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a che gioco giochiamo?
Madeleine Wickham
a che gioco
giochiamo?
Traduzione di Nicoletta Lamberti
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Questo libro è un’opera di fantasia. Personaggi e luoghi citati sono invenzioni dell’autrice e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione.
Qualsiasi analogia con fatti, luoghi e persone, vive o scomparse, è assolutamente casuale.
ISBN 978-88-04-62846-0
Copyright © Madeleine Wickham 1995
© 2013 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano
Titolo dell’opera originale
The Tennis Party
I edizione marzo 2013
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Per i miei genitori
David e Patricia Townley
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Desidero ringraziare Araminta Whitley,
Sally Gaminara, Diane Pearson
e, soprattutto,
Henry Wickham
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Era il tipo di sera calda e profumata che Caroline Chance
associava sempre alle vacanze in Grecia, con bicchieri di
ouzo, camerieri galanti e la sensazione del cotone fresco sulle spalle scottate. Solo che il profumo dolce che fluttuava
nell’aria non era quello degli uliveti, ma dell’erba inglese
appena tagliata, e il suono in lontananza non era quello del
mare, ma la voce dell’istruttrice di equitazione di Georgina che cantilenava, sempre con la stessa inflessione monotona: «Al trotto, al trotto».
Caroline fece una smorfia e riprese a smaltarsi le unghie
dei piedi. Non aveva niente da obiettare sulla passione di
sua figlia per l’equitazione, ma neppure la capiva. Quando si erano trasferiti a Bindon da Seymour Road, Georgina aveva voluto a tutti i costi un pony e, naturalmente, Patrick aveva insistito perché lo avesse.
In realtà Caroline aveva finito con l’affezionarsi al primo
pony, una creaturina dolce dalla criniera arruffata e dal carattere docile. A volte andava a trovarlo quando non c’era
nessuno e aveva preso l’abitudine di dargli da mangiare i
Ferrero Rocher. Ma il nuovo pony era un mostro, un grosso animale nero dall’aria selvaggia. A undici anni Georgina era alta e forte, ma Caroline non riusciva a capire come
potesse anche solo salirgli in sella, per non parlare di cavalcarlo e saltare gli ostacoli.
Finì di smaltarsi le unghie del piede destro e bevve un
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sorso di vino bianco. Il piede sinistro era asciutto e lo sollevò per ammirare il colore perlaceo dello smalto alla luce
della sera. Era seduta nell’ampia terrazza all’esterno del
salotto principale. La Casa Bianca era stata pensata e costruita – secondo Caroline piuttosto stupidamente, considerando il clima inglese – per catturare ogni raggio di sole
al riparo dal vento. Gli spogli muri bianchi riflettevano la
luce nel cortile centrale e le stanze principali erano rivolte
a sud. Una vite, che produceva un’uva piuttosto aspra, era
stata persuasa ad arrampicarsi lungo la parete, sopra la testa di Caroline, e ogni estate numerose piante esotiche venivano prelevate dalla serra per decorare la terrazza. Ma
quella era pur sempre la dannata, gelida Inghilterra, e per
questo non c’era molto che si potesse fare.
Tuttavia quella giornata, Caroline doveva ammetterlo,
era stata davvero perfetta. Cielo azzurro e terso, sole cocente, non un soffio di vento. Aveva trascorso la maggior parte del giorno occupandosi dei preparativi per l’indomani,
ma per fortuna i compiti che si era assegnata – disporre i
fiori, preparare le verdure, farsi la ceretta alle gambe – erano il tipo di cose che si potevano fare all’aperto. Le portate principali – terrina di verdure per il pranzo, tortini ai
frutti di mare per la cena – erano state consegnate quella
mattina dal servizio catering e Mrs Finch le aveva già sistemate sui piatti da portata. Aveva inarcato un sopracciglio – “non sei capace neppure di cucinare per otto persone?” –, ma Caroline era abituata alle sopracciglia mobili di
Mrs Finch e le ignorava regolarmente. “Santo cielo” pensò,
versandosi un altro bicchiere di vino “che senso ha avere
soldi e non spenderli?”
La lezione d’equitazione era finita e Georgina attraversò
il prato saltellando, con le lunghe trecce bionde che le scendevano sulla schiena.
«Mamma!» chiamò. «Dawn ha detto che il mio trotto allungato non è mai stato controllato come oggi! Dice che se
cavalcherò così anche al concorso ippico di East Silchester,
allora...» Georgina fissò la madre con aria trionfante. “Allora cosa?” pensò Caroline. “Vincerai? Farai meglio a lasciare
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perdere?” Non aveva idea se il trotto allungato dovesse essere controllato o lasciato completamente andare. «E anche
i miei salti stanno migliorando» aggiunse Georgina.
«Oh, bene, tesoro» disse Caroline. La voce era roca, ispessita dalle sigarette e, ultimamente, da una bottiglia di vino
bianco quasi tutte le sere.
«Lo smalto!» esclamò Georgina. «Posso metterlo anch’io?»
«Non su quelle unghie sudicie. Prima devi farti un bagno.»
«E dopo il bagno posso metterlo?»
«Forse. Se avrò tempo.»
«Voglio un rosa brillante.»
«Non ho uno smalto rosa brillante» disse Caroline, arricciando il naso. «Puoi avere questo bel rosa chiaro oppure il rosso.»
«Rosso, bleah.» Georgina fece una smorfia, poi saltò sulla terrazza e si appoggiò allo schienale della sedia di faggio
su cui era seduta la madre. «Chi viene domani?»
«Lo sai chi viene» rispose Caroline, applicando con attenzione un secondo strato di smalto sulle unghie del piede
sinistro.
«Nicola viene, vero?»
«Mmh.»
«Sta meglio?»
«Sta migliorando.»
«Posso portarla a cavalcare? Le è permesso?»
«Dovrai chiederlo ad Annie, ma non vedo perché no.
Però assicurati di portare anche Toby.»
«È troppo piccolo per salire su Arabia.»
«Va bene, allora starà a guardare.»
«Posso partecipare anch’io al torneo di tennis?»
«No.»
«Posso mettermi la mia gonnellina da tennis?»
«Se vuoi.»
«Posso fare il raccattapalle?»
«Se vuoi...» ripeté Caroline. «Però ti annoierai.»
«No, non mi annoierò» ribatté Georgina. «So come si fa.
Fai scorrere le palle lungo la linea e poi le raccogli e le lanci
a quelli che giocano. La cugina di Poppy Wharton ha fatto
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la raccattapalle a Wimbledon e ha visto la Navratilova. Io
so fare anche il servizio da sopra la testa.»
Lanciò in aria una palla immaginaria e le sferrò un colpo, ma nell’impeto urtò la sedia della madre, facendole sbavare lo smalto.
«Merda» disse Caroline, ma senza arrabbiarsi.
«Tanto nessuno ti vedrà i piedi» osservò Georgina. «Allora, mi metti lo smalto?»
«Dopo che avrai fatto il bagno. Le unghie devono essere
pulite. Le tue sanno di cavallo.» Ma Georgina si era già distratta e stava facendo la ruota sul prato. Caroline, che un
tempo aveva praticato la ginnastica artistica, alzò gli occhi.
“Non insegnano più a chiudere l’esercizio come si deve”
pensò. “Non insegnano più ad atterrare in modo pulito e
preciso e a presentarsi ai giudici con un bel sorriso.” Nel
collegio di Georgina nessuno prendeva seriamente la ginnastica, che veniva fatta solo per rinforzare i muscoli delle
allieve in vista di attività più importanti: netball, lacrosse
e, sempre, equitazione. E nessuna delle ragazze sembrava
interessata alle competizioni, alle esibizioni, ai body luccicanti e ai nastri, le cose cioè di cui era stata fatta l’infanzia
di Caroline.
Mentre tornava dal campo da tennis verso casa, Patrick
Chance vide la sua bella e agile figlia fare una ruota dopo
l’altra sullo sfondo del tramonto e si fermò per un attimo
ad ammirarne la grazia fluida, la vitalità, l’energia. Tutti i
padri erano sentimentali come lui? Quando parlava con altri genitori, trovava difficile avere la loro stessa disinvolta
nonchalance. Mentre loro tendevano a minimizzare i successi dei figli, lui non riusciva a resistere all’impulso di elencare quelli di Georgina. Non poteva fare a meno di intromettersi in una conversazione per informare tutti che sua
figlia aveva iniziato l’attività agonistica, sì, nella categoria
under quattordici, anche se aveva soltanto undici anni. E
quando gli altri genitori annuivano, sorridevano e riprendevano le loro chiacchiere, sentiva il cuore martellare di rabbia repressa e incomprensione. “Ma guardatela!” avrebbe
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voluto urlare. “Guardatela bene!” “Suona anche il pianoforte” avrebbe voluto aggiungere, nel disperato tentativo
di ottenere di nuovo l’attenzione degli ascoltatori. “La sua
insegnante dice che sta facendo ottimi progressi. Pensavamo di farle provare anche il flauto.”
Notò che sua moglie si stava di nuovo concentrando sulle
unghie. Gli dispiaceva moltissimo che Caroline non condividesse il suo entusiasmo per tutto ciò che faceva Georgina e che si rifiutasse di unirsi a lui quando iniziava a lodarne le doti, perfino se erano da soli. Soprattutto perché,
a essere sinceri, Georgina aveva preso molto più da Caroline che da lui. Madre e figlia avevano gli stessi capelli biondi, lo stesso fisico atletico, la stessa facilità a scoppiare in risate rauche.
Ma forse era proprio quella la ragione per cui Caroline
sembrava così indifferente nei confronti di Georgina. Sua
moglie era abituata alla bellezza, alla prestanza e alla popolarità, mentre lui, basso, tozzo e miope, non aveva niente di tutto ciò.
Continuò ad avanzare verso casa e Georgina gli andò incontro esibendosi nella “camminata del granchio”.
«Ciao, papà» ansimò, lasciandosi cadere a terra.
«Ciao, micina. Com’è stata la lezione d’equitazione?»
«Fantastica.»
Patrick alzò lo sguardo sulla moglie. «Tutto sotto controllo per domani?» le domandò.
«Il cibo è già sui vassoi, se è a questo che ti riferisci» rispose Caroline. «E questa mattina Mrs Finch ha controllato le camere da letto.»
«Chi c’è nella stanza accanto alla mia?» chiese Georgina.
«I gemelli Mobyn con la loro baby-sitter. Com’è che si
chiama?»
«Martina, mi pare» rispose Patrick. «È tedesca, o austriaca,
o qualcosa del genere.»
Georgina arricciò il naso. «Perché non Nicola e Toby?»
«Chiedilo a tuo padre» disse Caroline acida. «Ha insistito
perché Charles e Cressida avessero la stanza per gli ospiti
più grande, perciò i gemelli devono stare in quella accanto
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alla tua. Cressida» pronunciò il nome con deliberata enfasi «vuole averli vicini.»
«Perché non possono andare in fondo al corridoio?» suggerì Georgina. «E Annie e Stephen nella stanza grande e
Nicola e Toby vicino a me?»
«Papà vuole che Charles e Cressida stiano nella stanza
grande» ribadì Caroline. «Perché quei due sono ricchissimi e lui non vuole che ridano di noi.»
Patrick arrossì. «Non è affatto vero. Ho solo pensato che
sarebbe stato gentile dare a loro quella stanza, visto che non
sono mai stati qui da noi.»
«E probabilmente non ci saranno neppure questa volta»
commentò Caroline pungente. «Quanto vuoi scommettere
che telefoneranno per disdire?»
«Non succederà» dichiarò Patrick, e si rese conto di averlo detto troppo in fretta.
Caroline lo guardò sospettosa. «E perché no? È quello
che fanno sempre. Da quanto tempo abitiamo qui? Quasi
tre anni. E loro sono stati sempre troppo occupati per riuscire a venire da noi, in qualsiasi occasione.»
«Cressida è una stronza» disse Georgina. Caroline ridacchiò.
Patrick fissò la figlia. «Dove diavolo hai imparato un linguaggio del genere?»
«Non essere noioso» intervenne Caroline. «Perché pensi
che Cressida sia una stronza, tesoro? La conosci appena.»
«A me piaceva Ella» rispose Georgina in tono ostinato.
«Non è possibile che ti ricordi di Ella» disse sua madre.
«Invece sì» insistette lei. «Era molto simpatica, mi cantava sempre le canzoni, e Charles suonava la chitarra.»
Patrick la guardò ammirato. «Che memoria! Dovevi avere appena sei anni.»
«Mi piaceva Seymour Road» disse Georgina. «Vorrei che
abitassimo ancora là.»
Caroline scoppiò di nuovo a ridere. «Eccoti servito, Patrick. Tu e la tua vita in campagna!» Gli occhi azzurri di
Caroline fissarono sarcastici quelli del marito e Patrick sostenne quello sguardo con rabbia impotente. Gli occhi di
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sua moglie sembravano riflettere e ributtargli addosso tutti i suoi fallimenti e le preoccupazioni, ricordandogli silenziosamente in un istante i dispiaceri e le delusioni degli ultimi tredici anni.
«Devo andare a preparare il tabellone per domani» annunciò bruscamente. Più per amore di Georgina che per altro, salì in terrazza e baciò la moglie sulle labbra. Come in
occasione del loro primo bacio dietro uno stand del Salone
della finanza personale organizzato dal “Daily Telegraph”,
lei sapeva di rossetto, sigarette e alcol.
«Se vuoi, sarò testa di serie numero otto» disse Caroline
quando suo marito rialzò la testa. «Non mi considero particolarmente brava a tennis.»
«È un torneo di doppio» le fece osservare Patrick, sentendo crescere l’irritazione.
«Doppio misto» precisò Georgina, di nuovo in posizione
per la camminata del granchio. «Io potrei giocare con Toby
e Nicola con uno dei gemelli, e l’altro gemello potrebbe
giocare con la tata. Cosa ne dici, papà?»
Ma lui se n’era già andato.
Patrick entrò nel suo studio con una sensazione di scoraggiamento. L’ultima battuta maligna di Caroline sulla vita
in campagna aveva toccato un nervo scoperto che lui non
aveva saputo prevenire. La vita a Bindon non era risultata essere come l’aveva immaginata e lui stesso provava
spesso una segreta nostalgia dei giorni passati in Seymour
Road. In realtà aveva deciso il trasferimento in campagna
per amore di Georgina. Tutte le compagne di scuola di ceto
elevato di sua figlia sembravano vivere in villaggi, in antiche canoniche o in vecchie fattorie, con cani, cavalli e pecore. Nessuna di loro abitava in palazzine di mattoni rossi
nei sobborghi di Silchester.
Così avevano venduto la casa al numero 24 di Seymour
Road, si erano trasferiti a Bindon e avevano comprato un
pony per Georgina. A Bindon, aveva pensato Patrick, sarebbero passati a un nuovo livello di esistenza. Nelle poche
settimane precedenti il trasloco aveva immaginato grandi
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residenze con ampi viali d’accesso, aristocratiche ragazzine che facevano uscire i loro cavalli dai box, partite di croquet sul prato, ragazzi con nomi come Henry e Hugo con
cui Georgina avrebbe potuto crescere.
Ma Bindon non era così. Praticamente nessuna delle famiglie che vivevano nel villaggio apparteneva a quella che
Patrick definiva “alta società di campagna”. Molti si erano
trasferiti a Bindon da Silchester, o addirittura da Londra,
attratti dal collegamento ferroviario rapido con la stazione
di Waterloo. Erano tutte persone che facevano rabbrividire
Patrick, con quella piagnucolante cadenza londinese, così
diversa dalla pronuncia precisa e ben scandita delle allieve
della scuola di Georgina. Inoltre tendevano a starsene per
conto loro, socializzando a feste organizzate da amici londinesi e, se queste cominciavano a scarseggiare, tornando
spesso nella capitale. I precedenti proprietari della Casa
Bianca avevano venduto la tenuta per tornare a Battersea,
annoiati da una vita di paese che non avevano neppure
provato a vivere.
Perché a Bindon in realtà esisteva una specie di comunità. Patrick e Caroline andavano in chiesa a domeniche alterne, patrocinavano la festa del paese ed erano in rapporti cordiali con il proprietario del fondo che confinava con
il loro. Conoscevano la vecchia signora la cui famiglia un
tempo aveva posseduto il castello e che adesso abitava in
un cottage nelle vicinanze. Conoscevano le due ansiose sorelle del defunto vicario di Bindon. Conoscevano gli eccentrici Taylor, che vivevano a Bindon da generazioni e che,
come amava aggiungere Caroline, probabilmente per generazioni si erano sposati tra di loro. Ma da nessuna parte Patrick aveva trovato le aristocratiche, socievoli famiglie
con il doppio cognome, quelle da rivista “Country Life”,
che lui stava cercando.
Il guaio di Silchester, aveva sentito dire da un genitore
alla scuola di Georgina, era che si era trasformata nell’ennesimo sobborgo di Londra, gremita com’era di maledetti pendolari. Patrick, lui stesso un pendolare, non si era
sentito offeso da quell’osservazione. Sapeva di non esse18
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re un esemplare autentico, né lo era Caroline. Ma Georgina poteva esserlo, e lo sarebbe diventata se solo avesse frequentato le persone giuste. Patrick ormai stava pensando
seriamente di inoltrarsi ancora di più nella campagna: Dorset, Wiltshire, magari Somerset. Si figurava una grande residenza georgiana, magari con un paio di ettari di terreno.
Se quell’annata fosse stata buona, avrebbero potuto cominciare a pensarci.
Se quell’annata fosse stata buona.
Patrick abbassò lo sguardo sulla scrivania, sui documenti che aveva preparato per l’indomani. Dopo pranzo avrebbe chiesto a Charles con fare indifferente di seguirlo nello studio. Nessuna pressione, solo un piacevole affare tra
amici. D’altra parte esercitare pressioni non era nel suo stile. Non lo era mai stato. Perfino ai tempi in cui lavorava
ancora come venditore telefonico, al primo segnale di irritazione dell’interlocutore faceva sempre un elegante passo indietro, mantenendo un approccio composto e cortese.
Sempre cortese. A volte i clienti si incuriosivano, a volte
erano addirittura loro a richiamarlo. E quando percepiva
di avere suscitato il loro interesse, ogni tanto passava alla
modalità intima ed entusiasta “lo faccio solo per te perché
sei un amico”. Mai però se si trattava di clienti sofisticati o,
ed era la situazione più delicata, se pensavano di esserlo.
In quel caso sceglieva l’approccio adulatorio “non ho certo
intenzione di offendere la tua intelligenza”. Saper vendere
significa saper valutare il cliente, pensava Patrick. C’è una
strada per arrivare al portafoglio di chiunque.
Si mise a sedere, spostò di lato la cartellina con sopra
scritto “Charles” e cominciò a tracciare con cura il tabellone del torneo, ma c’era un dubbio che continuava a fluttuargli nella mente. Charles e Cressida erano sempre riusciti a disdire l’impegno in occasione dei suoi inviti a Bindon:
uno dei bambini ammalato, una baby-sitter recalcitrante e
una volta, scusa ancora meno credibile, due auto che si rifiutavano entrambe di partire. E anche se Charles gli aveva assicurato che avrebbe partecipato con la moglie alla festa del giorno dopo, il solo pensiero che i Mobyn potessero
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in qualche modo sottrarsi di nuovo gli generava un brivido di preoccupazione lungo la spina dorsale. Se l’indomani non fosse riuscito a parlare con Charles, probabilmente non ne avrebbe avuto più l’occasione per parecchi mesi.
Si appoggiò allo schienale della poltrona, fissando la libreria senza vederla. Era il caso di chiamare Charles e Cressida per assicurarsi che venissero? Fece mentalmente le
prove della telefonata. Un tono di voce disteso e rilassato:
“Charles, vecchio mio, non dirmi che state per darci buca
un’altra volta. Caroline non ve lo perdonerebbe mai”. O,
se avesse risposto Cressida, una qualche richiesta di informazioni di carattere domestico che lei avrebbe apprezzato:
“Volevo solo essere sicuro che i gemelli non fossero allergici alle trapunte in piuma d’oca”. Afferrò l’agenda e, con
le dita che gli tremavano leggermente, compose il numero.
«Pronto?»
Merda. La tata tedesca. Ma forse Charles era in casa.
«Salve, potrei parlare con Mr Mobyn?»
«Mi dispiace, ma non c’è. Vuole lasciare un messaggio?»
’Fanculo.
«Sono Patrick Chance. Chiamavo solo per accertarmi che
domani verrete tutti al torneo di tennis.»
«Il torneo di tennis.» La voce della ragazza sembrava
dubbiosa. Patrick trattenne il fiato. «Sì, credo che partiremo da casa alle dieci.»
«Bene, bene.» Cercò di non sembrare troppo euforico.
«Qual è il messaggio, per favore?»
«Oh, ehm, no, nessun messaggio. Volevo solo una conferma.»
«Devo dire a Mr Mobyn di richiamarla?»
«Sì. No, senta, in realtà non importa» disse Patrick. «Tanto ci vediamo domani, giusto?»
«È questo il messaggio?»
«Sì, okay» si arrese Patrick.
Riattaccò e chiuse gli occhi. L’indomani a quella stessa
ora sarebbe stata cosa fatta: tutto firmato, timbrato e sigillato. Afferrò la cartellina e ne scorse rapidamente il contenuto un paio di volte, ma lo conosceva già benissimo. Ripo20
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se la pratica nel primo cassetto della scrivania e lo chiuse a
chiave. Poi aprì il grande foglio del tabellone e cominciò a
scrivere dall’alto i nomi delle quattro coppie. Patrick e Caroline. Stephen e Annie. Don e Valerie. Charles e Cressida.
Charles e Cressida Mobyn erano a casa di Sir Benjamin
Sutcliffe per il cocktail che precedeva l’esecuzione a scopo
benefico del Messiah nella cattedrale di Silchester. Con i rispettivi bicchieri di Kir Royal in mano, passavano da un
gruppo all’altro, chiacchierando con gli abitanti più in vista di Silchester – molti dei quali abitavano come loro nel
Cathedral Close – e con una manciata di celebrità provenienti dai dintorni, alcune addirittura da Londra. Il salotto di Sir Benjamin, lungo e con il soffitto alto, aveva enormi finestre prive di persiane che davano direttamente sulla
cattedrale, illuminata a giorno. Quasi tutti gli ospiti erano
inconsapevolmente voltati in quella direzione e ogni tanto
alzavano lo sguardo, come per controllare che la cattedrale fosse sempre al suo posto.
Cressida era una dei pochi presenti che le davano le spalle. Alta, elegante e regale, sembrava ignorare quella presenza torreggiante, nonostante fosse universalmente riconosciuta come una delle più instancabili attiviste per la
raccolta di fondi a favore del West Tower Fund. Sul retro
del programma del concerto di quella sera il suo nome figurava tra quelli degli infaticabili membri del comitato che
avevano reso possibile l’iniziativa.
In quel momento Cressida stava conversando con il popolare presentatore radiofonico che avrebbe letto un discorso prima del concerto. L’uomo stava indicando con gesti
teatrali la splendida vista della cattedrale e Cressida, con
l’aria un po’ sorpresa, si voltò per un attimo a guardare.
Poi si girò di nuovo e sorrise educatamente al presentatore.
Dopo tutto erano quattro anni che vedeva quella cattedrale
quasi ogni giorno. Dopo tutto, ci abitava proprio di fronte.
Charles, che osservava la moglie dal lato opposto della sala, riusciva a seguire il filo dei suoi pensieri come se
fossero stati i propri. La combinazione di mentalità ristret21
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ta, di slanciata bellezza bionda e di ricchezza di Cressida
aveva ancora un effetto afrodisiaco su di lui. Quando lei,
al tavolo della colazione, alzava gli occhi dal quotidiano e
con assoluto candore gli chiedeva cosa intendessero dire
con “privatizzazione” o cosa mai ci fosse di male nell’insider trading, lui avvertiva invariabilmente un’ondata di
energia sessuale. E quando apriva una lettera dei gestori del suo portafoglio, aggrottava la fronte perplessa e la
lasciava cadere accanto al piatto, non sapeva se mettersi a ridere o a piangere. Contrariamente alla convinzione
generale, non aveva sposato Cressida per il suo denaro.
L’aveva sposata per la sua totale indifferenza nei confronti del denaro.
Unica figlia di un ricco produttore di giocattoli, Cressida era stata educata dalla sua aristocratica madre a vivere
contando su un rifornimento continuo di libretti di assegni,
carte di credito e conti aperti nei negozi, il tutto saldato da
papà. Perfino adesso Cressida portava con sé pochissimi
contanti. Il suo portafoglio di investimenti, gestito da una
società londinese di sangue blu, garantiva un flusso costante di entrate sul suo conto presso la banca privata Coutts.
E adesso era Charles, non papà, che aveva il compito del
controllo mensile dei conti.
Nel corso degli ultimi tre anni il portafoglio si era ridotto in misura piuttosto considerevole. Una fetta consistente
era stata utilizzata per l’acquisto della casa nel Cathedral
Close e un’altra per rilevare la quota di Angus, l’ex socio
di Charles. Adesso Charles era proprietario unico del Silchester Print Centre che, in parte galleria e in parte negozio, trattava stampe di ogni tipo. All’epoca in cui Charles
l’aveva gestito in società con Angus ed Ella era stato tutto molto diverso. Avevano allestito un sacco di mostre di
giovani artisti, avevano organizzato corsi e seminari sulle
stampe, avevano sponsorizzato un concorso annuale presso
la scuola d’arte locale. Adesso Charles gestiva il Print Centre praticamente da solo e, impegnato con Cressida e i gemelli, aveva virato verso la fascia più sicura e prevedibile
del mercato: vecchie stampe della cattedrale di Silchester,
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stampe di acquerelli di Sargent, addirittura poster dei Girasoli di Van Gogh. Difendeva questa scelta con se stesso
con giustificazioni di carattere finanziario: gli incassi non
erano più quelli di una volta ed era arrivato il momento
di smettere di sprecare soldi in progetti sperimentali e di
pensare invece a consolidare la posizione. E quando una
vocina nella sua testa gli faceva notare che gli incassi erano peggiorati dopo che aveva abbandonato i progetti sperimentali, la ignorava.
Non rimpiangeva di avere lasciato Ella. Ogni tanto provava un accenno di nostalgia per la loro rilassata quotidianità in Seymour Road, ma quella non era stata la vita
vera. Questa, che gli consentiva di socializzare con gente
importante in una casa importante nel Cathedral Close, era
vita vera. Discutere delle scuole per i gemelli, dare istruzioni alla Coutts di aprire conti bancari era vita vera. Sentirsi chiedere, come gli era successo quel giorno, di dare il
suo appoggio all’onorevole Sebastian Fairfax, era vita vera.
L’accogliente Seymour Road con i suoi mattoni rossi era
stata semplicemente una preparazione al mondo reale. Charles la ricordava con tenerezza e provava ancora affetto per
quella strada, ma era lo stesso tipo di affetto che, una volta
cresciuto, aveva provato per il cavallo a dondolo della sua
infanzia. Per quanto riguardava Ella, raramente gli capitava di pensare a lei.
Le luci del 18 di Seymour Road erano accese quando Stephen Fairweather spinse la bicicletta al di là del cancello, l’appoggiò alla recinzione e l’assicurò con il lucchetto.
Il giardino davanti a casa, un po’ trascurato, profumava
dell’aria fresca della sera e di caprifoglio e, quando Stephen aprì la porta d’ingresso, quell’odore si fuse con l’aroma dei funghi fritti.
Al piano di sotto, nell’accogliente cucina nel seminterrato, Annie stava preparando un’omelette ai funghi mentre Nicola, seduta a tavola, colorava concentratissima una
carta geografica dell’Africa. Stephen si fermò per un attimo sulla soglia a guardare sua figlia ed ebbe una stret23
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ta al cuore vedendola impugnare con forza la matita, controllare i movimenti del braccio come meglio poteva e poi
aggrottare la fronte con impazienza quando uno spasmo
improvviso faceva schizzare la matita verde oltre il bordo
nero della cartina.
Colorare era utile per la coordinazione, sosteneva il fisioterapista di Nicola. Qualsiasi attività che impegnasse
il lato destro del corpo, quello danneggiato, doveva essere incoraggiata. Di conseguenza il tavolo della cucina era
occupato in permanenza da pile di libri da colorare, palline da lanciare e afferrare, corde per saltare, pastelli, forbici per ritagliare, bastoncini di shangai, anelli di gomma e
puzzle. Accanto alla cartina dell’Africa, Stephen notò la cartellina dei compiti delle vacanze di Nicola. “L’Africa è un
continente, non una nazione” lesse. “Zambia e Zimbabwe
sono in Africa. Il clima è caldissimo e non c’è molta acqua.
A volte la gente muore di fame.” Nicola stava appena cominciando a leggere e scrivere quando aveva avuto il colpo apoplettico. Adesso la sua calligrafia ricordava le zampette di un ragno, con lettere deformi impresse con forza
sulla pagina. Stephen leggeva la frustrazione in ogni riga
irregolare e frastagliata.
Nicola alzò gli occhi e le spesse lenti dei suoi occhiali
sembrarono brillare di gioia.
«Ciao, papà!»
Annie alzò la testa dalla padella.
«Stephen! Non ti ho sentito entrare!» Lui attraversò la
cucina, fermandosi a scompigliare i capelli della bambina,
e diede un bacio alla moglie. Le guance di Annie erano arrossate dal calore e i capelli scuri le si arricciavano come
viticci intorno al viso. «Hai passato una buona giornata?»
gli chiese.
Stephen chiuse gli occhi e ripercorse mentalmente le ultime dodici ore. La mattina presto il viaggio in treno fino
a Londra; un’ora di attesa al dipartimento per poter parlare per quindici minuti con il suo supervisore; un sandwich
alla British Library mentre aspettava la documentazione che
aveva richiesto; poche ore di buon lavoro; una comparsata
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in ritardo a un seminario al quale aveva promesso di assistere; il ritorno a casa in treno... Riaprì gli occhi.
«Sì, non male» rispose.
Stephen aveva in programma di concludere il suo dottorato di ricerca l’estate successiva. Al ritmo che stava tenendo la cosa sembrava possibile, ciononostante il pensiero di
dover organizzare le sue annotazioni, idee e teorie assortite in una tesi coerente e solida lo riempiva di terrore. Informazioni che gli erano sembrate abbastanza concrete quando aveva elaborato la proposta di tesi, argomentazioni che
gli erano sembrate inoppugnabili e convincenti, adesso gli
parevano fragili come una ragnatela e fluttuavano appena
fuori dalla portata della sua mente ogni volta che tentava
di esporle in un linguaggio accademico o anche solo di inserirle in qualche modo nell’introduzione.
Al dipartimento, ai seminari, perfino a casa con Annie,
continuava a mostrarsi sicuro di sé, assumendo con preoccupante facilità la maschera di uno che sa che avrà successo. Non confessava mai le sue paure segrete: che semplicemente non era all’altezza dei rigorosi requisiti di un
progetto così ambizioso e che avrebbe dovuto restare quello che era, cioè un modesto insegnante senza alcuna pretesa di cambiare faccia alla storia della musica del Quattordicesimo secolo.
Prese una lattina di birra dal frigo e l’aprì.
«Ti ho detto che è stata una buona giornata?» chiese ironicamente. «Devo essere matto. Mark non ha potuto ricevermi all’ora che mi aveva detto, la documentazione che
avevo richiesto è arrivata dopo un’eternità e per finire sono
stato costretto ad andare al seminario della bulgara pazza.»
Nicola ridacchiò. «È davvero pazza?»
«Scatenata» dichiarò Stephen solennemente. «Ci ha intrattenuti per un’ora con le sue idee sulla musica, musica
che è ovunque intorno a noi, nella natura.»
«Gli uccelli che cinguettano» suggerì Nicola.
«Fosse stato solo quello» disse Stephen. «No, ha parlato
di alberi, di gusci delle lumache e di altre creature che non
emettono alcun suono.»
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