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La Repubblica
la Repubblica SABATO 27 AGOSTO 2011 @ LA GUERRA IN LIBIA CRONACA BOLOGNA PER SAPERNE DI PIÙ it.wikipedia.org/wiki/Storia_della_Libia http://www.peacelink.it/mosaico/a/3577.html ■V L’inchiesta L’operaio e il ribelle Le tute Bonatti in Libia: un operaio al lavoro nell’impianto (a sx) e uno degli insorti con addosso la tuta saccheggiata all’impresa (a dx) Dall’Emilia a Tripoli quel centinaio di aziende ancora col fiato sospeso zioni ai trasporti. Un mercato piccolo ma in crescita, con alcune commesse milionarie e dati sull’export in crescita costante: 124 milioni nei primi nove mesi ENRICO MIELE SPERANO che in Libia si smetta presto di sparare, che si torni alla normalità per poter far ripartire i lavori e i cantieri abbandonati di corsa all’inizio della guerra. Il dopo-Gheddafi è già cominciato per le centinaia di aziende emiliane che hanno investito a Tripoli. «In piena guerra abbiamo fatto un sopralluogo nei nostri cantieri libici in Cirenaica, abbandonati da mesi. Le strutture non sono danneggiate, ma mancano all’appello indumenti, viveri, carburante e 200 fuoristrada. Ora contiamo di riattivare gli impianti in un paio di mesi». A raccontarlo è Paolo Ghirelli, 63 anni, presidente della Bonatti di Parma, gruppo emiliano che dal ‘79 costruisce impianti di estrazione in Libia per colossi petroliferi come Eni e Total. Una presenza di lungo corso nel Paese e asset industriali per 40 milioni di euro. A febbraio lo scoppio del conflitto tra i ribelli e il colonnello Gheddafi ha costretto l’azienda a fare i bagagli in tutta fretta, in attesa che le acque si calmassero. «Sa qual è la cosa buffa? A causa dei saccheggi a volte vediamo foto dei ribelli con le tute Bonatti, sembra quasi una nostra sponsorizzazione» racconta ancora Ghirelli. Scherzi del destino per chi è abituato a lavorare in queste zone, dove il “rischio d’impresa” è portato all’estremo. Dietro l’ironia si cela però la soddisfazione per aver tratto in salvo tutti i mille dipendenti: «Nelle emergenze devi rimpatriare solo i cittadini della tua nazione, ma noi ci siamo fatti carico anche di chi non era italiano». Oltre 300 tra ingegneri e operai bengalesi, tailandesi e filippini salpati dal porto di Marsa El Brega per raggiungere l’Italia. I costi? «Tra evacuazione e crediti inesigibili almeno 20 milioni di euro». Con un giro d’affari in Libia di 80 milioni di euro l’anno, i manager della Bonatti ora attendono con ansia la fine delle ostilità, sperando che «il nuovo governo libico voglia ripristinare la produzione petrolifera». La storia della Bonatti non è isolata. Nel lungo viaggio dalla via Emilia a Tripoli s’incontrano decine di aziende dell’Emilia Romagna che negli ultimi anni hanno investito in Libia, dalle costru- LA TREVI L’azienda cesenate Trevi stava lavorando a una settantina di chilometri da Tripoli. Il cantiere si occupava delle fondamenta per il nuovo stabilimento di una ditta dell’Europa del Nord Un volume d’affari in crescita, l’export è salito a 124 milioni. Bologna investe 28 milioni LA SEGAFREDO Il conflitto ha interrotto i piani di sviluppo del colosso guidato da Massimo Zanetti. L’azienda intendeva aprire nuovi punti vendita e entrate nel mercato della distribuzione del caffè I RIBELLI L’esultanza di un soldato delle truppe ribelli dello scorso anno (erano 110 milioni nel 2009), mentre la sola Bologna viaggia sui 28 milioni di esportazioni. Se gli investimenti hanno subito un arresto obbliga- to in primavera, ora molti stanno alla finestra per far ripartire a tempo record progetti e appalti lasciati in sospeso, visti i tanti cantieri aperti poco prima che i ribelli libici imbracciassero le armi. Ad esempio la Rosetti Marino di Ravenna, assieme a una ditta libica, mirava all’appalto per una piattaforma petrolifera al largo delle coste. Ora il “tesoretto” versato a una banca locale per costituire la joint venture è congelato in attesa di tempi migliori. Stoppati anche agli ambiziosi progetti della Pizzarotti, in lizza con altri costruttori per la nuova metropolitana di Tripoli (valore di 2,8 miliardi) e l’autostrada costiera fra il confine tunisino e quello egiziano (4,5 miliardi di euro). Tra i colossi industriali anche la Trevi di Cesena che con i suoi ingegneri del sottosuolo stava lavorando, a una settantina di chilometri da Tripoli, sulle fondamenta di uno stabilimento per una ditta del nord Europa: «Nella capitale libica — aggiungono — eravamo in trattativa anche per la costruzione di torri e centri residenziali». Dall’industria alla finanza: con Unipol Merchant (la banca d’affari del gruppo bolognese) che lo scorso anno preparava la quotazione in Borsa della catena di resort di lusso Palm City, società dove tra i soci figura il fondo libico Lafico (che ha il 7,5% della Juventus). La fine dei bombardamenti potrebbe convincere i vertici di via Stalingrado a riprendere in mano il dossier. In attesa anche l’imprenditore imolese Marco Gasparri che con la sua Aepi stava mettendo in piedi una joint venture italo-libica nel settore dell’automazione industriale. Con l’obiettivo di esportare dalla Libia in tutto il mondo. In portafoglio c’erano già numerosi ordini, poi inizia il conflitto e salta tutto: «Stiamo fermi — spiega il consigliere di Unindustria Bologna — ma il nostro intesse rimane perché quel Paese è la futura porta dell’Africa». Perfino il caffè della Segafredo Zanetti era a un passo dallo sbarco sulle coste libiche: «Avevamo contatti — racconta l’A. d. Stefano Trombetti — per distribuire i nostri prodotti e aprire alcune caffetterie. Il progetto è congelato ma restiamo alla finestra per veder come si evolve la situazione». Insomma, la Libia fa gola a tutti, ora più che mai. Sperando che la fine del conflitto sia vicina. © RIPRODUZIONE RISERVATA