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Dare immagini alla manifestazione del sacro

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Dare immagini alla manifestazione del sacro
Dare immagini alla manifestazione del sacro
Quella di Pier Paolo Pasolini è una vicenda con cui, come molti scrittori, artisti,
intellettuali e studiosi, nel nostro Paese come altrove, ho continuato per anni a fare i conti.
In quanto studioso di scienze sociali, però, in solitudine e in assenza di rilevanti
sollecitazioni istituzionali; pochi, in effetti, tra gli antropologi, a quel che mi consta, sono
stati portati a riflettere su di lui. E, dunque, il dialogo con Pasolini è stato sempre, per me,
un dialogo interiore, anche se molti temi della sua riflessione erano, avrebbero dovuto
essere, in parte sono stati, materia corrente per il pensiero antropologico coevo1. L’effetto
che fa su di me, insomma, la presente occasione di riflessione, è quello di iniziare a
parlare a voce alta dopo anni di sommessa meditazione interiore.
Il mio compito è quello di contribuire a delineare, passando attraverso le immagini
(che sono oggetti della conoscenza cui ho dedicato attenzione nel corso del tempo), il
rapporto intercorrente tra l’idea pasoliniana del sacro, quale egli l’aveva e quale
l’antropologia culturale e sociale ha contribuito a individuare, e la sua produzione, in
particolare quella filmica2. Dovrò affrontare, dunque, un tema, quello del sacro, su cui ci si
1
I rapporti tra Pasolini e l’antropologia italiana, in realtà, sono ancora da approfondire, al di là di suggestioni,
prive di puntuali riscontri filologico-critici, circa una certa convergenza tematica tra il nostro autore e alcuni
studiosi di scienze sociali (convergenza che ha largamente segnato, del resto, una stagione della cultura
nazionale). Come primo, e del tutto provvisorio, avvio verso tale approfondimento ricorderò che, oltre le
sporadiche occasioni di contatto tra Ernesto de Martino e Pasolini, Alfonso Di Nola ebbe con lui qualche
frequentazione e lo intervistò in un’occasione, mentre una diffusa attenzione alle sue idee, soprattutto
all’inizio degli anni Settanta, mostrarono Luigi M. Lombardi Satriani e Mariano Meligrana. Scarsa
considerazione per l’antropologia di Pasolini ebbe Alberto Mario Cirese (interessato a questioni relative alla
letteratura italiana, con riflessioni su Giovanni Verga e Rocco Scotellaro, oltre che, naturalmente, su Antonio
Gramsci), che ebbe attenzione per la raccolta di poesia popolare effettuata dallo scrittore, avendo per altro
intrattenuto con lui, assieme al padre Eugenio, qualche scambio epistolare. In ambito demartiniano e postdemartiniano, comunque, nonostante le coincidenze di temi e di indirizzi cui prima ho fatto cenno, non vi fu
complessivamente l’eco che ci si sarebbe attesa. L’intervista inedita di Alfonso M. Di Nola a Pier Paolo
Pasolini è del 1972. Ma si vedano pure A. M. Di Nola, I mondi arcaici, in “La Stampa”, 3 gennaio 1976, e L.
M. Lombardi Satriani, Pasolini: memoria ed eresia, in “Quaderni del Mezzogiorno e delle Isole”, novembre
1975. Le lezioni ciresiane su Pasolini, tenute nel gennaio e febbraio del 1996, sono state pubblicate in T. De
Mauro, F. Ferri (a cura di), Lezioni su Pasolini, Ripatrasone, Sestante, 1997, con il titolo Il canzoniere
italiano. Pasolini studioso di poesia popolare. Una tesi di laurea, dal titolo Pasolini e de Martino, scritta da
Giacomo Tinelli, appare online (www.pasolini.net - Pier Paolo Pasolini – Pagine corsare), senza indicazioni
del contesto e della data di presentazione. Esemplare, rispetto all’atteggiamento impressionistico che sopra
denunciavo, mi sembra Georges Didi-Huberman. Si vedano l’approssimativo progetto dell’iniziativa
Pasolini/de Martino. Scienza dei gesti e danza dei conflitti, tenutasi a Roma, presso l’Accademia di Francia,
nel febbraio 2010, e il suo articolo apparso su “la Repubblica” (Salvare il popolo. L’atlante dei volti perduti
che Pasolini ci ha lasciato, 2.11.1011, pp. 56-57). Ma una certa approssimazione filologica e critica ha
caratterizzato anche alcune delle relazioni presentate nel corso delle nostre giornate di studio, relazioni per
altro fortemente appiattite sulla traccia dell’iniziativa romana di Didi-Huberman e sulla falsariga della tesi di
Tinelli.
2
Un discorso sulla cultura figurativa pasoliniana, che riprenderò per cenni più avanti, comporta in realtà non
soltanto attenzione per il suo cinema, ma anche un’analisi del suo disegno e della sua pittura, cui si è
riservata, forse, minore attenzione. All’arte figurativa Pasolini si dedicò non occasionalmente durante il corso
della sua vita, anche attraverso la sua stretta amicizia con Giuseppe Zigaina e con Federico De Rocco
(mediatore, quest’ultimo, di diverse esperienze pittoriche tra il suo insegnamento nell’Accademia di Belle Arti
di Venezia e il suo studio di San Vito al Tagliamento), con peculiari esperimenti materici e linguistici, tra i
quali spicca per il suo interesse la stesura delle strips che sceneggiavano, nel 1966, l’episodio La Terra vista
dalla Luna, inserito nel film di realizzazione collettiva Le streghe (Bolognini, De Sica, Pasolini, Rossi,
Visconti, produzione Dino De Laurentiis, 1967). Vi sono, insomma, legami di forte organicità tra il cinema e
l’arte figurativa di Pasolini. Per un approccio all’attività di disegnatore e pittore di Pasolini, si veda G. Zigaina
(a cura di), Pier Paolo Pasolini. I disegni 1941-1975, Milano, Edizioni di Vanni Scheiwiller, 1978 (catalogo
1
è ampiamente soffermati, che è stato forse al centro dell’esegesi pasoliniana, sebbene sia
stato poco o nulla declinato tenendo presente il nostro punto di vista disciplinare3. Quanti
si sono occupati del rapporto tra Pasolini e il sacro hanno avuto, a volte, intuizioni
pregevoli ma, tranne eccezioni, mi sembra abbiano manifestato una sostanziale
sospensione critica circa la nozione di sacro. Il sacro che ha fatto da implicito riferimento
per l’esegesi del pensiero e della produzione pasoliniani, è quello plasmato attraverso
l’esperienza religiosa, classica e cristiana (nella sua versione cattolica, apostolica e
romana). Lo sforzo generalmente effettuato è stato quello di individuare le linee di
scostamento tra l’idea pasoliniana del sacro e un’idea effettiva del sacro quale si è
radicata nell’esperienza occidentale attraverso i grandi apparati paradigmatici della
religione greco-romana e del cristianesimo. Si è avuto, come corollario di tutto ciò,
un’immediata, anche se a volte inconsapevole e involontaria, con-fusione tra sacro e
religioso.
A me sembra opportuno seguire un’altra strada. Una strada che attraversi,
innanzitutto, i territori antropologici del sacro. Non posso, naturalmente, entrare nel merito
di un dibattito teorico di straordinaria complessità, protrattosi dentro e fuori del nostro
recinto disciplinare per oltre un secolo. Alla definizione della sacralità, del suo statuto così
come delle sue figure, l’antropologia ha dedicato attenzione, a partire dall’assunzione e dal
rifiuto di quella teoria dell’ambiguità del sacro che, sin dai tempi di Robertson Smith (1889,
Lectures on the Religion of the Semites), appare, come ricorda Giorgio Agamben,
centrale4.
Estrapolando alcuni aspetti per noi, in questa sede, essenziali, ricordo come l’idea
disciplinare del sacro è, innanzitutto, tarata anche sull’osservazione di società non
occidentali, e dunque porta a de-classicizzarlo e de-cristianizzarlo, e a distinguerlo dal
religioso. E’ osservazione sin troppo ovvia, per noi, che l’ambito sacro non possiede
sempre e dovunque una codificazione religiosa in senso stretto (o nel senso che noi
occidentali abbiamo dato al termine). In molte società e culture esso introduce a un livello
ontologico della realtà che ha a che vedere con l’ambiente, con l’habitat, con la natura e le
sue manifestazioni vitali o letali; in altre ha a che fare con il sapere, con l’acquisizione e
l’esercizio della conoscenza, con la poesia e con il canto, manifestazioni essenziali della
cognizione; in altre ancora con l’ambito funebre, che è quello che consente una laica
gestione delle competenze genealogiche e, conseguentemente, delle strategie parentali.
Molto spesso l’idea di Dio che presiede al legame religioso nella tradizione classica o
giudaico-cristiana (con tutte le macroscopiche diversità tra la prima e la seconda) è del
tutto assente; molto spesso l’idea di Dio non si coagula in una prassi canonica, né in istituti
che la interpretino. A volte Dio e il sacro risiedono in zone cosmogoniche distanti, se non
della mostra tenutasi a Roma, presso Palazzo Braschi, nel giugno del 1978; con significative differenze, J.
Reiter, G. Zigaina - a cura di -, Pier Paolo Pasolini, Drawning and Paitings, New York, Rosenthal Library,
Queens College, novembre 1992); Pier Paolo Pasolini, Dipinti e disegni dell’Archivio Contemporaneo del
Gabinetto Viesseux (a cura di F. Zabagli), Firenze, Edizioni Polistampa, 2000; G. Zigaina, D. Tarozzi (a cura
di), Organizzar il transumanar. Pier Paolo Pasolini cristiano delle origini o gnostico moderno, Venezia,
Marsilio, 2011. Si veda, inoltre, la mostra, Pasolini a casa Testori, aprile-luglio 2012, curata da D. Dall’Ombra
e G. Agosti, Novate Milanese (Mi). Si veda, infine, il saggio di S. Campus, Sotto il segno della
contaminazione. Disegni e dipinti di Pier Paolo Pasolini, in “ArcheoArte”, rivista on line del Dipartimento di
Scienze Archeologiche e Storico-Artistiche dell’Università di Cagliari, 2010, pp. 241-262.
3
In una letteratura vasta e variegata si vedano essenzialmente G. Conti Calabrese, Pasolini e il sacro,
Milano, Jaca Book, 1994; R. Cacitti, G. Conti Calabrese, M. Manenti, N. Spineto (a cura di), Pasolini e il
sacro Udine, Edizioni Darp Friuli, 1997.
.
4
Cfr. G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Torino, Einaudi, 1995, in particolare le pp.
83 e segg.
2
opposte, che presuppongono plasmazioni del tutto diverse dei due ambiti rispetto a quanto
ci è più familiare.
Credo che, dopo le iniziali (e comprensibili) incertezze della scuola sociologica
francese, l’antropologia contemporanea abbia saputo recuperare una nozione
storicamente e sociologicamente distintiva e relativa del sacro. Ciò è avvenuto, mi sembra,
a partire dalla reazione all’interpretazione (che trae origine dalle prime riflessioni di
Friedrich Schleiermacher) di Rudolf Otto e, poi, di parte cospicua della corrente
fenomenologica di studi storico-religiosi, circa l’aspetto autonomo e ontologico del
fenomeno religioso, centrato sul Gefühl (sentimento), che sostanzierebbe l’idea stessa del
sacro5. Come è noto, in tale prospettiva, non è legittimo pensare il sacro a prescindere
dalla religione, e pensare la religione tentando di ridurla alle nozioni correnti del vivere
sociale e dell’elaborazione culturale, in quanto essa può (deve) essere spiegata soltanto a
partire da se stessa. Tralasciando le derive fondamentaliste che tale idea della religione
ha involontariamente alimentato nel corso del tempo, soprattutto nei seguaci delle
cosiddette religioni del libro, gli studi antropologici hanno messo radicalmente in
discussione il carattere di categoria autonoma, auto esplicativa, auto centrata del sacro,
riconducendolo, di volta in volta, alle ragioni politico-sociali che presiedono al suo uso e ai
mutevoli caratteri culturali che ne determinano la posizione, l’efficacia, la persistenza
dentro un contesto dato. Recentemente l’estensione della categoria interpretativa
dell’agency, così come l’analisi delle logiche corporali che legano l’attore sociale alle
proprie categorie intellettuali e morali di riferimento, mi sembra abbiano reso ancora più
duttile e problematica la nozione di sacro, erodendo del tutto la sua durezza e la sua
intransigenza ermeneutica.
Ritengo che la ricchezza della nozione di sacro che l’antropologia contemporanea
propone, torni assai utile nel vagliare il pensiero e l’opera pasoliniani. Le referenze
classiche e giudaico-cristiane messe in scena, storicamente imprescindibili dal momento
che ogni costruzione intellettuale si colloca all’interno delle coordinate spazio-temporali in
cui matura e che fa proprie, vanno lette dentro la significazione profonda di un contesto
peculiare legato a una trasformazione sociale e culturale di cui l’intellettuale sentiva tutta
l’immanente pericolosità.
Se, dunque, non vi è un’idea effettiva del sacro con cui fare i conti, se il sacro
stesso, più che un’essenza immobile posta nel cuore di ogni società come un ancoraggio
o una catena, può essere considerato come un processo di costruzione e manutenzione
dell’idea di sopravvivenza, come una risorsa intellettuale posta dentro un teatro sociale
costantemente mutevole, abbiamo più facilità a comprenderne la declinazione pasoliniana
e, immediatamente dopo, a comprendere perché tale declinazione, presente in tutta la sua
opera letteraria e cinematografica, sin dalle prime raccolte poetiche vernacolari, si
espanda poi e acquisti la sua piena intelligibilità, attraverso il mezzo visivo, le immagini.
Quando Pasolini mette in scena il sacro, certamente come ho detto con concreti
riferimenti storici e geografici alle grandi tradizioni religiose e alle mitopoiesis occidentali,
ma con un’ampia e polimorfa considerazione del suo significato, addita in realtà una
molteplicità di cose, spesso lasciate alla libera interpretazione dell’altro e alla libera
negoziazione con l’altro. Dentro tale nucleo magmatico, però, si stagliano due percorsi
antropologicamente diversi, a seconda degli scenari della battaglia culturale che
intraprende: egli intende il sacro, sul versante etico, come poesia, sul versante storico,
5
Indicativamente si vedano F. Schleiermacher Sulla religione. Discorsi a quegli intellettuali che la
disprezzano (a cura di S. Spera), Brescia, Queriniana, 1989; R. Otto, Il Sacro, Milano, Feltrinelli, 1966. La
vicinanza tra Schleiermacher e Otto, in realtà, è stata recentemente posta in discussione, soprattutto
nell’ambito degli studi storico-religiosi. Non è questa la sede per entrare nel merito, ma mi sia consentito il
rinvio a A. Dole, Schleiermacher and Otto on Religion, in “Religion Studies”, 40, 2004, pp. 389-413.
3
come arcaismo. Entrambe tali configurazioni si concretano, poi, nel mondo popolare, nel
suo sembiante. Il mondo popolare riassume e significa le due facce possibili e
socialmente esperibili della sacralità.
Sacralità significa, per Pasolini, dunque, dimensione poetica dell’esistenza (di cui la
poesia, come concreto prodotto scrittorio è figlia e, al contempo, madre), rispetto a una
dilagante, pervasiva e arida, dimensione prosastica, mercantile, utilitaristica6. E’ frugalità,
semplicità, nitore, essenzialità, perché tali tratti sono di fatto antagonisti rispetto alla
mercificazione del vivere e all’inaccettabile inaridimento dell’ethos collettivo che comporta.
Sacro è il poeta e sacra è la poesia; ma ambedue sono soprattutto manifestazione di un
accordo spirituale con il mondo, di una tensione che trascende la finitezza e
l’immediatezza dell’agire quotidiano, che dovrebbe andare a sostanziare una dimensione
laica e civile del vivere.
Sacralità significa per Pasolini, però anche, come ho anticipato, dimensione arcaica
dell’esistenza, quella dimensione assediata e insidiata dal consumismo borghese, dal
feticismo delle merci, dall’omologazione culturale (fenomeni sociali allora allo stato
aurorale, in parti cospicue della società italiana, eppure da lui avvertiti in tutta la loro
pericolosità, in prospettiva umanistica).
Sono talmente tanti i topoi pasoliniani che testimoniano gli indirizzi testé ricordati
che non avrei che l’imbarazzo della scelta nell’addurne a sostegno delle mie affermazioni.
Mi limiterò a ricordare le posizioni espresse al momento del referendum sull’aborto, che
legavano esplicitamente la sacralità della vita al mondo arcaico e ancoravano la scelta
della nascita alla dimensione poetica.
Il concreto scenario d’impiego delle due declinazioni del sacro, vicine ma non
coincidenti, è di volta in volta la battaglia contro il nuovo fascismo, contro l’omologazione
culturale, contro la stereotipizzazione dei costumi e delle modalità di pensiero, contro
l’arroganza delle maggioranze silenziose o, a volte, clamorose. La sacralità è evocata, di
volta in volta, per ribadire le ragioni di una visione alta e trascendente dell’esistenza, o per
contestare la legittimità delle scelte politico-sociali in atto.
Ovviamente questa idea pasoliniana del sacro, che, l’ho scritto, risponde in modo
notevole a ciò che il pensiero antropologico contemporaneo ha individuato essere la sua
funzione ultima (o le sue molteplici funzioni processuali), che trovava all’epoca eco nelle
posizioni di alcuni degli studiosi di scienze sociali e di fenomeni religiosi, primo fra tutti il
già ricordato Ernesto de Martino, non poteva non fare i conti con quella più individuata e
ristretta del cristianesimo e del cattolicesimo. Determinando un profondo rifiuto, e una
fattiva ostilità, nella sua prevalente struttura dogmatica, nelle gerarchie, e una affascinata
adesione nei puri di spirito e d’intelletto, in quei fraticelli umili, spesse volte in possesso di
una vastissima cultura filosofica e teologica, che l’hanno accompagnato con discrezione e
accorata pena, in vita come in morte. Ma è, a mio avviso, fuori luogo interrogarsi sul
cattolicesimo pasoliniano, sul grado maggiore o minore di adesione dei singoli vocaboli del
sacro da lui evocati, all’esegesi cattolica, (significa non comprendere la cultura
antropologica di cui egli era, consapevolmente o inconsapevolmente, portatore)7. Pasolini
6
Larga coincidenza con quanto affermo ho trovato nella relazione presentata a questo convegno da Filippo
La Porta, dal titolo Il sacro è la realtà stessa. Un concetto pasoliniano dalle implicazioni fortemente politiche.
7
Si è sovente richiamata, nell’ambito dell’esegesi pasoliniana, la sua cultura antropologica. A me sembra
che sia possibile scrivere, in modo documentato, di una cultura demologica, sviluppatasi nel corso
dell’intenso e appassionato lavoro sulla poesia popolare che avanti ricorderò più puntualmente. I grandi temi
antropologici, legati alla crisi della società e della cultura contadine arcaiche e alla visione apocalittica della
vicenda planetaria e italiana coeve, sono fortemente sentiti da Pasolini e vanno certamente a costruire il suo
pensiero e la sua poetica. Si tratta di temi, però, largamente condivisi nella cultura dell’epoca, non soltanto in
Italia, e che segneranno per altro un punto di netto distacco tra gli intellettuali che su di essi riflettono e la
4
incontrava il cattolicesimo, al di là delle sue referenze radicali (la religione della madre,
degli antenati contadini, del paese natio), come ogni altro dispositivo che comportasse
un’apertura sui mondi reietti, rifiutati e abbandonati dal capitalismo borghese, nella misura
in cui questo parlava della dimensione poetica delle cose e della dimensione arcaica del
mondo (dimensione colma di quella poeticità che, sola, giustifica la vita dell’uomo). Nella
misura in cui incarnava e affermava quella dimensione popolare della vita che, come ho
accennato, rappresentava il coagulo della sacralità.
Ho prima scritto che la nozione pasoliniana del sacro, acquista piena visibilità
attraverso le immagini, in altre parole trova una sua compiuta espressione nel suo
cinema. Vorrei tornare su questo punto, per passare alla seconda parte delle mie
riflessioni. Anche in questa prospettiva mi sembra che Pasolini manifesti un solido
ancoraggio all’antropologia e, più in generale a quella riflessione fenomenologica che sulla
natura eidetica del comportamento umano, e in particolare del comportamento rituale, si è
a lungo soffermata.
Pasolini comprendeva come il sacro, di per sé nascosto, per divenire realtà nel
mondo, abbia bisogno di manifestarsi. Come il suo dominio elettivo sia, dunque, quello
visivo, come le sue leggi generali attengano all’eidesis, come i suoi strumenti fondamentali
siano rappresentati dalle immagini e dai simulacri. Potrei ricordare in proposito le
riflessioni di studiosi quali Mircea Eliade, Gaston Bachelard, Gilbert Durand, Jurgis
Baltru aitis, Pavel Florenskij, e far riferimento, come testimone, alle mie ricerche di
terreno nel Mezzogiorno italiano, che hanno costantemente posto in evidenza la natura
fondamentalmente eidetica del rito in quanto strumento che consente al sacro di trasferirsi
nella dimensione sociale e politica. Ma è un filosofo quale Jean-Jacques Wunenburger
che ci offre una chiave interpretativa, a mio avviso, tanto sintetica quanto efficace.
Lo spazio del sacro, egli osserva, “esiste […]solo là dove una realtà sensibile è
anche immagine presunta, direttamente o indirettamente, di una realtà soprannaturale”. Il
sacro, dunque, categoria fuorviante in prospettiva antropologica se interpretata secondo
un principio astratto od ontologico, se vissuta in un suo presupposto essente, si manifesta
quale spazio di tensione, quale cosa concreta, socialmente agita e socialmente agente,
tramite l’immagine ed, è di nuovo Wunemburger che parla, “senza questa immaginazione
simbolica, che consente di accostare ciò che è di questo mondo con l’epifania di un altro
mondo, nessun credo o pratica religiosa potrebbero prendere corpo”8.
La centralità della messa in scena, delle immagini e dei simulacri, nella prassi
rituale appare, dunque, inevitabile. E di ciò il cattolicesimo è stato, più di altre religioni,
avvertito. In questo contesto, i simulacri hanno giocato, nella costruzione del campo
festivo e nell’espressione dei singoli attori sociali al suo interno, un ruolo fondamentale.
Può sembrare, la mia, un’osservazione scontata (anche a fronte di una casistica estesa e
di una letteratura copiosa), ma invito a considerarla senza sufficienza: non vi sarebbero
campo festivo e attori sociali interni a esso, a esempio nel Mezzogiorno italiano (ma il
discorso può agevolmente essere allargato all’intera Europa cattolica od ortodossa), senza
la presenza di immagini e simulacri (e assai spesso, infatti, il loro trafugamento, la loro
alterazione, la loro distruzione, la loro momentanea indisponibilità comportano la
sospensione o una radicale modificazione delle ricorrenze religiose).
Di tutto ciò Pasolini è consapevole e il suo cinema è puntuale espressione.
Direi anzi che il cinema di Pasolini rappresenta una messa a nudo del carattere che
egli attribuiva alla sacralità, della concezione che egli ne aveva. E direi che il contesto che
politica dominante della Sinistra italiana e, particolarmente, del PCI. Si pensi, oltre che a Pasolini e a de
Martino, tra numerosi altri, a Carlo Levi.
8
J-J. Wunenburger, Filosofia delle immagini, Torino, Einaudi, 1999, pp. 390-391.
5
elettivamente garantisce la traduzione concreta del sacro in immagini è, appunto, quello
popolare. In questa prospettiva l’epica cristiana appare esemplare. Il contesto cristiano,
quale si esprime nel cinema pasoliniano, è essenzialmente un contesto popolare (con
miope riduzionismo una certa critica marxista degli anni Sessanta-Settanta accostava tutto
ciò alla massima evangelica che vede sedere i poveri alla destra di Dio padre). Un
contesto popolare costruito attraverso uno sguardo antropologico acuto, anche se non
professionale, che sa individuare fisionomie, posture, atteggiamenti, comportamenti (legati
soprattutto a due classi o gruppi umani, quello dei contadini poveri del Sud e quello dei
sottoproletari nativi o inurbati della capitale), che fonda su una sorta di esperienza
etnografica un’iconografia specifica, ma costruito anche attraverso una fitta filiera di rinvii
colti.
La vicenda del Cristo, nel suo complesso, figura essenziale dell’evidenza, le sue
ultime ore, manifestazione dell’incombenza del sacro nel mondo, e dello scatenamento
delle forze che ne avversano l’azione, sono descritte guardando essenzialmente a due
grandi repertori iconografici: la tradizione figurativa (pittorica e scultorea), particolarmente
italiana, la messa in scena popolare.
Ho già ricordato l’attiva frequentazione della pittura, e di alcuni pittori coevi, di Pasolini.
Quali ne sono le radici?
E’ abbastanza riconosciuto il debito formativo che egli contrasse con Roberto
Longhi, che gli fu maestro negli anni universitari bolognesi, che lo introdusse allo studio
della storia dell’arte, che gli fece conoscere, attraverso i suoi corsi, l’opera di Masolino e di
Masaccio. Pasolini, dal canto suo, ricambiò il maestro con un’amicizia duratura,
dichiarando di essergli “debitore della folgorazione figurativa”, dedicandogli la
sceneggiatura di Mamma Roma9 e tanti affettuosi e ironici ritratti alla metà degli anni
Settanta10. Dunque, un cinema che si costruisce, oltre che sulla già ricordata pratica
figurativa, su una consumata conoscenza delle fonti storico-artistiche colte. Pasolini stesso
ricorda: “il mio gusto […] non è di origine cinematografica ma di origine figurativa […] e
non riesco a concepire immagini, paesaggi, composizioni di figure, al di fuori di questa mia
iniziale passione pittorica; […] quello che io ho in testa come visione, come campo visivo,
sono gli affreschi di Masaccio, di Giotto – che sono i pittori che amo di più, assieme a certi
manieristi, per esempio Pontormo”11). E Bernardo Bertolucci, già assistente di Pasolini alla
regia, ricordando l’elaborazione pasoliniana di Accattone, ribadisce: “il suo riferimento non
era il cinema, che conosceva poco, ma, lo dichiarò tante volte, i primitivi senesi e le pale
d’altare"12; testimonianza autorevolmente suffragata da Mario De Micheli13. Del resto, chi
non ricorda, tra le mille citazioni possibili, la straordinaria ricostruzione della deposizione di
Gesù dalla croce del Pontormo per il film La ricotta?
Masaccio e Masolino, dunque, secondo la lectio longhiana, ma anche, con precisi
riferimenti al suo cinema, Rosso Fiorentino, Pontormo, Piero della Francesca, Mantegna e
Tintoretto, come è stato puntualmente notato14.
9
Cfr. P.P. Pasolini, Mamma Roma, Milano, Rizzoli, 1962.
10
Cfr. G. Zigaina (a cura di), Pier Paolo Pasolini. I disegni 1941-1975, cit., s.i.p.
11
P.P. Pasolini, Mamma Roma, cit., p. 145.
12
B. Bertolucci, Il cavaliere della valle solitaria, in P. P. Pasolini, Per il cinema, (a cura di W. Siti e F.
Zabagli), Milano, Mondadori, 2001, pag XVI.
13
M. De Micheli, Introduzione, in G. Zigaina (a cura di), Pier Paolo Pasolini. I disegni 1941-1975, cit., s.i.p.
14
“Alle suggestioni pittoriche nel cinema di Pasolini”, ricorda Simona Campus, “è dedicata una rilevante
bibliografia: sono stati ampiamente studiati i tableau vivant che ricostruiscono la Deposizione di Rosso
6
Sugli influssi di Caravaggio sull’opera cinematografica di Pasolini nutro, invece,
personalmente dubbi. Dubbi alimentati anche da un suo testo esplicito in tale direzione
che, accanto ai motivi di fascinazione, indica elementi di profonda distanza e differenza.
Soffermiamoci su questi ultimi. “Posso amare criticamente la scelta realistica del
Caravaggio”, scrive Pasolini, “nel ritagliare nei personaggi e negli oggetti il mondo da
dipingere; posso amare, ancor più, criticamente, l’invenzione di una nuova luce dove far
accadere gli immobili avvenimenti. Tuttavia quanto al realismo occorre una buona dose di
storicismo per individuarlo in tutta la sua imponenza: non essendo io un critico d’arte, e
vedendo le cose in una prospettiva storica falsa e schiacciata, tutto sommato a me il
realismo del Caravaggio mi sembra un fatto abbastanza normale, superato lungo i secoli
da altre, nuove forme di realismo. Quanto alla luce, posso apprezzarne l’invenzione
stupendamente drammatica, ma per una mia particolare forma estetica – dovuta chissà a
quali manovre del mio inconscio – non amo le invenzioni di luce: preferisco di gran lunga
le invenzioni di forme. Un nuovo modo di sentire la luce mi entusiasma molto meno che un
nuovo modo di sentire mettiamo il ginocchio di una madonna sotto il manto o lo scorcio del
primo piano di un santo: amo le invenzioni e le abolizioni dei chiaro-scuri, delle geometrie,
delle composizioni. Di fronte al caos luminoso del Caravaggio resto ammirato ma un
po’staccato […]. Ciò che mi entusiasma è la terza invenzione del Caravaggio: cioè il
diaframma luminoso che fa delle sue figure delle figure separate, artificiali, come riflesse in
uno specchio cosmico. Qui i tratti popolari e realistici dei volti si levigano in una
caratteriologia mortuaria; e così la luce, pur restando così grondante dell’attimo del giorno
in cui è colta, si fissa in una grandiosa macchina cristallizzata. Non solo il Bacchino è
malato, ma anche la sua frutta. E non solo il Bacchino, ma tutti i personaggi del
Caravaggio sono malati, essi che dovrebbero essere per definizione vitali e sani, hanno
invece la pelle macerata da un bruno pallore di morte”15.
Al di là di ciò, dei debiti universalmente riconosciuti, però, mi pare di poter indicare
dell’altro nella genesi della visione del sacro cristiano quale si realizza in Pasolini. In
particolare mi sembra di poter individuare una delle matrici iconiche più importanti nella
rappresentazione dei momenti culminanti della Passione e, in particolare, nel pianto di
Maria. Qui mi sembra che Pasolini possa aver avuto attenzione anche per una tradizione,
per così dire, minore, espressa attraverso la terracotta policroma, e che si rifà alle scene
drammatiche del bolognese Pianto delle Marie o Compianto, di Niccolò dell’Arca
(variamente datato tra il 1460 e il 1490, nella chiesa di Santa Maria della Vita a Bologna) o
della modenese Lamentazione sul corpo di Cristo o Compianto sul Cristo morto, di Guido
Mazzoni (1477-79, Chiesa di san Giovanni Battista), o delle sue significative, per il nostro
assunto, varianti (tra le quali quella di Busseto, in Santa Maria degli Angeli, 1475, o quella
di Napoli, in Sant’Anna dei Lombardi, 1492).
Fiorentino e Il trasporto di Cristo al sepolcro di Pontormo in La Ricotta; le citazioni da Piero della Francesca
nel Vangelo secondo Matteo; i richiami a Mantegna e Tintoretto rispettivamente in Mamma Roma e I
Racconti di Canterbury; la figura dello stesso regista che nel Decameron si aggira tra le architetture gotiche
di Napoli, vestito come il Vulcano di Velásquez, nel ruolo di un allievo di Giotto, la cui eco, come quella di
Masaccio, risuona in tanta parte dell’ispirazione filmica pasoliniana”. S. Campus, Sotto il segno della
contaminazione. Disegni e dipinti di Pier Paolo Pasolini, cit., pp.244-245. P. M. De Santi, Pasolini tra cinema
e pittura, in “Bianco e nero”, 3, 1985, pp. 7-24; A. Marchesini, Citazioni pittoriche nel cinema di Pasolini.
Firenze, La Nuova Italia, 1994.
15
P. P. Pasolini, La luce di Caravaggio, in Saggi sulla letteratura e sull’arte (a cura di W. Siti e S. De
Laude), Milano, Mondadori, 1999, voll. 2, II, pp. 2673-2674. Ai rapporti tra il cinema di Pasolini e la pittura di
Caravaggio dedica attenzione Carla Sanguineti, che ha presentato, anche in questo convegno, una
relazione sull’argomento.
.
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Sono, forse, queste concitate e vibratili rappresentazioni di una scena dominante,
nell’epos cristiano, di straordinario impianto colto ma aperte a una prospettiva popolare,
soprattutto nella descrizione del comportamento delle donne dolenti, a fare da ponte verso
l’altra grande matrice iconografica che mi sembra di poter additare all’attenzione del
lettore, quella popolare delle lamentazioni funebri calabresi o lucane o delle sacre
rappresentazioni diffuse in tutto il territorio italiano.
Non posso che rinviare, in questa prospettiva, innanzitutto ai grandi repertori audiovisivi realizzati nell’ambito della ricerca demartiniana sul lamento funebre in Lucania negli
anni Cinquanta, o dei suoi immediati dintorni (le fotografie di Franco Pinna, i documentari
di Michele Gandin e di Cecilia Mangini16), da un lato, e alla vastissima gamma di sacre
rappresentazioni, variamente documentate nel corso del tempo, presenti su tutto il
territorio italiano, da quelle di Tiriolo e San Pietro Apostolo, in provincia di Catanzaro, alla
Cherca di Collesano, in provincia di Palermo, da quella di Sezze, in provincia di Latina, a
quella di Sordevolo, in provincia di Biella o di Romagnano Sesia, in provincia di Novara,
senza dimenticare quelle friulane di Ciconicco di Fagagna e di Vinaio di Lauco, in
provincia di Udine, o di Erto e Casso, in provincia di Pordenone.
Quanto di tutto ciò Pasolini osservò, direttamente o attraverso la mediazione altrui,
e assimilò? Credo di poter affermare molto, se non tutto, considerando la sua curiosità e la
sua voracità culturale, gli specifici indirizzi teorici che sopra ho ricordato, la proprietà di
molte delle sedi evocate rispetto ai suoi percorsi e ai suoi luoghi (il Friuli, l’Emilia, il Lazio,
la Calabria).
Dal contesto colto promana uno dei criteri che sostanziano l’apparizione del sacro
nella scena mondana, la fissità e la ieratica sospensione dell’azione; dal contesto popolare
il carattere mosso e concitatamente evenemenziale dell’accadimento. Ieratica
sospensione e profana agitazione trovano una loro compiuta espressione nel viso,
nell’abito, nella gestualità e nel comportamento popolare. Che è insieme poetico, nel
senso prima ricordato, e arcaico.
Chi ricorda gli appunti realizzati da Pasolini in Palestina per la realizzazione
eventuale del Vangelo, ricorderà anche l’insistita e sconsolata ricerca di una forma poetica
e arcaica del paesaggio, degli insediamenti, delle fisionomie, che fosse adatta a significare
l’epifania del sacro nella concreta forma cristiana che lì si intende descrivere. Qualcosa
che poi, come sappiamo, fu trovata tra Lucania e Calabria, dentro un contesto territoriale
che aveva esercitato sempre su Pasolini una profonda suggestione.
La ricerca dell’arcaico, nel cinema pasoliniano, tuttavia, è utile sottolinearlo, non
possiede la dimensione nostalgica che solitamente l’accompagna in altre produzioni
intellettuali o scientifiche coeve17. Né Pasolini ripercorre la strada allocronica che
16
Stendalì (1960) di Mangini, ha un testo poetico elaborato da Pasolini e costituisce una sorta di ponte tra le
tematiche demartiniane e quelle pasoliniane, attorno al tema della morte e del pianto funebre che aveva
assai avvinto lo scrittore sin dalla prima redazione del Canzoniere italiano (Cfr., tra le diverse redazioni ed
edizioni, P. P. Pasolini, Antologia della Poesia popolare, Parma, Guanda, 1955; Id.; La poesia popolare
italiana, Milano, Garzanti, 1955; Id., a cura di, Canzoniere italiano, 2 voll., Milano, Garzanti, 1972).
17
Ho tentato di mettere a fuoco le ragioni sociali e politiche della nostalgia legata alla rappresentazione del
mondo popolare e dello specifico etnografico in Italia, in relazione ai processi di allocronia e di
orientalizzazione, in alcuni saggi e interventi recenti. Si vedano, in particolare, F. Faeta, Immagini di
Sardegna. Strategie per entrare, e per uscire, dalla modernità, in M. Miraglia (a cura di), La fotografia in
Sardegna, lo sguardo esterno, 1854-1939, Nuoro, Ilisso, 2008, pp. 29-37; Id., A Sud di nessun Nord. Per
una critica delle attuali dislocazioni della geografia simbolica, in M. Petrusewicz, J. Schneider, P. Schmeider
(a cura di), I Sud. Conoscere, capire, cambiare, Bologna, il Mulino, 2009, pp. 147-162; Id., “Scivolare fuori
dal tempo”. Immagini della Sardegna del secondo Dopoguerra, in La fotografia in Sardegna. Lo sguardo
esterno. Gli anni del Dopoguerra, Nuoro, Ilisso, 2009, pp. 25-35; Id., Una lontananza inessenziale.
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Johannes Fabian individua come caratteristica costante dello sguardo occidentale quando
si posa sulle realtà altre, nel nostro caso sul mondo popolare18. Il suo arcaismo sembra
voler additare, invece, una dimensione complessa e sfuggente del tempo, una sorta di
fusione metafisica o metastorica tra il passato evocato e il presente significante, che si
manifesta icasticamente attraverso la messa in relazione di fissità e movimento.
Vi è un luogo, non troppo lontano da Casarsa, in cui esemplarmente, a mio avviso,
è possibile trovar traccia della doppia genealogia nella costruzione visiva del sacro di cui
scrivo e, al contempo, avere una rappresentazione plastica della complessa dimensione
temporale che ho testé evocato: questo luogo è Cerveno, in provincia di Brescia, piccolo
borgo della Val Camonica, cui farò brevemente cenno per concludere.
A Cerveno, nel 1752, veniva affidato a Beniamino Simoni il compito di figurare una
Via Crucis, all’interno di una monumentale cappella posto al margine dell’abitato, con 198
statue policrome di legno e gesso, a grandezza naturale. L’artista lavorò in loco sino al
1764, portando con sé anche la famiglia, giungendo quasi a portare a termine l’opera.
Simoni fu autore singolare e anticonformista che si rifaceva anche a tradizioni artigianali e
popolari diffuse nell’area (si pensi alla scultura lignea legata al mondo dei pastori, ma
anche alla tradizione colta di artisti dell’area quali Pietro Ramus, scultore del legno tra i più
significativi della seconda metà del Seicento camuno, quinto figlio di Giovanni Battista
Ramus, o i suoi allievi e seguaci quali Giovanni Battista Zotti, Giovanni Giuseppe Piccini e
Andrea Fantoni). Nell’eseguire le sue statue Simoni prese come modelli una parte
cospicua degli abitanti di Cerveno, costruendo una rappresentazione che esalta la
cattiveria, la protervia, la crudeltà dei persecutori del Cristo, restituendo al contrario di lui e
della sua cerchia di donne e uomini pii, un’immagine dimessa e sfuocata. La Passione di
Cerveno, insomma, così come Simoni la interpreta, forse anche seguendo un modello
teorico giansenista19, lungi dal seguire lo schema osservante e rassicurante delle altre Vie
Crucis e degli altri Sacri Monti disegnato da Leonardo da Porto Maurizio, loro fautore
indefesso, appare un’esaltazione quasi eroicizzata delle emozioni e dei sentimenti negativi
che l’esecuzione di un giusto causa; mette in moto una provocazione religiosa e una
rappresentazione del mondo alla rovescia, nella quale l’ingiustizia, la violenza, la gratuita
curiosità verso la tortura e la sofferenza altrui, sono esaltate, mentre la bontà e la giustizia
sono annientate e si stagliano sullo sfondo come virtù inutili. Una Passione all'inverso,
insomma, in cui i cattivi (che poi hanno, non dimentichiamolo, le sembianze dei nativi di
Cerveno), assumono il ruolo di protagonisti, mentre i buoni, Gesù, Maria, le pie donne,
quasi spariscono sopraffatti dalla trionfante e sogghignante malvagità dei persecutori.
Probabilmente per via dei forti contrasti tra curia, ordini religiosi, episcopato e popolazione
locale, Simoni fu, dunque, allontanato dall’opera e dal paese, mentre ciò che non era stato
ancora eseguito veniva portato a termine da artisti di tempra assai più osservante e
conformistica.
Per acquistare indulgenze, però, come atto di riparazione per quella che era stata
vissuta come operazione sacrilega, a partire dalla fine del secolo XVIII, gli abitanti di
Fotografie della Sardegna, 1960-1980, in La fotografia in Sardegna. Lo sguardo esterno. 1960-1980, Nuoro,
Ilisso, 2010, pp. 27-35.
18
Cfr. J. Fabian, Il tempo e gli altri. La politica del tempo in antropologia, Napoli, L’ancora del Mediterraneo,
2000.
19
Eugenio Battisti, riassumendo opinioni diffuse tra gli studiosi della Via Crucis di Simoni, ricorda in realtà la
possibile influenza giansenista, assai presente nella valle, nel delineare la rappresentazione anti-eroica e
dimessa della figura del Cristo cui Simoni sembra attenersi. Cfr. E. Battisti, Le incerte frontiere del conflitto,
in R. A. Lorenzi (a cura di), Immagini. Arte, culture e poteri nell’età di Beniamino Simoni (XVIII secolo) e
oltre, Brescia, Luigi Micheletti Editore, 1983, pp. 9-17.
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Cerveno, ogni dodici anni, mettono in scena una sacra rappresentazione, la Santa Crus,
che coinvolge tutto il paese e che richiede oltre un anno di preparazione. Tutto lo spazio
paesano, che viene addobbato e arredato, secondo una logica di tipo contradaiolo, e
quello degli immediati dintorni, divengono assieme palcoscenico e teatro per tale dramma,
che riprende i temi delle quattordici stazioni della Via Crucis. Lentamente, nel corso del
tempo, è invalso l'uso d’ispirarsi all’opera di Simoni, sicché abiti, fogge, ornamenti,
atteggiamenti e fisionomia, tendono a mimare, animandolo, il complesso di statue
settecentesche. La manifestazione, che è percorsa da un energico e complesso
sentimento di rivalsa, che mette in scena le emozioni e i sentimenti forti che l’artista ha
impresso nella sua materia, interpretandoli secondo un copione legato alle esigenze
sociali dell’oggi, è recentemente divenuta un forte emblema identitario per il paese, invaso
per l’occasione da migliaia di visitatori. Parte cospicua degli abitanti del luogo, giovani,
adulti o anziani, prende parte in qualità di attore, di comparsa, di tecnico o artigiano, alla
rappresentazione, diretta da un regista esterno cui si delega, con ansiosa problematicità, il
destino dello spettacolo. Ma, come sovente accade, la funzione identitaria diretta verso
l’esterno mette in moto un processo di appropriazione della responsabilità da parte di
individui e gruppi che, accedendo a tale livello, consolidano la loro posizione relativa
nell’ambito della società locale20.
Due rappresentazioni, dunque, fortemente collegate in un complesso intreccio di
emozioni, sentimenti, memorie, desideri, interessi sociali e politici, che cortocircuitano, per
così dire, il tempo, ponendo in una relazione di immediata significatività sociale epoche
lontane e diverse, portate e testimoniare quella dimensione meta temporale di cui sopra
ho scritto21.
Bene, considerando le due rappresentazioni di Cerveno, quella statuaria del
Settecento, quella vivente dei nostri giorni, la complessa e contraddittoria idea del sacro
che viene posta in scena, la composita temporalità che viene evocata, credo si possa
avere plastica verifica delle matrici del sacro pasoliniano, nella sua concretazione
cristiana.
Ciò che maggiormente colpisce, nel villaggio camuno, è la stupefacente identità, sia
di Simoni, sia dei moderni cultori popolari della rappresentazione, con lo spirito
pasoliniano, con la sua idea della Passione, quale si mostra sia nel Vangelo, sia ne’ La
ricotta; e la relazione operante tra passato e presente, in una logica temporale che tende a
arcaicizzare e poeticizzare gli elementi dello scontro tra bene e male e tra diverse fazioni
della comunità. A livello popolare, a Cerveno, ma non ho avuto modo di effettuare riscontri
oggettivi intorno a questa affermazione, si sostiene che Pasolini, come del resto Mel
Gibson prima di girare il suo Passion, abbia studiato la Via Crucis e il suo altrettanto
20
Su Beniamino Simoni, la Via Crucis di Cerveno e la Santa Crus, si vedano introduttivamente, G. Testori,
Beniamino Simoni a Cerveno, Brescia, Grafo Edizioni, 1976; T. Alabiso, Cerveno. La santa Crus, Comune di
Cerveno, 1982; L. Tesei, G. Zerla, La santa Crus, Breno, 1982; R. A. Lorenzi (a cura di), Immagini. Arte,
culture e poteri nell’età di Beniamino Simoni (XVIII secolo) e oltre, cit., 1983; R. A. Lorenzi (a cura di), Intorno
alla Via Crucis di Cerveno, “Appunti, Rivista del Circolo G. Ghislandi”, VI, 19, 1992; O. Franzoni, E. Giorgi,
G. Zerla, La Passione di Cerveno, Breno, 1992; F. Minervino, Beniamino Simoni, Milano, Mondadori-Electa,
2000; Il popolo della santa Crus. Il laboratorio della sacra rappresentazione di Cerveno, Brescia, Grafo
Edizioni, 2005; F. Bossini (a cura di), Il legno e la Passione. Beniamino Simoni e la Via Crucis di Cerveno,
Roccafranca, Compagnia della stampa Massetti Rodella, 2009.
21
Per un primo inquadramento delle relazioni tra opera di Simoni e moderna sacra rappresentazione, si
veda il mio Representing the Past. Social Anthropology and History of Art in a Holy Drama in Northern Italy,
Italian Academy for Advanced Studies, Columbia University, New York, 2012.
10
inquietante e complesso doppio22. Dovranno essere effettuati riscontri in merito, ma mi
sembra che attraverso una puntuale comparazione iconografica già da oggi si possano
trovare conferme di rilevanti somiglianze. Duplice matrice nella genesi della
rappresentazione pasoliniana del sacro (la pittura medioevale e rinascimentale, la pratica
popolare di piangere i morti e, soprattutto, di rappresentare una morto e una morte
paradigmatica), certamente; ma anche affermazione perentoria di una dimensione
temporale arcana, che manomette le cronologie ordinate dello storicismo e, attraverso
un’epifania, fonda le ragioni sociali del sacro.
22
Localmente ho raccolto la notizia che Pasolini avrebbe inviato a Cerveno, prima di iniziare le riprese del
film, lo scenografo Dante Ferretti, con il compito di osservare la Via Crucis di Simoni.
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