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Nel 2006 andai a Helsinki con una gita scolastica
L’OROLOGIO E IL TEMPO CAMILLA BACCELLI 1. INTRODUZIONE Spazio, tempo, né la vita, né la morte è la risposta. (Ezra Pound) Della realtà, noi percepiamo tre dimensioni, alle quali è doveroso aggiungerne un quarta: il tempo. Ma il nostro universo sensibile è limitato, la scienza prende in considerazione per le sue elaborazioni, dieci, venti dimensioni, e su queste nascono le più azzardate teorie fisiche e matematiche. Lo strumento che l’uomo da sempre usa per misurare il tempo è l’orologio, dalle prime meridiane alle clessidre, dagli orologi meccanici fino ai più sofisticati orologi atomici che permettono approssimazioni vicine allo zero. Lo scorrere nel tempo, la misurazione del tempo, da Stonehenge al Calendario Maya, fino ai più moderni orologi da polso, ci fa collegare il presente al passato e al futuro, contemporaneamente il collegamento è tra la nascita e la morte. Ecco che il misuratore del tempo, l’orologio, risulta esser presente in ogni ambito della vita umana e nel suo sviluppo scientifico, artistico, filosofico, ecc. Sin dall’inizio i misuratori del tempo si sono fusi con l’arte e numerosi sono gli esempi di questi oggetti che sono delle vere e proprie opere d’arte. Ritroviamo gli orologi nei quadri famosi, nelle foto d’autore, nei romanzi e nei racconti, nella poesia e in molte delle attività della nostra realtà. La fusione orologio- pop art è oggi evidente negli swatch. Il viaggio nel tempo: un mito che ha coinvolto e coinvolge letteratura e cinema. Ma anche una realtà forse possibile dagli studi della matematica quantistica. Il computer ha il suo orologio che oltre a fornirci il calendario digitale, regola molteplici delle sue funzioni, la maggior parte degli elettrodomestici che abitualmente usiamo è regolato da orologi interni, la nostra stessa vita giornaliera è scandita dalle ore (un tempo dai rintocchi delle campane). Il nostro orologio biologico segna l’invecchiamento cellulare. Gli orologi segnano anche la morte, e restano fissi nell’immagine: dalle torri gemelle all’orologio della stazione ferroviaria di Bologna. Nel 2006 andai a Helsinki con una gita scolastica. L’ultimo giorno si visitò una mostra dedicata al design italiano con alcuni pezzi presi dalla triennale di Milano. Il design,insieme all’architettura è sempre stata la mia passione e in quella occasione acquistai il catalogo dell’intera mostra. Ricordo che la cosa che mi colpì maggiormente fu una piccola parte dell’esposizione riguardante lo studio dell’orologio in epoca contemporanea. C’era “Sferliclock” una delle prime sveglie in resina termoplastica ideata dai designer: Rodolfo Bonetto e Max Huber. Rodolfo Bonetto rinuncia alla tradizionale costruzione in lamierino stampato, sostituendola con un involucro in resine termoplastiche, tale da facilitare e semplificare le fasi di montaggio e da garantire la possibilità di mantenere una produzione in serie a basso costo. Sferoclock è il risultato di un rigoroso lavoro di redesign che opera su rinnovati procedimenti tecnologici e formali, all’interno di precisi limiti di produzione e distribuzione. Fu immessa sul mercato in pieno boom economico, è un esempio di oggetto che sa esprimere la propria modernità fondandosi su standard linguistici e comunicazionali assolutamente innovativi. C’era “Cifra 3” fu uno dei primi orologi a scatto in polimetacrilato di metile, ABS termoplastico progettato nel 1966 dal designer Gino Valle per l’azienda Solari. Cifre e numeri che scattano e si susseguono automaticamente, consentendo di leggere le ore e i minuti in modo immediato senza dover interpretare la posizione delle lancette come negli orologi tradizionali. Il designer Gino Valle realizza un orologio a cifra che semplifica la comunicazione, rende più immediata la diffusione di informazione e anticipa i telendicatori alfanumerici destinati a diffondersi negli aeroporti, nelle stazioni ed in molti altri luoghi di transito collettivo. “Cifra 3” viene realizzato da Solari, industria che negli anni ’50 aveva brevettato l’inedita tecnologia “a paletta” producendo nel ’51 il primo orologio a lettura diretta e nel ’52 quello con calendario automatico e perpetuo. La tecnologia impiegata nel corso degli anni si evolve, passando dalla meccanica elettronica ai rivoluzionari messaggi telecomandati a distanza. “Cifra 3” è considerato un fenomeno di modernariato e come tale è un ambito oggetto di collezione tanto che Solari all’inizio degli anno ’90 ne ha programmato una riedizione numerata e limitata. Dopo due anni ho ripreso a sfogliare il catalogo e dalle immagini concrete degli orologi sono arrivata a una riflessione sul tempo sulla misurazione del tempo, sul nostro concetto di tempo. Che cos’ è un orologio? 2. OROLOGIO COME OGGETTO L'orologio è uno strumento di indicazione dell'ora e, in senso più generale, di misurazione del trascorrere del tempo. È costituito essenzialmente da un motore, da un sistema di trasmissione e di controllo dell'energia nonché da un vero e proprio indicatore del tempo: il quadrante. Dagli antichi orologi a pendolo ai moderni modelli a energia solare, in molte epoche l'orologio ha travalicato il significato per il quale è stato ideato - quello di registrare appunto il passare del tempo - finendo per diventare un vero status symbol, decodificatore degli usi e costumi di popoli differenti e di differenti generazioni. Storia dell'orologio L'esigenza di misurare il trascorrere del tempo era sentita fin dall'antichità. Il più semplice strumento realizzabile è stato la meridiana. Fino a che la misurazione del tempo avveniva con le meridiane, la suddivisione del tempo prevalente era quella in cui l'ora era la dodicesima parte del ciclo diurno, dall'alba al tramonto. Era perciò più lunga d'estate e più corta d'inverno. Lo svantaggio principale della meridiana è quello di non funzionare di notte o nelle giornate nuvolose. Per questo motivo furono sviluppati orologi alternativi, basati sul progredire regolare di eventi. Per esempio la clessidra. Le clessidre furono utilizzate prima dagli Egizi e poi vennero usate in Grecia per scandire le durate di gare,giochi,turni di guardia. Le clessidre si svilupparono poi nei più precisi orologi ad acqua dotati di un sistema meccanico di indicazione dell’ora. Nel corso del Medio Evo furono inventati i primi orologi meccanici:all'inizio del Trecento, molti campanili cittadini vennero dotati di orologio. Si possono ricordare quelli di: Parigi, Milano, Firenze, Forlì... L'orologeria artistica Un prezioso orologio da taschino L'orologio,in quanto oggetto d'uso comune, ha assunto spesso una importante valenza artistica e simbolica. Fin dagli inizi dell'orologeria le casse erano più o meno riccamente decorate, e a volte lo era anche l'interno, per esaltare il fascino della meccanica di precisione. Gli orologi da tavolo potevano essere contenuti in materiali preziosi, oro, argento, bronzo mentre le pendole erano racchiuse in raffinati mobili in legno decorato, con una vetrata che metteva in evidenza il moto del pendolo. Anche gli orologi da torre non erano da meno. Un esempio formidabile è il famoso orologio di piazza san Marco a Venezia, costruito a partire dal 1493 per opera di Gianpaolo Rainieri e Giancarlo Rainieri. Al rintocco delle ore, due statue meccaniche (chiamati Mori per il colore scuro dovuto al materiale) si inchinano alla Madonna e colpiscono le campane con un martello. Oltre all'ora indica anche informazioni astronomiche quali posizione dei pianeti, fasi lunari posizione del sole nello zodiaco. Pregevole è anche l'edificio che lo contiene e il raffinato quadrante, di 4,5 metri di diametro. Altro importante orologio, famoso per essere l'orologio astronomico più grande del mondo, è quello custodito nel campanile del Duomo di Messina, in Sicilia, alto 48 metri alla torre e 60 metri alla cuspide. Costruito negli anni '30 del 1900 dalla ditta Ungerer di Strasburgo per volere dell'Arcivescovo di Messina mons. Angelo Paino . L'orologio possiede inoltre un grande globo che indica le fasi lunari, un calendario perpetuo ed un calendario astronomico che riproduce fedelmente le posizioni dei pianeti in relazione alle varie costellazioni. Orologio posto sulla sommità di Palazzo Reale di Napoli In Germania sono famose per l'orologeria Augusta, Norimberga e la Sassonia. In questi luoghi furono fabbricati meccanismi incredibili, con piccole scene rappresentate da automi meccanici. Uno dei maestri tedeschi più noti è Johannes Beitelrock, prima metà del XVIII secolo. In Francia nello stesso periodo abbiamo Jean-André Lepaute e Abraham-Louis Breguet. In Italia abbiamo tra gli altri il trentino Bartolomeo Antonio Bertolla, di cui è conservato il laboratorio al Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia "Leonardo da Vinci" di Milano. Importante fino al 1700 è anche l'orologeria inglese. Diversi nomi di famiglie di orologiai sono rimasti nei marchi di famose case di orologeria attuali. Attualmente all'orologeria è immediatamente associata la Svizzera, sede di molte grandi marche e principale esportatore di orologi di qualità. Questa nazione ha saputo infatti investire nella produzione di orologio artigianali pregiati, ma ha anche creato un mercato alternativo con la Swatch, rapidamente divenuta uno status symbol. Il quadrante analogico Orologio analogico da parete Nelle meridiane si inizia ad avere il concetto di quadrante, ovvero un pannello attrezzato per evidenziare la lettura dell'ora. Con l'avvento degli orologi meccanici diviene naturale l'impiego del quadrante a lancette. Nella versione più nota, due o più indicatori, in genere di forma affusolata/allungata, ruotano sopra una scala in cui sono incise le indicazioni di ora, minuti e secondi. Esistono o sono esistiti sistemi a lancette diversi da quello abituale. Nei primi orologi era impiegata una singola lancetta ed le frazioni di ora potevano essere dedotte dalla posizione dell'indicatore tra due tacche di ore consecutive. In altri orologi vengono utilizzate lancette la cui estremità non ruota circolarmente ma si sposta avanti ed indietro lungo un arco. Il quadrante digitale Orologio con display digitale in un elettrodomestico Sono di tipo digitale tutte quelle modalità di visualizzazione dell'ora che avvengono per valori Mentre le lancette avanzano impercettibilmente senza soluzione di continuità, un orologio digitale mostra un orario preciso e ad un certo momento passa di scatto al valore successivo. Questo metodo è perfettamente adatto agli orologi in cui la generazione del segnale temporale è già digitale, come per esempio negli orologi al quarzo. La suoneria Negli orologi meccanici, attraverso particolari sistemi di ingranaggi è possibile ottenere l'attivazione di un sistema di segnalazione sonora delle ore o intervalli significativi. Questo avviene per esempio negli orologi a cucù, negli orologi da torre dei campanili. Il meccanismo di base è una sistema di ruote in cui sono praticate delle tacche di larghezza proporzionale al numero di rintocchi che devono essere suonati. La regolarizzazione approssimativa della velocità del sistema è svolta in genere da una ruota a palette frenata dall'attrito dell'aria, che agisce anche da blocco della suoneria per mezzo di un perno che si interpone tra le pale. Il sistema, che trae energia da una molla o da un peso, agisce quindi colpendo ripetutamente un campanello o una campana, oppure soffiando aria per mezzo di mantici attraverso ance o organi a canne, oppure facendo ruotare la ruota dentata di un organetto meccanico. Il design moderno degli orologi da polso Keith Haring (Reading, 4 maggio 1958 – New York, 16 febbraio 1990) è stato un pittore statunitense. “Mi è sempre più chiaro che l’arte è un’attività elitaria riservata all’apprezzamento di pochi. L’arte è per tutti e questo è il fine a cui voglio arrivare.” I lavori di Keith Haring rappresentano la cultura di strada della New York degli anni '80. Haring non ha mai smesso di credere che l'arte fosse capace di trasformare il mondo, poiché le attribuiva un'influenza positiva sugli uomini. Biografia di Haring Nasce a Reading, in Pennsylvania e, primo e unico maschio dei quattro figli di Allen e Joan, mostra una precoce predilezione per il disegno incoraggiata dal padre, disegnatore di fumetti e cartoni animati. Furono proprio i personaggi dei fumetti tipo Walt Disney, del Dottor Seuss e altri eroi delle animazioni televisive a suscitare in lui un'influenza duratura. È proprio in questo periodo, infatti, che Haring decide di fare dell'arte stilizzata la sua ragione di vita.Al termine del liceo, Keith si iscrive all' Ivy School of professional art di Pittsburgh e in seguito alla scuola di commercial-art. Ben presto, però, capisce che quella non è la sua strada e abbandona la scuola. Nel 1976 Keith si mette a girare tutto il paese in autostop, conoscendo molti artisti. Si reca a San Francisco, dove con la frequentazione della Castro Sreet inizia a manifestare il proprio orientamento omosessuale. Alla fine torna a Pittsburgh e si iscrive all'Università; per mantenersi lavora come cameriere alla mensa di un'industria. Dopodiché trova un impiego presso un locale che espone oggetti d'arte. Qui allestisce la sua prima mostra personale di disegni. Nel 1978 espone le sue nuove creazioni al Pittsburgh Center for the arts, poi va a New York ed entra alla School of Visual Art. Mentre lavora il suo interesse personale lo avvicina ai lavori di Jean Dubuffet, Stuart Davis, Jackson Pollock, Paul Klee e Mark Tobey. È questo il periodo in cui esplode la popolarità di Haring: inizia a realizzare graffiti soprattutto nelle stazioni della metropolitana e la sua pop-art viene grandemente apprezzata dai giovani, tanto che i suoi lavori verranno spesso rubati dalla loro collocazione originaria e venduti a musei. Per la sua attività -illegale- di graffitaro viene più volte arrestato. Nel 1980 partecipa insieme ad Andy Warhol alla rassegna artistica Terrae Motus in favore dei bambini terremotati dell'Irpinia. Occupa inoltre un palazzo in Times Square realizzando la mostra Times Square Show. Allestisce in seguito molte altre mostre finché la Tony Shafrazi Gallery non diventa la sua galleria personale. Nel 1983 espone a San Paolo del Brasile, a Londra e a Tokyo. Nel 1984 va a Roma invitato da Francesca Alinovi per esporre nella mostra Arte di Frontiera. Nel 1985, a Milano, dipinge una murata nel negozio Fiorucci. Elio Fiorucci, Nel 1986 apre a New York il suo primo Pop Shop, ovvero un negozio dove è possibile comprare gadget con le sue opere e vedere gratuitamente l'artista al lavoro. In questo anno, inoltre, va a Berlino e dipinge sul tristemente noto muro della città dei bambini che si tengono per mano. In seguito si reca nel ghetto di Harlem dove dipinge su una grande murata sulla East Harlem Drive le parole: Crack is wack (ovvero Il crack è una porcheria). Nel 1987 va a Parigi e decora una parte dell' Hospital Necker. L'opera "Tuttomondo" a Pisa Nel 1988 apre un Pop Shop a Tokyo. In quell'occasione l'artista afferma: Nella mia vita ho fatto un sacco di cose, ho guadagnato un sacco di soldi e mi sono divertito molto. Ma ho anche vissuto a New York negli anni del culmine della promiscuità sessuale. Se non prenderò l'Aids io, non lo prenderà nessuno. Nei mesi successivi dichiara, in un'intervista a Rolling Stone di essere affetto dal virus dell'HIV. Di lì a poco fonda la Keith Haring Foundation a favore dei bambini malati di AIDS. Nel 1989, vicino alla chiesa di Sant'Antonio Abate di Pisa, esegue la sua ultima opera pubblica, un grande murales intitolato "Tuttomondo" e dedicato alla pace universale. Il 16 febbraio 1990, Haring muore a soli 31 anni. Nonostante la sua morte prematura, l'immaginario di Haring è diventato un linguaggio visuale universalmente riconosciuto del XX secolo, meritando, tra le altre innumerevoli esposizioni, una mostra alla triennale di Milano conclusasi nel Gennaio 2006. Opere di Haring in Italia •Graffiti sullo zoccolo del Palazzo delle Esposizioni a Roma (1982) - cancellato nel 1992 per "ripulire" il palazzo in occasione della visita di Michail Gorbaciov •Graffito di 6 x 2 metri realizzato nella metropolitana di Roma, linea A, tratto Flaminio-Lepanto, sulle pareti trasparenti del ponte sul Tevere - cancellato nel 2001 per volere dell'amministrazione comunale •Interni del negozio Fiorucci a Milano (1985) - i murales in seguito sono stati strappati e venduti all'asta dalla galleria parigina Binoche. •Tuttomondo a Pisa, sulla parete esterna del Convento di Sant'Antonio (1989) •Due disegni a pennarello raffiguranti un surfista in una grande onda. Milano, collezione privata. Questi sono gli originati Swach di Keith Haring del 1980 tutti con l’originale cassa in plastica L’innovazione del marchio Swatch Concepito agli inizi degli anni ’80 per rilanciare l’industria svizzera degli orologi messa in difficoltà dalla concorrenza giapponese, Swatch è ormai diventato uno straordinario fenomeno tecnico estetico e commerciale a livello mondiale. Un orologio leggerissimo, molto resistente, impermeabile, prodotto in una gamma vastissima e continuativamente rinnovata nei modelli, secondo tecnologie d’avanguardia, commercializzato ad un prezzo assolutamente abbordabile recante la rassicurante scritta “Swiss made”. Dal 1983 ad oggi, la vendita di oltre 90 milioni di Swatch è stata il frutto di una strategia di produzione e di mercato incentrata su tre elementi chiave: il mix alta qualità e basso prezzo; la fantasia nel design ; modelli rinnovati, sempre diversi, in sintonia e spesso in anticipo rispetto alle tendenze della moda e del costume. Presentando due collezioni ogni anno, ciascuna composta da circa 30 modelli, suddivisi in tre linee (classico, sport e moda), Swatch si è proposto come accessorio di moda da cambiare spesso in conformità con stili, ritmi di vita, comportamenti non più convenzionali. Da oggetto che segnava, almeno simbolicamente, le tappe fondamentali della maturazione biografica e professionale dell’individuo, l’orologio è passato così a interpretare con Swatch la sensibilità e il gusto della persona facendosi segnale di impressioni e desideri, più che di norme e abitudini consolidati: salvo poi divenire, grazie ai suoi contenuti emozionali di simpatia, un vero e proprio status symbol a seconda della fisionomia scelta di chi lo indossa oltre a divenire un capo di abbigliamento che può essere abbinato ad altri capi di abbigliamento. Anziché enfatizzare il valore e il prestigio, l’orologio Swatch sottolinea la fruizione sensibile estetica della vita, la sua allegria, praticità, trasformandosi infine in fenomeno culturale. Le continue innovazioni dei suoi quadranti che cambiano ogni stagione con l’apporto creativo di artisti contemporanei o con abili variazioni sui temi e sulle immagini della realtà quotidiana, esprimono in maniera emblematica lo spirito del tempo, con la sua particolare combinazione di esatte forme e flessibilità di attualità e desiderio di tornare al passato e di tornare al futuro. Segnalo una particolare linea elaborata nel 1989 denominata “Dadalì” in bilico fra avanguardie di ieri e avanguardie di oggi in cui “c’è tutto e il futuro di tutto”. Swatch nell’arte Fin dall’inizio la produzione Swatch si muove in territori confinante con l’arte. Parlare dell’arte non è mai stato facile e lo è ancor meno oggi dopo la lezione di Warhol e di Fontana che hanno capovolto il concetto tradizionale ottocentesco del fenomeno artistico come di un fenomeno “alto” nettamente separato dalla “bassa” vita quotidiana. E così hanno dimostrato come le frontiere tra ciò che è da considerarsi arte e ciò che è da considerasi non arte siamo irrimediabilmente cadute. Diciamo allora che gli orologi Swatch, come i ritratti di Warhol, sono teoricamente riproducibili all’infinito, ma praticamente prodotti in tirature limitate. Questo è ciò che li rende preziosi in realtà l’irripetibilità è la loro continua trasformazione. Nel 1985 l’azienda decide di impegnarsi in un rapporto più stretto con l’arte e fu affidata a Kiki Picasso il primo pezzo della Swatch Art Collection. Tra l’85 e l’89 la Swatch Art Collection ha preso corpo nelle creazioni di una serie di grandi artisti contemporanei. Nell’86 appaiono gli orologi graffito di Keith Haring, la cui caratteristica artistica del giovane americano era raffigurazione di forme primitive che dipingeva sulle pareti della metropolitana di New York. Seguono Folon che crea tre pezzi lunari, azzurri e surreali, seguono alcuni giovani artisti svizzeri nel 1988 in occasione del giubileo della Swatch l’artista Tadanori Yokoo e tre pezzi disegnati da Alekinski, Buri e Valerio Adami, nel 1991 è la volta di Mimmo Paladino. Gerald Genta e l’estetica del tempo Alla fine degli anni ’40, il giovane Gérald fa le sue prime prove, può contare solo sul suo talento e sul suo coraggio di adolescente lavora con gli acquerelli, poi nell’alta moda, poi è orefice e gioielliere,poi autore di campagne pubblicitarie, poi, di ritorno da Ginevra, diventa orologiaio. E ’li, a Ginevra,dove per molti decenni e sino ad oggi,influenza e guidacon i suoi leggendari modelli Royal Oak, Mickey, Dracula, scorpio, realizzati da Audemars Pigeut, patek Philippe, Van Cleef &Arpels, Universal Bulgari, Omega. Nel 1968 un suo modello della Universal vince a new York l ’Oscar for diamonds. Quattro anni dopo fonda la propria fabbrica a Ginevra,portando le sue collezioni in nuovi mercati lontani come Singapore e gli Emirati Arabi. nella sua produzione individuale ,per una e una sola persona, inventa e realizza con i metalli, le pietre e gli smalti più rari, pezzi unici, oggi proprietà di alcuni fortunati collezionisti del regno del Marocco e del sultano del Brunei. A chi gli chiede oggi a Gerald Genta quali sono i grandi ispiratori del suo lavoro, non risponde con i nomi altissimi della scuola russa Faberge, né cita l ’orologiaio dei Mori di Venezia in Piazza a san Marco, ma richiama piuttosto i nomi di tre grandi pittori spagnoli: Picasso, Mirò, Dalì. Dalì in qualche modo aveva compiuto il percorso inverso di quello che oggi domina la vita di Gérald Genta. Nel 1942 Dalì aveva spiegato il senso della sua opera più importante, che allora si chiamava “Orologi molli” e che oggi è ribattezzata “Persistenza della memoria” ed è senza dubbio il pezzo più famoso del MoMa di New York. Nel 1969 Salvador Dalì aveva addirittura costruito l ’orologio solare cioè una meridiana in rue Saint Jacques a Parigi. Oggi Gerald Genta dipinge opere di grandi dimensioni fatte semplicemente di tela e di colori, degli anni passati, quando era alle prese con la creazione degli orologi più cesellati e più costosi del mondo è rimasto solo un prezioso tappeto Senneh di Esfahan su cui appoggia i barattoli dei suoi colori. Orologi e artisti Gli orologi hanno via via stregato e impegnato pittori, scultori, designer e architetti in un crescendo di sperimentazioni e opere negli ultimi decenni. Si pensi, dopo Salvador Dalì, alla Art Collection Swatch e, in Italia Aldo Rossi, Alighiero Boetti, Alessandro Mendrini (che dirige l ’Art Collection Swatch),Enzo Mari, Marco Zanuso. Ricordiamo il più potente tra tutti lo scultore svizzero Jean Tinguely di Meta-armonia II (1979), con le ruote dentate, con le molle, i contrappesi e i dispositivi frenanti dei pendoli e dei bilancieri, composti con scarti giganteschi tratti dalle grandi macchine utensili dell’industria e sicuramente la storia proseguirà…. Salvador Dalì Salvador Dali, Salvador, 1904-89 - Artista, pittore e scrittore surrealista spagnolo. Nacque a Figueras, Catalonia, e studiò all'Accademia di Belle Arti, Madrid. Dapprima influenzato dal rinnovamento futurista, nel 1924 Dalì fu influenzato dall'artista italiano Giorgio De Chirico. Dal 1929 Salvador Dalì divenne leader del surrealismo. Il suo stile personale intensifica l'effetto di sogno e incubo dei suoi dipinti. Fra i suoi migliori lavori è da menzionare Persistenza della Memoria del 1931, custodito al Museo di Arte Moderna di New York City. Nel 1940 Dalì emigrò negli Stati Uniti, dove rimase fino al 1948. I suoi ultimi lavori pittorici, spesso con temi religiosi, sono assai più classici nello stile di quanto non lo fossero le sue opere precedenti. Fra queste notiamo “Crocefissione” (1954, Metropolitan Museum, New York City) e “Il Sacramento dell'ultima Cena” (1955, National Gallery of Art, Washington, D.C.). Egli scrisse “La vita segreta di Salvador Dalì” (1942). Dalì operò con il suo surrealismo anche nel cinema (per esempio nel film di Luis Bu�uel 'Un Chien andalou', 1928 e con Alfred Hitchicok nel film “Io ti salverò”), nella pubblicità, nel balletto, illustratore di libri, disegnatore di gioielli e di mobili. Il ”Salvador Dali Museum”, St. Petersburg, Fla., è totalmente dedicato alle sue opere. Surrealismo – Il surrealismo di Salvador Dalì Nascita della parola e definizione della parola La parola “surrealista” appare nel 1917, anno in cui Guillaume Apollinaire, fa rappresentare un’opera burlesce “Les mammelles de Tirésias”, definendola appunto “dramma surrealista”. Comunque non rientra affatto nelle intenzioni del poeta di Alcools di dare il nome ad una dottrina ed ancor meno di fondare una scuola. Tuttavia la parola che lancia allora fa fortuna e negli ambienti letterari e artistici la si ripete volentieri in un tono più serio, sarebbe rimasta solo un vocabolo prezioso se nel 1924 Andre Breton non gli avesse attribuito tutti gli oscuri poteri del sogno, dell’inconscio e della rivolta. Surrealismo: Automatismo psichico puro col quale ci si propone di esprimere, sia verbalmente , sia per scritto, sia in qualsiasi altro modo, il funzionamento reale del pensiero. Dettato dal pensiero, in assenza di ogni controllo dettato dalla ragione, al di fuori di qualsiasi preoccupazione estetica o morale. Il surrealismo si fonda sulla fede nella realtà superiore di certe forme di associazione finora trascurate, nell’onnipotenza del sogno, nel gioco disinteressato del pensiero. Tende a disfarsi definitivamente di tutti gli altri meccanismi psichici ed a sostituirsi ad essi nella soluzione dei principali problemi della vita. Movimento surrealista: Alla ricerca di una realtà non visibile, tanto profonda e oscurata dalla razionale coscienza, il Surrealismo, movimento d’avanguardia che vede i suoi natali in Francia nel 1924, ricevette, un sostanzioso impulso, dalle teorie psicanalitiche di Sigmund Freud. L’interpretazione dei sogni, i lati bui dell’inconscio, gli automatismi legati ad esso, come gli stadi di trance, furono i pilastri portanti del manifesto surrealista edito da Andrè Breton (1896-1966), teorico scrittore e portavoce del movimento. Secondo il libro "L'interpretazione dei sogni” pubblicato nel 1900 da Sigmund Freud, il sogno è la «via regia verso la scoperta dell'inconscio». Nel sonno, infatti, viene meno il controllo della coscienza sui pensieri dell'uomo e può quindi liberamente emergere il suo inconscio, travestendosi in immagini di tipo simbolico. Da questi e altri studi di Freud, nasce il Surrealismo. Aspetti fondamentali del movimento sono la rivalutazione della componente prerazionale e irrazionale della creatività umana e la liberazione delle pulsioni dell'inconscio: un rifiuto della logica e delle strettoie della civiltà a favore di una totale libertà di espressione. Gli artisti e gli scrittori che aderirono, furono mossi dalla fervida convinzione che oltre alla realtà visibile, esistono diverse dimensioni di esperienza, il già citato “sogno” e gli stati che realizzano immagini allucinatorie. Si studiarono gli aspetti celati della coscienza, la sua comprensione irrazionale, incomprensibile ai parametri della “normalità”. Secondo lo stesso Breton, le immagini dovevano essere tracciate in modo diretto, prive di filtri razionali, attraverso una sorta di “scrittura o pittura automatica” (automatismo psichico), al fine di liberare gli strati più profondi dell’inconscio. Il sogno, la visione al limite dell’allucinazione, furono considerate realtà parallele che descritte originavano immagini inconsuete e sorprendenti. Tra i tanti si distinse l’opera di: Joan Mirò, che fu sempre legato ad un linguaggio segnico e solare come la terra di Spagna da cui proveniva; Max Ernest, che raffigurò spesso paesaggi anomali e desertici, caratterizzati da una dimensione di atemporalità; all’accostamento di improbabili immagini si dedicò Renè Magritte; dipinti fermi, immobili dove oggetti e personaggi sconnessi tra loro sono figurati con una precisione tecnica quasi fotografica e che per tale freddezza trasmettono all’osservatore un senso di profonda inquietudine; Frida Kahlo che riprodusse spesso se stessa in scene di cruda immaginazione, emanando la sensazione di sgomento tipica dell’incubo e simultaneamente, proponendo un ripiegamento su se stessa tanto da comunicarci la dolcezza e la volontà dell’autocomprensione. Il surrealismo può essere diviso in due indirizzi fondamentali; quello di figurazione non naturalistica, dove primeggiano segni e simboli, e quello a figurazione naturalistica dove emergono comunque le immagini visionarie del sogno. A quest’ultimo approdò nel 1929 lo spagnolo Salvador Dalì, che crea opere in cui gli oggetti o i personaggi del mondo reale si accostano tra loro in modo del tutto inconsueto, paradossale. In molti dipinti di Dalì, assistiamo alla deformazione straziante di oggetti o parti del corpo, effigi inserite in contesti anomali dove si mette sempre in evidenza una malinconica linea d’orizzonte, pressante e angosciosa; il risultato per il fruitore è eccessivamente inquietante poiché la realtà descritta risulta oltremisura ambigua e assurda. La ricerca artistica di Dalì si orientò verso un’attività “ paranoica-critica”, eretta, come egli stesso scrisse, su “ un metodo spontaneo di conoscenza irrazionale basata sull’associazione interpretativo-critica dei fenomeni deliranti”. Questo lo condusse a trasporre sulle tele, con maniacale precisione le immagini dell’irrazionalità completa: rocce antropomorfe, statue, oggetti innaturalisticamente deformi. Il periodo di adesione al Surrealismo (1927-40) "La differenza tra me e i surrealisti è che Io sono Surrealista" Attorno al 1928 il lavoro di Salvador Dalí evidenzia un progressivo avvicinamento alle tematiche del Surrealismo. Questo processo avviene senza che l'artista abbia potuto conoscere personalmente i surrealisti. A introdurlo nella loro cerchia nel 1928 è Joan Miró. Il Surrealismo si propone di far emergere l'inconscio dell'essere umano attraverso il principio dell'automatismo psichico, teorizzato da André Breton. Nel suo ambito Dalí ha modo di esprimere la sua vera inclinazione artistica e maturare uno stile personale. Nelle opere a cavallo tra la fine degli anni '20 e i primi anni '30, l'artista manifesta un'immaginazione sfrenata e una capacità straordinaria di associare forme tra loro incongruenti. Queste qualità, unite a un virtuosismo pittorico veramente eccezionale, conferiscono ai quadri l'aspetto di allucinazioni iperreali. I quadri che Dalí dipinge tra il 1929 e il 1935 si possono considerare come paesaggi della mente. La composizione si basa su sfondi paesaggistici, caratterizzati da prospettive accentuate e linee dell'orizzonte alte e lontane. Risaltano in primo piano forme immaginarie, date dalla combinazione di elementi organici e figure reali, spesso alterate: tavolozze, figure umane, elementi corporei, sassi, conchiglie, fiumi, laghi, alberi, animali, orologi, mobili, ecc. La teatralità della messa in scena è enfatizzata dalle tinte chiare degli elementi in primo piano, rispetto agli sfondi, più scuri. Esemplificativa una delle prime opere surrealiste: Il grande masturbatore (1929). L'artista fa spesso ricorso a elementi simbolici. Esempio arcinoto è la piccola tela Persistenza della memoria (1931), in cui compaiono alcuni orologi molli. Le opere dipinte tra il 1935 e il 1940 si caratterizzano per una maggiore sintesi. La composizione si basa su un minor numero di elementi e di dettagli, concatenati tra loro. In questo modo, vengono a crearsi singolari effetti illusionistici e di metamorfosi: Costruzione molle con fave bollite (1936), Le metamorfosi di Narciso (1937). Celebre al riguardo è Apparizione di volto e fruttiera sulla spiaggia (1938), in cui una fruttiera si combina con elementi del paesaggio, evocando le sembianze di un cane. Dalì e i surrealisti Sin dall'inizio André Breton ne apprezza il lavoro. Giunge persino ad affermare che Dalí incarna pienamente lo spirito surrealista. Col tempo, però, emergono i primi dissidi. I surrealisti disapprovano di Dalí lo scarso allineamento politico e l'avidità di denaro. Breton non esita a chiamarlo "Avida dollars", anagramma del nome vero. Il rapporto si deteriora ulteriormente nel 1934, quando Dalí viene processato dagli altri esponenti del gruppo, ed espulso. Reagisce definendosi l'unico vero artista surrealista esistente. L'avvenimento non sembra, comunque, influire sul suo lavoro. Il surrealista Dalì e il suo metodo Nel 1920 Dalì dirigeva la propria attenzione sui meccanismi interni dei fenomeni paranoici ed esaminava la possibilità di un metodo sperimentale basato sul poter istantaneo di associazioni sistematiche proprie della paranoia; quel metodo doveva diventare in seguito la sintesi delirante-critica che porta il nome di “attività paranoico-critica”. Paranoia: delirio di associazione interpretativa implicante una struttura sistematica. Attività paranoico-critica: metodo spontaneo di conoscenza irrazionale… dell’associazione interpretativa-critica dei fenomeni deliranti. Tale teoria viene definita come preciso metodo alla base della sua pittura, attorno alla metà degli anni '30, definendolo metodo "paranoico-critico". Il surreale nella vita di Dalì Dalì non ebbe un’infanzia facile, in seguito ad una serie di avvenimenti veramente “allucinogeni”, sui quali la sua sensibilità si bloccò per sempre, impedendo precocemente la normale evoluzione della sua personalità, e facendo sfociare il tutto, in età adulta, in accentuati deliri d’onnipotenza. Avvenne, infatti, che, tre anni prima della sua nascita, un altro piccolo Dalì di sette anni, morisse di meningite. I due bimbi si somigliavano come gemelli. I genitori, disperati e disperatamente fissati sul primo Dalì, commisero l’errore di dare al piccolo nascituro, lo stesso nome del bambino morto, e nell’austera e greve camera dove il piccolo Dalì dormiva, troneggiava sul muro una grande foto del Dalì morto, e il piccolo Salvador lo ammirava affascinato da tutto ciò che sentiva raccontare di lui ogni giorno. Nonostante il padre fosse ateo e settario, accanto alla foto del piccolo defunto, appese l’effigie di un altro cadavere: una copia di Cristo crocifisso del Velàzques. E non è improbabile che la madre spiegasse al piccolo Salvador che il fratellino fosse salito in cielo per raggiungere il cadavere crocifisso. Ecco che il pittore finì effettivamente con l’identificarsi col fratello morto e con il Cristo che ascende al cielo. La tecnica pittorica di Salvador Dalì La tecnica pittorica di Dalí è molto caratteristica. I quadri sono complessi e particolareggiati. La cura dei dettagli è minuziosa, quasi maniacale. La pittura è nitida, estremamente rifinita. In alcuni casi si potrebbe definirla addirittura iperealista. Non a caso, l'artista parla di "fotografie di sogni dipinte a mano". Per ottenere una qualità e una precisione di questo livello Dalí adopera pennelli sottili. Si serve anche di un bacchetta di legno che funge da appoggio per il polso, alla maniera di Vermeer e dei pittori olandesi. È grazie alla combinazione di questo stile pittorico con i singolari accostamenti di forme che nasce l'impressione di allucinazione e cerebralità, che le opere surrealiste di Dalí suscitano. Dalì e il surrealismo gastronomico Salvador Dalì si occupò, durante la sua vita, più o meno direttamente di cucina ed ebbe un rapporto creativo con la gastronomia. A quell’epoca era di gran moda far disegnare la copertina dei menù agli artisti, e anche Dalì ne creò uno. Uova, crostacei, anatre, zampe di maiale, lumache e cioccolato sono ingredienti legati alla sua vita e alle sue opere. Pare che Dalì sia stato influenzato da una forma di Camembert per dipingere i celeberrimi orologi molli, mentre il bacon fritto (ritratto degli anni '40), è probabilmente un'influenza derivante dai soggiorni statunitensi dell'artista. Dalì si stabilì sulla costa catalana nel 1948, dove creò vari prodotti commerciali come il divano a forma di "labbra di Mae West” o "il telefono aragosta" (la cornetta era a forma di aragosta). Su questo grande personaggio, sono tanti gli aneddoti che si raccontano e si leggono nei posti dove visse. Si dice che una volta, per prendere un aperitivo, Dalì sia arrivato al bar in cammello, con un fiore di giglio in mano, accompagnato da una modella vestita da zebra. Ricetta degli spaghetti alla Dalì Pulite del prezzemolo e tritatelo insieme a delle foglie di salvia e di basilico. Scolate del tonno sott’olio e sbriciolatelo in un piattino con una forchetta; unitevi delle acciughe sminuzzate e aggiungete il trito di erbe aromatiche mescolando bene. Mentre cuociono gli spaghetti fate scaldare dell'olio in una padella e soffriggetevi dell'aglio tagliato a pezzetti. Unitevi il composto di tonno, acciughe ed erbe, mescolate e fate insaporire per pochi istanti. Scolate gli spaghetti, versateli in una zuppiera e conditeli col sugo ben caldo. I dipinti di Salvador Dalì mi affascinano da sempre, alcuni addirittura mi turbano... “La persistenza della memoria” o “Orologi molli” (1931) In uno scritto Dalì dice: "Il tempo e' la dimensione delirante e surrealista per eccellenza" (da Vita segreta di Salvador Dalì) Dalì stesso racconta come ebbe l'intuizione degli orologi molli e di come li inserisse in un paesaggio che aveva gia' dipinto. Una sera in cui Gala era uscita con degli amici egli, che non si sentiva molto bene, era restato a casa e aveva cenato con del Camembert: la consistenza tenera, assieme alla forma rotonda, di quel formaggio gli fece nascere l' dea di aggiungere degli orologi molli a una veduta della baia di Port Lligat al crepuscolo che si trovava sul cavalletto nello studio. Si mise subito al lavoro, l'idea prese corpo ed entro poche ore il quadro era terminato. La figura centrale, il volto dalle lunghissime ciglia si ispira a una roccia che il pittore aveva visto a capo Creus, la cui forma era assai vicina a quella di questa figura. Questo dipinto, noto anche col nome Gli orologi molli, è uno dei più famosi ed enigmatici di Dalì. In quest’opera si notano: una forma che riproduce, anche se solo parzialmente, un volto, uno spoglio alberello, un promontorio, una tavola e quattro orologi, uno chiuso e tre “molli” che segnano l’ora. Per l’autore la deformazione delle immagini è uno strumento per mettere in dubbio le facoltà razionali che vedono gli oggetti sempre con una forma definita. Infatti, l’orologio è lo strumento per eccellenza che permette di misurare il tempo e di dividerlo in modo da piegarlo alle esigenze pratiche e quotidiane. L’opera forse più conosciuta dell’artista è “Persistenza della memoria”, (Gli orologi molli) del 1931. Qui osserviamo un paesaggio in cui si staglia la netta linea d’orizzonte, su un cielo indefinibile e un mare irrealisticamente piatto, a destra delle rocce illuminate da una luce di dubbia provenienza, e in primo piano, sulla terra un essere antropomorfo e degli orologi che sembrano liquefarsi. Freud descrisse il funzionamento generale della psiche con due semplici concetti, il “principio di realtà” che indica l’adattamento all’ambiente circostante, e il “principio di piacere”che tende sempre a sostituirsi al primo. Per Dalì gli orologi, in quanto congegni di misurazione uniformata, rappresentano il “principio di realtà”, mentre il loro aspetto deformabile, quasi commestibile, appartiene al “ principio di piacere”. Inoltre nelle sue tele esiste sempre un nesso tra la percezione del tempo e la spazialità, dunque gli orologi che si sciolgono nello spazio, riconducono allo scorrere del tempo come luogo della memoria che sfuma in lontananza, così come l’orizzonte, in cui s’insinua l’inesplicabile e che determina a livello inconscio l’esperienza del presente. L’opera “Persistenza della memoria” esprime un messaggio di tipo esortativo perché Dalì invita l’osservatore a riconsiderare le dimensioni del tempo, della memoria, del sogno e del desiderio, non sottoposte alle regole apparentemente logiche, ma dove il prima e il dopo si mescolano e lo scorrere delle ore dei giorni accelera e rallenta a seconda della percezione soggettiva. La tela esprime anche un messaggio di tipo informativo; secondo una interpretazione filosofica l’immagine è associabile alle proprietà metriche dello spazio e del tempo concepite applicando il principio della relatività scoperto da Einstein. Dalì informa l’osservatore di questi sconvolgimenti teorici della fisica con una rielaborazione molto originale e personale. Orologio molle al tempo della prima esplosione (1932) In questa tela è rappresentata una forte esplosione che frantuma l’orologio: è inizio e fine dell’umanità, dello spazio, del tempo, il cosiddetto Big Bang. 3. L’OROLOGIO DELL’ANIMA Introduzione La letteratura tra ‘800 e ‘900. La nuova concezione del tempo tra ‘800 e ‘900 ha tra i suoi principali fondatori il filosofo francese Bergson: egli mette in crisi il paradigma positivista e non vede più la realtà sotto leggi meccaniche e sotto le coordinate temporali della fisica, ma intende il reale come una proiezione del soggetto e della sua coscienza. Queste nuove idee hanno un riscontro molto importante anche in letteratura e dall’inizio del XX secolo, con le opere di Proust, Mann, Joyce, Virginia Woolf, Svevo nella narrativa e con le opere di Giovanni Pascoli, Erza Pound e Allen Ginsberg nella poesia italiana e straniera; per esempio, il tempo non è più soltanto la condizione necessaria per portare a compimento un’azione, ma è il soggetto stesso del romanzo. Si assiste dunque ad un processo di interiorizzazione: al tempo matematico sembra sostituirsi quello della coscienza. Nel romanzo ottocentesco il succedersi degli eventi era narrato, in genere, in modo oggettivo e cronologico, tanto che i fatti sembravano facilmente situarsi in un “prima” e in un “poi” ed apparivano lineari alla coscienza del narratore. Nel romanzo novecentesco dominano concezioni fortemente soggettive del tempo: viene proposta una percezione soggettiva della durata, il tempo cioè sembra dilatarsi o ridursi a seconda degli stati di coscienza di colui che vive e racconta le esperienze. Un evento piccolissimo, filtrato attraverso tutto ciò che passa nella coscienza degli individui in ogni istante, è in grado di dar vita a ricordi e associazioni di idee che possono protrarsi per pagine e pagine. Questa compresenza costante di tutti gli eventi della vita nella coscienza individuale è un tema connesso al predominio delle analisi memoriali del grande romanzo novecentesco: i personaggi che si analizzano scoprono che le esperienze passate non sono completamente trascorse, ma si sono sedimentate nell’inconscio, da dove sovente, in modo volontario o involontario, riemergono per continuare a influire attivamente sulle scelte e sui comportamenti, senza che sia possibile distinguere con chiarezza ciò che è stato da ciò che è, ciò che è stato da ciò che viene soltanto immaginato. In questo mio lavoro ho preso in considerazione il poeta Giovanni Pascoli sia per i contenuti delle sue opere poetiche ma anche per motivi, diciamo così, “geografici” (abito a circa 6 Km dalla Casa Museo di Giovanni Pascoli a Castelvecchio) quindi ho contattato il conservatore del Museo Prof. Gian Luigi Ruggio che è stato così gentile e disponibile da preparare un breve testo dedicato a Pascoli in rapporto con il tempo che ho inserito integralmente in questo mio lavoro. Quindi farò brevi accenni ai poeti Erza Paund e Allen Ginsberg. Inoltre, in questa introduzione cito alcuni romanzieri italiani e stranieri di cui propongo brevi illustrazioni ma dei quali, devo confessare, non ho ancora letto i romanzi, ma il concetto del tempo da loro concepito come filo conduttore delle loro opere, mi intrigava e li voluti conoscere sia pur attraverso le descrizioni critiche delle loro opere. Quindi parlerò di Italo Svevo, di Marcel Proust e di James Joyce. Italo Svevo Italo Svevo (pseudonimo di Ettore Schmitz) nacque a Trieste nel 1861 quando ancora questo faceva parte dell’impero austroungarico. Di famiglia ebraica per parte di madre, e di padre tedesco, compì gli studi medi in Baviera; nel 1879 si iscrisse all'istituto superiore di commercio di Trieste, ma l'anno seguente per dissesti economici familiari, dovette impiegarsi in una banca, dove lavorò per vent'anni. Nel 1892 pubblicò il suo primo romanzo, Una vita, che passò inosservato; identica sorte toccò alla sua seconda opera Senilità, data alle stampe sei anni dopo. Cominciò per Svevo, deluso dalla letteratura, un lungo periodo di silenzio. Nel 1905 conobbe Joyce che in quel periodo stava insegnando inglese a Trieste. Solo nel 1923 pubblicò un altro romanzo, La coscienza di Zeno, che Joyce fece conoscere nei circoli letterari francesi. Nel 1928 morì per un incidente automobilistico. La coscienza di Zeno - Trama Il romanzo è in sostanza senza trama. È suddiviso in vari capitoli, corrispondenti al resoconto di diversi episodi e situazioni della vita del protagonista, Zeno Cosini, ricco commerciante triestino. Egli ha scritto i ricordi della sua vita su consiglio del dottor S., dal quale è in cura di psicanalisi, ma ad un certo punto, scettico sull’utilità della terapia, decide di interromperla. In seguito a ciò il dottor S. per vendetta decide di pubblicare i ricordi del suo paziente. Tutto ciò funge da prefazione al romanzo. I capitoli dal terzo al settimo sono le memorie vere e proprie di Zeno, che egli dichiara di avere scritto prima della terapia. Il capitolo tre parla del vizio del fumo e di come Zeno abbia cercato di liberarsene, ma soprattutto di come questo vizio sia diventato per lui un alibi per crogiolarsi nella propria condizione di malattia. Il capitolo quarto narra la morte del padre, con il quale Zeno ha sempre avuto un rapporto difficile. Il capitolo quinto racconta la storia del suo matrimonio. Zeno frequenta la casa di Giovanni Malfenti e alla fine decide di sposare sua figlia Augusta, benché ami la sorella di questa, Ada. Il capitolo sesto narra il rapporto di Zeno con Augusta, che infine scopre di amare, e quello con Carla, la sua amante; con lei vive un rapporto contraddittorio, oscillando tra il gusto e il peccato, il senso di colpa e i propositi di redenzione. Quando Carla lo lascia, fa di tutto per impedirlo, ma poi è costretto a rassegnarsi. Il capitolo settimo racconta la storia di un’associazione commerciale in collaborazione con Guido, il marito di Ada. L’impresa è fallimentare, tanto che Guido arriva alla perdita del capitale ed è costretto a simulare un suicidio per incassare i soldi della famiglia della moglie, e poi un secondo, che però finisce in una tragedia. Il capitolo ottavo è un diario, tenuto da Zeno dopo la terapia, in cui sono esposte fra l’altro anche le ragioni della sua interruzione della terapia psicanalitica, incapace di restituire all’uomo la salute. Analisi. Con l'esperienza letteraria di Italo Svevo si apre la nuova tradizione romanzesca del '900 che segna un notevole distacco dalla letteratura precedente sia per quanto riguarda i personaggi e le vicende rappresentate, sia per quanto riguarda le tecniche di narrazione. “La coscienza di Zeno” suscitò grande interesse soprattutto per la strutturazione del tempo nel romanzo. Il tempo del romanzo è quello della coscienza, un tempo non sottoposto alle leggi oggettive di successione ordinata, e questo incide sulla scelta delle vicende da rappresentare e di conseguenza anche sulla struttura narrativa, che in questo caso non è costituita da una successione cronologica degli eventi ma è suddivisa in cinque nuclei narrativi, ognuno dei quali rappresenta un momento fondamentale della vita di Zeno. Per questo motivo il romanzo può essere considerato un work in progress, soggetto a numerose aggiunte o eliminazioni di parti, e allo stesso tempo un’"opera aperta" in cui il lettore, chiamato continuamente a collaborare alla costruzione di un filo logico, risulta profondamente coinvolto nella lettura. La narrazione rende l'idea di un andirivieni continuo della coscienza, il confondersi tra il passato (gli eventi accaduti) e il presente (quello del narratore); tutte le vicende, gli stati d'animo, gli atteggiamenti sono modificati nella rievocazione memoriale tramite la coscienza e coesistono nel tempo psicologico dell'io narrante. Zeno non vuole raccontare la propria vita, ma come la sua coscienza la sta ricostruendo, per nodi tematici, a pezzi; egli fa quasi rivivere alla propria coscienza pezzi del proprio passato, annullando la distanza temporale e immergendo le vicende passate in un eterno presente. Il tempo, essendo una spirale, non presuppone alcuna conclusione del romanzo : rimane incompiuto, perché il compimento sarebbe pazzia o assurdità in un mondo senza centro e coordinate o perché la sostanza stessa della realtà è il non-senso. Nel romanzo vi è un uso frequente del flashback che permette il recupero fulmineo di frammenti del passato impiegati spesso anche da Joyce. Il tempo a cui fa riferimento Svevo è un tempo cosiddetto "misto" lo stesso utilizzato da Joyce nelle sue opere, ma, mentre queste ultime si basano sul meccanismo del "flusso di coscienza" in cui i pensieri della mente si sovrappongono automaticamente, in Svevo il monologo interiore ha ancora un controllo logico e razionale. Nonostante questo, la presenza di crepe e discontinuità tra gli eventi, mostra una nuova concezione stilistica e narrativa profondamente diversa da quella del romanzo naturalista che pone Svevo tra i grandi esempi del romanzo d'avanguardia. James Joyce Joyce nacque a Dublino nel 1882 da una famiglia irlandese cattolica di ceto medio. Nel 1888 fu mandato in una scuola cattolica gestita dall'ordine dei Gesuiti: essi furono responsabili di tutta l'educazione di Joyce, anche universitaria. Nel 1904 Joyce intraprese i due passi che determinarono la direzione della sua vita e lo salvarono dalla completa autodistruzione a Dublino: incontrò Nora Barnacle, la donna che sarà la sua compagna di vita; nello stesso anno la coppia lasciò l'Irlanda e si trasferì a Trieste, che all'epoca era ancora parte dell'impero Austro-Ungarico. Tra i suoi allievi c’era Ettore Schmitz (Italo Svevo), al tempo un autore sconosciuto, i cui due romanzi "Una vita" e "Senilità" furono ignorati dalla critica. Nel 1914 venne pubblicato dopo molte difficoltà un’opera di Joyce: “Dubliners” ("Gente di Dublino"). Joyce usò la tecnica del flusso di coscienza con grande effetto. Nel 1920 andò a Parigi. Il suo romanzo “Ulysses” venne pubblicato nel 1922 . Joyce lasciò Parigi nel 1940 quando gli eventi della seconda guerra mondiale lo costrinsero a rifugiarsi in Svizzera, dove morì nel 1941. Trama di “Ulysses” Il romanzo è ambientato a Dublino nello spazio di un solo giorno, il 16 giugno 1904. I personaggi principali sono tre: Stephen Dedalus, un giovane insegnante con ambizioni letterarie, Leopold Bloom, un cantante e Molly, una donna sensuale la cui infedeltà è cronica. Il giorno inizia quando Stephen lascia la Martello Tower, dove vive, e inizia a vagabondare per la città. Come Bloom, fa colazione con sua moglie, poi va ad un funerale. Il suo vagabondare lo porta in diverse zone di Dublino. Durante il giorno Stephen e Leopold finiscono per incontrarsi e per un po’ nasce tra loro una bella amicizia. Stephen è inconsciamente alla ricerca di una figura paterna in Leopold, mentre Leopold, che è ancora addolorato per la morte del figlio, spera di trovare un figlio in Stephen. Le avventure che costituiscono il romanzo seguono lo schema dell’Odissea e possono essere confrontate con gli episodi del poema omerico. I diciotto episodi sono divisi in tre parti: la Telemachia, in cui il personaggio principale è Dedalo/Telemaco; l’Odissea, che include tutti gli episodi legati a Leopold Bloom/Ulisse e Stephen; Nostos, che è un lungo monologo interiore che registra il flusso dei pensieri di Molly mentre va a dormire, mediante la tecnica dell’analisi memoriale. Analisi La struttura del romanzo si basa sull’interpretazione personale della realtà: ora il romanziere presenta un mondo che non è più giudicato secondo un criterio universale, così un evento o un personaggio possono diventare rilevanti o banali a seconda dell’importanza accordatagli dall’autore. L’oggettività cede il posto alla soggettività e la struttura del romanzo è influenzata da una nuova concezione del tempo, desunta anche dalla teoria di “durata” di Bergson, secondo cui il tempo non è una serie di istanti che scorrono, bensì è quello della coscienza, di conseguenza non c’è un eroe che vive un’evoluzione basata sul tempo cronologico. Le esperienze passate sono conservate nella coscienza e nell’inconscio e determinano completamente la personalità dell’individuo. Tutto ciò ha spinto Joyce- come Proust in “Alla Ricerca del Tempo Perduto” e Svevo in “La Coscienza di Zeno”- a scrivere un intreccio discontinuo, imprevedibile, grazie a delle tecniche narrative dell’analisi memoriale. Questa tecnica tenta di riprodurre e registrare i pensieri dei personaggi: l’autore presenta direttamente il flusso ininterrotto dei pensieri e dei sentimenti dei personaggi senza utilizzare dialoghi e descrizioni. Si ha quindi l’abolizione del narratore onnisciente adatto ad una storia lineare, a favore, invece, di una pluralità di punti di vista interni ai personaggi. Ciò che conta non sono gli avvenimenti, bensì le loro conseguenze a livello emotivo, ciò che il personaggio pensa e sente; il protagonista narra la storia in prima persona ed effettua in modo apparentemente illogico una serie di progressioni e regressioni. D’importanza rilevante nell’ “Ulisse” è il Mythical Method, che anche T.S. Eliot, amico di Joyce, definì come un continuo parallelo tra antichità e modernità, atto a sottolineare la corrente degradazione morale in contrasto con i buoni valori del passato. Un ruolo essenziale occupa l’Epiphany: è il momento nella storia in cui le esperienze del personaggio emergono ed egli diventa consapevole dei dettagli, degli oggetti, dei pensieri e dei sentimenti che aveva dimenticato o seppellito da anni nella memoria. Questi pensieri affiorano nella mente del personaggio come vecchie fotografie e lo portano ad intraprendere un lungo lavoro mentale. Tutte queste tecniche narrative si riflettono in una produzione quanto mai espressionistica, intessuta di paradossali accostamenti di stili, situazioni e registri che sfociano nella completa e più totale dissacrazione di qualsiasi verità precostituita. A tutto ciò si aggiunge una straordinaria sperimentazione linguistica che vede l’accostamento di vocaboli usati nelle loro accezioni più desuete e neologismi di stampo simbolista. Marcel Proust Marcel Proust nasce a Parigi; il padre, Adrien, è professore di medicina; la madre, Jeanne Weil, è di famiglia ebrea. Debutta su alcune riviste legate al movimento simbolista. Nel 1893 il poeta Robert de Montesquiou lo introduce nell'ambiente aristocratico, verso il quale Proust è attirato da un intenso snobismo e nel quale troverà i modelli reali di tanti dei suoi personaggi. Il suo primo volume, “I piaceri e i giorni”, raccolta di prose sofisticate e mondane, ma già caratterizzate dalla tipica finezza introspettiva, esce nel 1896. Nel 1902 muore suo padre; nel 1905 la madre, alla quale è legato da una tenerezza quasi morbosa. L'asma da fieno, di cui Proust soffre fin da bambino, diventa cronica. Nel 1905 si trasferisce in un appartamento di Boulevard Haussmann e qui, sempre più isolato dal mondo, scrive “Alla ricerca del tempo perduto”, al quale lavora sino agli ultimi anni di vita. Analisi dell’opera. “Alla ricerca del tempo perduto” è un romanzo analitico: l’autore si interessa all’analisi dell’individuo considerato nella sua soggettività e nel suo sforzo di situarsi in un mondo che lo rifiuta. Alcuni scrittori stranieri (Joyce, Virginia Woolf, Musil, Kafka) e la psicanalisi di Freud hanno influenzato l’opera di Proust. Il romanzo non deve essere una copia perfetta della realtà, ma una “resurrezione” nel presente di una realtà passata; Bergson ha influenzato molto la concezione del tempo in Proust: il tempo è quello della memoria, il tempo psicologico, che può dilatare un evento il cui eco interiore è immenso. “Alla ricerca del tempo perduto” è composto da sette volumi: “ Dalla parte di Swann”, “All’ombra delle fanciulle in fiore”, “I Guermantes I e II”, “ Sodoma e Gomorra”, “La prigioniera”, “Albertina scomparsa o La fuggitiva” e “Il tempo ritrovato”. Si tratta della storia di una coscienza in cerca della sua identità; in “Il tempo ritrovato” il narratore scopre infine la verità, cioè la vita scopre il suo significato grazie all’Arte, che fissa il passato che altrimenti sarebbe condannato alla distruzione. L’opera ha una struttura e un’organicità dove tutto è evoluzione, flusso e riflusso, echi, simmetrie, ordine libero che procede verso una rivelazione. Ma mentre si procede, sembra anche di ritornare indietro: l’opera, infatti, è un ritorno alle origini e il movimento della ricerca è circolare: comincia in una stanza e finisce in una biblioteca. Nell’incoerenza della realtà, la memoria permette al narratore di ritrovare il tempo, la durata e il paradiso che ha perso. Tutto parte dalla sensazione accostata alla reminescenza. La ricerca di Proust è anche una speranza e una promessa di felicità: ritrovare il tempo non è impossibile, a patto che il mondo ricreato sia un mondo letterario, un mondo interiore, mistico, costruito su questo gioco di memoria e tempo. La struttura si basa sulla contrapposizione Tempo perduto- Tempo ritrovato attraverso la memoria involontaria, che è il ricordo improvviso e spontaneo di una sensazione provata nel passato, suscitata dalla stessa sensazione nel presente. Questa esperienza, che non appartiene né al passato né al presente ed è dunque extratemporale, è motivo di grande felicità perché elimina la sensazione di perdita del tempo e permette al soggetto stesso di uscire dalla dimensione del tempo reale e riscoprire la verità di un momento della sua esistenza. La memoria involontaria cattura con un’impressione o una sensazione l’essenza preziosa della vita, risvegliato attraverso il sapore di un dolce o un sorso di tè. Questo procedimento porta alla vittoria sul tempo e sulla morte, cioè ad affermare noi stessi come esseri capaci di rimanere e di recuperare il tempo e la coscienza come unico elemento che vince la materia e porta alla verità e alla felicità. Proust conosce la fugacità di ogni realtà perché la permanenza e la durata non sono dati a nulla, nemmeno al dolore, ma pensa che ci sia sempre la possibilità di scoprire la Verità attraverso la vita interiore. Le pagine di Proust, fatte di frasi lunghe e sinuose, spiegano simultaneamente gli aspetti del mondo e la profondità dell’anima. Proust concepisce inoltre l’artista come il portatore di una rivelazione. Egli definisce la sua opera una cattedrale: essa è come “una chiesa dove i fedeli sapranno apprendere a poco a poco delle verità e scoprire delle armonie.” La ricerca non è un’evoluzione nostalgica di un passato nostalgico,ma la scoperta di una verità. La memoria volontaria sottolinea la distanza che ci separa degli istanti passati, mentre la memoria involontaria annulla questa distanza e fa affiorare il passato nel presente, permettendoci di afferrare l’essenza delle cose fuori dal tempo. La vita degli uomini consiste dunque in una lotta disperata contro l’inevitabile scorrere del tempo che passando trasforma o distrugge gli esseri, i sentimenti, le idee e questa lotta è condotta grazie alla memoria involontaria. Infatti non si tratta di ricostruire il passato in modo intellettuale con documenti o ricordi, ma bisogna attendere una sensazione particolare che ne evochi una passata, un ricordo. A questo proposito possiamo citare il celebre episodio della “maddalenina”, che permette a Proust di recuperare il suo passato. In questo episodio si possono distinguere tre momenti: l’allusione alla tristezza del presente e la prospettiva di un triste domani; la memoria involontaria che cattura la sensazione; gli sforzi della ragione di comprendere il senso dell’effetto di felicità provocato dalla sensazione e l’emergere di un ricordo d’infanzia dall’edificio immenso del ricordo, di un passato che sembrava sepolto per sempre: qui il protagonista ascolta il suo mondo interiore e si isola dal mondo presente. Il passato è recuperato, sottratto alla morte: queste emozioni e pensieri permettono al soggetto di ritrovare la sua identità autentica. L’autore spiegherà che la grande felicità non consiste nel semplice elemento memoriale, bensì nella felicità alla quale conduce, cioè il primato dello spirito sulla materia e il ritrovamento della sua identità. Il tempo della narrazione sembra essere sostituito da quello della contemplazione, che mantiene lontani dalla morte, come garanzia di eternità. L’orologio dell’anima in Giovanni Pascoli Nacque nel 1855, figlio quartogenito di Ruggero e Caterina Vincenti Allocatelli, visse i suoi primi anni di vita nella tenuta “La Torre” dei principi Torlonia, in cui il padre era amministratore. A sette anni entrò nel collegio degli Scolopi di Urbino. L’uccisione del padre (1867) fu l’inizio di una serie di eventi infausti che lasceranno il segno nella su avita e nelle sue opere. Dopo la morte della madre (1868) fu costretto nel 1871 a lasciare il collegio a causa delle ristrettezze economiche che la famiglia si trovò ad affrontare. Grazie ad una borsa di studio potè affrontare gli studi universitari a Bologna dove ebbe come insegnante Giosuè Carducci. In seguito insegnò in varie scuole: Matera, Massa, Livorno, qui visse fino al 1895 con le sorelle Ida e Maria; sempre nel 1895 si trasferì con la sorella Maria nella casa di Castelvecchio. Contemporaneamente ebbe inizio la sua carriera universitaria: a Bologna, a Messima, a Pisa. Morì a Bologna nel 1912 e fu sepolto nella cappella della casa di Castelvecchio per volere della sorella Maria. Considerato uno dei maggiori esponenti della poesia italiana del ‘900, Pascoli è stato considerato dalla critica come precursore del futurismo, l’iniziatore di una letteratura decadente, di essere rappresentante dello sperimentalismo nella poesia e del simbolismo. Considerazioni sull’opera del Poeta del conservatore di Casa Pascoli prof. Gian Luigi Ruggio Prima di una lettura più attenta della sua opera, Giovanni Pascoli veniva generalmente considerato poeta decadentista e crepuscolare. In effetti la sua prima raccolta di poesie (Mirycae) esce nel 1891 quando il movimento decadentista, collocatosi tra fine ‘800 e primi ‘900, era in pieno rigoglio e, dando un’occhiata ai suoi testi, spunta qua e la, l’espressione di un qualche sentimento languido. Ma, a parte ciò, grande è la differenza che lo divide dal contemporaneo Gabriele D’Annunzio, esponente decadentista, incline ai neologismi preziosi e alati, all’amore per il lusso, alle raffinatezze bizantine, alle sfrenatezze della voluttà tanto da provocare nel Croce, la piena disapprovazione morale! Pascoli seppe affrancarsi da questo gusto estetizzante e – sulla base delle idee francesi – seppe aggiornarsi sino a proiettare il suo novecentismo sulla poesia contemporanea. La sua influenza si riverbera sui poeti crepuscolari come Moretti, attraverso il filone della poesia dialettale, sino al momento più alto che è quello di aver anticipato l’uso simbolico degli oggetti che troverà in Montale la sua piena attuazione. Attraverso il simbolismo, Pascoli assume a pieno diritto la fama di novecentista destinato a far scuola. Pascoli visse nell’ossessione della morte: ne aveva vista fin troppa avvenire attorno a se con la fine prematura, ammantata di tragedia, dei suoi due genitori e di tre fratelli. Per questo non amava molto gli strumenti meccanici che, con rintocchi periodici, gli ricordavano l’implacabile trascorrere delle ore, dei quarti, rubandogli, attimo dopo attimo, momenti di vita. Sì, c’era un pendolo nella casa di Bologna, ma talvolta avveniva che si fermasse misteriosamente… In lui convivevano due diverse concezioni del tempo: quello cronologico e quello “sensibile”. Il primo è irreversibile onde non torna mai indietro, strettamente connesso all’irrecuperabilità della vita trascorsa (…La pendola batte/nel cuor della casa / ho l’anima invasa del tempo che fu / La pendola batte / ribatte “mai più… mai più”[G. Pascoli: “Mai più…mai più (non databile) (Poesie varie)] La sorella di Pascoli, Maria detta Mariù dal poeta, ebbe in dono da D’Annunzio, un orologio lunare, meglio, una meridiana in avorio, tuttora visibile sulla scrivania nello studio del Poeta a Castelvecchio (fu nel marzo 1910 che Giovanni, già attaccato dalla malattia, vide per l’ultima volta l’amico e grande estimatore Gabriele, il quale, vedendolo sofferente, trasse ispirazione per la sua “Contemplazione della morte”). L’uso e la lettura dell’orologio donato da D’Annunzio, richiede una perizia quasi ingegneristica e perciò – per Giovanni e Maria – quello strumento rimase come un innocuo, semplice ninnolo. Un altro segno dell’irreversibilità del tempo di vita trascorso e mai più recuperabile è il calendario della stanza XII della casa ora Museo, fermo alla data della morte: 6 aprile 1912. I fogli strappati antecedentemente a quella data, non sono più sovrapponibili ad alcun altro anno. Anche ne “L’ora di Barga” l’orologio che scandisce il fluire del tempo, punta diritto al ricongiungimento coi propri cari defunti anche se in questo caso la voce celestiale delle campane (l’onomatopea si trasforma come in una voce umana) smorza l’angoscia della morte. Come ne “I due fanciulli” (G. Pascoli, I due fanciulli, 1897, Primi poemetti) essa si presenta nelle vesti della buona madre che riconduce uno dei suoi figli a casa, la vera casa, ossia il cimitero. Così l’angoscia si stempera in serena accettazione della fine imminente. Ma in Pascoli, coabita anche una seconda percezione del tempo: quella “sensibile”. Questa permette al Poeta di poter, in qualche modo, “gestire” lo scorrere del tempo. Pascoli ne registra il fluire, vivendo in campagna, a Castelvecchio, in modo “fisiologico” (vedi la raccolta dei Poemetti), ossia attraverso le scadenze delle stagioni che passano, ma poi ritornano l’anno successivo come in una catena ininterrotta per cui dalla morte si rigenera la vita in una successione universale che sembra suggerire l’idea dell’immortalità. È un’autoillusione che nella prefazione ai “Canti di Castelvecchio” gli fa dire: “la vita, senza il pensiero della morte è un delirio o intermittente o continuo, o stolido o tragico”. Così, nelle campagne di Castelvecchio, lo scandire del tempo, non è condizionato dall’orologio, ma dai cicli stagionali, dal tempo delle semine, dai fiori, dal ritorno degli uccelli migratori, dall’alba o dal tramonto del sole. Vita e morte destinate a succedersi in un perpetuarsi universale nei tempi di un orologio “personale”. Osserva Giuseppe Nava che tuttavia, a differenza dei Poemetti, nei Canti di Castelvecchio il ciclo delle stagioni non è un elemento così rassicurante nei confronti dell’angoscia della morte: sulla continuità del ritorno (ossia quello della vita individuale) prevale, infatti, il senso doloroso d’una irreversibilità del tempo che trova conferma nell’ultima strofa del poemetto “In ritardo” (Canti di Castelvecchio) che recita: “quello che era non sarà mai più”. Qui, a infrangere il ritmo del ritorno ciclico, interviene la simbologia dei due nidi, l’attuale e quello che fu …Se un nuovo nido non si sovrappone esattamente all’antico, neppure il nuovo anno può ripetere simmetricamente il corso precedente. Resta un solco incolmabile nell’illusorio ritorno delle apparenze. Dunque, la fine del vecchio ciclo col nuovo, a differenza del fatto che gli estremi si toccano a dalla fine si genera un nuovo principio (attraverso un’altra successiva saldatura che riapre il circuito), non è più un movimento circolare. Senza di esso resta possibile solo un ritorno al passato, ai luoghi e ai fantasmi dell’infanzia. In questa ottica si colloca e si spiega il ciclo della memoria del “Ritorno a San Mauro”, che conclude i Canti. Per questo l’angoscia della dissoluzione individuale nel tempo sembra prevalere sulla prospettiva consolatoria della continuazione della vita universale come si ha modo si riflettere procedendo nella lettura de “Il ciocco” (G. Pascoli, Il ciocco, 1902, Canti di Castelvecchio). Inoltre, la concezione “sensibile” dello spazio temporale in Pascoli fa sì che tale dimensione possa sdoppiarsi come avviene ne “L’aquilone” (G. Pascoli, L’aquilone, 1900, Primi poemetti) (… io vivo altrove e sento / che intorno sono nate le viole…). O creare due realtà virtuali e parallele, sicché, la memoria “olfattiva” e visiva del poeta mette in moto tutta una dinamica mnemonica, a seguito della quale, pur scrivendo il testo a Messina molti anni dopo, al Pascoli – stimolato dalla precoce primavera siciliana – sembra di rivivere in assoluta contemporaneità quel giorno della gita scolastica punteggiata di aquiloni, immersi in una tiepida e limpida primavera urbinate, in cui, un giovane collegiale diciassettenne, certo Pirro Viviani, morì cadendo da un muretto mentre inseguiva il suo aquilone. Infine, proprio per quella particolare “psichicità” capace di modificare interiormente lo spazio temporale (restringendolo o dilatandolo) il poeta invoca la nebbia (G. Pascoli, Nebbia, 1899, Canti di Castelvecchio) di avvolgerlo tutto in modo tale da circoscrivere il proprio spazio visivo interiore al solo presente, escludendo i fantasmi ossessivi di un passato di morte, di passioni e ambizioni ad esso legato (…nascondi le cose lontane…). Un orologio dell’anima, insomma. Erza Pound (1885-1972) Dopo i suoi studi alla Pensylvania University ed a New York, Pound viaggia poi si stabilisce in Europa, nel 1921 è a Londra, nel 1925 a Rapallo in Italia dove rimase stabilmente fino al 1945. L’aveva spinto in Italia la sua convinzione che il regime mussoliniano avesse dei punti di convergenza con con la sua concezione di “socialismo corporativo” a cui aspirava come modello sociale. Alla fine della seconda guerra mondiale viene liberato dalla polizia militare nel campo di concentramento di Coltano, presso Pisa, dove Pound scrisse i Canti pisani, fu trasferito a Washington con l’accusa di tradimento per aver pronunciato discorsi antiamericani alla radio italiana, durante la guerra. Il processo non venne tenuto e fu dichiarato infermo di mente ed internato in manicomio fino al 1959,da dove venne liberato in seguito dei numerosi interventi di intellettuali di tutto il mondo. Ritornò in Italia dove rimase fino alla sua morte. Paund strinse rapporti di amicizia con i maggiori poeti e scrittori anglosassoni a lui contemporanei: Yeats, Joyce, Hemingway, Eliot ecc. Cito questo poeta per la sua amicizia con Joyce, per essere una voce “diversa” nel periodo 1925-1945, per essere un poeta che pur avendo idee politiche definite di destra, è stato letto e apprezzato dagli scrittori e poeti suoi contemporanei ed ha influenzato notevolmente i poeti del periodo della contestazione americana definiti “beatnik” o “beat generations”. Inoltre la citazione con cui termina questo mio lavoro è di Erza Pound. Allen Ginsberg (1926-1997) poeta statunitense. E’ stato tra i maggiori rappresentanti della “beat generation”. La sua formazione fu segnata, all’origine, dal luogo di nascita, la Patterson del poema di W.C. William, suo primo maestro, dalla personalità del padre, poeta e insegnante, dal marchio della follia della madre, ebrea russa e comunista militante e, più tardi, dall’incontro a New York con Keruac, che lo introdusse al jazz e con Burroughs che gli fu guida nell’esperienza con la droga. Poi nel 1949 un nuovo importante incontro con il poeta Solomon lo confermò nella scelta sociale della marginalità come atto di protesta contro il “Moloch” del capitalismo americano e di mistica comunione con i diseredati, i nuovi santi dell’America sotterranea. A Solomon è dedicato Howl (Urlo, 1956), prima espressione e quasi manifesto di una nuova poesia nutrita delle inedite immagini dell’universo urbano e tecnologico che si ispira a Whitman per la sua epicità e a Blake e ai surrealisti per la potenza visionaria e onirica. Kaddish (1960), scritta per la morte della madre, segue i ritmi della preghiera ebraica dei defunti. Il viaggio in India rievocato in Diario indiano (1970) con l’approfondimento del pensiero buddhista e zen segnano il successivo itinerario del poeto che lo vede impegnato in pubblico come profeta della pace espresso nella poesia Mantra del Re di Maggio (1963) fino alla disillusione di La Caduta dell’America (1972). Notevoli i suoi diari, pubblicati in Italia nel 1989 e nel 1990 ha collaborato con il musicista P.H. Glass scrivendo il testo dell’opera Jukebox all’idrogeno. Da “Urlo” a Carl Solomon che buttavano orologi dal tetto per gettare il loro voto all’Eternità fuori del Tempo, e per un decennio dopo le sveglie cadevano ogni giorno sul loro capo (Allen Ginseberg, Jukebox all’idrogeno, a cura di Fernanda Pivano, Oscar Mondadori, 2 ed. 1971) 4. IL TEMPO DELLA GUERRA Il 6 Agosto del 1945 il mondo entrò drammaticamente nell’era atomica: senza alcun avvertimento né precedenti, un aereo americano lanciò una bomba nucleare sulla città giapponese di Hiroshima. L’esplosione distrusse completamente più di sei chilometri quadrati del centro cittadino. Circa 90.000 persone vennero uccise immediatamente; altre 40.000 rimasero ferite, molte delle quali morirono in una prolungata agonia a causa delle radiazioni. Tre giorni più tardi, una seconda esplosione atomica sulla città di Nagasaki uccise circa 37.000 persone e ne ferì altre 43.000. Complessivamente le due bombe uccisero circa 200.000 civili giapponesi. Tra i due bombardamenti, la Russia Sovietica si unì agli Stati Uniti in guerra contro il Giappone. Sotto le forti pressioni americane, Stalin ruppe il suo trattato del 1941 di non aggressione con Tokyo. Lo stesso giorno che Nagasaki veniva distrutta, le truppe sovietiche iniziarono a riversarsi in Manciuria, travolgendo le forze giapponesi ivi dislocate. Sebbene la partecipazione sovietica influì poco o nulla sull’esito finale della guerra [contro il Giappone], Mosca beneficiò enormemente dall’essersi unita alle ostilità. In una trasmissione diramata da Tokyo il giorno successivo, il 10 Agosto, il governo giapponese annunciò la propria disponibilità ad accettare la dichiarazione congiunta anglo-americana di Potsdam sulla “resa incondizionata”, “con l’intesa che la detta dichiarazione non comprometta le prerogative sovrane di Sua Maestà [l’Imperatore]”.Il 14 Agosto, i giapponesi accettarono formalmente le disposizioni della dichiarazione di Potsdam, e venne annunciato un “cessate il fuoco”. Il 2 Settembre, i rappresentanti giapponesi firmarono la resa a bordo della corazzata statunitense Missouri nella baia di Tokyo. A parte le implicazioni morali, furono militarmente necessari i bombardamenti atomici? Da ogni punto di vista razionale, non lo furono. Il Giappone era già stato sconfitto militarmente dal Giugno del 1945. Non era rimasto quasi nulla della - una volta potente - Marina Imperiale, e l’aviazione giapponese era stata totalmente annientata. E’ solo contro un’opposizione ormai simbolica che gli aerei americani percorsero a piacere il paese, e i bombardieri devastarono le città, riducendole in macerie. Quello che venne lasciato in piedi di fabbriche e officine si dibatteva precariamente per produrre armi e altri beni da materie prime insufficienti (i rifornimenti di petrolio non erano più disponibili dal mese di Aprile). A Luglio circa un quarto di tutte le abitazioni giapponesi erano state distrutte, e il sistema di trasporti era vicino al tracollo. Il cibo era diventato così raro che la maggior parte dei giapponesi sopravviveva con un’alimentazione da fame. La notte tra il 9 e il 10 Marzo del 1945, un’ondata di 300 bombardieri americani colpì Tokyo, uccidendo 100.000 persone. Lanciando circa 1.700 tonnellate di bombe, gli aerei devastarono buona parte della capitale, bruciando completamente oltre 25 chilometri quadrati e distruggendo 250.000 edifici. Un milione di abitanti rimasero senza casa. Il 23 Maggio, undici settimane più tardi, arrivò il più grande raid aereo della guerra sul Pacifico, con 520 enormi bombardieri B-29 “Superfortress” che sganciarono 4.500 tonnellate di bombe incendiarie nel cuore della già malconcia capitale giapponese. Generando potenti spostamenti d’aria, le bombe cancellarono completamente il centro commerciale di Tokyo e gli scali ferroviari, e distrussero il quartiere dei divertimenti di Ginza. Due giorni più tardi, il 25 Maggio, un secondo assalto di 502 aerei “Superfortress” piombò su Tokyo, sganciando circa 4.000 tonnellate di bombe. Complessivamente questi due raid di B-29 distrussero oltre 90 chilometri quadrati della capitale giapponese. Il Presidente Truman difese tenacemente il suo impiego della bomba atomica, affermando che “salvò milioni di vite” portando la guerra a una rapida conclusione. Giustificando la sua decisione, egli arrivò a dichiarare: “Il mondo noterà che la prima bomba atomica venne lanciata su Hiroshima, una base militare. Fu così perché volevamo evitare in questo primo attacco, per quanto possibile, l’uccisione di civili.” Questa fu un’affermazione assurda. In realtà, quasi tutte le vittime erano civili, e lo United States Strategic Bombing Survey [l’Indagine degli Stati Uniti sul bombardamento strategico], pubblicato nel 1946, affermò nel suo rapporto ufficiale: “Hiroshima e Nagasaki vennero scelte come obbiettivi a causa della loro concentrazione di attività e di popolazione.” Se la bomba atomica venne lanciata per impressionare i capi giapponesi con l’enorme potere distruttivo della nuova arma, questo scopo avrebbe potuto essere raggiunto impiegandola contro una base militare isolata. Non era necessario distruggere una grande città. E qualunque fosse la giustificazione per l’esplosione di Hiroshima, è molto più difficile difendere il secondo bombardamento di Nagasaki. Il Papa Pio XII condannò parimenti i bombardamenti, esprimendo un parere conforme alla posizione tradizionale cattolica romana, secondo cui “ogni atto di guerra diretto alla distruzione indiscriminata di intere città o di vaste aree con i loro abitanti è un crimine contro Dio e l’umanità”. Il giornale del Vaticano, l’Osservatore Romano, così si espresse nel suo numero del 7 Agosto 1945: “Questa guerra riserva una conclusione catastrofica. Incredibilmente quest’arma distruttiva rimane come una tentazione per la posterità che, lo sappiamo per amara esperienza, impara così poco dalla storia.” Le due bombe su Hiroshima e Nagasaki furono non fecero tanto danno quanto i bombardamenti incendiari sulle città giapponesi. La campagna di bombardamenti dei B-29 aveva provocato la distruzione di 3.100.000 abitazioni, lasciando 15 milioni di persone senza casa, e uccidendone un milione. Furono i bombardamenti spietati, e l’intuizione di Hirohito che, se fosse stato necessario al raggiungimento della resa incondizionata, gli Alleati avrebbero distrutto il Giappone completamente - e ucciso ogni giapponese - a persuaderlo di porre termine alla guerra. La bomba atomica è davvero un’arma spaventosa, ma non fu la causa della resa, anche se il mito persiste ancora oggi. Resta comunque il fatto che una nuova e spaventosa arma di distruzione di massa era stata sperimentata sulla popolazione civile inerme. La dotazione di tali armi da parte degli Stati Uniti d’America dell’allora Unione Sovietica, furono spaventose. Il destino del mondo si reggeva sull’equilibrio del possesso di armi nucleari e sulla “guerra fredda” . Un periodo di cinquant’anni che divise il mondo in est ed ovest, in capitalismo e comunismo, in destra e sinistra, in rossi e neri Un orologio fermo alle ore 11:02. Era il 9 agosto 1945, a Nagasaki. Così il fotografo giapponese Shomei Tomatsu ricorda la bomba atomica, con questa sua opera denominata Nagasaki del 1961. Shomei Tomatsu, unanimamente riconosciuto come una delle figure di riferimento per la fotografia contemporanea giapponese da Daido Moriyama a Nabuyoshi Araki - nasce a Nagoya nel 1930. E' un adolescente quando sente le sirene annunciare l'arrivo dei B-29 americani durante la seconda guerra mondiale, esperienza che lo segnerà come uomo e come artista. Solo qualche anno più tardi si afferma come uno dei giovani fotoreporter più interessanti della sua generazione, soprattutto per la capacità di entrare nel vivo delle situazioni senza limitarsi alla semplice documentazione. Tomatsu definisce se stesso come "un puro interprete del tempo presente"; non pare tanto interessato a "fermare il tempo", come alcune delle sue più famose fotografie paiono significare, quanto a celebrarlo, dandone ogni volta una lettura diversa, drammatica o giocosa ma comunque autentica, vissuta e condivisa in prima persona. Questo approccio è evidente nelle immagini appartenenti alla celebre serie intitolata 11.02, il momento in cui il tempo si è fermato a Nagasaki, il giorno in cui gli americani sganciarono la bomba atomica. Tomatsu venne allora individuato con Ken Domon, già apprezzato e stimato autore nel panorama giapponese cui venne commissionato un lavoro parallelo su Hiroshima, come giovane fotografo probabilmente capace di offrire una diversa interpretazione di ciò che la bomba atomica aveva significato per il popolo giapponese, specialmente nel decennio che seguì la fine della guerra. Accanto a una serie di immagini che restituiscono la crudeltà e la ferocia della guerra senza mai direttamente mostrarne gli effetti se non attraverso oggetti - una bottiglia di birra fusa che sembra essere un osso umano, una statua quasi disciolta dal calore - Tomatsu ritrae persone - e specialmente le loro vite - raccontandone con grande delicatezza e pudore la difficile attività quotidiana. Cosa abbia realmente significato la sconfitta e la successiva occupazione americana per il Giappone diventerà quasi un'ossessione per il fotografo giapponese, successivemente documentata nella serie Chocolate and chewing-gum. La consapevolezza di riuscire a vivere il tempo presente - sua peculiarità espressiva - segnerà tutta la sua carriera: dal racconto delle contraddizioni che accompagnano il rapido sviluppo economico del Giappone, capace di divenire in soli vent'anni una grande potenza industriale, ai moti studenteschi della fine degli anni Sessanta, alla nascita di nuove mode che guardano all'Occidente ma che ancora affondano le proprie radici nella pura tradizione e cultura giapponese, sino a raggiungere negli anni recenti una sorta di equilibrio formale e di contenuti, magnificamente espresso nella serie intitolata The Pencil of the Sun. Le due "famose" bombe atomiche lanciate il 6 e il 9 agosto 1945 sul Giappone si chiamavano Little Boy (quella su Hiroshima) e Fat Man (l'altra su Nagasaki). 5. IL TEMPO DELLA GUERRA CAMBIA ASPETTO Stazione di Bologna, 2 agosto 1980, ore 10,25 Il 2 agosto 1980, alle ore 10,25, una bomba esplode nella sala d’aspetto della stazione di Bologna. Miono 85 persone e 200 rimangono ferite. La mobilitazione della città in soccorso dei parenti delle vittime e dei sopravvissuti è immediata e straordinaria. Nel 1995 la Cassazione conferma la condanna all’ergastolo, come esecutori materiali dell’attentato, i terroristi neofascisti Valerio Fioravanti e Francesca Mambro. Rimangono ancora oggi dubbi e sospetti; quel giorno alla stazione di Bologna erano presenti figure inquietanti che ritornano in numerosi eventi della nostra storia più recente: elementi dei servizi segreti, alcuni pregiudicati appartenenti alla cosidetta “banda della Magliana”, legata ad ambienti mafiosi, terroristi internazionali. Il tempo ci aiuterà a chiarire i nostri dubbi? 6. CONSIDERAZIONI FINALI Il tempo congiunge: il passato – il presente – il futuro Il tempo rappresenta: la morte – la nascita. Il surrealismo tenta di cogliere il tempo interiore attraverso l’inconscio, il sogno, l’allucinazione cogliendo nel presente attimi non razionali (automatismo psichico). I pittori lo trasmettono con i colori e formano immagini oniriche allucinatorie inquietanti. I narratori e i poeti tentano di provare a fermare il tempo nell’attimo del ricordo: attraverso i sensi, richiami visivi, sogni allucinatori, flash-back che ci trasportano nella vita passata che ritorna nel presente e si proietta nel futuro, c’è chi addirittura afferma che si può trovare la felicità. Tempo, spazio, né la vita, né la morte, è la risposta. (Ezra Pound) E dopo Erza Pound un racconto di mio padre Vittorio Baccelli che mi ha fatto conoscere Erza Pound, Allen Ginsberg, James Joyce e non posso non citare mia madre che mi ha fatto conoscere Pascoli e D’Annunzio, Italo Svevo, la nostra storia più recente (la guerra nucleare, il terrorismo, i misteri del nostro tempo). TROPPO TARDI, racconto di Vittorio Baccelli (da Storie di fine millennio, Prospettiva Editrice, Civitavecchia, 2000- I edizione) Il meccanismo era stato avviato secondo la procedura standard, i sensori si erano allineati e sul cruscotto era apparsa la data di arrivo, il 13 marzo del 1875, seguivano le ore, i minuti, i secondi e le coordinate dello sbarco. La solita luce viola avvolgeva il modulo pronto per la partenza. Contatto! E mentre il contatto avveniva, anzi una infinitesima frazione di secondo prima del contatto, una spia rossa lampeggiante si era accesa. “Ormai è tardi per controllare, sono partito” pensò il temponauta della sezione controllo temporale. Una frazione di secondo dopo il temponauta si ritrovò sdraiato su un marciapiede di una città del XX secolo, con la gente che gli si stava avvicinando incuriosita. “Qui è andato tutto a puttana” si disse il temponauta e visualizzò il display che segnava 1999. Intanto i curiosi stavano aumentando e molti visi lo scrutavano con interesse. Non era certamente un barbone, ma cosa ci faceva per terra quel cittadino in abiti ottocenteschi? Forse un ubriaco uscito da una festa in costume. Un nuovo lampo viola e il temponauta si ritrovò in aperta campagna, uno sguardo alla data: 1761. “Ma cos’è questa altalena?” si mise in contatto con la base tempo e lanciò un SOS. La base rispose immediatamente dicendogli di stare calmo, c’era stato un imprevisto, un errore, ma tutto si sarebbe al più presto normalizzato. Un altro lampo e il temponauta questa volta si ritrovò in mare, era notte e iniziò a nuotare, la data segnava 3012: era anche proibito spingersi tanto avanti. Mentre la base taceva, il temponauta stava tentando di rimanere a galla e sperava in un recupero veloce poiché non era mai stato un grande nuotatore. Quando le forze erano sul punto di abbandonarlo un nuovo lampo e si ritrovò su una spiaggia deserta: la data era 4555 a.c. Adesso con paura si accorse che anche lui emanava una spettrale luce viola: tutto questo altalenare avanti e indietro nel tempo lo stavano caricando d’energia e, i dispositivi della macchina del tempo non erano più in grado di disperderla. Iniziò veramente ad avere paura, se il sovraccarico fosse ulteriormente aumentato rischiava di esplodere come una bomba atomica e forse si sarebbero anche verificate variazioni temporali non quantificabili nel tempo dell’esplosione. Dalla base giunsero delle parole non comprensibili e il temponauta, ormai rassegnato, si lasciò andare all’evento rammaricandosi solo di non aver notato in tempo quella piccola spia che indicava una disfunzione nel programma. Le date stavano cambiando avanti e sempre più indietro al ritmo di qualche minuto una dall’altra. Poi il cambiamento di data subì una accelerazione e i numeri non erano più visibili ad occhio nudo, intorno a lui adesso vi era come una sfera viola e il temponauta vi galleggiava all’interno. I paesaggi che fino a poco prima mutavano come se venisse proiettata velocemente una diapositiva dietro l’altra, sparirono, così come erano sparite le date che si susseguivano sempre più rapidamente. Rimase per un tempo indefinito a galleggiare nella sfera che sembrava essersi solidificata. Poi anche la sfera iniziò a perdere di luminosità e piano piano attorno al temponauta si fece il buio, un buio che stava ogni secondo divenendo sempre più nero, di un nero impossibile anche da pensare. Il temponauta sentì una profonda pace avvolgerlo, un silenzio assoluto intorno a lui. La Terra più non c’era, l’universo più non c’era. C’era il niente, un niente concreto, assoluto, inimmaginabile. Un niente che aspettava e con terrore il temponauta si rese conto che era giunto al capolinea, che la sua esplosione era attesa da questo nulla che voleva generare. Era Lui il grande Bang, era Lui il Principio, era LUI il Creatore. La scintilla vitale esplose e con l’esplosione si generò lo spazio e il tempo. L’energia delle sue cellule attraversò gli spazi creandoli. Il niente attendeva il temponauta per renderlo Creatore. L’eternità ebbe inizio. TROPPO TARDI Vincitore del Racconto della settimana nel 1998 è stato pubblicato con diverso titolo (A spasso nel tempo in cerca della pace) sui quotidiani La Nazione, Il resto del carlino e Il giorno, con un parere di Claudio Marabini che voglio interamente proporvi: “Quello percorso da Vittorio Baccelli è un territorio vasto come la letteratura. Da Platone a Pascoli, da Verne a Welles, da Berto a Calvino si tratta dell’ineffabile contrada di coloro che hanno voluto immaginare il radicale mutamento delle regole naturali della vita e della morte. Alcuni hanno praticato tale fantasia soltanto in una occasione, altri invece per tutta la vita, producendo libri su libri, fantasie a catena e scatenando le risorse più rischiose tra il meraviglioso e l’inverosimile. Due punti restano fermi: la creazione di un altro mondo e la morte, che chiude il teatro. Nel racconto di Baccelli i due punti si fondono e il nero della morte fa pensare al buco nero e luminoso del tolstoiano Ivan Ilic, una delle più grandi creazioni del russo, aderentissima alla norma naturale della morte e della fine di tutto. Al di là di questo, nel racconto ospitato qui vince il senso dello spazio e del tempo, la cancellazione dei loro parametri e della vita stessa, sino a quella immobilità che coincide con una fine che è principio. A questo punto la letteratura svela la sua eterna tensione a rifare l’uomo e il mondo, palesando l’ottimismo inguaribile di chi insieme persegue l’azzeramento, nel momento in cui lancia il grido afono della speranza. “ (Claudio Marabini)