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La pazzia del tiranno. Ritratti di un potere bandito

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La pazzia del tiranno. Ritratti di un potere bandito
§
PARAGRAFO
RIVISTA DI LETTERATURA & IMMAGINARI
Paragrafo
Rivista di Letteratura & Immaginari
pubblicazione periodica
coordinatore
FRANCESCO LO MONACO
Redazione
FABIO CLETO, DANIELE GIGLIOLI, MERCEDES GONZÁLEZ DE SANDE,
FRANCESCO LO MONACO, FRANCESCA PASQUALI, VALENTINA PISANTY,
LUCA CARLO ROSSI, STEFANO ROSSO, AMELIA VALTOLINA
Segreteria di Redazione
STEFANIA CONSONNI
Ufficio 211
Università degli Studi di Bergamo
P.za Rosate 2, 24129 Bergamo - tel: +39-035-2052744 / 2052706
email: [email protected] - web: www.unibg.it/paragrafo
webmaster: VICENTE GONZÁLEZ DE SANDE
La veste grafica è a cura della Redazione
La responsabilità di opinioni e giudizi espressi negli articoli
è dei singoli collaboratori e non impegna la Redazione
Questo numero è pubblicato con il contributo
del Dipartimento di Lettere, Arti e Multimedialità
© Università degli Studi di Bergamo
ISBN – 978-88-95184-97-5
Sestante Edizioni / Bergamo University Press
Via dell’Agro 10, 24124 Bergamo
tel. 035-4124204 - fax 035-4124206
email: [email protected] - web: www.sestanteedizioni.it
Stampato da Stamperia Stefanoni - Bergamo
Paragrafo
IV (2008)
Sommario
INCONTRI
§1. GIOVANNI SOLINAS, La critica tra dialogo e conflitto. Conversazione
con Romano Luperini
9
FIGURE
§2. NICCOLÒ SCAFFAI, Fortuna e sfortuna di un poeta editore. Inediti
di Domenico Buratti
31
§3. PAOLA DI MAURO, Da dandy. L’intellettuale dada contro la guerra
55
§4. GABRIELE BUGADA, La pazzia del tiranno. Ritratti di un potere
bandito
73
QUESTIONI
§5. LUIGI MARFÉ, In viaggio con Erodoto. Appunti per una tipologia
dell’anti-turismo contemporaneo
99
§6. GIANPAOLO IANNICELLI, Tra le crepe della memoria. Dinamiche e
criticità del processo di trasmissione del passato
113
STERNIANA
§7. STEFANIA CONSONNI, Schemi di costruzione spaziale del tempo in
Tristram Shandy
135
§8. STEFANO A. MORETTI, “Quell’inquieto calesse”. Deviazioni spaziotemporali in Laurence Sterne e Prosper Mérimée
163
I COLLABORATORI DI QUESTO NUMERO
183
NUMERI ARRETRATI
185
§
4
Gabriele Bugada
La pazzia del tiranno
Ritratti di un potere bandito
Però il mio personaggio predominante è quello del tiranno: ti saprei fare un Ercole come se ne vedono pochi, o una di quelle parti da strapparsi i capelli, da spaccare il mondo in due.
William Shakespeare, Sogno di una notte di mezza estate
Il tiranno sorge indossando una maschera: la figura del tiranno – topos
letterario, modello antropologico, personaggio politico – si costituisce
sulla scena tragica ateniese del V secolo. Le precedenti esperienze storiche
della tirannide non si erano mai coagulate in un’icona tanto determinata,
un’immagine ideologica che si fa persona; nell’efficacia dell’azione teatrale
il tiranno prende vita, e sarà proprio questa “vita” a protrarsi nei secoli
successivi, “lunga e fortunata quanto quella dei suoi controvalori”.1
È dunque in un certo senso la maschera che crea originariamente il tiranno in quanto oggetto di rappresentazione; in questo caso però lo stesso gesto descrive, designa, ed esclude: traccia una frontiera di estraneità
immediatamente tradotta in esecrazione, e finanche esorcismo nel momento in cui “[l]a figura del tiranno vive e si sviluppa dalla necessità sociale di un capro espiatorio, di un idolo polemico atto a rappresentare
tutto quel che la polis rifiuta come ad essa estraneo” (TP, p. 191).
Ritroveremo l’essenza di tale gesto nella genesi di un’altra tipologia di
personaggio: pure il ‘folle’ – per come l’âge classique l’ha individuato e tramandato – affonda le proprie radici in “una sensibilità che ha tracciato una
linea, formato un limitare; e che sceglie, per bandire”. Il portato ideologico
del processo si dimostra direttamente affine, nell’amalgama instaurata tra
1
Diego Lanza, Il tiranno e il suo pubblico, Torino: Einaudi, 1977, p. 94. D’ora innanzi
indicato dalla sigla TP.
PARAGRAFO IV (2008), pp. 73-96
74 /
GABRIELE BUGADA
l’alterità sociale e quella etica: nel folle “c’è qualcosa che parla di altrove e
di qualcosa d’altro, […] egli oltrepassa da se stesso le frontiere dell’ordine
borghese e si aliena al di fuori dei limiti consacrati della sua etica”.2
Quanto da un lato risulterebbe fuorviante circoscrivere nella sola sfera
della creazione artistica la raffigurazione del tiranno – anche in virtù della
radicale e fondante politicità del suo locus originario – tanto, sull’altro versante, sarebbe riduttivo leggere la storia della follia come un percorso sociologico rispetto al quale l’immaginario sia sovrastrutturale. Le dinamiche
specifiche della rappresentazione sono anzi sostanziali per definire la novità
che la follia costituisce nelle forme assegnatele dall’âge classique: “gli uomini
di sragione” sono “personaggi”, ovvero “tipi riconosciuti e isolati dalla società” (SF, p. 106), e quindi la follia “diviene puro spettacolo, in un mondo
sul quale Sade estende la sua sovranità, e così viene offerta, come distrazione, alla buona coscienza di una ragione sicura di se stessa” (p. 149).
Si ravvisa un’omologia nel rapporto di entrambe le figure con l’identità (mêmeté ricoeuriana) che le esclude: con Lotman possiamo ricordare
quanto le relazioni ‘di confine’ siano improntate a un’interdefinizione che
rende reciproco ogni fondamento ontologico, ambivalente ogni attributo.
In questo modo, infatti, la follia “diventa una forma relativa alla ragione”
(SF, p. 36); o meglio vi si integra, “costituendo tanto una delle sue forze
segrete, quanto un momento della sua manifestazione” (p. 39).
Le case di correzione finiscono per rappresentare, nel proprio microcosmo indipendente, un’immagine rovesciata della società; la società, a sua
volta, svilupperà nei confronti di questo perturbante doppelgänger una caratteristica “ossessione davanti alle contraddizioni che sole possono tuttavia assicurare il mantenimento delle sue strutture; la follia è diventata la
paradossale condizione della durata dell’ordine borghese, del quale costituisce tuttavia dall’esterno la minaccia più immediata” (p. 318).
Parallelamente nella figura del tiranno si personifica ben presto tutto
ciò che è respinto e condannato dalla morale politica della polis, facendone il portatore dell’il-libertà, della dis-misura, dell’em-pietà, dell’ir-razionalità. Il tiranno, sempre sconfitto nell’azione drammatica, non trova nella praxis un’identità integra bensì la perdita di ogni supposta coerenza;
costruito a contrario, come un negativo fotografico, nella diegesi cede la2
Michel Foucault, Histoire de la folie à l’âge classique (1972), trad. it. di Franco Ferrucci, Storia della follia nell’età classica, Milano: Rizzoli, 2005, pp. 82, 77. D’ora innanzi indicato dalla sigla SF.
LA PAZZIA DEL TIRANNO
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cerato dal proprio intrinseco disordine: tuttavia è l’appartenenza ad un
organico universo narrativo (l’essere personaggio, l’essere maschera) a garantire che il ritratto del tiranno possa sussistere malgrado qualsiasi incongruenza, ed ergersi a turpe monumento, a monito per la città.
La maschera del tiranno deve permanere – coesa, se non coerente –
perché “la città ha bisogno della controimmagine del tiranno per affermarsi”.3 I nodi che stringono il tiranno sono in realtà gli stessi che attanagliano la polis; tutti gli aspetti dell’agire umano che l’ideologia politica rifiuta di riconoscere (o in cui rifiuta di riconoscersi): “Così il sesso è lussuria, il sentimento odio, l’economia cieca avidità […] ma a questi vizi non
corrispondono altrettante virtù che non siano a loro volta delle negatività
[…], la sophrosyne che si delinea in questo quadro non è un pieno ma un
vuoto, non è caratterizzata dalla presenza ma dall’assenza” (TP, pp. 19091). Quell’integrità identitaria che abbiamo visto sottratta al tiranno (in
cambio di una solidissima matrice topica e narrativa) può nascere e resistere all’interno della città proprio grazie alla fondante contrapposizione
versus questo rovescio che essa stessa proietta sulla scena.
A partire da questa analogia funzionale tra le rappresentazioni del tiranno e quelle della follia (almeno nell’ambito storico analizzato da Foucault) l’analisi si incentrerà dapprima sugli ‘assi’ rispetto ai quali le maschere del folle e del tiranno si collocano in una posizione complessa:
contraddizioni culturalmente rilevanti, faglie di instabilità, non certo risolte bensì rese assimilabili grazie alla sintesi che le immagini operano. Le
appassionate ‘archeologie’ di Lanza e Foucault (già citate in calce) forniranno il tessuto entro cui cercare questo diverso – ma condiviso – ordito,
per mostrare come non sia casuale che tirannide e pazzia s’intreccino quasi indissolubilmente nel panorama iconografico e narrativo del XX secolo.
Vedremo quindi all’opera tali dinamiche in un lavoro recentissimo,
dichiaratamente afferente al discorso scientifico. Le scienze umane, in
specie medicina e diritto, si incaricano di descrivere la parentela sempre
più necessaria – o necessitata? – tra tirannide e follia, risultando però debitrici (forse inconsapevoli) di più antiche raffigurazioni, la cui storia retorica e il cui fardello ideologico sono assai corposi.
Va peraltro osservato che i tratti di follia (stricto sensu) nei ritratti classici dei tiranni possono essere più spesso intuiti a posteriori che individuati letteralmente. Si pensi al notissimo Nerone tacitiano: in effetti sol3
Helmut Berve, Die Tyrannis bei den Griechen (1967), cit. in TP, p. xiii.
76 /
GABRIELE BUGADA
tanto in rarissime occasioni Tacito impiega il lessico della pazzia, e riferendosi a momenti comunque transitori. Tuttavia su questa base Nerone
assurgerà ad esempio principe, quasi ad archetipo, dell’autocrate pazzo: lo
stampo di calchi innumerevoli, nei quali però determinate venature – del
tutto indifferenziabili nel quadro originario – sono emerse specificamente
come stigmate di un fenomeno ulteriore rispetto alla tirannide, ovvero la
follia. La corrispondenza dei tratti (innervata sull’analogo gesto che fonda
la rappresentazione) li rende ‘semi’ di traducibilità, luoghi di articolazione
per i reciproci innesti.
Un lupo sulla porta
L’avido, il traviatore, il feroce, il subdolo, che già nuocerebbero
assai se ti stessero attorno, sono dentro di te.
Seneca, Lettere a Lucilio
1. Il posizionamento del folle e del tiranno è connotato da un estremismo
a tutta prima paradossale: tanto più foranei risultano despoti e pazzi,
quanto più la loro ‘destinazione naturale’ – esito temibile eppure inevitabile di una vera e propria dis-locazione spaziale e culturale – appare l’intimità della città, intesa come luogo fisico ma anche come corpo politico.
Inoltre lo sguardo che bandisce sposta sempre più le supposte dinamiche
generative dei fenomeni nell’interiorità individuale, sottraendole ad ogni
contesto relazionale: “l’interiorità psicologica si è costituita a partire dall’esteriorità di una coscienza scandalizzata” (SF, p. 381).
Al fine di cogliere la progressività e l’impronta direzionale di questo
movimento è opportuno rivolgersi all’immediata antecedenza delle sue
svolte ‘istituzionali’.
Già prima del grande internamento del XVII secolo il folle si trova in
una situazione liminare, che riassume nella propria ambiguità la dialettica
complessa tra spazi interni e spazi esterni: una “situazione insieme simbolizzata e realizzata dal privilegio che ha il folle di essere rinchiuso alle porte
della città: la sua esclusione deve racchiuderlo […] [ma] ciò che fu un
tempo la fortezza visibile dell’ordine è diventato ora il castello della nostra coscienza” (SF, p. 19).
L’internamento si differenzierà a propria volta in una serie, anzi in una
‘fuga’ di contenitori via via più reconditi e reclusivi, fino alle celle dei furiosi, fino all’isolamento, fino – in ultimo – alle catene e alla camicia di
forza che identificheranno quasi la superficie contentiva e de-finitoria con
LA PAZZIA DEL TIRANNO
/ 77
quella corporea.4 La mise en abyme degli spazi chiusi tuttavia spalanca,
nelle parole di Mercier, un’“[u]lcera terribile nel corpo politico”:5 nel XVIII
secolo sorgerà da qui la grande paura del contagio, il contatto ‘atmosferico’ con un male che fermenta e si propaga a partire dalle case di internamento per minacciare le città, i cui “abitanti saranno lentamente impregnati dalla putrefazione e dal vizio” (SF, p. 298). La metafora della pestilenza convoca la sfera medica: la psichiatria finirà per installarsi in questo
spazio di “complicità fra la medicina e la morale” (p. 90), nell’intimità
della passione concepita come interfaccia tra corpo e anima – sede d’elezione della follia.
Anche la figura del tiranno si affaccia sull’orizzonte teoretico della
Grecia classica nell’atto di avvicinarne le porte geografiche. Nelle monumentali Storie erodotee troviamo il primo modello analitico della tirannide: il passo (III:80) è cruciale in quanto sarà proprio l’irriducibile contrapposizione tra demokrateesthai e tyranneuesthai ad avviare un sensibile
mutamento nell’impostazione dell’opera, che da uno stile ricco di digressioni ‘etnografiche’ giungerà a concentrarsi decisamente sulle guerre persiane, conformate a questa logica contrastiva.
Spiega Lanza: “Tiranno, si sa, non è parola greca. Ma neppure il tiranno è figura greca; essa appartiene agli usi dei barbari […] popoli non greci, soprattutto orientali” (TP, p. 192): questa la soluzione ideologica che
permetterà nel lungo periodo di rimuovere dall’organica immagine della
polis le cesure e i conflitti connessi all’esercizio del potere, sfocandoli
“nella caligine del tradizionale dispotismo d’Oriente” (p. 214). Così si
“trasforma un sistema sociale diverso in un puro e semplice fenomeno degenerativo dell’unico sistema sociale accettabile, quello appunto della polis. La degenerazione è a sua volta spiegata con la non grecità, con la barbarie degli altri popoli” (p. 192).
Nella seconda metà del V secolo però si sviluppa in Atene il pensiero
ossessivo della tirannide, al punto di costituire una palpabile fobia: è presente in ogni momento la diffusa paura della perdita della libertà, della
catastrofe della polis; il tiranno paventato ad Atene è ora un tiranno che
nasca, per corruzione, dal seno stesso della città.6 Durante gli stessi anni
4
In questa prospettiva si presta a un’interessante lettura il trattamento della follia tramite psicofarmaci.
5
Louis-Sébastien Mercier, Tableau de Paris (1781), cit. in SF, p. 297.
6
Si ripensi alla ‘grande paura’ descritta da Foucault. La capillarità del timore ateniese è
ben illustrata dall’ironia di Aristofane nelle Vespe: “tutto è tirannide e tutto è cospirazione.
78 /
GABRIELE BUGADA
l’imperialismo ateniese (fondato sulla negazione dell’esistenza di alterità
neutrali, non ostili; sullo sfruttamento dei corpi civili prossimi ma non interni alla polis, gli alleati; sul lavoro, nella città, dei meteci,7 privi di diritto alla cittadinanza) raggiunge il suo vertice simbolico con l’assedio, la
deportazione, lo sterminio dei Meli: Atene si autodefinisce ‘educatrice’
dell’Ellade, ma questi eventi aprono nella coscienza dei suoi abitanti una
lacerazione irredimibile, che tornerà a emergere per decenni.
Proprio in questa temperie, dentro lo spazio autonomo ma politico
dello spettacolo teatrale, si staglia il tiranno, corrotto e vizioso: il ‘nemico
della democrazia’.
Il tiranno in quanto personaggio anticipa – e rende possibile – l’interpretazione platonica della tirannide come degradazione della morale individuale piuttosto che come rappresentazione di una struttura di potere;
l’anima tirannica non sarà diversa per Platone dalla città governata tirannicamente, e la maschera teatrale prelude a questa elaborazione costituendo una linea d’intersezione tra i due piani della polis vera e propria e della
‘micropolis’: l’interiorità del singolo.
Sulla scena si compie il capovolgimento dell’atteggiamento ancora
presente in Otane. Non è più il rapporto particolare che lega (e separa) tiranno e cittadini ad agire sull’anima del primo deformandola, ma è da
quell’anima deformata che si propaga la corruzione dell’intera città. Infatti in Erodoto Otane affermava:
E come potrebbe essere un governo ben ordinato il dominio d’un solo, se
egli può fare quello che vuole, senza rendere conto ad alcuno? Poiché anche l’uomo migliore del mondo, investito di questa autorità, si troverà al
difuori del consueto modo di pensare (III:80).8
Nel dialogo di Platone, invece, leggiamo:
“Or quando gli altri desideri ronzantigli attorno […] infiggano a questo
In cinquant’anni non ne ho sentito neppure il nome, e ora è a più buon mercato del pesce
in salamoia, tanto la parola circola per la piazza. Metti che qualcuno non voglia sardine, e
compri degli scorfani: ecco subito il venditore di sardine, lì accanto, che borbotta: ‘Costui
sta facendo provviste per farsi tiranno’” (vv. 488-95). Aristofane, Sphekes, trad. it. di Guido Paduano, Le Vespe, Milano: Garzanti, 2005, pp. 54-57.
7
Etimologicamente: ‘che abitano con [noi], in mezzo a [noi]’.
8
Erodoto, Historiai, trad. it. di Luigi Annibaletto, Storie, Milano: Mondadori, 2006, p.
309.
LA PAZZIA DEL TIRANNO
/ 79
fuco [cioè a una passione] il pungolo del desiderio, allora questo capopopolo dell’anima si fa scortare dai satelliti della pazzia, e infuria, e se trova
in quell’uomo delle opinioni o desideri tenuti per buoni e ancor capaci di
pudore, li ammazza e li caccia fuori da lui, sino a che non lo purghi di
saggezza, e non lo riempia di importata pazzia”. “Tu descrivi perfettamente la genesi dell’uomo tirannico” (573,a-b).9
È evidente nel modello platonico la trasposizione degli effetti di un sistema sociopolitico (così impostava la questione Otane) sulla scala della dinamica psicologica, con la personificazione retorica degli impulsi e la
comparsa del lessico della follia: tra questi due paradigmi esplicativi si situano, con tutta la loro forza rappresentativa, gli spettacoli teatrali del V
secolo.
È assai indicativo riconoscere quali esperienze segnino la faglia di rottura tra il singolo e la società: empietà, sessualità dissoluta, mancanza di
controllo nei riguardi delle passioni; si ritroveranno accanto alla follia come già nel cuore del tiranno (pur nell’ovvia diversità delle materializzazioni storiche): “ira, violenza, lussuria saranno riassunte nella comune categoria dell’incontinenza (akrasia) da Platone” (TP, p. 49). E poi: “l’irreligiosità del tiranno non nega la divinità, ma scalza tutti i modelli di
comportamento etico che le sono connessi” (p. 56).
In maniera consimile la nostra cultura ha posto la sessualità sulla linea
di separazione della sragione, e “la violenza può essere decifrata altrettanto bene, e senza contraddizione, nei termini dell’insensato o in quelli dell’irreligiosità. Tra follia ed empietà la differenza è impercettibile” (SF, p.
97). Più in generale “la sragione si annette un nuovo dominio: quello in
cui la ragione si asservisce ai desideri del cuore e il suo uso si imparenta
con le sregolatezze dell’immoralità. I liberi discorsi della follia appariranno nella schiavitù delle passioni” (p. 104).
Il pungiglione del desiderio e le infrazioni all’ordine sacro come trafitture e incrinature dell’organismo sociale: nell’intimità delle passioni si appone il marchio di un bando ben più ampio.
2. L’alienazione dall’umanità come sineddoche moralizzante dell’estraniazione nei confronti – o da parte – di una determinata società trova spessore figurativo nell’assimilazione del folle quanto del despota ad una
9
Platone, Politeia, trad. it. di Francesco Gabrieli, La repubblica, Milano: Rizzoli, 1984,
pp. 319-20.
80 /
GABRIELE BUGADA
quintessenziale animalità. Il tema assume particolare rilievo dal momento
che ad esso si riconducono altri due nodi fondamentali: il rapporto ambivalente con un’ideale (contro)Natura; quindi la dialettica tra arbitrio assoluto e determinismo.
Non è pensabile, nel XVII e nel XVIII secolo, trattare umanamente la
follia poiché essa è – a pieno titolo – inumana, simile a un “animale dai
meccanismi strani, bestialità in cui l’uomo è abolito”. I folli sono “bestie
in preda a una rabbia naturale: come se, nel suo punto estremo, la follia
[…] raggiungesse con un colpo di forza la violenza immediata dell’animalità” (SF, pp. 149-51; corsivi miei).
La vicinanza tra uomo e animale, che finisce per sprofondare nel secondo il primo, è simbolicamente posta da Platone all’origine stessa della tirannide tramite la convocazione del mito del licantropo Licaone per descrivere
il modo in cui incomincia “[l’]evoluzione da capopopolo a tiranno”:
Chi […] si lordi di sangue distruggendo la vita di un uomo, e gustato che
abbia con l’empia lingua e bocca il sangue della stessa sua razza, […] forse che non è necessario e fatale dopo ciò per un essere siffatto o di cadere
ucciso dai nemici o di farsi tiranno, e diventare da uomo lupo? (565, d-e;
566, a).10
La sintesi attuata dalle rappresentazioni riesce a far efficacemente convivere due immagini del rapporto tra umanità e Natura all’apparenza contraddittorie: da un lato la Natura posta come sfondo sordo sul quale l’uomo si eleva e si staglia, fino alla percezione di essa come un’alterità che
nella propria opacità resiste all’azione e alla cognizione dell’uomo, o addirittura sotto la cui pressione è l’uomo a dover resistere; dall’altro la Natura come misura originaria a cui l’uomo deve ricondursi, in nome di
un’appartenenza organica a quella gerarchia, quell’ordine, quell’evoluzione che sono dettati dalla “positività naturale” (SF, p. 155).
In ambedue le formazioni ideologiche risalta il senso di datità che accompagna l’aggettivo naturale: la nozione di riferimenti stabili e indiscutibili. La ferinità del tiranno come del folle (rafforzando comunque entrambi i sistemi) si trova ad esservi inglobata nella prima prospettiva testé
descritta, e viceversa a sottrarvisi in modo quasi straziante dal secondo
10
Tutte le citazioni del capoverso sono in Platone, op. cit., pp. 310-11. Si osservi la ricorrenza del lessico ‘biologico’: “sangue”, “vita”, “razza”. La traduzione ben rende l’originale greco che impiega le radici phy-, bi-, ghen-.
LA PAZZIA DEL TIRANNO
/ 81
punto di vista. Tiranno e folle vengono presentati, senza tema di incongruità, sia come il risultato di una precipite caduta dell’uomo verso la
bruta naturalità, sia come i protagonisti di un violento strappo nel regolato tessuto della Natura.
Il tiranno può allora essere indicato come “il frutto maligno che intossica e uccide la pianta che l’ha prodotto” (TP, p. viii). E Foucault osserva:
“L’animalità che infuria […] toglie all’uomo ciò che può esserci in lui di
umano […] per collocarlo nel grado zero della sua propria natura” (SF, p.
152); a tale ‘grado zero della natura’ bisogna però riconoscere tutta la
complessità che lo scuote, esso deve venir – per così dire – rovesciato dall’interno, e dunque: “l’animale appartiene piuttosto alla contronatura, a
una negatività che minaccia l’ordine e mette in pericolo, col suo furore, la
saggezza positiva della natura” (SF, p. 155).
La ‘naturalità contronaturale’ della tirannide si profila significativamente anche nell’anaciclosi polibiana, modello storico-politico animato tuttavia da un movimento di degenerazioni e rigenerazioni prettamente biologico. Polibio individua nel potere di un singolo la forma primigenia di governo, definendolo “la più autentica opera della natura [physeos]” esattamente sulla base della comunanza del fenomeno anche con “le altre razze
animali prive di ragione”. Esso dà poi adito al “regno”, tramite il senso di
giustizia e la legge: questi però sono prodotti tipici dell’uomo – “in quanto
differente dagli altri animali”– ma che parimenti “nascono [upoghinetai]
secondo natura [eikos estì]”; non più la Natura/physis, bensì la ‘naturalezza’
di ciò che è a un tempo adeguato, verosimile, ragionevole (VI:5-6).
La “degenerazione” o “corruzione” del regno è invece la tirannide: se
anch’essa condivide la naturalità primitiva, caratteristica dei governi individuali, è appunto sul piano della naturalezza intesa come misura e omogeneità che essa esce dal solco, ovvero delira. La tirannide sorge infatti quando il sovrano si abbandona ai desideri (epithumiais: ritorna il ‘fuco’ di Platone); pretende quindi per sé solo abiti stravaganti (exallous: si notino il
prefisso dell’estraneità, dal valore intensivo, e il semantema dell’alterità), cibi variegati e sofisticati (poikilias), la soddisfazione delle proprie brame sessuali per quanto non si addicano né a lui né alle sue vittime (me prosekonton: di nuovo, la negazione di ciò che è ‘naturalmente’ appropriato, VI:7).11
11
Tutte le citazioni degli ultimi due capoversi sono in Polibio, Historiai. L’edizione di
riferimento è Storie, a cura di Domenico Musti, Milano: Rizzoli, 2002, pp. 272-79. La
traduzione è stata da me adattata in funzione dell’analisi.
82 /
GABRIELE BUGADA
Queste ultime notazioni polibiane si inscrivono perfettamente nella
topica dell’esposizione di artificiose stravaganze che accompagna i ritratti
dei più vari dispotismi: una topica condivisa largamente dalle figure della
pazzia, il cui territorio semantico e sociologico sfuma con frequenza in
quelli dell’eccentricità o della stramberia (paradigmatiche in ambedue i
sensi le carrellate aneddotiche di Svetonio). La mitologia tirannica riesce
ad integrare l’incoerenza di personaggi che contemporaneamente sprofondano nella Natura e da essa esulano in direzione di un’esasperata sofisticazione (nonché – in effetti – l’incoerenza di due distinte idee di Natura):12 l’emblema ne possono forse essere le raffinatissime, ricercatissime,
quaesitissimis torture con le quali il Nerone tacitiano esprime la propria
bestiale crudeltà, assieme saevitia e immanitas.
Infine – seppur solamente tramite un rimando in nota al capitolo che
Foucault dedica all’argomento –13 va ricordata l’ossessione indagatrice nei
confronti di un radicamento fisiologico della follia. La ricerca di una base
biologica costituisce un’area di singolare specificità propria della storia
della follia più che di quella della tirannide:14 a maggior ragione risulterà
cruciale l’esplicita identificazione tra tiranno e folle operata dalla psichiatria più recente, così come la concomitante rivendicazione di diagnosticabilità dell’una quanto dell’altra ‘patologia’.
3. Il meccanicismo insito in questa visione – che pare avocare alle filosofie naturali ogni responsabilità teoretica concernente tali ‘innaturalissime’
degenerazioni – ci introduce al secondo nodo concettuale suggerito dall’animalità: la tensione tra potestà e determinismo.
Da una parte si stigmatizza una libertà che esplode in arbitrio, con tutta la carica di responsabilità etica che può essere imputata a coloro che ne
siano portatori. Dall’altra si diagnosticano meccaniche cogenti, che comportano l’irredimibilità dei soggetti nonché l’ineluttabilità degli interventi
su – contro? – di essi. “Il tiranno, dopo esser divenuto tiranno, non può
che continuare ad esserlo, ad esercitare il proprio arbitrio o essere elimina12
Con l’approssimazione propria di una nota, vale la pena di suggerire una riflessione
su quanto questa struttura (naturalità/artificio/animalità) abbia giocato, e giochi tutt’oggi,
un ruolo nelle rappresentazioni del femminile.
13
Capitolo IV della Parte seconda: “Medici e malati” (SF, pp. 253-82).
14
Nondimeno pure in quest’ultima non mancano spunti correlati, come certi caratteri
di ereditarietà o la fisiognomica. Recenti diversioni (deviazioni?) tra storia e narrativa fan
discendere Saddam Hussein dai lombi di Adolf Hitler.
LA PAZZIA DEL TIRANNO
/ 83
to dai nemici, così come l’uomo divenuto lupo o continua a sbranare o finisce sbranato” (TP, p. 66); del pari, se “questa animalità della follia […]
la pone in uno spazio di imprevedibile libertà in cui il furore si scatena”
(SF, p. 154), è pur vero che la medesima “rabbia animale” rende la “libertà
incatenata al furore” (SF, p. 162). Furore scatenato, libertà incatenata: sembra che proprio l’immagine della catena sia il contrassegno che definisce il
margine d’azione concesso dalle rappresentazioni ai loro personaggi.
Nella riflessione sulla follia, e specialmente nella sua analisi medica,
saranno poste in discussione la libertà e le sue effettive determinazioni; il
desiderio viene affiancato e assieme contrapposto alla volontà, l’automatico è confrontato con lo spontaneo. Sebbene la sragione possa venir delimitata nelle forme di un determinismo – come detto – ‘naturale’, non è
trascurabile che questa possibilità abbia preso senso in una (per quanto
spesso rimossa) condanna etica.
Si ha l’impressione che coesistano due piani di elaborazione: nell’uno,
la pazzia viene descritta come limitazione della soggettività, della libertà
e, in modo più sottile, dell’essenza umana o della dignità che a queste si
riconnettono. L’altra forma di alienazione indica al contrario il folle come
estraneo; pertanto non lo si libera affatto della sua responsabilità, gli si assegna anzi una colpevolezza morale, confermata dalla pervicacia con cui
egli esprime una renitenza alla cura.
Una simile polarità si propone anche per quanto riguarda la rappresentazione del tiranno, così come si ripropongono le declinazioni morali
che essa finisce per assumere: “l’uomo è corrotto dalla stessa condizione
del suo potere” (TP, p. 43); la trasgressione è favorita dall’assoluta libertà
d’azione ma il potere si rivela costrizione: di più, ciò che il tiranno proietta fuori di sé è precisamente la coercizione cui è soggetta la sua anima. Insomma: il despota in quanto governante sopprime la libertà altrui, in
quanto uomo perde la propria.
Una delle trattazioni più esplicite ed esaustive del tema si ha nello Ierone
di Senofonte, un dialogo immaginato tra il tiranno siracusano e il poeta Simonide. Ierone delinea l’inferiorità della propria condizione alla luce della
divaricazione tra cognizione e azione introdotta dalla necessità (ananke):
“Per Zeus”, disse, “caro Simonide, è inevitabile [ananke estì] che pure
quelle azioni per le quali gli uomini vengono odiati, noi laboriosamente
le intraprendiamo assai più che i comuni cittadini! Bisogna esigere [prakteon] ricchezze, se intendiamo aver di che spendere per ciò che è necessario [ta deonta]; bisogna costringersi [anankasteon] a sorvegliare quanto
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GABRIELE BUGADA
necessita [deitai] di sorveglianza; bisogna punire [kolasteon] gli ingiusti;
bisogna fermare [koluteon]quanti vogliono passare il segno e farsi violenti” (VIII, 8-9).15
L’isotopia è veramente ossessiva, marcata altresì a livello grammaticale dalla preferenza per forme impersonali: perfino il raro noi che agisce finisce in
accusativo, soggetto di un’infinitiva sorretta e retta dall’inevitabilità; la necessità d’intervento promana direttamente dalle cose (ta deonta, deitai); la
sintassi si impronta a una sequenza di aggettivi verbali (indicanti modalità
del dovere, diatesi mediopassiva) impersonali, col verbo principale sottinteso, tra i quali spicca un – a dir poco ridondante – anankasteon.
La piena comprensione della realtà, della catena delle cause e degli effetti, invece che liberare il tiranno lo vincola alla responsabilità di azioni
odiose, seppur qui velate da una patina eufemistica; non può sfuggire
però il fatto che il tiranno risulti in definitiva molto intraprendente, nella
sua situazione di ‘costrizione’. Ancor più chiaramente Ierone si era già
pronunciato in precedenza: i tiranni
ben conoscono [ghighnoskousi] infatti (non meno che i comuni cittadini!)
i forti, i saggi, i giusti. Tuttavia, invece che amarli, li temono [phobountai]: i valorosi, che non azzardino qualcosa per la libertà; i saggi, che non
macchinino qualcosa; i giusti, che il popolo non preferisca essere guidato
da costoro. Allorché abbiano levato di mezzo [hypexairontai] per paura
[dia ton phobon] gli uomini siffatti, chi altri restano loro da impiegare se
non gli ingiusti, deboli e servili? […][È] un’amara tribolazione [pathema],
il fatto di ritenere gli uni uomini validi, ma essere costretti [anankazesthai] a servirsi degli altri (V, 1-2).16
Oltre ai summenzionati caratteri di passività e determinismo necessitante
(pathema, anankazesthai) – complementi peraltro di un arbitrio assoluto
che tocca la vita e la morte altrui! – emerge un altro snodo fondamentale
per la ‘schizofrenia’ tra cognizione del bene e opzione ineluttabile del male: la paura.
4. Il brano di Senofonte lascia trasparire quella che si configura come una
vera e propria paranoia, associabile all’analisi del fenomeno proposta da
15
Senofonte, Ieron e tyrannikos. L’edizione di riferimento è Ierone, a cura di Gennaro
Tedeschi, Palermo: Sellerio, 1991, pp. 74-77. La traduzione è stata da me adattata in funzione dell’analisi.
16
Senofonte, op. cit., p. 62.
LA PAZZIA DEL TIRANNO
/ 85
Canetti in Massa e potere.17 La lettura di Canetti esplica il nesso tra paura
e violenza: la centralità dell’Io del potente lo pone come bersaglio reale o
immaginario di atti di violenza. Per paura quindi egli ricorre per primo a
una violenza che ben presto diviene inarrestabile, montando col crescendo dei sospetti: l’incertezza cognitiva dà luogo a una deriva ossessiva e totalizzante. La diffusione del terrore non può portare ad altro che al realizzarsi della paventata reazione violenta da parte dei governati, oppressi da
una condizione di minaccia costante.
Paura e violenza si dimostrano anelli inscindibili di una morfologia
del potere improntata alla circolarità: “è resa manifesta la paura che al potere sempre si accompagna. Anzitutto la paura che ha di lui chi gli è soggetto. […] Ma vi è anche la paura del tiranno [che] vive ed agisce sempre
soggetto alla paura” (TP, p. 45).
Sono indispensabili due annotazioni: l’uso in epoca tanto precoce da
parte di Senofonte della coppia (suscettibile di tradursi in endiadi!) “sorvegliare” e “punire” – coppia che proprio Foucault renderà illustre – ci avverte di come forse il vizio di questo circolo contamini ogni potere, dunque pure quelli collegiali, democratici; in secondo luogo, la trattatistica
storica o biografica sulla tirannide sviluppa spesso la tendenza a raffigurare violenza e paura del despota come particolarmente autoreferenziali,
esorbitanti, immotivate (tornano artificio e arbitrio). Questi ritratti portano in tal modo le cicatrici di una rimozione.
È decisamente significativo, allora, che anche la pazzia sia presa in
questo cerchio, stretta nelle sue tremende simmetrie: la violenza è uno dei
marchi della follia se addirittura il termine “furore”, con cui si identifica
una delle sue tipologie, “fa allusione a tutte le forme di violenza che sfuggono alla definizione rigorosa” (SF, p. 114), e se – in direzione inversa –
alla violenza si ricorre non solo a fini di contenzione ma benanche di cura. La medesima struttura bidirezionale è riferibile alla paura, ed è addirittura uno dei perni su cui ruota il carosello della pazzia messa in spettacolo. Ma non solo, nel Ritiro di Tuke – in cui “[i]l principio della paura,
che difficilmente è diminuito nella follia, è considerato di grande importanza per la cura dei folli” –18 questa relazione svela tutta la propria ambigua centralità:
17
Elias Canetti, Masse und Macht (1960), trad. it. di Furio Jesi, Massa e potere, Milano:
Adelphi, 1982.
18
Samuel Tuke, Description of the Retreat (1813), cit. in SF, p. 413.
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La Paura appare […] segnando il limite della ragione e della sragione e
disponendo di un duplice potere: sulle violenze del furore per contenerle, e
sulla ragione stessa per tenerla in disparte […]. Quella che viene instaurata
nel Ritiro scende invece in profondità: essa va dalla ragione alla follia come una mediazione, come l’evocazione di una comune natura che appartiene loro ancora e con la quale potrebbe annodare il loro legame (SF, p.
413; corsivi miei).
Ciò che fonde e confonde violenza e paura, sorveglianza e punizione è un
dispositivo semiotico. Se ne intuisce traccia nei brani senofontei: l’attenzione preventiva del tiranno si appunta sulla sfera delle intenzioni (coloro
che “vogliono passare il segno”,19 le macchinazioni dei saggi) perché è lì
che va interrotto ogni possibile processo di frattura dei limiti imposti.
Tutto ciò implica una prospettiva di lettura penetrante nei confronti
del mondo e soprattutto dei segni che lo affollano. Tale competenza – tale ‘governo dei segni’, si potrebbe dire – ha un corollario di non poco
conto: la capacità di simulare e dissimulare, ovvero di produrre segni
fuorvianti e nel contempo occultare a piacimento le stimmate della propria ‘degenerazione’.
L’attitudine della tirannide a creare un proprio codice, un universo discorsivo autocratico e chiuso quanto il sistema politico, si evince dal noto
episodio erodoteo dei due tiranni Periandro e Trasibulo (V:92). Periandro, fino a quel momento “più mite del padre”, invia a Trasibulo un messo per chiedere quale sia il modo “più sicuro” per reggere la città. Trasibulo conduce l’araldo a passeggiare in un campo di grano ove, “senza aggiungere una parola”, non fa altro che continuare a chiedere e richiedere il
motivo della visita, ignorando apparentemente le ripetute risposte del
messaggero. Mentre cammina tuttavia Trasibulo, come distrattamente,
recide e abbatte tutte le spighe migliori e più alte. Tornato da Periandro,
l’araldo racconta l’accaduto sostenendo di non aver ricevuto alcun consiglio, e meravigliandosi anzi di essere stato inviato da “un tipo simile, come a dire un pazzo”. Periandro invece coglie ciò che per l’ambasciatore
passava inavvertito, “avendo compreso il significato di quei gesti”: per essere al sicuro è necessario eliminare i cittadini più eminenti; e “da allora
non ci fu perfidia che egli non sfogasse contro i cittadini”.20 Risaltano qui
19
L’originale recita: “boulomenos hybrizein”. Si presterebbe a essere indagata l’eredità
odierna – nel pensiero della violenza come rottura o travalicamento – dell’articolato concetto di hybris.
20
Tutte le citazioni del capoverso sono in Erodoto, op. cit., pp. 505-06 (corsivi miei).
LA PAZZIA DEL TIRANNO
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diversi temi: l’insondabilità per il messo – non edotto – del codice tirannico, il quale svuota quello verbale pur mantenendolo nominalmente (il
fallimento comunicativo del dialogo); il potere diffusivo di contagio di cui
è carico il discorso dispotico; soprattutto lo scarto retorico attuato dalla
voce autoriale, che dopo aver riconosciuto la logica (feroce e condannabile, certo) della tirannide, dopo averne evidenziato la concreta motivazione (la sicurezza), finisce per bollarne le azioni come dettate da “perfidia”,
ridimensionate così a dati caratteriali.
Quest’ultima osservazione consente una chiosa relativa alla retorica
delle rappresentazioni: la presunta o effettiva abilità mistificatoria esibita
dal despota concede in realtà ai suoi ritrattisti un vastissimo margine interpretativo; ogni evento discrepante rispetto alla rotondità della raffigurazione può artatamente essere ricondotto nella cornice in virtù di questa
zona d’ombra semiotica.
Giunti a questo punto, non sorprenderà più scoprire che pure “la follia affascina perché è sapere […], perché tutte quelle figure assurde sono
in realtà gli elementi di un sapere difficile, chiuso, esoterico. Queste forme strane sono situate, di primo acchito, nello spazio del gran segreto”
(SF, p. 27). Sotto la superficie di una fenomenica assenza di ratio, “più in
profondo, si trova un’organizzazione rigorosa che segue l’armatura impeccabile di un discorso [...] nella trasparenza di un linguaggio virtuale”
(p. 204).
Sfidare questo guscio, penetrare questo discorso richiederà le più
macchinose e indiziarie tecniche ermeneutiche. Non solo: da questo
‘schermo’ sorge immediato il sospetto morale della contraffazione – automatica o volontaria che sia, comunque necessaria.21 “Se la follia involontaria, quella che sembra impadronirsi dell’uomo malgrado lui, cospira
tanto spontaneamente con la malvagità, non è molto diversa, nella sua
essenza segreta, da quella che è simulata intenzionalmente da parte di
soggetti lucidi […]: la follia reale equivale alla follia simulata” (pp. 14041); ovvero, con le lapidarie parole di Sartre a proposito di un suo personaggio psicotico: “Il mondo irreale di Pierre è solo finzione e i folli sono
dei mentitori”.22
21
Un esempio affine è il dibattito sull’isteria tra XIX e XX secolo.
Jean-Paul Sartre, Œuvres romanesques (1981), cit. in Paola Dècina Lombardi, “Introduzione”, in Jean-Paul Sartre, Le mur (1939), trad. it. di Elena Giolitti, Il muro, Torino:
Einaudi, 2002, p. xiii.
22
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Assassinare l’inumanità
Si ergono a tiranni di quegli stessi che li hanno
sospinti sulla scena.
Cicerone, Sullo Stato
5. Il banco di prova per lo schema di parallelismi fin qui elaborato sarà,
come preannunciato, un testo scientifico edito nel 2003: Assassini dell’umanità. La patologia mentale del tiranno, di Gian Carlo Nivoli.
In quanto paradigma di traducibilità psicologica di contenuti morali e
sociali, la rappresentazione del tiranno si trova a convergere vertiginosamente verso quella della follia – “anormalità psichica scientificamente accertabile” (TP, p. 215) – con la quale finirà per intrecciarsi: una sovrapposizione anticipata, come abbiamo visto, da una lunga storia di analogie
formali e funzionali. Se forse è vero che ad oggi “non sopravvive […] la
politicità del modello psicologico” (pp. 221-22) ateniese, può essere tuttavia che stiamo assistendo a una ‘psicologizzazione’ dei modelli politici.
Al principio del XXI secolo la consonanza tra i due personaggi ormai
ipostatizzati del despota e del pazzo assurge a sottotitolo di un’opera che,
pur agile e divulgativa, vanta paternità considerevoli: è pubblicata per i tipi del Centro Scientifico Editore, casa editrice “[f ]ondata e diretta da
medici”, che professa apertamente la “profondità della scienza, il rigore
del metodo” vantando – oltre alla produzione libraria – “format di ineccepibile qualità metodologica, andragogica, informatica e di contenuti”
per l’“Educazione Continua” dei professionisti.23 L’autore si situa nel fulcro dei campi accademico, clinico e giuridico essendo professore ordinario di Clinica Psichiatrica, direttore di una scuola di specializzazione in
Psichiatria, presidente della Società Italiana di Psichiatria Forense.
Il saggio esordisce con una definizione:
L’assassino dell’umanità (humanity murderer) è un soggetto che, attraverso
un’astuta manipolazione di gruppi sociali estesi e con pretestuose motivazioni etiche, religiose, economiche ecc., si rende responsabile di centinaia
e spesso migliaia e milioni di assassinii di persone innocenti (non solo
adulti maschi guerrieri, ma anche anziani, donne, bambini).
L’assassino dell’umanità manifesta un disturbo mentale legato a un patologico desiderio di distruggere la vita degli esseri umani. Questa definizione
[…] ha lo scopo di dare una base scientifica (psichiatrica e criminologica)
23
Si veda il sito dell’editore, <www.cse.it>, 4 agosto 2007.
LA PAZZIA DEL TIRANNO
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a espressioni diffuse in tutto il mondo e note come ‘tiranno crudele e sanguinario’, ‘criminale di guerra’, ‘criminale contro il genere umano’ ecc.24
Il tiranno appare subito come contrapposto all’umanità, sia dal punto di
vista del suo ‘programma narrativo’, sia tramite una più sfumata implicazione grammaticale, ovvero costituendo l’umanità, i gruppi sociali, le persone innocenti, la vita degli esseri umani e infine il genere umano come
genitivi oggettivi o oggetti diretti delle azioni intraprese dal “soggetto”.
Risulta particolarmente significativo il riferimento alla “manipolazione di gruppi sociali estesi” che situa il tiranno in una posizione complessa
e ambivalente tra estraneità e appartenenza alla società, nonché – come
vedremo – tra un’autarchia individualista e il necessario radicamento in
una struttura. Il despota pare in grado di indirizzare, con personale e precipua responsabilità, movimenti storico-sociali su grande scala senza essere però sensibile alle retroazioni che ogni sistema sociale comporta.
Inoltre la “astuta manipolazione” pertiene – l’autore sarà ancor più
esplicito nel prosieguo – alla sfera cognitiva delle alterazioni semiotiche
‘emanate’ dal codice tirannico: è tale presupposto, ben più della “base
scientifica”, ad autorizzare e validare la rappresentazione da parte di voci
altre rispetto a quelle dello stesso tiranno (silente o mendace) o del suo
popolo (tacitato o fuorviato).
Seppure venissero professate motivazioni “etiche, religiose, economiche,
ecc.” – ossia ascrivibili a quei fattori che abitualmente contribuiscono allo
spessore analitico di un discorso storiografico –25 esse vengono illico et immediate bollate come “pretestuose”: è al “disturbo” interno alla mente del
tiranno che bisogna ricondurre i fatti, e per la precisione a “un patologico
desiderio”; come già da Platone in poi, è al ronzio del ‘fuco’ interno alla
psiche individuale che si deve prestare attenzione per capire la tirannide.
Resta sospesa a due parole la contraddizione più vibrante che percorrerà l’intero testo: l’assassino “responsabile” ma affetto da un disturbo
mentale “patologico”. Il disegno che lega gli opposti è sottile come una
ragnatela, ma regge, anche perché costruito su una tradizione che – inesausta – ha invischiato nell’unitaria figura del tiranno (del folle) arbitrio e
determinismo.
24
Gian Carlo Nivoli, Assassini dell’umanità. La patologia mentale del tiranno, Torino:
Centro Scientifico Editore, 2003, p. 1.
25
Si sarebbe quasi tentati di dire con un po’ di candore: che contribuiscono allo spessore della realtà.
90 /
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Infine – alla luce del ruolo retorico dell’idea di Natura – si osservi la
ricorrenza di una terminologia che più o meno sotterraneamente allude
alla sfera biologica: “adulti maschi”, “disturbo”,26 “la vita degli esseri umani”, “il genere umano”.
Le espressioni che identificano il tiranno sono “note” e “diffuse in tutto il mondo”: la scienza salpa – come Foucault ha ben mostrato nel caso
della follia – dal porto sicuro della coscienza pronta a scandalizzarsi, da
un senso comune che si autoproclama tanto comune da essere universale;
ma l’umanità universale deve essere, naturalmente, pronta a difendersi
contro l’antiumanità.
La questione della referenzialità – chi sia un tiranno – è primaria, e il richiamo al senso comune appare in quest’ottica come uno snodo cruciale:27
In realtà, nella maggior parte delle culture dominanti, dopo un’adeguata
campagna informativa e una volta trascorso un opportuno intervallo di
tempo, utile a capire i fatti e a sedimentare le emozioni, le persone sono in
grado di formulare giudizi (soprattutto nei casi estremi) molto precisi e di
cogliere le differenze tra un ‘capo coraggioso’ e un ‘criminale sadico’ (p. 5).
L’abbondanza di clausole restrittive denuncia la fragilità epistemologica
della proposizione (quali saranno le “culture dominanti”?), per di più tendente alla tautologia: i presupposti del giudizio sono un’informazione
“adeguata” e il trascorrere di un tempo “opportuno”, i giudizi saranno
“molto precisi” nei “casi estremi”. Il tiranno, insomma, può essere riconosciuto come corpo estraneo e rifiutato solo quando il subentrare cronologico o politico di discorsi altri lo abbia reso estraneo, quando la sua posizione risulti estrema, ovvero ‘periferica’ (marginalizzata) nella sfera della
cultura vigente.
L’aporia è messa in risalto dal testo stesso, e inquadrata nella topica
del potenziale contagioso proprio della malattia mentale, oltre che in
quella del despota mistificatore: “La patologia mentale dell’assassino dell’umanità non sempre è chiaramente visibile e decodificabile dal popolo.
[…] Sollecitati, eccitati e manipolati, i cittadini non si rendono affatto
conto, all’inizio” della condizione di chi li governa, e si ritrovano affetti
da “una sorta di ‘cecità ai disturbi mentali del proprio leader’” (p. 65; corsivi miei). I sostenitori interni o esterni, come i cosiddetti “pacifisti crimi26
27
Disturbo: “Irregolarità o disordine nelle funzioni organiche” (Devoto-Oli).
Si pensi all’idea di giuria, istanza della pubblica coscienza, in SF, p. 382 e passim.
LA PAZZIA DEL TIRANNO
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nali” (pp. 79 sgg.), hanno un ruolo preciso: “si tratta di fiancheggiatori
non meno pericolosi” i quali impediscono che i tiranni siano “adeguatamente etichettati, isolati e messi di fronte alle loro responsabilità”; a ciò si
aggiunge “la manipolazione dei mezzi di comunicazione di massa, […] le
cui informazioni sono abilmente distorte” (p. 66).
6. Si registra in queste pagine un’oscillazione continua tra la presunta evidenza della tirannide, e la ‘nube’ cognitiva che il linguaggio del tiranno
riuscirebbe a sollevare; tra l’isolamento che dovrebbe caratterizzare il personaggio del tiranno, e la sua appartenenza a un sistema:28 un’anomalia
che punta ad annidarsi nel cuore della società.
Queste tensioni si traducono in figure di quasi paradossale specularità
tra il despota e le sue controparti. Quando non si può evitare di percepire
una serie di perturbanti somiglianze, esse vengono interpretate in chiave
di manichea simmetria: “Un’analoga associazione psicosociale di tipo piramidale, anche se di segno opposto, è quella formata dagli ‘uomini diavolo’ che predicano la guerra e l’omicidio” (p. 6). La forma piramidale
sintetizza la dialettica tra singolarità della causa prima (responsabilità individuale, circoscrizione massima dell’anomalia) e coalescenza del male; si
ammette un’analogia esplicita con le associazioni ‘normali’, ma si relega
nell’ambito ‘diabolico’ – un antiumano rovesciamento – chi compone
questo ordinamento.
Ritroviamo la logica noi/loro sottesa ad un’incongruenza altrimenti
patente: sarebbero “democratici” solamente
il 50 per cento dei regimi statali attuali. Tra la restante metà dei popoli che
non possono contare su un sistema rappresentativo reale […] [a]llo stato
attuale, nel mondo, non meno di una dozzina di leader potrebbero essere
considerati, dalla maggior parte dei mezzi di comunicazione di massa occidentali, come delinquenti e come despoti crudeli e sanguinari (p. 9).
In primis si noti come una distinzione preliminare escluda i regimi statali
democratici dal campo di ricerca in cui individuare gli “assassini dell’umanità”, mentre di fatto nulla sembra impedire che la patologia mentale
si manifesti anche in presenza di “un sistema rappresentativo reale”, o che
un personaggio con questa inclinazione – e con le capacità intrusive ad
28
Sebbene, per quanto possibile, tale appartenenza al sistema tenda a venir rimossa:
specialmente in quanto eventuale origine delle dittature. Si veda l’arringa finale dell’avvocato Rolfe in Vincitori e vinti (Judgment at Nuremberg, 1961).
92 /
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essa connesse – possa aver successo in simili contesti.29 In secondo luogo,
si confronti la valutazione sul ruolo manipolatorio dei “mezzi di comunicazione di massa” riportata supra (appartenente ad una pletorica catena di
affermazioni in tal senso, dipanata per l’intero testo) con la scelta, come
pietra di paragone, proprio dei “mezzi di comunicazione di massa”, qui
indicati però come “occidentali”: da un lato o dall’altro dello specchio lo
strumento è il medesimo ma ciò che ‘laggiù’ offusca, ‘qui’ invece rivela.
L’ottimistico appello al senso comune delle “persone”, peraltro mai
smentito direttamente nella sua validità, va quindi affiancato dalla consapevolezza di star fronteggiando un potere che acceca e nasconde: nonostante le affermazioni programmatiche sulla visibilità del fenomeno, l’autore
deve amaramente riconoscere “quanto gli assassini dell’umanità riescano a
mascherare la loro criminalità e la loro patologia non solo in vita, ma anche, e spesso per anni e anni, dopo la loro morte”.30 Ecco dunque la necessità di occhi e voce scientifici affinché le “patologie mentali […] direttamente e obiettivamente constatate da professionisti nel campo specifico”
(p. 30) emergano “attraverso le [proprie] manifestazioni obiettive” (p. 44).
Il semantema chiave è obiett[iv]-, così insistito da far sospettare che
convivano in sovrimpressione i significati relativi alla datità fattuale di un
(complemento) oggetto, al dispositivo ottico che fornisce un’immagine –
piana e rovesciata –, ai bersagli delle operazioni militari.
Nell’ossessione panottica di ‘smascherare l’evidente’, nell’idea manichea di una ‘piramide diabolica’, e – soprattutto – nell’accento posto sulla
pericolosità degli ‘onnipresenti fiancheggiatori’ e delle ‘informazioni astutamente distorte’: in tutto ciò la techné interpretativa che ambisce ad affiancare e guidare il giudizio pubblico (o politico, nei termini di amico/nemico) si apparenta alla paranoia che tanto di frequente caratterizzerebbe i tiranni; è l’ennesima corrispondenza che giunge a suggerire come
esclusione ed esecrazione siano fondate sulla rimozione e proiezione di
elementi – per così dire – oriundi.
L’abilità di manipolazione intellettuale che contraddistingue il despota
è invocata pure per affrontare il nodo dell’articolazione tra follia e colpa:
29
Anzi: emblematico il caso di Hitler, che pure per Nivoli è – con Stalin – paradigma
del tiranno.
30
L’asserzione che gli assassini dell’umanità “riescano” a fare qualcosa “dopo la loro
morte” è straniante: nel disagio linguistico trasmesso dall’espressione si intuiscono i limiti
di una concezione che accentra nell’individuo ogni responsabilità, a scapito della portata
sociale dei processi.
LA PAZZIA DEL TIRANNO
/ 93
“gli assassini dell’umanità non solo sono, nella maggior parte dei casi, sani di mente in senso giuridico, ma addirittura intellettualmente così abili
da manipolare immense folle e addirittura, in una nazione, grandi numeri di cittadini ingenui, creduloni e suggestionabili” (p. 7). La sanità di
mente giuridica sembra costituirsi con uno scarto netto rispetto a quella
psichiatrica: la costruzione “non solo [...] ma addirittura” ne fa una sottocategoria logica, pressoché un’implicazione, di un’intelligenza efficace
unita alla cattiva volontà (si osservi anche il patetismo degli aggettivi che,
di contro, connotano i cittadini vittime dell’astuzia tirannica).
La sanità giuridica viene insomma accompagnata, forse persino corroborata, da una diagnosi inappellabile di patologia mentale: come è possibile che il testo si regga su questa discrasia? È possibile perché essa viene posta su un piano non logico ma ideologico, e gestita con strumenti retorici
e narrativi affinati da secoli: la maschera, il personaggio, il carattere del tiranno e del folle. “Purtroppo la storia e le conoscenze psichiatriche dimostrano che ci sono anche ‘papà cattivi’ e cioè capi di stato e di grandi gruppi sociali che si sono rivelati corrotti, violenti, criminali e assassini, e anche
psichicamente malati” (p. 11): “e anche” colloca il climax del vizio morale,
sociale, legale e umano a una distanza intima dalla malattia psichica, che
infine si presenta quasi come un accessorio della serie; ma già la sola locuzione “papà cattivi” disegna un ritratto umano – essenziale eppure vivido –
che precede più che seguire ogni valutazione scientifica o storica.
La fusione tra patologia e carattere (o character) viene esplicitamente
portata a compimento e generalizzata, nel delineare “una struttura della
personalità che incoraggia il soggetto a compiere omicidi”:
L’assassino dell’umanità è, in concreto, incline a uccidere, indipendentemente dalle motivazioni che lo muovono, così come sono propensi a dare
la morte l’omicida di massa (mass murderer), l’omicida seriale (serial killer), l’omicida orgiastico (spree killer), l’autore del suicidio allargato (enlarged suicidal) ecc. […] Tale cifra, che costituisce una vera e propria patologia specifica, è sempre presente in tutti gli assassini dell’umanità (pp. 5-6).
La “patologia specifica” è un’inclinazione, una propensione che “incoraggia” il soggetto: indole non emendabile, forma o ‘piega’ (in)naturale dell’anima, essa non esime in alcun modo dalla colpa perché in ultima analisi è una colpa.
Il tiranno viene identificato – “indipendentemente dalle motivazioni
che lo muovono” – grazie all’evocazione di una galleria di personaggi ap-
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partenenti all’immaginario collettivo almeno quanto alla criminologia: il
risalto così acquisito dalla figura dello humanity murderer e la sua concepibilità “in concreto” hanno più a che vedere con Hollywood o con gli
articoli di nera che con la tassonomia medica.
7. Il testo arriva ben presto ad esuberare la dimensione teoretica, per proporsi una vera e propria missione performativa: “attribuire una fisionomia, e soprattutto precise responsabilità, a questi assassini dell’umanità
per riconoscerli, ricercarli e neutralizzarli” (p. 9). Difficile sottovalutare la
forza illocutoria di questa frase. Si attribuisce una fisio-nomia col fine dichiarato di riconoscere, ricercare, neutralizzare: ecco la funzione della medicina, “obiettivamente” individuare e radicare nella physis il marchio della follia tirannica, quello che è stato – quanto significativamente! – definito come una “cifra”; si sposta l’analisi dal piano sociopolitico a quello
individuale e biologico.
Ma sotto la pelle della malattia, coerentemente con la storia genealogica della follia, traspare la macchia della colpa: il fatto di “attribuire [...]
precise responsabilità” non segue, bensì anticipa il riconoscimento del
criminale; dove ci aspetteremmo una condizionale (se è possibile attribuire responsabilità, allora si riconosce la colpa) troviamo una coppia principale/finale con ribaltamento dell’ipotassi (si attribuisce una responsabilità
per riconoscere). Abbiamo già incontrato tale schema, pur mimetizzato
nell’innocenza apparente della paratassi: “etichettati, isolati e messi di
fronte alle loro responsabilità”, ove il termine “isolati” allude assieme all’attuazione pratica di un bando e all’operazione ermeneutica31 di identificazione/astrazione (abs-trahere).
Anche la sequenza riconoscere/ricercare/neutralizzare contiene una variatio tutt’altro che innocente. Mentre i primi due termini sono legati al
terzo da una logica di (non mera) successione, essi costituiscono invece
una coppia alternativa: infatti se ho già riconosciuto non ho bisogno di
ricercare; ma qualora venga a mancare il riconoscimento di una realtà
preesistente, si passa alla ricerca attiva, predisposta a sfociare nella creazione e iterata ri-creazione.
La “neutralizzazione” richiama l’idea di cura ben indicata dalle parole
di Foucault: la “quasi-identità del gesto che punisce e di quello che guarisce […] l’astuzia della ragione medica che fa il bene facendo soffrire” (SF,
31
Isolare: “In medicina, identificare l’agente patogeno di una malattia” (Devoto-Oli).
LA PAZZIA DEL TIRANNO
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p. 91). Ci si approssima per questa via alla ‘cura democratica’, alla giustificazione delle sofferenze delle popolazioni civili in nome di una terapia
volta a sanare la tirannide in quanto malattia politica.
La malattia mentale del tiranno invece non pare guaribile perché connaturata. Nella “neutralizzazione” intravediamo infine la convergenza tra
diversi elementi del ritratto del tiranno folle verso un punto focale, per
quanto celato da eufemismi ed ellissi: l’uccidibilità del tiranno.32 Egli è un
elemento estraneo al corpo sociale, che vi si è intimamente annidato: va
estirpato. Il suo arbitrio lo rende imprevedibile, incontrollabile, pericoloso come una bestia feroce; come una belva egli è assoggettato (a differenza dell’animale, si è assoggettato) al determinismo naturale che lo rende
irredimibile, alla meccanica della patologia mentale.
La sua condizione – obiettivamente riscontrabile dal senso comune,
specie se indirizzato da una voce scientifica – lo pone al di fuori del genere umano, relativizzando così i dilemmi etici sulla sua sorte; non si dimentichi poi che egli è responsabile, che il suo stato è una colpa: neutralizzarlo è solo ‘metterlo di fronte alle sue responsabilità’.
L’opera procede tracciando il profilo di due esemplari assassini dell’umanità, Stalin e Hitler.33 L’argomentazione si sviluppa sulla falsariga di
quanto premesso nella sezione teorica, quindi non è il caso di addentrarsi
in un territorio ormai battuto, per quanto comunque fertilissimo in virtù
della messe di topoi e calchi molto riconoscibili prelevati di peso dalla tradizione letteraria classica, medievale e moderna.
Ciò che più premeva in queste pagine era tracciare i percorsi di lungo
periodo che hanno condotto due distinte rappresentazioni ad intrecciarsi
dopo una storia di somiglianze sommerse e incroci fugaci; riconoscere
modalità fondative comuni a entrambe, sintomatiche dei più generali
processi culturali che concernono la formazione dell’identità o la soluzione ‘mitogrammatica’ di contraddizioni e attriti interni; comprendere in
uno scenario più ampio retoriche ancora attuali.
32
Cfr. Giorgio Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Torino: Einaudi,
1995.
33
Interessante che un testo animato da inequivoca urgenza verso il presente (“allo stato
attuale, nel mondo”; “riconoscerli, ricercarli e neutralizzarli”) scelga esempi storici ormai
‘in giudicato’, specialmente nel senso comune; che inoltre – nel proprio orientamento
performativo – faccia implicito riferimento ai dittatori delle prime pagine contemporanee, situati per lo più tra vicino, medio ed estremo Oriente (si noti: “culture dominanti”,
“mezzi di comunicazione occidentali”), ma si trovi costretto a proporre come casi principe
due membri di culture indubbiamente dominanti, nonché ‘piuttosto europee’.
96 /
GABRIELE BUGADA
In questa prospettiva non si è voluto considerare il saggio di Nivoli in
quanto campione da cui trarre ipotesi induttive, ma neppure come fenomeno singolo e singolare: esso va invece letto come una testimonianza del
fatto che – ‘oggi’, ‘qui’ – semplicemente è possibile elaborare e immettere
nello spazio pubblico (nelle sfere dell’opinione, della scienza, della medicina, del diritto) determinate proposizioni e proposte; ciò che si è voluto
indagare erano le condizioni culturali di tale possibilità.
Resta aperto l’interrogativo che proprio queste condizioni ci pongono:
se la maschera del tiranno riflette lo sguardo che la impone, che cosa ci
raccontano su di ‘noi’ questi ritratti di dittatori, contemporanei tiranni?
Di chi parliamo scrivendo di “pretestuose motivazioni”, di “migliaia e milioni di assassinii di persone innocenti”, di cittadini “sollecitati, eccitati e
manipolati”, di “manipolazione dei mezzi di comunicazione di massa”, di
capi “corrotti” o “criminali”? Le democrazie sono immuni dal circolo di
paura, controllo, coercizione e violenza che contamina e rende folle il potere tirannico? Affrontare il tiranno, ma messi di fronte alle proprie responsabilità: perché talvolta il nemico incarna non solo le nostre domande, ma quelle che già sono le nostre risposte.
Per concludere si può ricordare uno di quegli episodi testé definiti incroci fugaci, nelle parole con cui l’insigne umanista del XVI secolo Francisco de Vitoria (teologo, giurista, professore universitario) – dopo aver demolito come ingiustificate le guerre allora condotte in America – ammetteva la possibilità di ‘guerre giuste’ per proteggere gli innocenti dalla tirannia dei capi:
Benché questi barbari non siano affatto pazzi, non sono tuttavia lontani
dalla follia. [...] Non sono più capaci di governarsi da sé di quanto lo siano i pazzi, gli animali e le bestie feroci, visto che il loro cibo non è più
gradevole, ed è appena migliore, di quello delle belve.34
La fondazione dell’Occidente atlantico risiede anche nell’idea – e nella
pratica – dello sterminio giusto, quello che mira a riscattare l’altro dalla
tirannia, dalla barbarie, dalla follia, dalla bestialità (insomma, dalle proprie proiezioni di alterità) muovendo nell’angusto margine che divide o
lega salvezza e annichilazione.
34
Francisco de Vitoria, De Indis (1538), cit. in Tzvetan Todorov, La conquête de l’Amérique. La question de l’autre (1982), trad. it. di Aldo Serafini, La conquista dell’America. Il
problema dell’‘altro’, Torino: Einaudi, 2002, pp. 180-82.
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