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il führer conciato per le feste - Università degli Studi di Messina

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il führer conciato per le feste - Università degli Studi di Messina
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FRANCESCO DE CRISTOFARO
IL FÜHRER CONCIATO PER LE FESTE
The 20th century has taught us that there are several practises of mortifying a tyrant’s body. Adolf Hitler’s
corpse was made to disappear, probably because it was believed that his lifeless body couldn’t be shown
without its charismatic power. Nevertheless, the reappearance of his image was soon realized, through
practices of ‘ostranenie’, by cinema and literature. Cattelan’s sculpture, Him - that represents a small Hitler
bowed down in prayer, with his back to the visitors - and especially its reassessment, in the homonymous
play by Fanny & Alexander Theatre Company, are at the heart of this speech, which tries to draw up a
comparative inter artes catalogue of the Fuhrer mocked: by putting a baton in the hands of that ‘special’
silhouette-character and by forcing him to ‘dub’, with a perfect lip-synch, all the original cues of The Wizard
of Oz movie.
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1. In ginocchio da te
Il Novecento ci ha insegnato che ci sono molti modi per mortificare il corpo senza
vita di un tiranno, usando nei suoi confronti forme di originario sarcasmo, vale a dire
qualcosa che etimologicamente ha a che fare con lo strazio delle carni. L’esposizione
della salma di Mussolini e l’imbalsamazione del cadavere di Stalin raccontano storie
di gran lunga più corporali rispetto agli straniamenti teatrali cui furono sottoposti,
proprio nella stagione dei totalitarismi, alcuni antichi despoti – dal Caligola di Camus
all’Eliogabalo di Artaud1 – , ma anche rispetto a quanto accadde all’emblema
universalmente riconosciuto del male assoluto, Hitler: la cui salma venne fatta
scomparire, forse perché si riteneva che non potesse essere mostrata in quello stato,
priva di linfa e di carisma. Il cadavere fu, alla lettera, ‘rimosso’, secondo una tecnica
di effacement che getta una luce ancora più sinistra su quanto la società civile tedesca
si apprestava a elaborare per i campi di concentramento: lungo poco più di mezzo
secolo, un contraddittorio susseguirsi di dispositivi irriflessi e di emozioni culturali,
dall’oblio alla censura, dalla negazione alla memoria, dall’ostensione al turismo.
Ma il Führer è riapparso molto presto, nel cinema e nella letteratura, in vesti
spesso stranianti se non ridicole. Partiamo, però, da qualcosa di recente, quasi un
estremo simulacro dell’Unheimliche: per quanto l’immagine posta sopra il nostro
titolo sia ‘indiscretamente’ frontale, in realtà la scultura di Maurizio Cattelan dal
nome – accusativo assoluto – Him, del 2001, rappresenta un mini-Hitler di spalle
(esattamente com’era di spalle l’umbratile e glaciale Hitler masturbating dipinto da
Salvator Dalì, 1973). In questa statua di cera – ma con abiti di stoffa e autentici
capelli umani – il dittatore abita una dimensione ancora più creaturale e sinistra,
perché progressivamente leggibile: egli è chino in posizione di preghiera, magari di
comunione eucaristica; ed è posto di spalle ai visitatori. Ma più ci si avvicina alla
scultura, più la percezione iniziale che si può averne, quella d’un bambino indifeso,
subisce una torsione. Il mode d’emploi (l’atto performativo richiesto al fruitore) è, in
effetti, prescrittivo: il ‘giocattolo’ va dapprima scorto di lontano e di dietro, poi
circuito di lato e finalmente, qualora se ne abbia l’audacia, osservato di fronte. Se non
si segue questa topologia della ricezione – questo ‘assedio’ morbido del manufatto – ,
optando invece per una prossemica fissa, si rischia la frustrazione del fine estetico:
1
Cfr. A. CAMUS, Caligola, in Théâtre, récits, nouvelles, pref. di J. Grenier, a cura di R. Quillot, Gallimard, Paris 1985;
e A. ARTAUD, Héliogabale ou l’Anarchiste couronné, Gallimard, Paris 1997.
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che è di rimanere perturbati da quest’infimo Führer pronto a divorare l’ostia, e di
abbandonare infine ogni sorta di tenerezza.
Una comparazione inter artes ci consegnerebbe un denso e polimorfo catalogo
di figurazioni di détournement, dall’Hitler di Sukorov a quello di Inglorious Basterds
di Tarantino, passando per l’ucronia potenziale dei romanzi di Harris e di Dick, o per
il teatro civile di Brecht, o per la figurazione grottesca e perturbante compiuta da
Littell nel suo più sconvolgente e monumentale romanzo2: fino a giungere al recente,
coraggioso ‘romanzo biografico’ di Giuseppe Genna, dove Hitler è una ‘non-persona’
continuamente esorbitante (aggettivo-ossessione del libro), un essere congelato in se
stesso, che irradia non-essere e morte, banalità e follia3.
Lo spettacolo Him, messo in scena a partire dal 2008 dalla compagnia
ravennate Fanny & Alexander e pannello di un polittico ‘provocato’ dalla rilettura di
un film-culto per bambini, perfettamente contemporaneo allo scoppio del secondo
conflitto mondiale, nonché dell’originale letterario d’inzio secolo, si regge sopra
un’operazione di straniamento ancora più radicale: si tratta di un lavoro puramente
concettuale, con in scena un solo attore, Marco Cavalcoli, che, travestito da Führer e
con la medesima postura dell’omonima installazione di Cattelan, ripete a memoria
(doppia), con perfetto labiale, tutte le battute originali del film di Fleming, proiettato
alle sue spalle4. Conviene ricordare, non incidentalmente, come il romanzo e il film in
questione contenessero il ‘midollo’ di una subliminale allegoria politica ed
economica dell’America pre- (e post-) roosveltiana. In Him il performer rappresenta
così un tiranno eccentrico, che in apparenza usurpa tutte le voci e domina tutti i suoni,
ma in realtà non è né demiurgo né logoteta: egli viene parlato e agìto, costretto com’è
a effettuare il meccanico playback d’una sceneggiatura ricca di innocenza e di magia.
2
Cfr. Молох (1999) di A. Sukorov; Inglourious Basterds (2009) di Q. Tarantino; e i romanzi R. Harris, Fatherland,
trad. it. di R. Rambelli, Mondadori, Milano 2005, e Ph. K. Dick, The Man in the High Castle, (1962), trad. it. La
svastica sul sole, a cura di M. Nati, Fanucci, Roma 2005; B. BRECHT, Furcht und Elend des Dritten Reiches, trad. it.
Miserie e terrori del Terzo Reich (1936), a cura di F. Federici, Einaudi, Torino 1963; J. Littell, Les Bienveillantes
(2006), trad. it. Le benevole, a cura di M. Botto, Einaudi, Torino 2008.
3
G. GENNA, Hitler, Mondadori, Milano 2008.
4
Cfr. The Wizard of Oz (1939) di V. Fleming, nonché l’’originale’ letterario di L. Frank Baum, The Wonderful Wizard
of Oz (1900), trad. it. di N. Agosti Castellani, Fabbri, Milano 2007. Su Him di Fanny & Alexander, e sul progetto
complessivo, si veda ora il volume O/Z, Ubulibri, Milano 2010.
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2. Essere o non essere
Le implicazioni estetico-culturali di tali operazioni sono, lo si vede già bene,
particolarmente complesse: il che è dovuto non solo al loro mandato artistico e
morale (che è di manipolare e demistificare uno degli enigmi più indecifrabili del
secolo appena trascorso), ma anche alla padronanza degli strumenti della retorica e
dell’actio posseduta dalla ‘cavia’ che hanno eletto. È noto come Hitler, da ragazzo,
oltre a dipingere mediocri acquerelli, avesse studiato con profitto recitazione: pratica
che lasciò una traccia forte nella sua carriera politica, tanto che ci sono giunte
testimonianze fotografiche di ‘prove’ private, persino registrate su vinile, di discorsi
poi eseguiti in pubblico. Insomma, entro una genealogia (ancora da disegnare) dei
‘corpi dei capi’ dell’ultimo secolo, Hitler farebbe parte della schiatta dei performers
esoforici ed eccedenti, piuttosto che di quella dei massoni reticenti e trattenuti: il suo
modo di stare al mondo è, per intenderci, più simile a quello del Caimano-Berlusconi
che a quello del Divo-Andreotti, poiché si è formato, e munito d’una téchne, in
qualche avamposto della ‘società dello spettacolo’ a venire, più che nelle sacche
austere del pensiero probabilistico, della gestualità del levare, dell’ascolto raccolto di
parole cifrate di Santi e di Venerabili5.
Per non perdersi tra i mille piani della decostruzione e dello straniamento,
conviene provare a individuare una possibile origine; e forse un luogo fondativo
sufficientemente emblematico, poiché radicato nella memoria di tutti, è l’incipit del
classico To be or not to be di Lubitsch (in italiano, per la verità molto infelicemente,
Vogliamo vivere!), realizzato in pieno secondo conflitto mondiale. È bene ripartire da
lì, anche perché è da lì che muoverà poi, con una sorta di butterfly-effect, il triplice
rilancio-omaggio di Mel Brooks: The Producers uno (in italiano, Per favore non
toccate le vecchiette, 1968), poi il remake puro To be or not to be (1983), infine The
Producers due (in italiano, The Producers. Una gaia commedia neonazista, 2005).
Il film di Lubitsch è ambientato a Varsavia nell’agosto del 1939. Germania e
Polonia non sono ancora in guerra, ma Hitler passeggia indisturbato per le strade del
centro storico sotto gli occhi perplessi di una folla che lentamente si addensa attorno
a lui, mentre la cinepresa inquadra insegne di negozi tutte terminanti in -nski, con
5
Su questi temi, si è sviluppato negli ultimi anni un interessante dibattito, parzialmente debitore al grande libro di
Kantorovicz sui ‘due corpi del re’: cfr. almeno S. LUZZATTO, Il corpo del duce, Einaudi, Torino 1998; M. BELPOLITI, Il
corpo del capo, Guanda, Parma 2009; e, anche se con ottica affatto diversa, il recente G. P. Piretto, Gli occhi di Stalin,
Raffaello Cortina, Milano 2010.
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effetto di cumulo comico. Ecco allora che una bambina si avvicina al presunto Führer
porgendo carta e penna per chiedere un autografo: ma non la chiede al cruento
dittatore tedesco, bensì all’attore polacco Joseph Tura che lo sta interpretando per
sfida al produttore che l’aveva accusato di esser truccato male. Indimenticabile, di un
umorismo surreale e ficcante, il dialogo da cui sortisce la scommessa:
DOBOSH – Non lo so…non mi convince… Questo non è che un uomo con i baffetti.
IL TRUCCATORE – Ma è così Hitler!
DOBOSH – Ma no, vedete per essere propriamente Hitler gli manca quel certo non so
che… Il ritratto, guardate il ritratto!
JOSEPH TURA – Ma per quello ho posato io!
DOBOSH – È sbagliato anche quello!
JOSEPH TURA – Bisogna che ti persuada che ho ragione io! Oh insomma, Dobosh, non
sarò un grande artista, ma Hitler lo faccio magnificamente, e te lo voglio provare. Esco
per la strada ora, e vedrai cosa succede.
Ma, come si diceva un attimo fa, l’esperimento fallisce: Tura è immediatamente
sbugiardato dalla bambina. Il sogno di onnipotenza e di mimetismo del performer
sembrerebbe già svanito, ma chi ha avuto la fortuna di assistere a quest’aurea e
mozartiana commedia del 1942 sa che non è così, sa che nei momenti-chiave del film
l’attore non verrà riconosciuto e che ciò apporterà effetti positivi sulla storia (e sulla
Storia); sa, infine, che l’Amleto che si reciterà sul palcoscenico del ‘teatro del mondo’
di Varsavia non sarà che, sotto mentite spoglie, quel dramma Gestapo che era stato
interdetto dalla censura. Ciò a cui assistiamo è anche una riflessione, incantata e
incredula, sull’arte della commedia: capostipite di quella particolarissima classe di
opere che, come vedremo più avanti, hanno sperimentato un’ardua mescidanza di
linguaggi, facendo metateatro al cinema e ragionando sullo statuto stesso della
performance, sull’essere al mondo dell’attore.
Si è detto che questa è un’origine, ma per la verità due anni prima Charlie
Chaplin ‘si era ripreso i baffetti che Hitler gli aveva rubato’ e aveva realizzato, con
grandissimo successo mondiale, il suo primo lungometraggio sonoro, The Great
Dictator: un’epocale satira del nazismo e un commovente apologo sulla persecuzione
degli ebrei. Era, il film di Charlot, soprattutto una storia di doppi: il mondo di
invenzione configurato essendo una copia imperfetta della realtà (la Tomania, il
dittatore Adenoid Hynkel, il Ministro degli Interni Garbitsch...), e il barbiere ebreo
senza nome essendo un sosia perfetto del despota. Per cui, quando il barbiere diventa
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il tiranno e pronuncia un vibrato e utopico discorso sull’amore universale, la
dimensione della simulazione e della performatività è sì assai forte, ma resta
inchiodata al mondo zero, non sfonda in direzione di un ulteriore heterocosmicon. In
altre parole, è sempre la realtà: l’universo teatrale, con i suoi modelli comunicativi,
funziona da schema e non da scena. Il personaggio protagonista è un barbiere, non un
commediante. Quanto all’attore Chaplin, se resta vero che questi maneggia la realtà,
è altrettanto vero che non può modificarla, ma al massimo provocarla e farla
esplodere con la sua arte: dentro il suo film nessun nazista espierà nulla. A dispetto
dell’archetipo, l’ebreo non fa il mondo; né lo rifà. Come a dire che agli attori è dato
di esorcizzare il male, ma solo nella scatola chiusa e mediamente asettica del cinema.
È già qualcosa. Un altro fool, Jerry Lewis, ha tentato invano, nel 1972, di
parlare di genocidio e clownerie senza lieto fine. The day the clown cried è uno dei
più clamorosi casi d’aborto cinematografico mai accaduti: l’opera è rimasta
incompiuta e inedita, e il girato è gelosamente custodito, con un pudore che pare
abbia a che fare anche con l’avvertita pochezza artistica, nei cassetti
dell’ultraottantenne comico americano.
La sceneggiatura presenta un buffone da circo tedesco, Helmut Dorque, che
durante la guerra cade in disgrazia e si mette in proprio; osa schernire Hitler ed è
perciò deportato in un campo di concentramento per prigionieri politici: qui, dopo
aver scoperto di saper fare ancora ridere dei bambini, è scelto dal comandante come
loro ‘intrattenitore’ e poi, ad Auschwitz, come loro accompagnatore nelle camere a
gas.
In cambio, avrà la libertà. Ma che libertà è mai, quella conquistata grazie alla
strage di innocenti? Lacerato dal rimorso, Dorque sceglie infine di soccombere coi
bambini, dopo esser riuscito a strappar loro le ultime risate.
Occorre chiedersi cosa volessero raccontarci qui Lewis e gli sceneggiatori Joan
O’Brien e Charles Denton. Innanzitutto, registriamo che se in Chaplin c’era Hitler (o
almeno una sua controfigura riconoscibilissima) e non c’era il performer, in The day
the clown cried c’è il performer, mentre non c’è Hitler: ovvero, è presente sullo
sfondo e nella caricatura che ne realizza il protagonista.
Ciò significa che ‘Him’ incombe come un’ombra, come un mitologema
diffuso, infiltrato entro le emozioni culturali e i complessi livelli patici della
collettività chiusa che abita la scena del film. Quanto a Dorque, questo clown un po’
kafkiano e un po’ felliniano incarna una sconfitta finale delle ‘tecniche’ performative
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di fronte alla morte tecnicizzata. La favola del ‘briccone divino’ che cambia il mondo
viene ineluttabilmente sfatata: se Lubitsch e Charlot, in fin dei conti, avevano
regalato il riscatto artistico all’attore e alla commedia, stavolta il bene, il bene dei
saltimbanchi e degli strampalati, perde senza appello. E questa sconfitta, oltre a
riguardare la finzione (muoiono tutti; mentre il Benigni de La vita è bella salverà il
bambino, e il Mihaileanu di Train de vie esorcizzerà l’ineffabile e tragica realtà con
un’unica, geniale agudeza in forma di avverbio: «Questa storia è vera... o quasi»),
concerne anche, in modo speculare, la partita più vera di tutte: quella che si svolge a
Hollywood e decide delle pellicole che si possono effettivamente produrre e
promuovere. Certo, che l’olocausto tenda a esser rappresentato solo con happy end, è
un’ironia della storia che grida – quella sì – vendetta.
3. Essere o non-essere
D’altro canto, modificare il corso degli eventi storici è da sempre, si sa, il sogno
proibito dell’arte e della letteratura. Non è certo un caso che un filone letterario di
fortuna segnatamente novecentesca, quello dell’ucronia potenziale, abbia eletto
proprio Hitler a sua cavia preferita. È noto come il geniale The Man of the High
Castle di Philip Dick e, più di recente, il Fatherland di Robert Harris e The Plot
against America di Philip Roth ci abbiano restituito l’immagine vivida di un
‘contropassato’ terrificante, che vede il Terzo Reich trionfare: dato che tali testi ci
interessano qui solo sotto il profilo tematico, ci limiteremo a ricordare che il primo
romanzo utilizza l’antico device metafinzionale del pseudobiblion, perché il mondo
uno, in cui Hitler ha vinto, sia fronteggiato da un mondo due, in cui la Germania è
stata sconfitta, ma senza l’aiuto della Unione Sovietica; così che il Führer, malato di
sifilide, agonizza in una torre d’avorio6. Ebbene, in tutti questi romanzi il dittatore noi
lo vediamo ben poco: vediamo, piuttosto, ciò che gli sta attorno, ai piedi, sulla punta
del coltello e della svastica. È come se la forma-romanzo tradisse una speciale
attitudine a un detournement non antropomorfo: si riplasmano gli eventi, non già i
loro ‘attori’. Non tanto Hitler, dunque, quanto la vicenda storica che lo vede animal
symbolicum. Naturalmente, ciò comporterà una serie di trasformazioni morfologiche
nella narrazione, nonché nella configurazione dei suoi livelli e registri finzionali.
Tralasciando qui, per economia espositiva, quegli aspetti che sono stati fatti oggetto,
6
Per il romanzo di Dick, si veda G. FRASCA, La scimmia di Dio, Costa & Nolan, Genova 1996.
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negli ultimi anni, di un importante dibattito teorico sull’epica moderna (penso
soprattutto al ‘manifesto’ Wu Ming, e a tutto quanto ne è sortito7), può essere però
utile riferirsi a un altro testo romanzesco: Hitler di Giuseppe Genna, pubblicato da
Mondadori due anni fa. Nel biopic di Genna, prima opera narrativa mai dedicata a
Hitler, colpisce innanzitutto la scelta documentale di fondo: non invenzione di mondi
paralleli, ma fedeltà (relativa) alle fonti storiografiche meno accessibili. I ‘fregi al
ver’ vengono, cioè, elaborati a partire da un quadro approssimativamente scientifico,
che non s’intende ribaltare con ipotesi controfattuali. Genna sostiene di temere non
tanto le derive negazioniste del relativismo metaletterario, quanto la mitologizzazione
stupefacente e postuma. Giusta l’etica di Claude Lanzmann, ‘ricamare con la finzione
sulla ferita che ha marchiato a fuoco il Novecento sarebbe osceno’. Così, egli mette al
centro della costruzione narrativa (che è anche una strenua e appassionata
ricostruzione intellettuale) la nozione di non persona elaborata dal biografo hitleriano
Joachin Fest: una persona colma di vuoto, incastonata in una bolla viscida che
impedisce il contatto con gli altri, quasi un essere congelato ma capace di irradiare
non essere e male assoluto, annullando il rapporto con l’umano. Ciò, nelle intenzioni
dello scrittore, non dovrebbe contribuire ad assolverlo, tutt’altro; e soprattutto non
dovrebbe lasciarlo dileguare nel mito, e nelle sue ideologie emollienti, infine
conciliatorie: Hitler rimane tra gli umani responsabili di quello che ha fatto, e tuttavia
rimane quell’umano, che ha congelato. Intervistato sul suo blog, Genna è stato, se
possibile, ancora più radicale:
[…] stiamo parlando del nulla, del non-essere. Il portatore del non-essere non è il portatore di un male
morale, per quanto sconvolgente. In Hitler si appalesa un sovrappiù che esorbita la morale e l’Occidente
non dispone più dell’organo per percepire questo sovrappiù. La distruzione della persona, da lui
teorizzata, è qualcosa di più del mero dato storico. Non è un omicida e non è il diavolo in terra: è niente, è
non-essere. Si avventa sul popolo del Libro che, in Occidente, è il bastione dell’essere. Dio non è un mito:
è l’essere. Hitler non è un mito: è il rappresentante del non-essere.8
Avversione al ‘mito tecnicizzato’ di kerényana memoria. Pare quasi di rileggere le
lucidissime e laiche pagine dedicate da Starobinski, nell’immediato dopoguerra, a
certe perversioni ideologico-culturali dei regimi totalitari e ai rischi di ogni
dispositivo mitologico.9 Cerchiamo ora di interrogare il romanzo, e di vedere come
7
Cfr. WU MING, New Italian Epic, Einaudi, Torino 2009.
Cfr. www.giuseppegenna.it (consultato il 5.9.2010).
9
Si veda J. STAROBINSKI, Interrogatoire du masque, «Suisse Contemporaine», n. 4, avril 1946, pp. 373-74 e C.
COLANGELO, Il richiamo delle apparenze. Saggio su Jean Starobinski, Quodlibet, Macerata 2001, pp. 15-29.
8
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questo non-essere venga concretamente rappresentato da Genna: andiamo all’ultima
pagina, che si intitola Postmortem (nel senzatempo), e mette a segno una potente
figurazione di quella che potrebbe essere la vita di Hitler dopo la morte. Adolf vede
l’anima uscire dal suo corpo mentre brucia, e incontra il lupo Fenrir, feroce animale
della mitologia norrena: lo stesso che, nelle prime pagine, nel bianco assoluto e
impenetrabile delle nevi, aveva decapitato suo padre e gli aveva dilaniato le carni,
dopo avergli detto: «Tu hai solo messo il seme. Tu non lo spieghi»; lo stesso che da
allora infestava gli incubi del protagonista.
Adolf e il lupo condividono la fine: avanzano tra macerie ardenti, in una terra
desolata, e scorgono all’orizzonte una schiera immensa di simulacri dorati,
abbacinanti. Sono i sei milioni di ebrei che Hitler ha sterminato: bambini giganteschi,
che lo orripilano. Volano verso Dio, la crepa sotto i piedi del Fuhrer si fa abisso, e lui
crolla nel vuoto. Fenrir gli si attacca coi i denti, inizia a masticarlo, e solo adesso,
nella rivelazione dell’estremo sparagmós, Hitler urla non ascoltato: «Io chi sono?».
Finirà per sempre divorato ‘nel gorgo buio’.
Nero profondo; mentre era stato il bianco il non-colore dominante nelle rare e
stranianti, e tuttavia saldamente isotope, descrizioni fisiognomiche: «Il suo corpo è
bianchiccio, i piccoli rotoli sulla pancia segnano addominali non allenati, i capezzoli
cadenti, i pochi peli del corpo glabro quasi, e quelle mani pallide, femminee, quelle
mani che da sotto le stringono il retro delle cosce quando fanno il gioco»; o ancora:
«Il tavolo vibra per il pugno sferrato dalla mano femminea e pallida di Adolf Hitler.
La sua bocca è una smorfia di disgusto: smorfia che disgusta. Le sue guance si
incavano in livide ombre grigiastre. I suoi occhi sono quelli di un lupo che stringe le
fauci, fora e insanguina la preda». Fino all’ultima metamorfosi:
La pelle cadente, i lineamenti del volto gonfi, le occhiaie incavate sempre più livide. Si
muove lungo le pareti del bunker ingobbito, serpeggiando stranamente tra una parete e
l’altra, come se cercasse appigli. I capogiri lo sbilanciano. È trasandato, non lo è mai
stato. Le uniformi inappuntabili lasciano posto a indumenti macchiati di cibo, lordi. Gli
angoli della bocca spesso sporchi di briciole di cibo. Mangia in continuazione dolci,
enormi fette di torta […] Offre di sé un’immagine tremenda. Non cammina: si trascina.
Il busto, chino in avanti si tira dietro le gambe. Ha perduto il senso dell’equilibrio e
deve sedersi sulle panche lungo i muri se qualcuno lo ferma e gli parla. Gli occhi sono
un reticolo di capillari esplosi. […] Da un angolo della bocca, spesso, gocciola saliva.
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Digrigna i denti, mentre a fatica si china per carezzare Blondi […]10
Ci si può chiedere se, di là dalla sicura qualità della scrittura, questa ennesima e
incandescente rimodulazione di un topos della cultura romantica (il ‘cacciatore
cacciato’ delle romanze di Bürger, subito tradotte da Berchet e subliminalmente
riscritte da Manzoni nel sogno di don Rodrigo) non comporti un sprofondamento
ancora più inquietante nelle infide sabbie mobili del mito. Il tasso di figuralità,
insomma, pare elevarsi anche troppo, rispetto ai frigidi teoremi del romanzo
fantapolitico e alle decostruzioni umoristiche dell’arte, della drammaturgia e dello
schermo; e l’immagine survivante e insepolta di una leggenda nera rischia di
fagocitare, insieme alla figura di Hitler, ogni ipotesi di comprensione critica della
storia. Ma si tratta comunque del frutto puro (e per ciò stesso ‘impazzito’) di
un’ulteriore ricerca formale, di notevolissima audacia, intorno al ‘colosso’ hitleriano:
una ricerca nella direzione, inedita e sconcertante, di un’epica dionisiaca e
biopolitica. A Genna andrà senz’altro riconosciuto il merito di aver inteso operare
un’ostranenie, piuttosto che dei codici romanzeschi, della ‘maschera nuda’ di Hitler:
trovando la potenza simbolica necessaria per restituircene, entro una forma classica,
la figura congelata, ctonia, eccedente.
4. Mein camp
Ciò che Ingmar Bergman e Pier Paolo Pasolini mostrarono di aver compreso –
quando realizzarono, a distanza di pochi mesi, due tra i più profondi ed enigmatici
esperimenti di ‘metateatro al cinema’, – è che i noises off che attraversano
diagonalmente gli schermi e i palchi di ogni esperimento metafinzionale (al cinema
come a teatro) sono in realtà ‘rumori di scena’: se la scena è – come sempre è –
quella dell’inconscio. Era insomma una sorta di psicomachia, quella che mettevano in
scena il pupo-Jago di Totò, o la Elisabeth-Elettra di Liv Ullmann, una guerra senza
tregua contro le ossessioni del profondo. Totò, dietro le quinte, dice a Ninetto Davoli
che è tutto falso, è tutto un ‘sogno dentro un sogno’; Elisabeth rischia l’afasia
irreversibile, quando si affaccia sul baratro del suo personaggio. Analogamente,
saranno anche i ‘nemici interni’ del soggetto (la malattia, la falsa coscienza) a inibire
il sogno di performance del Sir di Albert Finney, in un film magnifico e dimenticato
10
G. GENNA, Hitler cit., p. 89.
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di Peter Yates, o a far fallire la ‘spedizione’ del gruppo di attori fino a Sarajevo, nella
pellicola forse più coraggiosa, personale e attuale di Mario Martone11. Ma,
naturalmente, tra un’opera e l’altra qualcosa cambia. Dalla metafisica si sta
progressivamente passando alla microfisica del potere: il rapporto si triangola, e ad
esempio nel film di Martone nato dal laboratorio su I Sette a Tebe non si produrrebbe
alcuna messinscena se non si desse conflitto, e se a mediare tra i conflitti di Sarajevo
e quelli di Napoli, a farli entrare in corto circuito, non fosse eretto lo specchio
dell’antico, quegli eventi della tragedia greca che, secondo la sentenza di Sallustio,
«non avvennero mai, perché sono sempre».
Ciò che accomuna tutte queste esperienze cinematografiche è, ad ogni modo, lo
stato di grazia mentale e l’occasione autoriflessiva concesse all’attore: che potrà
ragionare, al pari dei Rosencrantz e Guidestern di Stoppard o del Riccardo di Al
Pacino12, su chi egli sia (e su che cosa ci faccia a questo mondo) tanto in assenza
quanto in presenza di un male riconosciuto e storicizzato. Ora, se tale è la linea di
demarcazione, dove metteremo l’Him genuflesso di Fanny & Alexander? Tra i
drammi metafisici o tra quelli legati ad una esistenza circoscritta? È un apologo fuori
del tempo (body art, statica e concettuale, e anzi derivativa rispetto a un’installazione
di cera) o è assolutamente, irriducibilmente una ‘gaia commedia neonazista’?
Disponiamoci allora ad osservarlo, questo performer che è anche deformer,
quest’omino dal vestito e dalla cravatta marrone, dalla camicia color terra, dagli
immancabili baffetti e dai capelli lisci e fluttuanti sulla fronte; quest’omino che,
dapprima immobile come la statuetta perturbante e indifesa di cui è il calco, comincia
poi a roteare una bacchetta da direttore d’orchestra e ad arrogarsi tutti i ruoli, da
Dorothy al Mago, dallo Spaventapasseri all’Uomo di Latta, dal Leone al cagnetto
Toto, dalla feroce strega dell’Ovest alla buona strega del Nord; senza contare l’intera
parte fonica, il vento, le musiche. ‘Him’ se ne sta fermo al centro della scena, da solo,
sotto lo schermo dove si proietta il kolossal-semimusical che abbiamo visto mille
volte da bambini senza mai sospettarne il fondo oscuro, l’allegorismo crudele.
L’assolo virtuosistico e ossessivo che si svolge sul palco sprigiona anzitutto una
comicità da ‘principio di prestazione’ frustrato, quella che ha a che vedere con
l’impossibilità di doppiare effettivamente tutto: è come se il dittatore-direttore fosse
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Persona di I. Bergman (1966) e Che cosa sono le nuvole? di P. P. Pasolini (in Capriccio all’italiana, 1967); The
Dresser di P. Yates (Il servo di scena, 1983); Teatro di guerra di M. Martone (1998).
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Il riferimento corre alla pièce Rosencrantz e Guidestern are dead di T. Stoppard (1967), e il film omonimo, diretto
dallo stesso Stoppard (1990) e Looking for Richard di A. Pacino (Riccardo III – Un uomo, un re, 1996).
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‘parlato’ dal film.
Come l’imitatore di voci bernhardiano e come il kafkiano Pietro il Rosso, Him
può imitare tutti salvo che se stesso: non sa chi è, non è nulla se non la menzogna di
cui è latore (qui la convergenza con l’Hitler di Genna è evidente). Forse per questo
contorce il volto, schizofrenicamente, ogni volta che cambia il personaggio, o
l’elemento, a cui deve fornire il suono. Non sa istituirsi come soggetto, e difatti è
grammaticalmente un complemento: anche se manovra effetti speciali, colora e
desatura le immagini, così da sembrare onnipotente. Ma la sua grande magia è una
grande illusione; Him incarna la menzogna allo stato puro, è un ciarlatano prima che
uno psicomago: il potere totalitario e le pretese del pensiero unico si infrangono
contro la barriera del reale, e ciò che ne viene fuori è una cacofonia inaudita e
indecidibile.
Non è il caso di interrogarsi ancora sul significato del testo, che risulta
resistente soprattutto se si estrapola questo ‘sconcerto’ ventriloquesco e
flagrantemente camp dal progetto di cui è parte. Ma l’attore, il performer? Che ne è,
ormai, del barbiere di Charlot, che ne è del caratterista di Lubitsch, del clown segreto
di Jerry Lewis, dei baffuti uomini medi di Brecht, delle sagome ballerine di Mel
Brooks, dei replicanti dei romanzi ‘ucronico-potenziali’? In Him la recita dell’attore
ha (scrive A. Balzola) «qualcosa di surreale, di sciamanico, come se egli fosse un
medium grottesco che evoca mondi interi, affollati cantori dell’invisibile e
dell’irrapresentabile [...].
Questa è la magia del tiranno, sembra dire il sottotesto dello spettacolo, la
capacità di essere attore, la capacità di mentire in modo così ostentato da apparire
veri, la megalomania e il narcisismo che trasformano la scena in un unico grande
specchio dove non l’attore-Narciso, ma il suo pubblico resta intrappolato e
soggiogato». Così, lo scontro figurale tra la cripto-distopia del sogno americano e la
coazione a ripetere del tiranno umiliato e fatto automa trova nel corpo dell’attore e
nella sua tecnica sopraffina una chiave di volta, e insieme un punto di fuga. Il Mago
di Oz non è Him, né Him è il Mago di Oz. L’unica, cruciale identità ammessa dallo
spettacolo è: l’attore è l’attore. L’attore come origine e fine di tutta la messinscena,
di tutte le messinscene.
Pertanto Him, in ultima analisi, oltre lo stordimento delle citazioni e dei
linguaggi centrifugati, sarebbe soprattutto una cifrata fantasmagoria del paradosso
dell’attore, una sorta di metafora assoluta della liturgia scenica; né è privo di senso,
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ripetiamolo ancora, il fatto che manipoli una scultura-feticcio che si dà come
cristallizzazione di un mito, e che la rianimi in forme compulsive e, alla lettera,
mitomani.
Ma la logica dell’arte contemporanea, è noto, consiste in uno spiazzamento
progressivo, anzi nella ostranenie eletta, per così dire, a metodo dialettico. Infine,
l’arte è rivoluzione permanente. Ecco allora che la fotografa americana Louise
Lawler, esattamente cinque anni dopo la creazione di Cattelan, girando ‘dietro le
quinte’ di Palazzo Grassi scatta una fotografia in cui la scultura Him se ne sta ancora
per metà imballata nella cassa13. Quel bamboccio horribile visu, non ancora estratto
dal polistirolo, né montato nelle ‘edicole’ di un museo né reso semovente sulla scena,
parrebbe non essere altro che un insignificante objet trouvé; ma proprio questa
‘cosalità’, questo conseguito grado zero finisce per costituire il surplus estetico della
fotografia che lo ritrae. L’opera d’arte al quadrato (al cubo?) della Lawler, intitolata,
forse per sfregio nominalistico, Adolf, deve essere istallata a otto pollici dal
pavimento, secondo la prossemica prescritta nell’incongrua sede del sottotitolo: un
feticcio sconciato e rasoterra, che sembra sorprendere l’attore fuori del suo
personaggio, catturandolo su pellicola fuori della performance e liberando una
scarica micidiale. Lo stupore e lo spaesamento che dovevano prodursi nei visitatori
sembrano così azzerarsi; anzi, è proprio la statuetta, colta in fallo tra scatole e
imballaggi, ad apparire spaesata e davvero esorbitante. Infine, la duplice
appropriazione indebita, fra teatro e fotografia, della scultura di Cattelan ci dice che
nella logica dell’esposizione museale qualsiasi provocazione, anche la più ardita e
situazionista, cela un’intima propensione alla ritualità, e in fondo alla routine: ecco
perché l’esito fatale di Him, di quel segno catafratto e scandaloso, è che sia fatto
‘brillare’ sulle tavole di un palcoscenico o, tutto al contrario, che venga siderato ed
esorcizzato in uno scatto indiscreto, incongruo, osceno.
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Cfr. L. LAWLER, Adolf (Must Be Installed 8 Inches from the Floor) (2006), Palazzo Grassi.
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