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Violazione del divieto di uso della forza, aggressione o
La crisi in Crimea
Violazione del divieto di uso della forza, aggressione o attacco armato in relazione
all’intervento militare della Russia in Crimea?
Sommario: 1. Un intervento armato senza uso della forza? – 2. Aggressione o attacco armato? –
3. Quali conseguenze giuridiche?
1. «They [the United States and Western Europe] keep talking of some RusNazioni Unite, Assemblea generale,
sian intervention in Crimea, some sort
Letter dated 19 march 2014 from the permaof aggression. This is strange to hear. I
nent representative of the Russian Federation
cannot recall a single case in history of
to the United Nations Addressed to the Secrean intervention without a single shot
tary-General, UN Doc. A/68/803-S/2014/202
being fired and without human casualdel 20 marzo 2014
ties» (Assemblea generale, UN Doc.
(www.un.org)
A/68/803-S/2014/202 del 20 marzo
2014, p. 6). Con questi termini sbrigativi, ma efficaci, il presidente della Federazione Russa Vladimir Putin liquidava, in un discorso rilasciato al Cremlino di fronte ai rappresentanti della Duma e di altre autorità politiche e civili, le denunce occidentali concernenti la pretesa contrarietà dell’intervento
militare russo in Crimea alle norme internazionali in materia di divieto di uso della forza.
In realtà, il diretto coinvolgimento delle forze armate russe negli eventi che avevano portato le autorità separatiste locali a dichiarare unilateralmente l’indipendenza della Crimea
l’11 marzo 2014, e a indire il successivo 16 marzo un referendum sul distacco
dall’Ucraina e l’integrazione nella Federazione russa, era incontrovertibile. Nei primi
giorni di marzo, il Parlamento russo autorizzava, su richiesta del Presidente Putin,
l’impiego delle forze russe in Ucraina in attesa della normalizzazione della situazione politica del paese; la flotta russa del Mar Nero attuava un blocco navale delle coste della Crimea; ed era accertato l’afflusso di truppe russe in Crimea che, andando ad aggiungersi a
quelle già presenti in base agli accordi militari conclusi nel 1997 da Ucraina e Federazione russa, assumevano il controllo di punti nevralgici quali aeroporti, caserme, edifici
pubblici (cfr. i briefings di fronte al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (d’ora in
avanti, CdS) del Sotto-Segretario Generale e dell’Assistente speciale del Segretario Generale sulla situazione in Crimea, UN Doc. S/PV.7124 del 1 marzo 2014, pp. 2-3 e UN Doc.
S/PV.7125 del 3 marzo 2014, p. 2).
Che si fosse in presenza di una violazione del divieto di uso della forza nelle relazioni
internazionali è confermato dal tentativo della Federazione russa di giustificare la propria
presenza militare in Crimea alla stregua di talune delle figure più frequentemente utilizzate
dagli Stati per dar ragione di interventi armati in territorio altrui. Il rappresentante russo in
CdS invocava prima la richiesta di un intervento militare russo finalizzato al mantenimento
dell’ordine pubblico, proveniente sia dalle autorità separatiste della Crimea, sia dal deposto presidente ucraino Yanukovych, fuggito dalla capitale Kiev e rifugiato in Russia dopo i
moti di piazza; poi, l’esigenza di proteggere i diritti dei cittadini russi in Crimea, esposti al
DIRITTI UMANI e DIRITTO INTERNAZIONALE
vol. 8, 2014, n. 2, pp. 473-479
© Società editrice il Mulino
ISSN: 1971-7105
Osservatorio – La crisi in Crimea
Maurizio Arcari
pericolo di discriminazioni conseguenti al consolidamento del nuovo Governo a Kiev (cfr.
UN Doc. S/PV.7125 cit., pp. 3-4). Il carattere pretestuoso delle giustificazioni addotte dalla Russia nella circostanza è però piuttosto evidente: il consenso all’intervento armato esterno era manifestato da un organo dello Stato a ciò non competente (il deposto presidente Yanuchovych o le autorità locali separatiste di Crimea), assai tenue era la situazione di
pericolo in cui versavano i cittadini russi (o russofoni?) in Crimea e in ogni caso l’ampiezza
del dispiegamento militare russo andava ben al di là di quanto richiesto dalla necessità di
portare in salvo persone in situazione di contingente pericolo (per una più ampia analisi si
rinvia a A. Tancredi, “The Russian Annexation of the Crimea: Questions Relating to the
Use of Force”, in QIL – Questions of International Law 2014, Zoom-out 1, pp. 10-18, disponibile su www.qil-qdi.org). Al di là di tali giustificazioni, in sede di CdS, oltre che come
una violazione della sovranità e dell’integrità territoriale dell’Ucraina, dell’art. 2 della Carta
delle Nazioni Unite e dell’Atto finale della Conferenza di Helsinki del 1975 (così ad es. il
Regno Unito, UN Doc. S/PV.7125 cit., p. 7), l’azione russa era senza mezzi termini stigmatizzata alla stregua di an «act of aggression» (così Stati Uniti e Giordania, ibid., rispettivamente pp. 5 e 9 e, più tardi, Lituania, UN Doc. S/PV.7134 del 13 marzo 2014, p. 16, e
Francia, UN Doc. S/PV.7138 del 15 marzo 2013, p. 5).
Analoga condanna era espressa in seno all’Assemblea generale delle Nazioni Unite
(d’ora in avanti AG) (cfr. gli interventi di Liechtenstein, Canada, UN Doc. A/68/PV.80
del 27 marzo 2014, rispettivamente pp. 7 e 9). Ancora, nelle proprie conclusioni del 3
marzo 2014, il Consiglio dell’Unione europea condannava la violazione della sovranità e
dell’integrità territoriale dell’Ucraina integrata dagli «acts of aggression by the Russian
armed forces» (disponibile su www.consilium.europa.eu/uedocs/cms_data/docs/pressda
ta/EN/foraff/141291.pdf). Una ulteriore, significativa, precisazione sul punto era apportata dalla censura espressa dallo Stato vittima dell’azione russa, l’Ucraina, che oltre a denunciare di essere oggetto di un «unprovoked act of aggression», in un messaggio del
parlamento del 13 marzo 2014 faceva espresso riferimento al diritto di legittima difesa
riconosciuto dall’art. 51 della Carta ONU, riservandosi di chiedere ad altri Stati e ai meccanismi regionali di sicurezza collettiva assistenza per il ristabilimento della propria sovranità e integrità territoriale (UN Doc. S/2014/186 del 13 marzo 2014, p. 2). La circostanza che l’intervento russo in Crimea abbia dato luogo ad una violazione particolarmente qualificata del divieto di uso della forza – classificabile come aggressione o, secondo
l’interpretazione suggerita dal riferimento all’art. 51 della Carta ONU appena ricordato,
come attacco armato – è tutt’altro che indifferente, poiché implica un impatto importante
sulle conseguenze giuridiche derivanti dall’intervento medesimo, in particolare per ciò
che concerne i profili di validità della situazione e degli atti grazie ad esso prodotti. Prima
di spostare l’analisi su tale piano, però, può risultare utile qualche osservazione sulla precisa qualificazione dell’intervento russo.
2. È noto che la Carta delle Nazioni Unite, nel tracciare la disciplina convenzionale del
ricorso alla forza armata nei rapporti tra Stati, contempla le tre diverse ipotesi dell’«uso
della forza» (vietato, anche nella forma della minaccia, dall’art. 2, par. 4, se rivolto contro
l’indipendenza politica o l’integrità territoriale di qualsiasi Stato o se esercitato in qualsiasi altro modo incompatibile con i fini e principi della Carta), dell’«aggressione» (menzionata in particolare all’art. 39 fra le situazioni dal cui accertamento dipende l’attivazione
dei poteri coercitivi del CdS in base al Capitolo VII) e dell’«attacco armato» (indicato
dall’art. 51 quale presupposto per l’esercizio da parte dello Stato vittima del diritto individuale o collettivo di legittima difesa). A parte lo spunto offerto dal testo francese
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dell’art. 51, che utilizza le parole «agression armée» in luogo dell’espressione «armed attack» presente nel testo inglese e suggerisce una stretta parentela tra le figure
dell’aggressione e dell’attacco armato, la Carta non fornisce altri ragguagli circa la distinzione fra le tre summenzionate nozioni.
Qualche indicazione sul punto può essere tratta dalle note risoluzioni dall’AG 2625
(XXV) del 24 ottobre 1970, contenente la Dichiarazione sui principi di diritto internazionale concernenti le relazioni amichevoli e la cooperazione tra Stati in conformità alla Carta delle Nazioni Unite, e 3314 (XXIX) del 14 dicembre 1974, contenente la Definizione
di aggressione. Sulla scorta di tali risoluzioni, ritenute come rispecchianti in larga parte il
diritto consuetudinario in materia, la Corte Internazionale di Giustizia (d’ora in avanti,
CIG) nel caso delle Attività militari e paramilitari in Nicaragua e contro il Nicaragua aveva
provveduto a distinguere «the most grave forms of the use of force (those constituting an
armed attack) from other less grave forms». Quali ipotesi di forme meno gravi di uso della forza (che, è lecito supporre, cadrebbero sotto il divieto dell’art. 2, par. 4, della Carta,
senza però integrare un presupposto per l’esercizio del diritto di legittima difesa previsto
dall’art. 51), la Corte indicava proprio alcuni esempi forniti dalla risoluzione n. 2625
(XXV). Questo testo, «alongside certain descriptions which may refer to aggression» (si
può supporre che il riferimento fosse al paragrafo della Dichiarazione che afferma «A war
of aggression constitutes a crime against the peace, for which there is responsibility under
international law»), secondo la Corte fornirebbe anche descrizioni di forme meno gravi di
uso della forza, quali le violazioni (armate) dei confini internazionali con altri Stati o gli
atti di rappresaglia armata (cfr. Military and Paramilitary Activities in and against Nicaragua (Nicaragua v. United States of America), sentenza del 27 giugno 1986, par. 191).
In altro passo della sentenza la Corte affermava poi esservi «general agreement on the
nature of the acts which can be treated as constituting armed attacks» e corroborava tale
assunto alla luce dell’ipotesi prevista all’art. 3, lett. g) della risoluzione n. 3314 (XXIX),
che indica quale atto di aggressione l’invio da parte di uno Stato di bande armate, gruppi
irregolari o mercenari che realizzino contro un altro Stato atti di gravità analoga a quelli
elencati nelle lettere precedenti della disposizione quali ulteriori ipotesi di aggressione
(nell’ordine: l’invasione o l’attacco da parte delle forze armate di uno Stato del territorio
di altro Stato o l’occupazione militare e annessione derivante; il bombardamento del territorio di uno Stato; il blocco dei porti e delle coste di uno Stato; l’attacco rivolto contro le
forze armate di uno Stato; l’uso delle forze armate di uno Stato che stazionano entro il
territorio di un altro Stato oltre i limiti e le condizioni del consenso di quest’ultimo; la
messa a disposizione del territorio di uno Stato per il compimento di un atto di aggressione verso un terzo Stato). Ad avviso della Corte, non vi sarebbe ragione per negare che,
in diritto consuetudinario, «the prohibition of armed attacks may apply to the sending by
a State of armed bands to the territory of another State, if such operation, because of its
scale and effects, would have been classified as an armed attack rather than as a mere
frontier incident had it been carried out by regular armed forces» (ibid., par. 195).
Da questo ragionamento è lecito indurre che sia il criterio della dimensione e degli effetti («scale and effects») dell’atto di uso della forza ad integrare (o far scattare) la soglia di
gravità che consente di qualificare lo stesso come attacco armato. Ciò detto, resta alquanto
labile la linea di confine tra l’attacco armato e l’aggressione, se si considera che anche
quest’ultima presuppone l’uso della forza armata (cfr. l’art. 1 della Definizione di aggressione, «Aggression is the use of armed force by a State (…)») e implica una certa soglia di gravità (cfr. l’art. 2 della medesima Definizione, «(…) the Security Council may (…) conclude
that a determination that an act of aggression has been committed would not be justified in
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Osservatorio – La crisi in Crimea
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the light of other relevant circumstances, including the fact that the acts concerned or their
consequences are not of sufficient gravity»). Sotto questo profilo, parrebbe giustificata
l’osservazione secondo cui aggressione e attacco armato in realtà altro non sarebbero che
«two sides of the same coin» (cfr. T. Ruys, ‘Armed Attack’ and Article 51 of the UN Charter:
Evolutions in Customary Law and Practice, Cambridge, 2010, pp. 127-129).
L’esame della crisi in Crimea e delle reazioni dei vari protagonisti (direttamente e indirettamente) coinvolti conferma la sostanziale contiguità delle figure di aggressione e attacco armato, pur apportando al quadro concettuale delineato qualche precisazione. Per
cominciare con l’osservazione del Presidente Putin citata in apertura, è evidente come
essa mirasse ad escludere la qualificazione dell’intervento russo quale aggressione (e, contestualmente, a negare un significativo livello di gravità di tale intervento), facendo leva
sul dato dell’assenza di operazioni belliche significative attive e di conseguenti vittime e
danni materiali. Tale circostanza non è però bastata ad evitare che l’azione russa fosse
censurata da vari Stati proprio alla luce delle indicazioni fornite dalla risoluzione n. 3314
(XXIX). Tra queste, in particolare la figura prevista alla lett. e) dell’art. 3, che indica quale atto di aggressione «The use of armed forces of one State which are within the territory
of another State with the agreement of the receiving State, in contravention of the conditions provided for in the agreement or any extension of their presence in such territory
beyond the termination of the agreement», è stata indicata come particolarmente adatta a
incasellare l’intervento russo in Crimea (cfr. la dichiarazione in Consiglio di sicurezza della Giordania, UN Doc. S/PV.7125 cit., p. 9). Non vi è dubbio che nel caso di specie la
presenza militare russa in Crimea si è protratta ben oltre i termini e le condizioni del consenso dell’Ucraina (cfr. la lettera dell’Ucraina al Presidente della Conferenza del disarmo
in data 2 marzo 2014, UN Doc. CD/1976 del 10 marzo 2014); proprio tale presenza, per
le sue dimensioni e i suoi effetti, avrebbe permesso di consolidare una vera e propria occupazione militare, presupposto per la successiva illecita annessione della Crimea da parte russa (cfr. sul punto Tancredi, op. cit., pp. 21-29). Occupazione militare e annessione
sono menzionati quali elementi integranti dell’aggressione all’art. 3, lett. (a), della
risoluzione n. 3314 (XXIX) quando rappresentino il risultato di un’invasione o di un
attacco armato o di uso della forza («The invasion or attack by the armed forces of a State
of the territory of another State, or any military occupation, however temporary, resulting
from such invasion of attack, or any annexation by the use of force of the territory of another State or part thereof»). Il caso in esame pare confermare che vi è aggressione anche
quando occupazione e annessione, anziché da un attacco o invasione realizzate attraverso
il ricorso su ampia scala alla forza armata, sono il prodotto di una presenza militare protratta oltre i termini del consenso del sovrano territoriale e non comportano un ricorso
attivo alla violenza bellica. Per tal via, ne risulterebbe confermata l’adattabilità e
l’efficacia della Definizione di aggressione elaborata dall’AG nel 1974 (cfr. sul punto la
dichiarazione del rappresentante del Liechtenstein in AG, che con riferimento alla crisi in
Crimea ha sottolineato come «[t]he events also starkly illustrate the continued relevance
of an international agreed definition of aggression», UN Doc. A/68/PV.80 cit., p. 7).
D’altro canto, le «dimensioni ed effetti» della presenza militare russa in Crimea sono
stati tali da indurre lo Stato vittima, l’Ucraina, ad invocare il proprio diritto di legittima
difesa per cercare l’assistenza di terzi nel ristabilimento della propria sovranità e integrità
territoriale (cfr. UN Doc. S/2014/186 cit.): circostanza, quest’ultima, che evidentemente
presuppone la qualificazione dell’azione russa alla stregua di un attacco armato. Poiché
nel caso di specie le conseguenze della presenza russa in Crimea (occupazione e annessione) sono tali da integrare tanto gli estremi di gravità necessari per la qualificazione di
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aggressione, tanto la soglia di «scale and effects» richiesta per l’attacco armato, ne risulta
che la differenza tra le due figure, più che sul piano del contenuto sostanziale, si svolge
sul piano formale della diversa funzione assolta dall’una e dall’altra categoria. A questo
riguardo, non va dimenticato che la Definizione di aggressione contenuta nella risoluzione n. 3314 (XXIX) era preordinata, nelle intenzioni dei suoi redattori, a «semplify the determination of acts of aggression and the implementation of measures to suppress them»
(così il 9° paragrafo del preambolo della Dichiarazione), nonché per servire da guida al
CdS nella determinazione delle situazioni previste dall’art. 39 della Carta. E’ quindi lecito
supporre che la categoria giuridica dell’aggressione venga prevalentemente invocata dagli
Stati e dagli organi della comunità internazionale (principalmente, il CdS) allorquando si
tratti di qualificare una violazione particolarmente grave del divieto di ricorso alla forza
armata e se ne intendano far valere le relative conseguenze. Significativo, al riguardo, è
che la nozione di aggressione – e non l’attacco armato – si trovi menzionata nel commento all’art. 48 del Progetto di articoli sulla responsabilità degli Stati per atti internazionalmente illeciti, adottato nel 2001 dalla Commissione di diritto internazionale, quale esempio di violazione di obbligo dovuto nei confronti della comunità internazionale nel suo
insieme (erga omnes), che darebbe titolo a tutti gli Stati, diversi da quello direttamente
leso, a invocare la responsabilità dell’autore della grave violazione/aggressione (cfr. Yearbook of International Law Commission, vol. II, Part 2, 2001, p. 127, par. 9 e 10).
Diversamente – e ferme restando le forti connessioni sul piano materiale con la figura
dell’aggressione – la categoria giuridica dell’attacco armato appare configurata nella Carta
delle Nazioni Unite in chiave strumentale alla posizione dello Stato attaccato e
all’esercizio del suo diritto di legittima difesa; non sorprende che quest’ultimo rimanga,
come incidentalmente riconosciuto dalla CIG nel caso Nicaragua, arbitro unico circa il
fatto di essere vittima di un simile attacco (cfr. Military and Paramilitary Activities…, cit.,
par. 195: «It is also clear that it is the State which is the victim of an armed attack which
must form and declare the view that it has been so attacked»).
3. In realtà, le differenze più significative tra attacco armato e aggressione paiono destinate a prodursi sul piano delle conseguenze giuridiche che si collegano alle due categorie.
Evidente e immediata è la conseguenza tipica derivante dall’attacco armato, che consiste
nella possibilità per lo Stato attaccato di ricorrere alla forza armata per respingere
l’attacco di cui è vittima, secondo le due modalità della legittima difesa individuale o collettiva (quest’ultima da svolgersi alle ben note condizioni enucleate dalla CIG nel caso
Nicaragua: cfr. Military and Paramilitary Activities…, cit., par. 199).
Più articolate nei contenuti sono le conseguenze che discendono dall’aggressione. Nel
commento all’art. 40 del citato Progetto di articoli sulla responsabilità degli Stati del
2001, l’aggressione è indicata quale esempio di grave violazione di una norma di importanza fondamentale, il divieto di uso della forza, dotata di carattere cogente (jus cogens)
(Yearbook of the International Law Commission, cit., p. 112, par. 4). Da una simile grave
violazione consegue, a termini dell’art. 41 dello stesso Progetto, un obbligo per tutti gli
Stati di non riconoscere la situazione illecita creata dall’aggressione, di non prestare aiuto
o assistenza nel mantenimento di tale situazione e di cooperare con tutti i mezzi leciti per
porvi fine (ibid., pp. 113-114).
A quest’ultimo schema paiono riconducibili alcune delle reazioni che hanno accompagnato i seguiti dell’azione militare russa in Crimea. Come accennato, la presenza delle
truppe russe in Crimea ha consentito il consolidamento delle autorità separatiste locali, le
quali hanno proceduto prima ad adottare una dichiarazione di indipendenza della Re5
Osservatorio – La crisi in Crimea
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pubblica autonoma di Crimea e della città di Sebastopoli (testo disponibile su
www.voltairenet.org/article182723.html) e in seguito allo svolgimento di un referendum
popolare che ha confermato gli esiti della secessione dall’Ucraina e l’integrazione della
Crimea nella Russia. È interessante notare come gli autori della Dichiarazione di indipendenza della Crimea richiamino nel preambolo della stessa il parere consultivo reso dalla
CIG sulla conformità al diritto internazionale della dichiarazione unilaterale di indipendenza relativa al Kosovo (cfr. Accordance with International Law of the Unilateral Declaration of Independence in Respect of Kosovo, parere consultivo del 22 luglio 2010) per sottolineare che, alla stregua di tale parere, le dichiarazioni unilaterali di indipendenza non
violerebbero alcuna norma internazionale. Nonostante tale petizione di principio, è noto
che il referendum celebrato in Crimea il 16 marzo 2014 – e dunque implicitamente la dichiarazione di indipendenza che ne rappresentava il presupposto – sono stati fermamente
condannati in varie istanze internazionali come invalidi e privi di conseguenze giuridiche
(cfr. per tutti la risoluzione n. 68/262 adottata dall’AG il 27 marzo 2014 con 100 voti favorevoli, 11 contrari e 58 astensioni, il cui quinto paragrafo sancisce che «the referendum
held in the Autonomous Republic of Crimea and the city of Sevastopol on 16 March
2014, having no validity, cannot form the basis for any alteration of the status of the Autonomous Republic of Crimea or of the city of Sevastopol»). L’apparente contraddizione
può spiegarsi alla luce di un paragrafo pertinente del ricordato parere del 2010, in cui la
CIG affermava che una proibizione generale contro le dichiarazioni unilaterali di indipendenza non poteva dedursi dalla prassi del CdS. Nell’occasione la Corte, facendo riferimento ad alcuni precedenti in cui dichiarazioni unilaterali di indipendenza erano state
oggetto di condanna da parte del CdS (in particolare, nei casi della Rodesia del Sud nel
1965, della Repubblica Turca di Cipro del Nord nel 1983 e della Repubblica Srpska nel
1992), rimarcava la forte differenza tra tali dichiarazioni e quella concernente
l’indipendenza del Kosovo, consistente nel fatto che le prime, ma non la seconda, erano
il risultato di un uso illecito della forza o di altre violazioni gravi di norme imperative del
diritto internazionale generale: con la conseguenza che «the illegality attached to the declarations of independence thus stemmed not from the unilateral character of these declarations as such, but from the fact that they were, or would have been, connected with
the unlawful use of force or other egregious violations of norms of general international
law, in particular those of a peremptory character (jus cogens)» (cfr. Accordance with International Law... cit., par. 81).
Se si applica tale ragionamento al nostro caso di specie, risulta del tutto logico concludere che, poiché la Dichiarazione unilaterale di indipendenza della Repubblica autonoma di
Crimea è una conseguenza diretta dell’uso della forza armata da parte russa, qualificato come aggressione da una gran parte degli Stati della comunità internazionale, la stessa dichiarazione risulti tacciata da invalidità e sia considerata priva di effetti giuridici. Coerenti con
tali premesse sono le conseguenze esposte nel par. 6 della menzionata risoluzione n. 68/262
dell’AG (che sul punto riprende un progetto di risoluzione presentato in CdS il 15 marzo
2014, non adottato a causa del veto russo: UN Doc. S/2014/189 del 15 marzo 2014), in cui
l’Assemblea richiama «all States, international organizations and specialized agencies not to
recognize any alteration of the status of the Autonomous Republic of Crimea and the city of
Sevastopol on the basis of the above-mentioned referendum and to refrain from any action
or dealing that might be interpreted as recognizing any such altered status». È facile notare
come tale esortazione dell’AG corrisponda a quanto previsto dall’art. 41 del Progetto sulla
responsabilità degli Stati in tema di conseguenze particolari derivanti da gravi violazioni di
norme imperative del diritto internazionale generale e contribuisca a dar corpo, nel caso di
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specie, alla specifica sanzione del non-riconoscimento degli effetti giuridici dell’aggressione
perpetrata dalla Russia in Crimea (cfr. sul punto più ampiamente E. Milano, “The Nonrecognition of Russia’s Annexation of Crimea: Three Different Legal Approaches and One
Unanswered Question”, in QIL - Questions of International Law 2014, Zoom-out 1, pp. 4551, disponibile su www.qil-qdi.org).
Se aggressione e attacco armato condividono gli stessi presupposti materiali, ovvero
traggono origine da un medesimo comportamento che, per intensità ed effetti, integra
una grave violazione del divieto di uso della forza, ma si differenziano per le conseguenze
giuridiche connesse, ci si potrebbe attendere che tali diverse conseguenze vengano a prodursi contemporaneamente e si sovrappongano in relazione a ciascun caso concreto. Ciò
è quanto avvenuto, ad esempio, in occasione dell’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq
del 1990, allorquando il CdS, con diverse risoluzioni, dichiarava nulla e priva di effetti
giuridici l’annessione del Kuwait da parte dell’Iraq (cfr. la risoluzione n. 662 (1990)), e
faceva al contempo salvo l’esercizio del diritto di legittima difesa del Kuwait basato
sull’art. 51 della Carta (cfr. il preambolo della risoluzione n. 661 (1990)), in seguito confluito nell’azione armata autorizzata con la risoluzione n. 678 (1990). Nel caso della Crimea, tuttavia, solo le conseguenze legate alla qualificazione dell’azione russa come aggressione, ovvero il non-riconoscimento degli effetti giuridici degli atti posti in essere grazie a
tale azione, hanno potuto trovare applicazione al lato concreto, mentre l’ipotesi del ricorso a legittima difesa è stata solo nominalmente ventilata in una dichiarazione del Parlamento dello Stato vittima dell’attacco, l’Ucraina, senza trovare ulteriori riscontri. Tale sfasamento nelle conseguenze giuridiche collegate all’intervento armato russo non pare però
legato a una reale differenza di contenuto tra le categorie dell’aggressione e dell’attacco
armato, ma al diverso peso delle forze in campo e risulta verosimilmente imputabile a ragioni più politiche che non strettamente giuridiche.
Maurizio Arcari
ABSTRACT. Does the Russia’s Armed Intervention in Crimea Represent a Breach of the
Prohibition of the Use of Force, an Aggression or an Armed Attack?
The article deals with questions arising from the use of force by Russia in Crimea in the aftermath
of the 2014 Ukrainian political crisis. In particular it considers the issue of the exact legal qualification of the Russian armed intervention as an act of aggression or as an armed attack. The article
suggests that the two figures of aggression and armed attack are closely entangled from both a conceptual and material point of view, while the main differences between the two lie in their legal
consequences.
Keywords: use of force; aggression; armed attack; self-defence; non-recognition; unilateral declarations of independence.
Notizie sull’Autore:
Professore straordinario di Diritto internazionale nell’Università degli Studi di Milano-Bicocca
[email protected]
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