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Marte, il mistero che non c`è più
Fossile marziano “Quando il nostro pianeta esibisce forme geometriche bizzarre, allora il geologo può sperare di trovare qualcosa di interessante”.. E qualcosa di interessante sicuramente lo abbiamo trovato, anche se il pianeta in questione è Marte. Questo avveniva circa 5 mesi fa, nel corso del 34° giorno della missione del lander americano Opportunity, atterrato in gennaio nel sito di Terra Meridiani. Nel corso della procedura di analisi della formazione rocciosa nota come El Capitan, gli occhi elettronici del robot sono incappati in una forma insolita. Ma per lui, addestrato solo a compiere indagini geologiche, era solo roccia da macinare ed analizzare. Così quella “stranezza” non solo è andata distrutta, ma è passata inosservata fino a quando lo studioso americano Richard Hoagland, spulciando le immagini disponibili nel sito della NASA, l’ha notata divulgandola poi sul suo sito e, da lì a poco, al resto del mondo. Ma di cosa si tratta dunque? Inutile girarci intorno: la somiglianza con alcuni fossili terrestri è sorprendente. Non occorre troppa fantasia per paragonarlo ad un frammento di quelli che sulla Terra chiamiamo crinoidi, organismi invertebrati particolarmente diffusi centinaia di milioni di anni fa durante l’Era Paleozoica, e tuttora viventi seppur leggermente diversi. Vedi box. Per decenni ci siamo domandati se Marte abbia potuto ospitare la vita nel suo lontano passato, visto le sorprendenti somiglianze geologiche con la Terra. Le prime ricerche sono cominciate negli anni settanta con gli esperimenti di esobiologia condotti dalle sonde Viking atterrate sul pianeta. E dopo quasi 30 anni il loro lavoro doveva essere continuato dal lander Beargle 2, appartenente alla sonda europea Mars Express che nel dicembre dell’anno scorso aveva raggiunto il pianeta rosso. Purtroppo però del modulo si è persa ogni traccia nella fase di discesa verso il suolo, e così tutte le speranze di trovare qualcosa di interessante erano confluite verso le missioni parallele americane Spirit e Opportunity, impegnate esclusivamente in ricerche geologiche, in particolare nella ricerca di prove della presenza di abbondanti quantità di acqua nel lontano passato. Questo dovevano fare, e questo hanno fatto. L’affioramento roccioso battezzato El Capitan è la prova scientifica che laggiù c’è stata acqua, tanta acqua. I suoi strati sono addirittura il risultato di quello che i geologi chiamano “sequenza evaporitica”, ovvero una serie di sali depositati in seguito all’evaporazione di una massa acquosa, il cui ordine di deposizione è dettato dal loro grado di solubilità. L’abbondanza di solfati e cloruri rilevata dall’analisi dei fori compiuti dal lander indicano proprio il tetto di una sequenza evaporitica, dove tali elementi chimici sono gli ultimi a depositarsi. Del resto, la mineralogia di questa massa rocciosa è completamente differente da quella del suolo e di tutto il resto del pianeta, dove prevalgono minerali come i silicati di ferro e magnesio, indicatori di roccia vulcanica basaltica, fatta eccezione per concentrazioni locali di ematite, anch’essa indicatore di acqua. Domandiamoci allora, insieme a Stephen Squyres, direttore scientifico delle missioni americane: “Quali rocce possono preservare i segni della vita? Minerali che precipitano dall’acqua. E i minerali del sito di Opportunity sono esattamente tali”. Minerali che il geologo. John Grotzinger, del prestigioso Massachuttes Institute of Technology, paragona a “capsule del tempo” in grado di preservare la fauna di allora, avallando quindi la tesi del collega. Più meticolosa ma affatto scettica è la posizione dello scienziato americano Oliver Morton, che nella sua analisi ricorre al “Criterio di Knoll”, ovvero che qualsiasi cosa che venga definita un fossile non solo deve assomigliare a qualcosa che fu una volta vivo, ma non somigliare a qualcosa di non biologico. E l’oggetto in questione non assomiglia a nulla che sia stato ripreso in questi mesi dai rover americani; anzi, sono state fotografate e analizzate numerose formazioni peculiari di forma circolare che ammantano letteralmente il suolo marziano visitato oltre ad essere inglobate nell’affioramento roccioso studiato. La loro natura rimane tuttora un mistero, sebbene diverse considerazioni hanno portato gli scienziati ad interpretarle come concrezioni saline, ovvero il prodotto della percolazione dell’acqua attraverso il reticolo dei pori della roccia. Tuttavia dopo il ritrovamento del presunto crinoide, Richard Hoagland ha avanzato l’ipotesi che anch’essi possano essere introdotti nel novero dei potenziali fossili, ma questa volta come blastoidi, appartenenti allo stesso ceppo dei crinoidi e dello stesso periodo, come si può apprendere dalla visita del suo sito web. E’ evidente che per risolvere il dilemma non si può fare riferimento solo alle immagini, bensì ampliare il campo d’indagine nel settore geologico, perché è proprio l’ambiente circostante il punto chiave. E’ sempre stato poco verosimile che il pianeta rosso potesse ospitare, attualmente, forme viventi almeno in superficie, visto le condizioni ostiche che albergano (radiazioni letali, freddo e atmosfera inesistente). Tanto è vero che questa risposta potrà eventualmente arrivare solo quando si riuscirà a penetrare i primi strati di suolo, quel tanto che basta per trovare una nicchia ecologica più adeguata, ricca di ghiaccio d’acqua (del quale è stata accertata la presenza almeno nei primi metri di profondità), una qualche sorta di calore e la protezione dalle radiazioni provenienti dallo spazio. Al contrario c’è sempre stata la forte convinzione che in passato le condizioni del pianeta non fossero quelle di oggi e che, quindi, la vita sarebbe potuta sbocciare in superficie, seppure in una sua forma primitiva, e rimanere immortalata nelle rocce del pianeta. Diversi studiosi, ormai, concordano nell’affermare che un tempo su Marte esisteva un atmosfera calda e umida che probabilmente permise lo scorrimento di oceani d’acqua in superficie (del resto le immagini della superficie del pianeta parlano chiaro). Ma se tutti gli ingredienti della vita esistevano, perché non esultare di aver finalmente trovato quello che, in fondo, siamo andati a cercare lassù? E’ vero; è quasi unanime, tra gli scienziati, la convinzione che Marte un tempo era un pianeta vivo. Ma lo fu abbastanza a lungo da permettere i lenti passi dell’evoluzione biologica? Sulla Terra c’è stato un buco di circa 2 miliardi di anni tra la comparsa della prima cellula vivente e lo sviluppo dei primi microrganismi. Tuttavia le condizioni sono state sempre abbastanza stabili per permettere alla vita di svilupparsi. Ma la storia di Marte è diversa. Essendo grande circa la metà della Terra, esso non solo ha perduto la sua atmosfera molto prima, cosa che ha impedito all’acqua di continuare a scorrere sulla superficie, ma si è anche raffreddato, molto prima, facendo sì che si bloccasse la sua attività geologica. Quest’ultima, che a noi terrestri può apparire fastidiosa per i disagi che comporta (terremoti, vulcanismo..), in realtà è un’efficiente macchina termica che permette la distribuzione degli elementi chimici indispensabili alla vita secondo un ciclo che coinvolge l’intero pianeta. La preziosa anidride carbonica respirata dalle piante per produrre ossigeno, per esempio, fuoriesce dalla Terra attraverso l’attività vulcanica, viene metabolizzata dagli organismi viventi, entra il soluzione con l’acqua e si ricostituisce come roccia che poi attraverso la tettonica delle placche viene, in parte, nuovamente inglobata nel cuore del pianeta, e così via.. Tuttavia scienziati come Chris Mc Kay, geologo della NASA, ribattono che la geologia peculiare di Marte potrebbe anche aver giocato a favore della vita. Le prime forme di vita complesse terrestri, spiega lo studioso, non ebbero subito a disposizione molto dell’ossigeno prodotto dagli organismi fotosintetici in quanto assorbito nel ciclo geologico del pianeta. Al contrario su Marte, non essendoci tale ciclo o comunque essendo molto ridotto, gli organismi ne ebbero a disposizione subito una grande quantità che potè favorirne un più rapido sviluppo. Il problema è che le analogie tra Marte e la Terra sono un’arma a doppio taglio. Infatti se da un lato la conoscenza del nostro pianeta ci guida nel metodo di studio e nell’interpretazione dei dati su altri corpi celesti, dall’altro ci condiziona, creandoci difficoltà nel sviluppare ragionamenti alternativi. Ci sono numerosi punti oscuri nella nostra comprensione dell’evoluzione della vita e il grande vizio di forma di pensare che l’evoluzione sia stato un processo lineare avvenuto in condizioni ambientali piuttosto costanti. Al contrario sembra che sul nostro pianeta la vita abbia proceduto a singhiozzi: nel corso dei milioni di anni sono avvenuti drastici quanto repentini mutamenti che hanno causato estinzioni di massa anche del 90% delle forme viventi, come quella avvenuta nel Permiano. E dopo ogni batosta la vita si è riaffermata adeguandosi alle nuove condizioni. Chi lo sa, quindi, che la presunta vita affermatasi su Marte magari, in breve tempo, non si sia poi stabilizzata in condizioni più estreme? Non dimentichiamo che stiamo andando in giro per il Sistema Solare a cercare la vita; quindi dobbiamo mettere in conto anche di trovarla anche se, ironia della sorte, proprio quando non la stavamo cercando?! BOX – I crinoidi I crinoidi sono organismi invertebrati marini che comparvero per la prima volta sulla Terra a metà dell’Era Paleozoica, circa 500 milioni di anni fa (nel Cambriano), e sono sopravvissuti fino al giorno d’oggi. Abitanti in gruppi numerosi in mari poco profondi, essi raggiunsero una grande diffusione, tanto da costituire vasti spessori fossili nelle rocce calcaree (materiale quest’ultimo che costituisce il loro scheletro). I crinoidi appartengono al “ceppo” degli echinodermi (i ricci di mare, per intenderci), e se ne conoscono 2 varietà: • • i primi, chiamati “gigli di mare” (per la loro somiglianza con i fiori) ebbero la loro massima diffusione nell’Ordoviciano, a metà dell’Era Paleozoica, circa 470 milioni di anni fa. Sebbene così abbondanti da costituire (con i propri frammenti fossili) la quasi totalità delle rocce calcaree del tempo, essi si estinsero quasi alla fine dell’Era Paleozoica, circa 240 milioni di anni fa. Vivevano attaccati sul fondo del mare tramite uno “stelo”, costituito da placche calcaree, lungo da pochi cm fino a 21 m. Quest’ultimo culminava in un calice che conteneva la parte molle dell’animale dal quale si dipartivano i bracci indispensabili per filtrare l’acqua dalle sostanze nutritive tramite piccole pinnule ad essi attaccate. Subito dopo la morte l’intero scheletro si disintegrava ricostituendo le placche calcaree originarie. L’unica zona che rimaneva abbastanza compatta era quella del calice che è anche l’unica riconoscibile nella documentazione fossile. I secondi, chiamati “feather star”, presenti tutt’oggi in abbondanza, non sono ancorati a nessun supporto ed apparvero nel Mesozoico, circa 200 milioni di anni fa. Nuotano nell’acqua o strisciano sul fondo oceanico in cerca di cibo. Spesso usano rocce, coralli o spugne per elevarsi dal fondo durante la notte in cerca di cibo, e si nascondono in anfratti durante il giorno. Vivono in acque superficiali o profonde; nelle barriere coralline sono più diversificati.