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CHIARA Ogni anno nel periodo natalizio penso a

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CHIARA Ogni anno nel periodo natalizio penso a
CHIARA
Ogni anno nel periodo natalizio penso a Chiara.
Mentre preparo i pacchetti dei regali e respiro la serena atmosfera
dell’attesa, penso che il suo calvario è iniziato un Natale mattina,
quando improvvisamente non é riuscita ad alzarsi dal letto.
Proprio nella mattina più magica, mentre i bambini si preparavano ad
aprire i regali, il malessere che avvertiva da qualche tempo si era
manifestato in un quadro chiaro e drammatico, emerso con il ricovero
urgente in ospedale: era sclerosi multipla.
L’abbiamo saputo da lei, noi amiche dell’associazione, all’inizio
dell’anno nuovo, quando è stata dimessa dall’ospedale e ci ha inviato
una e-mail: un breve messaggio, asciutto, con la cronaca
dell’accaduto, la spiegazione della diagnosi e della probabile cura. E
mentre noi maledivamo il destino che colpiva ancora negli affetti i
suoi figli adottivi, lei pubblicava sul giornale della sua parrocchia una
testimonianza commovente, una pagina in cui affrontava la malattia
come una nuova fase della sua vita, di cui non capiva ancora il
significato ma che avrebbe accettato con fede. Citava la bellissima
storia delle orme sulla sabbia, dell’uomo che per tutta la vita vede
sulla sabbia le orme di due persone, le sue e quelle di Dio che
l’accompagna; poi nei momenti più bui vede solo un’orma e pensa
che Dio l’abbia abbandonato proprio nel bisogno, ma Dio gli risponde
che quelle orme sono le sue, che ha preso l’uomo in braccio con sé.
Per quanto conoscevo di Chiara, questa testimonianza era l’immagine
fedele del suo carattere, del suo coraggio e della determinazione con
cui affrontava la vita.
Avevo incontrato Chiara cinque anni prima per un’esperienza
comune, quella dell’adozione internazionale. I suoi figli erano di
origine boliviana, le mie provenivano dal Brasile e dalla Romania.
Facevamo volontariato nella stessa onlus, un’associazione fondata da
genitori adottivi e dedicata ad aiutare altri genitori, neo-mamme e neopapà alle prese con i problemi dell’adozione, e così siamo diventate
amiche.
La nostra associazione era nata per integrare il lavoro delle strutture
socio-sanitarie nei confronti delle famiglie adottive: quando terminava
il periodo di affidamento pre-adottivo, infatti, con esso si completava
anche l’assistenza socio-sanitaria prevista per legge. Dopo, a meno
che le famiglie non lo chiedessero esplicitamente, non veniva più
fornito alcun supporto psicologico da parte delle strutture pubbliche.
Ma sebbene fosse normale incontrare difficoltà nell’accoglienza dei
figli in famiglia, raramente i genitori chiedevano un ulteriore aiuto,
per un misto di pudore e paura di essere giudicati. I giornali e la TV
presentavano l’adozione come una favola a lieto fine, l’immagine del
bambino che aspetta trepidante e si inserisce naturalmente nella sua
nuova famiglia, senza alcun problema. Di fronte a questo falso mito, i
neo-genitori si sentivano inadeguati e percepivano le loro difficoltà
come la prova di un fallimento.
Noi sapevamo che è inevitabile che un bambino privato degli affetti in
tenera età, o addirittura maltrattato per anni, manifesti paure,
resistenze e difficoltà di adattamento, pur con tutto l’amore dei suoi
nuovi genitori. Poiché è stato abbandonato, deve riacquistare fiducia
negli adulti prima di accettarli di nuovo, e questo non è un percorso né
semplice né veloce, richiede molta pazienza, serenità ed equilibrio.
Invece molti genitori lo vivevano con ansia, alcuni temevano perfino
che ammettere il bisogno di aiuto psicologico potesse causare un
intervento dell’autorità pubblica, l’allontanamento del bambino dalla
sua nuova famiglia.
Uno dei compiti della nostra associazione era perciò quello di fornire
un aiuto “da genitore a genitore”, attraverso colloqui e condivisione di
esperienze. Chi ci era già passato dimostrava ai nuovi che molti
problemi si superavano col tempo, con la costanza e l’amore per i
figli. Si davano loro consigli, o semplicemente li si ascoltava senza
giudicare, ciò di cui i genitori in crisi sentivano maggiormente il
bisogno.
In questo Chiara era molto brava: tenacemente ottimista, con un
passato da capo scout e molta determinazione, trasmetteva fiducia e
positività. Aveva sempre la battuta pronta, raccontava la propria
esperienza con umorismo, perché sorridere alleggerisce il peso della
vita. Il suo rapporto con i genitori si trasformava pian piano in
amicizia, ed era naturale che, una volta superati i momenti più critici,
si inserissero nel nostro gruppo prendendosi carico dei nuovi arrivati.
Tutti noi genitori adottivi ci scontravamo, prima o poi, con i luoghi
comuni sull’adozione, generalmente vista come surrogato della “sola e
vera maternità”, quella biologica, o come opera di carità verso i
bisognosi. Per strada incontravamo persone falsamente cortesi, che ci
compativano perché non potevamo avere figli “nostri”, e per questo
eravamo andati, come missionari, nei Paesi del terzo mondo a
“prendere il bambino”. Noi cercavamo di spiegare che l’adozione è
una scelta, una forma di genitorialità esattamente come quella
biologica, che i genitori ricevono dai figli tanto quanto danno se non
di più, che i figli nati in altri Paesi portano con sé una ricchezza
culturale e sociale che è un regalo per i neo-genitori.
Ma gli stereotipi erano duri a morire.
Così, Chiara aveva proposto di creare, sul sito web della nostra
associazione, una pagina in cui raccogliere le frasi più stupide e
ignoranti che ci era capitato di sentire. Un po’ per consolarci, un po’
per spingere i cosiddetti
granitiche convinzioni.
“benpensanti” a riflettere sulle loro
Le aveva dato il titolo di “StupiDiario”, e la pagina si era presto
popolata di aneddoti curiosi ma purtroppo veri, come le domande “ma
hai fatto l’adozione per non provare i dolori del parto?”, “quanto ti è
costato il bambino?”, o l’affermazione di una educatrice di scuola
materna, che spiegava alla mamma di un bambino nato in America
Latina che “suo figlio è un po’ lento e pigro, del resto è tipico della
sua razza!” Chiara si arrabbiava di fronte a queste vere e proprie
dimostrazioni di razzismo, tanto più gravi perché provenienti da
un’educatrice. Lei, innamorata del suo lavoro di insegnante nelle
medie superiori, attenta ai disagi degli adolescenti, si stupiva
dell’ottusità di certe maestre che avevano in mano il cuore e la
sensibilità dei più piccoli.
Per questo, un altro scopo della nostra associazione a cui tutti noi
tenevamo particolarmente era proprio la lotta ai pregiudizi razziali, e
lo sviluppo di una cultura multietnica in Italia. I nostri figli
provenivano per lo più da Paesi considerati come “terzo mondo”, con
un’accezione dispregiativa del termine, e subivano le conseguenze dei
pregiudizi verso il loro Paese di nascita. Spesso a scuola vivevano
episodi di emarginazione a sfondo razzista, sia dai coetanei che dagli
adulti, e ne ricavavano senso di inferiorità e crisi di identità. Noi
volevamo invece che fossero fieri delle loro origini, e che per il loro
tramite anche i loro coetanei scoprissero culture e tradizioni diverse.
Come aveva detto una volta un’amica di origine argentina, i nostri
figli arrivavano in Italia “con le loro radici in mano, cercando un
luogo dove piantarle”: portavano con sé la loro storia e toccava a noi
aiutarli a non dimenticarla, a crescere mantenendo le due radici.
Anche quando erano stati adottati troppo piccoli perché potessero
ricordare qualcosa della loro nazione, ne portavano addosso la
matrice, sulla pelle e nei tratti somatici. Rispettare il loro Paese di
nascita, insegnare loro quale era la sua bellezza, serviva non solo a
farlo conoscere in Italia, ma anche a dare dignità alle loro origini e a
loro stessi.
Chiara era laureata in lingue, aveva studiato anche all’estero, aveva
una mentalità molto aperta e una curiosità intellettuale inesauribile.
Leggeva molto e trovava sempre qualche nuovo spunto di riflessione,
qualche idea che potesse aiutare la nostra causa.
La nostra battaglia contro il razzismo si era sviluppata in tante
direzioni. Avevamo trovato, con l’aiuto di un’animatrice culturale
latino-americana, fiabe e leggende di Paesi diversi, e per alcune
avevamo prodotto un allestimento teatrale portando gli spettacoli nelle
scuole.
Per i bambini che frequentavano gli incontri dell’associazione,
avevamo inventato una serie di viaggi immaginari nel mondo: ogni
volta sceglievamo un Paese da visitare, e invitavamo persone di quel
Paese che ci raccontavano storie, insegnavano canti e danze,
portavano cibi tipici, come se fossimo davvero arrivati sul posto. A
questi “viaggi” partecipavano anche gli amici dei nostri figli che così
conoscevano un poco di altri mondi in cui magari non si sarebbero
mai recati.
Con l’insorgere della malattia che la colpì soprattutto alle gambe,
Chiara aveva iniziato a camminare con le stampelle, ma ben presto si
è trovata sulla sedia a rotelle. Si era trasferita con la famiglia in una
casa più adatta alle sue esigenze, in modo che ci si potesse muovere
senza problemi. Ma il viaggio in auto per venire ai nostri incontri era
complicato e faticoso, e così incominciò a diradarli.
Non smise però di essere presente e attiva nell’associazione.
Non riusciva più a camminare? Sarebbe andata ugualmente per il
mondo, ma via Rete. Divenne il nostro punto di riferimento su
Internet. Cercava nuovi siti web sull’adozione e la genitorialità con
cui scambiare opinioni e tenersi in contatto; scriveva articoli per il
nostro notiziario online, raccoglieva documenti sui Paesi di origine dei
nostri figli. Era diventata il blogger della nostra associazione, e
partecipava ad altri forum che trattavano di adozione e genitori
condividendo le nostre idee e le attività del gruppo. Organizzava da
casa le feste dell’associazione, come quando cercammo insieme la
parola “pace” in tantissime lingue, per stamparla come palloncini da
appendere all’albero alla Festa di Natale.
Pur avendo lasciato il lavoro, non smetteva di essere una insegnante.
Navigando su Internet si era imbattuta in un’associazione canadese di
genitori che aveva prodotto un documento interessante, destinato alle
scuole e specialmente agli insegnanti. Nel documento si osservava che
i programmi scolastici erano ancora basati su un modello tradizionale
di famiglia (un padre, una madre, i figli), mentre le famiglie degli
studenti erano sempre più variegate: c’erano bambini con più di una
mamma e di un papà perché i genitori, separati, avevano costituito
nuove famiglie; c’erano i figli di immigrati in cui il padre lavorava
lontano e i figli vivevano con la nonna; c’erano i figli adottivi che non
avevano mai conosciuto i genitori biologici; c’erano i figli di madri o
padri single.
Di fronte a questa eterogeneità, la didattica esistente appariva
inadeguata: iniziando lo studio della storia, si chiedeva ai bambini di
disegnare il loro albero genealogico con le discendenze, di raccontare
dei loro genitori, di portare oggetti che ricordavano la loro nascita.
Molti di loro non potevano farlo per la loro situazione familiare e così
si sentivano esclusi. A questi compiti il documento proponeva
intelligenti alternative, formulate in modo da non discriminare alunni
rispetto ad altri: invece dell’albero genealogico con le discendenze, si
chiedeva di disegnare un “cespuglio” con la nuvola delle persone più
care; alle testimonianze della nascita si sostituiva la raccolta di oggetti
che ricordassero momenti belli dell’infanzia, e così via.
La stessa situazione familiare osservata in Canada ci appariva in
crescita anche in Italia, e decidemmo insieme di tradurre il documento
in italiano. Chiara si fece dare la liberatoria dagli autori, e presto
potemmo pubblicare il documento sul sito. Mentre noi prendevamo
contatti diretti con le insegnanti per diffonderlo nelle scuole, Chiara lo
divulgava sul web sollecitando opinioni e discussioni.
Internet è stata anche il mezzo per parlare della sua malattia. Finché
aveva potuto ne aveva discusso di persona, come quando aveva
dovuto abbandonare l’insegnamento e ne aveva parlato con i suoi
amati studenti. Poi aveva continuato via web. Con l’aiuto del marito
aveva cercato su internet, negli ospedali, presso le associazioni di
sostegno, informazioni sulle nuove cure. Desiderava fortemente
tornare a camminare, a ballare, e si sottoponeva alle cure più invasive
senza lamentarsi. Gli animatori di un sito dedicato alla sclerosi
multipla le avevano proposto un intervista, e lei aveva colto
l’occasione per trasmettere fiducia, per raccontare di come aveva
incontrato il male e di come lo combatteva quotidianamente.
Ammiravo in lei la forza di parlare con chiarezza della sua malattia e
dei suoi sentimenti. Era sempre molto esplicita, a volte rude; non
nascondeva nulla del suo stato né del continuo altalenare di speranza e
scoramento che provava di fronte alle poche certezze che i medici le
davano.
Periodicamente si ricoverava in ospedale per una terapia d’urto da cui
tornava sfiancata, debolissima. Per almeno due giorni non la
sentivamo, non era rintracciabile neanche sul web, ma appena aveva
recuperato le forze tornava combattiva come sempre, spiegando le
cause del suo temporaneo blackout e riprendendo i suoi discorsi
esattamente da dove li aveva lasciati.
Verso la sclerosi multipla aveva un atteggiamento di sfida: usando le
due iniziali del nome della malattia, l’aveva soprannominata la “Serpe
Malefica”, la immaginava come un nemico grande e agguerrito, come
un drago delle fiabe. La vedeva “fuori da sé” per combatterla con
maggiore determinazione. Noi pregavamo, e speravamo che il suo
ottimismo l’avrebbe aiutata a far regredire la malattia, o almeno a
fermarne la progressione. In molti casi era successo, poi Chiara era
giovane e in buona salute; a volte manifestava evidenti miglioramenti,
e allora pensavamo che avesse trovato la cura giusta per lei, la cura
che l’avrebbe riportata all’autonomia che tanto desiderava.
Per alcuni anni la sua vita si è sviluppata con questo nuovo equilibrio:
la famiglia, i figli che crescevano, l’attività su Internet, le terapie.
Finchè un giorno ho ricevuto una telefonata dal marito. Mi
comunicava, con voce piatta e incolore, una notizia terribile: Chiara
aveva un cancro al cervello, ad uno stadio ormai incurabile.
Non sapevano spiegarsi come fosse accaduto. Chiara era spesso in
ospedale, sotto controllo. Con le terapie pesanti che seguiva il suo
fisico era costantemente monitorato, possibile che nessuno se ne fosse
accorto per tempo? Forse erano state alcune cure sperimentali, forse la
sospensione di terapie che tenevano sotto controllo alcuni valori del
sangue, forse…, le ipotesi erano mille e nessuna poteva dare un
appiglio per capire, per trovare una via di cura. Ma la cura non c’era,
dai medici non era arrivata nessuna speranza.
Non riuscivo a concretizzare quella notizia nella mente; non era vera,
non era possibile. Il marito mi chiese di non parlarle perché non le era
ancora stata comunicata la diagnosi, non trovava il modo di dirglielo;
non sapeva come dirle che tutte le sue battaglie contro la sclerosi
erano inutili perché aveva davanti un nuovo nemico, mortale.
Poco dopo venne ricoverata in un ospedale, nella speranza che
qualcosa si potesse fare, e da quel momento non abbiamo avuto più
contatti. Le poche notizie che arrivavano dalla famiglia dicevano che
si tentavano terapie estreme, ma il peggioramento era velocissimo.
Finché abbiamo saputo che era stata trasferita a Brescia, in un centro
per malati terminali: interrotte tutte le cure, Chiara doveva solo
aspettare l’esito del suo male nel modo più sereno possibile.
Sono andata a trovarla. L’edificio, basso e immerso nel verde, era
nuovissimo: come ci dissero più tardi, era aperto solo da pochi mesi.
Da una porta a vetri automatica si entrava in un grande atrio lucido di
marmo chiaro; era il pomeriggio avanzato di una limpida giornata
autunnale, e la luce del sole filtrava bassa. Dalle ampie vetrate si
vedeva il giardino interno, qualche panchina, un vialetto che si
snodava intorno ad una piccola vasca d’acqua. Dall’atrio si accedeva
ad un corridoio che portava al bar e all’edicola. Al centro dell’atrio si
alzava una larga scalinata a semicerchio, da cui si saliva alle camere.
L’atmosfera era ovattata, sospesa, quasi irreale: dal bar non arrivava
nessun suono, come se tutti, parenti e anche il personale in servizio,
evitassero perfino di respirare per non muovere l’aria.
Salimmo in silenzio i gradini larghi e bassi che portavano al primo
piano. Girammo a sinistra e attraverso un piccolo corridoio arrivammo
alla sua cameretta. Si accedeva attraverso uno stretto ingresso; la
camera era piccola, color verde pallido, con qualche quadro alla parete
di cui non ricordo il soggetto. Contro la parete, un tavolino con la
sedia; su una mensola alta in un angolo, un televisore. Sembrava la
normale camera di un ospedale, ma non c’era traccia di medicine, di
flebo, di termometri, di tutte quegli oggetti che abitano un luogo di
cura.
Chiara era supina a letto, immobile, gli occhi chiusi come se dormisse,
nessuna reazione evidente. Mi sono avvicinata e ho sentito che
respirava piano, un respiro regolare ma un po’ roco, come se avesse il
raffreddore e le vie respiratorie ostruite. Ho guardato il marito, mi ha
incoraggiata “parlale, lei ti sente di sicuro anche se non sembra”. Le
ho parlato delle novità dell’associazione, dei progetti in cantiere, dei
prossimi incontri, dei nuovi arrivati, come se dovesse tornare presto.
Lei non si muoveva eppure avevo la sensazione che mi sentisse: forse
non con il corpo, ma con lo spirito, quello spirito combattivo che non
l’abbandonava mai. L’accarezzavo, le ho detto “ti voglio bene”
augurandomi che l’affetto le arrivasse direttamente, come un’onda
dolce, a farla sentire meno sola. Ho cercato di percepire qualsiasi
trasmissione di pensiero, un messaggio che mi arrivasse dentro. Non
c’era più traccia della sua energia, dell’attivismo con cui affrontava
ogni momento della sua vita. Tutto questo era rimasto dentro di lei,
ma non poteva più comunicarlo a nessuno. L’ho salutata sapendo che
era l’ultima volta.
Pochi giorni dopo ho ricevuto la notizia della sua morte. Ho provato
dolore per i suoi figli adolescenti, per il marito sfinito per aver
combattuto con lei tutte le battaglie possibili. Ma non ero triste per
Chiara: la sua fede l’aveva accompagnata sempre, e so che negli
ultimi momenti ha pensato che “il Signore la stava portando in
braccio” e a Lui si affidava, come aveva scritto sul notiziario
parrocchiale appena aveva appreso della malattia.
Provavo dolore per me, per noi amiche dell’associazione, private dei
suoi consigli, delle discussioni aperte, delle recensioni di libri e dei
commenti sugli articoli dei giornali. Ci sarebbe mancata la sua voglia
di vivere, di trovare sempre una soluzione a tutto, le sue battute
taglienti contro l’ignoranza e i pregiudizi, la sua energia.
Niente può compensare la perdita di una persona cara. Ma il suo
passaggio nella nostra vita lascia una traccia, un cambiamento, una
riflessione che in alcuni momenti della vita ci trasmette fiducia e
calore.
Come quando, spesso, ma soprattutto a Natale, penso a Chiara.
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