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durata ragionevole del processo
La durata ragionevole del processo civile in Italia Prof. Avv. Mariacarla Giorgetti 1. Il principio della ragionevole durata del processo nella legislazione e giurisprudenza europea: la genesi della legge 89/2001 (cd. legge Pinto). – 2. Il contenuto e le criticità della legge Pinto nella sua originaria formulazione. –3. La ‘ragionevole durata’ nel complesso dialogo tra Corte europea e giurisprudenza interna. – 4. Le riforme apportate dalla l. n. 134/2012. – a) Le modifiche apportate all’art. 2 legge Pinto: nuovi criteri per la determinazione della ragionevole durata del processo. – b) Il nuovo art. 2-bis legge Pinto e la liquidazione dell’indennizzo. – c) Il termine di proponibilità del ricorso ai sensi del nuovo art. 4 legge Pinto. – 5. I criteri di valutazione della ragionevole durata: le esegesi della precedente disciplina. – a) La complessità del caso. – b) Il comportamento delle parti. – c) Il comportamento delle competenti autorità giudiziarie. – 6. La ‘ragionevole durata del processo civile’ nella più recente giurisprudenza italiana alla luce delle specificità del processo civile italiano. – 7. Considerazioni conclusive 1. Il principio della ragionevole durata del processo nella legislazione e giurisprudenza europea: la genesi della legge 89/2001 (cd. legge Pinto) Il principio della ragionevole durata del processo rappresenta uno dei cardini ineludibili di uno Stato di diritto1, come rivela l’accoglimento, nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (Cedu), all’art. 6 del diritto ad un equo processo. Ad esso va accostato il dettato dell’art. 13 Cedu – norma base, di contenuto più ampio rispetto all’art. 6 –, con il quale si garantisce all’individuo il diritto ad un ricorso effettivo dinanzi ad un’istanza nazionale, in caso di violazione delle norme della Convenzione: ciò significa che all’individuo deve essere garantito, anzitutto, il diritto ad adire i mezzi di ricorso, adeguati ed effettivi2, che l’ordinamento interno predispone per evitare la violazione dei diritti sanciti dalla Cedu3. In particolare, il principio di un equo processo coinciderebbe con quello di un processo ragionevolmente celere, volto a tutelare non già il soccombente, bensì il vincitore in una lite, che a causa dell’eccessiva durata processuale ha subito ulteriori conseguenze negative; specularmente, esso danneggia il soccombente – o, più genericamente, il destinatario di una pronuncia sfavorevole –, per il quale il prolungamento delle operazioni processuali significa il differimento delle conseguenze negative della sentenza4. Pur essendo innegabile che il principio, affermato anche dalla Commissione di Venezia, secondo cui “justice delayed is justice denied”, valga con particolare riferimento al processo penale, laddove rappresenta un’ineludibile necessità per la tutela dei diritti alla libertà, all’onore, alla reputazione di un individuo, esso deve trovare applicazione in tutti i procedimenti giurisdizionali; in particolare, per quanto attiene al processo civile, la Corte europea aveva avuto modo di affermare che il rispetto del termine ragionevole di durata del processo deve essere inteso nel senso di 1 Scrivono Angioi, Raimondi, Introduzione, in Lanza (coord.), Angioi, Raimondi (a cura di), La ragionevole durata del processo in Europa. Genesi, effetti e sviluppi della legge Pinto, Napoli, 2011, 3 ss., che garanzie relative allo svolgimento del processo rappresenterebbero “una componente essenziale di un nucleo più ampio di regole intese a garantire l’individuo nei confronti di un uso arbitrario del potere da pare degli organi dello Stato”. 2 Cfr. recentemente Janusz Bialas c. Polonia, 28 ottobre 2009. 3 Pertici, Romboli, Articolo 13. Diritto ad un ricorso effettivo, in Bartole, Conforti, Raimondi (a cura di), Commentario alla Convenzione europea per la tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, Padova, 2001, 115 ss.; cfr. anche Lana, I tempi del processo e l’equa riparazione a quattro anni dall’entrata in vigore della c.d. legge Pinto, in Pineschi (a cura di), La tutela internazionale dei diritti umani. Norme, garanzie, prassi, Milano, 2006, 496 ss. 4 Focarelli, Equo processo e convenzione europea dei diritti dell’uomo, Padova, 2001, 274 ss. 1 garantire un’amministrazione della giustizia tale da non lederne la credibilità e l’efficienza5, nonché di impedire che una prolungata situazione di incertezza si traduca in un diniego di giustizia6. La ragionevole durata del processo, infatti, rientra tra le cd. garanzie organiche (assieme, ad esempio, alla pubblicità della procedura e all’indipendenza e imparzialità del giudice), diverse dalle cd. garanzie di funzionamento del processo, che rispondono all’esigenza di assicurare per tutta la durata del procedimento l’uguaglianza delle parti. La situazione italiana, sotto il descritto profilo, si è sempre mostrata particolarmente problematica: “è noto che il problema dei ritardi, che ha come conseguenza l’irragionevole durata dei processi, caratterizzi certamente l’ordinamento italiano”7: la legge n. 89/2001, sull’equa riparazione del danno derivato dall’irragionevole durata del processo (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile), comunemente ricordata come legge Pinto dal nome del senatore primo firmatario della proposta, mirava all’adozione di misure di accelerazione dei giudizi, attraverso la previsione di un’equa riparazione per il caso in cui venisse violato il termine ragionevole del processo. Il provvedimento rappresenta, dunque, la recezione, nell’ordinamento italiano, di principi di rango costituzionale già in precedenza recepiti nell’ordinamento europeo8. In particolare, l’Italia ha recepito la Cedu con la legge 4 agosto 1955 n. 848, così assumendosi l’obbligo di rispettare anche il diritto alla ragionevole durata del processo, ex art. 6, paragrafo 1, Cedu. Il rispetto dell’obbligo è apparso immediatamente assai difficile per il nostro paese, più volte citato in giudizio e condannato dalla Corte europea dei diritti umani, la quale si è fatta garante, ex art. 41 Cedu di garantire un equo ristoro alla vittime del danno9. Come conseguenza diretta, la Corte di Strasburgo ha dovuto intimare all’Italia di adottare strumenti di diritto interno idonei a fronteggiare il carattere continuativo e diffuso della violazione dell’art. 6 Cedu e, dunque, la perdurante incapacità di garantire la ragionevole durata del processo10. Peraltro, in ossequio al principio della sussidiarietà della giurisdizione, stabilito dall’art. 35, paragrafo 1, Cedu, occorreva riportare la risoluzione delle controversie scaturite da un’irragionevole durata del processo nell’ordinamento italiano, dal momento che l’art. 6 Cedu non mostrava un’efficacia self executing e la costituzionalizzazione del principio, avvenuta con la legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2, intervenuta sull’art. 111 Cost., conteneva mere indicazioni di programma rivolte al legislatore11, mentre del tutto inadeguata era apparsa l’adozione della legge 13 aprile 1988, n. 117, Risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati12. La risposta a siffatti problemi è stata rappresentata dalla legge Pinto. Occorre rammentare che, nel progetto originario, così come predisposto dall’allora Ministro della Giustizia Giovanni 5 Vernillo c. Francia, 20 febbraio 1991. Cfr. De Salvia, Compendium de la Convention européenne des droits de l’homme, Kehl-Strasbourg-Arlington, 1998, 141. 7 Così Angioi, Raimondi, Introduzione, cit., 13. 8 Ma ancora nel 2004, con la Recommendation Rec(2004)6 of the Committee of Ministers to member States on the Improvement of Domestic Remedies (Adopted by the Committee of Ministers on 12 May 2004, at its 114th Session), il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa ha sollecitato gli stati membri all’adozione, all’interno, di provvedimenti finalizzati a garantire efficienza e rapidità al processo. 9 Per un calcolo del costo sopportato dallo Stato italiano in conseguenza dei ricorsi per l’irragionevole durata dei processi, cfr. Zappitelli, I processi lumaca costano 118 milioni, in Il Tempo, 7 aprile 2011, 9. 10 Si possono ricordare talune sentenze della Corte europea datate 28 luglio 1999: Bottazzi c. Italia, n. 34884/97; A.P. Ferrari c. Italia, n. 33440/96; Di Mauro c. Italia, n. 34256/96. 11 Cfr. Corte Costituzionale, 24 otttobre 2007, n. 348 e n. 349 e, tra le varie pronunce di legittimità, Cass., 17 luglio 2003, n. 11172. 12 Grillo, La legge Pinto nell’ordinamento italiano: problemi e prospettive, in Lanza (coord.), Angioi, F. Raimondi (a cura di), La ragionevole durata del processo in Europa. Genesi, effetti e sviluppi della legge Pinto, Napoli, 2011, 30 s. e nt. 5 6 2 Conso13, la legge Pinto avrebbe dovuto contenere una serie di disposizioni in grado di influire direttamente sulla durata del processo, in una logica non di mera riparazione e sanzione, ma di vera e propria correzione del sistema, ossia di “prevenzione degli effetti dannosi e pregiudizievoli alla luce e sulla base del parametro rappresentato dal dettato dell’articolo 6 della Cedu e della giurisprudenza sviluppatasi in materia” 14. Invece, nella sua versione definitiva, il provvedimento si configura quale strumento esclusivamente indennizzatorio, inidoneo ad intervenire sulle cause del problema: se a ciò si aggiungono indubbie criticità applicative, si comprende “il rischio di ineffettività dello strumento, che avrebbe nuovamente riportato una quantità di ricorsi di fronte alla Corte di Strasburgo, riaprendo così un circolo vizioso di censura e di condanne” 15. Peraltro, in una sentenza del 6 aprile 2001, la Corte europea aveva avuto modo di affermare la possibilità di depositare ricorsi presso la Cancelleria anche prima del previo esaurimento dei ricorsi interni, fatta salva la necessità di attendere l’esito del giudizio nazionale16. Non vi è dubbio, dunque, che nel nostro ordinamento il principio della ‘ragionevole durata’, di rango costituzionale, risponde all’esigenza per cui lo Stato non soltanto deve approntare adeguate forme processuali, ma deve fare in modo che queste siano effettive, come la legge cost., 23 novembre 1999, n. 2 aveva affermato a proposito dell’art. 24, comma 1, Cost., sebbene la stessa Corte costituzionale non avesse assunto sulla questione una posizione univoca17. Si può in ogni caso ricordare che già in precedenza la Corte costituzionale aveva affermato che il diritto previsto dall’art. 24 Cost. implica in re ipsa una ragionevole durata del processo, “perché la decisione giurisdizionale alla quale è preordinata l’azione, promossa a tutela del diritto, assicuri l’efficace protezione di questo e, in definitiva, la realizzazione della giustizia”18. Sotto questo profilo, come è stato lucidamente segnalato, dal punto di vista tecnico emerge un duplice valore del principio in esame; da una parte, infatti, coerentemente alla costruzione proposta dall’art. 6 Cedu, la ragionevole durata del processo è un diritto della persona nei confronti dello Stato e dei suoi organi. Inoltre, la ragionevole durata del processo è criterio in base al quale valutare, in termini di legittimità od illegittimità giuridica, la normazione processuale19. Dall’altra parte, il principio della ragionevolezza temporale impone al giudice un preciso obbligo: difatti, nella sua concreta attività, egli è chiamato ad applicare, tra le diverse possibili interpretazioni, quella che meglio dà attuazione al principio medesimo. In questo senso, come messo in luce dalla Corte di legittimità, l’art. 111, comma 2, Cost. imponendo al legislatore di rispettare la ragionevole durata del processo detterebbe una regola ermeneutica per le singole 13 Conso, Legge Pinto: passo ineluttabile anche se certamente non decisivo, in Diritti dell’uomo: cronache e battaglie, n. 1, 2001, 24 ss. 14 Angioi, Raimondi, Introduzione, cit., 13; per un’accurata analisi delle soluzioni normative adottate nei diversi Stati membri, v. Vannucci, Soluzioni legislative accolte in alcuni ordinamenti nazionali in cui si registra l’irragionevole durata del processo, in Lanza (coord.), Angioi, Raimondi (a cura di), La ragionevole durata del processo in Europa. Genesi, effetti e sviluppi della legge Pinto, Napoli, 2011, 163 ss. 15 Così Grillo, La legge Pinto, cit., 32 e nt. 9. 16 Si tratta di Falco e altri c. Italia, n. 34375/2002. Cfr. M. Castellaneta, Legge Pinto: Italia fuori dai parametri di Strasburgo. Accesso alla CEDU prima della fine delle vie interne. La sentenza depositata racchiude ben otto condanne del nostro Paese, in www.guidaaldiritto.ilsole24ore.com/Doc.aspx?Numero=17&cmd=Guidaaldiritto_Archivio. 17 Trocker, Il valore costituzionale del giusto processo, in Civinini-Verardi, Il nuovo articolo 111 della Costituzione e il giusto processo civile, Milano, 2001, 36 ss. 18 Si tratta della sentenza della Corte costituzionale del 22 ottobre 1999, n. 388, in Giurisprudenza italiana, 2000, 1127. 19 Si deve sottolineare, poi, che la Corte costituzionale ha avuto modo di affermare come la violazione delle norme della Cedu determini l’illegittimità costituzionale della legge statale e regionale, laddove queste, interpretate alla luce dei principi fatti propri dalla Corte di Strasburgo, non siano in contrasto con la Costituzione italiana o con una legge di rango costituzionale. Si vedano ancora, Scoditti, Il giudice comune e la tutela dei diritti fondamentali di fonte sovranazionale, in Foro italiano, 2010, V, 42 ss.; Sorrentino, I diritti fondamentali in Europa dopo Lisbona (considerazioni preliminari), in Corriere giuridico, 2010, 145 ss. 3 disposizioni del codice di rito, sicché l’interpretazione complessiva deve essere finalizzata alla rapida chiusura processuale20. Dunque, sposando la posizione della Suprema Corte, si può dire che la costituzionalizzazione del principio della ragionevole durata abbia necessariamente determinato nuove esigenze e nuove sensibilità nell’interprete, sicché qualunque soluzione adottata sul piano processuale deve essere sottoposta ad una verifica non soltanto logico-concettuale, ma anche sistematica, ossia “per il suo impatto operativo sulla realizzazione del detto obietto costituzionale” 21 . 2. Il contenuto e le criticità della legge Pinto nella sua originaria formulazione Il Capo I della legge Pinto, espressamente finalizzato alla definizione immediata del codice civile, esordisce con l’art. 1, rubricato Pronuncia in camera di consiglio, che sostituisce il precedente dettato dell’art. 375 c.p.c.; l’art. 2, nella sua versione originaria oggi completamente innovata, prevedeva che chi avesse subito “un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto di violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955, n. 848, sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all’articolo 6, paragrafo 1, della Convenzione, ha diritto ad una equa riparazione”. Dunque, il legislazione ha scelto di operare un rinvio espresso ad una norma convenzionale di rango internazionale, che – come si sottolinea nei lavori preparatori alla legge 89 del 2001 – avrebbe l’effetto di trasportare nel diritto interno le condizioni di applicabilità funzionanti a livello europeo. In altre parole, la legge Pinto avrebbe dovuto garantire nel nostro ordinamento una tutela simile a quella riconosciuta a livello comunitario, subentrando nei medesimi limiti e per il tramite dei medesimi principi elaborati in primis dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo22. Ed infatti, la dottrina maggioritaria non aveva avuto dubbi nel ritenere che le pronunce della Corte di Strasburgo dovessero rappresentare un punto di riferimento imprescindibile per i giudici italiani nell’interpretazione del concetto di ‘termine ragionevole’; per quanto attiene alla giurisprudenza interna, si era reso necessario un intervento della Corte di Cassazione a Sezioni Unite, per chiarire la necessità di adeguarsi ai principi-guida dei tribunali europei23. Il comma 2 del medesimo art. 2 prevedeva che il giudice, nell’accertamento della violazione, dovesse considerare: - la complessità del caso; - in relazione alla stessa, il comportamento delle parti e del giudice del procedimento; - il comportamento di ogni altra autorità chiamata a concorrere al procedimento o comunque a contribuire alla sua definizione. A questo proposito, è stato osservato che “si tratta, in effetti, dei criteri già elaborati dalla giurisprudenza di Strasburgo in materia di equa riparazione che, per effetto della disposizione in argomento, vanno oggi a costituire il parametro di riferimento anche per il giudice interno, fermo restando un certo margine di apprezzamento” 24. Il comma 3 dell’art. 2 fissa le modalità con cui il giudice è chiamato a determinare la riparazione del danno ai sensi dell’art. 2056 c.c.: - rilevando soltanto il danno riferibile al periodo eccedente il termine ragionevole di cui al comma 1; 20 Cass., 7 gennaio 2009, n. 55. Si tratta del monito contenuto in Cass., SS.UU., 30 luglio 2008, n. 20604. 22 Cfr. Atto Senato n. 3813, 16 febbraio 1999. 23 Si tratta di Cass., SS.UU., 26 gennaio 2004, 1338, 1339, 1340 e 1341. 24 Angioi, Raimondi, Introduzione, cit., 23. 21 4 - il danno non patrimoniale è riparato, oltre che con il pagamento di una somma di denaro, anche attraverso adeguate forme di pubblicità della dichiarazione dell’avvenuta violazione: si tratta del rinvio alla previsione dell’art. 41 Cedu. L’art. 3 della legge 89/2001 disciplina il procedimento (in particolare, si individuano il giudice competente richiamando l’art. 11 c.p.c., le formalità del ricorso, il Ministero cui il ricorso deve essere indirizzato), ma degno di maggior attenzione è l’art. 4, rubricato ‘Termine e condizioni di proponibilità’, che nella versione originaria della legge Pinto recitava: “La domanda di riparazione può essere proposta durante la pendenza del procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata, ovvero, a pena di decadenza, entro sei mesi dal momento in cui la decisione, che conclude il medesimo procedimento, è divenuta definitiva”. L’uso del tempo verbale al passato è qui di fondamentale rilievo, perché gli interventi normativi che si sono succeduti hanno profondamente modificato il dettato della disposizione. Vi è infine l’art. 5, che prevede la comunicazione del decreto di accoglimento della domanda di riparazione sia alle parti del giudizio, che al procuratore generale della Corte dei Conti, perché dia eventualmente avvio ad un procedimento di responsabilità, oltre che al Consiglio Superiore della Magistratura, ovvero ad altri soggetti titolari di poteri disciplinari nei confronti dei dipendenti pubblici coinvolti nella questione. La disciplina processuale del giudizio interno di rifusione del danno da irragionevole durata del processo è stata completata dall’art. 2, d.l. 11 marzo 2002, n. 28 – che ulteriormente interviene sulla normativa del contributo unificato di iscrizione a ruolo dei procedimenti giurisdizionali civili, penali e amministrativi25 – con il quale è stato aggiunto al testo originario delle legge Pinto l’ulteriore art. 5-bis, contenente il nuovo principio dell’espressa esenzione del procedimento in materia di equa riparazione dal pagamento del contributo unificato26. Oggi, il ricorrente nazionale che intenda lamentare il danno per aver subito un processo eccessivamente lungo non è più tenuto a corrispondere alcuna somma a titolo di imposta di bollo, di tassa di iscrizione a ruolo, di diritti di cancelleria e diritti di chiamata dell’ufficiale giudiziario e non deve neppure versare alcunché a titolo di contributo unificato. L’esenzione amplia e facilita in misura significativa l’accesso al nuovo procedimento nazionale in quanto il rilevante abbattimento dei costi del processo e l’eliminazione di pressochè ogni bisogno di corresponsione di anticipi giocherà un ruolo di sicuro peso nella scelta del se invocare la tutela risarcitoria del danno derivato dall’ingiustificato protrarsi del processo. L’esenzione dal carico fiscale del procedimento in esame lo allinea maggiormente, anche per questo ulteriore profilio, al giudizio instaurabile avanti ai giudici di Strasburgo per sanzionare i processi eccessivamente lenti che è del tutto gratuito, non essendo mai stato soggetto ad alcun onere tributario. Per il procedimento domestico di equa riparazione rimane solo vigente l’imposta di registro che – comunque operante anche per i giudizi esenti dal contributo unificato27–, nel caso in cui sia pronunciata una condanna al risarcimento, dovrà essere corrisposta prima di avviare l’esecuzione coattiva del provvedimento28. Si è detto, a commento della legge, che la scarna disciplina dell’istruttoria, il termine ordinatorio di quattro mesi, l’immediata esecutività della sentenza e l’assenza di un ulteriore grado di giudizio evidenzierebbero il proposito di elaborare un procedimento semplice e tempestivo, 25 La disciplina sul contributo unificato per gli atti del processo è contenuta nella l. 23 dicembre 1999, n. 488 che ha definitivamente soppresso l’operatività del’imposta di bollo. La previgente disciplina, racchiusa nell’art. 7, l. 29 dicembre 1990, n. 405 ed ispirata al criterio che commisurava il tributo di bollo dovuto alla durata della causa e al numero di atti depositati durante il suo svolgimento, è stata integralmente riformata dall’art. 9, l. 488/99, che ha introdotto il diverso principio della progressività del contributo in ragione del valore della causa. 26 Espressamente v. la Relazione governativa al decreto legge 28/200, in Guida al diritto, n. 11/2002, 11. 27 Così espressamente Ministero della Giustizia, Circolare 12 marzo 2002. 28 Petrolati, I tempi del processo e l’equa riparazione per la durata non ragionevole (la c.d. ‘legge Pinto), Milano, 2005, 176 ss. 5 sebbene sommario, con sacrificio delle garanzie processuali normalmente connaturate alla cognizione ordinaria29. 3. La ‘ragionevole durata’ nel complesso dialogo tra Corte europea e giurisprudenza interna Come anticipato, il testo della legge Pinto è stato oggetto di importanti interventi modificativi. Si è già ricordato le iniziali difficoltà con cui la giurisprudenza di merito italiana – in particolare le Corti d’Appello – ha accolto ed applicato i principi direttivi già enunciati dalla Corte di Strasburgo: si diceva che il diritto ad una ragionevole durata del processo non fosse da annoverarsi tra i diritti fondamentali dell’uomo e che gli esiti della riflessione operata dalla Corte europea sull’equa riparazione non fosse direttamente applicabile e vincolante anche per il giudice italiano. In particolare, era stato sollevato il quesito se, con l’entrata in vigore del nuovo procedimento nazionale di equa riparazione del danno da eccessiva durata del processo, il legislatore italiano fosse da valutarsi quale strumento idoneo a tutelare e a garantire piena attuazione ai continui avvertimenti della stessa Corte di Strasburgo la quale, a fronte di una situazione italiana caratterizzata da costante aumento di un già significativo numero di condanne inflitte all’Italia soprattutto al nostro paese per la durata irragionevole del processo, si era discostata dal proprio precedente orientamento30, affermando l’applicabilità dell’art. 13 Cedu31 anche a tutela di ogni violazione del diritto ad un processo di durata ragionevole ex art. 6, paragrafo 1, Cedu32. In tale occasione, la Corte di Strasburgo ha pure chiarito che il coordinamento tra la tutela nazionale e la tutela assicurata innanzi ai giudici europei è attuato in ragione della fondamentale regola dell’esaurimento delle vie di ricorso interne contemplata nell’art. 35, 1 paragrafo, Cedu, dal momento che la ratio del succitato art. 13 Cedu risiederebbe nel “fornire uno strumento che consenta di ottenere a livello nazionale un rimedio alle violazioni della Convenzione prima di mettere in moto il meccanismo di tutela internazionale. Di conseguenza, il diritto ad un processo in tempi rapidi risulta sminuito qualora al riguardo non esista alcuna possibilità di adire un’autorità interna”; ne conseguirebbe, a parere dei giudici comunitari, che “la lentezza eccessiva della giustizia costituisce un pericolo per lo stesso Stato di diritto quando a questo riguardo gli interessati non dispongono di nessuna via di ricorso interna”. Anche tali sollecitazioni sono state di certo presenti al nostro più recente legislatore che ha scelto la via di dare piena attuazione al principio per cui lo Stato deve sanzionare se stesso per le eccessive lungaggini processuali prima di mettere in moto i meccanismi di tutela internazionale che, nella salvaguardia dei diritti dell’uomo convenzionali, hanno una funzione meramente sussidiaria33. 29 Sanna, La durata ragionevole dei processi nel dialogo tra giudici italiani ed europei, Milano, 2008, 157. Cfr. sentenza Kudla c. Polonia, 26 ottobre 2000, in Corriere giuridico, 2001, 405. 31 L’art. 13 Cedu, rubricato ‘Diritto ad un ricorso effettivo’, dispone che “Ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella presente Convenzione siano stati violati, ha diritto ad un ricorso effettivo davanti ad un’istanza nazionale, anche quando la violazione sia stata commessa da persone che agiscono nell’esercizio delle loro funzioni ufficiali”. 32 Come in parte già anticipato, la Corte aveva infatti ripetutamente concluso nel senso che l’art. 6, 1 comma, prima proposizione, Cedu costituiva una lex specialis rispetto all’art. 13 Cedu e che quindi non vi era alcun interesse a controllare anche il rispetto dei requisiti meno severi previsti dall’art. 13. Sul punto si vedano le sentenze Pizzetti c. Italia, 26 febbraio 1993; Tripodi c. Italia, 25 gennaio 2000 e Brouilly c. Francia, 7 dicembre 1999. 33 Come affermato dalla Corte già nella sentenza Handyside c. Regno Unito, 7 dicembre 1976, le autorità nazionali sono le meglio collocate per ovviare alle violazioni della Convenzione, mentre il giudice europeo è chiamato ad intervenire solo dopo l’esaurimento dei rimedi interni. In questo senso v. anche Consiglio Superiore della Magistratura, Relazione al parlamento sullo stato dell’amministrazione della giustizia (2001) – Tutela dei diritti, efficacia e tempi della giurisdizione, in www.judicium.org, e in Ordine Avvocati di Milano, Rivista del Consiglio, 3/2001, 83, secondo il quale (60 ss.) se l’art. 6, paragrafo 1, Cedu e la giurisprudenza della Corte di Strasburgo attribuiscono ai cittadini europei un vero e proprio diritto soggettivo immediatamente azionabile, l’art. 111 cost. si limita a fissare una direttiva di 30 6 L’ambizione è certamente ridurre drasticamente le condanne del nostro paese per violazione dell’art. 6, paragrafo 1, prima proposizione, Cedu, per la durata eccessiva del processo civile, posto anche che i provvedimenti sanzionatori europei non incentivano in alcun modo la conclusione del procedimento già ritenuto ingiusto. E, almeno fino ad oggi, neppure hanno inciso a livello legislativo in modo determinante esercitando quella funzione preventiva della modifica delle leggi e dell’organizzazione giudiziaria che varrebbe ad allineare la fisionomia del rito civile italiano alle prescrizioni convenzionali. Lo strumento apprestato dalla nuova legge contribuisce, in ogni caso, a rafforzare la tutela interna dei principi convenzionali del giusto processo che, per effetto dell’attuale formulazione del novellato art. 111 Cost., ricoprono oggi rango costituzionale. Dunque, la Costituzione non soltanto impone al legislatore di creare un sistema giudiziario in grado di garantire la tutela dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi, ai sensi dell’art. 24, comma 1, Cost., ma gli richiede altresì di assicurare che siffatti meccanismi processuali mostrino requisiti tali da assicurare un processo ‘giusto’, ossia “strutturato in maniera tale da far ritenere attendibili i suoi risultati” 34. Ai questo proposito, va ricordato che l’art. 111 esplicita taluni valori cui il processo civile si deve ispirare, principi che possono essere considerati direttamente collegati al principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost.; sotto questo profilo, il processo deve essere gestito da un giudice che si trovi in posizione di terzietà rispetto alle parti e agli interessi a queste facenti capo. Il secondo comma dell’art. 111 Cost. precisa che la legge deve assicurare la ragionevole durata del processo. Seppur, pertanto, la disposizione non abbia la forza di incidere a monte – come certamente sarebbe stato meglio fare – impedendo il verificarsi della violazione, essa certamente appronta un meccanismo che, come già precisato, anche se solo in via riparatoria e surrogatoria, si propone di offrire una tutela effettiva ed efficace a colui che ha subito un danno per la durata eccessivamente lunga del processo35. La risposta più eclatante a siffatta impostazione è rappresentata dalla famosa sentenza Scordino: nel 2003, la Corte europea dichiara ricevibile, anche sotto il profilo della ragionevole durata del processo, il ricorso promosso da cittadini italiani che avevano omesso la previa impugnazione della pronuncia della Corte d’Appello dinanzi alla Corte di Cassazione36. La Corte europea motiva che i rimedi interni, che il ricorrente deve previamente esperire ex art. 35, paragrafo 1, Cedu, devono essere “adeguati ed effettivi … con un sufficiente grado di certezza, in pratica come in teoria” 37. La reazione della Corte di Cassazione, nelle succitate decisioni del 26 gennaio 2004 (nn. 1338, 1339, 1340, 1341) pronunciate a Sezioni Unite, ha portato ad affermare che, ai sensi dell’art. 2, l. 89/2001, “il fatto giuridico che fa sorgere il diritto all’equa riparazione da essa prevista è costituito dalla violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1995, n. 848, sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione. La legge n. comportamento per il legislatore, sindacabile in sede di controllo di legittimità da parte della Corte costituzionale per il profilo per cui le singole disposizioni processuali prevedono tempi morti o formalità superflue e si mostrano così incompatibili con l’esigenza che il processo si definisca in tempi ragionevoli, ma che non consentiva al giudice delle leggi di entrare nel merito della durata del singolo processo. La legge in commento ha, poi, ovviato a tale situazione introducendo il diritto soggettivo processuale alla durata ragionevole del processo, immediatamente azionabile. 34 Bove, Il principio della ragionevole durata del processo nella giurisprudenza della Corte di cassazione, Napoli, 2010. 35 Per la dimostrazione di questa conclusione v. Tarzia, L’art. 111 Cost. e le garanzie europee del processo civile, in Rivista di diritto processuale, 2001, 5 ss.; Giorgetti, L’imparzialità del giudice delle opposizioni esecutive, in Giustizia civile, 2001, I, 837 ss., spec. 83; Ead., La domanda di equa riparazione interna, tra disciplina ordinaria e limiti intertemporali, in www.judicium.it/old_site/archivio/giorgetti01.html; Ead., L’equa riparazione per l’irragionevole durata del processo, Bergamo, 2003. 36 Corte europea dei diritti dell’uomo, 27 marzo 2003, Scordino e altri c. Italia, n. 36813/97. 37 Cfr. Masoni, La ragionevole durata del ‘giusto processo’ nell’applicazione giurisprudenziale, Milano, 2006, 119 ss. 7 89/2001, cioè, identifica il fatto costitutivo del diritto all’indennizzo per relationem, riferendosi ad una specifica norma della Cedu … Poiché il fatto costitutivo del diritto attribuito dalla legge n. 89/2001 consiste in una determinata violazione della Cedu, spetta al giudice della Cedu individuare tutti gli elementi di tale fatto giuridico, che pertanto finisce con l’essere conformato dalla Corte di Strasburgo, la cui giurisprudenza si impone, per quanto attiene all’applicazione della legge n. 89/2001, ai giudici italiani”38. È stato, però, di recente ancora precisato dalla Suprema Corte, che il giudice nazionale è tenuto ad applicare la legge dello Stato, dal momento che alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo non può essere concessa una diretta applicazione39. In altri termini e più precisamente, “i criteri di liquidazione della legge Pinto risulterebbero prevalenti rispetto ai criteri europei e consentirebbero di statuire entro un margine di apprezzamento che, pur non consentendo il disconoscimento della violazione, si discosti dai criteri di Strasburgo”40. Tra le maggiori perplessità, ve ne erano collegate al perdurante divario nel calcolo del dies a quo, dal momento che l’art. 2 della legge Pinto consentiva di considerare il solo periodo eccedente la ragionevole durata del processo, contrapponendosi al criterio applicato dalla Corte europea, tendenti a considerare il procedimento nella sua totalità41. Degna di nota è anche la recente sentenza Simaldone, con cui i giudici della Corte europea richiamano i principi elaborati dalla giurisprudenza, rivolgendo un nuovo avvertimento all’Italia, perché trovi soluzione ai ritardi nei pagamenti dei risarcimenti conseguenti all’applicazione della legge Pinto, mentre ancora più recentemente, la Suprema Corte ha certificato l’inadeguatezza del sistema di indennizzo applicato dallo Stato italiano, il quale rischierebbe di minacciare lo stesso meccanismo posto in essere dalla Cedu42. Sintetizzando, dunque, i passaggi sopra descritti si può dire che i rapporti tra giurisprudenza nazionale e giurisprudenza europea, all’indomani hanno attraversato due fasi. La prima, tra il 2001 ed il 2004, successiva ad un lungo periodo di divergenze, ha visto la Corte europea adeguarsi alle elaborazioni della giurisprudenza nazionale43; in una seconda fase – cui, invero, in questa sede è solo possibile accennare – ripropone il dibattito in merito all’indennizzo riconosciuto ai ricorrenti44. 38 Sicché, la Corte europea ha affermato che, dalla data di deposito delle sentenze di legittimità citate, le disposizioni della legge Pinto possono considerarsi un rimedio efficace: Corte europea dei diritti umani, 24 giugno 2004, Di Sante c. Italia, n. 56079/00: cfr. Guazzarotti, Interpretazione conforme alla Cedu e proporzionalità ed adeguatezza. Il diritto di proprietà, in www.forumcostituzionale.it/site/images/stories/pdf/. 39 Cass., 3 gennaio 2008, n. 14; De Stefano, L’irresponsabilità della Cassazione italiana rispetto alla Corte di Strasburgo, commento alla sentenza n. 14/2008, in www.europeanrights.eu/-index.php?funzione=S&op=5&id=78. 40 Così Grillo, La legge Pinto, cit., 39. 41 Per la giurisprudenza sul punto, Cass., 31 gennaio 2008, n. 2331; si veda anche il commento di Viola, Equa riparazione da irragionevole durata del processo: le precisazioni giurisprudenziali, 2009, in www.altalex.com/index.php?idstr=45&idnot=41673. 42 Si tratta di Corte europea dei diritti umani, 31 marzo 2009, Simaldone c. Italia, n. 22644/03, nonché di Corte europea dei diritti umani, 21dicembre 2010, Gaglione e altri c. Italia, n. 45867/07; cfr. anche Mascia, La Cedu sollecita l’Italia a predisporre nuove misure di carattere generale per rimediare alle disfunzioni del ricorso Pinto, in http://antonellamascia.wordpress.com/; De Stefani, Condanna dell’Italia per l’inefficiente applicazione della legge Pinto (Gaglione e altri c. Italia, 21 dicembre 2010), in http://unipd-centrodirittiumani.it/it/schede/. 43 Cfr. Falletti, Si ripropone il contrasto tra la Corte di Strasburgo e la giurisprudenza italiana sull’effettività del rimedio interno previsto dalla legge Pinto, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 2005, 209 ss. 44 Così Zambrano, Convergenze e divergenze tra la giurisprudenza italiana ed europea in materia di ragionevole durata del processo e di diritto all’equo indennizzo, in Lanza (coord.), Angioi, Raimondi (a cura di), La ragionevole durata del processo in Europa, cit., 122; cfr. anche Padelletti, L’applicazione della legge Pinto sull’equa riparazione in caso di irragionevole durata del processo: qualche luce e tante ombre, in Rivista di diritto internazionale, 2002, 954 ss.; Pancheri, Rapporti tra Corte di cassazione e Corte europea dei diritti dell’uomo in materia di ragionevole durata del processo, in www.federalismi.it; Nigro, Prosperi, L’irragionevole durata del processo: cause e rimedi per la violazione del diritto alla giustizia, Forlì, 2009; Falcone, La ragionevolezza del processo: tra vincoli europei e autonomia dell’ordinamento interno, in Giustizia civile, 2010, 251 ss.; Pirollo, Profili di costituzionalità e questioni interpretative della legge Pinto in punto di ‘durata ragionevole’. La prassi interna e l’orientamento della Corte di Strasburgo, in Rassegna dell’avvocatura dello Stato, 2010, 145 ss. 8 4. Le riforme apportate dalla legge n. 134/2012 Le sopra esposte criticità applicative della legge Pinto, messe in evidenza dalle decisioni della Corte di Strasburgo, erano in parte già state espresse dalla più accorta dottrina e sono state oggetto di esame da parte del legislatore; la verifica operata sul dettato della legge ha condotto alle modifiche versate all’art. 55 del d.l. n. 83/2012 (cd. decreto Sviluppo), poi convertito nella l. n. 134/201245. Lo scopo della novella è stato di rendere più agile e rapido il ricorso alla legge Pinto, nonché di razionalizzare il procedimento dinanzi alla Corte d’Appello, contenendo la spesa pubblica collegata ai risarcimenti che ne derivano46. Difatti, è da ritenersi quanto mai opportuna la fissazione ex lege di parametri in grado di arginare il proliferare di ricorsi per ottenere l’equo indennizzo, in una spirare in continua ed esponenziale di processi. a) Le modifiche apportate all’art. 2 legge Pinto: nuovi criteri per la determinazione della ragionevole durata del processo La prima modifica significativa interviene su comma 2 dell’art. 2 (il comma 1 è rimasto invece invariato); anzitutto, il giudice non è più tenuto a ‘considerare’ i criteri in base ai quali pronunciarsi sull’irragionevole durata, ma è chiamato ad una vera e propria valutazione: “Nell’accertare la violazione, il giudice valuta”. Accanto ai tre criteri previsti già nella versione del 2001, rivisati anch’essi dalla novella, si prevede che il giudice debba tenere in considerazione “l’oggetto del procedimento”: si tratta, come meglio si preciserà infra, della recezione a livello legislativo di un orientamento consolidato nella giurisprudenza di Strasburgo e di legittimità interna, che richiedeva una speciale attenzione in termini di durata del procedimento per le controversie vertenti in materie suscettibili di interferire nella sfesa dei diritti fondamentali dell’individuo. Altra novità riguarda la valutazione del comportamento delle parti e del giudice: la condotta esaminanda è quella tenuta – precisa il legislatore nel 2012 – “durante il procedimento”; ancora, il giudice dovrà considerare il comportamento di ogni altro soggetto che sia chiamato a concorrere o a contribuire alla definizione della lite: si può pensare, ad esempio, ai consulenti di parte, ovvero agli uffici della cancelleria, più in generale a tutto l’apparato giudiziario la cui cattiva organizzazione può essere causa di lungaggini processuali, come d’altra parte dottrina e giurisprudenza concordi avevano da tempo elaborato. Il comma 3 dell’art. 2 legge Pinto è stato abrogato ed al suo posto si rinvengono oggi le previsioni dei commi 2-bis e 2-quinquies, norme che mirano a precisare le modalità con cui si deve valutare la ragionevole durata del processo, “in modo da limitare la proposizione indiscriminata di ricorsi che vanno ad aggravare la già difficile situazione della giustizia italiana, stabilendo quali e quando si intendono rispettati i termini ragionevoli oltre i quali sorge il diritto all’equa riparazione (…) e specificando quali sono i casi in cui non viene riconosciuto alcun indennizzo”47. Il comma 2-bis afferma che si ritiene rispettato il termine ragionevole menzionato al comma 1 “se il processo non eccede la durata di tre anni in primo grado, di due anni in secondo grado, di un anno nel giudizio di legittimità”: il legislatore interno ha così recepito e perfezionato le indicazioni offerte in importanti sentenze pronunciate dalla Corte di Strasburgo, la quale, nel silenzio normativo, aveva quantificato la ragionevole durata del processo. 45 Cfr. Tricomi, Processo breve: senza strumenti innovativi si rischia il collasso del settore civile, in Guida al diritto, 2010, 7, 100. 46 Santi di Paola, Tambasco, Le novità per l’avvocato dopo la legge 134/2012 (Decreto Sviluppo), Santarcangelo di Romagna, 2012, 132 s. 47 Santi di Paola, Tambasco, Le novità per l’avvocato, cit., 135 s. 9 A questo proposito, una recente pronuncia della Suprema Corte di Cassazione ha efficacemente sintetizzato la posizione europea circa la ragionevole durata dei processi, ammettendo che la durata massima del procedimento finalizzato ad un’equa riparazione non potesse comunque superare i due anni; siffatto termine viene reputato dalla Corte di legittimità “pienamente compatibile con le indicazioni desumibili dagli ultimi approdi della giurisprudenza della Corte europea e rispondente sia alla natura meramente sollecitatoria del termine di quattro mesi di cui all’art. 3 comma 6, l. 89/2001, sia della durata ragionevole del giudizio di cassazione che, anche in un giudizio di equa riparazione, non è suscettibile di compressione oltre il limite di un anno”. Viene poi ulteriormente precisato che la durata complessiva del secondo procedimento non poteva avere ragionevolmente una durata superiore ai due anni48. La disposizione in esame prosegue fornendo precisazioni in merito al termine a quo per il calcolo della durata: “ai fini del compuito della durata, il processo si considera iniziato con il deposito del ricorso introduttivo del giudizio, ovvero con la notificazione dell’atto di citazione”. Come si preciserà meglio, una delle maggiori criticità ha riguardato, per quanto riguarda il nostro ordinamento, la separazione tra processo di cognizione e processo di esecuzione, le cui durate, costituendo essi procedimenti autonomi dotati di loro proprie peculiarità, non sarebbero state cumulabili. Il nuovo art. 2 comma 2-bis accetta siffatta impostazione ed aggiunge che “si considera rispettato il termine ragionevole se il procedimento di esecuzione forzata si è concluso in tre anni, e se la procedura concorsuale si è conclusa in sei anni”. Sebbene in questa sede non venga trattato il problema della ragionevole durata nel processo penale, merita di essere ricordata la previsione dell’ultimo periodo della disposizione in esame, in cui si dice che il processo penale si considera iniziato con l’assunzione della qualità di imputato, di parte civile o di responsabile civile, ovvero quando l’indagato ha avuto legale conoscenza della chiusura delle indagini preliminari. Si può ricordare come una simile determinazione di termini era già apparse in un precedente tentativo di riforma versato nel provvedimento A.S. 1440 del 10 marzo 2009, laddove l’esame del ricorso era subordinato alla previa presentazione di un’istanza di sollecita definizione che la parte interessata avrebbe dovuto presentare nei sei mesi precedenti alle scadenze di ragionevole durata del processo, così da fungere da filtro alla proposizione dei ricorsi. Il comma 2-ter dell’articolo in esame statuisce che si considera comunque rispettato il termine ragionevole se il giudizio viene definito in via definitiva in un termine non superiore a sei anni49; pertanto, anche se nel corso dei singoli gradi di giudizio vengono superati i termini della ragionevole durata del processo, se il giudizio si conclude in modo definitivo entro sei anni, non vi sarà alcun dubbio di ragionevolezza. Al comma 2-quater, invece, si legge che viene escluso dal computo il tempo in cui il processo subisce una sospensione ovvero il tempo compreso tra il giorno in cui inizia a decorrere il termine per proporre l’impugnazione e la proposizione della stessa. L’ultimo comma dell’art. 2 legge Pinto disciplina le ipotesi in cui non si ha diritto all’indennizzo per l’irragionevole durata del processo (“non è riconosciuto alcun indennizzo”). Si tratta di sei ipotesi circoscritte, in ognuna delle quali si configura una responsabilità delle parti. La prima previsione (lett. a) si riferisce al caso in cui la parte soccombente sia stata condannata ex art. 96 c.p.c., avendo cioè essa agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave. La ratio della disposizione è evidentemente quella di evitare che venga riconosciuto un indennizzo ad una parte che è stata pretestuosamente in giudizio. 48 Cass., 24 maggio 2012, n. 8284. Come osservano Santi di Paola, Tambasco, Le novità per l’avvocato, cit., 138, “in questo modo si introducono dei termini ben precisi per la proposizione delle domande, allo scopo di limitarne l’abuso che ha finora contribuito ad aggravare la già congestionata situazione della giustizia italiana”. 49 10 La seconda ipotesi (lett. b) è individuata, per relationem, attraverso la previsione dell’art. 91, comma 1, secondo periodo, c.p.c., laddove la parte abbia rifiutato una proposta conciliativa e la successiva pronuncia giudiziaria abbia accolto la domanda in una misura non superiore alla proposta medesima. Il legislatore ha qui inteso incentivare la chiusura in via conciliativa della contesa; ovviamente, la richiesta di un giusto indennizzo per l’irragionevole durata del processo potrà essere richiesta dalla parte che ha formulato la proposta. L’ipotesi versata alla lett. c) fa riferimento alla previsione dell’art. 13, comma 1, primo periodo, d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28, escludendo la proponibilità, per la parte vincitrice del giudizio, di richiedere processualmente un’equa riparazione, qualora il provvedimento che definisce il giudizio corrisponda interamente al contenuto della proposta formulata in sede di mediazione. Anche in questo caso, la motivazione della scelta riformatrice risiede nella volontà legislativa di favorire le composizioni delle liti nella fase pre-processuale della conciliazione – ora non più obbligatoria –. Nel quarto caso (lett. d), si esclude la possibilità di ottenere un equo indennizzo se si verifica l’estinzione del reato per intervenuta prescrizione connessa a condotte dilatorie della parte; sempre ad un contesto penalistico si riferisce la successiva previsione (lett. e), in base alla quale è escluso l’indennizzo qualora l’imputato non abbia depositato un’istanza di accelerazione del processo penale, nei trenta giorni successivi al superamento dei termini di cui all’art. 2-bis. Infine, l’ultima ipotesi (lett. f) si configura come residuale, poiché coinvolge “ogni altro caso di abuso dei poteri processuali che abbia determinato una ingiustificata dilazione dei tempi del procedimento”. b) Il nuovo art. 2-bis legge Pinto e la liquidazione dell’indennizzo L’art. 2-bis l. 89/2001, introdotto dal Decreto Sviluppo nel 2012, contiene una disciplina espressamente finalizzata al calcolo per la liquidazione dell’indennizzo, il quale – precisa la norma in esame – non può essere inferiore a 500,00 euro, né superiore a 1500,00 euro, e spetta per ogni anno o frazione di anno eccedente i termini di ragionevole durata del processo. Spicca, rispetto alla precedente formulazione, che per la determinazione dell’ammontare richiamava i criteri di cui all’art. 2056 c.c., la fissazione di una somma determinata, il cui minimo risulta inferiore rispetto alla soglia indicata, di 750,00 euro, dalla Corte europea come indennizzo minimo per anno. In ogni caso, le frazioni di anno possono essere liquidate solamente se superiori a sei mesi. La fissazione di una somma determinata non esclude, invero, l’applicabilità del succitato art. 2056 c.c., ma ad esso devono venire aggiunti – oltre ai criteri dell’art. 2 comma 2 legge Pinto – taluni altri parametri, come ad esempio l’esito del processo, la condotta assunta dalle parti e dal giudice, ovvero da altri soggetti coinvolti nella dinamica processuale, la natura degli interessi posti in gioco, il valore della causa. Inoltre occorre tenere in debita considerazione anche talune altre disposizioni del codice civile, cui rinvia lo stesso art. 2056 c.c. Si tratta dell’art. 1223 c.c., che fa rientrare nel risarcimento del danno tanto il lucro cessante quanto il danno emergente, che si configurino quale conseguenza immediata e diretta del danno; l’art. 1126 c.c., che ammette la facoltà del giudice di liquidare il danno in via equitativa; l’art. 1127 c.c., sull’ipotesi di concorso colposo dell’avente diritto al risarcimento del danno e sull’esclusione del risarcimento medesimo allorquando l’avente diritto lo avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza. Non ci si soffermerà ora sulla nuova previsione dell’art. 3 legge Pinto, rubricato Procedimento; basti ricordare che il procedimento volto ad ottenere l’equa riparazione del danno subito per l’irragionevole durata processuale era in origine concepito come procedimento camerale. Difatti, in seno alla Corte d’Appello, non si era proceduto ad istituire un organo ad hoc che 11 svolgesse un preventivo filtro circa la ricevibilità dei ricorsi ex art. 35 Cedu, sicché i ruoli si sono notevolmente appesantiti50. Oggi, invece, per intervento della l. 134/2012, il procedimento è stato trasformato in un procedimento sommario, “sulla falsariga del procedimento per decreto ingiuntivo che viene esaminato da un giudice monocratico e deciso senza ritardo su base documentale” 51. c) Il termine di proponibilità del ricorso ai sensi del nuovo art. 4 legge Pinto La legge 134 del 2012 ha innovato profondamente anche il dettato dell’art. 4 l. 89/2001, che nella sua versione originaria prevedeva che la domanda di riparazione potesse essere proposta in due situazioni: o durante la pendenza del procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata, o, a pena di decadenza, entro sei mesi dal momento in cui la decisione, che conclude il medesimo procedimento, è divenuta definitiva. Si trattava – e si tratta tuttora, seppur con le novità che tra poco si metteranno in luce – di una norma che disciplina i cd. limiti temporali di proponibilità dell’istanza di rifusione del danno da irragionevole durata del processo. In particolare, non accogliendo taluni spunti presenti nel Progetto di legge Conso52, il testo della legge Pinto del 2001 non subordinava la presentazione dell’istanza di equa riparazione all’attivazione di taluni meccanismi acceleratori del processo, ossia ad un comportamento attivo della parte, finalizzato alla compressione dei termini processuali53. In altri termini ancora, si può dire che, come la Corte di Strasburgo aveva più volte ammonito, non esiste per le parti alcun obbligo di domandare che il processo si svolga in maniera più veloce54. Il principio è stato accolto dalla Corte costituzionale italiana, che “ha escluso la contrarietà ai principi della Carta fondamentale di alcune norme del rito civilistico – segnatamente gli artt. 181, 1 comma, e 686 c.p.c. – nella parte in cui consentono una dilatazione dei tempi del processo o limitano la tutela che la parte può ottenere in via preventiva in quanto non determinano di per sé una durata irragionevole del processo”55. Si tratta, peraltro, di una disposizione che occorre riferire ad ogni tipo di procedimento: civile, penale, amministrativo, tributario e persino costituzionale, almeno sulla scorta del costante orientamento della giurisprudenza, pur dinanzi a talune costrastanti opinioni dottrinali56. 50 Foschi, Il ritardo verrà condannato in ritardo, in Il Sole 24 ore del lunedì, 25 giugno 2001, 15; ampiamente Giorgetti, La domanda di equa riparazione, cit. 51 Santi di Paola, Tambasco, Le novità per l’avvocato, cit., 143. 52 Si tratta del disegno di legge n. 3813, d’iniziativa dei senatori Pinto e altri, comunicato al Senato in data 16 febbraio 1999 (XII legislatura); il testo di legge e la relativa Relazione si rinvengono in Didone, Equa riparazione e ragionevole durata del giusto processo, Milano, 2002, 201 ss. 53 Così Giorgetti, La domanda di equa riparazione, cit. 54 Sulla questione, cfr. Vernillo c. Francia, 20 febbraio 1991; Ciricosta e Viola c. Italia, 4 dicembre 1995, in cui si dice espressamente che la disciplina del processo civile, pur affidando alle parti il potere di iniziativa e di impulso, non dispensa i giudici dall’obbligo di garantire la ragionevole durata del processo. 55 Giorgetti, La domanda di equa riparazione, cit.; si tratta delle sentenze della Corte Cost. 9 febbraio 2001, n. 32, in Corriere giuridico, 2001, 1245 ed in Giurisprudenza italiana, 2002, 33 ss., con nota di Molteni, Brevi note sul principio di ragionevole durata del processo a margine della decisione n. 32 del 2001 della Corte costituzionale, e di Corte Cost. 22 ottobre 1999, n. 388, in Foro italiano, 2000, I, 1073, con nota di Pagni, I limiti dell’accertamento tecnico preventivo ancora al vaglio della Corte costituzionale e in Giurisprudenza italiana, 2000, 1127, con nota di Didone, La Corte costituzionale, la ragionevole durata del processo e l’art. 696 c.p.c. (il dubbio di costituzionalità era stato sollevato da Trib. Napoli, 2 febbraio 2000, in Giurisprudenza italiana, 2000, 942, con nota di Didone, L’art. 181 c.p.c. nuovamente al vaglio della Corte Costituzionale). 56 Per la dottrina, comunitaria e locale, che vale la pena rammentare, si possono citare: Corte europea dei diritti umani, Kremáze e altri c. Repubblica ceca, 3 marzo 2000, in Corriere giuridico, 2000, 1245; in dottrina, i due sopra esposti orientamenti sono rappresentati, rispettivamente, da Plotino, Quando le incertezze normative fanno oscillare i criteri interpretativi, in Guida al diritto, 41/2001, 17, in senso restrittivo, e da Dalmotto, Diritto all’equa riparazione per l’eccessiva durata del processo, in Chiarloni (a cura di), Misure acceleratorie e riparatorie contro l’irragionevole durata dei processi, Torino, 2002, 100 s., per un atteggiamento più “largheggiante”. 12 La dottrina aveva avuto modo di osservare come, ammettendo la proponibilità del ricorso per ottenere un’equa riparazione, il giudizio a quo fosse normalmente rallentato dall’attività di trasmissione degli atti e dei documenti al giudice ad quem, senza che fosse possibile – come già si è poc’anzi osservato – arginare in limine le iniziative processuali, dal momento che l’art. 4 legge Pinto non configura Sachenverhandlungvoraussetzungen tali da condizionare nel merito la trattazione della domanda riparatoria, “non distinguendo tra ritardi manifestamente giustificati e non, fra azioni temerarie e fondate”. Ancora, si era sottolineato che, dovendosi l’equa riparazone e la conseguente misura dell’indennizzo valutare in ragione del ritardo complessivo eccedente la ragionevole durata del processo, l’istanza proposta in corso di causa necessariamene dovrà condurre ad un primo procedimento sull’an della riparazione, nonché ad un secondo procedimento volto alla liquidazione del quantum. Il risultato complessivo è addirittura una triplicazione dei rimedi processuali, con indubitabili conseguenze negative sul funzionamento dell’intero apparato giudiziario57. L’interpretazione dottrinale era giunta ad affermare come una corretta lettura della regola della ragionevole durata del processo, ispirata al principio dell’economia processuale, induca ad affermare non soltanto la necessità di garantire una rapida conclusione del processo, ma anche di evitare che nuovi processi collegati al primo vengano innescati, sicché “più opportuno sarebbe stato, pertanto, escludere la proponibilità di domande di equa riparazione durante la pendenza del processo”58. Accogliendo siffatti suggerimenti, il legislatore del 2012 esclude dal dettato dell’art. 4 legge Pinto la possibilità di proporre la domanda di indennizzo durante la pendenza del procedimento. La disposizione – la cui rubrica, peraltro, non fa più cenno alle ‘condizioni di proponibilità’, ma si limita a parlare di ‘Termine di proponibilità’ – recita nella sua versione attuale: “La domanda di riparazione può essere proposta, a pena di decadenza, entro sei mesi dal momento in cui la decisione che conclude il procedimento è divenuta definitiva”. Oltre alle decisive osservazioni sopra riportate, in sede di conversione del decreto legge 83/2012 ad opera della Camera dei Deputati, il riferimento alla possibilità di proporre causa in pendenza del procedimento è stato espunto, “proprio perché fino alla fine del procedimento potrebbero verificarsi delle circostanze che potrebbero persino escludere il diritto all’indennizzo”59. Meno decisive ai fini della presente trattazione sono le modifiche apportati all’art. 5 della legge Pinto, nonché l’introduzione degli artt. 5-ter e 5-quater, l. 89/2001. Nella sua formulazione originaria l’art. 5 della legge Pinto si riferiva alla comunicazione del decreto di accoglimento della domanda, curata dalla cancelleria della Corte d’Appello, alle parti, al procuratore generale presso la Corte dei Conti per l’eventuale avvio dell’azione di responsabilità, e ai titolari dell’azione disciplinare dei dipendenti pubblici interessati al procedimento60. Il decreto Sviluppo ha previsto, al nuovo comma 1 dell’art. 5 legge Pinto, che il ricorso, unitamente al decreto con cui si accoglie la domanda, sia notificato in copia autentica, a cura del ricorrente (e non più della cancelleria), alla parte nei cui confronti la domanda è stata proposta entro 30 giorni dalla data del deposito in cancelleria del provvedimento. Suddetto termine di notificazione deve intendersi come perentorio, poiché la sua inosservanza determina l’inefficacia del decreto e l’impossibilità di riproporre la domanda di equa riparazione; inoltre, se il ricorrente effettua la notificazione prevista dal comma 1 dell’art. 5, presta 57 Giorgetti, La domanda di equa riparazione, cit.; ex multis, anche per la giurisprudenza citata, Didone, Appunti sulla ragionevole durata del processo civile, in Giurisprudenza italiana, 2000, 871. 58 Così Giorgetti, La domanda di equa riparazione, cit.; medesima la considerazione di Olivieri, La ragionevole durata, cit., 252, mentre mitiga la preminenza attribuita al principio di economia processuale Marengo, La litispendenza internazionale, Torino, 2002, 85 ss. 59 Santi di Paola, Tambasco, Le novità per l’avvocato, cit., 146. 60 Si può confrontare, a proposito, la delibera del Consiglio Superiore della Magistratura del 5 luglio 2012. 13 acquiescenza al decreto, sicché l’opposizione prevista dall’art. 5-ter, sul quale infra, diverrà improponibile. Come è stato osservato, sotto questo profilo la riforma alla legge Pinto accresce il potere di iniziativa della parte, che potrà valutare in via autonoma la convenienza di proporre ricorso oppure dare esecuzione al provvedimento ottenuto, entro il termine breve di 30 giorni; “decorso tale termine si presume, in caso di inattività, una mancanza di interesse del tutto in contrasto con la celerità che si richiede al nuovo procedimento”61. Altrettanto nuovo è il contenuto dell’art. 5-ter, rubricato ‘Opposizione’, al cui comma 1 si legge che contro il decreto che ha deciso sulla domanda di equa riparazione può essere proposta opposizione entro un termine perentorio di trenta giorni dalla comunicazione del provvedimento, ovvero dalla sua notificazione. Ai sensi del comma 2, si legge che l’opposizione si propone con ricorso innanzi all’ufficio giudiziario al quale appartiene il giudice che ha emanato il decreto: in tale fattispecie trova applicazione l’art. 125 c.p.c. Dunque, diversamente da quanto accadeva in precedenza, laddove si prevedeva la possibilità di proporre opposizione contro il decreto che aveva deciso in merito all’equo indennizzo dinanzi alla Corte di Cassazione, oggi il ricorso si propone dinanzi alla medesima Corte d’Appello che ha emesso il decreto, ma per motivi di opportunità il giudice che ha emesso il decreto opposto non potrà partecipare al collegio destinato a decidere dell’opposizione. Come precisa il comma 3, il procedimento è regolato dagli artt. 737 ss. c.p.c., ossia dalle regole in materia di procedimenti camerali, in un contraddittorio che ricalca quello originariamente previsto nella legge Pinto. Il comma 4, poi, precisa che l’opposizione non sospende l’esecuzione del provvedimento, sebbene il collegio possa sospendere l’efficacia del decreto opposto, per il tramite di un’ordinanza non impugnabile, laddove ricorrano gravi motivi. Infine, al comma 5, si legge che la Corte d’Appello pronuncia un decreto, immediatamente esecutivo ed impugnabile in Cassazione, entro quattro mesi dal deposito del ricorso: si tratta di una previsione evidentemente finalizzata a rendere celere ed efficace il ricorso de quo. Di nuova introduzione è pure l’art. 5-quater: si tratta di una disposizione avente l’evidente finalità di dissuadere da liti temerarie, prevedendo sanzioni processuali; si statuisce che con il decreto ex art. 3 comma 4, legge Pinto, ovvero con il provvedimento che definisce il giudizio di opposizione, il giudice, laddove la domanda per l’equa riparazione sia dichiarata inammissibile ovvero manifestamente infondata, può condannare il ricorrente al pagamento, in favore della cassa delle ammende, di una somma di denaro non inferiore ad euro 1.000 e non superiore ad euro 10.000. In ultimo, merita di essere ricordata la previsione dell’art. 55 d.l. 83/2012, convertito nella legge 134/2012, che al proprio comma 3, prevede come la nuova disciplina si applichi a tutti i ricorsi depositati a decorrere dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione del decreto medesimo, ossia, dal giorno 11 settembre 2012. 5. I criteri di valutazione della ragionevole durata: le esegesi della precedente disciplina I maggiori problemi relativi all’applicazione nel nostro ordinamento della legge Pinto sono legati soprattutto alle difficoltà di definire quale sia la ragionevole durata di un processo, non predeterminabile, nonostante siano comunemente accettati taluni criteri elaborati dalla nostra giurisprudenza di legittimità sulla scorta di quanto deciso a Strasburgo, laddove si fa un generico riferimento a processi di durata massima compresa in tre anni per il primo grado, due anni per 61 Santi di Paola, Tambasco, Le novità per l’avvocato, cit., 148 s. 14 l’appello e uno per la Cassazione, nonché si fissa il risarcimento in una media compresa tra un minimo di 1000,00 euro ed un massimo di 1500,00 euro per ogni anno di ritardo62. Tuttavia, la nozione di ‘ragionevole durata’ non può che intendersi come relativa, nel senso che risulta determinata da elementi fattuali variabili, tali da impedire la definizione di prefissati schemi di valutazione, ovvero di scadenze prestabilite63. Peraltro, anche per quanto attiene al concetto di ‘equa riparazione’, ai sensi del quale non vi sarebbe necessità di ristorare in maniera integrale il danno subito, ha reso più difficoltosa in sede processuale la valutazione del presupposti e la quantificazione del danno64. In questa prospettiva, si deve ricordare come l’art. 111 Cost. preveda una riserva di legge ordinaria per la definizione dei contenuti e dei limiti della ragionevole durata: occorre, in altri termini, che la sia una legge nazionale a fissare i parametri e regole precostituite che ne garantiscano l’effetto. Ecco perché, come è stato scritto, “la ragionevole durata va definita caso per caso, in base ai criteri già stabiliti dall’articolo 2, comma 2, della legge n. 89/2001, ripresi dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, in base a un modello che non si risolve nella sintesi meccanicistica del cadenzamento dei termini processuali astrattamente prevista dal nostro codice di procedura civile”65. Prima di esaminare taluni criteri adottati dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione per approdare ad un giudizio sull’effettiva irragionevolezza della durata del procedimento, appare opportuno sottolineare in breve le specifiche criticità del sistema processualcivilistico italiano, al quale è limitata la presente indagine; l’irragionevole durata del processo civile rappresenta da decenni un problema tipicamente italiano, sebbene negli ultimi anni pare che la tendenza abbia subito un’inversione, come sottolineato sia dalla Cassazione che dal Ministero della Giustizia. Tra le più significative fattispecie critiche vi è senza dubbio quella di determinazione del danno patrimoniale, in cui richiede tempo la necessità di fornre una prova adeguata, come ha avuto modo di sottolineare la giurisprudenza di legittimità66. Le perplessità derivano in gran parte proprio dalla tendenza giurisprudenziale a tenere distinti il processo ordinario di cognizione ed il processo esecutivo nella complessiva valutazione dell’irragionevole durata, similmente a quanto statuito, in campo amministrativo, in riferimento al processo amministrativo di cognizione e al giudizio di ottemperanza. Si è giunti alla pronuncia a Sezioni Unite della Suprema Corte, la quale ha statuito che il processo di cognizione e di esecuzione sono reciprocamente autonomi, avendo funzioni e finalità diverse, sicché le loro durate non possono sommarsi, ma soltanto al termine di ciascuno di essi sarà possibile agire per un’equa riparazione67. La decisione interna si è così posta in contrasto non soltanto con le precedenti pronunce comunitarie, a tenore delle quali per stabilire se la durata di un procedimento sia ragionevole o meno occorre fare riferimento non soltanto al processo di cognizione, ma anche alla durata del processo esecutivo, comunque parte integrante del processo ex art. 6 Cedu68. Ed infatti, la dottrina più autorevole aveva avuto modo di precisare che rilevante, ai 62 Cfr., ad esempio, Grillo, La legge Pinto, cit., 36 e nt. 15. Sul punto la giurisprudenza è chiara: si rammentano, ex multis, le decisioni di Cass., 4 febbraio 2003, n. 1600; Cass., 14 gennaio 2003, n. 363; Cass., 27 dicembre 2002, n. 18332. 64 De Paolis, Eccessiva durata del processo. Risarcimento del danno, Santarcangelo di Romagna, 2012. 65 Così, letteralmente, Grillo, La legge Pinto, cit., 37. 66 Cass., 7 luglio 2006, n. 15584; Cass., 6 dicembre 2006, n. 26166. 67 Cfr., Cass., SS.UU., 24 dicembre 2009, n. 27348; Cass., SS.UU., 19 dicembre 2009, n. 26806. 68 Corte europea dei diritti umani, Hornsby c. Grecia, 13 marzo 1997; tra le pronunce interne, si possono ricordare Cass., 26 luglio 2002, n. 11046, in Giustizia civile, 2003, I, 695, con nota di Morozzo della Rocca, L’equa riparazione per irragionevole durata del processo nelle prime decisioni della Cassazione; Cass., 20 settembre 2002, n. 13768, in Giustizia civile, 2002, I, 3063; Cass., 22 ottobre 2002, n. 14885, in Gius, 2003, 428. In dottrina, Tarzia, L’art. 111 Cost., cit., 19 s.; Carpi, Riflessioni sui rapporti fra l’art. 111 della Costituzione ed il processo esecutivo, in Rivista trimestrale 63 15 fini della determinazione della giusta durata del processo, era la distantia temporis tra la domanda di condanna ed il provvedimento satisfattivo69. Si diceva che il tempo ragionevole del processo andasse apprezzato in riferimento ai singoli processi e al relativo oggetto, senza che fosse possibile fissare in generale e preventivamente i termini di durata massima: l’esigenza che si riteneva preminente era quella di valutare contestualmente tutti gli elementi rilevanti nello snodarsi del giudizio, sottoponendo ad esame chi avesse agito in causa, come lo avesse fatto, “senza che ci pare vi sia spazio per segmentizzare il rito nelle singole fasi o per scandagliare il fatto originatore della dilazione”70. Inoltre, ulteriori problemi di applicazione della legge Pinto paiono derivare sia dalla riforma del processo civile realizzata con la l. 69/200971, sia dal decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28, in materia di mediazione civile (tentativo che non può più considerarsi obbligatorio a seguito della pronuncia della Corte Costituzionale, sent. 272/2012, che ha dichiarato incostituzionale, per eccesso di delega legislativa, la previsione di obbligatorietà del tentativo di mediazione nelle materie civile e commerciale ivi indicate)72. Nei paragrafi precedenti, laddove si sono rilevati i profili di difficile compenetrazione tra decisioni pronunciate in sede comunitaria e decisioni di diritto interno, si è posto l’accento su di un profilo di peculiare problematicità, rappresentato dalla quantificazione dell’ammontare dell’indennizzo dovuto in caso di irragionevole durata del processo. Da un punto di vista logico, però, preliminare alla liquidazione del danno è la fissazione dei criteri per la sua determinazione73. Si è già avuto modo di mettere in luce le modifiche intervenute sul testo dell’art. 2 della legge Pinto ad opera della l. 134/2012; a completamento delle considerazioni già formulate, giovano solo taluni approfondimenti, sulla base delle elaborazioni della giurisprudenza europea e di quella nazionale relative ai criteri di valutazione dell’irragionevolezza della durata processuale. a) La complessità del caso In primis, si è elaborato un criterio basato sulla complessità del caso: è intuitivo, infatti, che se una fattispecie si rivela particolarmente complicata, in fatto e/o in diritto, sarà necessario un tempo maggiore per trovare un’adeguata soluzione. Il principio ricorre in numerose decisioni della Suprema Corte, che ha esplicitato gli elementi in presenza dei quali appare doveroso parlare di ‘complessità del caso’: può essere elevato il numero delle parti processuali, o dei testimoni, o delle domande sulle quali statuire; può rivelarsi difficile trovare le prove, ovvero possono mostrarsi di diritto e procedura civile, 2002, 385 ss.; Olivieri, La ‘ragionevole durata’ del processo di cognizione (qualche considerazione sull’art. 111, 2° comma), in Foro italiano, 2000, V, 254. 69 Così ancora Tarzia, L’art. 111 Cost., cit., 19 s. 70 Giorgetti, L’equa riparazione, cit., richiamando in primis Cass., 14 gennaio 2003, n. 363, in Giustizia civile, 2003, I, 644, nonché Cass., 4 febbraio 2003, n. 1600, in Gius, 2003, 1174; Cass., 11 dicembre 2002, n. 17653, in Gius, 2003, 816; si veda anche Trocker, Il nuovo articolo 111 della costituzione e il ‘giusto processo’ in materia civile: profili generali, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 2001, 405. 71 Per una sintetica riflessione sulle interferenze della riforma sull’applicazione della legge Pinto, Grillo, La legge Pinto, cit., 75. 72 Si tratta del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28, Attuazione dell’articolo 60 della legge 18 giugno 2009, n. 69, in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali, in Gazzetta Ufficiale, 5 marzo 2010, n. 53; recentemente, ex multis, cfr. Danovi, Ferraris, La cultura delle mediazione e la mediazione come cultura, Milano, 2013, 39 ss. e soprattutto 65 ss. 73 Del problema, che viene risolto a livello giurisprudenziale, si sono occupati e continuano ad occuparsi vari autori, tra i quali si ricorda: Zambrano, Convergenze, cit., 133 ss.; Saccucci, Riparazione per irragionevole durata dei processi tra diritto interno e Convenzione europea, in Diritto penale e processo, 2001, 893 ss.; Cittarello, La durata ragionevole del processo: criteri di valutazione della ‘ragionevolezza’ elaborati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo ed ordinamento italiano, in Rivista italiana di diritto pubblico comunitario, 2003, 161 ss.; Recchia, Il danno da irragionevole durata del processo ed equa riparazione, Milano, 2006, 71 ss.; Sanna, La durata ragionevole dei processi, cit., 163 ss.; De Marzo, La ragionevole durata del processo nella giurisprudenza Cedu. Riflessi pratici sull’applicazione della legge Pinto, in http://appinter.csm.it/incontri/relaz/17601.pdf. 16 lunghe e difficoltose le indagini, ovvero ampia l’analisi dei documenti; infine, può accadere che la controversia presenti una nuova questione giuridica74. Per quanto attiene le pronunce interne, una delle prime che ha esaminato ed applicato il criterio della complessità del caso è stata una sentenza della Corte d’Appello di Torino, del 2001, che analiticamente indicava gli indici in grado di fare propendere per una peculiare complessità del caso: le plurime domande; il numero elevato di parti e di testimoni; la necessità di esperire consulenze tecniche; la quantità e la difficoltà di lettura dei documenti di causa; la natura controversa della questione, sia in dottrina sia in giurisprudenza; l’opportunità di sollevare questioni di costituzionalità75. Di recente, poi, la Suprema Corte, dopo avere ricordato come i giudici di Strasburgo, alle cui statuizioni anche il giudice nazionale è tenuto ad uniformarsi, in materia di ragionevole durata del procedimento, abbiano indicato la durata indicativa del processo in tre anni per quello di primo grado e in due anni per quello di secondo grado, sottolineano come questo sia “parametro da cui il giudice interno può discostarsi in considerazione della maggiore o minore complessità del procedimento” 76. Negli ultimi anni, poi, anche nei nostri tribunali, ha iniziato ad essere applicato un criterio diverso, già ampiamente utilizzato a Strasburgo77, volto a garantire la celerità processuale laddove l’oggetto del procedimento sia di rango costituzionale, coinvolgendo diritti fondamentali dell’individuo. Basti pensare ai procedimenti in materia di adozioni, di risarcimento del danno a persone malate, alle controversie lavoristiche78. Nello stesso tempo, però, l’esiguità degli interessi in gioco non può giustificare un tempo eccessivamente lungo per la soluzione di una controversia, poiché, come ha sottolineato la giurisprudenza di legittimità, “l’ansia ed il patema d’animo conseguenti alla pendenza del processo si verificano anche nei giudizi in cui la posta in gioco è esigua, onde tale aspetto può avere solo un effetto riduttivo dell’entità del risarcimento, ma mai escluderlo totalmente” 79. b) Il comportamento delle parti In secundis, al fine di valutare l’irragionevolezza dei tempi processuali, è necessario considerare il comportamento delle parti che richiedono l’indennizzo in quanto vittime di un’eccessiva durata processuale80. A titolo esemplificativo, si può ricordare come la Corte europea abbia escluso l’equo indennizzo laddove la prolungata durata del processo sia imputabile alla condotta del soggetto che volontariamente lo abbia ritardato, con un frequente cambio di recapito, o di difensore, o con la proposizione di mezzi impugnatori a scopo puramente dilatorio81. In questa medesima prospettiva, la Corte di Cassazione ha affermato che, dalla durata complessiva del procedimento, occorrerà detrarre la somma dei rinvii puramente dilatori richiesti dalla parte, anche al fine del calcolo del 74 Corte europea dei diritti dell’uomo, 27 aprile 1999, Brusolino c. Italia, n. 35757/97; Corte europea dei diritti dell’uomo, 8 luglio 1997, H. c. Regno Unito, n. 9580/81; 75 Corte Appello Torino, 25 giugno 2005, n. 48. 76 Cass., 3 aprile 2008, n. 8521. 77 Si possono ricordare Corte europea dei diritti dell’uomo, 18 febbraio 1999, Laino c. Italia, n. 33158/96; Corte europea dei diritti dell’uomo, 31 marzo 2009, Simaldone c. Italia, n. 22644/03. 78 Come affermato, ad esempio, da Cass., 2 luglio 2004, n. 7254. 79 Così Cass., 1 dicembre 2008, n. 28501; consentanee sono pure le precedenti Cass., 14 novembre 2008, n. 27239; Cass., 12 dicembre 2007, n. 26014; Cass., 10 gennaio 2005, n. 297. 80 Specificamente sul problema, De Marzo, La ragionevole durata, cit., 13 ss. 81 Corte europea dei diritti dell’uomo, 9 marzo 2000, Farina c. Italia, n. 50622/99; Corte europea dei diritti dell’uomo, 4 dicembre 1995, Ciricosta e Viola c. Italia, n. 19753/92. 17 quantum dovuto: ma se siffatti rinvii hanno essi stessi determinato la lungaggine processuale, allora la domanda di indennizzo dovrà essere rigettata82. Occupandosi dell’art. 96, comma 1, c.p.c., la Suprema Corte ha sottolineato come il rispetto del principio della ragionevole durata processuale richieda una valorizzazione del dovere di lealtà e probità sancito dall’art. 88 c.p.c.83. La giurisprudenza di legittimità ha precisato come l’irragionevole durata del processo possa anche essere determinata non già da una richiesta di rinvio, bensì dall’organizzazione del sistema giudiziario84, pur ribadendo, ancora in tempi recenti, come il principio della ragionevole durata del processo, laddove venga utilizzato quale criterio di interpretazione delle norme processuali, mossa da un obiettivo acceleratorio, deve essere perseguito non soltanto dal giudice che interpreta la norma, ma anche dalle parti, intese come protagonisti principali dell’evento processuale. Nello specifico, nelle ipotesi statisticamente più frequenti di difesa tecnica, occorre che le parti collaborino fattivamente e responsabilmente, ad esempio limitandosi all’allegazione dei soli fatti processualmente rilevanti. In questa prospettiva, emerge un rinnovato ruolo dell’avvocato, pure chiamato ad un dovere di collaborazione, finalizzato non soltanto a garantire la possibilità di una difesa tecnica alle parti, ma anche a rendere più efficiente l’intero sistema giudiziario85. c) Il comportamento delle competenti autorità giudiziarie Per quanto attiene al terzo criterio menzionato nella formulazione originaria dell’art. 2 legge Pinto, occorre ricordare come sugli Stati membri incorra l’obbligo di organizzare il loro sistema giudiziario in maniera tale da consentire il rispetto dell’art. 6, paragrafo 1, Cedu. Sotto questo profilo, la Corte di Strasburgo e la giurisprudenza nazionale mostrano convergenze, nel senso di ritenere rilevanti sia l’attività del singolo giudice competente per il caso specifico (se ha tenuto un atteggiamento passivo oppure negligente), sia del complessivo apparato giudiziario (tanto determinato da carenza di risorse umane, quanto da una disorganizzazione interna), sicché appaiono suscettibili di valutazione anche, ad esempio, l’attività delle cancellerie e dei consulenti tecnici86. Nello specifico, la giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di ribadire come il giudice, esercitando il potere concessogli ex lege (art. 175 c.p.c.) di dirigere il procedimento in generale, abbia il dovere di evitare che si configurino condotte volte ad impedire una sollecita definizione del giudizio: basti pensare agli inutili dispendi di attività processuali e di formalità, laddove non giustificate da un effettivo rispetto del contraddittorio87 o all’adozione di decisioni prive di utilità per l’esercizio del diritto di difesa88. 6. La ‘ragionevole durata del processo civile’ nella più recente giurisprudenza italiana alla luce delle specificità del processo civile italiano La dottrina processualcivilistica ha sottolineato come il nuovo dettato dell’art. 111 Cost., nonché successivamente la disciplina introdotta dalla l. 89/2001 abbiano determinato, oltre ad un’indiscutibile novità nel panorama normativo ed interpretativo italiano, anche un profondissimo 82 Cass., 16 aprile 2004, n. 7254 Cfr. Cass., 27 novembre 2007, n. 2445, in Giustizia civile, 2008, I, 906; in dottrina, Cristofaro, Doveri di buona fede ed abuso degli strumenti processuali, in Il giusto processo civile, 2009, 993 ss. 84 Cass., 7 aprile 2004, n. 6856; Cass., 9 gennaio 2004, n. 119; Cass., 21 marzo 2003, n. 4142. 85 Cass., 15 dicembre 2008, n. 29290. 86 Cfr. Corte europea dei diritti dell’uomo, 10 febbraio 1995, Allenet de Ribemont c. Francia, n. 15175/89; Corte europea dei diritti dell’uomo, 6 aprile 1995, Lupo c. Italia, n. 20543/92. Per la giurisprudenza interna, Cass., 28 dicembre 2004, n. 24062; Corte d’Appello Brescia, 29 giugno 2001, n. 43 (decreto); Corte d’Appello di Brescia, 23-30 agosto 2001, n. 2860 (decreto). 87 Cass., 19 agosto 2009, n. 18410; Cass., 3 novembre 2008, n. 26373. 88 Cass., 7 luglio 2009, n. 15895. 83 18 rinnovamento della giurisprudenza di legittimità, che “anche se con qualche eccesso, ha messo in atto un progetto di riforma silenziosa del diritto processuale civile articolato in vari punti e coerente nel suo disegno complessivo”89. In particolare, come ha avuto modo di chiarire la stessa Suprema Corte in una pronuncia a Sezioni Unite, il tentativo è stato quello di rileggere il dato normativo finalizzandolo alla riduzione dei termini processuali, evitando ed anzi avversando opzioni ermeneutiche idonee a prolungare inutilmente i tempi, così da approdare ad un processo il più possibile ‘giusto’90. Partendo da siffatta considerazione, la Suprema Corte è giunta ad affermare che le ipotesi di nullità devono essere ridotte all’essenziale91; invero, accanto a posizioni così nette, la giurisprudenza di legittimità ha espresso giudizi di segno opposto, mostrando di valorizzare le problematiche processuali ed affermando, ad esempio, che il principio della ragionevole durata del processo soccombe dinanzi al principio del contraddittorio, sicché viene esclusa l’operatività del concetto della ‘decisione implicita’, “formulato dalla suprema Corte nell’interpretazione dell’art. 37 c.p.c., a fronte del difetto di integrazione del contraddittorio e del vizio di legitimatio ad processum”92. Lungi dall’intenzione di volere ricostruire, attraverso le pronunce della Suprema Corte, un vero e proprio “progetto organico di definizione del diritto processuale civile vivente alla luce del principio della ragionevole durata del processo”93, si ritiene opportuno ripercorre, in via esemplificativa e non esaustiva entro i confini di un complesso ed assai ampio materiale giurisprudenziale, le posizioni della giurisprudenza di legittimità sia, genericamente, a proposito dell’applicazione del principio della ragionevole durata processuale, sia nello specifico, in merito alla singole criticità del rito processualcivilistico. In primis, occorre accennare all’intrinseca difficile compatibilità tra il principio della ragionevole durata del processo e l’istituto della sospensione del giudizio. In seguito alla penetrazione nel sistema costituzionale del principio sancito dall’art. 111, comma 2, Cost., la Corte di Cassazione ha mostrato un vero e proprio sfavore nei confronti delle situazioni potenzialmente idonee a sospendere il processo, escludendo le ipotesi di sospensione discrezionale e optando in ogni caso per un’interpretazione restrittiva dell’art. 295 c.p.c. Sintetizzando una questione assai complessa e variamente risolta in dottrina si può accettare la posizione di chi ha ritenuto l’esigenza di un equilibrato coordinamento tra diverse decisioni, finalizzato ad evitare il contrasto tra giudicati incompatibili, rappresenti un valore recessivo rispetto al principio della ragionevole durata processuale94. In questa prospettiva, vi è stato chi ha sostenuto che l’art. 295 c.p.c. vada applicato solo nei casi in cui la sospensione sia veramente necessaria, ossia quando si rinvenga un impedimento temporaneo ma insuperabile: si tratterebbe delle ipotesi in cui l’arresto del giudizio per il tempo necessario a superare l’ostacolo, rappresenta l’alternativa al rigetto della domanda95. In questo senso si è espressa la suprema Corte allorquando ha sostenuto che, in materia di sospensione necessaria ex art. 295 c.p.c., il rapporto di pregiudizialità di una sentenza rispetto ad un’altra sussiste nell’ipotesi in cui l’accertamento costituisca un antecedente necessario, sia logico che giuridico: “pertanto, nell’attuale sistema processuale, improntato al principio costituzionale della 89 Così Bove, Il principio della ragionevole durata, cit., 12. Cass., SS.UU., 30 luglio 2008, n. 20604, in Corriere giuridico, 2009, 199; in Foro italiano, 2009, I, 1130. Si veda anche De Santis, La ragionevole durata, l’applicazione della norma processuale e la rimessione in termini; ‘percorsi’ per un processo d’inizio secolo, in Rivista di diritto processuale, 2009, 875 ss. 91 Cass., 15 dicembre 2009, n. 29290, in Giustizia civile, 2009, I, 583. 92 In questi termini commenta Bove, Il principio della ragionevole durata, cit., 18, richiamando Cass., 30 ottobre 2008, n. 26019. 93 Secondo la riflessione di Bove, Il principio della ragionevole durata, cit., 13, nonché Vidiri, La ‘ragionevole durata’ del processo: interventi normativi e giurisprudenza di legittimità, in Corriere giuridico, 2008, 580 ss. 94 Trisorio Liuzzi, La Cassazione e la sospensione ex art. 295 c.p.c., in Foro italiano, 2000, I, 1970. 95 Bove, La perizia arbitrale, Torino, 2001, 195 ss. 90 19 ragionevole durata del processo, deve escludersi ogni possibilità di disporre la sospensione per ragioni di mera opportunità, salvo i casi eccezionalmente previsti dalla legge”96. Il medesimo atteggiamento, tendente a sminuire i problemi del rito processualcivilistico sino a ridurre i casi di nullità degli atti, nonché ad ampliare la possibilità di chiudere in rito il giudizio di impugnazione (per raggiungere rapidamente la stabilizzazione del provvedimento) è maturato, in seno alla giurisprudenza di legittimità, in materia di notificazioni, impugnazioni e termini. A questo proposito va ricordato il contenuto della l. n. 69/2009, che ha modificato le disposizioni in materia di notificazione della sentenza ex art. 285 c.p.c. e dell’atto di notificazione dell’impugnazione, ex art. 330 c.p.c., accogliendo i risultati della riflessione giurisprudenziale efficacemente sintetizzati in una sentenza della Cassazione a Sezioni Unite del 2008. Nel provvedimento si legge che la notificazione dell’atto di impugnazione, eseguita presso il procuratore che sia costituito per più parti, mediante consegna di una sola copia, o comunque di un numero di copie inferiore alle parti coinvolte, è efficace e valida, “in virtù della generale applicazione del principio costituzionale della ragionevole durata del processo, alla luce della quale deve ritenersi che non solo in ordine alle notificazioni endoprocessuali, regolate dall’art. 170 c.p.c., ma anche per quelle disciplinate dall’art. 330, comma 1, c.p.c. il procuratore costituito non è un mero consegnatario dell’atto di impugnazione ma ne è destinatario97. Più severa si era mostrata la Corte laddove riuscì a mettere un punto fermo nel complesso dibattito relativo alla notificazione del ricorso e del decreto di fissazione dell’udienza nell’ambito del processo d’appello e di opposizione a decreto ingiuntivo secondo il diritto del lavoro. Il principio affermato è che nel rito cd. del lavoro, l’appello, seppur tempestivamente proposto nel termine previsto dalla legge, è improcedibile ove la notificazione del ricorso depositato e del decreto di fissazione dell’udienza non sia avvenuta, poiché al giudice non era consentito di assegnare all’appellante, ex art. 421 c.p.c., previsa fissazione di un’ulteriore udienza di discussione, un termine perentorio per procedere ad una nuova notificazione ex art. 291 c.p.c.; nello svolgimento del proprio ragionamento, la Corte afferma anche che il principio della ragionevole durata del processo è fondamentale anche per verificare che i vizi della fase attinente alla vocatio in ius non sono idonei a travolgere la fase precedente, dedicata all’editio actionis 98. Altrettanto significativa è la decisione di legittimità in cui si afferma che, qualora il difensore della parte deceda dopo l’udienza di precisazione delle conclusioni, il termine breve dell’impugnazione decorre dalla notifica personale della sentenza alla parte rimasta priva di difensore, e non assume alcun rilievo la mancata conoscenza incolpevole dell’evento che si è verificato ai danni della parte stessa. In questa fattispecie la Corte ha percepito l’esistenza di un conflitto tra, da un lato, il principio del diritto di difesa del soccombente, dall’altro lato, il diritto alla ragionevole durata del processo della parte vittoriosa99. In materia di regolazione della giurisdizione, merita di essere menzionata la posizione di taluni pareri della Suprema Corte, laddove, a proposito dell’attribuzione al giudice amministrativo del potere di decidere sulle pretese risarcitorie derivanti dalla lesione di interessi legittimi, svolge un richiamo al principio della ragionevole durata del processo, “inteso come esigenza di concentrazione, sulla cui base è necessario, per un verso, concedere all’interessato la possibilità di 96 Cass., 20 febbraio 2008, n. 4314. Si tratta della già segnalata Cass., SS.UU., 15 dicembre 2008, n. 29290, in Giustizia civile, 2009, I, 583; Agresti, Fondamenti processuali e costituzionali del principio di validità della notificazione eseguita mediante consegna di un’unica copia presso il procuratore costituito per una pluralità di parti, in Giustizia civile, 2009, I, 588. 98 Si tratta di Cass., SS.UU., 30 luglio 2008, n. 20604, in Corriere giuridico, 2009, 199, con nota di Pilloni, Le S.U. ed il divieto di rinnovazione della notifica inesistente nella prospettiva del giusto processo; in Foro italiano, 2009, I, 1130, con nota di De Santis, Opposizione a decreto ingiuntivo per crediti di lavoro e conseguenze della violazione del termine per la notifica del ricorso e del decreto (ed anche del ricorso in appello); per un’accurata ricostruzione del ragionamento della Corte, v. Bove, Il principio della ragionevole durata del processo, cit., 33 ss. 99 Cass., SS. UU., 8 febbraio 2010, n. 2714, in Guida al diritto, 2010, 9, 50. 97 20 giugere al soddisfacimento dei propri interessi nel tempo più celere possibile e, per altro verso, rendere in qualche modo equilibrato il carico di lavoro del sistema della giustizia statale”100. Altro profilo interpretativo che merita di essere menzionato è relativo ai mezzi istruttori dell’interveniente, e la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che l’interveniente possa fare domanda anche oltre il termine di cui all’art. 183 c.p.c. Siffatta lettura dell’art. 286 c.p.c. non risulterebbe in contrasto con il principio della ragionevole durata del processo, ovvero il diritto di difesa delle parti, dal momento che nello stato in cui si trova, l’interveniente non può proporre nuove prove, sicché non vi è rischio di una riapertura dell’istruzione probatoria, né che la causa possa essere decisa sulla base di prove che le parti in causa non siano state in grado di debitamente contrastare101. Infine, merita di essere precisato che, se normalmente l’applicazione diretta o la lettura costituzionalmente orientata del principio della ragionevole durata del procedimento si fondi su una severa lettura delle impugnazioni, vi sono situazioni in cui il richiamo al medesimo principio giustifica talune riaperture del sistema. Basti pensare che Corte di cassazione ha ammesso che nel giudizio dinanzi a sé fosse possibile allegare nuovi fatti, sopraggiunti all’udienza di precisazione delle conclusioni in appello: in questa evenienza, la ragionevole durata del processo trova esplicazione, poiché, se non si ammettessero le allegazioni, sarebbe esperibile un nuovo processo, sugli stessi fatti di causa, tra le stesse parti, con un inutile nuovo dispendio di tempi processuali102. Recentissimante, inoltre, si è posto in risalto che il riconoscimento del diritto all'equa riparazione riguarda - come risulta chiaro dalla lettera degli artt. 2 e 4 della legge n. 89 del 2001 - i soli danni effetto della irragionevole durata di un processo già svoltosi, anche se ancora pendente, e non anche quelli eventuali dipendenti da durate successive del medesimo processo, che non sono mai certe e prevedibili, essendo comunque ipotetica e non sicura la prosecuzione del processo e l'ulteriore maturazione di nuovi danni, e non essendo comunque preclusa alla parte la facoltà di richiedere successivamente l'indennizzo per il periodo residuo dello stesso. Peraltro, si è specificato che la proposizione di successive domande di equa riparazione per violazione del termine ragionevole di durata di un medesimo processo, in conseguenza del protrarsi della violazione anche nel periodo successivo a quello accertato con una prima decisione, costituisce esercizio di una specifica facoltà prevista dalla legge ed è funzionale al perseguimento delle sue finalità, postulando essa il riconoscimento dell'equo indennizzo in relazione alla durata dell'intero giudizio, dall'introduzione sino alla pronuncia definitiva. Pertanto, tale condotta non integra gli estremi di un abuso del processo o di un esercizio del diritto in forme eccedenti o devianti rispetto alla tutela dell'interesse sostanziale, in violazione del principio di lealtà processuale previsto dall'art. 88 c.p.c. e del giusto e sollecito processo, stabilito dall'art. 111 Cost., anche tenuto conto che nulla impedisce alla P.A., al fine di evitare gli oneri di ulteriori spese di giudizio, di predisporre i mezzi necessari per offrire spontaneamente soddisfazione a chi abbia sofferto un danno a cagione dell'eccessiva durata del processo.103 7. Considerazioni conclusive Alcune considerazioni generali vanno svolte a proposito delle innovazioni alla legge Pinto, apportate dalla legge 134/2012, per formulare le quali sono stati seguiti gli orientamenti più 100 Bove, Il principio della ragionevole durata, cit., 55 s.; cfr. Cass., SS.UU., 13 giugno 2006, n. 13659, in Foro italiano, 2007, I, 3181. 101 Cass., 16 ottobre 2008, n. 25264; Cass., 31 gennaio 2007, n. 2093, in Foro italiano, 2008, I, 1621; Cass., 28 luglio 2005, n. 15787, in Foro italiano, 2006, I, 1844, in Corriere giuridico, 2006, 235, con nota di Carratta, La ‘ragionevole durata’ del processo compromessa dal terzo (interveniente) ‘incomodo’ secondo la Cassazione. 102 Emblematica in tal senso, Cass., 7 gennaio 2009, 55. 103 Cass. 19 febbraio 2014, n. 4006. 21 significativi della Suprema Corte di Cassazione, ma ancora perplessità permangono, sotto il profilo della costituzionalità. In via esemplificativa, i dubbi paiono coinvolgere la misura dell’indennizzo, laddove l’art. 2-bis fissa inderogabilmente in una somma compresa tra i 500 ed i 1.500 euro per ogni anno di non giustificata durata del processo e per danni di ogni natura, sia patrimoniale che non patrimoniale, cosicché nella pratica – si può ragionevolmente pensare – i decreti di liquidazione dei danni a fatica si discosteranno dall’importo di 500 euro per ogni anno di ritardo, a fronte dei precedenti 1000 euro. Si tratterebbe di parametri contrastanti con i parametri della Corte di Strasburgo104. Anche il nuovo testo dell’art. 4 legge Pinto suscita perplessità in conseguenza della previsione per cui la domanda di equa riparazione potrà essere proposta non più durante il procedimento di durata non ragionevole, bensì entro sei mesi dalla data in cui la decisione è divenuta definitiva. La ratio di siffatta modifica è già stata illustrata, ma forse talune fattispecie richiederebbero correttivi, dal momento che appare iniquo che, ad esempio un fallito, debba attendere la chiusura della procedura concorsuale – che talora si estende per un ventennio – prima di domandare il ristoro per l’irragionevole durata del processo. Ad ogni modo, come è stato osservato, nonostante la riforma abbia appesantito gli oneri della parte nella produzione autenticata di atti, con la condanna del soccombente al pagamento di spese a favore della cassa delle ammende e tempi stretti per la proposizione della domanda, essa ha l’indubitabile pregio di avere aspirato alla semplificazione del processo per equa riparazione, creando il meccanismo del ricorso per decreto ingiuntivo ed eliminando le udienze dinanzi alla Corte d’Appello. Si auspica, pertanto, una sensibile riduzione dei tempi processuali, “che avevano in taluni casi causato paradossalmente l’applicazione del procedimento della legge Pinto ad altro analogo precedente di durata non ragionevole” 105. Senza dubbio, dunque, gli obiettivi che hanno animato i novellatori sono condivisibili; tuttavia, a parere del Consiglio Superiore della Magistratura, maggiormente auspicabile sarebbe stata una modifica legislativa che avesse affidato alla pubblica amministrazione la competenza a giudicare dell’equo indennizzo, almeno in una prima fase, così da lasciare al potere giurisprudenziale la sola fase, eventuale, di opposizione al provvedimento amministrativo. Un simile progetto di riforma era già stato abbozzato nel d.l. 11 settembre 2002, n. 201, c.d. ‘d.l. Omnibus in materia di giustizia’: il tentativo, poi fallito perché abrogato in sede di conversione, era di prevedere un procedimento preliminare, di natura negoziale, che fungesse da condizione di procedibilità dell’azione di equa riparazione. 104 Furnari, La nuova legge Pinto. Aggiornata al “Decreto Sviluppo”, Torino, 2012, 98 s., laddove si ricorda che in passato il giudice italiano, adeguandosi alle indicazioni della Corte europea, di frequente non si è sentito vincolato alla rigida applicazione dei parametri originari, così da liquidare anche somme inferiori per processi di valore bagattellare. Oggi una simile elasticità sembrerebbe ostacolata dal dettato dell’art. 2-bis legge Pinto. 105 Così Furnari, La nuova legge Pinto, cit., 101. 22