini ed uccelli insettivori, macchie d’ombra e nidi
accoglienti per l’accoppiamento degli amati insetti e pozzanghere per deporvi le uova, umidificatori
per elevare in modo permanente il coefficiente d’umidità relativa almeno al 90%, controlli
all’ingresso sull’identità degli insetti accolti e sulla loro genuina origine locale, infine – ma non
certo trascurabile – la necessaria dotazione di sangue umano, d’alta qualità, per garantire la fertilità
dei nostri “ospiti”. A tale scopo era necessaria la collaborazione dei centri d’informazione turistica,
per promuovere il Parco in ambito metropolitano e attirare folle di visitatori. È entrato così nel
nostro gruppo operativo un personaggio straordinario.
Gaetano è un autentico mago delle pubbliche relazioni. Ha all’attivo, nel suo campionario,
almeno quattro tipi diversi di strette di mano e diversi saluti iniziatici: in aria o sul petto, a braccio
teso o gomito ripiegato, a mano aperta o rigida. Conosce formule scaramantiche o propiziatorie che
possono aprire ogni porta, quali “a Dio piacendo”, “inch’allah”, oppure “come ti butta, fratello?” e
sa usare in ogni occasione l’appellativo più appropriato per il suo interlocutore: fratello, compare,
amico, collega, camerata… compagno non si usa più… ma il “gran mediatore” sa bene che – se
compiuti con discrezione e al momento opportuno – alcuni semplici gesti come una fraterna
“pacca” sulla spalla dell’interlocutore o una toccatina alle proprie parti intime possono generare
un’atmosfera di complicità che facilita molte transazioni. La grande abilità di Gaetano consiste nel
saper gestire i propri contatti uno per volta e riuscire a far credere a ciascuno di essere schierato
dalla sua stessa parte, anima, cuore e corpo. Mai una gaffe, mai un capello fuori posto, mai un
granello di polvere sulla scarpa o di forfora sul colletto. In ogni caso, all’occorrenza, è capace di
giustificare le proprie attitudini sulla base di precetti evangelici e con adeguate citazioni delle lettere
di San Paolo.
Gaetano è la persona giusta per accedere agli “alti luoghi” e chiedere autorizzazioni,
finanziamenti, aperture di credito, spazi promozionali utili al decollo del nostro Parco. Il suo primo
approccio è stato con il “senatore storico”, colui che da trent’anni guida felicemente le sorti
politiche del comprensorio delle zanzare, fa e disfa amministratori locali ed altre cariche. Dopo
diversi incontri ed un’intensa stagione di cene di lavoro, cui partecipavano altri misteriosi
personaggi, Gaetano ha ottenuto un interessamento al Parco, che si è ben presto concretizzato in una
serie di espressioni palesi, nel comportamento di tutti i nostri interlocutori: funzionari e
amministratori, dapprima freddi, hanno incominciato a rivolgersi a noi come se fossero vecchi
amici, se non compagni di scuola o di giochi d’infanzia. Naturalmente, l’accordo concluso da
Gaetano prevede che gran parte delle attività economiche del futuro Parco rechino benefici alla
cooperativa “Sangue e Arena”, organizzazione senza fine di lucro, che appartiene alle opere fondate
dal nostro amico senatore. Per un momento, sono stato tentato di dare ragione a Narcisi,
l’ambientalista di Coda di Rospo… se non che la cooperativa che gestisce tali attività proviene
proprio dal suo gruppo politico e d’opinione.
Nel contempo, abbiamo ricevuto diverse telefonate da parte di imprenditori, molto interessati a
sponsorizzare la realizzazione del Parco: produttori di accessori e cibo per zanzare, fornitori di
nebbia spray per le giornate troppo secche, costruttori di pozzanghere, vivaisti di germogli di salice
spontaneo… ci ha contattati persino l’intraprendente progettista d’un museo storico della zanzara,
realizzato con supporti didattici in DVD e su pannelli portatili e componibili, ad uso di scuole,
biblioteche e rassegne itineranti.
Alcune note ditte d’insetticidi hanno convertito la loro linea di produzione, ed ora stanno per
lanciare sul mercato nuovi prodotti, con slogan del tipo:
“Volete che le vostre zanzare abbiano le ali più brillanti e cangianti? Usate olio X, rende il vostro
sangue più fluido e vitaminico!”
“Zanzare più belle? Usate sulla vostra pelle il prodotto Y, che renderà più agevole il lavoro al
loro trombino e lo manterrà liscio, resistente e diritto”.
Un circolo culturale ha commissionato ad una ditta specializzata la realizzazione d’un grande
modello di zanzara, con tutte le caratteristiche somatiche della zanzara nostrana: alto più di due
metri e mezzo e lungo otto, in posizione di succhiata, il modello è elegantissimo, interamente
percorribile al suo interno, e contiene la biglietteria del Parco, il servizio informazioni, nonché gli
indispensabili servizi igienici.
Pur nell’entusiasmo della promozione commerciale, non abbiamo certo trascurato i due elementi
fondamentali che caratterizzano il nostro parco: la purezza autoctona delle zanzare ospitate e la
qualità del sangue che viene loro fornito. Anzi, sono questi gli elementi certificati, atti a garantirci
la patente di qualità europea e regionale di cui il nostro Parco – insieme a pochissimi altri – può
fregiarsi.
La prima di queste due caratteristiche è senza dubbio la più difficile da raggiungere. Non è facile
porre filtri efficaci all’immigrazione della zanzara-tigre e una selezione delle zanzare ibridate
appariva troppo complessa, oltre che accusabile di razzismo. Abbiamo perciò dovuto optare per una
precisa e completa catalogazione dei nidi di rifugio. Siamo oggi in grado di tenere un’accurata
anagrafe delle zanzare presenti nel nostro Parco e stiamo procedendo all’inserimento non doloroso
sottochetinico d’un chip d’identificazione personale, per ciascuna di loro. All’atto dell’inserimento,
un piccolo prelievo di tessuti consente l’accertamento del DNA dell’insetto, che viene
automaticamente inserito in una banca dati centrale. È così possibile selezionare rapidamente i
ceppi di zanzare autoctone e quelli compatibili, per avviarli verso zone di riproduzione più
accoglienti e migliorare geneticamente la composizione degli ospiti del parco.
Per quanto riguarda la zanzara-tigre, l’uso delle tecnologie più avanzate ci ha permesso di
mettere a punto un tipo speciale di scanner ottico, accoppiato ad un puntatore laser. Il primo
riconosce i braccialetti chiari intorno alle zampine, mentre il secondo provvede alla sterilizzazione
dell’insetto in volo. Purtroppo, però, si può prevedere che – nel giro di poche generazioni – il nostro
congegno provochi la naturale selezione d’un nuovo tipo di zanzara-tigre, privo dei braccialetti
bianchi: una specie che potremmo definire “zanzara-pantera nera”. Occorrerà allora prevedere altri
sistemi di riconoscimento (forse basati sull’impronta dei globi oculari, o sul timbro del ronzio). È
inoltre allo studio un delicato esperimento di clonazione, che potrebbe restituirci entro poche
generazioni il ceppo dell’anofele nostrana (priva, però, del pernicioso plasmodio infettivo della
malaria). Sarà il vero successo genetico del nostro Parco, infinitamente superiore agli esperimenti,
già condotti in altri luoghi, di clonazione dell’uro europeo e del mammuth.
Grazie all’apertura del nostro Parco, gli studi genetici sulle zanzare hanno compiuto indicibili
progressi e ci hanno dischiuso le porte di un universo meraviglioso, fatto di ali iridescenti, antenne a
quindici ciuffi – che… nemmeno le piume di struzzo! – di tromboncini succhianti, di fantastiche
articolazioni snodate, capaci di prestazioni di gran lunga superiori a quelle dei nostri arti, di
orgogliosi e goffi “vertici della creazione”.
Il pubblico del Parco dovrà ovviamente essere selezionato. Un primo controllo garantirà che i
visitatori non portino sulla pelle o con sé alcun tipo di sostanza repellente, tale da disturbare
l’olfatto delle zanzare. Queste sostanze saranno assolutamente vietate, non soltanto dell’area del
parco, ma anche nei dintorni. Vietati gli stick all’ammoniaca, vietati i profumi troppo intensi.
Inoltre, appositi annusatori di professione saranno preposti all’analisi del sudore degli ospiti, in
modo da poter indirizzare i più gustosi direttamente verso i luoghi ove siano più numerose le
femmine di zanzara gravide.
Il secondo passo per essere ammessi alla visita consisterà nella compilazione d’un apposito
questionario, per individuare e neutralizzare eventuali tendenze zanzarofobe. La psicologa del Parco
dovrà agire discretamente: l’eventuale visitatore sospetto non sarà respinto, ma gli saranno
affiancati due agenti osservatori, che lo controllino attentamente, per impedire qualsiasi azione di
danneggiamento o di sabotaggio
Appositi “Mosquito Parties” saranno organizzati nelle serate estive e culmineranno col “Culex
Summer Festival”, l’ultima domenica di luglio. In tale occasione, subito prima delle grandi vacanze
d’agosto, saranno eletti Re e Regina della Zanzara coloro che esibiranno sulla propria pelle il
maggior numero di ponfi arrossati.
L’organizzazione delle feste è delegata all’associazione “Alzati e cammina”, un’altra cooperativa
senza fini di lucro (dello stesso gruppo della “Sangue e Arena”), ormai rinomata su tutto il
territorio: è quella che organizzò le celebri risottate alla salsiccia per il gemellaggio con
quarantaquattro cittadine della Polonia, i risotti con polenta per le “cene medievali”, la risottata alla
salsiccia in onore del capo indiano Lakota, in visita ai nostri territori, e che preparò lo stesso tipo di
risottata alla salsiccia per l’arrivo dello sceicco Ben Yahya, rappresentante di non so quale sultanato
arabo, salvo la necessità d’una successiva smentita, in cui si dichiarava formalmente che nella
salsiccia non era contenuta carne di suino. D’altronde non devono avere affermato il falso, perché
molti sono convinti che – sin dai lontani anni ‘80 – quella cooperativa abbia usato salsicce
“esclusive”, fatte con zoccoli d’animali macellati e piedi di polli, in un’ottica ecologista di completo
riciclaggio dei rifiuti… eppure, in un eccesso di spirito di servizio, non se ne sono mai vantati, mai
hanno chiesto un premio o una piccola facilitazione, in cambio dei servizi resi alla comunità!
I servizi di promozione turistica si stanno ora aprendo al mercato dell’estremo Oriente, tramite la
partecipazione alle fiere internazionali. Abbiamo richiesto alcuni campioni di sangue di quelle
popolazioni, al fine di valutarne la compatibilità con l’olfatto, il gusto e le necessità riproduttive
delle nostre zanzare. Qualora tale compatibilità fosse accertata e non comportasse alterazioni
genetiche per i nostri ospiti insetti, si schiuderebbe un mercato dalle immense potenzialità
economiche (ed ematiche), qualcosa come due milioni di visitatori l’anno, pronti a pagare per
venire a fasi pungere nel nostro Parco.
Proprio oggi, il nostro pubblicitario mi ha mostrato la proposta per il video promozionale del
Parco. Vi appare un omino verde, con due esili antenne sul capo, che si addentra in una macchia di
vegetazione umida. Il campo visivo si apre e l’omino diventa sempre più piccolo e lontano, mentre
appare – in primo piano, grandissima – la meravigliosa antenna piumata d’una zanzara nostrana.
L’inquadratura si sposta sull’occhio dell’esserino, che spia l’intruso alieno. Intorno al capofamiglia,
tutte le femmine del gruppo stanno “affilando” le trombettesucchiatoi, con i tovaglioli al collo.
Nell’inquadratura successiva, l’omino è diventato un ponfo unico. Non è più verde, ma cangiante,
di tutti i colori dell’iride. La sua faccia beata, gli occhi stralunati, le antennine che vibrano in
continuazione, esprimono l’estasi dei pruriti che lo pervadono.
Lo slogan recita: “La Zanzara è bella, la Zanzara è piccola, ma forte. Conosci e valorizza le
tradizioni nostrane”. Credo che farò modificare quel termine “nostrano”, che mi ricorda un salame.
Inoltre, vorrei proporre una serie di spot in sequenza, con un’intera famigliola di ET, di tutti i
colori: giallo, rosso, verde… non tanto per ispirarmi ai semafori, quanto piuttosto per attirare al
Parco i visitatori di tutto il mondo… Dobbiamo rivolgerci a tutti, senza razzismi né particolarismi,
e… – perché no? – proporrei come titolo per la sequenza pubblicitaria: “The united colours of
Culex Park”.
17 – IL CAMPO DEI MORTI
Abito tra Pavia e la sua Certosa, nell’area di quel vasto Parco che vide la ‘battaglia dei giganti’,
in una brumosa mattina di quattrocento e ottant’anni fa. Tra alberi, sentieri e ruscelli, dove oggi
corrono giovani in tuta e passeggiano le famigliole, i Visconti avevano creato recinti con orsi,
struzzi, levrieri, conigli e leopardi. In un’umida notte del febbraio 1525, gli uomini del re di Francia
Francesco I, acquartierati nel Parco, si ritenevano protetti dall’alto muro di cinta. Invece furono
colti di sorpresa dalle truppe imperiali.
C’erano personaggi che avrebbero influito sulla storia d’Europa e delle Americhe, come il
venticinquenne Pedro de Valdivia, che dieci anni dopo partecipò all’occupazione del Venezuela e
del Perù, con Francisco Pizarro. A Pavia cadde il fiore della nobiltà francese, centinaia di rampolli
delle migliori famiglie. Morì Jacques secondo, signor de la Palice, e i suoi soldati cantarono: “Se
non fosse ancora morto, sarebbe ancora in vita”. Il termine ‘lapalissiano’ è così diventato sinonimo
di ‘ovvio’, per uno scioglilingua di soldati: un modo strano, per un baldo guerriero, di passare alla
storia. Al fianco della cavalleria pesante francese coperta di ferro, dei nobili gendarmes, ‘gente
d’armi’, comandati dal re in persona, combatteva la fanteria: archibugieri e picchieri erano in gran
parte svizzeri e tedeschi. Nello schieramento avversario, insieme agli hidalgos spagnoli, altri soldati
italiani, tedeschi, olandesi, svizzeri. Nel furore della battaglia si scontrarono migliaia di figli di
montanari e di contadini, trasformati in soldati. I lanzichenecchi e gli svizzeri arruolati nelle due
fazioni, armati di picche lunghe da cinque a sette metri, si accanirono all’ultimo sangue, come dieci
anni prima a Marignano, e fu massacro. Persero la vita diverse migliaia di uomini al servizio del re
francese. Qualcuno afferma che ne morissero diecimila. Tra le nebbie che si levavano nella tarda
mattinata, bande armate spogliavano i cadaveri dei nemici e andavano in giro cantando strofe
oscene, con le teste degli sconfitti sulla punta delle picche.
Il corpo del signor de la Palice fu riportato al feudo avito e sepolto con tutti gli onori. I morti
nobili erano imbalsamati per chiedere un riscatto alle loro famiglie, valevano oro sonante. Gli
anonimi cadaveri dei poveri soldati, invece, spogliati d’ogni effetto che avesse un minimo di valore,
dovevano essere sepolti in fretta, prima che la putrefazione potesse provocare epidemie perniciose.
Poeti e pittori hanno narrato le ‘glorie’ della battaglia, ma nessuno ha descritto le penose corvées
dei contadini che dovettero caricare sui carretti migliaia di cadaveri mutilati, per andare a
seppellirli… dove? Non esiste una sola memoria, non una cronaca che ricordi la sorte di quelle
spoglie mortali.
L’altro giorno, mentre passeggiavo lungo il margine settentrionale dell’antico Parco ducale dei
Visconti, dietro la Certosa, presso l’antica cascina della Porta d’Agosto, mi sono apparse nei campi
arati migliaia d’impronte quadrate e rettangolari. Nel terreno che si asciugava dalle piogge
primaverili, ci doveva essere una scacchiera sotterranea fatta di ‘qualcosa’ che assorbiva l’acqua in
modo diverso… tombe? tombe romane? o forse i sepolcri dimenticati di tutti quei francesi, quei
tedeschi, quegli svizzeri, quegli olandesi rimasti senza nome, che erano partiti dalle loro case
cinquecento anni fa, per venire a morire qui, nelle nebbie di un mattino d’inverno? I segni, più
chiari del terreno circostante, apparivano e sparivano, un giorno dopo l’altro, secondo l’umidità.
Pioveva e tutto il campo diventava scuro; dopo ventiquattro, trenta ore, le macchie si rivelavano di
nuovo. Poi il terreno si asciugava completamente e diventava del tutto chiaro, sino alla prossima
pioggia. Quattro volte il terreno si è inzuppato, questa primavera, e quattro volte le macchie sono
ricomparse.
Si sono fatte insistenti le voci di ritrovamenti d’ossa, apparse in diversi momenti in quei campi, e
il nome di ‘campo dei morti’ si ripete nei racconti, unito alla credenza popolare, che vuole i campi
dietro la Certosa ‘segnati’ da un’antica maledizione. Il Nord è sempre stato il punto cardinale del
freddo e del male, nel sentimento dei popoli che hanno vissuto in queste terre. Il Meridione indica il
sole, il calore e la vita; il Levante, il sorgere del sole stesso, ossia l’origine della luce divina;
l’Occidente, verso il tramonto, è la fine della vita, la terra dei morti, l’oblio eterno; e infine il Nord
il freddo, il regno del male, l’eterna condanna.
La Porta d’Agosto, col nome del mese più caldo e luminoso dell’anno, era rivolta a settentrione
del Parco Visconteo, verso il freddo e il male. La gente pensa che quel luogo ‘porti male’, sia
segnato dalla cattiva sorte. Un terribile incrocio, tra un ripido cavalcavia sopra la linea ferroviaria
ed una curva cieca che ‘scivola’ dietro il muro di cinta della Certosa, è un vero posto maledetto. Qui
tutte le attività commerciali hanno avuto scarsa fortuna. Ora si scopre la presenza di migliaia di
tombe, sepolte sotto quei terreni. Sembra che vogliano gridare: “Siamo qua, venite a guardarci!
Abbiamo atteso quattrocento ottant’anni, ma siamo sempre in questo campo!”
Sul Castello dei Visconti aleggia un’aura di mistero e di maledizioni, come accade per molte
dimore medievali. Qui persero la vita due segretari ducali, per presunto tradimento: Pasquino
Capelli, murato vivo, e Cicco Simonetta, decapitato sul ponte levatoio. Le ossa del primo giacciono
ancora murate nelle pareti dell’attuale museo e si vuole che il suo fantasma si aggiri, di notte, per le
sale deserte. Nelle stanze di questo castello, appena costruito, visse la propria gioventù quella
Valentina, figlia di prime nozze di Gian Galeazzo, che avrebbe avuto una vita difficilissima. Figlia
d’una principessa francese, fu inviata sposa al cugino, cadetto del re di Francia, per allontanarla da
un’altra cugina, che aveva dato a suo padre – in seconde nozze – il tanto agognato erede maschio.
Valentina fu accusata di stregoneria da un’altra cugina, regina di Francia, e vide il proprio sposo
cadere con la testa fracassata, nei vicoli di Parigi, sotto i colpi di un agguato. I discendenti di
Valentina, Luigi XII e poi Francesco I, mossero guerra al Ducato di Milano, per reclamare l’eredità
dell’antenata.
C’era nel Castello di Pavia un meraviglioso astrario che indicava il moto dei Pianeti su sette
quadranti, grazie ad un perfetto meccanismo fatto d’un bronzo speciale, capace di autolubrificarsi
per ridurre gli attriti. Lo aveva realizzato alla fine del Trecento il dottor Giovanni Dondi da Padova,
astrologo di corte. L’astrario funzionava ininterrottamente da centoquarant’anni, ma quella mattina
del 24 febbraio si fermò. Forse un granello di polvere, o forse un’imperscrutabile volontà superiore,
aveva fatto inceppare i meccanismi e nessuno fu mai più in grado di rimetterli in moto.
Ciò che non si racconta è che il comandante delle forze imperiali aveva convocato al Castello di
Pavia, occupato dagli spagnoli, una temibile incantatrice, già condannata a morte per diversi
malefici. Alla strega era stata promessa la salvezza dal rogo, in cambio d’un aiuto alla causa
imperiale.
La donna fu condotta dalle carceri comunali al Castello sotto stretta scorta. Aveva ottenuto che
un gran braciere, con quantità di carboni roventi, fosse sistemato sotto l’astrario. Dalla massa
nerastra si sprigionava un forte calore e nell’oscurità si levavano improvvise scintille, faglie
rossastre serpeggiavano nelle braci. Per tutta la notte, al chiarore di poche candele, la strega trafficò
con erbe velenose e carogne strane, che si era fatta portare dal proprio armamentario. Tutt’a un
tratto, l’astrario si fermò. Sui merli del Castello risuonò lo stridio d’un ratto, catturato da un
barbagianni.
In quella fatidica mattina le forze francesi, nettamente superiori per numero e per armamento,
stavano per avere il sopravvento sugli assalitori, quando una fitta nebbia, acre come il fumo, salì dai
campi e dai cespugli, coprì tutto e tutti. Il mondo intero appariva come immerso nella bambagia. Sul
campo di battaglia la vita s’arrestò. Mentre il bilanciere dell’astrario del Castello si bloccava, i
combattenti rimasero congelati nei loro gesti, per un lunghissimo istante. Quando la nebbia scese,
una sorta di ‘sacra follia’ aveva colto le truppe dei francesi, che non sembravano più in grado né di
combattere, né di orientarsi sul campo. Gli ufficiali si guardavano intorno, incerti, mentre le truppe
si muovevano in modo disordinato, senza riconoscere i nemici. Al contrario, nonostante la
fluttuante foschia, gli archibugieri imperiali mantenevano una mira precisa. Fu una vera e propria
strage. I francesi si lasciarono massacrare sul campo come conigli, mentre molti di coloro che
cercavano d’allontanarsi affogarono, nel tentativo d’attraversare le acque del Ticino. Sembrava che
una maledizione biblica avesse colpito le truppe del giovane Francesco I, odiato dalla borghesia
locale come fosse il protettore degli ebrei e dei protestanti, il difensore d’ogni eresia. I bottegai
pavesi avevano consacrato un voto solenne: se le truppe del cattolicissimo imperatore avessero
vinto, essi avrebbero cacciato dalla città tutti gli studenti stranieri (fonte di disordine, come sono
sempre stati gli studenti, e per di più in odore d’eresia) e tutti gli ebrei (incamerandone i beni,
ovviamente). Gli imperiali vinsero, ma solo settant’anni dopo l’ultima famiglia ebrea avrebbe
lasciato Pavia, dopo essere stata risarcita dei propri averi.
La riproduzione dell’astrario del Dondi, realizzata in tempi moderni e custodita in un celebre
Museo di Milano, non è mai stata in grado di funzionare. Oggi, però, si può leggere sui giornali che
improvvisamente il meccanismo, senza neppure essere caricato, ha cominciato a ticchettare e che le
sue sfere descrivono sui quadranti – come avveniva un tempo nella macchina originale – il
movimento dei sette Pianeti dell’antica astrologia.
Lungo la strada che costeggia il mulino di Mirabello, stamattina, c’è una leggera nebbia. Mentre
passo in auto, diretto al mio lavoro, sento provenire dai campi alla mia destra un nitrito nervoso e
mi appare, lanciato ad attraversare la strada, un cavallo bianco, privo di cavaliere, con parti
d’armatura d’oro. Sulla gualdrappa color turchese, reca i gigli inconfondibili del re di Francia.
Come tutti i fantasmi che si rispettino, mi taglia la via e scompare di nuovo, nel nulla del tempo.
18 – IL SANTO DEL PROSCIUTTO
Dietro la facciata della Certosa di Pavia, nel risvolto a sud, c’è un tondo scolpito che raffigura un
santo dalle caratteristiche inusuali. Fra le mani, infatti, stringe un cosciotto d’animale,
dall’inconfondibile sagoma di un prosciutto. La posizione del bassorilievo è tale che ve lo trovate
davanti agli occhi, quando uscite dal chiostro piccolo dopo la visita al complesso monumentale, in
controluce, a circa due metri e mezzo di altezza. Non si può fare a meno di osservarlo e infatti, per
anni, l’ho ricordato come “il Santo del prosciutto”: un certosino, a giudicare dall’abito, che doveva
essere talmente importante (o familiare) da meritarsi quella posizione, solo apparentemente un po’
nascosta, ma in realtà sotto gli occhi di tutti.
Finalmente, un giorno, scoprii che quel santo era stato un umile converso certosino, di nome
Guglielmo Fenoglio, vissuto tra il sec. XI e il XII nella Certosa di Casotto (oggi conosciuta come
Castello di Casotto, circa 17 km a ovest di Garessio – CN). Era addetto al vettovagliamento del
monastero e raccoglieva viveri, granaglie e legumi dalle varie cascine, facendo la spola con la mula
del monastero tra Casotto e le località circostanti, talvolta sino ad Albenga e a Mondovì. Le strade
allora erano infestate da briganti e accadeva abbastanza spesso che fratel Guglielmo fosse rapinato
lungo il suo cammino. Il Priore, di fronte al suo profondo abbattimento, gli disse un giorno tra il
serio e il faceto: “La prossima volta che incontrerai i ladri, impugna una gamba della mula e mettili
in fuga!”
L’umile Guglielmo ebbe occasione di prenderlo in parola. Non trascorse molto tempo che
dovette subire un altro assalto dei ladroni. Memore delle parole del Priore, afferrò una gamba della
giumenta, la staccò e la impugnò contro gli assalitori i quali, atterriti da tale gesto, se la diedero a
gambe. Il frate rimise la zampa al suo posto e ritornò alla Certosa. Nella fretta, però, aveva
riattaccato la zampa a rovescio e la mula zoppicava. Questo fatto confermava le chiacchiere che
rapidamente si diffusero, nel monastero e nel circondario, sull’impresa di Guglielmo, tanto che il
Priore decise d’indagare. Fratel Guglielmo non ebbe difficoltà a raccontare, con candore, la sua
storia incredibile: non aveva fatto altro che applicare i consigli del Priore. Deciso a chiarire se si
trattasse davvero di un miracolo, il Priore finse di rimproverare Guglielmo per la sbadataggine e gli
chiese di rimettere a posto la zampa della mula. Il fraticello, pronto, si affrettò a staccare di nuovo
l’arto per ricollocarlo nel modo giusto, scusandosi per l’errore precedente. Ciò avvenne di fronte a
diversi testimoni, senza che la mula perdesse sangue né mostrasse il minimo segno di dolore.
Il Beato Guglielmo morì nel 1120. Poco tempo dopo, il suo corpo venne esumato a furor di
popolo dal camposanto, per tutti i miracoli che compiva. Fu trovato incorrotto e posto in un’urna,
rischiarata da una lampada sempre accesa. Quell’urna fu in seguito nascosta in una nicchia nei muri
della chiesa. All’epoca della Rivoluzione francese si perse ogni memoria sul punto esatto del
nascondiglio.
Il miracolo della mula fu rappresentato dappertutto in Europa, nei monasteri certosini: dalla
Spagna al Portogallo, dall’Inghilterra alla Francia, all’Italia. Nel bassorilievo tondo della Certosa di
Pavia, il Beato Guglielmo impugna il cosciotto della mula, dalla tipica forma “a prosciutto” (o
piuttosto dovremmo dire “a bresaola”, data la specie dell’animale). Ragioni di spazio non hanno
consentito di mostrare tutta l’immagine della fedele mula. In altre raffigurazioni il Beato impugna
non l’intera gamba, ma solo lo stinco dell’animale. Pio IX, il 19 marzo 1860, proclamò
ufficialmente Beato Guglielmo Fenoglio e consacrò una fama che si era diffusa nei secoli attraverso
l’Europa intera. A quel tempo, però, la tomba di Guglielmo era scomparsa e la religiosità popolare
era in fase di declino.
La partenza dei Certosini da Pavia e l’assenza d’un “atlante topografico” delle sculture e dei
bassorilievi della Certosa avevano complicato la mia ricerca del nome del santo. Poi, un giorno, mi
ha all’improvviso chiarito l’enigma la domanda d’un amico piemontese: “Sai se alla Certosa di
Pavia è raffigurato un Santo che impugna l’arto d’un equino?” “Non mi ricordo nessun dipinto – gli
rispondo io – ma... se vuoi, c’è ‘il santo del prosciutto’”. Ecco ristabilito il ponte: nelle storie della
Certosa di Casotto si dice che a Pavia esiste almeno una figurazione del Beato Guglielmo, mentre
qui nessuno più racconta la storia di quell’immagine. Infine, mi sono reso conto che l’immagine di
Guglielmo era dipinta anche all’entrata del primo vestibolo, quello esterno. Un affresco di grandi
dimensioni: la figura è alta più di due metri e mezzo. Proprio a sinistra di chi entra, dietro il muro
del portone principale, dove sfugge all’ospite frettoloso: una posizione simile a quella del tondo in
bassorilievo dietro la facciata.
Non è solo la presenza del Beato Guglielmo a solleticare l’interesse del visitatore curioso che si
attardi a esaminare le decorazioni della facciata o dei chiostri della Certosa. Le figure seguono una
loro logica e indicano percorsi precisi: le teorie degli imperatori romani intrecciate a scene delle
sacre scritture, le lunghe teorie di teste mozzate di Mori, che sembrano ricordare gli antichi culti dei
santuari celtici, stemmi viscontei ed immagini araldiche sforzesche, delfini, aquile e dragoni, San
Bartolomeo scorticato che mostra la propria pelle, San Rocco vestito da pellegrino, lassù
sull’angolo si vede un San Martino che taglia il mantello, e poi, nei chiostri, le figure allegoriche,
gli itinerari di meditazione, con le tentazioni (la ricchezza, il potere, l’orgoglio, la carne), i vizi, i
teschi (riflessioni sulla morte), le strade che conducono alla santità.
La ricchezza decorativa costituì, nei secoli, una guida alla lettura del monumento, vero e proprio
libro di pietra. I significati di questo libro rischiano di sfuggirci, oggi, perché non siamo più abituati
a soffermarci sui particolari, sulle iconografie, sui simboli figurati. Al di là del colpo d’occhio, però,
degli spazi e dei volumi costruiti, il libro di pietra è aperto di fronte ai nostri occhi e ci invita a
leggerlo, pagina per pagina, una parola dopo l’altra. La collocazione, l’esatto ordine delle figure, il
modo e i particolari in cui sono rappresentate, tutto parla. Troveremo il dizionario per tradurre, nel
linguaggio nostro di uomini moderni, la parola dipinta e scolpita degli antichi monumenti?
19 – IL MIRACOLO DI SANTA SOFIA
Narrava un’antica cronaca, un tempo conservata negli archivi dei marchesi Pecorara, che il 25
maggio del 1594 la piccola Caterina, di sei anni, figlia di un pescatore che abitava a Villanova
d’Ardenghi, era salita sulla barca di suo padre Giacomo, che andava a pesca nella Val del Lupo.
Giacomo manteneva la famiglia con quanto riusciva a pescare nelle acque del Ticino e delle sue
valli. Giunto verso la foce del canale laterale, ormeggiò la barca con la piccola Caterina, che si era
portata qualche rametto e qualche pezza per i suoi giochi, e si allontanò di poco per scegliere il
posto migliore per la pesca. Il cielo era scuro, le acque erano alte per i temporali scatenatisi nei
giorni precedenti sul Lago Maggiore. Era difficile trovare pesce nelle acque torbide, che
trascinavano rami e fronde d’albero, ma era pur necessario mangiare e nutrire la famiglia.
D’improvviso si levò sulla zona un furioso temporale, con forte vento e scrosci d’acqua. I salici
furono piegati e divelti e la barca, strappata all’ormeggio, fu trascinata dalle acque del canale,
gonfio e impetuoso. La barca entrò senza danno nel Ticino e prese il largo, tra le urla di richiesta
d’aiuto della bambina e quelle impotenti di Giacomo, immediatamente accorso ma bloccato sulla
riva. Al pescatore disperato non rimase altra speranza che invocare l’aiuto del cielo. Aveva già
perso altri due figli maschi, qualche anno prima, annegati in una roggia mentre cercavano di
scovare i pesci dalle loro tane. Giacomo cadde in ginocchio e pregò. Quasi come una risposta,
sull’altra sponda, un fulmine scoppiò sulla fortezza di Santa Sofia, che dominava cupa le acque. Ne
nacque un focolaio d’incendio su una torretta. I soldati spagnoli, lassù, avevano ben altro da fare
che dar retta alle grida di un povero pescatore.
Lo scroscio di pioggia non durò a lungo, ma l’imbarcazione era ormai scomparsa, portata via
dalla corrente. Il padre disperato si rialzò e andò a cercare un parente, che pescava lungo la valle.
Ritornarono sul fiume, lasciandosi trasportare dalla corrente, per cercare la barca di Giacomo. Al di
là della corrente gonfia di rami e tronchi d’albero, sembrò loro di vedere un barcé fermo sull’altra
sponda, lungo la riva boscosa, con la prua incastrata tra due salici. Era proprio la barca di Giacomo,
con a bordo la bambina svenuta, inzuppata fradicia, ma viva. Appena il padre riuscì a prenderla in
braccio, la corrente portò via la barca, ormai piena d’acqua, che affondò roteando in un vortice.
Proprio in quel momento, tra le nuvole, si aprì uno squarcio. In alto, sul terrazzo, un raggio di sole
colpì in pieno la Cappella di Santa Sofia. I due giurarono in seguito di aver visto nel raggio di luce,
vicino alla pianta di alloro che fiancheggiava la chiesa, una bellissima giovane sorridente, che
improvvisamente scomparve, mentre si dileguava il raggio celeste.
La gente racconta che la Vergine, effigiata sulla facciata della Cappella di Santa Sofia, aveva
sino a quel giorno un’aria maestosa e distaccata. Dopo il miracolo, invece, essa si trasformò in una
leggiadra fanciulla, colta a passeggiare sui prati in fiore, quasi senza nemmeno sfiorarli coi piedi
nudi, incorniciata tra alcuni salici e un alloro, come quello piantato nuovamente di fronte alla
facciata della Cappella restaurata.
Quanto a Caterina... si sposò ed ebbe figli e nipoti, come in tutte le storie a lieto fine, ma i suoi
eredi attuali ne hanno ormai perso il ricordo.
Ponti tra mondi diversi:
20 – L’ALBERO NELLA RISAIA
Bakary è nato in uno sperduto villaggio dell’Africa occidentale, del quale conserva solo un
lontano ricordo. Da piccolo era fermamente convinto che i bianchi portassero via i bambini neri per
mangiarseli. Gli zii, nelle lunghe serate intorno al fuoco, raccontavano di uomini bianchi e cattivi,
armati di fucili, che portavano via i bimbi del villaggio… e i bambini non ritornavano più. Nei
racconti dei vecchi, i bianchi apparivano come persone d’un altro mondo, con modi strani di vestirsi
e di parlare. Persino l’odore dei loro corpi era diverso, sapeva di morte e di putrefazione.
I ricordi più importanti dell’infanzia di Bakary sono il volto della madre e la cerimonia del
passaggio all’età adulta, quando lo lasciarono per un’intera settimana nel bosco, con i compagni
della stessa età, a contatto con gli spiriti degli antenati. Una specie di “corso di sopravvivenza”,
destinato a forgiare il cacciatore della selva. Il destino, però, sembra essersi preso gioco di Bakary,
perché lo ha allontanato dalle boscaglie e lo ha spinto nella terra dei bianchi, a vendere paccottiglia
ai passanti agli angoli delle vie.
È sera e la giornata gli è andata male. Ha venduto poco e gli hanno anche sequestrato la merce
che esponeva. Il giovane ambulante non ha né la voglia né il coraggio di ritornare al lercio
dormitorio per fare i conti dei magri incassi. Si mette a vagare per vie sconosciute; gli ritornano alla
mente i pericoli della foresta, i grandi alberi abitati da ogni specie d’uccelli e dalle scimmie, il
boschetto sacro vicino al villaggio, dove erano custoditi i feticci di lontani antenati.
Bakary cammina, senza rendersi conto del tempo che passa. Attraversa la periferia, supera il
capolinea dell’autobus e attraversa discariche di rifiuti, passa oltre la tangenziale e prosegue, tra
quartieri dormitorio e ruderi di vecchi cascinali. Il buio lo coglie in mezzo a campi di riso allagati. È
una notte di luna piena, saturata dal gracidìo delle rane, da voli di pipistrelli e da nugoli di feroci
zanzare. Un acre odore di spazzatura e di diserbanti pesa sulla campagna. Il riflesso della luna sullo
specchio delle risaie gli ricorda il suo lontano Paese, nella stagione delle piogge.
Bakary tocca con devozione gli amuleti, i grisgris che porta sempre con sé, appesi al braccio, dal
giorno dell’iniziazione. Si accoccola sui talloni. Nei riflessi, sulla superficie dell’acqua, gli appare
la forma d’una sirena, bianchissima, i lunghi capelli che sembrano serpi. È la signora delle acque,
come appare ai pescatori, nelle lagune d’Africa, tra i boschi di mangrovie. Tutti conoscono e
temono il potente genio femminile, la figura più pittoresca fra gli spiriti ancestrali. È una bellissima
sirena dai capelli chiari, che al cadere della sera esce dalle acque profonde, si siede sulla sponda del
fiume e attende un nuovo amante. Identifica il prescelto e lo trascina con sé, nel proprio mondo
favoloso.
Sotto la luna piena, come in un antico rito d’iniziazione, Bakary danza sul bordo della risaia. Il
canto dei grilli e delle rane sale al cielo, ritma la danza, come strumenti di terre lontane. La sirena lo
chiama a sé, con movimenti flessuosi. Bakary, con i pantaloni rimboccati, scende nell’acqua. Le sue
gambe s’intrecciano con le code della sirena, i capelli di lei gli avvolgono i lineamenti sudati e si
avvinghiano come serpenti, i due sorrisi s’incontrano. Le forme si contorcono, sotto le livide luci
d’una periferia urbana e della luna piena. Nell’acqua d’una risaia, ai margini della grande città,
sembra che si tocchino due mondi: quello d’un tempo, con le entità che popolano la natura, e quello
di domani, in cui l’uomo stenta a trovare il proprio posto.
Ora sembra che un baobab affondi le radici nell’acqua della risaia: l’albero magico nel quale i
poeti e i cantastorie raggiungono il riposo eterno. I baobab crescono lungo le antiche piste degli
elefanti, i quali ne sono ghiotti e contribuivano, con i loro escrementi, a diffonderne i semi. Una
sorta di “simbiosi tra giganti”. Dove ormai gli elefanti sono conosciuti solo in fotografia, i loro
antichi tragitti sono ancora riconoscibili perché segnati da una scia di baobab, piante sacre, nel
tronco cavo si seppelliscono i griots. Il griot è il cantore dell’Africa nera, che ricorda e celebra i
fasti e le tragedie; quando conclude la propria vita, viene sepolto all’interno del grande albero sacro.
Ogni anno l’albero si anima, per una sola notte, sotto la luna piena. Si copre di fiori bianchi ed è
popolato, dagli spiriti degli antenati e della natura, da tutti gli uccelli e gli animaletti del mondo dei
vivi. È il sabba d’una notte, che vede partecipare Bakary, la Signora delle Acque e la luna e si
svolge senza testimoni. L’indomani un albero spoglio si ergerà al centro del campo allagato e
tenderà al cielo i suoi rami, come moncherini privi di mani. Pochi fiori bianchi, dischiusi, appassiti
e caduti nel breve tempo d’una notte, galleggeranno sulle acque come barchette di carta. Qualcuno
troverà sul bordo della risaia un amuleto, un grisgris di cuoio, ornato da una conchiglia di spiagge
lontane. L’albero dal tronco cavo, uscito dal passato, da un’altra terra e da un’altra luna, accoglierà
il griot, il poeta venuto da lontano.
21 – ROSE, RAGAZZA DELLA NOTTE
Una sera, sul treno da Torino verso Voghera, fra gli studenti che ritornavano dall’Università, mi
trovo seduto accanto a Rose. Ha venticinque anni, è una Ibo ed è nata nel Biafra. Rose è cittadina
della Nigeria. I suoi documenti recano una fotografia che le somiglia, ma un altro nome.
La ragazza deve proteggersi dalle nostre leggi, è un’immigrata clandestina. Abita nei pressi della
stazione di Porta Nuova, in un quartiere popolato da immigrati e da ogni genere di delinquenti. Tutti
i giorni si alza dopo mezzogiorno, nella misera stanza che condivide con altre tre ragazze. Scende
nelle vie della ‘Casbah torinese’ a mangiare qualcosa e a cercare qualche cliente occasionale. Usa le
poche ore libere per chiacchierare con le sue compagne, in attesa della partenza del pomeriggio.
Verso le sei di sera, i treni che partono verso Piacenza caricano decine, centinaia di ragazze
come Rose, venute a Torino dalla Nigeria, dal Ghana e da altri Paesi della Costa di Guinea, a
cercare un po’ di lavoro, nella speranza di una vita migliore. Vanno a vendere il loro corpo, nei
paesi e nelle città lungo la via Emilia, accompagnate da giovani nordafricani che le scortano e le
controllano, sotto la ‘protezione’ d’un apparato mafioso che le sfrutta. Alla stessa ora altri treni,
anch’essi carichi di ragazze, partono da Genova, da Milano. Tutti s’incrociano a Voghera, come
nastri di seta, di luci e di profumi esotici che si annodano nella notte.
Le ragazze rischiano la salute per un misero guadagno, per risparmiare qualcosa che possa
garantire loro un futuro, ma la gran parte dei loro incassi va nelle tasche dell’apparato che le sfrutta.
Qualcuna si gioca anche la vita, come quelle due amiche di Rose che sono state uccise e bruciate, di
notte, sulla strada, nell’ultimo anno.
Rose mi parla della sua vita nel villaggio in mezzo alle lagune, nel gran delta del fiume, dove ha
trascorso la propria infanzia, ben lontano dalle nebbie di Stradella e di Castelsangiovanni. La vita
della famiglia di contadini e pescatori. I giochi di bambina, la capanna della madre con l’altare degli
antenati, i riti d’iniziazione. Non si può ricordare dell’atroce guerra che ha opposto il suo popolo al
governo nigeriano, tanti anni fa: lei non era ancora nata. Aveva quattordici anni quando conobbe la
città: la grande città di Lagos, dove ha cominciato a prostituirsi, ancora ragazzina. Ricorda la strada,
la fame, i missionari. Aveva poche possibilità di far fortuna, anzi una sola: quella che
inevitabilmente ha scelto.
Le ragazze sono salite sul treno in ciabatte, struccate. Mentre chiacchierano, si truccano e si
preparano per il lavoro. à un trucco pesante, su un fondotinta grigio, quasi da cadavere, che attenua
la lucentezza quasi cerca del loro volto. Con fare quasi indifferente, mentre mi parla, Rose accavalla
una gamba sulle mie e comincia a giocare con la cerniera dei miei pantaloni. La lascio fare: non
sono un cliente e voglio vedere sino a che punto si spingerà... la ragazza prosegue, senza esitazioni,
come se ci conoscessimo da sempre. Intanto mi parla di nottate gelide e di clienti squallidi, nel suo
gergo un po’ pidgin english. Mi parla di mafia e di giri di droga, che costituiscono la sua realtà di
tutti i giorni. Così, con semplicità, si chiede perché tutti sanno e tutti fingono di non sapere, come se
le delinquenti fossero loro, le povere immigrate che non hanno scelta, che devono rinunciare
persino al proprio nome per rischiare la vita ogni notte sui bordi della statale Emilia. Le ragazze
intorno a noi ridono, un po’ sguaiate, parlano tra loro una lingua che non capisco. Intuisco che
commentano la nostra conversazione.
Rose abita in una squallida stanza, vicino alla stazione di Torino, e strade buie, nella notte
limpida con la nebbia con la pioggia col gelo, con tanti fari che passano nella notte e a volte si
fermano. Tanti angoli freddi di campagna e tanti clienti. Chissà che anagrafe potrebbe tenere, se
organizzasse un archivio... eppure, Rose non è particolarmente bella né seducente. Non è una di
quelle ragazze eritree e somale che riempivano i sogni dei nostri nonni e dei nostri padri, quando
partivano per l’Africa lontana. Lei e le sue amiche si sono specializzate ad animare le notti della
grande strada, ma non rimangono nei sogni di nessuno. lì loro sogno, poi, sarebbe quello di poter
ritornare un giorno laggiù, sulle rive dell’Oceano, a guardare la spiaggia e le onde di risacca, oltre le
quali, un giorno, apparivano le navi negriere. Navi che arrivavano e ripartivano, cariche della sua
gente. Oggi come allora, la gente parte senza ritorno.
La stazione di Voghera è vicina, mi preparo a scendere. Le ragazze nigeriane hanno quasi finito
di truccarsi. Hanno messo in borsa le ciabatte e indossato le scarpe con tacchi esagerati. La mano e
la gamba di Rose si ritirano e mi lasciano. Il suo racconto mi ha riempito di tristezza. Non l’ho più
rivista. Ho visto però altre decine di Rose, sui treni, agli incroci, nelle foto sui giornali. Oggetti,
‘problemi sociali’, casi di cronaca. Per una volta, ne ho conosciuta una come ragazza.
Rose si avvia per la sua strada, io per la mia. La mia auto è parcheggiata poco lontano, a casa mi
aspetta la cena con la mia famiglia. Domani forse leggerò sul giornale d’una lite, d’un delitto che si
è svolto lungo la strada statale, forse di un’anonima ragazza nigeriana – un’altra, tra le tante – che è
rimasta vittima di qualche occasionale ‘cliente’.
22 – LA LUNA ROSSA
Gli arabi la chiamano alqamar alahmar: la luna rossa.
Quando il vento solleva la sabbia del deserto sino ad oscurare le sommità dell’atmosfera, la luce
della luna piena può diventare rossa come il sangue. È impressionante la vista del globo
incandescente che si leva enorme dall’orizzonte orientale, mentre il sole cala nella direzione
opposta. Un fenomeno che noi, scettici uomini moderni, cerchiamo di spiegare razionalmente, ma
che ha sempre costituito per i marinai un presagio di sventura. Dicono che con la luna rossa
accadano strane cose, che si possano addirittura creare ponti di comunicazione con altri mondi.
In quelle notti tutto può accadere. Navi cariche di uomini, pur dotate di raffinati strumenti,
perdono la rotta, mentre antichi vascelli, con ciurme di fantasmi, prendono nuovamente corpo
attraverso le nebbie del tempo. I vecchi raccontano la storia di quella feluca carica d’uomini, con gli
stendardi della mezzaluna, che fu vista entrare in una notte di luna rossa nel porto di Messina:
scivolava lieve sull’acqua, circondata da una coltre di foschia, come un fantasma d’altri tempi.
Attraversò l’imboccatura del porto a vele spiegate: vele nere come la pece. Virò all’interno della
gran falce sabbiosa che protegge il bacino interno e si diresse verso le banchine. L’imbarcazione
puntava sui moli a gran velocità, sembrava non volersi fermare; ma si dissolse nella foschia e negli
spruzzi, con tutto il proprio equipaggio, pochi istanti prima di toccare terra. Dopo molti anni, i
passanti distoglievano ancora gli occhi con timore da una gran macchia nera, rimasta impressa sul
molo, e si facevano il segno della croce, biascicando qualcosa tra i denti.
Una notte di luna rossa mi trovavo su una nave greca, da qualche parte nel Canale di Sicilia, a
sud-est di Malta. Era un piccolo scafo di pescatori, che viaggiava per lo più a vela. Aveva solo un
vecchio motore che non consentiva una grande autonomia, ma serviva solamente per le manovre
d’attracco o d’uscita dai porti.
Quella notte il mare era calmo, quasi piatto, coperto da una foschia irreale. Il vento di sabbia
proveniente dalla Sirte s’era trasformato in uno scirocco asfissiante e riempiva i polmoni e l’aria
d’un pulviscolo impalpabile, rossiccio, dall’acre sentore d’ammoniaca. Tra quelle nubi da palude
dello Stige stentava a levarsi una luna piena, con la forma d’un enorme globo rosso, leggermente
schiacciato. I marinai videro nettamente l’ombra d’una grande ala nera, come d’un drago, che
passava ad oscurarla per un momento. E fu tutto… o quasi. Le bussole della nave impazzirono. Non
si vedevano stelle, nella foschia rossiccia che copriva il cielo, e la nave rimase come perduta in una
nebbia senza tempo.
Quale non fu la sorpresa, al sorgere del sole, nell’accorgerci che ci trovavamo all’imbocco d’una
baia, dominato sulla destra da una maestosa rocca; a sinistra, come una visione di fiaba, appariva
una città dominata da una collina, meno alta della rocca prospiciente. La città si sviluppava su una
serie di giri concentrici e culminava in un maestoso edificio, coperto da una cupola di smeraldo. Le
sue mura scintillavano ai raggi del sole nascente, come coperte di metallo, di bagliori d’argento,
d’oro e di fuoco.
Vedevamo altre navi immobili all’ancora nella rada, ma nessuna traccia d’attività umana. Era
come se tutti dormissero, o si fossero trasferiti altrove. Non una voce, non un suono, né un filo di
fumo s’alzava dai tetti della città fantasma. Istintivamente, qualcuno dei marinai si fece il segno
della croce e borbottò scongiuri tra i denti stretti. Per tutta risposta, un bronzo cominciò a tintinnare,
da qualche parte, ritmicamente, come una sinistra campana che battesse a morto…
La nave non riusciva ad entrare in porto: il timoniere regolava il timone, gli uomini
manovravano le vele, ma era come se una forza invisibile ci respingesse ogni volta, sulla bocca
della rada. In quella zona di mare le correnti, forti come fiumi in piena, trascinano le navi per sei ore
verso oriente e per altre sei nel verso opposto, ma la nostra nave non si spostava. Sembrava che una
volontà soprannaturale ci trattenesse immobili. Si tentò persino d’avviare il debole motore, benché
potesse essere di scarso aiuto (perché sapevamo d’essere in alto mare, nonostante la visione). Nulla:
non si avviò neppure. Le apparecchiature di bordo erano morte: la radio di bordo, i telefoni, gli altri
strumenti di navigazione.
Tutto il giorno durò il tentativo. Il sole salì alto nel cielo ed ebbe il tempo di calare, tra la rossa
foschia dello scirocco mescolato col simùn del deserto. Si distinguevano bene i tetti e le mura della
città misteriosa, che mutavano lentamente tonalità e riflessi abbaglianti sotto il sole, ma non vi
appariva anima viva. Avevo con me una macchina fotografica e pensai bene di riprendere qualche
inquadratura della misteriosa città, con gli effetti cangianti di luce. Poiché – però – la nave
rimaneva immobile, ben presto le riprese fotografiche divennero ripetitive. Decisi d’ingannare il
tempo calando una lenza in mare e illudendomi di pescare, mentre riflettevo su tutto e sul nulla
della vita. Preferivo isolarmi, per non confrontare il mio nervosismo e alimentarlo con quello degli
uomini dell’equipaggio.
Ci sentivamo come sospesi nel tempo e nello spazio, avevamo la sensazione che la vita di tutti
gli altri uomini del mondo proseguisse indisturbata, mentre noi rimanevamo paralizzati in quel
braccio di mare. Non mezz’ora, né mezza giornata: sembrava che un’eternità s’interponesse tra la
nave e la sua meta. Mi vedevo, come Odisseo, impegnato nell’impari lotta contro un’oscura
volontà. Mi aspettavo di sentire il canto delle sirene: l’avrei preferito a quella calma spettrale.
Era come se il miraggio silenzioso fosse uscito dai recessi del nostro inconscio: sogni di marinai,
o di gente che ha studiato. Un’isola galleggiante su abissi profondi. Un’Atlantide dai tetti
d’oricalco, in cui ciascuno di noi potesse sognare una regina bellissima, esclusiva e crudele, che
attendeva soltanto lui. Il silenzio innaturale sembrava preludere ad un tremendo agguato. La calma
superficiale non placava la tensione, perché eravamo coscienti di trovarci in una delle zone più
infide e pericolose del Mediterraneo, sia per i mutamenti meteorologici, talvolta repentini, sia per la
frequentazione dei nostri simili, non sempre raccomandabili.
La nostra stessa nave sembrava trasformata in un vascello fantasma. Solo pochi uomini
dell’equipaggio giravano in coperta, con un atteggiamento furtivo, di finta indifferenza. Ero certo
che il capitano, col personale più fidato, si fosse armato, preparato ad ogni evenienza. Nulla
interveniva a spezzare il silenzio: uno squillo di tromba, il cinguettio d’un passero o un’esplosione,
che ci risvegliassero dall’incubo angoscioso… Eravamo avvolti in quella bonaccia ovattata e
lattiginosa, che trasformava in acque di palude uno dei bracci di mare più insidiosi del mondo.
Un giovane marinaio, incapace di rimanere inattivo, volle tuffarsi in acqua. Cercai di trattenerlo.
I sensi dicevano che l’acqua era calma, che c’erano un porto ed una città, ma la ragione continuava
a ripetere: no. Al contrario, eravamo in balia d’un mare sempre instabile, su fondali profondi
centinaia di metri. Se il miraggio si fosse dissolto e se il vento si fosse levato improvviso, come è
solito fare da quelle parti, il recupero del giovane sarebbe stato difficile. Altri marinai cercarono di
fermare il loro compagno, nel dubbio che potesse esserci un pericolo nascosto…ma fu invano.
Nulla da fare, il ragazzo si tuffò. S’immerse in una sorta di nebbia evanescente, come se uno
sbuffo di vapore l’avesse avvolto, e scomparve alla nostra vista. Credevamo d’averlo perso. Invece
ritornò, ma soltanto dopo diverse ore, stanco e stordito. Appariva innaturalmente invecchiato. I suoi
occhi sbarrati avevano visto eventi troppo forti. Da quel momento ha raccontato cose strane: dicono
che non abbia più avuto la testa a posto.
Il sole non si vedeva più, nascosto dalla foschia, e la luminosità andava scemando. Le ombre
s’infittivano tra la bruma che saliva ed il paesaggio intorno si offuscava, come se la città scintillante
volesse spegnersi e ritirarsi lontana da noi… senza che l’avessimo mai potuta raggiungere o toccare.
Si stava approssimando il tramonto, quando una folata più densa nascose ogni cosa allo sguardo.
Un’intensa raffica di vento, carico di sabbia pungente, che durò circa mezz’ora. La sabbia turbinava
nei capelli, tra le sartie ed il fasciame delle scialuppe, mentre l’oscurità calava rapida, come pece di
calafato spalmata nell’aria densa. Mi ritirai in gran fretta sotto coperta, con tutte le mie cose.
Durante la notte, finalmente, il tempo si schiarì. A distesa d’occhio, sotto il chiaro d’una luna
ritornata d’argento, nessuna terra colpiva lo sguardo. L’acqua era calma e cupa e la corrente ci
trascinava. Solo onde e torme di gabbiani, in cerca di cibo. Le code d’una famiglia di delfini – o
forse di sirene? – sembravano sventolare fuor d’acqua, come per salutare. Gli strumenti di bordo
erano ritornati in funzione.
La mattina seguente, la nave approdò in un piccolo porto della costa tunisina. Scendemmo a terra
e ben presto la nostra avventura entrò a far parte delle leggende locali. Cercammo d’individuare la
posizione in cui la nostra imbarcazione era rimasta bloccata, durante quella lunga giornata. Non
eravamo però in grado d’identificare con precisione il luogo del misterioso evento, vista la lunga
paralisi subita dagli strumenti di bordo.
Allora scoprii con stupore che in quella zona di mare esiste un bassofondo, chiamato dai
pescatori del Canale ‘banco Medina’, con un termine che in arabo significa ‘città’. Nessuno sapeva
spiegarmene la ragione. Forse – dicevano i vecchi del paese – qualche barca di pescatori aveva rotto
le reti, in passato, proprio in quella posizione, ed aveva ripescato qualche oggetto: frammenti di
marmo, oggetti metallici. Perciò il nome di ‘città’ era stato dato da oltre cent’anni a quel
bassofondo misterioso. Nonostante tutti i miei sforzi, non riuscii a rintracciare nessun oggetto
ripescato dal mare. Inoltre non c’era memoria di visioni, né di fantasmi di città emersi dalle onde.
La chiglia della nostra nave appariva striata da lunghi e profondi graffi, come se gli artigli d’un
essere gigantesco avessero cercato di trattenerla. Il giovane che si era tuffato in acqua, ed era
tornato con gli occhi sbarrati per sempre verso un vuoto lontano, continuava a ripetere frasi
smozzicate. Era vittima d’incubi notturni, sembrava che continuasse ad assistere ad un immane
cataclisma, con uomini, donne e bambini che, sotto i suoi occhi, soccombevano vittime d’una strage
superiore ad ogni comprensione umana. Dopo breve tempo, i suoi capelli divennero tutti bianchi.
Non riuscivo a spiegarmi se l’intero equipaggio fosse stato vittima di un’allucinazione collettiva,
o se la notte della luna rossa avesse veramente creato le condizioni favorevoli per un ‘ponte’ tra due
mondi, ed avesse fatto riemergere dagli abissi una città che – chissà quante migliaia d’anni fa –
poteva essere rimasta sommersa in quel luogo. Lì o altrove – chi sa dirlo? – la memoria collettiva
dei marinai, che nei secoli hanno percorso i mari, può dar corpo ai fantasmi, agli incubi, alle paure,
ma anche ai sogni più meravigliosi che abbiano ossessionato la vita dell’uomo.
Nel primo pomeriggio fui colto da un profondo sonno. Non dormivo da oltre quaranta ore e mi
risvegliai l’indomani, a mattinata ben inoltrata. Avevo sudato e mi ero agitato, mi rimaneva ancora
la testa ben pesante e uno strano sogno, o piuttosto un lungo e contorto incubo, mi turbinava nella
memoria. Mi riappariva, per qualche istante, la visione della città misteriosa. Non era più una città
fantasma, era diventata piena di vita. Mercanti, donne, bambini si muovevano chiassosi per le
strade. L’animazione più frenetica sembrava volersi prendere la rivincita sulla pausa d’immobilità,
che la città aveva manifestato il giorno precedente. Mi muovevo in sogno per le vie, pienamente a
mio agio, come se quell’ambiente mi fosse familiare, anzi come se fosse stato la mia culla naturale.
Poi la visione si offuscava e tutto tremava, sotto l’urto improvviso d’un terremoto. Diverse scosse,
lunghissime, terribili, che sembravano rompere in pezzi l’intero globo terrestre. Una pausa, un
lungo silenzio innaturale, come il ‘fermo–immagine’ d’un film… e subito un cupo rombo
minaccioso scendeva dalla montagna. La valle verde di messi e di vegetazione, percorsa dal fiume
che aveva dato vita alla città ed alle sue terre, si stava trasformando in un’immane cascata di terra e
fango. In una lunga ora di panico, l’intera città comprese che non v’era salvezza. Non verso la terra,
che andava scomparendo sotto quella marea di sporca fanghiglia. Non verso il mare, già percosso
da lunghe ondate di maremoto, che avevano creato scompiglio nella flotta. La catastrofe era
inevitabile. Nel mio incubo ne rivissi tutto il dramma, come se una memoria ancestrale stesse
riemergendo dalle nebbie del tempo, dopo migliaia di generazioni.
Era come se un vortice mi roteasse intorno e cercasse di trascinarmi, anche quando mi alzai e
cercai di ritornare agli affari quotidiani: mi sentivo travolto da un turbine d’acqua, di vento, di
schiume fangose. Alla calma innaturale, all’inattività forzata del giorno prima, era subentrato nella
mia mente un parossismo di movimento, di torsione. Come un uragano, o piuttosto un gorgo che mi
abbracciasse, per trascinarmi nelle nere profondità. Mi sentivo instabile e percepivo come un
richiamo ancestrale, una viva presenza che mi spingesse a chiudere gli occhi, per ritrovare le
sensazioni, le immagini, i rumori e le voci del sogno. Per quanto quelle esperienze fossero state
angosciose, mi animava il bisogno di riviverle; ma non riuscivo a richiamare il filo conduttore.
Mantenevo soltanto la vaga sensazione di presenze, di fantasmi intorno a me, che mi accoglievano e
mi suggerivano memorie, sensazioni, moniti. Dal buio dell’orrore si distaccava e si ripeteva
incalzante, angoscioso, il singhiozzo d’un bambino.
Nelle mie fotografie di quella lunga giornata di bonaccia, quando le feci sviluppare, non appariva
null’altro che una vuota, piatta distesa di mare. Nessuna traccia del porto, dell’isola, della rada
misteriosa, né dei tetti della misteriosa città.
Sono passati molti anni. Altre volte ho visto strani fenomeni, nel cielo e all’orizzonte. Mi è
capitato di vedere altre notti di ‘luna rossa’. L’esperienza di quel viaggio, però, è rimasta unica. Mai
più mi sono sentito direttamente coinvolto, come ‘protagonista’, in un fenomeno inspiegabile.
Ogni volta che il pensiero ritorna all’immagine di quella città, rivivo il senso di totale impotenza
di quella giornata. Era come se sotto i tetti, dietro le facciate di quelle case deserte ci spiassero
schiere di fantasmi, come se là si celasse la grande rivelazione, che avrebbe potuto cambiare tutta la
mia vita – o forse i destini del mondo intero. Un’occasione perduta… o rimandata? Quando ci
ripenso, ‘sento’ che dovrà ancora capitarmi. Percepisco l’esperienza di quel giorno, sul Canale di
Sicilia, come un’oscura premonizione.
Conservo ancora i due robusti ami, con cui pescavo, per cercare d’ingannare il tempo, in quel
giorno di bonaccia. Secondo le carte ci dovevamo trovare su un fondale di quasi duecento metri, ma
io vedevo il canale d’imbocco del misterioso porto. Quel giorno, il primo amo rimase impigliato.
Riuscii a recuperarlo con grandi sforzi: si era deformato. Pensai che si fosse agganciato a qualche
relitto sommerso. Lo cambiai. Il secondo riemerse con una sorpresa. Se mai verrete a casa mia, vi
mostrerò il giocattolo d’un bambino d’Atlantide: un bronzetto dorato, che raffigura un carro da
guerra o da caccia, con le ruote mobili ed una catenella per trascinarlo. L’auriga leva alta una frusta.
Una misteriosa iscrizione corre lungo tutte le sponde del carro. Nessuno è mai riuscito a decifrarla
ma, ogni volta che la tocco, mi sembra che desideri raccontarmi una storia triste e remota. Una
storia tanto angosciante, che le semplici parole non saprebbero narrarla.
Su quel piccolo oggetto è rimasta incrostata la proiezione della tragedia d’un popolo privo
d’eredi, un intero popolo sepolto negli abissi, sotto una spessa coltre d’acqua e di fango. Nessuno li
ricorderà, perché le loro memorie sono scomparse per sempre, travolte da un’ondata di dimensioni
bibliche. Era l’epoca in cui Mosé attraversò il mare col suo popolo. Nello stesso tempo laggiù, nella
Piccola Sirte, a duemilacinquecento chilometri di distanza in direzione del tramonto, una serie di
terremoti fece incrinare alcuni sbarramenti rocciosi che contenevano le acque. Un enorme bacino
idrico si svuotò su un popolo di sventurati e trascinò negli abissi una civiltà millenaria, che era
sopravvissuta al deserto, aveva saputo prevalere sui popoli circostanti ed aveva saputo imporre la
propria supremazia sui mari.
Gli eredi di coloro che avevano eretto tumuli nel cuore dell’Africa, quando le terre – un tempo
fertili – erano state conquistate dal deserto, si erano stabiliti in una pianura fertilissima, circondata
dai mari più belli del mondo. Avevano eretto grandi monumenti di pietra, ricoperti di metalli
preziosi; avevano costruito grandi navi e creato un impero, esteso al di là dei mari. La loro capitale,
su un’isola, dominava l’imbocco della baia più bella del mondo. Ancora una volta, però, la natura si
accanì contro di loro. Questa volta furono proprio i mari, quei mari che avevano contribuito a creare
la loro fortuna: l’uno li travolse, l’altro li seppellì per sempre. Le acque si erano richiuse sulla
profonda tomba di quel bambino che giocava col carrettino di bronzo, e di tutta la sua gente. Non
avrebbero più avuto eredi che cantassero la loro memoria. Le loro tracce misteriose sarebbero
rimaste mute, per gli archeologi che le interrogavano.
Il mare dà la vita, il mare la porta via; il mare crea e distrugge, da sempre. Il mare, in certe
circostanze, è capace anche del miracolo di creare un ponte attraverso il tempo, per portare a noi
brandelli di conoscenze del passato. Solo il mare e la terra, i grembi primordiali della vita, riescono
a realizzare tale miracolo, come nessun archivio artificiale potrà mai compiere.
Il mare, la terra… o la luna rossa?
BIBLIOGRAFIA (in ordine cronologico)
Waraba, ed. EMI, Pavia, 1988.
Il Santo del prosciutto, “Pavia Economica”, n.3, 1993.
Il miracolo di S. Sofia, “Pavia Economica”, n.3, 1995.
Anonimo Ticinese e l’ultimo templare, ed. Liutprand, Pavia, 1996.
La Maledizione di San Siro, ed. Liutprand, Pavia, 1999.
Il Tesoro dell’Antipapa, nei sotterranei segreti della Certosa di Pavia, ed. Liutprand, Pavia, 2003.
I racconti del Prione, Selezione 2003, ed. Giacché, La Spezia, 2003.
I racconti del Prione, Selezione 2004, ed. Giacché, La Spezia, 2004.
Club des Poètes, Premio di Poesia e Narrativa “Rivoli 2005”, Poesie e racconti premiati, Rivoli,
2005.
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