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I molti nomi della terra, i molti nomi della verità
I molti nomi della terra, i molti nomi della verità. Riflessioni su una metafora nascosta1 di Giuseppe Limone Crediamo sia importante riflettere intorno a una metafora che tiene insieme la terra e la verità. Si tratta di una metafora che, a nostro avviso, non è casuale, ma essenziale. Antonio Villani raccontava che Giuseppe Capograssi gli disse una volta: Vedi, nella mia biblioteca io ho uno scaffale contenente i grandi testi della filosofia e un altro in cui sono collocati i grandi testi dei giuristi; in un terzo scaffale, intermedio, si trovano i testi dei filosofi del diritto. Questi ultimi io non li leggo mai. Per capire veramente la filosofia bisogna partire direttamente dal diritto e per capire veramente il diritto bisogna partire direttamente dalla filosofia. Capograssi, in quel momento, stava ponendo alla filosofia e al diritto un problema di verità. Sapendo che dentro il diritto ci sono i problemi della verità vissuta e che dentro la filosofia ci sono i problemi della verità pensata. Pensata, però, a partire dal vissuto. Una tale impostazione esige due regole, due vincoli e due responsabilità. Al diritto bisogna chiedere verità, cioè una concretezza pensata a partire dalla sua verità, che è la verità della vita. Mentre alla filosofia bisogna chiedere concretezza, cioè una verità pensata a partire dalla vita. Il vissuto della concretezza deve prendere di petto la filosofia per costringerla a non essere una chiacchiera di salotto e la filosofia deve prendere di petto la concretezza del vissuto per convincerla a non essere una praticistica farneticazione. Solo in questo modo il diritto può essere veramente pensato e la filosofia veramente vissuta. E solo in questo modo la filosofia può essere veramente individuante e la concretezza veramente illuminata. 1 Il presente lavoro nasce dalla relazione presentata a un Convegno sul diritto agrario presso la Facoltà di Studi Politici “Jean Monnet” della Seconda Università degli Studi di Napoli, sapientemente organizzato dal prof. Antonio Sciaudone: La proprietà della terra tra agricoltura e usi alternativi, in occasione del 70° compleanno del Professor Alfredo Massart, San Leucio di Caserta, 30 settembre - 1 ottobre 2011. Parlando in questa sede della terra e del diritto agrario noi abbiamo l’occasione per scoprire quanta verità ci sia nella terra e quanta terra ci sia nella verità. Verità e terra rivelano, oggi più che mai, uno straordinario fondo comune che si mostra attraverso le stesse metafore che riguardano, contemporaneamente, l’una e l’altra. Non a caso, oggi viviamo nello stesso tempo un declino del significato della terra e un declino del significato della verità. Un declino della terra e un declino della verità. Il rapporto tra terra e verità è un rapporto essenziale. Esso può essere scoperto a partire da quelle metafore che Hans Blumenberg ha chiamato metafore radicali, ossia metafore prime, indeducibili, a partire dalle quali possono comprendersi i significati profondi della vita. Tali metafore non sono ornamentali, perché costituiscono i modelli primi a partire da cui si capiscono i significati. Vorremmo dedicare questo nostro itinerario di riflessione a Pinocchio, perché fortemente crediamo che nel Pinocchio di Collodi appare qualcosa che ha da fare con la verità. Qual è il rapporto intrinseco tra la verità e la terra? E che cosa si sommuove – nel diritto agrario – che i giuristi possono cogliere nei suoi strati profondi? Sembra, nei tempi post-moderni che ci tocca di vivere, che parlare della terra sia cosa arcaica, così come sembra cosa arcaica parlare della verità. Può indovinarsi, invece, in questo nodo, una parentela antica di destini che ci guarda dal futuro. Quali sono, infatti, i modi fondamentali con cui si guarda alla verità? Diremmo che ci sono tre modi di guardarla, così come ci sono tre modi di guardare alla terra. Si tratta di modi fra loro interconnessi. Diceva in un celebre apologo Norbert Elias: se immaginiamo di costruire una casa di cento piani e se immaginiamo di essere arrivati al centesimo piano, domandiamoci che cosa succederebbe se la scala crollasse e se noi ci abituassimo a stare a quel centesimo piano come se fossimo lì sempre stati. Chi vivrà a quel centesimo piano, a questo punto, crederà che quello sia l’unico punto di vista da cui poter guardare il mondo o che almeno sia il punto di vista più progredito, che sostituisce quindi i punti di vista precedenti come più arcaici e arretrati. L’errore che si commette in questo modo di pensare riguarda il fondamento. Il fondamento non è qualcosa di cui ci si possa dimenticare stando all’ultimo piano. Esso non è una forma arretrata della costruzione in cui siamo collocati. Dobbiamo saper comprendere che il fondamento è la struttura di base che sincronicamente accompagna – necessariamente accompagna – tutti i piani della costruzione ed è, perciò, presente in ogni punto del piano in cui si è collocati. In ogni piano, cioè, anche se ce ne fossimo dimenticati, noi siamo accompagnati dal fondamento. Ove mai ci dimenticassimo dell’esistenza del fondamento, ove mai ne trascurassimo l’importanza, il fondamento si vendicherà. Guardiamo a questi tempi nostri, che sempre più si presentano come l’epoca dei derivati finanziari. Potremmo dire, allo stesso modo, che noi viviamo nei tempi dei derivati “notiziari”. Nel caso dei derivati finanziari siamo davanti al problema del rapporto con la terra e col lavoro; nel caso dei derivati notiziari, davanti al problema del rapporto con la verità, ossia con la verità di un fatto di cui si sia data notizia. Sia nell’uno che nell’altro caso, siamo davanti al problema di un rapporto col fondamento. Il fenomeno logico da osservare è il medesimo. Si dà prima un derivare, poi un separarsi, poi un astrarsi e, infine, un ipostatizzarsi da parte di ciò che, all’epilogo del percorso, intende liberarsi dalla rappresentazione del fondamento, dal quale ritiene di aver preso definitivo congedo. In un primo passo, nel derivare di una cosa da un’altra permane la traccia attuale della sua derivazione; in un secondo passo, accade il separarsi di una cosa dall’altra da cui deriva, là dove incomincia a spuntare il significato di una certa autonomia, costituente una presunzione relativa di ciò che si rappresenta; in un terzo passo, accade il fenomeno dell’astrarsi, che intende prescindere da ciò da cui si è astratto, costituendo una presunzione assoluta di rappresentazione; in un quarto passo, accade il fenomeno dell’ipostatizzarsi, in cui ciò che si auto-ipostatizza si auto-concepisce come una realtà che vive di vita propria, indipendente dalla realtà fondamentale rappresentata; in un quinto passo, accadono tutti gli infiniti fenomeni di ulteriori rappresentazioni ipostatizzate. Molteplici sono i territori in cui questo medesimo fenomeno logico è leggibile. Si considerino, per esempio, nel campo politico, il fenomeno del nuncius, operante come puro portavoce, il fenomeno della rappresentanza con vincolo di mandato, il fenomeno della rappresentanza senza vincolo di mandato, il fenomeno del dominio senza vincolo di rappresentanza. E si consideri, ancora, nel campo dei titoli, il fenomeno del titolo di credito condizionato dalla sua base giustificativa, del titolo di credito astratto, della moneta, del derivato finanziario, e così via. La riflessione potrebbe riguardare gli stessi titoli che intendono documentare un livello di formazione personale e professionale. Infinite possono essere, nelle varie esperienze settoriali, le forme strutturate di presa di distanza dal fondamento. L’itinerario logico-rappresentativo è, in ogni caso, il medesimo. Esso corre, in sintesi, lungo quattro nodi fondamentali: a un primo stadio, si dà una rappresentatività sotto condizione dell’esibizione del fondamento; a un secondo stadio, si dà una rappresentatività sotto la presunzione relativa dell’esistenza del fondamento (salvo prova contraria); a un terzo stadio, si dà una rappresentatività sotto la presunzione assoluta dell’esistenza di un fondamento, in una condizione in cui sostanzialmente si prescinde dall’esistenza del fondamento; a un quarto stadio, si dà una qualità strutturale che prescinde totalmente dalla stessa rappresentatività di un fondamento. I derivati finanziari sono titoli che rappresentano titoli che rappresentano titoli, pur dovendo rappresentare, in ultima istanza, nient’altro che la ricchezza che nasce dal lavoro e dalla terra, da cui ritengono invece di essersi definitivamente distaccati; i derivati notiziari, d’altra parte, sono notizie che rappresentano notizie che rappresentano notizie, pur dovendo rappresentare, in ultima istanza, nient’altro che la verità dei fatti da cui si sono, a un certo punto, distaccate; allo stesso modo, i derivati certificativi di formazione sono certificati che rappresentano certificati, pur dovendo rappresentare, in ultima istanza, il livello reale di formazione personale e professionale da cui si sono, a un certo punto, definitivamente distaccati. Derivati finanziari, derivati notiziari e derivati certificativi di formazione possono essere guardati in modo isomorfo, sia nelle loro pretese che nel loro fondamento. Tutti pretendono, infatti, di essere auto-consistenti rispetto al fondamento da cui pur dovrebbero trarre validità. Essi intendono, in realtà, “funzionare” come se il fondamento non esistesse più. Quel fondamento deve essere, nel livello della sua rappresentazione, perennemente richiamato e presupposto, né mai può essere a quell’altezza sostituito. Sostituire il fondamento è come dimenticarlo: in realtà, è perderlo. Tale “dimenticanza” è sostenibile finché questo fondamento – dimenticato e poi, per una inevitabile necessità funzionale, improvvisamente riapparso – farà crollare tutti i piani che da quel fondamento traevano consistenza. Qui la bolla scoppia. Sia nel luogo della terra sia nel luogo della verità. Qui il fondamento (costituito dalla terra e/o dalla verità) reclama imperiosamente la sua originarietà, vendicandosi di essere stato dimenticato. Lo scoppio della bolla nasce dalla perdita della relazione col fondamento, la quale si consuma quando nessuna regola più governa l’ultimo livello della rappresentazione. Qui la verità del fondamento appare nella sua vera natura: come vincolo all’arbitrio di ciò che, pur dovendo rappresentare quel fondamento, pretende di non rappresentarlo più. Ciò che si è definitivamente astratto diviene, nelle nuove condizioni rivelative, impotente. La potenza dell’astrazione si converte, a un certo punto, nell’impotenza della sua vacuità. La verità, fin dai tempi antichi, aveva da fare, così come la terra, con l’essere. Già nella Metafisica di Aristotele si affermava che c’è tanto di verità quanto c’è di essere. Amedeo G. Conte, illustre logico italiano, ha scritto che noi usiamo il termine “vero” in due sensi fondamentali: nel senso del vero de dicto e nel senso del vero de re2. Nel primo senso si intende la verità come corrispondenza fra ciò che si dice e la realtà di cui si dice, mentre nel secondo senso si intende la verità come conformità della cosa al modello di cui intende essere l’incarnazione. Proviamo, a questo punto, a tener conto, da un lato, della prospettiva di Amedeo Conte sul significato della parola “vero” e, dall’altro lato, della prospettiva di Martin Heidegger sull’essere, sul soggetto e sull’ente. Potremmo dire, in questo orizzonte di riferimenti, che la verità si esprime in tre forme. Nel senso della verità come corrispondenza, nel senso della verità come veracità, ossia come autenticità, e nel senso della verità come quell’essere – come 2 A.G. Conte, Filosofia del vero, in Bruno Montanari (a cura), Normatività e conoscenza, Scripta WEB, Napoli 2006. quell’energia dell’essere – che precede e sottende il soggetto, sia in quanto questo soggetto si esprime nella forma della verità come autenticità, sia in quanto si esprime nella forma della verità come corrispondenza. Io sono vero, se sono vero, in tre sensi: nel senso in cui dico una verità come corrispondenza a qualcosa, nel senso in cui esprimo la mia verità come autenticità, e nel senso in cui in me si dà un’energia dell’essere che mi precede e mi sottende, senza che io possa disporne a piacimento. Nella prima forma di verità si dà la corrispondenza o non corrispondenza con ciò che dico; nella seconda forma, si dà la veracità come sincerità o non sincerità in ciò che dico o faccio; nella terza forma, si dà quell’energia che già da sempre mi è stata trasmessa, che mi precede e mi sottende, a cui appartengo e di cui per definizione non posso disporre e non dispongo. A ben riflettere, a questi tre modi di verità corrispondono, secondo una metafora nascosta che occorre – a nostro avviso – disoccultare, tre modi di guardare alla terra. Posso vedere la terra come semplice area da picchettare, secondo un modello di corrispondenza amica o nemica con ciò che la circonda; posso vedere la terra come area feconda, in cui esprimere la mia capacità di lavorarla e di farla fruttificare, assumendone il rischio e la responsabilità; posso, infine, vedere la terra come forza che mi è stata trasmessa, che non posso riprodurre, di cui non dispongo, perché è essa a disporre di me. Nella prima forma, vedo la terra come dominio e delimitazione dei confini, come regolamento dei conti con ciò con cui essa confina; nella seconda forma, vedo la terra come luogo col quale si mescola il mio lavoro, esprimendo frutti alla luce; nella terza forma, vedo la terra come energia, propria del creato, che mi è stata tramandata, di cui debbo saper aver cura. Tre forme di verità dell’essere si pongono, così, in corrispondenza biunivoca con tre forme di relazioni fra l’uomo e la terra. Tre forme di terra, tre forme di verità. Se ben si osserva, le relazioni molteplici di un soggetto con un oggetto possono rivelarsi nei molteplici significati del possessivo. Quanti sono i significati del dire “mio”? Si osservi. Posso dire “il mio libro”, nel senso della proprietà; “il mio libro”, nel senso dell’esserne l’autore; “mio figlio”, o “mio padre”, o “il mio gruppo”, nel senso dell’appartenenza, e così via. In queste forme sono espresse, in realtà, connotazioni diverse della relazione con l’oggetto. Altro è la relazione di proprietà o di dominio, altro la relazione di generazione e di autore, altro la relazione di appartenenza a qualcosa. Si tratta, a ben vedere, di tre relazioni di verità. In tale contesto, molte e diverse fra loro possono essere le relazioni simboliche con la terra. Così, se dico “la mia terra”, posso intendere la terra su cui ho la proprietà oppure la terra che lavoro oppure la terra a cui appartengo. Si tratta di tre diverse relazioni simboliche, espressive di tre diverse relazioni, precisamente corrispondenti alle tre forme di verità di cui precedentemente abbiamo parlato. Se guardiamo, a questo punto, alla storia delle idee che vive nei giuristi che guardano alla terra, possiamo cogliere l’itinerario di un sommovimento profondo di cui il filosofo deve saper capire il significato e formulare il referto. Guardiamo, in proposito, ad alcuni movimenti che accadono sottotraccia. Vediamo nel XIII secolo la figura di Henry de Bracton, il quale distingueva, com’è noto, fra gubernatio e iuris dictio, là dove la gubernatio individuava la terra come area del potere di chi governa e la iuris dictio la terra come l’area nella quale i sottoposti al potere costituivano – con i loro diritti – non soltanto luogo di decisione competente, ma argine e misura di quel potere. Nell’ambito di una sola terra, intesa come area di dominio, reciprocamente si relazionavano e si condizionavano, così, il potere di chi governava e i poteri – i diritti – di chi vi era governato. Si pensi, d’altra parte, all’evento della Rivoluzione francese e alla sua volontà di articolare sovranità e individui, là dove i diritti degli individui proprietari si relazionavano e si misuravano con il potere della sovranità. Se, infine, vediamo il percorso che si compirà dall’Ottocento al Novecento, fino ai nostri giorni, se guardiamo cioè agli scritti di Salvatore Pugliatti, di Costantino Mortati, di Paolo Grossi, di Antonio Carrozza e di tanti altri3che si sono occupati da 3 Preferiamo qui richiamare, fra gli altri, i seguenti scritti: S. Pugliatti, Interesse pubblico e interesse privato nel diritto di proprietà, Relazione presentata al Primo Congresso Nazionale di Firenze del 1935, in AA. VV., La proprietà nel nuovo diritto, Giuffrè, Milano 1954; Id., La proprietà e le proprietà, in AA.VV., La proprietà nel nuovo diritto, cit.; P. Grossi, La proprietà nell'officina dello storico, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, Giuffrè, Milano 1988; A. Carrozza, Problemi generali e profili di qualificazione del diritto agrario, Giuffrè, Milano 1975; Id., Rivisitando la proprietà agraria, Discorso accademico al Congresso dell' A.I.C.D.A. in Lecce (17-19 ottobre 1991), in La proprietà fondiario-agraria. Nel 50° anniversario del libro terzo del codice civile, a cura di G. Angiulli, Atti del Convegno di Lecce (17-19 ottobre 1991), Edizioni ETS, Pisa 1993; Id., Uno sviluppo agricolo «sostenibile» per giuristi del problema della terra, in questo percorso – all’interno della polarità che si costituisce fra la terra e i diritti degli individui – noi cogliamo da un lato, il progressivo affermarsi dell’idea del lavoro (si pensi all’importanza che aveva già acquisito il lavoro nella filosofia settecentesca di John Locke) e, dall’altro lato, l’affermarsi dell’appartenenza dei singoli uomini alla terra più di quanto la terra a quei singoli uomini appartenga. Si noti. L’emergere pubblico dell’idea del lavoro qualitativamente rovescia l’idea della proprietà individuale della terra, perché inserisce nell’idea della proprietà e del suo arbitrio quella di fecondità: della possibile fecondità della terra e della nostra responsabilità verso di essa, anche in considerazione del rapporto con gli altri. Emerge con forza, qui, attraverso l’idea del lavoro, il problema della responsabilità sociale, della produzione sociale, del ciclo biologico e del rischio a cui ci si espone lavorando. Attraverso queste idee, insieme combinate, si rivela intrinseco alla terra quel mondo della vita – quella Lebensform, quel mondo comunitario – che precede i soggetti e viene alla luce come sostanza della terra. È stato Paolo Grossi a osservare con illuminante intuizione che nel modello dei diritti civici della terra è presente l’idea contro-individualistica per cui non è la terra ad appartenere agli uomini perché sono gli uomini – nelle forme di vita delle comunità – ad appartenere alla terra4. Il compito del pensiero filosofico è quello di cogliere ciò che accade in filigrana nella storia delle cose e delle idee. Lo stupido vede il complicato; il talento vede nel complicato gli intrecci del complesso; il genio riesce a vedere il semplice che sottotraccia vive nel complesso. Il compito della filosofia è il lavoro del talento che si fa pensiero ed è chiamato a farsi genio, illuminazione. Un primo referto sui movimenti della storia che ci scorre sotto gli occhi è stato tracciato da Martin Heidegger in un breve scritto dal titolo Lettera sull’umanismo, pubblicato nel 1947, che qui noi cercheremo di guardare anche sotto altra luce, cogliendovi l’emergere dell’immagine della terra come metafora nascosta. Heidegger, il territorio: profili giuridici, Relazione presentata al XXI Incontro del Centro Studi di estimo e di economia territoriale - CE.S.E.T. - su Lo sviluppo sostenibile del territorio, Perugia, 8 marzo 1991, in “Rivista diritto agrario” I (1991), p. 531; A. Sciaudone, Il fondo rustico nella proprietà e nell'impresa, ESI, Napoli 1996. 4 Cfr. P. Grossi, La proprietà e le proprietà nell'officina dello storico, cit. individuando il senso del cammino che sta accadendo sotto la scorza delle cose, capisce a fondo che bisogna oltrepassare quella logica del soggetto e dell’oggetto, al cui interno è nata e si è sviluppata la modernità. Nella modernità, infatti, si dà un oggetto guardato da un soggetto e si dà un soggetto che lo guarda, lo circoscrive, lo domina. Il soggetto, perciò, proietta il suo oggetto come oggetto, come ob-jectum, come cosa davanti a sé gettata, che egli può ad arbitrio guardare e manipolare. Ma, in realtà, la modernità nasconde, per Heidegger, l’essenziale. Nasconde il fatto che, alle spalle del soggetto, si dà quell’essere che proietta quello stesso soggetto che, a sua volta, proietta – getta davanti a sé – l’oggetto. Nella prospettiva heideggeriana, perciò, lo stesso soggetto è, come il suo oggetto, un esser-gettato. Domandiamoci però, a questo punto, sullo scritto di Heidegger a partire dalla metafora nascosta che a nostro avviso vi lavora: quella della terra. Che cos’è mai questo Essere che ci precede e ci proietta, sostenendoci nel nostro essere-al-mondo? L’Essere è qui quel fluire, quello scorrere, quel durare che ci precede e di cui non possiamo dire che cosa è, perché, se lo dicessimo, lo cosificheremmo in un ente, che non sarebbe più l’Essere perché sarebbe un qualcosa troppo presto configurato in una forma di solidificazione. L’Essere – questo essere – non è semplicemente la “realtà” che ci appare davanti. Esso è quel fluire, quello scorrere, quel durare che ci precede e ci sottende, a cui apparteniamo. A guardar bene, si tratta dello stesso punto di vista di cui sta parlando in termini storico-giuridici Paolo Grossi quando afferma, configurando il rapporto fra la terra e gli uomini che la possiedono, che bisogna guardare all’appartenenza degli uomini alla terra e non della terra agli uomini. Dentro questa prospettazione traluce nient’altro che quella figura radicale che Heidegger ha disegnato, mostrando come non sia l’essere ad appartenere all’uomo, ma l’uomo all’essere. La domanda, secondo la metafora della terra, non riguarderà pertanto il possesso degli uomini sulla terra, ma l’appartenere degli uomini alla terra e alle loro comunità. Anche nel percorso del diritto e delle idee che i giuristi vi scoprono, perciò, si coglie il farsi avanti di una verità di cui la terra è portatrice. Vi si percepisce un andare verso la verità che è un progressivo regredire a ciò che le apre il varco. Il fluire in quanto fluire da sempre precede il soggetto, così come la terra in quanto terra da sempre precede il singolo uomo. Qui Heidegger introdurrà, a proposito del rapporto che si scopre fra l’essere e il soggetto, fra l’essere e il suo esser-ci come essere umano, tre parole fondamentali. Occorrerà che il pensare, nel quale l’uomo esperisce l’auto-rivelarsi dell’Essere dentro di lui, abbia, per il pensatore tedesco, il rigore della meditazione, la cura delle parole e la parsimonia nel loro impiego. In realtà, quando Heidegger parla del pensare, sta parlando della capacità operosa che l’Essere nell’uomo compie. Infatti, come il pensatore tedesco afferma fin dalle prime righe di Lettera sull’umanismo, l’agire è il portare a compimento. Nell’uomo vive, in realtà, la stessa capacità operosa che nella terra vive. Heidegger parla dell’Essere in quanto si dà nell’esser-ci, nell’uomo, nell’aprirsi interiore della sua radura, là dove l’Essere assegna all’uomo il suo Da: il suo essere là collocato. L’Essere assegna – stando nell’uomo – a ogni uomo il suo luogo, il suo Da. A ben riflettere, l’Essere è, lungo lo scorrere di una metafora nascosta e comune, esattamente come la terra, che assegna a ogni uomo il suo Da, il suo luogo. Così come l’Essere, la terra «némei»: distribuisce. Assegna, attribuisce, affida. Non è il soggetto a distribuire, ma è l’Essere, attraversando il soggetto, a farlo. In questa luce, l’Essere è alétheia: la verità come l’auto-svelarsi dell’essere. E, nella nostra metafora, è la terra che si trasmette come energia che si dà in frutti. In questa prospettiva, che cos’è per Heidegger il linguaggio? È il pensare nella sua capacità di farsi espressione. Ed è, nella metafora che qui proponiamo come cifra ermeneutica ulteriore, la capacità operosa della terra nel suo farsi lavoro e, attraverso il lavoro, espressione di fecondità. Come l’Essere si fa pensiero e linguaggio, così la terra si fa capacità operosa e lavoro che feconda. Il lavoro, portando alla luce la capacità operosa che nella terra agisce, si ricongiunge con la terra che gli sta alle spalle, così come il linguaggio, portando alla luce il pensiero che nell’essere agisce, si ricongiunge con l’essere che gli sta alle spalle, facendolo emergere come quella verità che è alétheia, evento dello svelarsi. Mentre l’Essere, come la terra, è verità che si auto-rivela e trabocca – attraverso l’opera dell’uomo – nella sua possibile fecondità, il compito dell’uomo è l’atto di responsabilità esercitato perché questa possibile fecondità – attraverso il linguaggio del pensiero e il lavoro della terra – venga alla luce. In questo senso, il lavoro è esperienza di responsabilità verso la capacità operosa in cui si dà la terra, così come il linguaggio è esperienza di responsabilità verso il pensiero in cui l’Essere si dà. Il pensiero sta all’Essere, come il linguaggio sta al pensiero; la capacità operosa sta alla terra, come il lavoro sta alla capacità operosa. Il linguaggio feconda il pensiero; il lavoro feconda la capacità fruttifera della terra. Ma questa capacità di fecondazione non è solo potere: è responsabilità. Il linguaggio non solo può fecondare il pensiero: ha la responsabilità di farlo; il lavoro non solo può fecondare la capacità fruttifera della terra: ha la responsabilità di farlo. Il linguaggio e il lavoro debbono esercitare la loro responsabilità per salvaguardare – nel pensiero e nella capacità della terra – il rinnovarsi della loro fonte generatrice. Dove l’Essere e la terra si danno come possibile fecondità, l’opera dell’uomo si dà come responsabilità perché quella fecondità possa emergere alla luce. Ciò che la fecondità rende possibile, la responsabilità deve far emergere alla luce. Accade, qui, lo stesso evento che accade nel rapporto tra il fondamento e il piano che dall’alto lo rappresenta. Quel fondamento impone – permanentemente e nascostamente – a quel piano le sue regole. Quando quel piano si spoglia di quelle regole, si apre una bolla; quando lo spogliarsi da quelle regole mette in contraddizione quel piano con il suo fondamento, quella bolla scoppia. Pretendere di spogliarsi dalle regole poste dal fondamento significa, all’ultimo epilogo, lo scoppio della bolla come deflagrazione della responsabilità. Ciò che, per nichilistica ybris, si è astratto dal suo fondamento spogliandosi di ogni regola, implode a un certo punto nel suo nulla. Nella metafora che stiamo qui praticando, l’esperienza del circoscrivere la terra, dominandola, equivale all’esperienza della prima forma di verità: la verità come corrispondenza. Al secondo livello, l’esperienza del fecondare e far fruttificare la terra equivale alla seconda forma di verità: la verità come espressione autentica di sé. Proseguendo in questo regredire alle proprie spalle, l’esperienza della terra come di ciò che ci è stato tramandato, di cui non disponiamo ma semplicemente siamo custodi, equivale alla terza forma di verità. Alla verità come alétheia. Alla verità come farsi luce dell’Essere nel pensare. Ai tre significati della terra come luogo in cui si definiscono confini, come luogo in cui agisce un lavoro che feconda e come luogo da cui emerge una energia alla luce, corrispondono i tre significati della verità come mettere in corrispondenza, come far venire a maturazione il linguaggio che apre e come consentire all’Essere – nel pensare – di venire alla luce. Nel momento del lavoro si esercita la propria responsabilità verso la terra e la sua capacità operosa, così come nel linguaggio si esercita la propria responsabilità verso l’Essere e il suo darsi nel pensiero. Come dallo stesso scritto di Heidegger appare chiaro, il pensare, nel suo essere libero, non può essere però avventuriero nei confronti dell’essere di cui è portatore, perché deve saper essere, nella sua capacità d’avventura, esercizio di responsabilità verso l’Essere dal cui seno viene alla luce. Il pensare è responsabile verso l’Essere, come il linguaggio verso il pensare e come la verità-corrispondenza verso l’Essere e il pensare. Allo stesso modo, l’attività di dominio sulla terra deve essere responsabile verso il lavoro che la feconda, così come questo lavoro deve essere responsabile verso la capacità operosa della terra e verso l’energia che in essa si dà. Nella metafora che stiamo qui praticando, tutta la ricchezza che esonda dal dominio della terra, per quanto se ne separi, non può prescindere dal lavoro che a quella ricchezza sottostà e dà senso. Il titolo finanziario che si è completamente staccato dal lavoro che vi sottostà, si è staccato da quel fondamento che è la sua verità. Il soggetto che crede di dominare l’Essere, dimenticando di appartenere all’essere di cui è espressione, si auto-inganna, perché perde il rapporto con la verità di cui è il portatore, anzi il custode e il pastore. D’altra parte, il soggetto che crede di dominare la terra fino a separarsene e a viverne senza, dimenticando di appartenere alla terra di cui è espressione, allo stesso modo si auto-inganna, perché perde il rapporto di responsabilità con la terra di cui è il custode e il pastore. In questa luce, ogni titolo che, libero da ogni regola, pretenda prescindere dal lavoro sottostante è il materiale e flagrante tradimento della sua verità. Tradire questa verità – la verità come lavoro – significa perdere quel fondamento e generare quella bolla in cui è nascosta e imminente la catastrofe, là dove questa improvvisamente si rivela la controprova sperimentale della misconosciuta verità. Quando Paolo Grossi, occupandosi delle proprietà comunitarie, sottolinea il fenomeno per cui in esse si rivela l’appartenere del soggetto alle generazioni che si succedono nel tempo, sta facendo emergere, in realtà, l’appartenere dell’uomo alla sua strutturale responsabilità verso la terra, verso la relazione interumana, verso l’equilibrio ecologico, verso il creato. Qui il rapporto con la terra diventa rapporto con la verità del fondamento, con la verità del lavoro, con la verità della salute alimentare, con la verità dell’equilibrio fra gli uomini, con la verità del rispetto dell’Essere da cui siamo emersi. La terra diventa, in questa luce, metafora di un problema di verità. La verità – perciò – vincola. Attraverso la responsabilità. A pena di catastrofe. La modernità ha creduto di poter fare a meno del fondamento, della verità. Ciò non le era affatto impedito, né vietato. Essa era ben libera di farlo. L’evento della catastrofe semplicemente ricorda a quella libertà di essere uscita dal segno, dimenticando la propria verità. Se la libertà sconfina dai suoi limiti, cioè delira, non è un giudice esterno a ricordarle quei limiti, ma un evento strutturale a essa intrinseco: la catastrofe. Dentro la catastrofe deflagra una prova sperimentale di verità. Il tema del relativismo, così doviziosamente pubblicizzato dal moderno, ha dimenticato questo limite, che non è arbitrario, ma è oggettivo e duro. La verità non è altro che il limite entro il quale si esprime, a sue spese, una qualsiasi libertà. Il declino della verità e il declino della terra rivelano perciò, secondo la metafora nascosta qui indagata, una parabola comune. La morte della verità e la morte della terra si rivelano una medesima cosa. Là dove la modernità ha creduto di separarsi dal fondamento, ha consumato la sua irreversibile crisi. Venendo a mancare il fondamento, la casa crolla. Il fondamento dimenticato si vendica: sia nel caso della verità come verità filosofica che nel caso della verità come lavoro, sia nel caso della verità come essere che nel caso della terra come verità. La catastrofe non è, in questa chiave, un incidente di percorso, perché già da prima strutturalmente appartiene allo stesso itinerario che si è senza memoria compiuto. Esiste – qui – un quid che ci precede e ci sottende, che non possiamo manipolare a piacimento, costituendo il vincolo primo e insuperabile per ogni nostro – conoscitivo e comportamentale – cammino. La terra non ci è data solo per dominarla, ma per fecondarla. Ciò, in una necessaria relazione di responsabilità con la salvaguardia delle sue risorse e in una necessaria relazione di responsabilità con la salvaguardia degli altri con cui nel pianeta conviviamo. A questo punto, possiamo anche definire la nostra terra come luogo caratterizzato da confini e la nostra verità come corrispondenza, ma lo faremo nell’esercizio di quella responsabilità che ci consente di permanere nella verità che ci conserva. La catastrofe non è altro che la cicatrice in cui si rivela la tradita responsabilità. Martin Heidegger nella parte conclusiva della sua Lettera sull’umanismo, ha scritto: «il pensiero a venire non può […], come pretendeva Hegel, abbandonare il nome di “amore per la sapienza” e divenire la sapienza stessa nella forma del sapere assoluto. Il pensiero sta scendendo nella povertà della sua essenza provvisoria. Il pensiero raccoglie il linguaggio nel dire semplice. Il linguaggio è così il linguaggio dell’essere come le nuvole sono le nuvole del cielo. Con il suo dire, il pensiero traccia nel linguaggio solchi poco vistosi. Essi sono ancora meno vistosi dei solchi che il contadino, a passi lenti, traccia nel campo»5. All’inizio di questo percorso abbiamo parlato di Pinocchio. Il Pinocchio di Collodi non è soltanto un romanzo di formazione, perché forse disegna anche un segreto apologo sulla modernità. Proviamo a guardare Pinocchio come quell’adulto che noi stessi siamo e che dobbiamo rimisurare nell’orizzonte della verità che ci contiene. Mi viene in mente una barzelletta che non mi ha mai abbandonato per la sua capacità di illuminare. Un uomo andò da un sarto per farsi fare un vestito importante. Il sarto, nel confezionarglielo, lo sbagliò. Nel momento in cui il cliente doveva misurarselo, il sarto, essendosi accorto dell’errore, addestrò il cliente a muoversi 5 M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, a cura di Franco Volpi, Adelphi, Milano 1995, pp. 103-104. secondo i movimenti che gli consentissero di non far apparire gli errori della confezione. Quando il cliente, perfettamente addestrato, uscì dal laboratorio del sarto, tutti, guardando quella figura di uomo così goffa nel camminare, in modo ammirato esclamarono: – Guarda quello lì come è storto, ma ha trovato un sarto così bravo da fargli un vestito a pennello! La modernità si è espressa con l’artificio, studiando e realizzando ogni movimento attraverso lo spezzettamento in parti. Ha sostituito così al movimento reale il movimento stroboscopico. L’uomo reale ha dovuto, perciò, per realizzare i suoi movimenti, conformarsi ai movimenti spezzettati e artificiosi che per lui erano stati disegnati nella forma di una macchina di parti separate e montate. La modernità ha realizzato il suo artificio in più modi connessi: ha spezzettato in parti, ha derivato una parte dalle altre rendendola rappresentativa di tutte, ha costruito rappresentazioni e rappresentazioni di rappresentazioni. La modernità, da un lato, ha frantumato in parti l’intero e, dall’altro lato, ha astratto una parte dall’intero pretendendo che questa parte potesse prescindere dall’intero che essa rappresentava. Da un lato, ha spezzato ciò che è vivo, come se, anche dopo la spezzatura, continuasse a esser vivo, e dall’altro lato, ha astratto da ciò che è vivo, come se quell’astrazione potesse continuare a vivere senza possedere più quella vita. Al colmo dell’illusione, la verità della vita si rivela come crollo. I titoli dell’ultima generazione rappresentativa si sono completamente staccati dalla base di cui dovevano essere rappresentazioni. Alla fine, gli uomini hanno dovuto adattarsi al movimento di titoli astratti, anche se questi titoli non rappresentavano più nulla. Essi simulavano l’esistenza di una base, anche se questa base non esisteva più. L’uomo reale, per essere naturale, ha dovuto diventare artificiale: ha dovuto modellarsi sui movimenti di una macchina di pezzi, assunta come punto di riferimento unico ed essenziale. Egli è stato costretto, così, a diventare copia della sua copia. Essendosi radicalizzata la fede nell’artificio, il risultato si è concentrato nel destino comico che ci ha travolti. Nel quale la vera cosa tragica consiste nel fatto che non ci accorgiamo più della sua comicità. Pinocchio, diventato bambino in carne e ossa, guarda la sua carcassa di burattino, che egli vede ormai quasi alla terza persona, e dice: – Come ero buffo quando ero burattino e come sono felice oggi di essere una persona vera! Quanto tempo occorrerà perché l’uomo post-moderno possa, uscito dalla sua bardatura, guardarsi come Pinocchio guardava alla sua marionetta? L’uomo contemporaneo potrà salvare se stesso dalla comicità in cui è tragicamente crollato solo se riuscirà a recuperare una relazione con la perduta terra, col perduto lavoro e con la perduta verità.