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La Pazzia di Dio
Adelio G. Pellegrini
La pazzia
di Dio
A mia madre
che mi ha trasmesso l’amore per la Parola di
Dio
a mia moglie Dora
compagna nell’avventura della fede
e ai miei figli Stefano e Daniele
affinché la tradizione possa continuare
«Grande è il mistero della pietà: Colui che è stato
manifestato in carne…»
San Paolo
«...finché siamo quaggiù, ci è necessario sempre
cercare...»
UGO da san Vittore † 1141
De Sacramentis christianae fidei
II, XIV, c 9; P.L,. 176,570
«Il vero perdono del peccato non è la
cancellazione di un debito, ma la ricostruzione di
tutto ciò che il peccato ha distrutto in noi: la
nostra fede e il nostro amore».
Louis EVERLY
Oser parler, ed. le Centurion, Paris 1982, p. 140
«La verità progredisce. Noi dobbiamo camminare
con essa in una luce crescente. Nessuno può dire
che non ci siano più verità da scoprire, che tutte le
nostre conoscenze della Bibbia siano senza errori
e che non vi sia più niente da scoprire nel campo
della verità. L’età non ha nulla a che vedere col
fatto che un’affermazione sia vera o sia falsa. La
verità deve progredire. Nessuna dottrina vera ha
qualcosa da perdere in seguito a una ricerca in
profondità. Dio disapprova quelli che pretendono
essere i guardiani della dottrina».
Ellen WHITE 1827-1915
Writers and Editors
«Senza scusa è colui che pretende che nessuna
nuova verità sarà rivelata e che tutte le nostre
spiegazioni della Scrittura siano senza errore. Il
fatto che certe dottrine siano state considerate
come vere per numerosi anni dal nostro
movimento non è una prova che le nostre idee
siano infallibili».
Ellen WHITE
Rewiev and Herald 20/12/19
«Abbiate in voi lo stesso sentimento che è stato in
Cristo Gesù; il quale essendo in forma di Dio non
reputò rapina l’essere uguale a Dio, ma annichilì
se stesso, prendendo forma di servo e diventando
simile agli uomini; ed essendo trovato
nell’esteriore come un uomo, abbassò se stesso,
facendosi ubbidiente fino alla morte, e alla morte
della croce. Ed è perciò che Dio lo ha
sovranamente innalzato e gli ha dato il nome che è
al di sopra d’ogni nome, affinché nel nome di Gesù
si pieghi ogni ginocchio nei cieli, sulla terra e
sotto la terra, e ogni lingua confessi che Gesù
Cristo è il Signore, alla gloria di Dio Padre».
San Paolo
Il presente lavoro vuole essere una critica a un pensiero tradizionale e storico che spiega la
morte di Gesù, dando al Padre un volto che non corrisponde a come lo presenta il vangelo.
Sono troppi i pastori, i sacerdoti, i religiosi in genere e i credenti che spiegando la morte di Gesù
ripetono quanto ascoltato nel passato senza verificare se quanto dicono e la conclusione del
ragionamento corrisponde alla Parola di Dio.
A causa del peccato commesso dai nostri progenitori, Adamo ed Eva, l’umanità
ha perduto l’Eden. Molti, troppi, credono che per salvare l’uomo, e questo
pensiero ci sconcerta, Dio o/e la Legge o/e la Giustizia, abbia avuto bisogno
della morte dell’innocente e ne abbia programmato l’esecuzione. Per
conseguire questo scopo ha avuto bisogno che la sua creatura, l’uomo, alla sua
ribellione dell’origine, aggiungesse il crimine dell’oppressione del Figlio di
Dio.
Siamo consapevoli che quanto scriviamo può essere criticato, non riteniamo neppure di avere
spiegato tutto, ma ci auguriamo che quanto verrà letto possa essere uno stimolo ad andare oltre.
INTRODUZIONE
Se si chiede a un occidentale perché Gesù è morto, la risposta, nella quasi totalità dei casi, come risultato
di reminiscenze catechistiche di un lontano passato, è: «per salvarci». Qualcuno, tuttalpiù, potrebbe aggiungere,
con un certo sforzo: «dai nostri peccati». Ma se si dovesse insistere e si chiedesse che cosa comporti questa
salvezza nella vita quotidiana e che cosa sia il peccato, la risposta diventa di difficile formulazione, perché il
presente non ha una vera relazione con quanto avvenuto al Golgota, e il peccato non si sa più che cosa sia. La
nostra società pseudocristiana parla, celebra, ricorda, ripete, settimana dopo settimana, la tragedia del Calvario
come qualcosa che non la riguarda e della quale non sa più che farsene. La croce è oggi come un vecchio
costume che si indossa, in certi momenti e per certe occasioni, del quale però si è perso il significato originario,
ma lo si porta ugualmente quale maschera, a ricordo di un folklore del passato, al solo scopo di conservare una
tradizione forse cara agli antenati.
Per gli apostoli la croce, sebbene fosse considerata dai giudei motivo di scandalo e dai greci pazzia,
costituiva la ragione della loro predicazione (1 Corinzi 1:21,23). Essa, per contro, è ora diventata un ornamento,
anche sfarzoso, da mettersi al collo e da appendere nelle case, oppure serve da arredamento in qualche luogo
pubblico e nelle sale adibite al culto. Ha perso le sue funzioni di segno della “potenza” e della “sapienza” di Dio
(1 Corinzi 1:24) per una umanità che ha sempre bisogno di un liberatore.
Che cosa ha determinato questo cambiamento di mentalità? Sono diverse le cause alle quali, in questi
ultimi tempi, si è aggiunta anche la teoria dell’evoluzione, generalmente creduta o, meglio, passivamente subita.
Per chi l’accetta, Gesù non è più il Salvatore di una umanità caduta, ma è il prototipo, il tipo compiuto di una
razza in marcia verso un radioso avvenire, termine ultimo di una evoluzione irreversibile. Ma la realtà è ben
diversa, perché invece di ascendere, malgrado le conquiste e gli splendori del nostro secolo, di evolvere di
progresso in progresso, l’umanità involve, degenera da morte a morte, da sofferenza a sofferenza, da oppressione
a oppressione, da miseria a miseria.
Per la stragrande maggioranza degli uomini moderni la morte innocente di Gesù non ha un valore
maggiore di quella di altri martiri o eroi della storia. Ora, sebbene la persona e l’insegnamento di Gesù di
Nazaret emanino una forza spirituale senza pari in tutta la storia e nessuno ancora sia riuscito a imbrigliarla e a
orientarla a proprio piacere, nonostante che alcuni tecnici dell’oratoria e dell’immaginazione da oltre due secoli
si siano specializzati nel tentativo di negare la storicità del vangelo e, pur essendo la nostra società etichettata
con l’appellativo “cristiana”, l’annuncio che reca la buona novella continua a essere sconosciuto. Cosi il
sacrificio di Cristo Gesù non ha più valore per una società sempre più orientata verso l’elettronica. Eppure in Lui
l’umanità si è incontrata a faccia a faccia con l’Iddio vivente, con il suo Creatore che, nella volontà di offrirle
nuovamente la vita perduta, ha messo in gioco la propria eternità.
Ma la natura del peccato è tanto forte che l’uomo è arrivato ad accettare, come elementi naturali, perfino
la morte e la sofferenza: anzi, partendo dalla constatazione degli squilibri esistenti nella realtà umana, arriva a
negare l’amore di Dio. Spesso ci si domanda: «Se, secondo il luogo comune, Dio è sommo bene, come può
permettere l’esistenza del male? Il male esiste, quindi Dio non è buono perché non ha fatto nulla per cambiare
tale situazione».
Il male è un mistero di per se stesso, una realtà che sfugge a qualsiasi ragionamento, a qualsiasi logica e,
qualora potesse essere spiegato, trovando la sua ragione d’essere e quindi la sua giustificazione, cesserebbe di
essere male. Sebbene la Sacra Scrittura proietti un fascio di luce sull’origine e l’artefice del male (Isaia 14:1215; Ezechiele 28:12-19) pur tuttavia ci dice che si tratta di un «mistero» (1 Tessalonicesi 2;7). Dio stesso nella
sua rivelazione non ha trovato nel linguaggio degli uomini le espressioni per spiegare il male, la sofferenza e il
dilemma della morte. Il Signore non presenta nessuna espressione verbale come soluzione della tragedia che
coinvolse la creazione, la sua sola risposta è: l’«Emanuele» cioè «Dio con noi», Gesù chiamato il Cristo. Dio non
tiene nessuna conferenza dall’alto dei cieli e, più che dare delle spiegazioni, si presenta in prima persona su
questa nostra terra non indossando semplicemente i nostri abiti, ma facendosi carne della nostra carne (Ebrei
2:14) definito dal tempo e dallo spazio, per subire il male con noi e come noi, per vincerlo e per offrirci la sua
vittoria affinché essa diventi il nostro trionfo. Gesù di Nazaret, l’Eterno che scende tra gli uomini, viene a
vincere la nostra sofferenza, la nostra morte, cioè il nostro peccato. E’ questa la risposta di Dio alle nostre
angosce. Egli non tiene nessuna lezione dalla cattedra dei cieli, non ci rivolge nessun discorso di sapienza, ma
viene in mezzo a noi, si abbandona nelle nostre mani, sale sul Calvario e come noi grida: «Dio mio, Dio mio,
perché mi hai abbandonato?» Matteo 27:46; Salmo 22:1.
Al dramma della sofferenza dell’uomo, Dio risponde vivendo la croce. Paul Claudel scrive: «Gesù di
fronte al male non dà delle spiegazioni, ma fa sentire la sua presenza. Non distrugge la croce, vi si distende
sopra».1
Leonard Boff da parte sua dice: «La croce deve essere intesa come solidarietà di Dio che ha assunto il
cammino del dolore umano, non per eternizzarlo, ma per sopprimerlo. Il modo in cui vuole sopprimerlo non è né
la forza né la dominazione ma l’amore».2
La croce rivela l’amore di Dio che mediante l’incarnazione dimostra di rendersi così solidale con
1
2
CLAUDEL Paul cit. da ROULLET Yvan, Non Dieu n’est pas mort, éd. Vie et Santé 1986, p. 187.
BOFF Leonard, Passione di Cristo - passione del mondo, ed. Cittadella, Assisi 1978, p. 150.
INTRODUZIONE
l’umanità da non sottrarsi in nulla a tutto ciò che la forza devastante del male provoca agli uomini.
Sì, il male è un problema, è un cancro che sconcerta. Ma in contrapposizione a questo mistero che causa
desolazione ne abbiamo un altro, più grande, infinito, che più si approfondisce, più appare incommensurabile,
dando un senso di vertigine e di stupore, tanto è eterno: è il mistero dell’amore di Dio, del Dio vivente e vero che
scende sulla terra e sale sull’altare della croce.
Se il mistero del male è grande, incomprensibile e porta diversi uomini ad accusare la divinità dello
squilibrio che causa, la realtà storica del Dio fatto uomo e la sua crocifissione è un mistero ancora più profondo,
più alto e senza confini. Più lo si approfondisce, più il nostro orizzonte si allarga e lascia scorgere la dimensione
senza limiti di questo amore, che è volontà di vivere accanto a noi. L’Eterno è sceso tra gli uomini; questo vuol
dire che Egli è entrato nella prigione che l’umanità si è scavata su questo granello dell’universo e si è messo a
camminare nel deserto infuocato di questo mondo per venire a manifestare a tutte le creature dell’universo: «Ti
amo di un amore eterno» Geremia 31:3. Non è venuto a occupare il nostro posto, ma è venuto a vivere con noi e
accanto a noi, come uno di noi vive accanto all’altro. E affinché nessuno potesse dire che Egli era grandemente
fortunato perché era il Figlio del Padrone, non è nato in un palazzo sontuoso e non ha fatto una bella morte. Lui
che avrebbe potuto disporre di tutto è venuto tra noi da povero, non disponendo di nulla e bisognoso di tutto e
di tutti. Nato senza casa, è cresciuto sfamandosi con il lavoro delle sue mani e, dopo aver operato per il bene,
punito ingiustamente, sul monte del teschio ha detto: «Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno»
Luca 23:34. Il Dio onnipotente subisce tutto questo per vincere il male, il nostro peccato, non con la sua forza
bensì con la sua debolezza, con la sua morte.
La croce del Golgota è la manifestazione più completa per far comprendere all’umanità che è veramente
amata da Lui. Se su quella croce non scorgiamo niente altro che un innocente o un martire o un eroe che muore
e non una persona della Divinità che è scesa tra di noi, vuol dire che viviamo ancora, come purtroppo la
maggioranza vive, nel disorientamento esistenziale e continuiamo ad andare alla ricerca del perché della vita,
perduti nel silenzio di Dio, essendo noi stessi un mistero per noi.
In Gesù, l’Eterno, il Creatore (Ebrei 1:2; Colossesi 1:15-17; Giovanni 1:1-3) è sceso tra le sue creature
«Il volto dell’inesplorabile Eterno, che nessun uomo ha visto né può vedere (1 Timoteo 6:16), in Gesù è reso
accessibile all’uomo e gli parla “a faccia a faccia, come un uomo parla col proprio amico”» Esodo 33:11.
La filosofia può portare l’uomo a pensare che Dio esiste; il dio-idea di Platone; la natura può presentare
all’uomo l’esistenza di un “creatore”; il dio primo motore di Aristotele, ma in tutte queste tesi il concetto che si
può ricavare è sì quello di un dio potente, ma che rimane purtroppo silenzioso, impersonale, sperduto egli stesso
nel suo universo. Ciò di cui l’umanità ha bisogno è il Dio di Abrahamo, di Isacco e di Giacobbe che esce
dall’eternità e scende sulla nostra terra ed entra nel tempo. In Cristo Gesù l’umanità incontra l’Eterno sul terreno
della propria storia così difficile, contraddittoria e così poco spiegabile. E in questo suo venire tra gli uomini
come loro simile, l’umanità può scoprire l’amore stesso del Padre, vedere il Padre (Giovanni 14:9,10) e capire
che l’Eterno vuole servire gli esseri creati e non essere da loro servito (Matteo 20:28). Il Signore dell’universo
dimostra questo non facendo inginocchiare gli uomini davanti a sé, ma inginocchiandosi Lui davanti a loro per
lavare e asciugare i loro piedi dopo una giornata di cammino sulle strade sporche di Gerusalemme (Giovanni
13:5). E nella camera alta, dove i discepoli sono attorno a Gesù, l’umanità può abbandonare le concezioni che si
è fatta su Dio e scoprire che l’Eterno è Padre.
La personalità di Cristo Gesù impone all’uomo razionale una scelta tra due posizioni opposte:
- ridere di Lui che, uomo, pretende di essere l’Eterno;
- inginocchiarsi davanti a Lui e adorarlo (Giovanni 20:28).3
3
Vogliamo riportare una pagina di DOUGLASS Klaus, Gioia di credere, ed. Claudiana, Torino 1999, pp.102,103: «A Gesù non
interessava che noi credessimo come lui, interessava che credessimo in lui. A lui dobbiamo andare, quando siamo affaticati e oppressi
(Matteo 11:28). Le nostre testimonianze, le nostre azioni, la nostra vita intera devono essere centrate su di lui: “Chi mi riconoscerà davanti
agli uomini, anch’io riconoscerò lui davanti al Padre mio che è nei cieli” (Matteo 10:32). “Chiunque riceve uno di questi bambini nel nome
mio, riceve me” (Marco 9:37; confr. Matteo 25:40,45). “Chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà” (Matteo 10:39).
Tale esigenza si accompagna a un’opinione estremamente critica che egli ha dei suoi contemporanei: “Voi siete figli del diavolo”
(Giovanni 8:44). “Peccatori”: ecco cosa sono gli altri esseri umani per Gesù; egli però non si ricomprende sotto tali affermazioni: “Chi di voi
mi convince di peccato?”; “Io sono proceduto e vengo da Dio” (Giovanni 8:46,42).
Ecco il problema: da una parte troviamo un’alta considerazione di Gesù ampiamente diffusa, dall’altra troviamo in Gesù una
tendenza ad avere delle pretese che confinano con la megalomania. Qui non c’è assolutamente nessun collegamento tra il cristianesimo e le
altre religioni, e non vi sono neppure paralleli. C.S. Lewis scrive: “Se foste andati dal Buddha e gli aveste chiesto : ‘Sei tu il figlio di
Brahma’?, egli avrebbe risposto: ‘Figlio mio, tu vivi ancora nelle valle dell’illusione’. Se foste andati da Socrate e gli aveste chiesto: ‘Sei tu
Zeus?’, egli avrebbe a sua volta domandato: ‘Che cosa intendi per Zeus?’. Se foste andati da Maometto e gli aveste chiesto: ‘Sei tu Allah?’,
egli si sarebbe come prima cosa stracciato le vesti e poi vi avrebbe tagliato la testa. Se aveste domandato a Confucio: ‘Sei tu il cielo?’,
probabilmente egli avrebbe risposto: ‘Osservazioni che non sono in armonia con la natura sono di cattivo gusto’ Gott auf der Anklagebank, p.
95”.
Nessuno dei grandi maestri di morale di questo mondo si è, anche solo lontanamente, attribuito qualcosa di simile a ciò che Gesù ha
detto di se stesso. Siamo piuttosto abituati a sentire parole del genere dalla bocca di despoti come Ceaucescu o Adi Amin. Veramente solo un
invasato o un impostore possono esprimersi così; a meno che non si tratti davvero di una persona che è effettivamente qualcosa di diverso
dagli altri esseri umani, in quanto la sua esistenza può essere spiegata effettivamente solo a partire da Dio, e non partendo dalla realtà umana.
Se noi prendiamo sul serio le parole di Gesù, ci troviamo davanti a una sconvolgente alternativa: o Gesù era un invasato o un impostore,
oppure, come egli afferma di se stesso, era un “Dio disceso in terra”.
La pazzia di Dio
8
INTRODUZIONE
Non c’è alternativa. O Gesù è l’Eterno, o è il suo e nostro nemico; non c’è una terza possibilità per chi
riflette. O Gesù è Dio, e quindi possiamo accettare la sua parola come verità (Giovanni 14:4), o è il suo
oppositore, il padre della menzogna, il principe di questo mondo (Giovanni 14:30). Sì, o Gesù è Dio o è Satana
travestito.
Di fronte al fenomeno Gesù non si può restare neutrali, tanta è la forza che emana dalla sua figura. Si può
rifiutarlo, ma non si può restare indifferenti.
Ernest Renan, all’età di quarant’anni, nella sua Vita di Cristo scriveva: «Taluni vorrebbero fare di Gesù
un saggio, tal altri un filosofo, qualcuno un patriota, qualcun altro un uomo dabbene; molti un moralista, altri un
santo. Egli non fu niente di tutto questo. Fu un incantatore».4
Ma alla fine della sua vita, Renan, contemplando il Gesù di Nazaret del quale aveva negato in precedenza
la divinità e pur criticando l’autenticità dei miracoli come i vangeli li riportavano, prorompe in questa
invocazione: «Quale prodigio! Colui che vuole tracciare l’ideale della virtù e del sublime non può che prendere
in prestito i suoi tratti da Gesù... Il razionalismo più dichiarato retrocede davanti alla sua critica e io non posso
guardarlo che in ginocchio... O Gesù illuminami, tu verità, tu vita.... Oh, dimmi chi tu sei!».5
E ancora: «Io soffro, o Gesù, di aver sollevato il tuo problema troppo pesante per me, poiché io non sono
che un uomo e tu sei qualcosa di più. Dimmi dunque chi sei!».6
L’illuminista Jean Jacques Rousseau così riconosceva: «Se la vita e la morte di Socrate sono di un saggio,
la vita e la morte di Gesù Cristo sono di un Dio. Diremo che la storia del vangelo è inventata a piacere? Amico
mio, non è così che si inventa; e i fatti di Socrate, di cui nessuno dubita, sono meno attestati di quelli di Gesù
Cristo. In fondo è allontanare la realtà senza distruggerla. Sarebbe più inconcepibile che parecchi uomini insieme
abbiano fabbricato questo libro piuttosto che uno solo ne abbia fornito il soggetto. Mai gli autori Giudei
avrebbero trovato questo tono, questa morale; e il vangelo ha dei caratteri di verità così grandi, così sorprendenti
cosi perfettamente inimitabili, che l’inventore sarebbe più straordinario dell’eroe».7
Come l’idea di Dio - scrive il teologo Neander - non può essere un prodotto spontaneo della nostra
intelligenza limitata, e non si spiega che tramite una rivelazione di Dio all’umanità, cosi l’immagine di Cristo
non sarebbe potuta nascere nella coscienza dell’uomo peccatore, e suppone necessariamente una realtà
corrispondente. Questa realtà è la vita, è la rivelazione di Gesù Cristo».8
Da quale mente umana poteva essere generata la folle idea di un Dio che si inginocchia davanti agli
uomini e li serve? Quale fervida immaginazione avrebbe saputo creare un Dio che si fa uccidere dalle sue
creature? Quale indovino avrebbe potuto rivelare in anticipo decine di situazioni estremamente specifiche come
quelle annunciate secoli prima nelle Scritture riguardo a Gesù?
Nel II millennio a.C. fu profetizzato:
- discenderà da Abrahamo, Isacco e
Genesi 12:3; 22:18; 26:4; 29:14;
Giacobbe e verrà dalla tribù di Giuda:
Matteo 1:1-16
- i re cospireranno per la sua morte:
- risusciterà dai morti, l’Eterno non permetterà la decomposizione del suo corpo
- sarà elevato alla destra dell’Eterno:
Nel X sec. a.C.
Salmo 2; Luca 23:12
Salmo 16:10; Matteo 28:26; Atti 2:27,3032
Atti 2:33,34
- proviene dall’eternità:
- nascerà a Betlemme:
- un precursore gli preparerà la strada:
- le popolazioni di Zabulon e di Neftali
Nell’VIII a.C.
Michea 5:1; Giovanni 1:1
Michea 5:1; Matteo 2:1
Isaia 40:3 Matteo 2:1
Isaia 8:33; Matteo 4:12-16
Le reazioni della gente del tempo corrispondevano a questa alternativa: odio o entusiasmo, spavento o ammirazione; non era
possibile una neutrale benevolenza: di fronte a quella pretesa sarebbe stata semplicemente inadeguata. Un atteggiamento di benevolenza
neutrale nei confronti di Gesù è completamente impraticabile. Di fronte alla sua pretesa, o si diventa discepoli che lo seguono e lo adorano, o
ci si schiera con quelli che vogliono liquidarlo perché una simile pretesa è insopportabile.
Ritengo impossibile vedere in Gesù semplicemente un uomo buono ed esemplare, un maestro di morale. Un simile giudizio è segno
che non ci si è dato la pena di leggere la Bibbia per considerare attentamente ciò che quest’uomo ha affermato di se stesso. Malgrado tutto
quello che si può rimproverare ai farisei, bisogno ammettere che essi almeno l’avevano capito, l’avevano preso sul serio nella sua pretesa, e
l’avevano trovata insopportabile. Gesù è partito dal presupposto di essere qualcosa di diverso di un uomo normale.
Quello che sviluppa tale pretesa di Gesù nel modo più impressionante e nello stesso tempo più doloroso è il Vangelo di Giovanni. Se
lo leggete senza pregiudizi, vi accadrà una di queste due cose: o sarete terribilmente irritati di fronte a questa pretesa, che incontrerete quasi a
ogni pagina, e vi accadrà quindi ciò che lo stesso Vangelo racconto in 6:66-69: le persone si tirarono indietro, irritate o spaventate; oppure
date ascolto a Gesù, come fanno i discepoli, e cominciate a credere in lui».
4
RENAN Ernest, Vie de Jésus, livre de poche, XIII ed. 1965, p. 27.
5
RENAN Ernest, Essai psycologique, in Revue de Paris, 15 sept. 1920.
6
cit. da CADIER A., Introduction au Nouveau Testament, p. 18.
7
ROUSSEAU Jean Jacques, Emile, p. 36.
8
NEANDER Johann-August-Wilheim, Vie de Jésus, t. I, pp.21,22.
La pazzia di Dio
9
INTRODUZIONE
vedranno una grande luce:
- nascerà dalla famiglia di Isai:
- consolerà e annuncerà la buona novella
- sarà dolce ed umile di cuore:
- i ciechi vedranno, i sordi sentiranno, gli
zoppi salteranno:
- sarà maltrattato e messo a morte:
- sarà picchiato e riceverà sputi:
- sarà nel sepolcro del ricco:
- sarà un discendente di Davide:
-
l’Eterno abiterà in mezzo al popolo:
entrerà in Gerusalemme cavalcando un
puledro d’asina:
- sarà venduto per trenta denari:
- i suoi discepoli si disperderanno:
Isaia 11:1; Atti 13:22,23
Isaia 61:1; Luca 4:17-21
Isaia 42:1-3; Matteo 11:29
Isaia 35:5,6; Matteo 11:5
Isaia 53; Matteo 27:11 e seg.
Isaia 50:6; Matteo 27:30
Isaia 53:9; Matteo 27:57,60
Nel VII sec. a.C.
Geremia 23:5,6; Matteo1:6
Nel V sec. a.C.
Zaccaria 2:10; Matteo 1:23
Zaccaria 9:9; Matteo 21:1,2
Zaccaria 11:12,13; Matteo 27:3,7
Zaccaria 13:7; Matteo 26:31.
Affinché il momento della sua manifestazione tra gli uomini non si perdesse nel tempo mitico o fosse
proiettato in un lontano futuro, Dio lo rivelò al profeta Daniele. Fu durante il suo soggiorno alla corte di
Babilonia, nel 538 a.C., che gli fu predetto quando il Messia si sarebbe presentato, l’opera che avrebbe compiuto
e il momento della sua morte. Il testo sacro trasmette:
«Sappilo dunque e intendi. Dal momento in cui è uscito l’ordine di restaurare e riedificare Gerusalemme
fino alla apparizione del Messia Capo, vi sono sette e sessantadue settimane di anni. Egli stabilirà un saldo patto
con molti, durante una settimana di anni; e in mezzo alla settimana (settantesima) farà cessare sacrificio e
oblazione. Dopo le sessantadue settimane di anni, il Messia sarà soppresso, nessuno sarà per lui. Egli (il Messia)
farà cessare la trasgressione, metterà fine al peccato, espierà l’iniquità, stabilirà una giustizia eterna, suggellerà
visione e profezia e ungerà un luogo santissimo» Daniele 9:25,27pp,26,24sp.
Questo testo del VI sec. a.C. è la pietra angolare della profezia messianica. Per questo motivo il libro di
Daniele era il più letto, consultato, studiato nel primo secolo avanti e dopo Cristo. Il brano citato indica il
momento della «pienezza dei tempi» Galati 4:4, nel quale si sarebbe presentato Colui che fin dal giardino
dell’Eden era stato annunciato come Chi venendo, avrebbe stritolato la testa del serpente sotto il proprio piede e
avrebbe subìto la ferita che lo avrebbe fatto morire (Genesi 3:15).
Nel 457 a.C. l’imperatore persiano Artaserse promulgò l’editto, «la parola», con la quale si autorizzava il
popolo di Giuda, che era ritornato in Palestina al tempo di Ciro, a ricostruire la propria città conferendo
all’autorità di eleggere dei magistrati con potere legislativo, giuridico ed esecutivo (Esdra 7:25). Dopo 483 anni
(7+62 settimane di anni) dal 457 a.C., si giunge nel XV anno di regno dell’imperatore di Roma, Tiberio Cesare
(Luca 3:1), che è l’anno 27 dell’èra volgare. In quella data Gesù di Nazaret è dichiarato Figlio di Dio e unto
dall’Eterno in occasione del suo battesimo (Luca 3:20-22; Atti 10:38).
Da quel momento, autunno 27 d.C., Gesù inizia il suo ministero pubblico e dopo tre anni e mezzo, nella
primavera del 31 d.C., durante la sua ultima cena conferma il patto (Ezechiele 16:60) iscrivendo la legge di Dio
nei cuori di coloro che lo accettano come Salvatore (Geremia 31:31-33). Il giorno dopo, fuori dalle mura delle
città di Gerusalemme, egli viene soppresso, crocifisso; nessuno prenderà le sue difese e il suo sacrificio realizza
e mette fine al cerimoniale che nel santuario annunciava la sua offerta di grazia e di amore.9
Tutta la saggezza umana non sarebbe stata in grado di inventare una storia come quella di Gesù; la pazzia
di Dio ne è stata capace e ha accettato l’indifferenza, la derisione, lo scherno, gli sputi, la croce e la morte, pur di
dare la vita.
Sì, la croce presenta Dio pazzo di amore per la famiglia umana; Dio disposto a rinunciare alla Sua
eternità. La Sua angoscia, manifestata visibilmente nel passato, continua nel presente perché l’umanità gli
resiste. Ma la tragedia del Golgota, questa pazzia di Dio, è un canto di speranza e di gioia: «La morte è stata
sommersa nella vittoria. O morte, dov’è la tua vittoria? O morte, dov’è il tuo dardo?» 1 Corinzi 15:55,57.
Ma la cosa più contraddittoria, scrive Severino Dianch che la croce è il paradosso del cristianesimo. Colui
che salva si presenta al mondo come Salvatore ucciso in croce, tra i tormenti che simile supplizio comportava.
Questa realtà fa così parte del patrimonio genetico della cultura occidentale che nessuno reagisce con orrore a
simile rappresentazione. La cosa più stupefacente è che, secondo la fede cristiana, da questa vicenda infamante
della morte di Gesù deriverebbe per l’umanità la salvezza dal male e dalla morte. In altre parole, uno che non è
riuscito a salvare se stesso sarebbe la sorgente della salvezza universale.
9
Per una spiegazione più ampia delle LXX settimane di Daniele 9, vedere i nostri lavori, Il Popolo di Dio e l’Anticristo attraverso i
secoli, Scurzolengo Asti 1982, pp. 47-115; Quando la Profezia diventa Storia, Trento 1998, pp. 61-146.
La pazzia di Dio
10
INTRODUZIONE
Il cristianesimo è giunto a ostentare la fine ingloriosa del proprio Messia torturato in croce, a esaltarne i
patimenti, le piaghe, il sangue e la morte.
La croce è scandalo perché: è la morte del giusto abbandonato nelle mani dei malvagi; esprime il grido di
chi si sente abbandonato dal proprio Dio; del Dio che non dice nulla, del Dio che sta in silenzio, vede, tace e
lascia fare. È segno di follia per chi la proclama come speranza e pretesa di salvezza. È ancora la croce che fa
cambiare le idee che l’uomo ha su Dio, ed è ancora lei, nel suo mistero non compreso10, che degli uomini,
benché amino o meglio ancora, proprio perché adorano e rispettino il Signore, pervertono il volto del Padre,
dipingendolo vendicativo, pur compiacendosi nel Figlio e amando gli uomini di un amore eterno (Geremia
31:3).
Di fronte alla cultura greco-romana che esaltava la forza, la bellezza i primi cristiani pur annunciando il
Cristo crocifisso non lo hanno raffigurato agonizzante in croce per non essere derisi e disprezzati.11 Fu solo dopo
che l’impero si fece cristiano e i templi pagani divennero i nuovi luoghi di adorazione che la croce, senza la
figura del Cristo appeso, divenne il simbolo trionfale della chiesa. La croce divenne anche l’ornamento dei troni
imperiali e per essere meglio accettata fu forgiata con l’oro e arricchita con perle e pietre preziose. Per il suo
valore che aveva il patibolo diventava espressione di ricchezza, di ostentazione e il segno nel nome del quale si
vince. Per la prima volta, nel V secolo, Gesù appare sulla croce su un pannello della porta di Santa Sabina in
Roma. È dopo il 300 che il corpo martoriato del Cristo è inchiodato sulle croci.12
Nell’introduzione del nostro lavoro riteniamo utile riportare il pensiero trovato in diverse pagine
dell’opera Il Dio crocifisso di J. Moltmann che ci offre di riflettere sul senso esistenziale della croce di Gesù.
«La croce è il fatto del tutto incommensurabile nella rivelazione di Dio. Ormai ci siamo abituati fin
troppo. Abbiamo adornato lo scandalo della croce di rose… Hegel ha definito la croce con il suo “Dio è morto”.
E probabilmente ha visto con esattezza come qui noi ci troviamo davanti alla notte della reale, ultima,
inesplicabile lontananza di Dio, come di fronte alla “parola della croce” non ci resti altra possibilità che quella di
appellarci al sola fede, unico punto di riferimento di fronte al quale dilegua qualsiasi altro nel mondo. Qui non
ritroviamo nessuna delle opera Dei, che rimandano a lui, il creatore eterno, e alla sua sapienza. Qui va in
frantumo quella fede nella creazione dalla quale ha tratto origine ogni paganesimo. Qui tutta la filosofia e tutta la
saggezza vengono condotte alla follia. Qui Dio è non-Dio. Qui trionfano la morte, il nemico, la non chiesa, lo
stato del non-diritto, i bestemmiatori, i soldati: qui è Satana che trionfa su Dio. La nostra fede incomincia proprio
colà dove gli atei ritengono che essa sia giunta alla fine. La nostra fede prende inizio da quella crudezza e
potenza che è la notte della croce, deve nascere là dove tutti i dati di fatto l’abbandonano; dev’essere generata
dal nulla, deve assaporare questo nulla, dev’essere capace di gustarlo, e in un modo che nessuna filosofia
nichilista riesce ad immaginare».13
«Se la fede del Crocifisso contraddice tutte le raffigurazioni di giustizia, bellezza e moralità dell’uomo, la
fede del Dio crocifisso contraddice anche tutto ciò che gli uomini in genere, col termine “Dio”, si rappresentano,
desiderano e da cui vorrebbero ricavare le proprie sicurezze. Ben difficilmente ci si potrebbe attendere che
“Dio”, l’“essere supremo” e il “bene assoluto”, debba manifestarsi e rendersi presente nell’abbandono di Dio
sofferto da Gesù sulla croce».14
«La croce, come negazione di tutto ciò che è in qualche modo religioso, di ogni idolatria, di tutte le
sicurezze, di ogni immagine e analogia e di ogni luogo sacrale, che assicuri stabilità e assistenza, non viene
toccata dal conflitto tra religione e critica alla religione, tra teismo e ateismo. La fede che da essa deriva è un
tertium genus».15
«Fede cristiana radicale può significare soltanto affidarsi senza riserve al “Dio crocifisso”… Non offre
delle ricette che garantiscano il successo. Stabilisce invece un confronto con la verità».16
«Il simbolo della croce, nella chiesa, volge la nostra attenzione a Dio, il quale non è stato crocifisso su un
altare, tra due candelabri, ma sul calvario dei reietti, davanti alle porte della città, tra due ladroni. Non invita solo
10
Il Catechismo del Concilio di Trento diceva: «Il mistero della croce va sicuramente considerato come il più difficile di tutti».
La crocifissione era senz’altro il supplizio più terribile che veniva praticato. Era la forma di esecuzione più umiliante e i romani la
riservarono agli stranieri e schiavi, non ai romani. Per Cicerone era «una punizione estremamente crudele e ripugnante». Per lui: «incatenare
un cittadino romano è un crimine, fustigarlo è un’abominazione, ucciderlo è quasi un atto di omicidio: crocefiggerlo – cos’è? Non c’è
nessuna parola adatta che possa descrivere un atto così orribile». Marco Tullio Cicerone, Secondo discorso d’accusa contro Gaio Verre, G.
Bellardi, ed. UTET, Torino 1996, II, v. 64, para 165; II, 66, para 170.
Per gli ebrei, l’impiccagione e la crocifissione, era un simbolo di maledizione da parte di Dio, Deuteronomio 21:23.
È forse anche per questi motivi che per Paolo l’annuncio della croce era motivo di scandalo e di pazzia (2 Corinzi 1:18,23).
12
DIANICH Severino, Il Messia Sconfitto, Piemme, Casale 1997, p. 10.
Nel secondo secolo però già i cristiani disegnavano la croce come simbolo della loro fede. Tertulliano, alla fine del II secolo a
proposito del segno della croce scriveva: «Ad ogni passo e movimento, ad ogni entrata ed uscita, quando indossiamo i vestiti e le scarpe,
quando facciamo il bagno, quando ci sediamo a tavola, quando accendiamo le lampade, sdraiati, seduti, in tutte le azioni ordinarie della vita
quotidiana tracciamo sulla fronte il segno (la croce)». Tertulliano, La corna, a cura di P.A. GRAMAGLIA, ed. Paoline, Roma 1980.
Ippolito di Roma nella sua Tradizione cattolica, datata del 215 e Cipriano, vescovo di Cartagine, a metà del III secolo, confermano
il segno della croce come espressione di consacrazione della propria mente ed azione al Signore.
13
IWAND H.J., cit. MOLTMANN Jürgen, Il Dio Crocifisso, Queriniana, Brescia 1973, p. 50.
14
Idem, p. 52.
15
Idem, p. 53.
16
Idem, p. 54.
11
La pazzia di Dio
11
INTRODUZIONE
a pensare ma anche a mutare l’ordine dei nostri pensieri. Un simbolo dunque che, della chiesa e dalla brama
religiosa, ci introduce nella comunione coi reietti e con gli abbandonati. E viceversa, è un simbolo che chiama
queste persone emarginate e senza Dio nella chiesa e, per mezzo di essa, nella comunione col Dio crocifisso.
Quando si dimenticano questa contraddizione della croce e l’inversione dei valori religiosi che essa comporta, la
croce, da simbolo, diventa un idolo e non invita più a pensare in modo diverso ma soltanto a por fine ai nostri
pensieri, per la conferma di noi stessi.
La “religione delle croce” è in se stessa contraddittoria, perché qui il Dio crocifisso è contraddizione.
Accettarla significa prendere congedo dalle proprie tradizioni religiose, liberarsi dai bisogni religiosi, rinunciare
alla propria e altrui nota identità e acquistare l’identità con Cristo nella fede, rendersi anonimi nel proprio
ambiente e ottenere un diritto di cittadinanza nella nuova creazione di Dio. Rendere presente la croce nella nostra
cultura significa praticare quella libertà dalla paura di se stessi di cui abbiamo già fatto esperienza; significa non
adattarsi più a questa società, ai suoi idoli e tabù, alle sue figure ostili e feticci, ma in nome di colui che la
religione, la società e lo stato hanno sacrificato un tempo, solidarizzare oggi con le vittime della religione, della
società e dello stato, e nello stesso modo con cui quel Crocifisso divenne loro fratello e liberatore.
Fin dagli inizi l’ambiente religioso e umanistico, nel quale il cristianesimo condusse la sua esistenza, ha
disprezzato la croce, perché questo Cristo dis-umanizzato contraddiceva tutti i concetti di Dio, di uomo e di
uomo divino. La crudezza della croce svanì pure nel cristianesimo storico della memoria della fede e
dell’attualizzazione ecclesiale».17
«Abbiamo reso sopportabile la crudezza della croce, la rivelazione di Dio sulla croce di Gesù Cristo,
perché abbiamo imparato a comprenderla nella necessità che essa assume per il processo di salvezza… Per cui la
croce perde il carattere di contingenza, il suo tratto di incomprensibilità».18
«Erano anche i sacrifici di lode e di ringraziamento, coi quali s’intendeva esprimere l’accettazione dei
diritti divini di proprietà… Da un punto di vista storico-religioso, non si può sostenere che questi doni sacrificali
fossero offerti dagli uomini per ottenere il favore delle divinità».19
«Nella sua situazione di abbandonato da Dio, il Crocifisso porta Dio agli abbandonati da Dio. Con il suo
patire porta la salute ai sofferenti, con la sia morte porta la vita eterna ai morenti. Il Cristo tentato, respinto,
sofferente e morente viene così ad assumere un posto centrale nella religione degli oppressi e nella pietà dei
disperati. Proprio in questa teologia della croce del tardo medio evo risuona l’atroce espressione del “Dio
crocifisso” ripresa poi anche da Lutero».20
D. Bonhoeffer scriveva: «Dio si lascia espellere dal mondo e appendere in croce. Dio è impotente e
debole nel mondo, e proprio così, soltanto così, egli è vicino a noi e ci è di aiuto. Secondo Matteo 8:17, è
assolutamente chiaro che Cristo non ci aiuta in forza della sua onnipotenza, ma mediante la sua debolezza, con la
sua passione! … soltanto il Dio sofferente è in grado di prestare aiuto… Questa è l’inversione di tutto ciò che
l’uomo religioso da Dio si attende. L’uomo è chiamato a partecipare alla passione di Dio di fronte ad un mondo
senza Dio».21
H. Lüning scrive: «Negli usi, costumi e pietà popolari dell’Europa, il Natale e la Pasqua sono i momenti
più importanti dell’intero anno liturgico. Non però nell’America Latina. Qui gli indios e i meticci non possono
ancora partecipare alle feste cristiane “della vita e della speranza”. La loro festa è quella della settimana santa.
Passione e morte di Gesù, dolore e afflizione: questo riescono a sentirlo. Qui si trovano a proprio agio: è la loro
stessa vita. La rassegnazione alla sorte e la capacità di sofferenza degli aborigeni latino-americani da molto
tempo sono state favorite da certe forme di pietà, tra le quali si ricordi la via crucis, questo ripercorrere le
quattordici stazioni bibliche e leggendarie, di una passione di Gesù fissata in immagini».22
«Certo la chiesa locale fin dagli inizi aveva redatto, per lo svolgimento di questa via crucis, testi che
proponevano alla riflessione dei fedeli soltanto i dolori sofferti da Cristo a causa dei loro peccati personali e della
loro condotta immorale. I poveri scoprirono invece nel Crocifisso la propria e intera passione: la sofferenza del
loro vivere sociale e la sofferenza del proprio destino. Analogamente, anche la pietà dei Black Spirituals degli
schiavi, negli stati meridionali degli USA, s’incentrò sulla crocifissione e risurrezione di Gesù. La sua passione e
morte costituirono per essi il simbolo della loro stessa passione, del disprezzo cui venivano sottoposti, delle
tribolazioni che erano costretti a sopportare in un mondo ostile e disumano. Nella Sua sofferenza riscoprirono la
propria sorte. D’altra parte potevano però anche dire: quando Gesù fu inchiodato sulla croce e i soldati romani
gli trafissero il costato, lui non era solo. Gli schiavi negri soffrirono con lui e con lui morirono. “Where you
there, when they crucified my Lord? – Dov’eri tu, quando crocefiggevano il mio Signore?”. Con questo
interrogativo si apre uno dei canti. E la risposta suona: “noi, gli schiavi negri, eravamo con lui durante
l’agonia”».23
17
18
19
20
21
22
23
Idem, p. 55.
Idem, p. 56.
Idem, p. 56,57.
Idem, p. 62.
Cit. Idem, p. 62.
Cit. Idem, p. 63.
Idem, p. 63.
La pazzia di Dio
12
INTRODUZIONE
«Nella sua passione e morte Gesù si identificò con gli schiavi e prese su di sé il loro tormento. E come lui
non fu solo nella propria sofferenza, così, anch’essi non si sentivano abbandonati nello strazio della loro
schiavitù. Gesù era con loro. Su questo si fondava anche la speranza nella liberazione, per mezzo di colui che fu
richiamato in vita, nella libertà di Dio. Gesù significava la loro identità con Dio, in un mondo che aveva sottratto
loro ogni speranza e distrutto la loro dignità umana, fino a renderla irriconoscibile…
La chiesa ha gravemente abusato della teologia della croce e della mistica della sofferenza, soddisfando
così gli interessi di coloro che furono la causa di tante pene. Troppo spesso gli esponenti della religione ufficiale
esortarono i contadini, gli indios e gli schiavi negri ad accettare la propria condizione come “la loro croce” e a
non ribellarsi. Non c’era bisogno che Lutero raccomandasse ai contadini di sopportare l’oppressione cui erano
sottoposti come la propria croce: essi portavano già sulle spalle i pesi imposti dai loro padroni. Sarebbe stato
invece molto più opportuno predicare la croce ai prìncipi e ai borghesi, che su questa gente esercitavano il
potere, per liberarli dalla loro superbia e spingerli alla solidarietà con le loro vittime».24
«Quando diventa un “oppio per il popolo”, somministrato da coloro che sono la causa di tante sofferenze,
questa mistica della passione è una bestemmia, il frutto della crudeltà. … Il Cristo dei poveri è sempre il
Crocifisso. (I quali vedono) in quest’uomo di dolore un “povero diavolo”, per il quale le cose non potevano
andar meglio. In lui trovano piuttosto il fratello, che rinunciò alla sua forma divina ed assunte la forma di schiavo
(Filippesi 2), per vivere assieme a loro, per amarlo. In lui scoprono un Dio che non li tormenta, come invece
fanno i loro padroni, ma che si rivela loro fratello e confidente. Privati delle propria libertà… nella comunione
con lui trovano il rispetto, il riconoscimento, la dignità e la speranza. Trovano questa loro vera identità in un
Cristo che con loro soffre e, con lui, in una “vita nascosta in Dio” (Colossesi 3:3): identità che nessuno potrà mai
loro togliere. Trovano nel Crocifisso un cielo aperto, dal quale “nessuno mi potrà cacciare” – si legge in un Black
Spiritual – come da un autobus riservato ai bianchi. Questa mistica della croce, tipica degli oppressi, in effetti è
quindi “espressione della miseria” e implicatamente anche “protesta contro la miseria”, come diceva Marx».25
«Nei canti di quella mistica della croce risuona infatti una nuova esperienza della propria identità. Colui
che nella propria passione incontra il Cristo sofferente ed esperimenta in se stesso il travaglio dell’amore di Dio,
questi sa di non essere più quello che i dolori e le angosce di morte, gli schiavisti e i padroni di lui hanno fatto e
di lui intendono fare… L’aiuto e la libertà che da questa fede scaturiscono non permettono a coloro che soffrono
di rassegnarsi abulicamente al proprio patire, di familiarizzare con la schiavitù, di sentirsi soltanto degli schiavi o
forza-lavoro, o addirittura un niente, un nobody. La fede che si è acquisita in questa mistica della croce, nella
contemplazione del Dio sofferente e crocifisso, impedisce lo sprofondamento nella miseria, la rinuncia a se
stessi, il suicidio per disperazione».26
«Annunciando la giustizia di Dio come diritto della grazia a coloro che spietatamente erano stati
emarginati dalla società, egli provocò la dura reazione dei tutori della legge. Facendosi “amico dei peccatori e
dei pubblicani”, si rese nemici i loro nemici. Rivendicando un Dio che sta dalla parte dei senza Dio, s’attirò
l’opposizione delle persone pie e venne cacciato nell’assenza di Dio del Golgota… Egli patì a causa della parola
liberante di Dio e morì a motivo della sua comunione liberante con gli schiavi. La sua passione e morte sono
quindi la passione e morte messianiche del “Cristo di Dio”. La sua morte è la morte di colui che ci ha redenti
dalla morte malvagia».27
H. Lüning scrive: «Nell’America Latina, la pia e prediletta pratica della via crucis è utilizzata con
successo anche per la formazione sociale delle coscienze. Al centro dell’attenzione sta la colpa della società e il
motivo dominante suona: Cristo è il prossimo sofferente, l’oppresso, lo sfruttato, l’indifeso. Si prende così alla
lettera il detto di Gesù: “Ciò che avete fatto al più piccolo dei miei fratelli, l’avete fatto a me”. Classico esempio
di questo nuovo tipo di imposizione e della sua rilevanza sociopolitica è la “via crucis del secolo ventesimo”,
elaborata nell’America centrale… Rappresentata parecchie volte e trasmessa anche per radio, venne proibita nel
1964 del governo dei militari».28
«Morire in croce significa patire e morire da reietti e ripudiati… “La croce non è il dolore insito nella
nostra normale esistenza, ma il dolore che dipende dal fatto di essere cristiani” diceva, D. Bonhoeffer».29
«Si segue Gesù quando si traduce, nella propria responsabilità personale e nell’oggi, la sua missione, e si
prende sulle spalle la propria croce. … Come scriveva R. Bultmann: “Credere nella croce significa assumere la
croce di Cristo come propria, lasciarci crocifiggere con Cristo”».30
«Per Bultmann la croce di Cristo va considerata come un evento escatologico; “essa cioè non è un evento
del passato al quale si guarda indietro, bensì l’evento escatologico nel tempo e oltre il tempo, in quanto esso, se
compreso nella sua rilevanza, è cioè per la fede, è sempre il momento presente”. Dopo aver addotto la
testimonianza della teologia apostolica della croce di Paolo, Bultmann così prosegue: “In questo avvenimento di
24
25
26
27
28
29
30
Idem, pp. 64,65.
Idem, p. 65.
Idem, p. 66.
Idem, p. 67.
H. Lüning; cit. Idem, p. 69.
Idem, p. 71.
Idem, p. 78.
La pazzia di Dio
13
INTRODUZIONE
salvezza, la croce di Cristo non è dunque un evento mitico, bensì un avvenimento storico, che trae la sua origine
dall’evento storico della crocifissione di Gesù di Nazareth. Nella sua rilevanza storica, questo è il giudizio sul
mondo, il giudizio liberante proferito sugli uomini… L’annuncio della croce chiede a colui che l’ascolta se egli
sia disposto ad assumersi questo significato, a lasciarsi crocifiggere assieme a Cristo”».31
«La fede cristiana sta e cade con la conoscenza del Crocifisso, con la conoscenza cioè di Dio nel Cristo
crocifisso, od anche – se vogliamo esprimerci nei termini ancora più crudi di Lutero – con la conoscenza del
“Dio crocifisso”.».32
«Socrate morì da saggio. Bevve sereno e rilassato la coppa di cicuta che gli porsero. Dimostrò così la sua
magnanimità e rese testimonianza a quella dottrina dell’immortalità dell’anima che, stando a Platone, aveva
insegnato in vita. Per lui la morte costituì un passaggio nella vita superiore, più pura. Per questo motivo non gli
fu difficile accomiatarsi. Ordinò a Esculapio di sacrificare un gallo, come si fa quando si scampa da una grave
malattia. La morte di Socrate è stata una festa della libertà.
I martiri zeloti, crocifissi dai romani dopo il fallimento delle insurrezioni, morivano nella coscienza di
essere giusti agli occhi di Dio ed attendevano di risorgere alla vita eterna; come si attendevano pure la
risurrezione dei nemici senza legge e dei traditori della legge ad eterna vergogna. Essi morivano per la loro
giusta causa, la causa della giustizia divina, consci che questa avrebbe infine trionfato sui nemici. Molti di essi
riuscirono a maledire i nemici pochi momenti prima di esalare l’ultimo respiro. Rabbi Akiba trovò nella sua
morte in croce l’agognata libertà della totale dedizione a Dio, il quale – secondo lo Sch’mah – può essere amato
soltanto “con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze”.
Nell’arena, i saggi stoici dilaniati dalle fiere davano al tiranno la dimostrazione della loro libertà interiore
e superiorità. “Senza paura e senza speranza”, come si diceva, entravano nel luogo del supplizio da uomini liberi,
dimostrando ai terribili sovrani e alla folla sbigottita la loro intrepidezza nell’affrontare la morte.
Anche i martiri cristiani andavano incontro alla morte con fede e tranquillità; consci di venire crocifissi
con Cristo e di ricevere il battesimo di sangue, e quindi di rimanere poi congiunti eternamente con lui,
affrontavano la morte con una “spes contra spem”. Le ultime parole che D. Bonhoeffer disse al compagno di
carcere Payne Best, nel campo di concentramento di Flossenbürg, avviandosi al luogo dell’esecuzione, furono:
“È la fine. Ora per me incomincia la vita”. Egli era certo, come aveva scritto precedentemente in una lettera,
“che nel partire si cela la nostra gioia, nel morire la nostra vita”.
Gesù invece è morto in maniera ben diversa. La sua non fu una “bella morte”. I vangeli sinottici sono
concordi nel riferire lo “sbigottimento e tremore” (Marco 14:34 e parall.) e la tristezza della sua anima fino alla
morte. Morì “con forte grido e lacrime” Ebrei 5:7. Secondo Marco 15:34, prima di spirare, emise un alto,
inarticolato grido. La storia cristiana della tradizione ha sempre più attenuato questo terribile grido del Gesù
morente dei racconti della passione e lo ha sostituito con parole più consolanti e trionfali…. Gesù è morto con
tutti i sintomi dello spavento più atroce».33
Gesù aveva annunciato il regno e la grazia. «Si fa esperienza dell’abbandono di Dio quando si sa che
Dio non è lontano ma vicino, e non per giudicare ma per manifestare la sua misericordia. È questo il tormento
dell’inferno: la piena coscienza di trovarsi nella vicinanza misericordiosa di Dio e sapere di essere da lui
abbandonati e condotti alla morte dei reietti».34
«I due zeloti, assieme a lui crocifissi, possono essere “crollati” ed avere “fallito”, ma la causa per la quale
essi avevano vissuto e combattuto rimaneva inattaccabile: nessuna morte l’avrebbe mai potuta uccidere. La causa
invece per cui Gesù visse e operò, stando all’intera predicazione, era così strettamente legata alla sua persona e
vita che la morte della sua persona doveva essere anche la morte della sua causa. Solo questo fatto rende palese
la peculiarità della sua morte di croce. Anche altri uomini sono stati fraintesi e sono andati in rovina per
l’incomprensione umana. Pure dei profeti vennero maledetti dal loro popolo perché considerati spregiatori di
Dio. Sono molte le persone di valore giustiziate con la crocifissione e con torture ancor peggiori. In tutto questo,
la croce di Gesù non si differenzia dalle altre croci erette nella storia della sofferenza umana. Potremo
comprendere il tratto singolare della sua agonia soltanto quando riusciamo a concepire l’abbandono del suo Dio
e Padre, che egli aveva annunciato vicino proprio nella grazia e nella gioia. Quel Gesù, la cui vita e annuncio
erano contrassegnati da una comunione così intima e tutta sua propria con Dio, morì nell’abbandono radicale e
tutto suo proprio di Dio. Ed è qualcosa di più di diverso da un “crollo” o “fallimento”.
Di che “male” è morto Gesù?… del suo stesso Dio e Padre. Il tormento nei suoi tormenti fu l’abbandono
da Dio. E questo ci costringe a vedere già nel contesto della sua vita l’avvenimento della croce come un
avvenimento che ha per protagonisti Gesù e il suo Dio, ed anche: suo Padre e Gesù. L’origine della cristologia,
cui spetta di dirci chi sia in verità Gesù, non sta allora nella comprensione che egli ebbe di sé, nella sua coscienza
messianica, nell’apprezzamento della sua persona da parte dei discepoli e nemmeno soltanto nel suo appello alla
decisione, il quale potrebbe pur implicare una cristologia. Sta invece nella storia del rapporto tra Gesù e il suo
31
32
33
34
Cit., Idem, pp. 78,79.
Idem, p. 83.
Idem, pp. 172,173.
Idem, p. 175.
La pazzia di Dio
14
INTRODUZIONE
Dio, tra quel “Padre” e Gesù, come essa venne a concentrarsi nella sua predicazione, attività e “abbandono fino
alla morte”, nel senso letterale dell’espressione».35
«In ultima analisi, la ragione profonda della sua morte da “abbandonato da Dio” è stata il suo Dio e Padre.
Nel contesto teologico della sua vita, questa terza dimensione è la più importante… La croce del Figlio separa
Dio da Dio, fino alla più totale ostilità e differenza. Il risuscitamento del Figlio abbandonato da Dio unisce Dio
con Dio fin nella più intima comunione. Come dovremo pensare questa comunione di Dio con Dio nella croce
del venerdì santo? Concepire Dio nel Crocifisso, da Dio abbandonato, comporta una “rivoluzione nel concetto di
Dio”».36
«Di fronte al grido divino del Gesù agonizzante, ogni schema teologico rivela ben presto la propria
inadeguatezza. Come può una teologia cristiana parlare di Dio quando questo Gesù è un abbandonato da Dio?
Come può una teologia cristiana non parlare di Dio quando ascolta questo grido divino che Gesù eleva dalla
croce?».37
«Mentre nell’apocalittica giudaica si attende “la risurrezione dai morti”, nella fede pasquale si crede alla
“risurrezione di Gesù dai morti”» con ciò si attesta che il mondo futuro è già iniziato. «Nella fede del Gesù
risorto si vive già – in mezzo a un mondo di morte destinato a scomparire – delle forze del nuovo mondo della
vita, che lui stesso ha fatto scaturire».38
35
36
37
38
Idem, pp.176,177.
Idem, pp. 179,180.
Idem, p. 182.
Idem, p. 197.
La pazzia di Dio
15
Capitolo I
IL PECCATO
A parlare oggi di peccato c’è il rischio di essere considerati persone di altri tempi. Oggi tutti si
considerano brava gente e credono che il loro non fare male a nessuno, non uccidere, non rubare, vivere la
propria vita, fare i propri affari, lavorare, dormire, soffrire, allevare figli, e, se possibile, quando costa poco,
aiutare gli altri, siano tutte manifestazioni di giustizia che fanno meritare il paradiso. Si dice: non siamo santi
perché fatti di carne e ossa, ma siamo comunque gente perbene.
La nostra generazione occidentale è caratterizzata dalla mancanza del senso del peccato e dal
ribaltamento dei valori. L’adulterio, per esempio, è divenuto una virtù; la frode è abilità negli affari, la menzogna
è prudenza, la costruzione di armi micidiali e terrificanti è considerata utile allo sviluppo pacifico della società.
Lasciare che decine di migliaia di persone al giorno muoiano di fame non è considerato da nessuno un crimine di
guerra, perché nessun soldato dell’occidente preme il grilletto. Ma questo olocausto del nostro tempo è ancora
più grave e orrendo di quello compiuto dalle generazioni passate, negli anni tra il 1939 e il 1945. Più grave
perché quanto fu fatto ieri ha almeno suscitato sgomento, quello che si compie oggi, forse anche perché ci
consideriamo più civili, più evoluti, più preparati, e migliori conoscitori delle leggi commerciali, ci lascia
nell’indifferenza. Questa situazione non viene chiamata peccato perché siamo persone moderne. La definiamo
squilibrio sociale del quarto mondo. Si tenta di soccorrere queste popolazioni con le briciole del «ricco epulone»
nel tentativo di tenere buono il «povero Lazzaro» affinché, restando carponi, non possa, vedere la tavola
riccamente imbandita e così non tiri la tovaglia privandoci della nostra abbondanza.
Purtroppo il peccato è così integrato nella nostra natura che non lo distinguiamo più.
Che cosa è il peccato?
L’apostolo Paolo definisce il peccato in questi termini: «Tutto quello che non viene da fede è peccato»
Romani 14:23. L’apostolo ci presenta il peccato nella sua essenza. Esso è anche sbaglio, errore, trasgressione,
disubbidienza, ingiuria, crimine, violenza.1 Ma, come il frutto è il prodotto naturale dell’albero così questi frutti
sono la conseguenza di una pianta le cui radici affondano in un terreno che non è più quello originale. Se
vogliamo guarire l’albero, dobbiamo trapiantarlo in un’altra terra o seminarlo di nuovo.
In realtà il peccato non è altro che la separazione da Dio, è la mancanza di fede nei Suoi confronti. I frutti
menzionati sopra, e la lista si potrebbe allungare, non sono altro che la naturale conseguenza di questo nostro
distacco da Lui che è amore, vita (1 Giovanni 4:8; Giovanni 14:6). Anche i frutti che in questa situazione di
separazione possono sembrare buoni non corrispondono però al prodotto originale. «Tutto ciò che non viene
dalla fede (cioè dalla fiducia, dall’unione con Dio) è peccato». Il peccato non è la negazione di Dio, è anche
questo, ma essenzialmente è la mancanza di relazione con l’Eterno; è la nostra indipendenza da Lui. Scrive Lotz:
«C’è un ateismo nei nostri giorni che non nega Dio, eppure forse è più lontano da Dio di quello che Lo nega. La
negazione sparisce perché questi atei non si occupano più di Dio, non sono più interessati a Lui. Sembrano
essere uomini non più toccati da Dio, nei quali non risuona più la chiamata silenziosa di Dio».
Il teologo Emil Brunner così definisce il peccato: «Una defezione e una ribellione nei confronti di Dio...
la rottura con ciò che Dio ha posto e dato... Il peccato ha la sua sorgente nella disubbidienza che nasce dalla
sfiducia nei confronti di Dio. Il male, compreso come peccato, è costituito dal cambiamento nel rapporto con
Dio, dalla rottura della comunione con Lui che provoca la sfiducia e la resistenza nei Suoi confronti. Il racconto
della caduta ci rivela la causa più profonda di questa rottura di comunione: l’uomo vuole essere come Dio, vuole
mettersi sullo stesso piano di Dio e così liberarsi dalla dipendenza nei Suoi confronti... Il peccato rappresenta
l’emancipazione nei confronti di Dio, l’abolizione della dipendenza per ottenere una piena indipendenza, uguale
a quella di Dio... L’uomo deve essere libero e simile a Dio, ma egli vuole queste prerogative al di fuori della
dipendenza da Dio... Il peccato è lo sforzo dell’uomo per ottenere la sua autonomia; in questo c’è il
rinnegamento di Dio e la deificazione dell’uomo. Il peccato è il rigetto del Signore-Dio e la proclamazione della
gloria dell’uomo. Il theos pantokratos (Dio onnipotente) deve abdicare a profitto dell’ego autokratos (dell’io
autonomo). Così il peccato è “inimicizia contro Dio” Romani 8:7».2 Ecco perché il figlio prodigo ha detto:
«Padre ho peccato contro il cielo e contro te» Luca 15:21, e Davide dopo il suo duplice crimine, adulterio e
omicidio, nella sua confessione grida: «Io ho peccato contro Te, contro Te solo» Salmo 51:4. L’uomo separato
da Dio è visto da Isaia in questi termini: «Tutti quanti siamo diventati come l’uomo impuro e tutta la nostra
giustizia come un panno da mestruo3; tutti quanti appassiamo come foglia, e le nostre iniquità ci portano via
1
Generalmente i libri di teologia spiegano a tale proposito che il N.T. ha cinque espressioni greche per definire il peccato nelle sue
varie dimensioni: hamartia, cioè mancare il bersaglio, fallire nel raggiungere l’obiettivo; alikia, cioè iniquità, ingiustizia; soneria, il male
quale vizio e depravazione; parabasis che come paraptoma indica la trasgressione o l’infrazione, superare quanto era stato indicato come
limite; anomia, illegalità, vivere al di fuori della legge.
2
BRUNNER Emil, Dogmatique, t. II, La doctrine chrétienne de la creation et de la rédemption, éd. Labor et Fides, Genève 1965, pp.
105,106.
3
Traduzione letterale.
CAPITOLO I
come il vento» Isaia 64:6.
Il peccato è dunque rottura di relazione con Dio. In qualunque occasione i profeti rimproverino al popolo
d’Israele i suoi peccati, incontriamo queste espressioni: voi vi siete staccati, vi siete allontanati, siete diventati
infedeli, avete abbandonato l’Eterno, avete rotto l’alleanza (cioè la condizione della vostra unione con Dio), vi
siete allontanati da Lui per andare dietro ad altri dèi, Gli avete voltato le spalle.
Quindi il peccato è la sfiducia nei confronti di Dio e si manifesta nella trasgressione della legge divina (1
Giovanni 3:4). Tra la sfiducia e la trasgressione singola c’è un rapporto di causa effetto. È perché non si ha
fiducia nella bontà di Dio che non si considerano i Suoi comandamenti come espressione della Sua natura: cioè
santi, giusti e buoni (Romani 7:12) e quindi li si trasgrediscono.
Esempi illustrativi del peccato
Vogliamo illustrare quanto definito sopra con alcuni episodi: una parabola sulla natura, una parabola
tratta dal vangelo e un fatto storico.
La quercia e la volpe4
Una volta una quercia viveva felice in un giardino attraversato da un torrente ricco di acqua chiara. Le
numerose radici affondavano nel terreno e assorbivano tutto ciò che serviva per il suo nutrimento, per la sua
crescita e per la sua bellezza. Ogni giorno la quercia cresceva, il suo fogliame si distendeva e la sua ombra era
piacevole. Come conseguenza era felice di vivere, di ospitare numerosi uccelli rinfrescando con la sua ombra
coloro che, raggiungendola o passando per il giardino, si compiacevano di lei, ammirando i suoi rami e
osservando con meraviglia la sua imponenza e maestà. Ma un giorno, un terribile giorno, una piccola volpe
venne a farle visita e, dopo averla ammirata, le disse che era da compiangere perché anche se si considerava
bella, solida, felice, era nondimeno nella più terribile disgrazia. La sua sventura consisteva nell’essere piantata
nel suolo, incatenata alla terra, prigioniera dello spazio! Non aveva nessuna vera libertà di movimento e i suoi
rami e le sue foglie ondeggiavano solo perché sospinte dal vento. «Sei schiava! - diceva la volpe. Il suolo che
t’ha fatto germogliare e crescere, quel suolo che ti ha nutrito, lo ha fatto per approfittare della tua ombra. Se vuoi
essere veramente felice, devi ribellarti, devi essere qualcosa d’altro che una bella quercia piantata. Per realizzarti
veramente devi sradicarti dalla prigione del suolo che ti mantiene in una stabilità colpevole e condizionante! «Il
maestoso albero allora si scosse e vacillò, volendo raggiungere la libertà completa senza più avere le sue radici
sepolte nella terra come i morti. «Gli uccelli volano e io non posso!», si diceva l’imponente quercia. «Gli uomini
camminano e si spostano, perché io devo invece rimanere fissa nello stesso posto e vedere sempre le stesse cose,
lo stesso paesaggio? Si è vero; essi sono liberi, io no! Io sono legata al suolo, sono prigioniera, non sono felice!»
Il maestoso albero, dopo ripetuti violenti scossoni, si sradicò dal suolo e il fiume che inumidiva il terreno che
avvolgeva con cura le sue radici l’accolse nel suo letto. Per un po’ viaggiò libero verso altri orizzonti, portato
dalla corrente, ma poi... in una curva sassosa del suo percorso, si arenò sulla riva. Le radici finalmente parvero
godere i raggi del sole, affrancate dal paterno suolo. Ma in questa libertà, le risorse di vita della quercia si
esaurirono rapidamente e a poco a poco essa morì. Era finalmente libera, sì autonoma, lontana dalla sua terra, ma
secca per sempre.
L’umanità creata da Dio per vivere in Lui e con Lui, ha voluto la sua autonomia, preferendo realizzarsi
diversamente da come Dio voleva per lei. Così sradicata dal suo giardino dove «tutto era molto buono», ormai
spenta, come un cadavere ambulante, sta navigando nell’oceano di questo universo verso la sua ultima spiaggia,
in parte già sepolta all’ombra di qualche cipresso, in parte alla ricerca di qualche utopistico atollo assolato dove
l’esplosione atomica non la possa raggiungere, ma dove ugualmente esporrà le proprie ossa secche.
Il figlio prodigo
La parabola del figlio prodigo, anche se solamente riportata nel vangelo di Luca 15:11-24, è tra le più
conosciute dell’insegnamento pubblico di Gesù. Essa offre, in un linguaggio accessibile all’universale
comprensione, uno schema di quasi tutta la rivelazione biblica. Una positiva comprensione di questa storia ci
porta a stabilire nuovi rapporti con l’Eterno. Questo racconto di Gesù presenta diversi momenti della storia di un
giovane: il suo vivere nella casa del padre, la sua partenza, il suo soggiorno nel paese lontano con la
spensieratezza iniziale e le successive difficoltà per il pane quotidiano, il suo rientro in se stesso, il suo ritorno
verso il genitore, l’incontro con il padre e il suo ristabilimento nella casa. In questo nostro paragrafo
considereremo solamente i primi tre momenti, attingendo alle riflessioni del pastore riformato Roland de Pury.5
La storia di questo giovane che cerca al di fuori della casa paterna maggiore libertà e felicità, è la storia
4
5
Questa parabola è presentata da FLORI Jean, Cristiano o evoluzionista, ed. Araldo della Verità, Firenze.
PURY Roland de, La joie du Père - l’enfant prodigue, éd, Labor et Fides, Genève s.d., pp. 11-26.
La pazzia di Dio
16
IL PECCATO I
della prima coppia, come ce la racconta la prima pagina della Bibbia, quando ancora essa viveva nel giardino di
Dio. Questo racconto, sebbene possa essere applicato ad ogni individuo, presenta l’allontanamento dalla casa del
padre avvenuto anteriormente alla nostra nascita. Noi non abbiamo trascorso la nostra infanzia nella casa del
padre, e non abbiamo goduto una naturale comunione con Dio. Siamo nel paese lontano, siamo nati dal figlio
prodigo, siamo i figli di Adamo. Ogni nostro passo nel paese lontano conferma e manifesta l’avvenuta partenza.
Ogni momento della nostra vita affonda le sue radici in questa lontana partenza. Essa è si avvenuta prima che noi
nascessimo, ma noi la rivendichiamo, ce ne appropriamo, ripetendola ad ogni istante, misteriosamente; e
dissipiamo i beni del padre.
Il nostro progenitore, il figlio della parabola, lascia il padre non perché concupisce una donna, ma perché
concupisce il posto del padre. Concupisce la libertà di essere se stesso, senza suo padre e lontano da lui. È questa
concupiscenza della libertà senza Dio che l’umanità cerca di vivere. Il padre avverte il figlio dell’impossibilità di
vivere in questo modo e gli dice: «Mangia pure liberamente del frutto di ogni albero del giardino; ma del frutto
dell’albero della conoscenza del bene e del male, non ne mangiare; perché nel giorno che tu ne mangerai,
certamente morrai» Genesi 2:17. Il padre, pur avendo avvertito il figlio del pericolo della sua richiesta, lo lascia
andare con la sua parte di beni di eredità. Il fatto che il padre lasci che il figlio si allontani dalla sua casa con i
suoi tesori suscita in noi stupore e tutte quelle innumerevoli proteste che si elevano da tutto il mondo e in tutti i
tempi: «Se Dio esiste, perché ci lascia fare? E perché ci ha permesso di peccare e di partire? Perché lascia che
tanto male si commetta nel mondo e che la sofferenza aumenti?» L’uomo non ha mai saputo dire altro. Da una
parte non vuole fare la volontà del padre e dall’altra accusa il padre di non averlo obbligato a compierla. L’uomo
è diventato schiavo del peccato a tal punto che ha perso il senso stesso della libertà e dell’amore; per cui non può
più concepire Dio che come un tiranno che impone la Sua legge.
Poteva il padre fare diversamente, obbligare il figlio a rimanere a casa? Forse. Ma come è possibile
trattenere una persona libera senza privarla della sua libertà? Bisognava tenerla in catena? Far intervenire la
polizia? Tagliarle i viveri? Chiuderla in qualche stanza sprangando le porte di uscita e perfino le finestre?
Ucciderla? Bisognava forse fare mettere delle sentinelle alla porta e un esercito di soldati a sorvegliare le strade e
i confini delle sue terre? Il padre avrebbe potuto trasformare il ragazzo in un albicocco o in una pietra, perché
così mutato non avrebbe avuto né l’idea di restare, né quella di andare. O forse il padre poteva fare qualcosa
d’altro? Possiamo forse suggerire a Dio qualche idea che a Lui non sia balenata alla mente!? Vogliamo forse che
la casa del padre, il Regno di Dio assomigli a uno di quei sempre più numerosi stati le cui frontiere sono
sorvegliate a vista da uomini con casco e tuta mimetici e dove gli insoddisfatti vengono depositati in campi di
concentramento, messi così al sicuro, al riparo da ogni evasione? No! Il padre non può obbligare nessuno a
rimanere con lui. La casa del padre è quel regno ammirevole che si apre in ogni direzione verso l’infinito, le cui
strade percorrono le campagne senza che si sappia in quale momento si sia lasciato il regno. L’Amore è l’unica
legge della sua casa, è anche l’unica frontiera e l’unica sua forza di coesione. È impossibile per colui che se ne
voglia andare, essere trattenuto. Il padre ha corso fino in fondo il rischio dell’amore che è il rischio stesso della
libertà. Per definizione l’amore è ciò che nessun essere vivente può essere costretto a sentire o a fare. E la libertà
non è niente altro che la possibilità di amare. Tale era la libertà di Adamo, il suo libero arbitrio nella casa del
Padre. Questa libertà, unica condizione per la vita dell’amore, porta in se stessa il rischio di essere perduta. Il
figlio, Adamo, perde questa libertà nel momento in cui la usa senza più amare. Infatti, è nella libertà che fiorisce
l’amore, e l’amore si rinnova solo dove c’è libertà.
Il giovane, non amando più il padre, chiede altri spazi perché quella casa meravigliosa e quel giardino
senza pari sono per lui una tomba e non un luogo di vita. Spentosi nel suo cuore l’amore per il padre, egli vive
nell’ombra e cerca altri soli, altre luci. Non amando più non si sente più libero nella casa del padre, avendo
smarrito la vera libertà, va in cerca di surrogati.
Tutte le alienazioni della società contemporanea che Marx ha così ben analizzato: l’alienazione causata
dalla situazione economica, quella causata dalla miseria, dallo sfruttamento, dalla religione - e noi potremmo
aggiungere: l’ossessione sessuale, l’alcol, il tabacco, la droga - tutte queste alienazioni non sono che la
conseguenza della sola e fondamentale alienazione, quella dell’uomo che ha lasciato la casa del padre e che non
può fare altro che dissipare il suo bene e cadere nella depressione, nella disperazione, nella miseria. Tutti gli
sforzi per la liberazione dell’uomo sfociano in altre alienazioni o in nuove servitù perché sono compiuti da un
uomo che non è stato guarito da questa alienazione primaria.
Nel paese lontano il giovane dimentica la casa del padre, vive la sua vita, la sua nuova libertà e offre il
suo affetto agli idoli di quella nuova terra. Là conosce nuovi amici e ama altre donne. Ma nella sua nuova casa,
dove il padre è assente, sperimenta che la miseria sostituisce l’abbondanza e che al posto della libertà c’è la
schiavitù. La vita nel paese lontano, come risultato dell’autonomia, crea disgusto, rimorso, sensazione di
isolamento. Vivendo nel paese lontano si ha fame, malattia, calamità e un cuore privato da ogni consolazione
divina.
In questa contrada il giovane si viene a trovare nel bisogno, cioè nella privazione completa, nel vuoto
assoluto del cuore e, dopo aver tutto sacrificato al piacere, non trova più in sé, né attorno a sé, che motivo di
dolore.
Questa parabola riflette la realtà di tutti i tempi e particolarmente del nostro, poiché i suoi figli, nati nella
terra di nessuno, fuori dalla casa del Padre, al di là dei confini del Regno di Dio, sono nell’abbondanza e
La pazzia di Dio
17
CAPITOLO I
sprecano, commerciano la distruzione del mondo e non si curano della fame del fratello. Così sempre più ricchi e
poveri, avvertono, senza riuscire a individuarlo, il bisogno di qualcosa o di qualcuno che riempia il proprio
animo. La nostra generazione, è tanto separata da Dio che, pur continuando a dire che Egli esiste, Lo ha relegato
nel punto più lontano dell’universo e non Lo avverte più come l’Iddio vivente e vero. Ha così completamente
dimenticato la realtà del Suo Regno che, se anche ne fa richiesta ogni qualvolta ripete «Padre nostro... venga il
tuo regno», non crede più che ciò sia possibile. Il Regno di Dio è diventato di una tale estraneità alla mente
umana che il compito della Chiesa del Signore è simile a quello dello psichiatra che, con ogni mezzo, cerca di
stimolare le cellule nervose del cervello del proprio paziente il quale, avendo perso la memoria della propria
identità, non riesce più a ricordarsi chi è, perché è qui, da dove viene, dove va e quale sia il senso della sua vita.
E per questo abbandono della casa del padre, sia che viva nell’abbondanza sia che pascoli i porci, ma
comunque non camminando sulla strada del ritorno verso il Regno di Dio, che l’uomo è nella situazione di
peccato.
Eden6
Il mondo che si offrì allo sguardo dell’uomo il settimo giorno della creazione, quando tutto riposava e
respirava del soffio della perfezione e della bontà di Dio, era un mondo che non siamo capaci di immaginare e
che non possiamo più contemplare, perché è stato distrutto dal diluvio. In quella realtà perduta Dio aveva posto il
capolavoro del Suo pensiero creativo: la coppia, l’uomo da lui creato a Sua immagine e somiglianza. Tutto era a
disposizione di questa coppia affinché di più non potesse né avere né desiderare e non potesse essere più di
quello che già era: figlio del Creatore (Luca 3:38), signore della creazione.
In quel giardino Dio aveva anche piantato l’albero del bene e del male. La presenza dell’albero della
conoscenza del bene e del male nell’Eden è per alcuni motivo di rimprovero verso Dio. Dicono che se Egli non
l’avesse messo Adamo non avrebbe peccato. Altri giustificano la sua presenza dicendo che Dio voleva mettere
alla prova la propria creatura. Così dicendo, attribuiscono a Dio il ruolo dell’Avversario che è quello di tentare.
Giacomo dice espressamente che l’Eterno non può tentare nessuno; è contrario alla sua natura (Giacomo 1:13).
Anche questo albero è segno della bontà divina. Dio ben conoscendo la defezione di Satana e ben sapendo che
egli avrebbe utilizzato ogni astuzia pur di fare accoliti, ha voluto relegare il suo raggio di azione solo in un
punto: nell’albero ed ha avvertito in anticipo l’uomo per fare in modo che se ne guardasse. Così facendo il
Creatore ha delimitato il campo d’azione di Satana e gli ha impedito di agire ovunque.
Ma era un albero vero, simile a quelli che noi possiamo vedere, o si trattava di una illustrazione che
permettesse di comprendere come il male era entrato nel mondo? I teologi si dividono su questa doppia
interpretazione, ma ciò che conta è l’insegnamento del racconto, comprensibile in tutti i tempi.
Questo albero della conoscenza del bene e del male ricordava ad Adamo ed Eva che il bene era tutto ciò
che ricevevano da Dio e che il male era andare oltre, rifiutare cioè la Sua offerta. Essi potevano così sapere ciò
che per Dio era buono e ciò che non lo era, perché era stato loro proibito. In quel mondo essi non avevano
nessuna conoscenza sperimentale di ciò che era bene o di ciò che era male. Non avevano altra conoscenza che la
parola di Dio, il quale tutto aveva fatto per loro. Mangiare il frutto dell’albero significava mettersi al di sopra di
ciò che Dio aveva detto; significava prendere il Suo posto e - come al Suo posto - credere di stabilire ciò che è
bene e ciò che è male. Questo albero segna la differenza che c’è tra Dio e l’uomo; stabilisce il confine tra Adamo
e il suo Creatore. L’uomo può continuare a vivere finché accetta di ricevere da Dio tutto quello che la sua grazia
gli offre senza alcun limite. Egli esiste perché Dio lo ha creato e vive perché ha ricevuto la vita da Lui. Dio è tale
perché non ha ricevuto alcunché da nessuno ed esiste in quanto Egli è. Accettare questa differente situazione,
non è essere subordinati, ma amati, liberi e capaci di amare. L’eterna differenza tra Dio e la Sua creatura porta le
seguenti caratteristiche:
- Dio ha la vita in Sé
- Dio non ha un creatore al di sopra di Sé
- Dio è necessario all’uomo
- la creatura la riceve
- l’uomo ha un Creatore
- l’uomo non è necessario a Dio
Non nutrirsi del frutto di quest’albero significa quindi non sopprimere la differenza di natura che c’è tra
Dio e Adamo. «Non toccare questa differenza, poiché essa è la tua vita. Tu non vivi che nella misura in cui Io
sono il tuo Duo e tu la mia creatura; nella misura in cui, voltato verso di me, tu sei l’immagine della mia gloria, il
riflesso della mia bontà: Non toccare questa differenza!»
Dio, essendo (giustamente) un Dio d’amore, giustamente volendo la vita e il bene della Sua creatura, non
può che proibire di mangiare il frutto di quell’albero. Altrimenti sarebbe come consentire a Sé di non essere più
Dio, il Dio di Adamo; di non più essere la vita, la giustizia e la bontà dell’uomo. Significherebbe acconsentire
alla morte della Sua creatura e perderla per sempre. Per questo motivo Dio può dare ad Adamo tutta la libertà,
tranne quella di potere fare a meno di Lui. Tutti i posti del giardino sono suoi, dell’uomo, tranne il posto che è
occupato da Dio. Poiché l’uomo non è Dio e quand’anche Dio facesse dell’uomo un dio, egli non sarebbe altro
6
Seguiamo in questa sezione le riflessioni di PURY Roland de, Présence de l’Éternité - L’ennemi et les deux arbres, ed. Delachaux
& Niestlé, Neuchâtel 1946, pp. 29-38.
La pazzia di Dio
18
IL PECCATO I
che ciò che Dio gli ha dato di essere. Più Dio innalza la sua creatura, più essa riceve, più dipende dalla grazia del
suo Creatore. Più Dio le offre, più essa beneficia del Suo dono. Mai si potrà sopprimere questa differenza. Tutti i
posti della nostra astronave spaziale che si muove nella sua orbita celeste sono a disposizione dell’uomo; egli
può occupare e visitare qualsiasi posto, entrare nei misteri dell’infinitamente piccolo e dell’infinitamente grande,
scoprire, comprendere e utilizzare le leggi che governano il tutto, ma, poiché creatura non può mutare le leggi
esistenti, né stabilirne altre senza distruggere o alterare il bene esistente e non può occupare il posto di guida di
questo universo senza follemente manomettere le leve dell’ordine, creando così il caos e alterando la rotta
all’astronave sulla quale vive. Occupare il posto di Dio significa rovinare l’orchestra dell’universo. Ecco perché
il solo pericolo, il pericolo assoluto, quello di morte, è quello che il Dio misericordioso gli ha indicato, cioè che
l’uomo non può vivere da solo al di fuori della Sua grazia, nel silenzio della Sua parola. Per l’uomo diventare la
propria ragione di essere, vivere autonomamente, diventare dio a se stesso è cessare di essere creatura: morire.
L’Avversario non suggerisce ad Adamo di mentire, di uccidere, di imprecare il santo nome del Padre o
commettere adulterio, tutto questo non avrebbe avuto senso per lui. Queste tentazioni possono avere senso per
noi che viviamo al di fuori dell’Eden: in quel tempo la tentazione era su un altro piano. Satana, incontrandosi
con l’uomo, non mette in dubbio il valore e la bontà della legge di Dio, ma la bontà stessa di Dio, il Suo amore,
la Sua sincerità nei confronti delle Sue creature, il Suo disinteresse nell’aver desiderato e creato l’umanità. Non
nega neppure la Sua esistenza, anzi la conferma: «Come Iddio v’ha detto: “Non mangiate del frutto di tutti gli
alberi del giardino?” Genesi 3:1. Sì, Iddio esiste, ma il nemico inizia ad alterare la Sua Parola. Eva se ne accorge
subito e risponde: «Del frutto degli alberi del giardino ne possiamo mangiare; ma del frutto dell’albero, che è in
mezzo al giardino, Iddio ha detto: “Non ne mangiate e non lo toccate, ché non abbiate a morire”. E il serpente
alla donna: «No non morrete affatto; ma Iddio sa che nel giorno che ne mangerete, gli occhi vostri si apriranno, e
sarete come Dio, avendo la conoscenza del bene e del male» Genesi 3:2-5. Il nemico, nel tentativo di farci
perdere, insinua nella mente dei nostri progenitori che Dio è geloso e che la Sua Parola non è una Parola di verità
detta per il nostro bene. Satana ci assicura che Dio ci proibisce qualcosa perché è geloso di noi; che egli con la
Sua Parola di Padre ci tiranneggia, che ha paura che noi possiamo diventare come lui e prendere il Suo posto.
Dio ha bisogno di noi per essere Dio e ha quindi paura di perdere il Suo trono, la Sua autorità e teme di dividere
il Suo regno con noi che, essendo creati a Sua immagine e somiglianza, quindi liberi, possiamo diventare come
Lui ed essere un altro Lui, senza di Lui. L’Avversario ci invita a superare il confine di creatura ed entrare nella
sfera di dèi creatori: «Voi siete intelligenti, potete accrescere la vostra capacità e in voi avete la potenza della
vita. Se cercherete di essere come Dio è, non morrete. Dio vi ha parlato di morte per farvi paura perché non
vuole che siate dèi. Come dèi, la vostra parola, il vostro pensare avrà lo stesso valore della parola e del pensiero
di Dio. Non è meraviglioso, non è straordinario? Se accettate i limiti della parola di Dio non sarete mai alla Sua
altezza, nella Sua posizione, ma continuerete e essere dei subordinati, degli esseri prigionieri dei confini che Dio
vi impone. Se mangerete il frutto proibito vi staccherete da Dio e tra voi e Lui non ci sarà nessuna differenza».
«Farsi Dio significa porre il proprio “io” al centro del proprio universo, piccolo o grande che sia, significa
cercare la gloria personale piuttosto che la gloria di Dio; significa voler «vivere la propria vita”, invece di
riceverla dalle mani di Dio. In breve, significa voler appartenere al proprio “io” e non a Dio, dominare e non
servire».7
Il racconto della Genesi ci spiega che cosa è il peccato. Esso consiste nel non aver fiducia nella parola
di Dio o nel dubitare che ciò che Dio ci dice sia vero e sia per il nostro bene. È giudicare la Sua offerta e non
ritenerla buona per noi. Il male che commettiamo tutti i giorni quando diciamo che non abbiamo tempo di
ascoltare l’Eterno, quando riteniamo di non poter applicare nella nostra società condizionante i principi che Egli
ci dona nella Sua Parola, è un riflesso, è una ripetizione del peccato di Adamo perché, come lui, riteniamo che il
bene per noi sia qualcosa d’altro che ascoltare Dio e seguirlo.
Il peccato è dire, non solo con le parole, ma dimostrandolo con i fatti, che Dio ci mente, che la verità è
nella bocca dell’Avversario e ora anche nella nostra perché è meglio fare le cose come le pensiamo noi che come
Dio ce le rivela.
Conseguenze del peccato
È perché l’uomo ha voluto essere qualcosa di diverso da ciò che Dio gli ha dato di essere che viviamo in
uno stato di dipendenza dal male (Giovanni 8:34). Il fatto che siamo tutti schiavi del peccato è così reale che
nessuna persona è capace da sola di ristabilire giusti rapporti sia con Dio, sia con l’umanità che la circonda, sia
con se stesso e con l’ambiente.
Scrive E. Brunner: «Con il peccato l’uomo non ha perduto la sua capacità di svilupparsi. Il peccato non
impedisce, in alcun modo, di essere artista, uomo di scienza, legislatore e uomo di stato. Ma esso si manifesta in
tutte queste attività e marca effettivamente con il suo suggello ogni manifestazione della mente, che si tratti di
arte, di scienza, di diritto, di Stato... L’uomo ha ancora come peccatore la libertà, cioè la libertà di creare in sé
un’opera di carattere culturale, ma non ha la libertà, una libertà veramente umana, per creare un’opera culturale
7
DIÈTRICH Suzanne de, Il piano di Dio, ed. Borla, Torino 1963, p. 28.
La pazzia di Dio
19
CAPITOLO I
che piaccia a Dio. È capace di essere un peccatore virtuoso, ma non è capace di non essere peccatore».8
Conseguenza del peccato nella dimensione spirituale
La prima conseguenza del peccato è di natura spirituale: l’uomo ha paura di Dio, fraintende la Sua Parola.
Il Padre si sente rispondere: «Ho udito la tua voce nel giardino, e ho avuto paura, perché ero ignudo, e mi
sono nascosto» Genesi 3:10. A causa del peccato l’uomo non è più quella creatura spontanea nei confronti del
suo Creatore. Non si pone più davanti a lui come il fanciullo, nella sua innocenza, che corre ad abbracciare le
gambe del padre che rientra a casa dopo una giornata di lavoro. Il genitore Dio entra nel Suo Regno e il figlio,
perché ha alterato l’armonia della casa, sfugge al Suo sguardo. Sa di aver spezzato il legame di sincerità e lealtà
che lo univa a Lui e si nasconde. L’amore, la bontà del Padre, anche senza nessuna minaccia e rimprovero da
parte Sua, sono per l’uomo motivo di paura. Non può più guardare a Dio con l’innocenza di prima, non perché il
Padre sia cambiato nei suoi confronti, ma perché egli sa di aver giudicato il Padre come bugiardo, tiranno,
ingiusto. L’uomo non sopporta più di essere osservato dall’occhio di Dio, non ricerca più il volto di Colui che gli
aveva dato la vita e l’aveva creato a Sua immagine e somiglianza. La luce di Dio che avrebbe dovuto rallegrare
l’uomo è ora come il fuoco che consuma: nessuno può vederlo, penetrare nel Suo mistero e restare in vita (Esodo
33:20).
«La conseguenza più immediata del peccato è orientare in un modo sbagliato la propria vita... L’uomo,
anziché essere colui che riceve la sua vita con gratitudine dalle mani di Dio e invece di amare Dio che lo ama per
primo, è ormai nel suo essere più intimo “un cuore ripiegato su se stesso” (Lutero), un cuore falso e pervertito.
La sua perversità si presenta sotto due aspetti: adoratore di se stesso e adoratore dell’universo, idolatra di se
stesso e idolatra del mondo, concupisce il piacere che il mondo gli procura. Ma per il fatto stesso che l’uomo,
pure come peccatore, non cessa d’essere destinato a Dio, il peccato si manifesta come una contraddizione che lo
spinge, in ogni tempo, a sfuggire Dio e a ricercarlo, a rinnegarlo e a temerlo in una forma superstiziosa, a
praticare l’iniquità e una pietà apparente, a secolarizzare la Sua esistenza e a darGli un aspetto sedicente sacro».9
L’uomo creato dal Padre ha fondamentalmente bisogno di Lui; si sente orfano e lo cerca, ma lo cerca
lontano dalla Sua rivelazione, lo cerca partendo dal suo cuore ormai non più equilibrato. Ed ecco che questo dio
che egli si forgia risulta essere quello dell’Olimpo al quale l’uomo sa anche sacrificare la propria vita, i propri
figli e affetti perché ne ha paura, vedendolo come un dio tremendo e assetato di sangue che bisogna placare,
rabbonire, accontentare con le messe e i propri doveri religiosi. Questo dio, nella nostra società occidentale,
società di pseudo evoluti, viene chiamato Padre di Gesù Cristo, ma di fatto non è altro che il proprio idolo, frutto
della propria immaginazione, della proiezione in lui dei nostri sentimenti, ideali, valori e concezioni, un dio che
non dice altro se non ciò che noi pensiamo, crediamo e che ancora stabilisce il bene e il male a seconda della
nostra visione; un dio, insomma, che dice ciò che noi gli facciamo dire; che pensa come noi pensiamo. Visto da
vicino questo dio non è altro che il nostro «io» divinizzato. Gli dèi dell’antichità avevano le stesse concupiscenze
degli uomini, gli stessi loro sentimenti di gelosia, invidia, odio (del resto erano stati creati dagli uomini a loro
immagine e somiglianza) e avevano originato l’umanità per essere serviti da essa. Queste divinità protettrici
continuano ancora a esistere oggi con nomi cambiati, come cambiati sono i tempi.
Il peccato ha talmente alterato la natura spirituale umana che, sebbene l’uomo razionalmente giunge ad
affermare che Dio deve essere amore, fonte di ogni bene, e che è desiderabile la Sua vicinanza, vantaggiosa la
Sua presenza nella vita e nella propria casa, di fatto però cancella con una spugna la sua relazione con Lui. Visto
come un problema da evitare, egli si nasconde da Lui e dice: «Non ho tempo per queste cose, non ho tempo di
ascoltare, sono troppo impegnato a costruire la mia vita, la mia famiglia e la mia casa. Sarebbe meraviglioso
vivere con Dio, ma questo privilegio non è per noi. Ciò che Dio dice è per il nostro bene, ma preferiamo non
sapere quello che ha da comunicarci, altrimenti dovremmo cambiare il nostro modo di vivere. Sì, Dio è buono;
con Lui la vita potrebbe cambiare in meglio, ma sono gli anziani, sono i giovani, i vicini, i governanti, i potenti,
il popolo, in una parola, tutti gli altri che Lo devono ascoltare». Tutte queste comuni reazioni non sono niente
altro che la manifestazione della paura che Dio, entrando nella nostra vita, venga a sconvolgerla.
È perché l’umanità continua ad avere «paura» di Dio, la Sacra Scrittura ce Lo presenta continuamente, già
fin dall’origine, che viene a cercare l’uomo, lo chiama, gli porge la mano, gli offre il Suo perdono e, altrettanto
continuamente, l’uomo, come da quel giorno nell’Eden, si nasconde, si sottrae alla Sua presenza, Gli volta le
spalle e afferra con le sue mani tutto ciò del quale possa dire: «È mio!», pur di non mettere le sue dita nella
mano dell’Eterno esclamando con gioia: «Ecco mio Padre».
Questa separazione da Dio ha portato l’uomo a dividere la sua vita in cose secolari e in cose spirituali,
relegando queste ultime solo a qualche ora nei giorni di festa e considerandole privilegio di pochi eletti.
La paura di Dio è così radicata nel nostro cuore che, per reagire a essa, quando rievochiamo il racconto
della Genesi, fraintendendo i capitoli 2 e 3, ci sentiamo posti di fronte a un Dio geloso e autoritario che, invece
di proteggere le Sue creature, le tenta, cerca di far loro lo sgambetto e, una volta cadute, afferma: «Te l’avevo
8
9
E. Brunner, o.c., pp. 140, 141, 142.
Idem, p. 143.
La pazzia di Dio
20
IL PECCATO I
detto! Adesso le buschi».
La Parola di Dio che ci avrebbe dovuto conservare la vita, a causa delle menzogne dell’Avversario, è da
noi considerata come la causa della nostra morte. Noi moriamo e diciamo: «È Dio che ci ha tolto la vita»,
confondendo così la Sua parola di protezione: «Tu per certo morrai» se ti separerai da me, con: «Io ti farò
morire!». Così il nostro cuore sedotto si ribella di fronte a un Dio che, per una birichinata del Suo figlio gli toglie
la vita perché gliel’aveva detto.
«Ma: “Tu morrai certamente” non vuol dire: “Io ti farò morire!” Le parole di Dio volevano esprimere:
“Tu ti farai morire!”. “Se mangi il frutto di questo albero, tu ti darai la morte”».
La morte è, in effetti, la sola cosa che Dio non dà. Essa è la sola cosa che l’uomo possa dare a se stesso. È
il salario del peccato (Romani 6:23). Essa è il segreto di un mondo nel quale Dio non è più colui che dà tutto; è
lo stato di un uomo che cerca di farsi vivere dandosi la vita. Che ci si pensi bene: quale è la sola cosa che
effettivamente noi possiamo dare a noi stessi, se non la morte?... Ora Dio non ha creatore. E in questo consiste la
sua divinità. In Adamo, noi siamo delle creature senza Creatore. Ora, per una creatura, non avere Creatore, è
appunto morire. La morte non ha creatore. Dio non ha creato la morte. Dio non è il Dio dei morti. I morti non
hanno creatori, essi sono dunque veramente “come Dio”. Questo è l’incredibile imbroglio del serpente... La
morte è veramente l’esclusivo dominio dell’uomo senza Dio, di Adamo, il piccolo signore».10
Quando l’Eterno viene in mezzo a noi non dice mai di essere la vita e la sua negazione, la morte, bensì
afferma: «Io sono la vita» e, per chi è morto: «La risurrezione e la vita» Giovanni 14:6; 11:25. Giovanni dice:
«In Lui era la vita» 1:3.
La credenza nella continuazione della vita dopo la morte, l’immortalità dell’anima, la reincarnazione,
l’inferno è tutto quel che l’uomo è riuscito a inventare perché ha creduto al nemico quando gli ha detto «Non
morrete affatto» Genesi 3:4.
Oltre alla separazione con il suo prossimo, l’uomo avverte la divisione in se stesso e con l’Invisibile. Ha
bisogno dell’Assoluto nelle sue varie espressioni e non può essere soddisfatto del relativo. Nel cuore dell’uomo
c’è un vuoto che solo la persona di Cristo Gesù può colmare.
Pascal diceva: «l’uomo è grande in questo: che si riconosce miserabile: un albero non sa di essere
miserabile».11 Questo sentire esprime il bisogno della salvezza.
Creato a immagine e somiglianza di Dio ha una vocazione genetica: conoscere Dio.
Ireneo, nel secondo secolo, scriveva: «La gloria di Dio è l’uomo vivente; ma la vita dell’uomo sta nel vedere
Dio».12
L’umanità non è nelle condizioni di realizzare la propria salvezza, il suo bisogno di religione, di speranza
orienta l’uomo all’attesa della salvezza. La voce udita dai pastori in una lontana notte sulle colline di Betlemme
che diceva: «Non tenete, ecco vi reco il buon annuncio di una grande allegrezza che tutto il popolo avrà: “Oggi
nella città di Davide, v’è nato un salvatore, che è Cristo il Signore”» Luca 2:10,11; è la risposta di Dio a questo
bisogno.
B. Sesboüè riportando come qualcuno ha parafrasato la celebre frase di Dèscartes possiamo dire: «In
Gesù, morto e risuscitato, mi rendo conto che non solo che Dio esiste, ma che io esisto per lui, che vuole essere il
mio liberatore e darmi la sua propria vita. Amor ergo sum. Dio mi ama, sono amato, perciò esisto e tutta la mia
vita acquista un senso e un valore eterno. Inoltre scopro che l’atto salvatore, che Dio compie per me, è anche
l’atto d’un uomo come me, il quale impegna liberamente la propria vita in una missione salvifica, strappandoci
tutti alle forze del male e attuando in se stesso per noi il passaggio a Dio Padre suo. Infatti quegli che ci
riconcilia con Dio e ci comunica l’adozione filiale è l’unico mediatore fra Dio e gli uomini (confr. 1 Timoteo
2:5), perché egli è veramente Dio e veramente uomo».13
Conseguenza del peccato nella dimensione morale
Separati da Dio, avendo interrotto il legame spirituale con il Padre che dava luce alla loro vita, Adamo ed
Eva si guardano e si scoprono «nudi». La prima manifestazione del male sembra che avvenga nei loro rapporti
reciproci, perdono la primitiva innocenza. Staccandosi da Dio volevano essere veramente liberi, padroni di sé,
non dipendenti da nessuno, invece essi «si nascondono l’uno all’altra e la vergogna entra nella loro vita. Non
possono più essere semplici e naturali, non possono più dirsi tutto. Hanno perduto l’innocenza gioiosa del loro
dono reciproco».14
«Le creature hanno perso la loro trasparenza; si vergognano di rendere manifesta la nudità del loro
essere (corpo, cuore e spirito); ecco perché l’umanità si avvia a vivere nella menzogna. Gli uomini così non si
10
11
12
13
14
R. de Pury, o.c., pp. 36,37.
PASCAL B., Pensées, n. 114.
Ireneo, Contro le eresie, IV,20,7, Cerf, Paris 1984, p. 474.
SESBOÜÈ Bernard, Gesù Cristo l’unico mediatore, saggio sulla redenzione e la salvezza, vol. I, ed. Paoline, Cinisello 1991, p. 30.
DIÉTRICH Suzanne de, La libertà dei figli di Dio, ed. Borla, Torino 1967, p. 18.
La pazzia di Dio
21
CAPITOLO I
limiteranno a mentire gli uni agli altri; giungeranno a mentire anche a se stessi».15
Quando Dio li interroga e ci interroga, noi, come i nostri progenitori, ci accusiamo a vicenda e tentiamo
di scaricare la nostra responsabilità sugli altri o su Dio. Sentiamo il bisogno di discolparci, vediamo nell’altro
l’inferno, la causa del nostro male; vediamo nel prossimo il nemico e la causa della nostra disgrazia. Alla
domanda di Dio: «Chi ti ha mostrato che eri ignudo? Hai tu mangiato il frutto dell’albero del quale io t’avevo
detto di non mangiare?» Genesi 3:11. L’uomo non risponde direttamente con un sì o con un no, accusa la donna
e, attraverso lei, lo stesso Creatore: «La donna che Tu mi hai messo accanto, è lei che m’ha dato del frutto
dell’albero, e io ne ho mangiato» v. 12. E la donna, a sua volta interrogata, elude la sua responsabilità e accusa il
serpente e quindi, come ha fatto l’uomo, Dio che gli ha permesso di entrare nel giardino (v. 13). «Entrambi si
sottraggono alla propria responsabilità. Le relazioni libere e schiette sono spezzate: ognuno nutre pensieri segreti
che non confessa. Nasce nella donna il desiderio, nell’uomo l’istinto dominatore. L’una vuole sedurre, l’altro
dominare. È scomparso il libero dono di sé, scevro di secondi fini. Avevano voluto essere i padroni del mondo,
ed ecco non sono più neppure padroni di se stessi. La sofferenza, la lotta per l’esistenza, la solitudine, diventano
il loro retaggio quotidiano... Dio aveva creato l’uomo affinché fosse il Suo collaboratore responsabile. Aveva
creato la donna perché fosse la compagna, la collaboratrice dell’uomo. A entrambi aveva affidato la custodia
della Sua creazione. Rifiutando il destino stabilito per loro da Dio, tentando di rendersi indipendenti, gli esseri
umani si sono separati non solamente da Dio, ma anche tra di loro. Sono diventati simili a tante trottole che
girano su se stesse: girano, girano e cozzano l’una contro l’altra. L’intera umanità, nient’altro che un mondo di
trottole che impediscono ogni vera comunione; grosse trottole di tribù contro tribù, di potenze contro potenze. E
ognuna gira solo su se stessa.
Separandoci da Dio, abbiamo distrutto l’amore; abbiamo distrutto qualsiasi forma di vera libertà nelle
relazioni umane».16
Tutta la storia dell’uomo non fa altro che presentare una lunga lista di autogiustificazioni per sé e di
accuse rivolte a Dio e agli altri. L’uomo gioca alla guerra fin da bambino, costruisce le armi da giovane, cova
dentro di sé rancori e odi, si diverte e trova il suo svago negli spettacoli di violenza e, dopo aver rifiutato il
Sermone sul monte, va a finire che va in guerra. Ma poiché in guerra si resta mutilati, si muore, i sopravvissuti si
chiedono: «Se Dio esiste, perché non interviene? Non è vero che Dio ama gli uomini, con tutti questi crimini che
si compiono!» Ed è come se dicessero: «Sì, Signore, la colpa del mio male è Tua perché non hai impedito che
l’altro mi facesse quello che io avrei voluto fare a lui!».
La storia dell’uomo testimonia del suo percorso nel tempo. I popoli felici si dice che siano senza storia.
Quelli che la ricordano rievocano violenza, guerre, schiavitù, genocidi, torture, imperialismi nelle variegate
espressioni.
Conseguenze del peccato nella dimensione fisica
L’uomo, creato per le stelle, svanisce nella polvere, ma prima di concludere il suo ciclo nella terra,
malattie e sofferenza riempiono la sua vita. Perfino il momento più sublime per la coppia: il parto, è il momento
del dolore più acuto. Fiorire alla vita un nuovo essere, avviene nella pena e nel travaglio.
Tutte le nostre malattie, così come, gli ospedali e i lazzaretti sono la conseguenza naturale di un processo
involutivo della vita. Allo stesso modo un ramo destinato a portare frutto, staccato dall’albero, diventa secco e
muore, prima di marcire nella terra. Pur con il desiderio di continuare vivere è assurdamente destinato alla morte
e gli causa angoscia. Le malattie che lo colpiscono annunciano la morte.
Il lavoro che avrebbe dovuto esprimere la creatività dell’uomo è segnato dalla negatività
dell’affaticamento, dalla pericolosità. Signore della natura, è da lei dipendente e subisce la sua violenza
manifestando la propria vulnerabilità e fragilità.
Conseguenza del peccato nella dimensione cosmica
L’uomo, ammaestrato da Dio, accettando le sue direttive, comprendendo le leggi della natura, avrebbe
dovuto trasformare la terra secondo il modello datogli nel giardino dell’Eden. Ma il suo vivere lontano dalla casa
del Padre gli fa credere che la terra sia sua e che sia suo inalienabile diritto beneficiare dei suoi prodotti senza
amarla e conoscerla. Quella terra pertanto che gli avrebbe dovuto offrire abbondanti prodotti, gli presenterà il
suo pane come conseguenza del sudore della fronte e gli offrirà i suoi fiori, ma con le spine. Non sarà più uno
scambio uomo-ambiente, ma un usufruire dell’ambiente solo per avere e accumulare. L’uomo, non collocandosi
più nella giusta prospettiva, saccheggia e depaupera la terra; e credendola eterna, la offende e la distrugge.
Presume di conoscerla, perché l’abita da secoli e millenni, ma l’inquina. Gli era stata detto di assoggettarsela
(Genesi 1:28), ma egli cerca di spadroneggiarla. I disastri ecologici del nostro tempo testimoniano del rapporto
sbagliato che l’uomo senza Dio ha stabilito con il suo habitat.
15
16
S. de Diétrich, Il piano..., p. 28.
S. de Diétrich, La libertà..., pp. 18-20.
La pazzia di Dio
22
Capitolo II
LA CROCE
«La storia della salvezza, nella Bibbia, è compresa tra due visioni che costituiscono il prologo e l’epilogo
umano: la visione del Paradiso perduto e quella della Città di Dio. Sono due finestre aperte sull’eternità: la
rivelazione di ciò che l’uomo sarebbe potuto essere se non si fosse separato da Dio; e la visione di ciò che sarà,
allorché il Signore avrà compiuto la sua opera di redenzione e l’umanità pacificata risorgerà a nuova vita, felice
di possedere la gioia divina.
Per il pensiero indù e per una parte del pensiero greco, il mondo è in un eterno ritorno: la ruota della
storia gira come la ruota delle stagioni, le civiltà nascono e muoiono. La rivelazione biblica ci dice che il nostro
mondo ha un senso, uno scopo, e una meta: è stato creato da Dio e per la gloria di Dio. La storia biblica è a
senso unico: va dalla prima creazione alla nuova creazione in Cristo; e il suo episodio centrale è costituito dal
dramma dell’incarnazione. Ecco perché le prime pagine della Bibbia non si comprendono se non alla luce delle
ultime. Le une e le altre costituiscono, rispettivamente, il prologo e l’epilogo del dramma del Calvario, della
storia della nostra redenzione».1
«Il centro del tempo è un fatto storico, già compiuto nel passato: la vita e l’opera del Cristo».2
Importanza della croce
L’inglese Isaac Watts, nel XVIII secolo, compose 600 canti; uno dei più belli, scritto nel 1707, è stato
ispirato dalle parole che l’apostolo Paolo scrive ai Galati 6:14. Il suo titolo è: «Quando io contemplo lo
splendore della croce». Charles Wesley, che aveva scritto 6500 inni, diceva che li avrebbe cambiati tutti
volentieri con questo canto di Isaac Watts. Anche se ieri come oggi molti, troppi, non sanno che farsene della
croce di Cristo Gesù, essa rimane il centro della storia e dell’universo.
Per la Sacra Scrittura la collina che domina il tempo e l’eternità, il punto attorno al quale gravitano i
mondi, anche se sarà solo nel futuro che Dio vi porrà il Suo trono, è il Golgota, il monte del teschio (Zaccaria
14:4; Apocalisse 21:1,2; 22:3).
Il mandato evangelico consiste proprio nel presentare agli uomini ciò che è avvenuto fuori dalle mura di
Gerusalemme, su quel monte la cui croce collega la terra al cielo e abbraccia l’universo.
La croce manifesta il sacrificio che si è compiuto nell’eternità nel cuore dell’Iddio vivente e mostra alle
Sue creature celesti, nel tempo e nello spazio, la realtà e la veridicità del Suo amore senza confini. Essa offre
all’umanità separatasi da Lui la pienezza della Sua volontà di perdono e la possibilità di vita. Sul Golgota, sul
fare della sera, in un luogo preciso e puntuale all’incontro, l’umanità, pur non comprendendo l’intera portata
della dimensione dell’amore di Dio, può scorgere nel crocifisso la sofferenza che ha affranto il cuore dell’Eterno
nel giorno in cui l’uomo ha creduto alla voce dell’Avversario e ha dichiarato con la sua scelta che il Padre era
bugiardo.
«Con la croce si situa nell’universo il “luogo” in cui viene rotta nell’uomo la potenza del peccato e in cui
può nascere la comunione perfetta tra Dio e l’uomo. Colui che raggiunge questo “luogo” è liberato dall’accusa
della legge e dalla sua maledizione, ma liberato ugualmente da ciò che nel più profondo di se stesso resiste a
Dio: il suo orgoglioso egoismo. Al di fuori di questo “luogo”, non ci può essere che allontanamento ...
dell’uomo nei confronti di Dio. Questo “luogo” è il punto di incontro fra Dio e l’uomo. Qui l’incontro si realizza
effettivamente... fino al punto che Dio si deve abbassare per obbligare l’uomo a discendere dal trono del suo io e
vivere dell’amore di Dio».3 La croce dimostra la distanza incolmabile che separa l’uomo da Dio. Più Dio tende
ad avvicinarsi alla Sua creatura, più questa innalza una barriera impenetrabile, un muro di protezione, di difesa,
di riparo dalla Sua grazia. Quando il Creatore si presenta nelle vesti di creatura, quando il Figlio incontaminato
dal male fiorisce tra l’umanità, essa prende le proprie difese affinché sia tolto di mezzo. Più Dio si avvicina e
cerca l’incontro con gli uomini, più questi reagiscono con violenza nei Suoi confronti. Ed è proprio nel momento
in cui Dio si avvicina in forma più diretta e intima all’uomo che si manifesta l’infinita distanza che li separa.
Così, più Dio si approssima all’uomo, più il peccato manifesta la sua vera natura, il suo volto. L’uomo non
sopporta la vicinanza di Dio, e lo dimostra alla croce.
L’Eterno, pur conoscendo le macchinazioni del cuore umano, ugualmente scende nell’abisso, nel pozzo
nero, nell’inferno, nel deserto di questo mondo per farci risalire a nuova vita e per non lasciare le Sue creature
eternamente sole, abbandonate a se stesse, sperdute in un universo privato della vera vita.
1
2
3
p. 408.
DIÉTRICH Suzanne de, Il piano di Dio, ed. Borla, Torino 1963, pp.12,13,22,23.
CULLMANN Oscar, Christ et le temps, éd. Delachaux & Niestlé, Neuchâtel 1966, p. 57.
BRUNNER Emil, Dogmatique, t. II, La Doctrine Chrétienne de la Création et de la Rédemption, éd. Labor et Fides, Genève 1965,
CAPITOLO II
Pur sapendo che cosa l’uomo avrebbe fatto di Lui, della Sua misericordia, della Sua pazienza, della Sua
bontà, Egli gli corre incontro, gli tende le braccia, le allarga per stringere a Sé il mondo intero e morire d’amore.
Il Suo amore è eterno ed è disposto a rinunciare alla Sua eternità, pur di vivere con le Sue creature che desidera
servire.
Di fronte alla ribellione dell’umanità, l’Eterno poteva dimostrare noncuranza, ma ciò avrebbe comportato
che per sempre e per tutti gli esseri che sarebbero nati su questo pianeta dell’universo, la morte sarebbe stata
eterna e la vita sarebbe finita in polvere.
Quando si considera l’universo nella sua immensità e il nostro mondo simile a un granello di sabbia su
una spiaggia che si estende per chilometri e chilometri, si avverte un senso di vertigine al pensiero che il
Creatore sia sceso in mezzo a noi. Considerando che la luce si propaga alla velocità di 300 mila chilometri al
secondo e che noi possiamo vedere lo scintillio di stelle già spente; pensando che l’uomo salendo sulla luna e
inviando le sue sonde spaziali verso altri pianeti del sistema solare, non ha compiuto nessuna vera conquista
dell’universo, ma si è solamente affacciato su questo infinito, e ricordando che il Creatore ha accettato di morire
su questo granello di sabbia e di non più essere il Dio eterno, allora, con più stupore di Davide, che
contemplava le meraviglie di una notte stellata, possiamo e dobbiamo chiederci: “Che cosa è l’uomo che tu ne
prenda cura?” Salmo 8:4. La vera conoscenza che possiamo avere dell’uomo proviene dalla conoscenza che
abbiamo di Dio. Dio non ricorda l’uomo, come facciamo noi che se ci ricordiamo di qualcosa o di qualcuno
dopo averlo dimenticato, ne siamo vagamente coscienti; Dio si “ricorda” di noi nel senso che l’uomo è nel punto
focale della sua coscienza, e si “prende cura” di lui mostrandogli sollecitudine, sorvegliandolo e visitandolo».4
È straordinario che l’Eterno rivolga la sua attenzione per
dell’uomo, realizzi la più straordinaria meraviglia: l’incarnazione.
qualcuno e, per compiere la salvezza
Dimensione universale della croce
Il male non ha solamente una dimensione umana, esso si è manifestato per la prima volta tra gli esseri
celesti prima che l’uomo venisse creato. Il piano della salvezza per la famiglia umana, nel manifestare l’amore
che Dio ha per le Sue creature, si ripercuote sull’universo intero (Colossesi 2:15; Efesi 3:10). Nella misura in
cui noi passiamo dalla dimensione terrestre a quella celeste e viceversa, prendiamo coscienza che è stato il
peccato a dividere queste due creazioni e al centro dell’eternità la croce di Cristo. In questa prospettiva si può
avere un’idea di cosa sia il male, ma anche di quale Amore sia capace il Dio della creazione.
Per cercare di capire il gesto incomprensibile dell’incarnazione in mezzo a una umanità corrotta, ci è utile
fare una riflessione sul carattere di Dio e sul come Egli ami manifestarsi alle Sue creature.
Nelle Scritture prima e dopo di Gesù si parla di un essere speciale: l’arcangelo Micael (Giuda 9), il cui
nome significa: “Chi è come Dio?”. Chi è Micael? Chi solo può essere simile all’Eterno?
La divinità, per avere una relazione completa con gli esseri celesti, gli angeli, si presenta come “angelo”,
arcangelo “il principale capo” degli angeli (Daniele 10:13), per essere la loro guida, il modello verso il quale
essi devono tendere. Dio si adatta alla natura delle Sue creature per potersi rivelare a loro, rendersi accessibile
per essere amato e per meglio manifestare il suo amore. Affinché le creature celesti o terrestri possano amare
Dio e svilupparsi a Sua somiglianza, bisogna che esse si possano identificare con Lui; da qui il Suo presentarsi
come “angelo” o come “figlio dell’uomo”. Le Scritture ci insegnano che oltre ad essere il capo degli angeli,
l’arcangelo Micael è anche il difensore del popolo che Dio ha sulla terra (Daniele 12:1) ed è anche Colui che,
mediante la Sua vittoria sulla croce, quale capo degli angeli, ha scacciato Satana dal cielo e i suoi seguaci
(Apocalisse 12:7-9).
Questa manifestazione di Dio, angelo fra gli angeli, ci può essere di aiuto nel comprendere perché
Lucifero nutrisse dei sentimenti di concupiscenza nei Suoi confronti. L’Emmanuele, Dio con noi-angeli, diviene
oggetto di gelosia da parte di Lucifero, perché vede in Micael, uno simile a lui come angelo, ma a lui superiore,
in quanto partecipe del consiglio divino, consiglio dal quale egli, creatura, era escluso. Lucifero, ricoperto di
ogni sorta di pietre preziose e con il compito di mettere il suggello alla perfezione (Ezechiele 28:12,13), vedeva
perciò in Micael un usurpatore della sua posizione di preminenza nei confronti degli angeli. Non invidiava
Micael nella sua posizione di Dio, ma Dio nella sua manifestazione di angelo. Nasceva quindi in lui il
sentimento contro natura che lo portò a dire: «Sarò simile all’Altissimo» Isaia 14:13.
Alla rivolta di Satana, con tutte le sue accuse nel confronti di Dio, segue un conflitto in cielo che non si
conclude in breve tempo, perché Dio non ama dimostrare di essere il più forte (un solo suo soffio avrebbe
annientato per sempre il nemico), ma il migliore. Per capire ciò le creature hanno bisogno di tempo. Il bene e il
male devono produrre i loro frutti.
E, dal cielo, il conflitto si sposta sulla terra.
4
MIEGGE Giovanni, Salmi scelti, ciclostilato Facoltà teologica Valdese, Roma 1963, pp. 47,48.
La pazzia di Dio
24
LA CROCE
Le tappe che portano alla croce
Incarnazione e battesimo
L’uomo, creato a immagine e somiglianza di Dio, avrebbe dovuto, nella sua innocenza, manifestare
fiducia all’Eterno sottraendosi all’avversario e smentendo la sua voce. Il peccato lo ha però sedotto e separato da
Dio.
Dopo secoli e millenni si manifesta l’Emanuele tra gli uomini per vincere il suo e nostro nemico nel suo
regno. Pur venendo come il primo Adamo in una posizione di purezza e innocenza, come l’aveva l’uomo prima
della caduta, l’ambiente che lo circonda non è più quello dell’Eden, e nella sua stessa persona fisica sente il peso
della decadenza millenaria dell’umanità e della creazione. Mediante una vita di comunione con il Padre non solo
vincerà il nemico, il quale farà l’impossibile per interrompere questo legame, ma potrebbe anche ricondurre
l’umanità al Padre.
L’incarnazione suscita presso gli angeli adorazione e lode nei confronti del loro Creatore, come è
espresso dalle parole che con esultanza annunciano: «Oggi nella città di Davide, v’è nato un salvatore, che è
Cristo il Signore» Luca 2:11, ma in loro c’è anche una grande attesa per quanto gli avvenimenti avrebbero
prodotto.
Gli eventi incalzano e affinché il Salvatore possa vincere Satana non come Dio, ma nella posizione di
creatura, bisognerà che Gesù si identifichi totalmente con essa. Dopo aver compiuto trent’anni, nel pieno della
sua maturità, chiedendo il battesimo a Giovanni Battista, dimostra non il suo bisogno di pentimento - era senza
peccato -, ma la sua fiducia nel regno messianico e il suo impegno a portare le conseguenze del peccato e a
vincerlo nel cuore dell’uomo. Il Cristo fa della sua consacrazione interiore una testimonianza pubblica,
universale. Uscito dall’acqua, sulle rive del Giordano, mentre è in preghiera, i cieli si aprono, lo Spirito Santo
scende su di lui e una voce dal cielo dice: «Tu sei il mio diletto figlio, in te mi sono compiaciuto» Luca 3:22.
Quando Giovanni che lo ha battezzato lo rivedrà, dirà di lui: «Ecco l’agnello di Dio che toglie i peccati del
mondo» Giovanni 1:29.
La tentazione nel deserto
La sfida è cominciata: il conflitto entra nel vivo. Gesù si ritira nel deserto per riflettere su come
ricondurre l’umanità a Dio e come realizzare davanti all’universo la sua opera di redenzione. Il male si presenta
a lui in tutta la sua seduzione e astuzia. Egli aveva fame come tanti milioni di esseri umani. Avrebbe conquistato
gli uomini al Padre offrendo loro il soddisfacimento dei bisogni primari e quotidiani, provvedendo a tutte le loro
necessità fisiche? Un simile dio avrebbe fatto comodo all’umanità, ma il cuore degli uomini per chi sarebbe
ancora stato? «L’uomo non ha bisogno di solo pane, ma di ogni parola che scaturisce dalla bocca dell’Eterno»
Matteo 4:4; Deuteronomio 6:13. Se l’uomo non torna a gioire della comunione con il Padre, l’avere soddisfatto
tutte le sue esigenze non fa ancora di lui un essere creato a immagine di Dio. Se l’uomo ritorna a Dio per
mangiare non c’è un rapporto di amore con il Creatore.
Il male Gli suggerisce di riavere il controllo di questo mondo alla maniera degli uomini anche con la sua
collaborazione dandogli tutto il suo appoggio. Tutti i regni della terra sono tuoi se tu mi adori, gli aveva
suggerito. In questo caso il Signore avrebbe sì regnato senza che nessuno trovasse più la forza per ribellarsi, ma
ancora in questo modo, sebbene rispettato perché temuto, ossequiato perché potente, il cuore dell’uomo sarebbe
stato senza calore nei suoi confronti.
E ancora: avrebbe potuto conquistare l’umanità con il religioso, abbagliandola con miracoli e portenti,
facendo dei segni che avrebbero esaltato l’immaginazione e sedotto i cuori. L’atto di buttarsi giù dal tempio e
così far vedere che gli angeli sarebbero venuti in soccorso per impedire che il suo piede picchiasse contro le
rocce, avrebbe suscitato ammirazione. Il cuore dell’uomo è affascinato dallo straordinario, è attratto dalle cose
eccezionali, ma l’amore non lo si conquista con lo scintillio delle luci e con ciò che può sbalordire.
F. Varonne fa notare che “al momento fissato” la tentazione ritorna nella sua triplice forma. Sulla croce
noi abbiamo le tre tentazioni in senso opposte a quella avuta nel deserto: 1,2,3-3,2,1. I capi d’Israele constatano
la sconfitta totale di colui che si presentava come “il Messia di Dio, l’eletto” (vedere 23:35). La seconda
tentazione: i soldati romani si prendono gioco di lui (vedere 23:36-38). Avendo rigettato la potenza e le
ricchezze dei regni viste dalla montagna, non avendo la loro protezione, Gesù si trova abbandonato e
suppliziato. La prima tentazione del deserto, la necessità di vivere, la si ode nella voce degli stessi condannati
con Gesù che lo invitano alla salvezza sua e loro (vedere 23:39-43).5
C’è un’altra strada da seguire: quella del perdono, della grazia, quella dell’amore; amare le sue creature
per la sola gioia di amarle.
Facendosi uomo, Gesù è diventato vangelo per noi; la sua predicazione, i suoi insegnamenti, le sue azioni
lo rivelano. Ma tutto ciò che ha manifestato nella sua vita non è altro che il frutto della rinuncia avvenuta ancora
5
VARONNE François, Ce Dieu censé aimer la souffrance, éd. Cerf, Paris 1986, pp. 56,57
La pazzia di Dio
25
CAPITOLO II
prima che noi ce ne rendessimo conto. Nella sua incarnazione Gesù rinuncia a ciò che noi non possiamo cogliere
completamente né con la nostra mente né col nostro cuore. Che cosa sia il paradiso noi non lo sappiamo
esattamente, tuttavia possiamo dire che egli ha rinunciato all’eternità, alla sua onnipotenza, alla sua onniscienza,
all’adorazione degli esseri celesti, in una parola, alla sua posizione di Dio, con tutto ciò che questo poteva
comportargli. Venendo sulla terra, in seguito alla sua incarnazione e prima della sua morte, per una seconda
volta, Dio che si è fatto carne come noi, ha rinunciato per noi a ritornare a vivere secondo la propria natura
divina.
La trasfigurazione
L’uomo, creato in uno stato di innocenza, doveva raggiungere uno scopo: grazie a una relazione continua
con Dio, avrebbe dovuto subire uno sviluppo morale. All’origine Dio gli aveva tracciato una strada regale che
egli avrebbe dovuto percorrere: dall’innocenza doveva giungere alla santità - era la prima tappa -, e in seguito,
mediante una trasformazione gloriosa, fisica e spirituale, dalla santità alla gloria.
Questa trasformazione, questo passaggio dalla santità alla glorificazione possiamo immaginarla come la
trasformazione che avviene nella natura: dal bruco alla farfalla. Purtroppo per l’uomo, questo progresso morale
non si è realizzato e noi ne vediamo le conseguenze: dall’innocenza si è passati all’animalità.
Gesù, pur nascendo in un mondo corrotto da millenni di degenerazione e venendo in una «carne simile a
carne di peccato» Romani 8:3, perché generato dallo Spirito Santo, come il primo uomo che usciva dalle sue
mani di Creatore, aveva una natura innocente, cioè priva della tendenza naturale al peccato. Da questa situazione
di innocenza s’iniziò per Gesù quel processo di sviluppo morale che lo avrebbe portato alla santità e dalla santità
alla glorificazione.
Dopo la meravigliosa confessione di Pietro fatta nella città di Cesarea di Filippi: «Tu sei il Cristo, il
figlio dell’Iddio vivente» Matteo 16:18, Gesù fa conoscere ai suoi discepoli come si sarebbe conclusa la sua
vita: nella sofferenza e nella morte causatagli dagli anziani di Gerusalemme.
Salito su un monte per pregare con Pietro, Giacomo e Giovanni, avviene per lui il passaggio dalla
santificazione alla glorificazione in occasione della trasfigurazione (vedere Matteo 17:1-13; Marco 9:2-13:
Luca 9:28-36).
Prima di questo episodio della trasfigurazione, i vangeli narrano di miracoli che provano come Gesù
crescesse nella sua santificazione, fonte di vita. La relazione stretta con Dio gli aveva fatto raggiungere l’apogeo
del suo sviluppo interiore. Giunto a questo stadio della santità quale avrebbe dovuto essere il passo successivo?
Egli poteva o avanzare o indietreggiare.
«L’esistenza terrestre diventava dunque in questo momento un quadro troppo stretto per questa
personalità compiuta. Non gli restava che la morte; ma la morte è l’uscita del peccatore, o, come dice Paolo, “il
salario del peccato” Romani 6:23. Per l’uomo senza peccato, l’uscita dalla vita non è il passaggio oscuro del
sepolcro; è la via regale della trasfigurazione gloriosa. La trasfigurazione, dice Gess, “indica che Gesù era
maturo per l’entrata immediata nell’esistenza eterna”... Marco scrive che “fu metamorfizzato”, Matteo,
all’espressione di Marco aggiunge: “Il suo viso risplendeva come il sole, e i suoi vestiti divennero candidi come
la luce”, Luca ne descrive l’effetto in una forma più semplice: “l’aspetto del suo volto fu mutato”. Questo
fenomeno luminoso, proveniente dal di dentro, penetra talmente il corpo di Gesù, che diventa percettibile
attraverso i suoi vestiti. La sua veste diventa candida, sfolgorante. Gesù aveva superato il primo di quei due
stadi. Era normale, razionale, naturale, si può dire, che fosse da quel momento ammesso a superare il secondo.
La trasfigurazione è il primo passo di questa elevazione nella gloria, l’inizio della trasfigurazione del corpo
psichico e morale in un corpo spirituale ed imperituro... Se Gesù non avesse volontariamente arrestato la
trasfigurazione che cominciava ad operarsi in lui, questo cambiamento sarebbe senza dubbio diventato la sua
ascensione... Per la porta che già si intravede per lui, il cielo e la terra comunicano... Il cielo discende o, è la
stessa cosa, la terra si eleva... Ma Gesù fa comprendere ai due uomini (che stavano parlando con lui: Mosè ed
Elia; il primo che morì e risuscitò è il rappresentante di tutti coloro che passeranno all’eternità attraversando il
sepolcro, il secondo, è il prototipo di coloro che saranno viventi al ritorno di Gesù e passeranno dalla vita
all’eternità, rapiti sulle nuvole del cielo, trasformati in un batter d’occhio senza passare per la morte (1
Tessalonicesi 4:16,17; 1 Corinzi 15:51-54 nda) che questa sua ascensione in gloria lo porterebbe a rinunciare
alla sua missione e che il suo compito lo chiama ad una uscita dalla vita tutta diversa... Il termine exodos, uscita,
è notevole: Luca sceglie con intenzione un’espressione che racchiude contemporaneamente le due nozioni di
morte e risurrezione. L’ascensione era per Gesù la via naturale per uscire dalla vita, come lo è la morte per un
peccatore. Egli poteva dunque optare in questo momento per questo modo di “uscire” che gli era dovuto. Poteva
risalire con i suoi due interlocutori celesti. Ma salire in quel momento, sarebbe equivalso a salire senza di noi. Là
in basso, nella pianura, Gesù vide una umanità curva sotto il peso del peccato e della morte. L’abbandonerà al
suo destino? No, non salirà che quando egli potrà ricondurla con sé. E, per questo, bisogna che affronti l’altro
modo di uscire, l’uscita che si consuma a Gerusalemme».6 Se Gesù fosse salito in cielo dal monte della
6
GODET Frédéric, Commentaire sur l’Evangile de s. Luc, 4 ed., éd. Monnier, Neuchâtel 1966, pp. 596-601,609.
La pazzia di Dio
26
LA CROCE
trasfigurazione, la sua incarnazione avrebbe semplicemente dimostrato all’universo intero che l’uomo, Adamo,
poteva raggiungere la gloria, che era possibile all’uomo vivere ubbidendo alla Parola di Dio e che il peccato non
fa parte della natura dell’uomo ma è una sua scelta. Per salire con noi, occorreva che Gesù passasse attraverso
l’altare che sarebbe stato innalzato a Gerusalemme. Se Gesù non avesse scelto questa “uscita” per entrare
nell’eternità, l’uomo, che già era lontano da Dio, non avrebbe mai compreso che veramente Dio lo ama e le
stesse creature celesti non avrebbero compreso la natura di Dio, sebbene avessero fiducia in Lui.
Luca racconta: «Venne una nuvola che li coperse della sua ombra... E una voce venne dalla nuvola,
dicendo: “Questo è il mio figlio, l’eletto mio; ascoltatelo”» 9:34,35.
«Ad ogni atto di abbassamento volontario da parte di Gesù, corrisponde un atto di glorificazione di cui
egli diviene oggetto da parte del Padre. Discende nell’acqua del Giordano, consacrandosi a morire: Dio lo saluta
chiamandolo suo figlio benamato. In mezzo al turbamento della sua anima (Giovanni 12), rinnova il suo
impegno di fedeltà fino alla morte: la voce dal cielo gli risponde con la più magnifica promessa per il suo cuore
di figlio. La stessa cosa qui. La trasfigurazione segna nei tre sinottici, da una parte la fine del ministero in
Galilea, dall’altra il preambolo della Passione»7 e il primo passo verso la gloria.
Con l’incarnazione Gesù rinuncia al cielo e a tutto ciò che esso comporta; alla trasfigurazione vi rinuncia
per la seconda volta e a differenza della prima, dopo aver sperimentato nella propria carne la durezza, la
brutalità, la miseria umana. Tale seconda rinuncia esprime in modo più completo ancora il suo impegno per la
nostra salvezza.
Gesù e i greci
A Gerusalemme, dopo la sua entrata trionfale, prima che egli lasciasse definitivamente la città, alcuni
greci convertiti al Dio d’Israele e venuti nella capitale, in occasione della Pasqua per adorare l’Eterno, chiesero a
Filippo di potere vedere Gesù. Probabilmente animati dalla loro speranza messianica, avrebbero desiderato avere
con lui un incontro su argomenti religiosi. Forse, a conoscenza dell’opposizione fattagli dai capi d’Israele, essi
desideravano invitarlo a recarsi nei loro paesi pagani i quali, meglio dei rigorosi giudei, avrebbero saputo
apprezzare un saggio, un dottore come lui. Lo storico ecclesiastico Eusebio ha conservato il ricordo di
un’ambasciata inviata a Gesù da Abgarus V, re di Edessa in Siria, che lo invitava ad andare a fissare la sua
dimora presso di lui promettendogli una regale accoglienza che lo avrebbe ripagato dell’ostilità dei suoi
connazionali.8 In questa richiesta possiamo scorgere una prima simpatia del mondo pagano per il vangelo.
A questa richiesta del mondo dei Greci, Gesù risponde con un esempio tratto dalla natura: «Se il granello
di frumento non cade a terra e muore non può portare frutto». Così sarà della sua persona. Se vuole restare
integro e conservare la propria vita, perderà quella degli altri. E allora, pur con molto turbamento, ribadisce la
necessità della sua morte. A questa ulteriore rinuncia affinché il nome del Padre sia glorificato, Dio risponde dal
cielo: «L’ho glorificato e lo glorificherò di nuovo» Giovanni 12:28.
«Ogni volta che il Figlio compie un grande atto di abbassamento e di consacrazione personale, il Padre
risponde con una manifestazione sensibile di approvazione. Ciò che avvenne al battesimo e alla trasfigurazione
si rinnova adesso. Questa ora, in cui si chiude il ministero di Gesù e nella quale egli si vota alla morte, è il
momento unico, per il Padre, di apporre pubblicamente sulla persona e sull’opera del Figlio il suggello della sua
soddisfazione».9
Salomone scriveva: «Le grandi acque non potrebbero spegnere l’amore, e dei fiumi non potrebbero
sommergerlo. Se uno desse tutti i beni di casa sua in cambio dell’amore, sarebbe del tutto disprezzato» Cantico
dei cantici 8:7. L’amore non ha prezzo, non si compra, lo si offre gratuitamente; lo si riceve perché si è amati.
Il problema del male è risolto dall’amore. Dio ama le sue creature, ma non è contraccambiato da tutte.
Come può farsi capire ed essere accettato da loro? La croce è l’ultima strada che Dio percorre per raggiungerci.
Calvario
Il libro dell’Apocalisse ci dice che «vi fu battaglia in cielo: Micael ed i suoi angeli combatterono con il
dragone, e il dragone e i suoi angeli combatterono, ma non vinsero, e il luogo loro non fu più trovato in cielo. E
il gran dragone, il serpente antico, che è chiamato Diavolo e Satana, il seduttore di tutto il mondo, fu gettato giù;
fu gettato sulla terra, e con lui furono gettati gli angeli suoi. E io (Giovanni) udii una gran voce nel cielo che
diceva: “Ora è venuta la salvezza e la potenza ed il regno dell’Iddio nostro, e la potestà del suo Cristo, perché è
stato gettato giù l’accusatore dei nostri fratelli, che li accusava dinanzi all’Iddio nostro, giorno e notte. Ma essi
l’hanno vinto a cagione del sangue dell’agnello e a cagione della parola della loro testimonianza; e non hanno
amato la loro vita, anzi l’hanno esposta alla morte”» 12:7-11.
7
Idem, p. 605.
FARRAR, Jésus-Christ, p. 383; cit. GODET Frédéric, Commentaire sur l’Evangile de S. Jean, 3a ed., t. III, Attinger, Neuchâtel
1885, p. 290.
9
F. Godet, idem, p. 343.
8
La pazzia di Dio
27
CAPITOLO II
Quale battaglia viene qui menzionata? Alcuni pensano a quella originale presentata da Isaia 14:12-15 ed
Ezechiele 20:12-19, quando Satana venne allontanato dal cielo. Ma se teniamo conto del contesto: la storia della
Chiesa, dobbiamo dire che essa è avvenuta in occasione della morte o meglio ancora a seguito della ascensione
di Gesù. In occasione della sua ascensione Gesù dirà ai suoi discepoli, anche come conseguenza di questa
battaglia: «Ogni potestà mi è stata data in cielo e sulla terra» Matteo 28:18, ed il testo di Apocalisse dice: «Ora è
venuta la salvezza... e la potestà di Cristo». Questo allontanamento di Lucifero dal cielo è la diretta conseguenza
del ministero di Gesù sulla terra dalla quale viene «rapito presso Dio e al suo trono», come aveva già detto
Giovanni (Apocalisse 12:5).
Cacciato dal cielo, Satana non vi ha più avuto accesso come accadeva in precedenza. Che cosa gli ha
causato questa espulsione definitiva?
La Sacra Scrittura insegna che, dopo la ribellione di Lucifero nei confronti di Dio, egli è stato sì
allontanato dal cielo, però ha continuato ad avere la possibilità di presentarsi davanti al trono della gloria. Ogni
qualvolta lo faceva compiva la sua opera di «accusatore dei fratelli». Chi accusava Satana? Coloro che amano
Dio.
Per capire meglio l’opera di questo personaggio nel cielo e la vittoria di Cristo uomo su di lui, la Bibbia
presenta un esempio grandemente illuminante nella persona di Giobbe. Seguire il parallelismo tra la vita di
Giobbe e quella di Cristo è relativamente facile.
Giobbe era un uomo integro e retto. Gesù lo sarebbe stato in modo più completo. Dio è consapevole della
giustizia di Giobbe-Gesù, ma Satana fa una insinuazione estremamente sottile: «Forse per nulla che Giobbe tema
Iddio?» Giobbe 1:9. Tutta l’accusa di Satana è concentrata nell’espressione “per nulla”. Giobbe era un grande
possidente: undicimila cinquecento capi di grosso bestiame, innumerevole, quello minuto, terreni di grande
estensione, e servitori in gran numero. Quando entrava dalle porte della città i giovani al vederlo, per rispetto, si
ritiravano, i vecchi si alzavano e rimanevano in piedi, e i capi del popolo facevano silenzio (Giobbe 29:7-10).
Per Satana che non concepisce l’amore quale sentimento disinteressato, Giobbe è solo un cortigiano che serve
Dio perché ne riceve dei vantaggi, e così suggerisce a Dio: «Toccalo nei suoi interessi, nella sua famiglia, nella
sua salute e vedrai se lui, come tutte le altre tue creature, continuerà ad amarTi per quello che sei e non per le
benedizioni che dai» (Giobbe 1:10,11).
La sfida che Satana lancia non è tanto rivolta a Giobbe quanto a Dio. In pratica è come se dicesse: «Tu
dici di aver creato l’uomo a tua immagine, ma l’uomo è incapace di amarTi per quello che sei. Tu stesso sei
incapace di amare le tue creature senza ricevere in cambio nulla. Cioè come Tu hai creato gli uomini per essere
servito e trarne lode, così l’uomo Ti ama per interesse!» A questa sfida Dio non può rispondere con la sua forza
perché a vincere l’Accusatore sarà Giobbe nella sua debolezza e privato di tutto. Dio crede nell’amore che
Giobbe ha per lui più di quanto forse Giobbe creda nell’amore di Dio e Dio abbandona la sua reputazione - di
Dio d’amore e non di Dio tiranno - nelle fragili mani della sua creatura. Se Giobbe non vincesse, proverebbe che
l’amore non può trionfare.10 La stessa cosa si è realizzata, ma in una dimensione più completa, fino alla morte,
nella vita di Cristo, il cui dramma è il dramma della Divinità. Per mettere a tacere definitivamente la voce di
Satana, Dio inventa la follia del Natale, Egli stesso viene a prendere il posto di Giobbe, spogliato di ogni
splendore divino. Gode dell’autorità del suo insegnamento, della potenza della sua azione sui malati, sui poveri e
sui peccatori. Può dire come Giobbe: «Ero l’occhio del cieco, il piede dello zoppo; ero il padre dei poveri»
Giobbe 29:15,16. In questo periodo Satana può ancora dire: «Forse per nulla che ti serve?». Intendendo con
questo «per nulla» non tanto i beni materiali, che possono soddisfare l’animo materialistico, ma il potere, la
gloria, l’onore. Gesù dovrà dimostrare di amare e servire sia Dio sia gli uomini anche senza il Suo appoggio, nel
Suo silenzio, e senza il loro osanna. Satana quindi si accanisce contro di lui per cercare di carpirgli nella
sofferenza quanto non ha potuto ottenere in tempi più felici, calcolando che non potrà servire fino alla fine un
Padre che lo abbandona all’oppressione ingiusta.
Più si avvicina a Gerusalemme, più acuto si fa il combattimento. La stessa voce dell’amico Pietro, dopo
averlo riconosciuto sulla via di Cesarea, quale figlio di Dio, diventa quella dell’avvocato del Diavolo che
esprime il pensiero dell’avversario: «Se tu sei il figlio di Dio, se sei il Servitore fedele, la tua vita non può finire
male: per te c’è tutto da guadagnare nell’essere fedele a Dio» (Matteo 16:16,21-23).
«La prova continua; e Gesù conoscerà durante la settimana santa l’avvilimento, l’abbandono e l’angoscia
di Giobbe. Potrà a sua volta dire: “Iddio mi dà in balia degli empi, eppure le mie mani non commisero mai
violenza”. Tutta l’abominazione del mondo si riversa sul Servitore sfigurato. Inchiodato alla croce, ode ancora
per l’ultima volta la voce del Tentatore: “Se tu sei il figlio di Dio, scendi giù di croce, affinché noi vediamo e
crediamo”. Se no perché sarebbe figlio di Dio e perché avrebbe servito Dio? Se Dio non lo libera, evidentemente
non è il Giusto; è un peccatore perciò, un impostore. Oppure il suo Dio non esiste.
I farisei con soddisfazione, gli apostoli con disperazione giungono a queste tristi considerazioni, mentre
Satana opera ancora, finché Gesù respira. E fin quando l’agonia si prolunga egli può sempre apostrofare Dio:
“Aspetta, non resisterà fino alla fine. Sta pensando che, grazie a Te, tutto può cambiare ancora a suo vantaggio;
per questo resiste. Ma se lo lasci andare fino in fondo se lo lasci morire come l’ultimo dei malviventi, allora
10
Vedere MAILLOT Alphonse, Pour rien - Job, éd. S.N.P.P. et Cahiers de Réveil, Lyon 1966, pp. 19,20.
La pazzia di Dio
28
LA CROCE
cederà. Non potrà restarti fedele fino alla morte. Per nulla. Una tale fede, una tale speranza, un tale amore nella
disperazione non sono possibili sulla terra. Il suo ultimo pensiero sarà per me, con esso scenderà dalla croce
esaudendo il desiderio di tutti i suoi e dei miei amici. Così - vedrai - mi darà ragione”.
E fintanto che Gesù non è spirato, fintanto che la prova non è stata totale, l’accusa è continuata. Finché
Gesù respira anche Satana respira. Può mantenere la verità della sua requisitoria e può affermare che non un solo
uomo può preferire Dio alla sua propria vita. Fino a quando Gesù respira, Satana può vincere, può avere ragione.
La prova deve continuare, più incomprensibile, più dura e più radicale di quanto non lo sia stata con Giobbe. E
mentre Dio tace, mentre trionfano la menzogna, l’ingiustizia, la malvagità, Gesù dal fondo dell’abisso e delle
tenebre grida: “Dio mio, perché mi hai abbandonato?”».11 Il grido: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai
abbandonato?» Matteo 27:46, «non dovremmo intenderlo - come purtroppo spesso accade - quale espressione di
disperazione. In realtà Gesù muore pregando con le parole del Salmo 22, guardando al Padre, pur nell’estrema
sofferenza, e portando a compimento la missione già preannunciata dai profeti muore come ha vissuto e cioè con
la Parola di Dio sulle labbra, con fede incrollabile in Colui che solo e sempre è il vero aiuto... Questi due
elementi - la fede nel Padre e la consapevolezza dell’abbandono (Dio che non agisce per liberarlo n.d.a.) - presi
assieme, ci mostrano come Matteo intendeva la croce: il figlio conserva ancora la fede anche quando essa non
sembra aver più alcun senso e quando la realtà terrena proclama che Dio è assente. Non a caso ne parlano sia il
primo ladrone, sia la folla schernitrice».12 Danieli Giuseppe nella sua relazione alla XXVII settimana Biblica
dice: «Nell’invocazione iniziale del Salmo 22 “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” l’autore
manifesta di esprimere una inattesa, prolungata e dolorosissima assenza di Dio. Sente di soffrire da parte di lui
un abbandono, di cui non comprende la ragione. Egli si sente fedele al suo Dio; e il suo animo si manifesta
soprattutto adesso: il Salmista non abbandona la preghiera, tanto meno abbandona il suo Dio. Nessuna
tentazione si avverte di passare ad altre divinità, nessun sentimento d’avversione, di risentimento contro Dio.
Non cede alla stanchezza, né alla disperazione, anzi proprio da qui, da queste parole, inizia la sua grande
preghiera. L’invocazione “Elì, Elì, lamà sabactani?” non è la fine, ma l’inizio della supplica. Se Dio l’ha
abbandonato (diremo), egli non abbandona il suo Dio. Lo chiama ancora “Dio mio, Dio mio”, infatti. E se la
domanda “Perché mi hai abbandonato?” è anche un lamento, essa è soprattutto una richiesta di aiuto,
pronunciata con il linguaggio di chi è familiare con Dio... L’invocazione non ha il tono di una rassegnata
sconfitta... né interrompe di fatto il dialogo con il suo Dio. Anzi, il dialogo diventa ora più stringente. Ciò
significa, se penetriamo nel suo animo di credente, che egli è sicuro del suo Dio. Anche se gli grida “perché mi
hai abbandonato?” egli è certo che Dio non lo ignora, che lo ascolta... certo, dunque che in un qualche modo
Dio è vicino, non lo ha abbandonato».13 Sebbene Davide esprima la sua distretta con le parole menzionate,
dopo aver descritto la sua passione (vv. 12-18) e le beffe perché «si rimette nell’Eterno» v. 7,8, canta la sua
allegrezza nell’Eterno: «Io annuncerò il tuo nome ai miei fratelli, Ti loderò in mezzo all’assemblea. O voi che
temete l’Eterno lodatelo! Glorificatelo... Tu sei l’argomento della mia lode nella grande assemblea...» vv.
22,23,25. Che il Padre non abbia abbandonato, rigettato Cristo Gesù a causa del peccato degli uomini, lo
possiamo dedurre da due testi biblici. Il primo: «Si fecero tenebre per tutto il paese» Marco 15:33. Ermenegildo
Manicardi nella sua conferenza, Gesù e la sua morte secondo Marco 15:33-37, appoggiandosi anche sulle
considerazioni di altri studiosi, ricorda che le tenebre sono segno della presenza di Dio. Le tenebre, il buio, «la
densa nuvola» di Esodo 19:9, ha la funzione di rendere percettibile per il popolo (e indiscutibile) il fatto che
Dio sia presente a parlare con Mosè. In Esodo 20:21 viene fatto un riferimento globale alla teofania (apparizione
di Dio) del Sinai: «Mosè avanzò verso la nube oscura, nella quale era Dio» (vers. CEI). La stessa esperienza è
ricordata in Deuteronomio 4:11,12; «... e il monte era tutto in fiamme... e v’erano tenebre, nuvole ed oscurità».
Un testo interessante è costituito da Deuteronomio 5:23: «Udiste la voce (dell’Eterno) che usciva dalla
tenebre». Salomone in occasione dell’inaugurazione del tempio disse: «L’Eterno ha dichiarato che abiterebbe
nell’oscurità!» 1 Re 8:12. Anche i Salmi 18:11; 97:2 parlano di Dio che si rende presente nell’oscurità. Questi
passi delle Scritture rilevano che oscurità e tenebre possono, in determinati contesti, indicare la presenza di
Dio... Se le tenebre di Marco 15:33 sono un segno della presenza di Dio, tenendo presente il sistema orario
11
PURY Roland de, Giobbe, l’uomo in rivolta, ed. Claudiana, Torino 1962, pp. 67.
KASEMANN Ernest, Cristo fra noi, ed. Claudiana, Torino 1970, p. 8 (n.d.a. siamo noi che abbiamo aggiunto quanto scritto tra
parentesi).
13
DANIELI Giuseppe, Elì, Elì, Lamà sabactani?, in AA.VV., Gesù e la sua morte, ed. Paideia, Brescia 1984, pp. 48,49.
A critica di questa spiegazione più che appropriata ripotiamo le considerazione di J. Stott a conclusione di tre ipotesi: «La quarta
spiegazione è semplice e chiara. Essa consiste nel prendere le parole nel loro senso letterale ed intenderle come un grido di reale abbandono.
Sono d’accordo con Dale che scrisse: “Rifiuto di accettare qualsiasi spiegazione di queste parole con l’implicazione che esse non esprimano
la verità effettiva della posizione del nostro Signore?” DALE E.W., The Atonement, ongregational Union, Hodder & Stoughton, London
1894, p. 61. Gesù non aveva bisogno di pronunciare un grido falso. Fino a quel momento, anche se abbandonato dagli uomini, egli aveva
potuto dire: “Ma io non sono solo, perché il Padre è con me” Giovanni 16:32. Tuttavia nell’oscurità egli fu completamente solo, essendo ora
abbandonato anche dal Padre. Come scrisse Calvino: “Se Cristo avesse sperimentato solo la morte fisica, essa sarebbe stata inefficace… Se la
sua anima non avesse partecipato alla punizione, egli sarebbe stato Redentore solo dei corpi”. Di conseguenza, “egli pagò un prezzo
maggiore e più eccellente soffrendo nella sua anima il tormento terribile di un uomo condannato e abbandonato” CALVINO Giovanni,
Istituzione della Religione Cristiana, a cura di G. Tourn, UTET, Torino 1971, 1983, II, XVI, 10 e 12. Ebbe luogo dunque una separazione
effettiva e tremenda tra il Padre e il Figlio; essa fu dovuta ai nostri peccati e alla loro giusta retribuzione; Gesù espresse questo spavento
suscitato dalla grande oscurità, e questo abbandono da parte di Dio, citando l’unico versetto della Scrittura che lo descrivesse con precisione
e che egli aveva sperimentato perfettamente, cioè: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”». STOTT John, La Croce di Cristo,
edizioni GBU, Chiesti Scalo 2001, pp. 105,106.
12
La pazzia di Dio
29
CAPITOLO II
peculiare al racconto marciano della crocifissione, che distingue due periodi di tempo di tre ore, troveremo un
interessante modello narrativo. Dall’ora terza all’ora sesta Marco mette in scena, davanti al crocifisso, gli uomini
con la loro incomprensione e le loro derisioni (Marco 15:25-32). Dall’ora sesta all’ora nona Dio stesso si fa
presente silenziosamente nell’oscurità (15:33).14 Nelle tenebre si ha così la presenza dell’Eterno, del Padre
accanto al figlio.15 Il secondo passo è più esplicito. Secondo l’apostolo Paolo il Padre era più che presente: «Dio
era in Cristo riconciliando il mondo con sé» 2 Corinzi 5:19. «Egli (Gesù) era venuto a portare nel mondo il
regno di Dio; per questo era vissuto, aveva operato e parlato. Ma il suo annuncio non era stato accolto dagli
uomini. Regno di Dio significa la distruzione dell’egoismo e dell’odio, della freddezza e del disprezzo verso Dio
e il fratello. Significa portare fra gli uomini il volto stesso del Padre, che fa scendere la pioggia anche per i
cattivi e fa alzare il suo sole anche per chi bestemmia. Fisicamente annientato e prossimo a morire Gesù
contempla dalla sua croce il trionfo dell’odio e di Satana, il principe di questo mondo perverso. Davanti a questo
spettacolo della sconfitta di Dio e del suo Regno, Gesù non crea una preghiera propria. Non ripete nemmeno
quello che aveva insegnato un tempo: “Venga il tuo Regno”. Si rifugia nelle parole del Salmo, apprese fin da
bambino, quasi incapace di formulare pensieri suoi, tanto l’angoscia lo stringe. Di fronte alla propria morte e al
trionfo orgoglioso dell’ingiustizia, egli afferra l’unica mano forte, la mano di Dio. L’afferra con angosciato
amore, ricordandogli quanto solo e inerme egli sia senza di Lui».16 Gesù sulla croce dichiara all’universo che
Dio esiste e in Lui pone tutta la sua fiducia. Il suo grido di fede e di dolore pone una domanda all’umanità: «Ha
ragione lui o coloro che davanti alla sua croce dicono: Si è confidato in Dio, lo liberi ora (Matteo 27:43), “Dov’è
il tuo Dio?” Salmo 42:10. La croce ci libera da un’illusione: Dio non è assente perché non si manifesta con
potenza, con segni visibili e con azioni liberatrici. La croce ci ricorda che viviamo ancora nel tempo della
pazienza di Dio, nel tempo in cui Dio sopporta la nostra indifferenza, i nostri scherni, le nostre violenze e i nostri
egoismi pur di concederci ancora il tempo per ravvederci (2 Pietro 3:9). Come la risurrezione di Pasqua è il
trionfo di Dio su un mondo malvagio, così il ritorno di Cristo Gesù manifesterà il suo giudizio su un mondo che
non potrà più continuare.
Gesù sulla croce si mette nelle mani di Colui che lo abbandona. “Io so che il mio Redentore vive - il mio
Testimone è in cielo, il mio Garante è nei luoghi altissimi” (diceva Giobbe 19:25; 16:19); - “Padre nelle tue
mani rimetto lo spirito mio (rimetto la mia causa)” (diceva Gesù Luca 23:46). Nessuna risposta. Nulla avviene e
Gesù muore... Dio tace e Gesù muore. Si compie l’irreparabile... per l’Accusatore, che stavolta non ha più niente
da dire. La dimostrazione è fatta: tutto il ministero di Gesù, tutta l’obbedienza del Salvatore sono stati vissuti per
niente».17
Gesù muore gridando all’universo che il Padre esiste, - e quindi come tale Dio è buono -; che Dio ama, e
che l’uomo creato a sua immagine e somiglianza può amare Dio, contro ogni silenzio, ogni oblio, ogni
disperazione.
«Il grido del Salvatore morente fu il rintocco funebre di Satana».18 «Nell’istante in cui Gesù spira, nel
momento in cui annienta se stesso, l’Accusatore è precipitato, poiché la sua requisitoria è falsa».19
Alla morte di Gesù Satana viene smascherato, viene conosciuto da tutti gli esseri celesti per quello che è:
l’Accusatore, il nemico, il male, l’autore della sofferenza e della morte...
«Questa grande voce che noi ascoltiamo nell’Apocalisse: “Ora è venuta la salvezza e la potenza ed il
regno dell’Iddio nostro, e la potestà del suo Cristo”, non è che l’eco nell’eternità del grido che Gesù emette
morendo: “È compiuto!” Giovanni 19:30. J. Stott precisa: «Il forte grido di vittoria è espresso nel testo
evangelico da una singola parola, tetelestai, che essendo al perfetto, significa: “È stato e sarà per sempre
compiuto!”».20 Satana è vinto mediante il sangue dell’agnello. Con la sua morte Gesù smentisce l’Accusatore. È
venuto per questo, per smentire Satana... Gesù ha convinto l’Accusatore di essere il padre della menzogna e lo
ha precipitato; ed è per questo che noi stessi possiamo, mediante la fede nel suo sangue, convincerlo di
menzogna. Satana ci accusa ma non può più dire la verità, se noi crediamo in Cristo Gesù».21
Il giorno prima della crocifissione Gesù, nel consacrarsi al Padre, dice: «Padre, glorifica il tuo nome» e, a
seguito della sua risposta, Gesù dichiara alla folla: «Ora avviene il giudizio di questo mondo; ora sarà cacciato
fuori il principe di questo mondo; e io, quando sarò innalzato dalla terra, trarrò tutti a me» Giovanni 12:31,32. A
seguito della missione dei settanta, Gesù, prevedendo il suo trionfo sull’Accusatore, annuncia ai discepoli: «Io
14
Idem, pp. 21,22.
J. Stott che è un sostenitore e difensore della morte vicaria fa le seguenti osservazione che potrebbero essere considerate come delle
critiche a quanto abbiamo detto: « Nel simbolismo biblico, cos’è l’oscurità se non la separazione da Dio che è luce e nel quale “non ci sono
tenebre” 1 Giovanni 1:5? “Le tenebre di fuori” è una delle espressioni usate da Gesù per descrivere l’inferno, che rappresenta l’assoluta
esclusione dalla luce solare del volto del Padre. Possiamo persino osare di affermare che i nostri peccati mandarono Cristo all’inferno – non
“all’inferno” nel significato di ades, il soggiorno dei morti, nel quale egli “discese” dopo la morte secondo il Credo, ma “all’inferno” nel
senso di geenna, il luogo di punizione, al quale i nostri peccati lo condannarono prima della sua morte». o.c., p. 103.
16
Idem, p. 49.
17
PURY Roland de, Giobbe,… pp. 67,68.
18
WHITE Ellen, Il gran conflitto, ed. Araldo della Verità, Firenze 1977, p. 367.
19
PURY Roland de, Ton Dieu règne, ed. Delachaux & Niestlé, Neuchâtel 1946, pp. 22,23.
20
J. Stott, o.c., p. 107.
21
Idem.
15
La pazzia di Dio
30
LA CROCE
miravo Satana cadere dal cielo a guisa di folgore» Luca 10:18. Ora davanti al trono della grazia non c’è più
l’Accusatore. Cristo, avendo smentito il principe di questo mondo, può stare solo davanti al Padre ed avere lui
solo diritto di parola. La vittoria di Cristo è diventata la nostra vittoria: «Essi l’hanno vinto a cagione del sangue
dell’Agnello e a cagione della parola della loro testimonianza».
«Se noi confessiamo che il nostro Dio non è un distributore di medaglie d’oro e di privilegi, ma che egli è
sulla croce, spogliato di tutto, al limite della sua debolezza, incapace di accordarci qualcosa; se il nostro Signore
non è altro che un agnello immolato, un condannato a morte, non è più possibile che sia il suo denaro, la sua
potenza che noi vogliamo. L’agnello immolato, Gesù sulla croce, solamente a lui noi andiamo. Non è che lui
stesso e nient’altro. Ed è per niente, cioè per l’amore di lui che noi lo serviamo, e non per dei vantaggi. Coloro
che rendono testimonianza al crocefisso, coloro che affermano sinceramente di appartenere a questo miserabile,
potrà
Satana non può pretendere che lo facciano per avere una bella situazione e ricevere dei favori».22 «Chi
servire un Dio crocifisso? A che cosa può servire un Dio crocifisso? Non diventa forse un Dio inutile e
inutilizzabile? Il modo migliore di allontanare gli uomini dall’Iddio di Giobbe (e di Gesù) non è quello di
provarli con la croce?... Dio non ci lascia più nulla. Quando siamo davanti alla croce, davanti a un Signore
spogliato di tutto come Giobbe e noi stessi siamo spogliati di tutto come lui, non può nascere ed esistere tra lui e
noi che un rapporto puro da persona a persona, quella relazione assolutamente gratuita che è l’amore. Sulla
croce Dio non ci dà altro che Se stesso e non ci domanda altro che noi stessi».23
«Che affare si fa nel compromettersi con colui che muore come un criminale? (Satana non può pretendere
che essi lo facciano per qualche interesse). L’Accusatore è confuso dalla testimonianza che gli uomini rendono
all’Agnello. Non può più dire nulla, non ha nessun potere su di loro. Essi hanno vinto Satana, non solamente per
il sangue dell’Agnello, perché sanno che Gesù l’ha vinto, ma l’hanno vinto doppiamente, osando testimoniare
che il Dio di ogni grazia e di ogni benedizione era per loro in questo uomo agonizzante e maledetto».24
Conclusione
Quanto avviene al Golgota interessa l’universo intero. Il piano della salvezza dell’uomo coinvolge tutta la
creazione di Dio. L’incarnazione non è solamente un affare privato tra Dio e l’uomo, essa è un spettacolo per gli
esseri celesti e un soggetto di riflessione e investigazione. Gli angeli, sebbene contemplino la faccia dell’Eterno
(Matteo 18:10) e si pongano al suo servizio (Ebrei 1:14), hanno manifestato la loro presenza in occasione degli
avvenimenti più significativi della vita di Cristo Gesù sulla terra: al momento della sua incarnazione (Luca
2:13), in occasione della tentazione nel deserto (Matteo 4:11), durante la sua angoscia nel Getsemani (Luca
22:43), dopo la sua risurrezione (Luca 24:4) e in occasione della sua ascensione (Atti 1:10,11)25.
Nel corso dei secoli, man mano che il piano della salvezza veniva annunciato dai profeti e si
concretizzava, essi stessi erano attenti alle parole dette e ne facevano motivo di indagine al fine di comprenderne
tutta la portata (1Pietro 1:12). Si sono interessati alla redenzione per amore di un mondo perduto, ma anche
perché questa redenzione avrebbe glorificato per l’eternità il Dio nel quale avevano posto tutta la loro fiducia fin
dalla loro esistenza. Ciò che Dio ha fatto per gli uomini è l’espressione del suo Essere e per questa ragione più
essi comprendono, vedono, partecipano, come l’Eterno che essi adorano si dà a conoscere, più passano dalla
fiducia alla constatazione. L’apostolo Paolo scrive che Gesù «avendo spogliato i principati e le podestà ne ha
fatto un pubblico spettacolo, trionfando su di loro per mezzo della croce» Colossesi 1:15. La sua morte, che è
un’apparente sconfitta, gli ha permesso di vincere tutte le potenze delle tenebre che si oppongono al Regno di
Dio. Ha spogliato queste potenze e le ha esposte come dei vinti alla vergogna e alla ignominia. Gli angeli,
contemplando per l’eternità questo spettacolo della vittoria dell’amore sul male, avranno una dimostrazione
vivente di ciò che Dio è e può fare per le sue creature.
«Ogni cosa m’è stata data in mano dal Padre mio» Matteo 11:27. «E durante la cena quando il diavolo
aveva già messo in cuore di Giuda Iscariot... di tradirlo, Gesù, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle
mani... si levò da tavola» Giovanni 13:2-4. Il Padre mette tutto nelle mani del figlio. Queste dichiarazioni di
Gesù sono da capogiro, ci danno un senso di oppressione, ci sgomentano nella nostra comprensione della Parola
di Dio.
Che cosa è questo “tutto” che il Padre ha posto nella mani del figlio? .Senz’altro la realizzazione della
salvezza facendo capire agli uomini che Dio li ama e di riavere ciò che hanno perduto; ma questa opera per la
salvezza dell’uomo crediamo sia anche quella della salvezza stessa di Dio. In questo “tutto” ci sono tutta la
redenzione, tutta la santità, tutta la giustizia di Dio, tutta la persona di Dio «poiché in lui (Gesù) abita
corporalmente tutta la pienezza della Deità» Colossesi 2:9. «Chi ha veduto me (Gesù), ha veduto il Padre. Io
sono nel Padre e il Padre è in me» Giovanni 14:9,10,11; «Io e il Padre siamo uno» 10:30. Se Gesù, per un
22
Idem, p. 24.
R. de Pury, Giobbe..., pp. 69,70.
24
R. de Pury, Ton Dieu..., p. 24.
25
Non si dovrebbe escludere il pensiero che questi due uomini in vesti bianche siano ancora Mosè ed Elia. Essi si rallegrano per la
conversione di un peccatore (Luca 15:10) e uniscono i loro canti di lode a quelli dei riscattati (Apocalisse 5:11; 7:11,12).
23
La pazzia di Dio
31
CAPITOLO II
motivo che ci causa un senso di vertigine al solo pensarci, avesse fallito nella sua vita, avesse dato ragione alla
voce dell’Avversario, il Padre stesso ne sarebbe stato pienamente e direttamente coinvolto, il Padre stesso
avrebbe subito nella sconfitta del figlio la propria disfatta; nella caduta del figlio c’è il precipizio, la perdizione
del Padre. Nel figlio il Padre si identifica pienamente e completamente e tutto ciò che fa il Padre lo fa anche il
Figlio (Giovanni 5:19). «Dio era in Cristo riconciliando il mondo con Sé» 2 Corinzi 5:19. La vittoria di Gesù è
quindi la vittoria di Dio, la morte spirituale del Figlio sarebbe stata la morte morale del Padre. Il Padre ha scelto
come suo campione, come colui che avrebbe vinto il suo e il nostro nemico, il Figlio dell’uomo e tra le sue mani
si è consegnato alle sue creature affinché queste, nella umiliazione, nell’abbassamento della persona della
Divinità, abbiano della natura di Dio la manifestazione più completa, per quanto possa essere accessibile a degli
esseri creati. Se Gesù avesse peccato, l’Accusatore avrebbe avuto ragione nei confronti di Dio. L’Eterno
sarebbe stato ciò che Satana lo accusava di essere. Sarebbe stato spodestato dal suo trono di giustizia e di amore.
Dio avrebbe potuto vincere, annientando il suo nemico con la forza della sua onnipotenza, ma la voce
dell’Accusatore, così vinto, sarebbe risuonata eternamente e sempre più forte nell’universo e la potenza di Dio
sarebbe sempre stata vista come forza dispotica. Gli esseri Lo avrebbero adorato sì, ma per paura delle
conseguenze. Se Dio non avesse dato “tutto” nella mani del Cristo, non fosse stato “uno” con lui e non avesse
vinto in questo unico modo Satana, Satana avrebbe occupato il trono di Dio e da principe e usurpatore di questo
mondo sarebbe diventato principe dell’universo. Ma questo universo di vita senza il Dio della vita sarebbe
diventato un universo di morte.
Al Golgota non avviene nessun regolamento di conti, ma la tragedia di Dio che rende manifesto alla luce
dell’universo ciò che ha risentito nel segreto del suo cuore quando per la prima volta le sue creature hanno
creduto che il bene fosse altra cosa di ciò che Egli offriva loro, la sua Parola, la sua presenza, il suo amore, il suo
servizio, la sua vita, la sua eternità. Al Golgota l’Eterno mette a repentaglio Se stesso, rischia il suo
annullamento, paga in prima persona ciò che l’uomo si è causato, manifesta così l’assenza più profonda della
sua natura: per lui il cielo sarebbe stato vuoto senza l’umanità. Il male è grande, ma tutto ciò che l’uomo ha
subìto come conseguenza del peccato miseria, sofferenza, fame, ingiustizia, violenza, Dio stesso, su un piano
diverso, ma più completo e profondo, lo ha sentito, subìto, vissuto. «In tutte le loro distrette Egli stesso è stato in
distretta» Isaia 63:9. In Cristo Gesù tutte le espressioni della solidarietà di Dio per la sofferenza dell’uomo,
annunciate dai profeti, diventano realtà perché Dio stesso è venuto con noi nella nostra prigione, nel deserto del
nostro mondo.
«L’espressione “secondo le Scritture”, che troviamo spesso nel N.T., “significa semplicemente che la
Scrittura non ha né senso, né verità al di fuori di Gesù Cristo. L’esistenza di Gesù di Nazaret, la sua vita, la sua
morte, la sua risurrezione, sono il senso di ogni frase della Bibbia, sono la verità di tutto ciò che la Bibbia ci
annuncia. La Scrittura non esiste per se stessa... Senza di lui essa è vuota, totalmente vuota. Senza di lui è falsa.
Rigorosamente parlando, essa esiste solo perché compiuta da lui, ricevendo il suo senso e la sua verità da lui...
La Bibbia senza Gesù Cristo non sarebbe che “formule de politesse” divina, linguaggio convenevole per persone
religiose».26
La Parola di Dio, la quale ha operato nel passato, che incarnandosi è venuta a vivere quello che ha detto.
Nell’Emanuele diventa vero che “Dio soffre con noi”. Sulla croce l’Eterno, con le parole del figlio, dice: «È
compiuto!» Giovanni 19:30 cioè, tutto è stato dimostrato: «Dio è amore» 1 Giovanni 4:8. Dio
ha
avuto
bisogno di tempo per dimostrare in Cristo Gesù la sua bontà, ma ora ha bisogno della Chiesa per dimostrare
all’universo come, per mezzo della sua grazia, la sua Sposa, la Chiesa, che accetta la guarigione dal peccato
possa riflettere nuovamente l’immagine di Dio e «comparire dinanzi a Lui, gloriosa senza macchia, senza ruga o
cosa alcuna simile, ma santa e irreprensibile» Efesi 5:27.
26
PURY Roland de, Présence de l’éternité, éd. Delachaux & Niestlé, s.d., pp. 16,17.
La pazzia di Dio
32
Capitolo III
ALCUNE ESPRESSIONI BIBLICHE
RIGUARDANTI LA SALVEZZA
In questo capitolo considereremo alcune espressioni che la Parola di Dio utilizza in relazione alle
conseguenze del sacrificio di Cristo Gesù.
REDENZIONE o RISCATTO
La voce redenzione deriva dal latino redemptio, che a sua volta si ricollega al verbo redimere, liberare,
comprare. I termini greci corrispondenti sono lutrousithai (riscattare) e i sostantivi lutrosis e apolutrosis (azione
di riscattare), derivano da lutron (riscatto o prezzo di rilascio), una espressione quasi tecnica nel mondo antico
per indicare l’acquisto di uno schiavo o il suo affrancamento, liberazione.
Queste voci ricorrono già nella versione greca della Bibbia, dove riflettono naturalmente il significato
specifico dei verbi ebraici ga’al (vendicare, fare giustizia) e padah (separare, liberare). Tali due verbi ricorrono
spesso nelle suppliche in cui si chiede a Dio la liberazione dai nemici o da situazioni disgraziate; si ritrovano
quindi anche a proposito dell’esodo dall’Egitto (Esodo 6:6; Deuteronomio 7:8; 15:15) e dall’esilio babilonese
(Isaia 43:1-4; 48:20; 51:11; Geremia 31:11). In questi casi non si tratta tanto di “riscatto” nel senso tecnico
della parola, quanto di “liberare” da condizioni di soggezione, sudditanza e quindi di disgrazia. Per l’azione
liberatrice di Dio, il Signore non domanda nulla in cambio, agisce per amore, per grazia (Deuteronomio 7:7-9;
Salmo 49:8.9.16), anche per quanto riguarda la liberazione finale (Isaia 1:16-27; 35:8-10). Osserva
correttamente il teologo E. Jacob: «È evidente che l’impiego – del go’el, il parente prossimo che interviene per
riscattare qualcuno – a proposito di Yahvé, l’idea di riscatto (che può comportare il pensiero di pagare qualcosa)
cede il passo a quella più generale di liberazione, poiché per Yahvé, non sarebbe possibile pagare un riscatto; la
sua opera di liberazione la compie senza sforzo; ma quando è detto che Yahvé mette a nudo il suo braccio (Isaia
52:10), possiamo cogliervi l’idea di un certo sforzo mediante il quale Yahvé paga mediante la propria persona il
riscatto che comporta il perdono1».2
«Come hanno ribadito studiosi recenti, anche le voci neotestamentarie apolutrosis, lutrosis e lutroumai,
quando ricorrono nel contesto della salvezza attuata da Dio attraverso Cristo, conservano questo significato
veterotestamentario. Cioè non esprimono tanto l’idea di “riscattare, pagando qualcosa a qualcuno”, quanto
quella di “liberare dalla soggezione di qualcuno”. Lutrosis (confr. Luca 1:68; 2:38); lutromai (Luca 24:21; Tito
2:14; 1Pietro 1:18); apolutrosis (Romani 3:24; 1Corinzi 1:30; Efesi 1:7; Colossesi 1:14, Ebrei 9:15). Anche la
stessa voce lutron (riscatto), quando ricorre sulla bocca di Gesù (Matteo 20:28; Marco 10:45), non designa il
“prezzo di riscatto”, ma se stesso come “mezzo” attraverso cui Dio avrebbe realizzato l’attesa liberazione.
È vero che Paolo proclama che i cristiani sono stati “comprati a caro prezzo” (agorazein) 1 Corinzi 6:20,
7:23, anche Apocalisse 5:19; 14:3 sostiene lo stesso pensiero, ma l’apostolo non crediamo che pensi ad un loro
“riscatto” vero e proprio, a una transazione, bensì utilizza questa espressione per affermare la loro “appartenenza
a Dio” dal Quale sono stati liberati, così come era già stato per gli antichi Ebrei dell’esodo (confr. Esodo 6:4;
15:16). Del resto è proprio lui, Paolo, che, nel contesto della redenzione (designata come apolutrosis), usa
ripetutamente il verbo “liberare” (eleutheroun) Romani 6:18,22; 8:2,21; Galati 5:1».3
Nelle Scritture ebraiche la redenzione o riscatto è opera di Dio. L’Eterno è il Redentore, cioè Colui che
riscatta, che libera Israele (Esodo 6:6; 15:13; Deuteronomio 7:8; Isaia 41:14; 43:1,14; 44:22,23). L’Eterno
riscatta il suo popolo liberandolo dall’Egitto (Esodo 6:6; Isaia 51:10). Quando la nazione ebraica si allontana da
Dio, viene “venduta” ai suoi nemici (Deuteronomio 32:30; Giudici 2:14; 10:7). A seguito del pentimento Yahvé
1
Quest’ultimo pensiero ci è difficile d’accettare: lo sforzo del braccio dell’Eterno corrisponde al pagamento dato da lui, lo troviamo
anche in J. Stott che scrive: «E riguardo alla nazione? Certamente il vocabolo del riscatto era usato per descrivere la liberazione compiuta da
Yahweh a favore d’Israele sia dalla schiavitù d’Egitto (Esodo 6:6; Deuteronomio 7:8 15:15; 2 Samuele 7:23) sia dall’esilio di Babilonia
(Isaia 43:1-4; 48:20; 51:11; Geremia 31:11). Ma in questo caso, poiché chi riscatta non era un essere umano ma lo stesso Dio, possiamo
ancora sostenere che “redimere” equivalga a “riscattare”? Quale prezzo ha pagato Dio per redimere il popolo? Il vescovo B.F. Westcott
sembra essere stato il primo a suggerire una risposta: “l’idea di far uso di una forza possente, l’idea che la “redenzione” costi molto è presente
dappertutto” WESTCOTT B.F., Episte to the Hebrews, Macmilla, London 1903, p. 298. B.B. Warfield ha aggiunto “l’idea che la redenzione
dall’Egitto sia stata l’effetto di un grande dispendio di potenza divina e in quel senso sia costata molto, è evidente in ogni allusione ad essa, e
sembra costituire il concetto centrale di quanto ci cerca di comunicare”. WARFIEL B.B., The Person and Work of Christ, Presbyterian &
Reformed Publishing Company, Philadelphia 1950, p, 448. Stesso pensiero in MORRIS Leon, Apostolic Preaching of the Cross, Tyndale
Press, London 1955, pp. 14-17 e 19-20». STOTT John, La Croce di Cristo, edizioni GBU, Chieti Scalo 2001, p. 237. A parte il fatto che il
Dio della creazione, a differenza delle altre divinità o demiurghi nel creare non si esaurisce, non si stanca, è potente e non si “sforza”, diceva
e la cosa si manifestava, Isaia 52:3 dice chiaramente che quest’opera di liberazione è gratuita.
2
JACOB Edmond, Théologie de l’Ancien Testament, éd. Delachaux et Niestlé, Paris 1955, p. 235.
3
DACQUINO Pietro, Redenzione, in Enciclopedia della Bibbia, vol. V, ed, ElleDiCi, Torino 1971, col. 1196.
CAPITOLO III
interviene nuovamente nella storia e libera Israele (Isaia 35:9,10; Michea 4:10). Come l’Eterno nel vendere
Israele ai suoi nemici non guadagna nulla, così riscattandolo non spende nulla. Il riscatto viene quindi presentato
non come una transazione, ma come l’intervento di Dio in favore del suo popolo. L’Eterno si presenta come
Go’el, colui che riscatta, quale parente più prossimo, lo sposo, dell’intera nazione che è la sua sposa (Isaia
54:5). Riepiloga André Viard: «Tutti questi riscatti sono gratuiti e si fanno senza che un prezzo del riscatto sia
stato richiesto o pagato (vedere Isaia 52:3). Sono in effetti la conseguenza di una vittoria riportata da Dio stesso
sulle potenze ostili che minacciavano o opprimevano coloro che Gli appartenevano. Per questo liberare sarebbe
una traduzione più esatta che riscattare».4
Isaia 43:3 crediamo sia l’unico testo delle Scritture ebraiche in cui Dio per liberare Israele dalle mani di
Ciro dà al re, in riscatto, l’Egitto e Seba. Ma da una lettura più approfondita risulta chiaro che Dio non è sceso a
patti con il re persiano e non ha fatto scambi con lui, ma lo ha ricompensato con altre nazioni a causa della sua
generosità nell’emancipare Israele.
La redenzione o liberazione è il passaggio «dalle tenebre alla luce e dalla potestà di Satana a Dio» Atti
26:28; dalla schiavitù del peccato alla libertà di figli di Dio (Romani 7:14,24); è la liberazione dal vano modo di
vivere trasmessoci dai padri (2 Pietro 1:18; vedere Efesi 2:1e segg.).
Questa redenzione come azione liberatrice e non come conseguenza di un pagamento, è chiaramente
indicata nella liberazione che Gesù compirà al suo ritorno, come lui stesso ha insegnato nel suo discorso
escatologico (Luca 21:28) e come Paolo ribadisce nelle sue lettere (Romani 8:23; Efesi 1:14; 4:30).
La redenzione, o il riscatto, indica quindi la liberazione compiuta da Dio nei confronti degli uomini.
Egli li ha liberati perché essi si sono arresi nella loro rivolta e hanno accettato che Dio intervenisse nella loro
vita.
G. Bonsirven fa notare che la parola “redenzione”, “riscatto” si trova sette volte in Paolo (otto volte se si
considera sua anche la lettera agli Ebrei) Romani 3:24; 8:23; 1 Corinzi 1:30; Efesi 1:7,14; 4:30; Colossesi
1:14; Ebrei 9:15. Ma per l’apostolo questa parola non comporta necessariamente il prezzo di riscatto voluto
dalla nostra etimologia, bensì si applica al processo molto largo mediante il quale Dio, in Gesù Cristo, ci accorda
dei beni soprannaturali. L’apostolo preferisce il termine più largo di salvare, salvatore, salvezza.5
Stando quindi al significato specifico del termine che noi traduciamo con riscatto e ai testi che lo usano,
ci sembra insostenibile l’idea che Gesù per salvarci abbia dovuto pagare il prezzo della nostra liberazione a
Satana o alla legge o a Dio stesso (vedere il nostro Capitolo IV, Teoria del riscatto). Il teologo cattolico Jean
Galot osserva: «Nel linguaggio biblico prima di Cristo, il termine greco “redenzione” aveva spesso perduto ogni
riferimento ad un riscatto e designava una specie di liberazione».6
4
VIARD André, S. Paul, épître aux Romains, Paris 1975, p. 101.
Vedere BONSIRVEN Giuseppe, Il Vangelo di Paolo, ed. Paoline, 3a ed., Roma 1963, pp. 212,214.
6
GALOT Jean, Gesù Liberatore, libreria ed. Fiorentina, Firenze 1983, p. 564.
J. Stott nella sua prospettiva di giustificare il riscatto come prezzo pagato da Gesù per la nostra liberazione scrive: «Dato “il preciso e
costante uso (di questo vocabolo) fattone dagli autori profani”, e poiché questo vocabolo e i suoi derivati si riferiscono a “un procedimento
comportante il rilascio per mezzo di un prezzo di riscatto” L. Morris, o.c., p. 310, a volte assai alto, non abbiamo la libertà di attenuare il suo
significato riducendolo a una liberazione dai contorni imprecisi e persino a buon mercato. Siamo stati “riscattati” da Cristo, non
semplicemente “redenti” o “liberati” da lui. B.B. Warfield aveva ragione a sottolineare che “stiamo accanto al letto di morte di un vocabolo.
È triste essere testimoni della morte di qualsiasi cosa che abbia valore – persino di una parola di valore. E le parole di valore muoiono, come
ogni altra cosa di valore – se non ci prendiamo cura di loro”. Ancora più triste è “la scomparsa dal cuore degli uomini delle cose che le parole
rappresentano” WARFIEL B.B., Redemption, in The Princeton Theological Review, vol. XIV, 1916; The Person, o.c., pp. 345 e 347. Egli si
riferiva alla sua generazione poiché essa stava perdendo il senso di gratitudine verso colui il quale aveva pagato il nostro riscatto.
Nell’A.T. i possedimenti, gli animali, le persone e la nazione venivano tutti “riscattati” tramite il pagamento di un prezzo. La facoltà
e persino il dovere) di ricomprare una proprietà che era stata alienata, così da mantenerla nell’ambito di una famiglia o di una tribù, era ben
illustrata dalle vicende riguardanti Boaz e Geremia (Levitico 25:25-28; Rut 3 e 4; Geremia 32:6-8, confr. Levitico 27 per la redenzione di un
terreno che era stato dedicato al Signore con un voto speciale). Riguardo agli animali il primo nato di tutto il bestiame apparteneva di diritto a
Yahvé; gli asini e gli animali impuri, comunque, potevano essere riscattati (cioè ricomprati) dal proprietario (Esodo 13:13; 34:20; Numeri
18:14-17). Nel caso degli individui israelitici, ognuno doveva pagare “il riscatto della propria vita” al momento del censimento nazionale; i
figli primogeniti (i quali fin dall’epoca della prima Pasqua appartenevano a Dio) e specialmente quelli in eccesso sul numero dei leviti
destinati a rimpiazzarli, dovevano essere riscattati… In tutti questi casi (toro che ammazzava, un individuo che si vendeva come schiavo che
più tardi si riscattava o si faceva riscattare da un parente (Esodo 30:12-16; 13:13; 34:20; Numeri 3:40-51; Esodo 21:28-32; Levitico 25:4755)) di “riscatto” vi era un intervento decisivo e costoso; qualcuno pagava il prezzo necessario per la liberare la proprietà dall’ipoteca, gli
animali dal macello, e le persone dalla schiavitù e persino dalla morte» o.c., pp. 235,236.
Nel N.T. il pagamento «muta, è morale piuttosto che materiale, e il prezzo è la morte espiatoria del Figlio di Dio. È evidente in
Matteo 10:45. Il linguaggio immaginoso ci porta a vederci con una condizione di prigionia dalla quale può liberarci solo il pagamento di un
riscatto, e il riscatto è niente meno che la vita del Messia. La vita di noi tutti è perduta, la sua vita sarà sacrificata invece della nostra. F.
Büchsel è certamente corretto nel ritenere che il detto “implica indubbiamente la sostituzione”. Ciò è confermato dalla combinazione dei due
aggettivi nell’espressione greca antilutron huper pollon (letteralmente: “un riscatto al posto di e per amore di molti”). “La morte di Gesù
significa che accade a lui quanto dovrebbe accadere ai molti. Quindi egli prende il loro posto”. F. Büchsel, Hilaskomai, o.c., p. 343. Il NT
non forza mai il linguaggio immaginoso fino al punto di indicare a chi fosse stato pagato il riscatto, ma non lascia nel dubbio riguardo al
prezzo Cristo stesso. Oltre all’incarnazione, comunque, vi è l’espiazione; per adempierla egli dette “se stesso” (1 Timoteo 2:6; Tito 2:14) o la
sua “vita” (la sua psuché, Marco 10:45) morendo sotto la maledizione delle legge per redimerci da essa (Galati 3:13)». o.c., pp., 239,240.
5
La pazzia di Dio
34
ALCUNE ESPRESSIONI BIBLICHE RIGUARDANTI LA SALVEZZA
SALVEZZA
J. Diaz y Diaz, nell’Enciclopedia della Bibbia alla voce Salvezza, scrive che nella traduzione greca della
LXX il verbo corrisponde al vocabolo ebraico yasha, con meno frequenza ahissil (liberare), palat (riscattare),
padah (redimere), hayah (vivere). Il verbo yasha si applica a Yahvé circa un centinaio di volte, sempre nelle
forme nifal o hifil; di esse circa quarantasette si trovano nel salterio.
Nel suo senso etimologico, yasha significa “essere spazioso”, “svolgersi senza ostacolo”, “ottenere la
vittoria in battaglia” (1 Samuele 14:45). “Salvare” significa disporre della forza sufficiente per operare in
maniera che questa risulti evidente... Colui che ha bisogno della salvezza è uno che è oppresso e la sua salvezza
consiste nel vedersi liberato dal pericolo che lo minaccia o dalla tirannia che lo opprime.
Sul piano teologico, la salvezza viene attribuita a Dio nei suoi rapporti con Israele. Solamente lui è tanto
forte da operare per forza propria la “salvezza” (vittoria, sicurezza, libertà).
Il verbo sozein appare circa 111 volte nelle Scritture apostoliche, sebbene con notevole sproporzione
statistica, dato che è assente in Galati, Filippesi, Colossesi, 2 Pietro e nelle lettere di Giovanni. Il termine soteria
appare circa 45 volte e manca in Matteo e Marco. In Luca si incontra 4 volte, delle quali 3 nel vangelo
dell’infanzia; una volta in Giovanni, in 2 Pietro e Giuda; 2 volte nelle lettere Pastorali; 7 in Ebrei e 15 nelle
lettere Paoline. Da ciò si può già concludere l’importanza preponderante che questo termine ha negli scritti di
Paolo, paragonati con il resto della letteratura neotestamentaria.
Nelle religioni misteriche la parola soteria ha una relazione stretta con la morte e si riferisce ai pericoli
che attendono l’anima subito dopo la morte, garantendo in quell’istante il soccorso della divinità.
Nel culto dell’imperatore si inquadra in uno schema puramente temporale. Si tratta della prosperità, della
pace e del benessere politico e umano, ma ha pure un carattere religioso a motivo del culto che viene tributato
all’imperatore.
Esiste una soteria sul piano cosmologico; essa viene attribuita a Giove o agli dèi in generale e non è altro
che la conservazione dell’universo, è una salvezza di carattere statico e spaziale.
In contrapposizione a questi tipi di soteria, le Scritture apostoliche ci presentano un concetto che è
ambientato nelle idee delle Scritture che hanno preceduto la venuta di Gesù.
La salvezza di cui si parla nelle Scritture apostoliche riguarda la liberazione dall’infermità, dalla
schiavitù, dalle tenebre, dall’alienazione esistenziale, dall’oppressione di qualunque tipo, ecc.: infermità (Matteo
9:22); schiavitù (Galati 5:1; 2 Corinzi 3:17); tenebre (1 Pietro 2:10; Efesi 2:12,13; Luca 1:77); oppressione
(Atti 7:25).
La salvezza neotestamentaria si polarizza attorno a questi tre aspetti fondamentali: liberazione dalla
distruzione, dal giudizio e dalla morte escatologica (Filippesi 1:28; Romani 5:9; Ebrei 5:7).7 Partendo da questi
concetti, la “salvezza” acquista un senso eminentemente positivo, giacché si presenta come il passaggio dalla
sfera della morte a quella della vita (Giovanni 3:16; 10:28; 11:50; 17:12; Romani 5:10). La salvezza è attribuita
a Dio o alla sua grazia (Luca 2:30; 3:6; Tito 2:11). Con ciò ci troviamo esattamente sulla linea delle Scritture
ebraiche dove la salvezza viene presentata come attributo esclusivo di Dio. Tuttavia nelle Scritture apostoliche la
salvezza viene posta pure su un piano cristologico. Cristo Gesù l’operatore della salvezza, “lui, il principe della
salvezza”, e a lui viene attribuita l’origine della salvezza (Ebrei 2:10; 5:9; Giovanni 4:42). Ripetute volte, con
un formulario vario, viene chiamato “salvatore” al pari di Dio (Tito 1:4; 2:13; 2 Timoteo 1:10). Questa visione
della salvezza ristabilisce la pace con Dio, non è la conquista di uno stato dell’anima mediante una convinzione
(fede), come la si può riscontrare nelle religioni tradizionali e nel movimento della New Age, ma è il ritorno, il
ristabilire una relazione dell’uomo con Dio, con il Signore Cristo Gesù.
«Il termine “liberazione” sembra attualmente il più suggestivo per designare l’obiettivo dell’opera di
Cristo, che tradizionalmente è stata sempre definita “salvezza” o “redenzione”. I concetti di salvezza e di
liberazione sono molto vicini l’uno all’altro. Vi è però una sfumatura che li distingue: osserviamo infatti che
“salvezza” evoca una minaccia alla quale si sfugge, mentre la “liberazione” si riferisce più precisamente a un
male attuale al quale si viene sottratti. Salvare qualcuno è strapparlo ad un pericolo; liberare qualcuno è
disimpegnarlo da una situazione che opprime o che assoggetta. I due aspetti si ritrovano nell’opera di Cristo».8
ESPIAZIONE o PROPIZIAZIONE
7
MICHAEL Frank, Vocabulaire biblique publié sous la direction de Jean Jacques VON ALLMEN, Paris 1954, p. 216 dice che
l’uomo è salvato da Dio, mediante Cristo Gesù: dai suoi peccati (Matteo 1:21; Luca 1:77; Atti 5:31; Luca 7:50; Giacomo 4:12); dalla
condanna (Giovanni 3:17; 12:47; Marco 16:16; 1 Corinzi 5:5; 3:15; 1 Pietro 4:18); dalla perdizione (Matteo 16:25; Marco 8:35; Luca
9:24; 1 Corinzi 1:18; 2 Corinzi 2:15; 2 Tessalonicesi 2:10; Matteo 18:11; Luca 19:20); dalla morte (Giacomo 5:20; Luca 6:9; 2 Corinzi
7:10), dalla collera di Dio (Romani 5:9; 1 Tessalonicesi 5:9 e seg.).
8
J. Galot, o.c., p. 33.
La pazzia di Dio
35
CAPITOLO III
«Le traduzioni moderne della Bibbia - e perfino la Vulgata - sogliono usare alcune volte il verbo expiare,
espiare, e altre volte il termine propitiare, propiziare, come versione di uno stesso vocabolo originale: l’ebraico
kipper e il greco ilasterion».9
Espiare10 significa, nelle nostre lingue moderne e pure in latino, “cancellare le colpe, purificarsi da esse
mediante qualche sacrificio”; o anche purificare una cosa profanata. Ma significa anche la pena che il colpevole
subisce e che gli è stata imposta per il suo delitto; e di conseguenza il significato di espiare si avvicina a quello
di propiziare. Per propiziare intendiamo anche calmare, placare l’ira di qualcuno, rendendolo favorevole o
accattivandosi la sua volontà.
La descrizione delle cerimonie della hattah’t (sacrificio per il peccato involontario) e dell’asam
(sacrificio di riparazione) è regolarmente accompagnato da questa formula: «Così il sacerdote farà l’espiazione
(kipper) del peccato di lui, e gli sarà perdonato» Levitico 4:26,20; 5:6,10,13,16,18; ecc.
Quale è il giusto significato di kipper che viene tradotto per purificare, espiare, propiziare?
J. Stott si chiede: «Chi è l’oggetto dell’azione espiatoria (meglio kipper, ndt), Dio o l’uomo? Se è il
primo dei due, allora la parola appropriata è “propiziazione” (placare Dio), se è il secondo, la parola giusta è
“espiazione” (sistemare, mettere a posto il peccato e la colpa)»,11 il cui termine può mettere in risalto la pena
con la quale si sconta il castigo, o anche il semplice significato di purificare, pulire, togliere, cioè, cancellare il
male compiuto non come conseguenza dell’espiazione subita.12
9
MARQUS Y MARTI A., Propiziazione, in Enciclopedia della Bibbia, vol. V, ed. ElleDiCi, col. 987.
Crediamo che B. Sesboüé giustamente faccia osservare: «Nel termine espiazione sonnecchia sempre un’idea di vendetta».
SESBOÜÉ Bernard, Gesù Cristo, l’unico mediatore, vol. 1, ed. Paoline, Cinisello Balsamo 1991, p. 332.
11
J. Stott, o.c., pp. 226,227.
12
Si è anche sostenuto di dare come traduzione: coprire, coprire l’offesa; cioè, tramite l’azione riparatrice espressa dal sacrificio,
stendere un velo sul male fatto, di modo che l’offeso non la veda più e si comporti come se non la vedesse più. Si è contestato che espiare
significhi coprire in quanto esso non «riflette il vero significato biblico, né l’ebraico post-biblico e neppure l’aramaico tardivo. Neppure la
LXX traduce mai kipper per coprire». TREIYER Alberto, Le jour des expiations et la purification du sanctuaire, tesi di dottorato in scienze
religiose, Université de science humaines de Strasbourg, maggio 1982, p. 29.
Scrive il filologo Pierre Winandy: «Le parole ebraiche impiegate nel senso abituale di “coprire” non sono kafar (da kipper), ma, per
esempio kafar kasah, nasak, e ‘atah. Noi abbiamo esaminato le 139 occasioni in cui la radice kafar si presenta nell’A.T. Non una sola volta,
ci sembra, che essa possa avere il senso di “coprire”.- Dopo aver consultato ogni testo dei manoscritti del Mar Morto che portano la nostra
radice siamo giunti alla conclusione che non un solo testo fra tutti da kafar il significato di coprire, ma tutti l’espiazione purificatrice di
perdono dei peccati». P. Winandy, idem, p. 14,15
Si è detto che il verbo kipper significa coprire per il fatto che il coperchio posto sopra l’arca del Santissimo nel santuario era
chiamato kapporeth.
«Questa etimologia (coprire) si appoggia sulla lingua araba.... detto che Dio “perdona” il peccato, che la guerra santa “espia” certi
sbagli tramite il digiuno e l’offerta. C’è in particolare un parallelismo interessante tra l’ebraico kapporet e l’arabo kaffarat. Il kapporet presso
gli ebrei è un termine tecnico che indica il coperchio dell’arca, quale mezzo di propiziazione, ilasterion. La kaffarat, per gli Arabi è un
termine di diritto che significa mezzo di espiazione o di propiziazione: è ammesso per certi sbagli strettamente determinati, per esempio, in
caso di omicidio involontario, o quando per negligenza si dimentica la realizzazione di un voto o di una promessa o violando il digiuno del
Ramadam. Si sa che il verbo kafara, in arabo, significa propriamente: coprire, nascondere. È così che la nube copre (kafara) il cielo, il vento
ricopre (kafarat) di polvere le tracce di un accampamento, che il contadino è chiamato kafir, colui che copre, perché copre la terra con la
semenza. È così ugualmente che, sul piano spirituale, l’ingrato “nasconde” (kafara) il beneficio rifiutando di riconoscerlo, che l’infedele
“copre” la verità negandola.
Kafir indica spesso l’ingrato e l’incredulo... Il termine viene usato quando l’incredulo rifiuta di vedere la verità stendendo un velo
che lo sottrae alla sua vista, o anche quando il colpevole cerca con la sua riparazione di stendere sul suo errore un velo che impedisca
all’offeso di vedere ciò che lo ha irritato. Tuttavia, se l’accostamento con l’arabo suggerisce l’idea di “coprire”, non è più così quando si
confronta l’ebraico con le altre lingue semitiche.
In siriaco, kefar significa fondamentalmente: “detergere”, “asciugare”, “cancellare”, da cui il pael kappar, “purificare”, “assolvere”,
“distruggere”... e il suo derivato kupparà, “perdono”, “purificazione”. È interessante notare che kafar ha anche il significato molto frequente
di “rinnegare”, “abbandonare”, dal quale i numerosi sostantivi e aggettivi: infedele, apostata, ingrato, infedeltà, apostasia, ecc.... Così da un
punto di partenza diverso da quello arabo, il siriaco giunge allo stesso senso peggiorativo: in arabo, l’infedele è colui che “copre”, che
“nasconde” la sua fede; in siriaco, colui che la “cancella”. Le due lingue arrivano così, per due strade diverse alla stessa idea di espiazione;
una concepisce la riparazione come un velo steso sullo sbaglio, l’altra come uno strofinamento che tolga la macchia.
È anche il senso di “asciugare” che l’aramaico dà al termine kafar, che significa nella forma semplice “rinnegare”, “asciugare”; al
pael: “asciugare, “cancellare”, “espiare”; all’itpael: “essere cancellato”, “distrutto”, “espiato”.
In assiro il verbo kafar è spesso impiegato in senso rituale come in ebraico. Questo verbo significava in origine: “strofinare”,
“asciugare”, “togliere strofinando”... La forma semplice la si trova solo tre volte in commentari o sillabari che la danno per sinonimo di
“massasu”, “purificare”, “pulire”.
Presso i Babilonesi, ogni malattia era il risultato di un peccato, e aveva per causa immediata l’azione funesta di un demone entrato
nel corpo del peccatore. W. Schrauk, ha dimostrato che all’origine kuppuru indicava un’operazione, contemporaneamente medica e magica,
tramite la quale il sacerdote medico, l’asipu, sfregava la parte malata pronunciando certe preghiere o formule d’incantesimo, per espellere il
demone e la malattia. Da sfregare, il senso passa a purificare e liberare, poiché la frizione purifica il corpo, contaminato dalla malattia e dal
peccato, o libera dalla possessione degli spiriti… Il termine kuppuru abbraccia l’insieme delle azioni rituali che servono a ristabilire l’uomo e
le cose nello stato normale, cacciando malattia e demoni.Da questi dati risulta che kuppuru e kipper hanno un’analogia molto più stretta che tra l’arabo e l’ebraico. Non c’è soltanto impiego
della stessa forma verbale con significato generico simile; c’è anche lo stesso termine rituale applicato nelle stesse circostanze in vista di un
risultato identico. Senza dubbio le cerimonie differiscono; la liturgia d’Israele esclude tutti i processi magici in vigore presso gli assirobabilonesi. Ma nulla impedisce di ritenere un’espressione che indichi semplicemente l’insieme degli atti religiosi che ristabiliscono persone e
cose nella loro purezza primitiva. Si è dunque portati a concludere che kipper è stato preso in prestito dalla lingua rituale accadica, e che gli
Ebrei, parlando del peccato “espiato”, pensavano come i Babilonesi al peccato cancellato e allontanato.
10
La pazzia di Dio
36
ALCUNE ESPRESSIONI BIBLICHE RIGUARDANTI LA SALVEZZA
«Il verbo espiare (kipper) riassume lo scopo del sacrificio espiatorio; ha per oggetto i peccati oppure le
cose (tempio, altare, ecc.) e persone che si trovano in uno stato che non è il loro. Il significato fondamentale è:
cancellare peccati e impurità per ristabilire le normali relazioni con il Dio dell’alleanza; non comporta accento
alcuno sulla pena, sul castigo, sull’ira o collera celeste; kipper designa nettamente un’azione diretta su ciò che
separa da Dio».13
Il verbo greco laskomai, presso i classici, vuol dire generalmente “placare o rendere propizia” una
persona e soprattutto la divinità, che è stata offesa o adirata, o, comunque, meno favorevole: di solito l’uomo è
soggetto, e dio, oggetto dell’azione. Siamo in presenza di un atto con cui si tende a ingraziarsi gli dèi.14
L’uso della parola ebraica l’abbiamo ad esempio in Genesi 32:20. Giacobbe, rientrando in Palestina, si deve incontrare con il fratello
Esaù, allora gli manda dei regali pensando: “Io lo placherò (kipper) col dono che mi precede, e, dopo vedrò la sua faccia; forse mi farà buona
accoglienza”. Il Targum di Samuele dice: «Io pulirò il suo viso». E nello stesso posto Raschi avverte che l’ebraico kipper, davanti alla parola
“peccato”, “iniquità” e davanti a “viso” deve tradursi con “asciugare”, come in aramaico e nel Talmud… La collera e i sentimenti sfavorevoli
dipinti sul viso di Esaù spariranno per effetto del bel modo di procedere di Giacobbe… (la traduzione ecumenica della Bibbia in nota al testo
della Genesi dice: “Letteralmente, io strofinerò il suo viso (per addolcirlo) ndr)”.
In Isaia 6:7 il profeta riconosce l’impurità della sua bocca e l’angelo prende dall’altare un carbone acceso dicendo al profeta: “Ecco,
questo t’ha toccato le labbra, la tua iniquità è tolta (sparita, allontanata) e il tuo peccato è espiato (kipper)”. Queste due idee di
allontanamento e di espiazione sono ancora associate in Isaia 27:9 e Proverbi 16:6. La stessa interpretazione: cancellare, togliere, la
troviamo in 1 Samuele 3:14; Isaia 22:14.
Kipper è dunque un’espressione stilizzata che vuole dire: compiere in favore di una persona o di una cosa gli atti rituali in virtù dei
quali ogni impurità è cancellata, l’amicizia divina resa e la santità legale conferita o restaurata» MÉDÉBIELLE P.A., L’expiation dans l’A.T.
et le N.T., Rome 1924, pp. 69-83; Expiation, in Supplément Dictionnaire de la Bible, col. 48-55.
In diverse occasioni citeremo questo teologo cattolico per il valore fondamentale della sua opera e la bellezza di molte sue pagine,
ma non ne condividiamo la tesi della sostituzione penale. Di lui Léopold SABOURIN scrive: «A. Médébielle, l’autore, forse, che ha
contribuito di più a mantenere in circolazione, presso i cattolici, delle tendenze che sarebbe preferibile fare sparire» Rédemption Sacrificielle,
éd. Deschée de Brouwer, 1961, p. 152.
13
MORALDI Luigi, Per una corretta lettura della soteriologia biblica, in La Scuola Cattolica, 4-5, 1980, p. 316.
14
J. Stott, o.c., pp. 225,226 scrive: «Per quanto questo linguaggio (di propiziazione) fosse ben conosciuto dai nostri antenati, essi non
si sentivano però necessariamente a loro agio nell’usarlo. “Propiziazione” per qualcuno significa pacificarlo, o placare la sua ira. E dunque,
Dio si adira? Se questo avviene, possono delle offerte o dei rituali lenire la sua ira? Forse si fa corrompere accettando doni? Questi concetti
hanno una risonanza più pagana che cristiana. Si può capire come i primitivi animisti considerassero essenziale placare l’ira degli dèi, degli
spiriti o degli antenati, ma tali concetti sono degni del Dio cristiano? Dobbiamo davvero credere che Gesù, con la sua morte, ha propiziato
l’ira del padre, inducendolo a eliminarla e a guardarci invece con favore? I crudi concetti di ira, sacrificio e propiziazione vanno davvero
rifiutati. Essi non appartengono alla religione del V.T. e tanto meno del N.T». Poi con il concetto che l’ira dell’Eterno è “santa”, tutto cambia.
«Quanto ci è rivelato nella Scrittura è una dottrina pura e semplice (purgata da tutte le trivialità pagane) della santa ira di Dio, del suo
sacrificio di amore in Cristo e della sua iniziativa per prevenire la sua ira. È ovvio che ira e “propiziazione” il mezzo o il modo di placare
l’ira) vadano insieme. Solo quando si eliminano dall’ira tutti i concetti spregevoli che l’accompagnano si ha una propiziazione purificata».
Poi aggiunge alle pp. 231-235: «Se dobbiamo sviluppare una dottrina veramente biblica della propiziazione, sarà necessario distinguerla da
idee pagane in tre punti cruciali.
Primo, la ragione per cui è necessaria la propiziazione (perché) il peccato suscita l’ira di Dio… L’ira di Dio è il suo antagonismo
fermo, inesorabile, costante e senza compromessi al male in tutte le sue forme e manifestazioni, in breve l’ira di Dio è agli antipodi della
nostra; quanto provoca questa (la vanità offesa), non provoca mai la sua quanto provoca la sua ira (il male), raramente provoca la nostra.
Secondo, chi fa la propiziazione? In un contesto pagano sono sempre gli esseri umani i quali cercano di allontanare l’ira divina per il
tramite di meticolose rappresentazioni rituali, o recitando formule magiche, oppure con l’offerta di sacrifici (vegetali, animali o perfino
umani). Tramite tali pratiche si pensa di poter placare la divinità offesa. Ma il vangelo inizia con la netta affermazione che nulla di quanto
noi possiamo fare, dire, offrire o persino dare come contributo, può essere una compensazione per il nostro peccato, o può sviare l’ira di Dio.
Non vi è alcuna possibilità di persuadere, blandire o corrompere Dio così che ci perdoni, perché da lui non possiamo meritare altro che il suo
giudizio. E come abbiamo visto, nemmeno Cristo col suo sacrificio ha preteso di obbligare Dio a perdonarci. No, l’iniziativa è stata presa
dallo stesso Dio, per la sua misericordia e la sua grazia senza limiti. Questo era già chiaro nel VT, i cui sacrifici erano considerati non come
opere umane, ma come doni divini. O era per il loro tramite che Dio diventava misericordioso; essi erano provveduti da un Dio
misericordioso così ch’egli potesse agire misericordiosamente nei confronti del suo popolo peccatore. “Per questo vi ho ordinato di porlo (il
sangue del sacrificio) sull’altare per fare l’espiazione per le vostre persone” Levitico 17:11.E questa verità è ancor più distintamente
riconosciuta nel NT, e specialmente nei testi più importanti sulla propiziazione. Fu lo stesso Dio a “presentare” (TILC) od a “prestabilire”
(Riv. NR) Gesù Cristo come sacrificio propiziatorio (Romani 3:25). Non che siamo stati noi ad amare Dio, ma è stato lui ad amare noi e a
mandare suo Figlio come propiziazione per i nostri peccati (1 Giovanni 4:10). Mai può essere sufficiente l’accento da porre al fatto che
l’amore di Dio è la fonte e non la conseguenza dell’espiazione. Così si esprime P.T. Forsyth: “l’espiazione non ha procurato la grazia, è fluita
dalla grazia” ORSYTH P.T.,Cruciality of the Cross, op.cit., p. 78. Già Calvino scriveva: “L’opera dell’espiazione è fluita dall’amore di Dio;
quindi non l’ha stabilito”, Istituzione, o.c., II,XVI.4. Dio non ci ama perché Cristo è morto per noi; Cristo è morto per noi perché Dio ci ha
amati. Era l’ira di Dio ad avere bisogno di essere propiziata, ed è stato l’amore di Dio a fare la propiziazione, Se è possibile dire che la
propiziazione “ha cambiato” Dio, o che per via d’essa egli ha cambiato se stesso, si deve essere assolutamente chiari sul fatto che Dio non ha
cambiato passando dall’ira all’amore, o dall’inimicizia alla misericordia, poiché il carattere di Dio è immutabile. Quanto la propiziazione ha
cambiato è stato il suo modo di trattarci. “La distinzione che vi chiedo di esaminare” scriveva .T. Forsyth. “è tra un cambiamento di
sentimenti e un cambiamento del rapporto… I sentimenti di Dio verso di noi non hanno mai avuto bisogno di essere cambiati. Ma è il modo
in cui Dio ci tratta, il rapporto pratico di Dio con noi – quello ha dovuto essere cambiato”. FORSYTH P.T., The Work of Christ, Hodder &
Stoughton, London 1910, p. 105. Egli ci ha perdonato e ci ha accolti alla sua presenza.
Terzo, che cosa è il sacrificio propiziatorio? La persona offerta da Dio non era qualcun altro, un essere umano, o un angelo o persino
suo Figlio considerato come qualcuno distinto da o esterno a lui stesso. No, egli ha offerto se stesso. Dando suo Figlio, egli stava dando se
stesso. Come ha ripetutamente scritto Karl Barth, “era il Figlio di Dio, cioè era Dio stesso”. Per esempio, “il fatto che fosse il Figlio di Dio,
che fosse Dio stesso, a prendere il nostro posto sul Golgota e perciò a liberarci dalla collera divina e dal divino giudizio, rivela per prima cosa
quale fosse la logica e piena conseguenza dell’ira di Dio, della sua giustizia condannante e punitiva”. E ancora, “poiché era il Figlio di Dio,
cioè Dio stesso a prendere il nostro posto il Venerdì Santo, era quella costituzione ad avere efficacia e a procurarci la riconciliazione con il
Dio giusto… solamente Dio, il nostro Signore e Creatore, poteva farsi parante per noi, prendere il nostro posto, morire di una morte eterna in
nostra vece come conseguenza del nostro peccato in modo tale da far sì che essa fosse definitivamente sofferta e vinta”. BARTH Karl,
Church Dogmatics,, vol. II Parte I, Edimmburg 1957, pp. 398 e 403.
La pazzia di Dio
37
CAPITOLO III
Negli scrittori biblici, ci si muove in una linea diversa. Tanto il verbo ebraico quanto il verbo greco, nei
testi di interesse religioso, non designano un gesto diretto a propiziare Dio e a calmare la sua ira. I due verbi
accennano all’eliminazione di qualcosa di negativo e deteriore in vista di congiungere con la divinità ciò che per
il peccato ne era separato. In altre parole, nella Bibbia “espiare” esprime un gesto che non agisce sulla Divinità
per placarla, né sull’uomo come se avesse subito un castigo, ma su ciò che separa da Dio (peccati e impurità) per
eliminarlo.15
Il verbo kipper con il significato di “assolvere”, “cancellare” e “perdonare” lo troviamo nelle moderne
versioni. La TOB - Traduzione Ecumenica della Bibbia - traduce Levitico 4:20 : «Quando il sacerdote ha fatto
sull’assemblea il rito di assoluzione, le è perdonato»; Levitico 16:11: «Aaronne presenta il toro del sacrificio per
il proprio peccato, e fa il rito di assoluzione in suo favore e in favore della sua casa». Il rabbino André
Chouraqui traduce Levitico 4:20: «Il sacerdote li assolse e fu loro perdonato». Isaia 6:7: «... il tuo peccato è
cancellato» versione TOB. Il corrispondente greco in Ebrei 2:17 viene tradotto con «cancellare i peccati del
popolo».
Quando ha Dio per soggetto, kipper acquista il significato di perdono. Così Geremia prega chiedendo la
rovina dei suoi nemici: «Non perdonare (kipper) la loro colpa, non cancellare il loro peccato dai tuoi occhi»
Geremia 18:23. Nel Salmo 78:38 si loda la bontà di Dio perché suole perdonare l’iniquità; così pure nel Salmo
65:4.
«Noi abbiamo già notato che kipper nell’uso legale non ha mai Dio per oggetto. Non si tratta di un
procedere nel quale il peccatore avrebbe l’iniziativa e la cui influenza agirebbe su Dio per cambiare le sue
disposizioni e farlo passare dalla collera alla clemenza. È al contrario Dio stesso che dispone tutto in anticipo,
che promette il perdono, che ne fissa le condizioni, che determina il ruolo del peccatore e del sacerdote e, se il
rito è stato fedelmente osservato, dichiara il peccato cancellato. Si coglie meglio ancora questo atteggiamento
divino nella traduzione dei LXX. Presso gli autori classici, ilaskesthai si costruisce regolarmente con l’accusativo
della persona: il pagano “placa, calma, si rende propizio” i suoi dèi. I Settanta evitano questa maniera di parlare;
con un giro di parole che deriva dall’ebraico - ma contrario al genio della lingua greca, e ancora più toccante essi impiegano ezilaskesthai con peri (intorno) qualche volta uper (sopra) davanti al nome della persona o della
cosa in favore della quale si fa la propiziazione. Questa differenza di linguaggio annuncia una teologia nuova:
Dio non è, come le divinità pagane, un personaggio irritato di cui si deve far cadere la collera con dei
procedimenti abili, è l’Essere immutabile, contemporaneamente buono e giusto, che offre il perdono indicando i
mezzi che soddisfano la sua giustizia».16
La condizione per il perdono non è data da un animale, ma da un cuore rotto e contrito: Salmo 51:18-20.
È importante comprendere la differenza di significato che si dà al verbo kipper: coprire o purificare.
Se il peccato è solo coperto, ammettendo che Dio non lo veda, la posizione dell’uomo nei confronti di
Dio non cambia: è un peccatore che conserva il suo peccato coperto. Per contro, il peccatore si pone davanti a
Dio in una nuova relazione se il suo peccato viene allontanato ed egli è purificato. Dio non salva lasciando
l’uomo nei suoi peccati, ma liberandolo da essi, cioè guarendolo dalla ribellione.
B. Sesboüé dopo aver citato Levitico 17:11 osserva: «Pertanto il rito dell’espiazione non è affatto
un’azione che cerca di provocare un cambiamento in Dio, facendo passare sotto il suo impero qualcosa che
sarebbe stata primitivamente una proprietà dell’uomo. No, pure il sangue della vittima è un dono della creazione,
che Dio permette all’uomo di utilizzare per espiare simbolicamente il proprio peccato. Non vi è scambio, e la
legge del taglione è radicalmente superata. Dio donò all’uomo di poter fare qualcosa per ottenere il suo perdono.
Quindi è Dio stesso che sta al centro della nostra risposta a tutte e tre le domande. È Dio stesso che nella sua santa ira ha bisogno di
essere propiziato, Dio stesso che nel suo santo amore si è assunto l’onore di fare propiziazione, ed è Dio stesso che nella persona di suo
Figlio è morto per la propiziazione dei nostri peccati. Perciò Dio ha preso egli stesso l’amorevole iniziativa di placare la sua giusta collera
portandola egli stesso sul suo proprio Figlio quando questi ha preso il nostro posto ed è morto per noi. Qui non vi è nessuna rozzezza che
possa provocare il nostro scherno, vi è solo la profondità di un amore santo che suscita la nostra adorazione.
Era l’ira di Dio ad aver bisogno di essere propiziata, ed è stato l’amore di Dio a fare la propiziazione.
È Dio stesso che nella sua santa ira ha bisogno di essere propiziato, Dio stesso che nel suo santo amore si è assunto l’onere di fare
propiziazione, ed è Dio stesso che nella persona di suo Figlio è morto per la propiziazione dei nostri peccati. Perciò Dio ha preso egli stesso
l’amorevole iniziativa di placare la sua giusta collera portandola egli stesso sul suo proprio Figlio quando questi ha preso il nostro posto ed è
morto per noi.
F. Büchsel, “hilasmos… è l’azione con cui Dio è propiziato e il peccato espiato”. F. BÜCHSEL, Hilaskomai,in The Theological
Dictionary of the New Testament, vol. I, Grand Rapid, Eerdmans 1964, p. 317. D. Wells “nel pensiero paolino il peccato tiene l’uomo lontano
da Dio e l’ira tiene Dio lontano dall’uomo. Con la morte sostitutiva di Cristo il peccato è sopraffatto e l’ira allontanata, così che Dio può
volgere lo sguardo all’uomo senza corruccio e l’uomo può svolgere lo sguardo a Dio senza paura. Il peccato è espiato e Dio è propiziato”. F
WELLS David, he Search for Salvation, VP, Leicester 1978, p. 29».
A p. 140 aveva scritto: « Ciò che hanno in comune i concetti biblici della santità e dell’ira di Dio è la verità secondo cui esse non
possono coesistere col peccato. La santità di Dio smaschera il peccato; la sua ira lo combatte. Quindi il peccato non può accostarsi a Dio, e
Dio non può tollerare il peccato».
Del resto J. Stott, in 1 Giovanni 2:2, preferisce l’espressione propiziazione, perché al v. 1 Gesù è “avvocato” presso il Padre, “il
che implica il corruccio di colui davanti al quale egli perora la nostra causa”. o.c., p. 230. Sul significato di Gesù avvocato vedere il nostro
capitolo VII.
15
Vedere AA.VV., Espiazione, in Schede Bibliche, vol. III, ed. Dehoniane, Bologna 1983, col. 1179.
16
P.A. Médébielle, o.c., p. 88.
La pazzia di Dio
38
ALCUNE ESPRESSIONI BIBLICHE RIGUARDANTI LA SALVEZZA
L’aspersione del sangue gli permette di vivere una riconsacrazione di tutto se stesso a Dio e di alimentare la sua
fedeltà all’alleanza. Il “grande giorno dell’espiazione” è anche “il grande giorno del perdono”, come
suggeriscono le armoniche del verbo kipper.
Placare la collera di Dio non significa quindi offrirgli una compensazione, che scambierebbe realmente il suo
atteggiamento verso di noi. Significa ritornare a lui, pentiti e convertiti, significa togliere l’ostacolo che gli
impediva di manifestarci direttamente il suo amore».17
GRAZIA
La parola “grazia” nel suo senso estetico significa: attrazione, fascino; in senso morale: “benevolenza,
favore”.18
Una transizione tra il senso morale e il senso religioso è data dall’espressione: «Trovare grazia davanti a
Dio» Genesi 6:8; Esodo 33:17; Numeri 11:11; 2 Samuele 15:25.
L’espressione “rendere grazia, azioni di grazia”, molto frequente nelle lettere di Paolo e che traduce
qualche volta la soddisfazione, la riconoscenza, nei confronti degli uomini (Atti 24:33; 1 Corinzi 1:4; 2 Corinzi
1:11; Romani 1:8).
In senso religioso la parola indica una disposizione di Dio nei confronti degli uomini, una maniera di
essere e di agire che deriva dall’amore (Romani 3:24; 5:16,17; Efesi 1:6).
Questa offerta - la grazia - dono di Dio, ha come conseguenza il rialzamento dell’uomo, il suo ritorno a
Dio. Senza tenere conto delle prescrizioni della legge, delle esigenze della giustizia (Galati 2:21, Efesi 2:5,7; 1
Timoteo 1:13,14; 2 Timoteo 1:9), dell’indegnità umana, Dio perdona, libera dal peccato, fa dell’essere
condannato un figlio che egli benedice. La grazia è la manifestazione della misericordia di Dio (1 Corinzi 15:10;
Galati 1:15; Ebrei 2:9; 1 Pietro 1:10), e produce la pace fra l’uomo e Dio (1 Tessalonicesi 1:1; 2 Tessalonicesi
1:2; Galati 1:3; 1 Giovanni 1:3; 2 Corinzi 1:2; Romani 1:7; Efesi 1:2; Colossesi 1:2; Filippesi 1:2; ecc.).
L’Antica Alleanza è basata sulla grazia. Non è a causa della sua grandezza che Israele è stato scelto da
Yahvé, né a causa della sua giustizia che è entrato nel paese della promessa; è solamente la compassione che ha
motivato la decisione di Dio e la sua realizzazione (Deuteronomio 7:7; 9:4; 10:14).
I profeti ricordano che, malgrado le trasgressioni del popolo, l’Eterno gli ha conservato la sua
benevolenza, e che la sua bontà ha sempre prevalso sul giusto castigo nel quale era incorso (Esodo 33:19; 34:6;
Gioele 2:13; Geremia 31:34; Isaia 57:15).
La pienezza della grazia si manifesta con la Nuova Alleanza. Tutta la redenzione dell’uomo è data dalla
sua grazia, come già era detto nelle Scritture prima dell’incarnazione; la salvezza per grazia è la sola salvezza
reale, salvezza gratuita accordata da Dio, opposta alla vana salvezza cercata nelle opere, e alla salvezza
nell’acquisizione della quale l’uomo potrebbe collaborare. Tutta intera l’opera della redenzione si può definire
l’avvenimento e il compimento della grazia e della verità. È per questo che la grazia è diverse volte presentata
come «la grazia del Signore Gesù Cristo» 1 Tessalonicesi 5:28; 2 Tessalonicesi 3:18; Galati 6:18; 1 Corinzi
16:23; 2 Corinzi 13:13; Romani 16:20; Filemone 25; Filippesi 4:23. Altre volte data come proveniente «da Dio
e da Gesù Cristo» 1 Tessalonicesi 5:28; 2 Tessalonicesi 1:2; Galati 1:3; 1 Corinzi 1:3; 2 Corinzi 1:2; Romani
1:7; Efesi 1:2; Filemone 3; Filippesi 1:2; Tito 1:4.
La grazia è di conseguenza per il credente il bene che riassume e racchiude tutti i beni; è la ragione per la
quale, sulle 21 lettere apostoliche, 17 hanno incluso in questa parola le molteplici benedizioni augurate, e le
lettere paoline la ripetono nel loro indirizzo e nella loro conclusione.
La grazia riassume presso Paolo il contenuto di ciò che l’apostolo chiama il suo vangelo. Il Cristo, che
per Giovanni personifica l’amore di Dio, incarna per Paolo la grazia divina. Poiché essa è una disposizione
gratuita di Dio, un dono del suo amore, la grazia implica, da parte dell’uomo, la semplice e sola fede e, nella sua
sovranità, essa domina, supera, ripudia le opere meritorie e l’osservanza della legge ai fini della salvezza
(Romani 4:16; 11:6).
Essa rende possibile la giustificazione, la quale non potrebbe essere ottenuta per un’altra via, per un altro
mezzo; essa dona la pace con Dio, e apre così alla persona umana un accesso diretto presso il Padre (Romani
3:24; 5:2).
Essa pone nella vita terrena non soltanto la sicura promessa, ma il possesso presente della vita eterna Romani
5:21.
Essa è la sorgente della gioia, delle liberazioni, dei poteri, delle vittorie che Dio accorda al credente e che
sono adeguatamente chiamate carismi (1 Corinzi 1:4,7;12:4,9,28,30,31; 2 Corinzi 8:1; 1 Timoteo 4:14; 2
Timoteo 1:6).
17
18
B. Sesboüé, o.c., pp. 335,337.
Senso estetico: Luca 2:52; 4:22; benevolenza Atti 2:47; 7:10; 24:27; Efesi 4:29; Colossesi 4:6 .
La pazzia di Dio
39
CAPITOLO III
In particolare, la grazia è la spiegazione - se c’è una spiegazione - del dono supremo di Dio in Gesù
Cristo, che ci libera dalla condanna e dalla morte, e che è la nostra salvezza (2 Tessalonicesi 2:16; Galati 2:21;
Romani 3:24;5:17,21; Efesi 1:6;2:5,7; Colossesi 1:6; Filippesi 1:7; 1 Timoteo 1:9).
Essa è il nome dell’attività redentrice di Dio, che, tramite il Cristo, si è svolta nella storia (Efesi 2:5; Tito
2:11); essa è anche il nome dell’azione che Dio esercita su ogni credente individualmente (Galati 1:15; 1
Corinzi 15:10; 2 Corinzi 12:9; Romani 12:3; Efesi 4:7).
I vangeli, le lettere di Paolo, gli altri scritti apostolici non conoscono e non indicano altri principi di
salvezza che la libera grazia di Dio (Atti 13:43; 15:11; 20:24,32; 1 Pietro 1:13;5:12; Ebrei 12:15;13:9; ecc.).19
«La grazia appare dunque come il fattore comune che si riscontra nei diversi atti del processo con il quale
Dio eleva l’umanità a sé. Questa idea presenta un altro vantaggio: spogliare del loro prestigio le sedicenti teorie
giuridiche della Redenzione».20 In altre parole, se Dio salvasse per un qualsiasi altro motivo che non fosse
l’espressione del suo dono, non dovuto, ma gratuito, senza vincolo impostogli da nessuno e da nulla, la sua
salvezza non sarebbe più un’espressione di grazia, bensì l’estinzione di un debito contratto con qualcun altro.
Noi siamo salvati «gratuitamente per la sua grazia» Romani 3:24.
19
Vedere per questa esposizione ARNAL André, grâce, in Dictionnaire Encyclopédique de la Bible, Alexandre Westphal, t. I, Paris
1932, pp. 485,486.
20
G. Bonsirven, o.c., p. 217.
La pazzia di Dio
40
Capitolo IV
TEORIE PROPOSTE PER SPIEGARE
LA MORTE DI GESÙ
B. Crème, portavoce del New Age, dichiara: «Le chiese cristiane hanno dato al mondo una concezione del
Cristo inaccettabile per l’uomo contemporaneo: quello del solo e unico figlio di Dio, sacrificato da un padre che
amava salvarci dalla conseguenza dei nostri peccati: un sacrificio di sangue, direttamente scaturito dalla vecchia
legge giudaica. Abbiamo rigettato questa concezione; a milioni abbiamo lasciato la Chiesa, perché ciò non
corrisponde alla nostra conoscenza della storia, della scienza e della altre religioni».1
Ma già metà della seconda decade di questo secolo L. Emery, professore di teologia all’Università di
Losanna, a causa di un certo linguaggio utilizzato dalla teologia per spiegare la morte di Gesù in modo
scandalizzato diceva: «Non solamente come teologo, ma come cristiano, come credente che tiene all’onore di
Dio che adoro, sono urtato, desolato di vederlo abbassato a livello di un Moloc sanguinario… Questa dottrina
(dell’espiazione) la consideriamo come una specie di ingiuria nei confronti del Padre celeste, come un attentato
alla sua giustizia e alla sua bontà».2
Nei primi mesi del 1955 Andrée Dez fece una inchiesta sull’idea di Dio e le sue conseguenze furono
pubblicate dalla rivista L’Âge Nouveau3. All’inizio dell’articolo si è pubblicato un estratto del libro di Maria Le
Hardouin, Dieu et l’homme del quale presentiamo qualche riga a riflessione di quanto scriveremo. «Il
cristianesimo sembra essere proprio la sola religione alla quale io non potrei mai, spiritualmente, sottoscrivere.
In questo c’è il mio dissidio. Il mio cuore si ammetterebbe facilmente cristiano, la mia mente, per contro, si
oppone assolutamente alla nozione del peccato originale e a quella di un Redentore che muore per riscattare da
questo stato. Mi è impossibile passare dalla porta della colpa peccaminosa alla sofferenza redentrice… Io dovrei
poter ripudiare il cristianesimo, poiché il sangue di un innocente, che scorre nel nome di uno sbaglio che io non
ho commesso, è per me un inspiegabile scandalo. E pur tuttavia… è la persona stessa di Cristo che mi è sensibile
al cuore, è con essa che mi sembra di aver da qualche parte legato ancora prima della mia nascita, poiché è il
contemporaneo sempre giovane di ognuno di noi».
L’editore del libro, My gripe with God - A Study in Divine Justice and the Problem of the Cross del teologo
avventista George R. Knight, professore di storia della Chiesa all’Andrews University, sulla copertina di
presentazione precisa che la nozione di redenzione costernava l’autore che «era particolarmente scosso dalla
croce. Perché Dio non può perdonare senza di lei? Perché abbisogna la morte dell’Innocente per salvare i
colpevoli?».4 Queste domande e altre esprimono un malessere generale di fronte al tema della morte di Gesù per
la salvezza dell’umanità.
J.F. Six esprime disagio di fronte all’insegnamento della croce. «V’è un Gesù che non ci piace per nulla, è il
Gesù crocifisso e martire. Per tutta la nostra infanzia abbiamo sentito dire ch’egli era morto per i nostri peccati.
Questo non lo possiamo più sopportare. È qualcosa che non riusciamo ad ammettere. Ci hanno mostrato un
Gesù, un uomo innocente che paga per gli altri; e paga a chi? A Dio. Sempre un Padre forte che esige la morte
del figlio la castrazione … È Dio, con il Golgota, piglia due piccioni con una fava perché è finalmente
soddisfatto nei suoi sentimenti di padre offeso e mette gli uomini, suoi figli, in un perenne stato di inferiorità nei
suoi confronti: il fatto che Cristo sia morto così, per la volontà del Padre, condanna gli uomini, condanna noi sia
ad essergli ciecamente obbedienti, sia a essere assolutamente colpevolizzati, o piuttosto ad ambedue le cose
contemporaneamente».5
Alister Hardy, nelle sue Gifford Lecture del 1965, si era chiesto se Gesù stesso sarebbe stato cristiano se
fosse vissuto oggi. «Dubito molto di ciò» era la risposta che si era data. «Non ci avrebbe parlato, ne sono certo,
di un Dio il quale si sarebbe placato mediante il sacrificio crudele di un corpo straziato… Non posso accettare
l’ipotesi che Dio, prendendo forma in suo Figlio, torturò se stesso per la nostra redenzione. Posso solo
confessare che, nel profondo del mio cuore, considero tali idee religiose tra le meno attraenti di tutta
l’antropologia. Per me esse appartengono a una filosofia e a una psicologia molto diverse da quelle della
religione insegnata da Gesù».6
Gli autori del N.T. il giorno dopo la morte di Gesù non si sono trovati con una teologia della croce
formulata in ogni dettaglio. Anzi hanno vissuto la delusione, lo sconforto e lo smarrimento (Luca 24:13-35;
Giovanni 20:19). Durante il ministero del Maestro, anche se a più riprese aveva parlato della sua morte i
discepoli non l’avevano presa sul serio e tra di loro serpeggiava sempre il pensiero su chi fosse il maggiore dopo
che il Cristo si fosse manifestato. Dalla Pentecoste Gesù è il Cristo, è il vivente perché ha vinto la morte
1
CREME Benjamin, La Réapparition du Christ et des Maître de la Sagesse, éd. Partage, Dourdan 1984, p. 45.
EMERY Louis, in Revue de Théologie et de Philosophie, n. 10, Lausanne, luglio 1914, pp. 275,276.
3
DEZ André, L’idée de Dieu, in L’Âge Nouveau, n. 90, Paris, gennaio 1955, pp. 4-6.
4
KNIGHT George R., My gripe with God - A Study in Divine Justice and the Problem of the Cross, Review and Herald P.A.,
Washington D.C., 1990.
5
SIX J.F., Refus différents de Jésus-Christ, in Unité des Chrétiens, n. 15, luglio 1974, p. 21; cit. da SESBOÜÉ Bernard, Gesù Cristo,
l’unico mediatore, vol. 1, ed. Paoline, Cinisello Balsamo 1991, pp. 35,36.
6
ALISTER Hardy, The Divine Flame, Collins, London 1966, p. 218; cit. da J. Stott, o.c., p. 148.
2
CAPITOLO IV
risuscitando (Atti 3:13,26; 4:27,30; 8:32,33). Si hanno poi con l’apostolo Paolo altre affermazioni per spiegare
con la morte di Gesù la salvezza. Gesù è morto «per i nostri peccati» e «in conformità alle Scritture» (1Corinzi
15:3,4); è il nuovo agnello pasquale, che segna una nuova era di salvezza e liberazione (1 Corinzi 5:7) e la Cena
del Signore rievoca il nuovo patto «per la remissione dei peccati» annunciando la sua morte fino al giorno del
suo ritorno (Matteo 26:26-28; 1 Corinzi11.24,25; Luca 22:17). Gesù è morto perché «è stato dato a cagione
delle nostre offese, ed è risuscitato a cagione della nostra giustificazione» Romani 4.25. In lui si compie «la
giustizia di Dio mediante la fede… tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, e sono giustificati
gratuitamente per la sua grazia, mediante la redenzione che è in Cristo Gesù, il quale Iddio ha prestabilito
mediante la fede nel sangue d’esso, per dimostrare la sua giustizia, avendo egli usato tolleranza versi i peccati
commessi in passato, al tempo della sua divina pazienza; per dimostrare, dico, la sua giustizia nel tempo
presente; ond’Egli sia giusto e giustificante colui che ha fede in Gesù» Romani 3:22-26. La morte di Gesù
manifesta l’infinito amore del Padre per gli uomini (Romani 5:6,8-11). In Gesù abbiamo il secondo Adamo, una
nuova umanità (Romani 5:12 e seg.).
Dopo l’epoca apostolica ci fu sempre la necessità di spiegare la morte di Gesù. Crediamo che essa abbia
trovato più un adattamento alla situazione culturale e sociale del momento che espresso il pensiero teologico,
complesso, che la Sacra Scrittura presenta.
Già nei primi due secoli i Padri della Chiesa, pur non formulando una teologia sistematica della croce,
tentano di dare una spiegazione della morte di Cristo Gesù. In prevalenza si accontentarono di ripetere i testi
biblici che la presentano per la salvezza dell’umanità. Dal concilio di Nicea (325) al concilio di Costantinopoli
(681) pur discutendo della morte di Gesù hanno accentrato la loro attenzione sulla sua natura e non sulla
redenzione. Hanno cercato, quindi, di definire la natura del Figlio di Dio, ma non quello dell’opera della sua
salvezza.
Quanto però detto nei primi secoli da Ireneo, Origene, Atanasio, Agostino, Cirillo di Gerusalemme, Basile,
Gregorio Magno, e la lista potrebbe essere allungata, lo si trova ripetuto nei secoli successivi.
Riteniamo che quanto compiuto da Gesù per la salvezza dell’umanità non sia un misterioso espediente che
soddisfi le esigenze di Dio per perdonare, ma l’espressione della volontà eroica della divinità per portare alla
ragione le sue creature, manifestando la propria natura.
TEORIA DEL RISCATTO
- teoria del riscatto pagato a Satana
Questa spiegazione è stata empiricamente formulata per la prima volta da Ireneo, allievo di Policarpo che
era discepolo di Giovanni l’evangelista, nella seconda metà del II secolo. È stata arricchita nel tempo dall’arte
oratoria dei vari predicatori di salvezza, sfumando anche e svigorendo il pensiero dei Padri.
Questa spiegazione può essere così riassunta. A causa del peccato del primo uomo, l’umanità è caduta sotto
il dominio di Satana. Dio avrebbe potuto vincere il nemico derubandogli, tramite la sua onnipotenza, le sue
prede. Ma il Dio giusto era in obbligo di agire correttamente: avrebbe liberato le sue creature non mediante la
forza, bensì procedendo con giustizia, anche se doveva avere a che fare con il principe dell’iniquità. L’Eterno
propose quindi al suo e al nostro nemico un contratto: l’anima di suo Figlio in cambio di quella degli uomini.
Satana, che tiene in schiavitù l’umanità, viene così pagato per la loro liberazione con la vita di una delle persone
della Divinità. Il Padre fece incarnare il Figlio, il quale conservava però la sua natura divina. Era così
contemporaneamente uomo e Dio. Doveva essere uomo perché offriva un riscatto per gli uomini. Doveva essere
Dio per potere, a seguito della morte, trionfare su Satana e sull’inferno. Satana però non valutò bene questo
baratto propostogli da Dio e accettò di rilasciare gli uomini in cambio dell’anima di suo Figlio. Però a seguito
della tragedia del Golgota non fu abbastanza forte nel trattenere l’anima di Cristo Gesù nell’inferno, e il Signore
uscì scardinando le porte. Dio non ha imbrogliato Satana riprendendosi il Figlio con la risurrezione, ma
l’Avversario è stato vinto a causa della sua debolezza. Il contratto è rimasto valido. E così il grande seduttore si
è sedotto da se stesso.7
Per Origene (185-254), che può essere considerato, come dice B. Sesboüé: «Il primo testimone di questa
teoria»8 Gesù con la sua morte si è costituito prigioniero dell’Avversario al posto degli uomini e ha liberato gli
uomini offrendo le sue sofferenze sulla croce fino alla morte, quale mezzo di riscatto per il suo sangue (Matteo
20:28). Gesù era prigioniero solamente in apparenza, a metà. Satana lo possedeva per la sua natura umana. A
causa della sua natura divina, Satana non lo ha potuto trattenere e Gesù è risorto e, vincendolo, ha completato
l’opera iniziata sulla croce. Origene scriveva: «Riconoscete la verità di quel che scrive san Pietro: noi non siamo
stati riscattati a prezzo di argento e oro corruttibile, ma mediante il prezioso sangue del Figlio unico. Se siamo
stati comprati per un prezzo, come afferma anche san Paolo, siamo stati senza dubbio comprati da qualcuno di
cui eravamo schiavi, da qualcuno che ha reclamato il prezzo che voleva per rendere la libertà a coloro che
deteneva. Ora è il demonio che ci deteneva: noi ci eravamo venduti a lui con i nostri peccati, ed egli perciò ha
7
8
Ireneo, Adv Maer., V: 1:1; Origene, in Matteo 20:28.
B. Sesboüé, o.c., p. 176.
La pazzia di Dio
40
TEORIE PROPOSTE PER SPIEGARE LA MORTE DI GESÙ
reclamato come prezzo del riscatto il sangue di Cristo».9 «Ma a chi Cristo consegnò la sua anima in riscatto?
Sicuramente non a Dio. Non l’avrà allora consegnata al demonio? In effetti costui ci tentava in suo potere fino
quando, quale prezzo di riscatto della nostra liberazione, non gli fu data l’anima di Gesù Cristo. Il maligno era
stato ingannato e indotto a credere d’essere capace di vincere quest’anima, non vedendo che, per tenerla nelle
proprie mani, bisognava sottomettersi a una prova di forza superiore a quella ch’egli poteva sperare di condurre
a buon fine. Per questo la morte, con cui egli credeva d’aver trionfato su di lui, non ha più la meglio su questi
(cfr. Romani 6:9). Cristo allora divenne libero tra i morti e più forte della potenza della morte, è talmente più
potente della morte che tutti coloro che lo vogliono, fra quanti sono alla mercé della morte; possono seguirlo, dal
momento che la morte non ha più alcuna presa su di loro. Infatti colui che è con Gesù è più forte della morte».10
Gregorio Nisseno diceva: «Noi ci eravamo venduti volontariamente; di conseguenza colui che per bontà ci
riscattava per rimetterci in libertà, doveva concepire non un procedimento salvifico tirannico, ma un
procedimento conforme alla giustizia. Era un procedimento di questo genere lasciare che il possessore scegliesse
il riscatto che voleva ricevere come prezzo di colui che deteneva».11 «Il demonio sceglie il Salvatore come
prezzo di riscatto dei prigionieri rinchiusi nella prigione della morte. Ma qui interviene l’astuzia: in Gesù la
divinità si nasconde sotto il velo dell’umanità per prendere l’avversario in trappola: “La potenza avversa non
poteva entrare in contatto con Dio, se egli si fosse presentato senza mescolanza, né sopportare la sua comparsa
se questa si fosse verificata senza velo; ecco perché Dio, al fine di offrire una presa più facile a colui che cercava
di ottenere un vantaggio scambiandosi, si nascose sotto l’involucro della nostra natura: di modo che il demonio,
precipitandosi come un pesce vorace sull’esca dell’umanità, si facesse prendere all’amo della divinità. Così
avendo la vita posta la sua dimora nella morte, essendo venuta la luce a brillare nelle tenebre, si vedrà
scomparire ciò che si opponeva alla luce e alla vita ».12
Per Giovanni Crisostomo il demonio ha superato ogni diritto colpendo Gesù a morte; questi infatti non era
colpevole di alcun peccato e non doveva quindi essere sottomesso alla morte.13
«Anche Agostino lascerà in eredità al Medioevo la dottrina dell’abuso del potere del diavolo».14
S. Agostino aveva scritto: «Per un certo effetto della giustizia divina il genere umano è stato consegnato al
potere del diavolo… Non bisogna intendere che Dio abbia comandato o fatto che accadesse questo, ma lo ha
soltanto permesso, giustamente tuttavia… Il diavolo non doveva essere superato dalla potenza, ma dalla giustizia
di Dio…
Qual è dunque questa giustizia che ha vinto il diavolo? Quale se non quella di Gesù Cristo? E come fu vinto
il diavolo? Perché ha ucciso Cristo, malgrado non trovasse in lui alcuna cosa che meritasse la morte. Allora è
giusto che siano messi in libertà i debitori che tenevano sotto di sé, quando credono in colui che egli ha ucciso
senza avere alcun diritto su di lui. Questo significa l’affermazione che noi siamo giustificati nel sangue di Cristo
(Romani 5:9)».15
I Padri che seguirono, fino a Gregorio il Grande (540-604), si compiacquero di sviluppare questo pensiero.
Fu quindi abbellito, drammatizzato sempre più, presentando Satana quale essere contemporaneamente odioso e
ridicolo.
Carlo Magno diceva: «Come abile pescatore, Dio nascose la divinità di suo Figlio sotto la carne umana, per
prendere Satana all’amo della sua divinità. Questi, come un pesce vorace, inghiottì l’esca e l’amo. Così fu
compiuta la parola detta da lui a Giobbe: “Prenderai tu il coccodrillo all’amo?” 40:25. Questa voracità, in effetti,
fu a lui fatale. Come altre volte Satana dovette rendere coloro che aveva divorati».16 Ma già S. Agostino (354430) si era espresso in questi termini: «In questa redenzione è stato dato il sangue di Cristo come prezzo per noi;
ricevutolo, il diavolo non si è arricchito, ma è stato legato».17
A conclusione di questa prima sessione, riportiamo il pensiero del protestante J. Turmel, che nella sua storia
dei dogmi afferma: «Da Agostino ad Anselmo, la teoria della redenzione mediante la distruzione dell’impero del
diavolo ha regnato senza rivali nella Chiesa latina».18
Critica
9
Origene, Commento alla lettera ai Romani, 2,13; Patristica Greca (PG) 14,911c; trad. L. Richard, p. 113; cit. B. Sesboüé, o.c., p.
176. B. Sesboüé osserva che in questo primo brano si mette l’accento sul prezzo del riscatto reclamato dal diavolo, cioè il sangue di Gesù. Il
paragone è quello di un contesto commerciale. V’è stato un acquisto e si è dovuto pagare un prezzo.
10
Origene, Commento al vangelo secondo Matteo, 16,8; PG 13, 1398; cit. B. Sesboüé, o.c., p. 177. B. Sesboüé osserva che in questo
secondo pensiero il prezzo non viene pagato a Dio, ma si pone la domanda di un riscatto pagato al diavolo. «In realtà le cose non si sono
svolte secondo il modo della transazione, ma secondo quello del combattimento». o.c., p. 177.
11
Gregorio Nisseno, La catechesi della fede, n. 22; trad. A. Maignan, DDB, Paris 1978, pp. 65,66; cit. B. Sesboüé, o.c., p. 179.
12
Idem, n. 24, p. 69; B. Sesboüé, o.c., p. 180
13
Vedere Giovanni Crisostomo, Omelie sul vangelo di san Giovanni, 67,2; PG 99, 372; B. Sesboüé, o.c., p. 180.
14
B. Sesboüé, o.c., p. 180.
15
Agostino, La Trinità, XIII, 12,16; 13,17; 14,18; trad. P. Agaësse, BA 16, 1955, pp. 307-315; cit. B. Sesboüé, o.c., p. 180.
16
Gregorio il Grande, Homel., in Evangeli II,25,8.
17
Agostino, De trinitate, 13,15; MIGNE, P.L., 42,1029.
18
TURMEL Joseph, Histoire des Dogmes, vol. I, éd. Rieder, Paris 1931, p. 408.
La pazzia di Dio
41
CAPITOLO IV
«Tuttavia, fin dall’epoca patristica, il lato troppo commerciale e giuridico della teoria dei diritti del demonio
fu vigorosamente contestato».19
Adamanzio diceva: «Sarebbe più vero dire che gli uomini, i quali si sono consegnati per i loro peccati, sono
stati liberati dalla sua misericordia… Il diavolo considera dunque il sangue di Cristo come il prezzo
dell’acquisto dell’uomo? Quale follia immensa e blasfema!».20
«Anche Gregorio Nazianzeno, contemporaneo del suo omonimo di Nissa, reagisce violentemente contro
l’idea d’un riscatto versato al demonio: “A chi dunque e perché è stato versato questo sangue sparso per noi…
Se al demonio, quale ingiuria! Come supporre ch’egli riceva non solo il prezzo d’un riscatto da Dio, ma Dio
stesso come prezzo del riscatto, sotto il pretesto di offrirgli un salario della sua tirannia talmente sovrabbondante
ch’egli dovrebbe d’ora in poi giustamente risparmiarci? E se al Padre suo, mi domando come ciò sia avvenuto.
Non era lui a tenerci prigionieri… Il Padre, è vero, s’è trovato a ricevere; ma senza che sollecitasse o si trovasse
nel bisogno, bensì per l’economia della nostra redenzione e perché bisognava che l’uomo fosse santificato
dall’umanità di Dio e che Dio stesso ci liberasse e ci riconducesse a sé per mezzo del suo Figlio mediatore,
trionfando del tiranno con la sua potenza”».21
B. Sesboüé scrive: «Gregorio respinge formalmente l’idea che il prezzo del riscatto sia versato al diavolo.
Non vi può essere alcun giusto contratto fra Dio e il demonio. Ma egli esclude anche che il prezzo del riscatto
sia versato a Dio, cosa che lo metterebbe nella posizione dell’ingiusto rapitore; ipotesi, questa grottesca. Del
resto Gregorio ricorda che Dio ha rifiutato il sacrificio di Isacco. Questa reazione del buon senso cristiano è stata
sfortunatamente dimenticata in seguito… È pur vero che il Padre s’è trovato a ricevere, ma siamo noi coloro che
egli ha “ricevuto” una volta liberati e ricondotti a lui dal Figlio suo. … In queste teorie spesso maldestre e a
volte infelici, il demonio in definitiva non riceve alcunché. Egli non porta via con sé alcun prezzo del riscatto in
cambio della liberazione degli uomini. L’insegnamento negativo di queste teorie sta nel ricordarci che la
redenzione non si iscrive affatto in uno schema giuridico, né nei confronti del demonio, né nei confronti di Dio.
Il loro insegnamento positivo… sta nel carattere oneroso della nostra redenzione, nel corso della quale Cristo ha
dovuto strapparci al potere del peccato, che scatenò contro di lui tutta la sua violenza e ingiustizia fino a levargli
la vita. … Infine il lato favorevole di queste teorie consiste nel non separare mai la croce dalla risurrezione e nel
vedere sempre nella croce stessa, al di là delle apparenze, il momento della vittoria della libertà santa di Cristo
sulle libertà peccatrici».22 Già quest’autore aveva scritto: «Questa teoria non è del tutto coerente con se stessa,
perché comincia con l’idea della giustizia d’una transazione commerciale da rispettare e finisce con un inganno.
Sotto questi due aspetti pone un problema morale, sia che Dio si abbassi alla turpitudine d’un patto con il
maligno, sia ch’egli divenga, sull’esempio dell’avversario, a sua volta mentitore e ingannatore».23
In questa prospettiva è difficile immaginare Dio che baratti con il suo Avversario per la salvezza degli
uomini e pensare anche che dia al padre della menzogna, il principe delle tenebre, la sofferenza del Santo, del
Giusto. Non crediamo che ci siano testi biblici che possano avallare un simile pensiero.
I critici di questo sistema fanno notare che Dio dice: «Tu sei un popolo che è consacrato all’Eterno ch’è
l’Iddio tuo; l’Eterno, l’Iddio tuo, ti ha scelto per essere il suo tesoro particolare tra tutti i popoli che sono sulla
faccia della terra» Deuteronomio 7:6; 14:2; 26:18. Tutto ciò era condizionato da: «Se ubbidite davvero alla mia
voce e osservate il mio patto, sarete tra tutti i popoli il mio tesoro particolare» Esodo 19:5. Israele apparteneva
all’Eterno perché Egli era entrato nella sua storia e lo aveva liberato dall’Egitto (Esodo 15:6; Salmo 74:2) senza
pagare a nessuno un prezzo di riscatto. Il mezzo per questo riscatto o liberazione è stata semplicemente la sua
azione. Se Israele avesse rifiutato l’Eterno, Egli lo avrebbe «venduto» Deuteronomio 32:30 al nemico, cioè lo
avrebbe abbandonato, lasciato in balia di se stesso senza più poterlo proteggere. Dalla vendita Dio non avrebbe
incassato nulla.
Il teologo Ferdinando Prat così si esprime: «Dio applica al popolo infedele la legge del taglione: lo
abbandona nella misura in cui ne era abbandonato».24
Dio non ha mai rinunciato al diritto di signoria sull’umanità e su Israele. Ogni qual volta il suo popolo
(Israele, l’uomo) si ravvede, l’Eterno lo riscatta, cioè lo libera. Per tutti questi interventi di Dio non occorre
preoccuparsi del prezzo da pagare, non c’è da dare qualcosa alla controparte, perché l’Eterno è il Signore, il
padrone.
Coloro che conquistarono Israele non acquistarono un credito che doveva essere a loro pagato in caso di
riscatto o di liberazione. Dio stesso lo dichiara formalmente: «Voi siete stati venduti per nulla; e sarete riscattati
senza denaro» Isaia 52:3. Una volta soltanto appare l’idea di compenso: «Io sono l’Eterno il tuo Dio, il santo
d’Israele, il tuo salvatore; io ho dato l’Egitto come riscatto, l’Etiopia e Seba in vece tua» Isaia 43:3. Ciò che Dio
dà in riscatto non è però un baratto per la liberazione d’Israele. «Ciro, prendendo Babilonia, acquista dei diritti
su Israele, che vi è esiliato; ma anziché usarli con rigore, libera il popolo. Dio lo risarcisce aggiungendo
19
20
21
22
23
24
B. Sesboüé, o.c., p. 181.
Ps. Adamanzio, Dialogue de recta fide, 1,27; PG, 11,1856-7 ; cit. B. Sesboüé, o.c., p. 181.
Gregorio Nazianzero, Discorso, 45; PG 36, 653 a-b; pp. 114-115; cit. B. Sesboüé, o.c., p. 181.
B. Sesboüé o.c., p. 182.
B. Sesboüé o.c., p. 180.
PRAT Ferdinando S.J., La teologia di s. Paolo, parte II, ed. S.E.I., Torino 1928, p. 185.
La pazzia di Dio
42
TEORIE PROPOSTE PER SPIEGARE LA MORTE DI GESÙ
all’impero Medo-Persiano l’Egitto, Cur (l’Etiopia, qui nel testo l’Etiopia meridionale) e Seba (Méroé, la
metropoli etiopica, situata nella parte settentrionale del paese). Questi paesi furono effettivamente conquistati da
Cambise, figlio di Ciro».25 Prima avviene la liberazione di Israele e poi la conquista dell’Africa del nord. Questo
“riscatto”, più che essere pagato per la liberazione, è un dono che segue la liberazione. Lo stesso pensiero è
espresso in Ezechiele 29:18-20 dove l’Egitto è dato a Nabuccodonosor in dono, quale compenso del poco
profitto tratto, dalla conquista punitiva nei confronti di Tiro.
Il N.T. dice però che Cristo si è acquistata la Chiesa (1 Pietro 2:9), che essa è diventata come l’antico
Israele, un popolo che gli appartiene (Tito 2:14). Il prezzo per questo acquisto è stato molto alto (1 Corinzi 6:20;
7:23), il suo proprio sangue (Atti 20:28; 1 Pietro 1:18, 19) che è il mezzo con il quale avviene la nostra
redenzione (Efesi 1:7), il nostro riavvicinamento a Dio e la nostra purificazione (1 Giovanni 1:7).
«Dunque Gesù Cristo, come Yahvé dell’antica alleanza, acquista, compra e riscatta il suo popolo; per far
questo paga un prezzo inestimabile: il suo sangue (offre cioè la sua vita, ndt), assume pure una condizione
infamante (vedere Galati 3:10,13)».26 Dobbiamo allora concludere che Gesù ha pagato questo prezzo a Satana?
«Ma la metafora non è spinta più oltre, e non vi è nessuno che intervenga a esigere o a ricevere il prezzo».27
Le cose che traggono in schiavitù l’uomo sono il peccato, la concupiscenza, il vizio e la passione, ogni
forma di iniquità, l’incapacità di osservare la legge, l’andazzo di questo mondo, il vano modo di vivere, in una
parola, la mancanza di fede nel Padre.28
Il prezzo di riscatto quindi, più che essere pagato a qualcuno, a qualcosa e, come tale, più che avere valore
di compenso, aveva valore di mezzo. In questa ottica il sacrificio di Gesù è il mezzo che libera l’uomo da tutto
ciò che lo tiene lontano da Dio.
Possiamo allora dire che Gesù ha pagato la pena per i nostri peccati? Sì perché egli ha subito l’azione del
nostro peccato; perché noi non amiamo il bene e il Signore. Gesù morendo, porta la conseguenza delle nostre
azioni malvagie. La sua morte ci accusa e ci converte dal nostro male. È perché ci accusa che prendiamo
coscienza dell’aberrazione del nostro male; è perché ci converte che, in un certo senso, Gesù paga con la sua
morte la nostra conversione e liberazione. Di fatto, questa nostra liberazione non è pagata a nessuna entità
pensante e giuridica, ma ugualmente è il prezzo, è il mezzo con il quale ci libera dalla nostra autonomia da Dio.
Ripetiamo ancora che il “riscatto” nella Bibbia non implica una transazione, ma può esprime una
liberazione dolorosamente acquisita. Anna la profetessa parla di Gesù in relazione alla «redenzione (lutrosis riscatto) di Gerusalemme» Luca 2:38. Gesù dà la sua vita in riscatto (lutron) per molti (Matteo 20:28). E
parlando della salvezza finale Luca riporta: «Quando queste cose cominceranno ad avvenire, guardate in alto,
perché la vostra redenzione (apolutrosis) è vicina» 21:28. Non c’è nella salvezza una transazione giuridica o
commerciale.
Paolo dirà «Io sono carnale, “veduto” al peccato» Romani 7:14. Con la parola venduto non si riferisce a un
prezzo che qualcuno ha sborsato per acquistarlo. L’Apostolo constata un dato di fatto, senza dare all’immagine
un senso letterale. La sua salvezza è in Cristo Gesù al quale rende lode (Romani 7:24,25).
Insegnava il prof. G. Stèveny: le espressioni “venduto/riscattato” riassumono il vangelo. “Venduto” esprime
la caduta, lo stato di peccato, “riscattato” indica la liberazione, lo stato di salvezza.
Un esempio. Un soccorritore si tuffa in acqua per salvare un malcapitato e per questo suo aiuto generoso
muore. Il prezzo per colui che stava annegando è stato pagato con la vita di colui che lo ha soccorso. Questo
riscatto non è stato pagato a nessuno, non è stato barattato: è la conseguenza di un atto di generosità, una
manifestazione di amore.
- teoria del riscatto pagato a Dio
Al riscatto pagato a Satana si contrappone un’altra teoria con la quale si sostiene che colui che ha bisogno di
avere il prezzo del riscatto, affinché l’uomo possa essere salvato, è Dio.
Atanasio (298-373), nato ad Alessandria d’Egitto e patriarca della città, nella sua opera De Incarnatione
Verbi presenta Gesù che offre al Padre la sua vita per riscattare l’umanità dalla morte.
Pietro Lombardo esprimeva questa pensiero nei termini seguenti: «Questo è il prezzo della nostra
riconciliazione, che Cristo offrì al Padre per placarlo».29
25
La Bible Annotée, Ancien Testament - Les prophètes, t. I, Isaie, Neuchâtel, p. 216.
F. Prat, o.c., p. 186.
27
Idem.
28
Peccato: Romani 6:16; 17:7; 14:23; visione e passione: Romani 6:19,20; Tito 3:3; iniquità: Tito 2:14; Legge: Galati 4:5; andazzo:
Efesi 2:1 e seg.; vivere: 1 Pietro 1:18; fede: Romani 14:23.
29
LOMBARDO Pietro, Collectaoia in Romani 5:8-10; P.L., 191, 1388; cit. MANDLE W., riscatto, in Dizionario dei concetti biblici del
N.T., ed. Dehoniana, Bologna, p. 1510.
26
La pazzia di Dio
43
CAPITOLO IV
W. Mundle scrive: «Gesù non dice chi sia il destinatario del riscatto; dal momento che Satana in Marco
8:33 appare come colui che vuole impedire il cammino di Cristo verso la passione, non resta che pensare a
Dio».30
E. Hugon, nel 1922, scriveva: «Dobbiamo ora analizzare le diverse nozioni che sono contenute nel concetto
di redenzione. Il termine indica il riscatto di uno schiavo tramite il versamento di un prezzo, di un prezzo
convenuto. La redenzione è più che una riparazione e una restituzione… Ciò che la caratterizza è il pagamento
di un prezzo per il debito contratto, del prezzo del riscatto per il prigioniero…
Una moltitudine di idee si affaccia quindi qui alla mente; idea della schiavitù, idea del prezzo del riscatto,
idea della reintegrazione nello stato di libertà. Chi è lo schiavo, a quale schiavitù egli è strappato, a quale
condizione primitiva è reso, a chi bisogna pagare il prezzo e qual è questo prezzo? Lo schiavo è il genere umano
perduto per il peccato. Ora il peccato comporta due mali. Anzitutto una macchia nell’anima… in secondo luogo
l’obbligo di subire un castigo proporzionato alla colpa…
Il criminale, debitore in primo luogo nei confronti dell’offeso, è anche sottomesso al carnefice che gli
infligge la punizione. L’offeso qui è Dio; il carnefice è il diavolo, a cui Dio ha permesso che l’uomo si
consegnasse con il peccato, separandosi dal suo vero padrone…
A chi va versato il prezzo del riscatto? Evidentemente a colui che è il padrone dello schiavo e che è stato
offeso. È cosa manifesta che l’offeso non è Satana, ma Dio soltanto… Dio avrebbe potuto benissimo e
giustamente lasciare il peccatore sotto il dominio del diavolo in punizione della colpa… Ma con questo il
demonio non aveva acquisito alcun diritto reale sul genere umano; noi non eravamo affatto divenuti una sua
proprietà. Se c’era da pagare un prezzo del riscatto, questo andava pagato soltanto a Dio e non a Satana. Per
questo diciamo che Gesù Cristo ho offerto il suo sangue come prezzo della nostra redenzione non al demonio,
ma a Dio, Padre suo.
Questa teoria dei diritti del demonio, che aveva potuto sedurre alcuni scrittori ecclesiastici, fu
definitivamente confutata nel Medioevo, e i nostri grandi scolastici la espulsero per sempre dalla teologia…
Quale sarà questo prezzo? Perché si abbia una redenzione propriamente detta, nel senso pieno del termine, e
non semplicemente una remissione del peccato o una liberazione del colpevole, ci vuole una soddisfazione
uguale all’offesa, di conseguenza ci vuole la soddisfazione dell’Uomo-Dio…
Nella redenzione quindi l’idea primitiva è quella d’una soddisfazione proporzionata all’offesa, una
soddisfazione che, riparando la colpa, placa Dio e lo rende propizio all’umanità…
«Per comprendere a quale grado di sofferenza deve spingersi la soddisfazione, consideriamo ciò che l’uomo
fa con il peccato mortale. Egli cerca nel bene caduto un godimento indegno, che ama fino al disprezzare Dio…
L’ordine esige dunque che colui che ripara subisca una pena sensibile per compensare il piacere illegittimo
gustato dal peccatore; e… anche il dolore subìto per la riparazione deve essere immenso, spingersi fino al
disprezzo della natura che è stata scelta per soddisfare, di modo che questa sia come spezzata e stritolata, come
annichilita…
Tale è la sublime ragione dell’espiazione penale: ecco perché la soddisfazione di Cristo doveva essere anche
un sacrificio estremamente doloroso, completo e universale».31
Il teologo F. Bèchsel, ribadendo lo stesso concetto scrive: «Risulta chiaramente chi sia a ricevere il prezzo
di riscatto; anche se non viene esplicitamente nominato, è Dio. Infatti è Dio che Gesù serve nella morte, è lui che
inesorabilmente vuole che il Figlio soffra, che lo colpisce. Va quindi assolutamente respinta l’ipotesi secondo
cui a ricevere questo prezzo di riscatto sarebbe Satana. In Matteo e in Marco, Satana non appare durante tutta la
storia della passione. Egli è così lontano dal volere la morte di Gesù, che piuttosto cerca di distoglierlo da questa
via (Marco 8:33; Matteo 16:23). La potente concezione espressa da Gesù non si concilia affatto con l’idea che
la moltitudine debba essere liberata da una schiavitù per opera di Satana, ma esige piuttosto che ne venga
liberata da Dio. È vero che Gesù proprio qui non nomina Dio; ma ciò dipende non tanto dall’usanza giudaica,
per cui egli pure indica il nome di Dio servendosi di perifrasi (Marco 14:62; Matteo 26:64), quanto dal timore di
chiamare per nome il giudice, nel cui potere l’uomo è caduto (confr. Matteo 10:28) e che, nonostante le
discussioni, si può riferire solo a Dio, non al diavolo. Chi non avverte la profonda e ossequiosa riverenza con cui
le parole sul prezzo di riscatto parlano tacitamente di Dio, non le potrà capire. Il Dio che qui appare è quello del
Salmo 90 che riduce in polvere gli uomini, di cui la nostra morte ci attesta l’ira come realtà della nostra
esistenza, e con il quale e dal quale non si può parlare se non “dal profondo” Salmo 130».32
30
Idem.
HUGON Edouard, Le mystère de la rèdemption, Tequi, Paris 1922, 9-14,101,102; cit. B. Sesboüé, o.c., pp. 88-90. Questo linguaggio
rievoca la Teoria della soddisfazione e dei meriti che affronteremo più avanti,
32
BÈCHSEL F., lutron, in Grande Lessico del N.T., vol. VI, ed. Paideia, Brescia 1970, col. 927,928.
SCHELKLE K.H., Die Passion Jesu in der Verkündigung des Neuen Testament, Heidelberg 1949, p. 137 dopo aver detto «che
dall’insieme dei sinottici appare che Dio riceve il prezzo pagato con la morte di Cristo,» subito aggiunge: «Perché e come la morte è un
prezzo di riscatto? A questa domanda che, riguarda il fondamento della volontà salvifica di Dio e la sua causa, la parola lutron non
risponde». QUARELLO Eraldo, Il sacrificio di Cristo e della sua chiesa, Queriniana, Brescia1970, p. 46. Schelkle in nota cita: Büchsel,
Taylor, Wiencke, Holzmann, Feine, Lagrange. Vedere anche J. CAMBIER, L’évangile de Dieu, pp. 88,89 e J. GIBLET, Jésus Messie et
Sauveur d’après les évangiles synoptique, in Lumière et Vie, n. 15, 1954, p. 73.
31
La pazzia di Dio
44
TEORIE PROPOSTE PER SPIEGARE LA MORTE DI GESÙ
Il cattolico F. Prat scrive: «Se si volesse spingere fino all’estremo la metafora è Dio stesso che
quietanzerebbe il prezzo del nostro riscatto; poiché è Dio che l’opera della Redenzione appaga e rende propizio
ed è nei confronti di Dio solo che Cristo è “propiziatore”».33
J. Stott riporta il pensiero di Octavius Winslow che riassume il concetto affermando concisamente: «“Chi
mandò Gesù a morte? Non Giuda, per denaro; né Pilato, per paura, né i giudei, per invidia; ma il Padre, per
amore!”.34
È essenziale tenere uniti questi due modi complementari di considerare la croce. A livello umano Giuda lo
consegnò ai sacerdoti che lo consegnarono a Pilato, che lo consegnò ai soldati che lo crocifissero. Ma a livello
divino, fu il Padre a consegnarlo, ed egli dette se stesso, a morire per noi. Quando affrontiamo la croce, dunque,
possiamo dire a noi stessi: “Sono stato io a farlo, i miei peccati lo hanno mandato lì” L’apostolo Pietro ha unito
le due verità nella straordinaria affermazione pronunciata nel giorno della Pentecoste, dicendo sia:
“quest’uomo… vi fu dato nelle mani per il determinato consiglio e per la prescenza di Dio” sia “voi, per mano
d’iniqui, inchiodandolo sulla croce, lo uccideste”.35 Perciò Pietro attribuiva la morte di Gesù simultaneamente al
piano di Dio e alla malvagità degli uomini; poiché la croce la quale è mascheramento del peccato umano, è allo
stesso tempo una rivelazione del proposito divino di vincere l’iniquità umana così rivelata. Egli non fu ucciso,
morì, dando se stesso volontariamente per compiere la volontà di suo Padre».36
Anche l’organizzazione di Torre di Guardia sostiene lo stesso pensiero e tenta di giustificarlo con questa
spiegazione. «È Geova, non Satana, a “esigere la punizione” per la trasgressione (1 Tessalonicesi 4:6). Perciò
come afferma esplicitamente il Salmo 49:7, il riscatto va pagato “a Dio”. È Geova a provvedere il riscatto, ma
dopo che l’Agnello di Dio è stato sacrificato, il valore del suo riscatto dev’essere pagato a Dio (cfr. Genesi
22:7,8,11-13; Ebrei 11:17). Questo non riduce il riscatto a uno scambio inutile e meccanico, come quando si
prende del denaro da una tasca e lo si mette in un’altra. Il riscatto non implica tanto uno scambio materiale
quanto una transazione giuridica. Esigendo il pagamento di un riscatto, anche a costo di pagare di persona un
caro prezzo, Geova ha dimostrato la sua incrollabile adesione ai giusti principi. Giacomo 1:17».37 «Gesù Cristo
cedette la propria vita perfetta per ricomprare ciò che Adamo aveva perso. Lì (in cielo), Gesù è tornato ad essere
una persona spirituale, apparve “dinanzi alla persona di Dio per noi”, portando il valore del suo sacrificio di
riscatto (Ebrei 9:12,24). Fu allora che il riscatto venne pagato a Dio in cielo. Ora l’umanità poteva essere
liberata».38
Critica
A sostegno di questo modo di pensare, come anche riconoscono i sostenitori di tale teoria, non c’è un solo
passo biblico espresso in termini espliciti; per contro, numerosi sono quelli che presentano il Padre addolorato
per il peccato dell’uomo e in cerca di lui per ridargli ciò che ha perduto: la vita eterna. Gesù con il suo sacrificio
non placa il Padre; Dio non tiene prigioniero nessuno: l’Eterno è il Dio di libertà e il suo regno non è attorniato
dal filo spinato. Con la sua morte Gesù manifesta l’amore infinito del Padre. La morte di Gesù è l’espressione
della grazia di Dio.
E. White scriveva: «Il gran sacrificio non fu consumato per infondere nel cuore del Padre l’amore nei
confronti dell’umanità e indurlo a concedere salvezza. Oh no, no! “Iddio ha tanto amato il mondo che ha dato il
suo unigenito figlio” Giovanni 3:16. Il Padre ci ama, non già per la grande propiziazione fatta in favore nostro,
giacché fu lui a provvederla in virtù del suo grande amore. Cristo fu il mezzo di cui il Padre si servì per riversare
su di noi tutta la pienezza del suo infinito amore. “Iddio riconciliava con sé il mondo in Cristo” 2 Corinzi
5:19».39
J. Dupont a proposito della riconciliazione fra Dio e l’uomo, fa notare che secondo Paolo: «La
riconciliazione ha il mondo per oggetto e non consiste in un cambiamento che Dio produrrebbe nelle sue proprie
disposizioni».40
Louis Auguste Sabatier diceva: «Il riscatto non è stato pagato al diavolo che non aveva nessun diritto; non è
stato pagato a Dio, perché il Padre non ne aveva alcun bisogno; ma è stato pagato agli uomini peccatori
dall’amore stesso di Gesù che li voleva salvare».41
33
PRAT Ferdinando, o.c., vol. II, p. 231. Cfr anche HUGON, Se Verbo incarnato et hominum Redemptore, p. 403. Le mystère de la
Rédemption, p. 176 e seg.; RICHARD, art. La Rédemption, mystère d’amour, in Recherches Science Religieuse, ottobre 1923, 414.
34
WINSLOW Octavius, No Condemnation in Christ Jesus, 1857; cit. da John MURRAY, The Epistole to the Romains, vol. I, Marshall,
Morgan & Scott, London 1960-65, p. 324; cit. J Stott, o.c., pp.79,80.
35
Atti 2:23; confr. 4:28. Più tardi, nella sua Prima lettera, Pietro ha descritto Gesù l’Agnello come colui che era stato «designato prima
della creazione del mondo» 1 Pietro 1:19,20:
36
J. Stott, o.c., p. 80.
37
Torre di Guardia, 15 febbraio 1991, p. 14.
38
Potete vivere per sempre su una terra paradisiaca, Copyright 1982, pp. 62,63.
39
WHITE Ellen, Guida a Gesù, ed. Araldo della Verità - A.d.V., Firenze 1968, p. 5.
40
DUPONT J., La réconciliation dans la théologie de saint Paul, in Etudios Biblicos, 11 (1952), pp. 259,160.
41
SABATIER Louis August; cit, da BOSIO Enrico, Commentario esegetico pratico del N.T. - Epistola agli Ebrei, ed. Claudiana,
Firenze 1904, pp. 67,68.
La pazzia di Dio
45
CAPITOLO IV
L. Cerfaux fa notare: «Gli scrittori ecclesiastici hanno talvolta esagerato l’importanza della metafora
dell’acquisto e del riscatto, drammatizzando l’atto posto nell’occasione della morte di Cristo. Secondo il
pensiero di S. Paolo il prezzo di acquisto non è certamente pagato né alle potenze (celesti) né al demonio. E non
sembra nemmeno che sia pagato a Dio. Poiché è il peccato (più o meno personificato) che ci teneva in schiavitù,
è con esso che si concluderà il mercato, ma Paolo resta piuttosto nel vago. Ciò non offre nessuna difficoltà, se
pensiamo che l’idea essenziale è quella di liberazione; e da questa si passa al modo ordinario con cui ci si libera
dalla schiavitù».42
Klaus Douglass, che svolge il suo ministero pastorale vicino a Francoforte, osserva: «La formulazione
classica di questo stato di cose è la seguente: Gesù è morto per il nostro peccato. Non si deve comprendere
questo pensiero come, purtroppo, lo si è spesso compreso: affermando che Dio, come prezzo per il perdono, ha
preteso il sacrificio cruento di un essere umano, per giunta innocente! Tale concezione non è neppure al livello
degli strati più arcaici della concezione veterotestamentaria di Dio, e il nostro senso della giustizia ha in questo
caso tutto il diritto di protestare. Quando nella Bibbia si parla del sacrificio di Gesù, dobbiamo stare attenti a non
equivocare: è Dio che si sacrifica. In contrasto con tutte le religioni di questo mondo, in cui è l’essere umano a
dover offrire sacrifici alle divinità, nel cristianesimo è Dio a offrire un sacrificio.
La morte di Gesù sul Golgota dimostra tutta l’ampiezza del nostro rifiuto di Dio. Gesù ci ha fatto sapere che
Dio ci ama in modo così forte da superare l’abisso della nostra colpa, ci ama in modo abissale.
Gesù è stato ucciso da persone che non vogliono credere alla sua diagnosi... In un certo senso, però, tutti noi
partecipiamo a questa uccisione, ogni qual volta rifiutiamo l’offerta di riconciliazione da parte di Dio, sia
attivamente, quando ci ribelliamo, sia passivamente, con la nostra indifferenza. Non ci basta essere malati
mortalmente, vogliamo anche uccidere il medico.
Perdono significa: mi hai fatto del male, ma ora io non ti punisco per questo; voglio essere in pace con te,
anche se il danno resta a me. Ma questo danno per me ha un valore inferiore alla rottura del nostro rapporto che
la colpa comporterebbe. Preferisco sopportare il danno, piuttosto che vedere il nostro rapporto seriamente o
definitivamente compromesso.
Gesù ha preferito morire, piuttosto che servirsi della potenza di Dio che era in lui per distruggere quelli che
volevano ucciderlo. È morto per la riconciliazione che Dio offre all’essere umano. L’amore di Dio è così grande
che egli preferisce soffrire il danno supremo, la morte in se stesso, piuttosto che perderci. Non pensate che sulla
croce solo il Figlio abbia sofferto; anche il Padre ha sofferto: ha dovuto perdere il suo figlio carissimo in modo
terribile. Dio ci ama talmente, che ha accettato tutto questo piuttosto che perderci. Ecco perché il sangue di Gesù
è effettivamente il prezzo del perdono, e la riconciliazione fra Dio e l’essere umano è effettivamente legata alla
persona di Gesù. Non solo al suo insegnamento, ma soprattutto al suo destino, alla sua morte sulla croce.
L’affermazione “Gesù è morto per il nostro peccato” significa: ha portato nel suo corpo le conseguenze del
nostro peccato, la realtà spaventosa che noi abbiamo prodotto.
Gesù è la risposta definitiva di Dio al nostro peccato. Dato che non potevamo da soli, liberarci dalla rete in
cui ci siamo inestricabilmente imbrigliati, è entrato egli stesso in questa rete. Poiché l’essere umano non aveva
più la possibilità di tornare a Dio, Dio è venuto verso l’essere umano, fino alla conseguenza estrema, fino a
morirne.
Gesù ha dovuto morire, perché Egli, il Figlio di Dio, è venuto per superare l’abisso del peccato. Ha dovuto
morire perché in lui Dio è diventato uomo realmente e fino alle estreme conseguenze. Ha dovuto soffrire così,
perché il bene, quando incontra noi uomini, non ha scampo. La sofferenza e la morte di Gesù ci dimostrano che
il peccato non è una trasgressione perdonabile, ma un disastro che coinvolge in modo irreparabile tutti gli
uomini, e Dio stesso. Il nostro peccato non è la morte di Dio, ma provoca una morte in Dio. Dio soffre per il
nostro peccato, in lui qualcosa si rompe.
La morte che nell’A.T. era vista come il luogo privo della comunione con Dio, ora non è senza Dio. Noi
abbiamo perso la strada che conduceva alla vera vita. Ma dato che Dio voleva assolutamente avere comunione
con noi, è diventato uomo, fino alle ultime conseguenze: si è gettato nella rete del nostro peccato, è entrato nella
morte. Questa affermazione mette in ombra tutto ciò che di negativo si è sempre affermato su Dio.
In Gesù Cristo, Dio viene verso di noi, da questa parte dell’abisso; conosce per così dire dall’interno tutte le
conseguenze del nostro essere senza Dio: angoscia, solitudine, disperazione. Quando Gesù ha gridato: “Dio mio,
Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Matteo 27:46), l’abisso che noi non avremmo mai saputo superare è
stato superato dalla parte di Dio: Gesù si è trovato definitivamente dall’“altra parte”. Dio stesso è entrato nella
situazione senza Dio, perché anche il luogo più desolato, la morte, non fosse più senza Dio. Da questo momento
non c’è più alcun luogo in cui Dio non sia pronto, letteralmente a braccia aperte, ad accoglierci».43
Conclusione
42
43
CERFAUX L., Le Christ dans la théologie de saint Paul, Paris 1954, p. 109.
DOUGLAS Klaus, Gioia di credere, ed. Claudiana, Torino 1999, pp. 108-111.
La pazzia di Dio
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TEORIE PROPOSTE PER SPIEGARE LA MORTE DI GESÙ
Vorremmo chiudere questa sezione riportando una pagina di B. Sesboüé: due domande: «Quale prezzo è
stata pagato per questo riscatto? A chi è stato pagato?
Quando cerchiamo di rispondere a questi interrogativi alla luce del N.T., non dobbiamo mai dimenticare che
il tema della redenzione è una metafora, che veicola una verità trascendente rispetto a tutte le nostre transazioni
commerciali e ai nostri negoziati per una liberazione di ostaggi.
Una metafora non va mai presa fino in fondo, proprio perché è una metafora.
Alla prima domanda il N.T. risponde, senza esitare, che il prezzo versato è stato il sangue di Cristo (Efesi
1:7). Altri testi sono più espliciti ancora, (Ebrei 9:12; 1 Pietro 1:18-20). Questo sangue esprime la realtà
onerosa della morte di Cristo. Esso viene interpretato in un senso sacrificale, mediante un riferimento metaforico
ai sacrifici della legge antica. Tuttavia tale sangue non è stato sparso nel corso di un sacrificio cultuale, ma
mediante l’atto di un sacrificio esistenziale. Il “per noi” che anima tutta la sua esistenza ha condotto Cristo a
dare la propria vita. Il sangue di Cristo significa che la nostra redenzione gli è “costata” la vita. La medesima
cosa è detta tre volte nel N.T. col termine di riscatto o prezzo di riscatto. Un logion di Gesù riportato due volte,
afferma infatti: “Il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e per dare la propria vita in
riscatto lutron) per molti” Marco 10:45; cfr. Matteo 20:28. La terza volta il termine riscatto ricorre nella formula
sull’unico mediatore di 1 Timoteo 2:5,6: “L’uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso in riscatto (antilutron) per
tutti”. Il che equivale a dire anzitutto questo: egli è venuto a “pagare di persona”, non ha esitato a “sborsare il
prezzo”, la cosa gli “è costata cara”; il suo atteggiamento di servizio si è spinto fino alla morte, che fu il “prezzo
del riscatto” pagato dalla sua generosità. Noi adoperiamo simile formule al di fuori del contesto delle transazioni
commerciali o politiche, per esprimere lo sforzo oneroso che uno fa per realizzare od ottenere qualcosa che vale
molto ai suoi occhi… Nel caso di Gesù questo linguaggio ci dice la generosità di un amore che non si arresta
mai, neppure di fronte alla morte, e nello stesso tempo l’alto valore che Cristo annette a coloro per i quali dà la
vita44. Gli uomini gli stanno a cuore, e per questo egli paga il prezzo più caro. La metafora è qualitativa e non
quantitativa.
Altre espressioni del N.T. ci dicono la medesima cosa, collegando l’atteggiamento di Gesù non più col
servizio ma con l’amore: “Egli mi amò e diede se stesso per me” Galati 2:20 ; vedere Giovanni 15:13; 10:11.
Queste affermazioni parallele ci riconducono all’essenziale: il dono di sé fatto da Gesù “fino alla fine” Giovanni
13:1, in favore degli uomini.
Il N.T. non può dare alcuna risposta alla seconda domanda... Di fatto nessun testo fornisce la minima
indicazione a questo riguardo. La domanda fa uscire dai limiti di pertinenza della metafora. E teorie elaborate a
partire di là hanno analizzato il termine come un concetto, dimenticando ch’esso è una immagine. Non c’è un
riscatto o un prezzo del riscatto versato a qualcuno nel senso oggettivo del termine. Esso non è evidentemente
versato al demonio, e tanto meno può essere versato al Padre in compenso di qualcosa… Qui il contesto non è
quello del sacrificio d’espiazione. Una contaminazione pericolosa, diffusa tra gli esegeti come tra i teologi, ha
indebitamente collegato i testi che parlano del riscatto con l’idea d’un sacrificio compensatorio».45
Concludendo, dunque, dobbiamo ribadire l’idea che Dio è sempre stato il Signore dell’universo e quindi
anche degli uomini. Anche se da essi rifiutato, Egli poteva in qualunque momento disporre della loro vita senza
chiedere il permesso a nessuno, tanto meno a Satana. Il problema era pertanto non di pagare un riscatto a Satana,
il cui potere si limita a tentare e non a dare o mantenere la vita, ma di riscattare la nostra mente condizionata dal
peccato, e non era cosa facile dal momento che per farlo Dio ha dovuto pagare un prezzo incalcolabile: “il suo
sangue”. Questo prezzo non fu preteso da Satana, non ne aveva alcun diritto, e Dio non sarebbe mai sceso a patti
con lui, ma è stato indispensabile per noi che non abbiamo capito il suo amore attraverso la natura, le
benedizioni, i profeti; ma l’abbiamo capito solo contemplando l’opera del nostro peccato: Dio crocifisso.
«Gesù ha pagato a caro prezzo la nostra liberazione, ma solo nel senso che il compimento della sua opera gli
è costata la vita. Ritirarsi o tentare di salvarsi quando lo conducevano alla morte avrebbe significato rinnegare la
sua opera e il suo ideale di messia che salva nell’autodonazione. Chi ha preteso la sua morte non è stato né Dio
né il diavolo, ma i sommi sacerdoti, gli scribi e gli anziani di Israele, e Anna, Caifa e Pilato. Ciò che i documenti
del N.T. ci trasmettono è la fede dei suoi discepoli i quali, dopo la sua risurrezione, hanno capito che nella
angosciante vicenda della sua morte si nascondeva in realtà l’evento di un rapporto nuovo dell’uomo con Dio,
che sfociando nella risurrezione avrebbe aperto agli uomini l’orizzonte di una vita nuova e di una assolutamente
decisiva speranza».46
F. Godet scriveva: «La redenzione è prima di tutto l’opera del Padre, è Lui che prende l’iniziativa (Romani
5:10,11; 2 Corinzi 5:18,20; Giovanni 3:16; 1 Giovanni 4:10) e non è l’uomo che propone la riconciliazione.
L’uomo non solo si sottrae alla Parola di Dio, ma sfugge alla salvezza che continuamente Dio gli offre, anche
dopo la croce. È solamente la croce che riesce a fermarlo in questa sua folle corsa verso l’autodistruzione,
perché la croce lo pone senza equivoci davanti al Padre celeste, così essenzialmente Padre che non vuole altro
44
«Se il prezzo pagato è la morte del figlio dell’uomo, ciò lo si deve al fatto che essa è il prezzo più elevato che una generosità folle
possa pagare». Nota n. 10, p. 169.
45
B. Sesboüé, o.c., pp. 168-170.
46
DIANICH Severino, Il Messia sconfitto, Piemme, Casale 1997, pp. 151,152.
La pazzia di Dio
47
CAPITOLO IV
che perdonare il figlio. Questo piano della salvezza è un “proposito” che risale all’eternità, alla creazione del
mondo (Efesi 1:4-11; 3:11). Questo amore - e non può essere diversamente, perché è amore - è disinteressato e
non ha altro scopo che il bene delle sue creature. Quest’amore è senza limiti, non risparmia Se stesso nel proprio
Figlio (Romani 8:32; 2 Corinzi 5:1). Se il Padre si serve di Cristo come strumento di riconciliazione (2 Corinzi
4:9), le due persone della Divinità sono però così unite in questo proposito di salvezza (2 Corinzi 5:19) da essere
fuse in un unico amore e volontà. È così che in Romani 5:6-10 Dio mostra il suo amore in quanto Gesù Cristo è
morto in favore degli uomini, ma il Figlio stesso agisce, certo per l’amore che ha per il Padre, ma anche perché
lui stesso ama gli uomini. In questo contesto le parole: “Cristo è morto per noi”, implicano la stretta unione che
fa dell’amore di Dio e di quello di Cristo per noi un solo e medesimo amore. Se l’amore di Cristo per noi non
fosse quello di Dio, ma quello di un uomo, tutto il ragionamento dell’apostolo cadrebbe».47
Apocalisse 5:9 afferma che noi siamo stati riscattati per Dio, quindi non eravamo con Lui, ma separati da
Lui, per ora stabilire una relazione in cui Lui sia il nostro Signore.
TEORIA DELLA SOSTITUZIONE
«La categoria della sostituzione non è biblica. Tuttavia numerosi commentatori ne hanno trovato la realtà in
diversi testi scritturistici. In questa documentazione ritroviamo vari passi già studiati: la profezia del servo
sofferente (Isaia 53), i famosi versetti di Galati 3:13 e 1 Corinzi 5:21, e più generosamente la formula frequente
del “per noi”, interpretata nel senso di “al posto nostro”».48
Questa teoria ha le sue origini nel pensiero di Atanasio nel IV secolo (298-373) e sembra dominante al
Concilio di Nicea nel 325. Cristo Gesù prende il posto del peccatore subendo il giudizio del Padre e liberando
così l’uomo dalla condanna. Più che presentare i diritti di Satana, Atanasio mette l’accento sulla soddisfazione
che Dio debba avere nella sua giustizia e veridicità.
Riassume J. Turmel: «È incontestabile, in numerosi testi, particolarmente in quelli di Atanasio, di Cirillo di
Gerusalemme e di Basile, la morte di Cristo è destinata a placare il cruccio di Dio».49
Questa teoria nel corso dei secoli ha avuto la sua evoluzione e spesso è stata enormemente esasperata.
Coloro che la sostengono credono che il Cristo avesse sofferto l’identica pena dovuta al peccatore: la morte, la
maledizione divina, la dannazione stessa. Gesù avrebbe sofferto i dolori dell’inferno al Getsemani, quando la sua
anima era triste di una tristezza mortale (Matteo 26:38); il supplizio del dannato al Calvario, quando eleva il suo
grido di angoscia: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» Matteo 27:46. Sebbene la sofferenza fosse
stata breve nel tempo - l’ultimo giorno della sua vita -, e breve anche se si considera la durata di tutta la sua
esistenza terrena, essa riassume però nella sua intensità tutta la sofferenza della maledizione del giudizio di
condanna che l’umanità avrebbe dovuto soffrire. Così si viene a stabilire una profonda equità tra le pene meritate
dagli uomini e la pena sofferta dal redentore.50 In altre parole Gesù ha subito la morte seconda. In questa teoria
Gesù si sostituisce agli uomini e, quindi, viene considerato come peccatore, come colui che espia, cioè subisce la
punizione per le colpe dell’umanità subendo il giudizio di condanna da parte di Dio. Ciò che avrebbe meritato
l’uomo lo subisce Gesù.
Jean Galot così riporta il pensiero di Lutero il quale «non ignora lo scandalo che poteva provocare una
simile affermazione: “Si dirà: è cosa sommamente assurda e irrispettosa chiamare il Figlio di Dio un peccatore e
un maledetto. Io rispondo: se volete negarlo, negate anche che egli ha sofferto, che è stato crocifisso e che è
morto”».51
47
GODET Frédéric, Commentaire sur l’Épître aux Romains, t. I, 3a éd. Labor et Fides, Genève 1968, p. 446.
«I racconti della passione non fanno posto alcuno all’idea della sostituzione. Ciò detto, dobbiamo riconoscere un certo ancoraggio
scritturistico all’idea della sostituzione, perché Cristo ha compiuto, attraverso una morte indebita, una redenzione di cui noi eravamo
incapaci. In questo senso egli è venuto al nostro posto e ha preso il nostro posto. Però vediamo subito che tale aspetto non può essere isolato
o assolutizzato a beneficio di una logica della compensazione, che fa di Cristo un valore sostitutivo dell’uomo, cosa che alcuni teologi
tedeschi hanno chiamato, con un’espressione tristemente evocatrice per noi, un Christus-Ersatz (Cristo surrogato). Il momento della
sostituzione s’inquadra in un movimento, il cui scopo è quello di ristabilire, attraverso lo scambio e la solidarietà, una relazione di comunione
fra Dio e noi. Cristo viene dunque a collocarsi nel posto dove noi siamo, al fine di realizzare – in nome d’un legame solidale da lui stabilito
con noi – quanto la nostra situazione di peccatori ci impediva di fare. L’“al nostro posto” sta al servizio del “in nostro favore” e non deve mai
far dimenticare il “per causa nostra”. Cristo non ci soppianta e non ci esclude; ci rappresenta, anche se siamo stati incapaci di conferirgli
questo mandato; ci restituisce a noi stessi, ci ristabilisce in un situazione di interlocutori di Dio; la sua libertà non si sostituisce alla nostra, ma
ce la dona di nuovo. In poche parole la sostituzione interviene solo come un breve momento della sua mediazione, momento decisivo senza
dubbio, ma transitorio e parziale rispetto all’insieme della mediazione, mentre numerosi teologi dei tempi moderni hanno ridotto la
mediazione a una sostituzione molto simile ad una cosa». B. Sesboüé, o.c., pp. 407,408.
49
J. Turmel, o.c., p. 343.
Basile (329-379) vescovo di Cesarea, in un sermone insegnava: «Nessun uomo non ha il potere di placare Dio in favore di un
peccatore, perché ogni uomo è peccatore… Non bisogna dunque guardare come un uomo ordinario Gesù Cristo che, solo, si è offerto a Dio
in vittima di propiziazione per tutti noi» Omelia su Salmo 48, 3 e 4.
50
Pensiero riportato da SABATIER Auguste, La doctrine de l’expiation et son évolution historique, Paris 1903, p. 67.
51
Enarratio 53 - capitis Esaiae, Werke (Weimar 1930) 40,3,743; in Galati 3:13, Werker (Weimar 1911) 40,1,433-438; cit. da GALOT
Jean, Gesù liberatore, ed. Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1983, pp. 158,159.
48
La pazzia di Dio
48
TEORIE PROPOSTE PER SPIEGARE LA MORTE DI GESÙ
Riporta B. Sesboüé: «Tutti i profeti hanno visto che Cristo sarà il brigante più grande di tutti, il più omicida e
adultero e ladro e sacrilego e bestemmiatore ecc. che ci sia mai stato al mondo, perché non è più la sua persona
ch’egli porta, non è più il Figlio di Dio nato dalla Vergine, ma un peccatore, che ha e che porta il peccato di
Paolo, il quale fu bestemmiatore, persecutore e violento; di Pietro che ha rinnegato Cristo; di Davide che fu
adultero, omicida e che ha fatto bestemmiare il nome del Signore dai pagani; in sintesi, colui che ha e che porta
tutti I peccati di tutti nel suo corpo. Non che egli abbia commesso personalmente questi peccati, bensì quelli che
noi abbiamo commesso egli li ha caricati nel suo corpo, al fine di soddisfare per essi mediante il suo sangue».52
«I nostri peccati sono dunque diventati “così propri di Cristo come se li avesse commessi lui stesso”53, di
conseguenza la sua innocenza è come compromessa dai peccati e dalla colpa del mondo intero. Di qui il
seguente paradosso. “Dato che in questa medesima persona, che è il più grande e il solo peccatore, si trova anche
la giustizia eterna e invincibile, in lei si affrontano due cose: il peccato più grande, il solo peccato, e la giustizia
più grande, la sola giustizia”.54
2 Corinzi 5:21 è accostato a Galati 3:13: Gesù, divenuto maledizione, è maledetto agli occhi di Dio; fatto
peccato, egli porta la persona stessa del peccatore davanti a Dio.
Nel commento a Isaia 53 Cristo è detto l’oggetto della collera stessa di Dio: “Così Cristo, Figlio di Dio, è …
l’unica persona … che prende su di sé i nostri peccati e attira su di sé la collera di Dio a motivo dei nostri
peccati… In effetti la collera di Dio non poteva essere placata e neutralizzata se non mediante una simile e sì
grande vittoria quale è il Figlio di Dio, lui che non poteva peccare”.55
Lutero drammatizza e orchestra potentemente il tema della sostituzione e ci mostra un Cristo maledetto dal
Padre».56
E ancora: «Nella passione il Cristo dovette subire il tormento dell’inferno perché essendo insieme “giusto
perfetto e perfetto peccatore”, era “perfetto beato e perfetto dannato”. Non solo doveva sentirsi maledetto agli
occhi degli uomini, ma persino nella sua coscienza sconvolta; il Cristo ha dovuto provare questo spavento,
sentirsi l’oggetto della collera eterna, vedersi abbandonato e respinto da Dio. Ha sperimentato “la morte e
l’inferno” e il suo grido di abbandono sulla croce è simile a una bestemmia, benché in realtà sia il grido di una
natura innocente. Egli è stato tormentato nella sua anima come i dannati».57 «Non essendo possibile una
santificazione interna, la giustificazione consiste quindi in una imputazione esterna dei meriti58 di Cristo. Ora,
tale e quale come i meriti di Cristo vengono attribuiti a noi, così i nostri peccati vengono attribuiti a Cristo; in
altre parole, avendo Dio scaricato su Cristo i nostri peccati sì da odiarlo e punirlo in vece e luogo del reo, questa
sua espiazione diventa ipso fatto anche nostra».59
«Un testo attribuito a Taulero, tradotto in latino nel 1548 dal certosino Surio e largamente diffuso in Europa,
testo che parla dell’agonia del Signore, dice: “Egli si è prostrato e prega non come Dio né come un giusto, ma
come un pubblico peccatore…, come se fosse indegno d’essere ascoltato dal Padre suo e si vergognasse di
levare gli occhi al cielo. Egli si ritrova come abbandonato da Dio, nemico di Dio, affinché noi, nemici di Dio,
diventiamo amici e figli eletti di Dio. Sta scritto: ‘è terribile cadere nella mani del Dio onnipotente’, ed ecco che
il dolce Gesù sì è consegnato spontaneamente, con amore, per causa nostra, permettendo che tutta la collera, la
vendetta e il castigo di Dio, da noi meritato, cadessero su di lui… Nel suo immenso dolore, Cristo parla come se
in lui l’uomo interiore ricevesse sopra di sé, al posto dei peccatori, la sentenza di Dio”».60
Calvino insegnava che «Quando dunque Cristo è appeso alla croce, si rende soggetto alla maledizione. E
doveva essere così: la maledizione che ci era dovuta fu trasferita su lui, onde ne fossimo liberati… Di
conseguenza, per compiere la nostra redenzione, egli ha dato la sua anima in sacrificio soddisfattorio per il
peccato, come dice il Profeta (Isaia 53:5,11), affinché tutta l’esecrazione che ci era dovuta come a peccatori,
essendo trasferita su di lui, non ci fosse più imposta».61
Il grido: «“Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato” esprimeva il suo spasimo mentre soffriva le pene
dei condannati, attimi di autentica disperazione. “Ha infatti sopportato la morte con cui l’ira di Dio colpisce i
malfattori... Non solo il suo corpo è stato dato quale prezzo del nostro riscatto, ma vi è un altro prezzo, più
degno e prezioso, nel sopportare i tormenti spaventosi riservati ai dannati... Non si può immaginare abisso più
spaventoso che il sentirsi abbandonati da Dio, non ricevere risposta alle invocazioni e non potersi aspettare altro
52
LUTERO, Commento all’epistola ai Galati, cap. 3, v. 13; Œuvre, Labor et Fides, Genève 1969, t. XV, p. 282; cit. B. Sesboüé, o.c., p.
75.
53
idem, p. 283; cit. idem, p. 75.
idem, p. 285; cit. p. 76.
55
LUTERO, Enarratio uberior, cap. 53, ls.; ed. di Wittenberg (1574, t. 4, pp. 216, 219; cit. p. 76.
56
B. Sesboüé, o.c., pp. 75,76. Gesù ha quindi sofferto «quel che i dannati soffrono già»; ha provato «lo spavento e l’orrore di una
coscienza sconvolta e ha assaporato la collera eterna». Espressioni desunte dal commento al Salmo 21 (22):1,2; WA 5, Weimas 1892, pp.
598-608. cit. – B. Sesboüé, o.c., p. 412. Lutero però è pure consapevole che si tratta di affermazioni paradossali, perché Cristo non è
minimamente infettato dal peccati e perché il suo grido non è una bestemmia, ma un clamore innocente. «Egli grida che è abbandonato da
Dio, ma invoca il suo Dio e confessa così che non è abbandonato». B. Sesboüé, o.c., p. 412,413.
57
Idem, Salmo 22 (21), Werker (Weimar 1882) 5,602,605; cit. Idem.
58
Sul rapporto meriti e indulgenze, vedere nota n. 142.
59
Lutero, pensiero riportato da BANDAS Rodolfo G., La Redenzione - Idea centrale in S. Paolo, ed. Colletti, Roma, p. 218.
60
Exercitia de vita et passione Salvatoris contri Jesu Christi, cap. 7 e 46, Köln 1607, pp. 69 e 381; cit. B. Sesboüé, o.c., p. 77.
61
CALVIN Jean, Istituzione della religione cristiana, 1, UTET, Torino 1971, p. 640; cit. B. Sesboüé, o.c., p. 76.
54
La pazzia di Dio
49
CAPITOLO IV
da lui che perdizione e volontà di distruzione. Gesù Cristo è giunto a questo, al punto che è costretto a gridare,
tanto era oppresso dall’angoscia: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”».62 Ma forse pensando di
essere andato oltre e avendo detto di più di quanto il testo biblico dice, il Riformatore è costretto ad aggiungere:
«Non dobbiamo tuttavia dedurre da questo che Dio sia stato nemico o avversario del Cristo».63
Melantone affermava da parte sua: «Così grande è la severità del giudizio che non ci sarebbe nessuna
riconciliazione se non ci fosse una pena subita; così grande è la collera che il Padre eterno non è rappacificato
che dalla morte di suo Figlio per noi che ha attirato su di lui questa collera».64
I riformatori nel presentare la giustificazione per fede hanno utilizzato il linguaggio giuridico della
“imputatione”. Dio è “soddisfatto” nella sua giustizia, perché i peccati dell’uomo vengono imputati a Cristo
Gesù il quale subisce la loro condanna. Dio “giustifica” l’uomo perché la giustizia di Cristo viene imputata
all’uomo che la fa propria mediante la fede. Per sostenere questo insegnamento i Riformatori si sono appoggiati
principalmente sulle dichiarazioni di Paolo in 2 Corinzi 5:21e Galati 3:13, interrompendo una spiegazione
storica, sostiene il cattolico L. Sabourin, risalente all’epoca post apostolica.65
«Salmeron, teologo gesuita del concilio di Trento, non esita a dire che Cristo ha assunto la persona di tutti i
peccatori e la colpa di tutti i nostri delitti, al punto di poter essere giustamente chiamato il maledetto da Dio».66 Il
Catechismo del concilio di Trento che ricorre esattamente allo schema della giustizia commutativa e della
compensazione dice: «È soddisfazione l’intero pagamento di un debito, perché chi dice soddisfazione dice una
cosa a cui nulla manca. Per esempio, quando parliamo di riconciliazione, soddisfazione significa rendere ad altri
quel che possa essere sufficiente a riparare l’ingiuria di un animo; e così la soddisfazione non è altro che una
compensazione (o riparazione) dell’offesa recata ad altri … In detto genere ci possono essere molti gradi, per cui
la soddisfazione ha varie accezioni. La prima e la più eccellente è quella per cui, se Dio volesse agire anche con
noi col suo massimo diritto, è già stato cumulativamente pagato tutto quello che noi gli dovevamo per conto dei
nostri peccati. Questa è tale infatti da renderci Dio propizio e placato, e la riconosciamo offerta unicamente da
Cristo Signore, che sulla croce col prezzo sborsato per i nostri peccati ha soddisfatto Dio pienamente… Questa è
dunque la soddisfazione piena e universale, corrispondente in parità e uguaglianza al conto di tutti i peccati che
sono stati commessi in questo mondo».67
Nel XVII secolo il protestante Grozio, di formazione giurista, spiega che la compensazione richiede la
punizione: «Dio non ha voluto lasciare passare tante e sì gravi colpe senza dare un esempio insigne. Egli lo ha
fatto perché il peccato gli dispiace vivamente, e ciò quanto più esso è grave… Era cosa conveniente che egli
testimoniasse con un qualche atto di tale dispiacere sovrano e niente è più adatto a questo scopo che la pena…
Come l’impunità ha per risultato che uno valuti meno la colpa, così il mezzo migliore per arrestare la tendenza al
male è il timore del castigo. Di qui questo adagio: sopportare una ingiustizia passata significa sollecitarne una
nuova. La prudenza esige quindi che l’autorità imponga delle sanzioni. … Dio aveva dunque gravissime ragioni
per punire il peccatore, soprattutto se teniamo conto della grandezza e della moltitudine dei peccati. Tuttavia egli
ama il genere umano al di sopra di tutto. Ecco perché, pur avendo il diritto e la volontà di infliggere ai peccati
degli uomini la pena che essi meritano, cioè la morte eterna, egli ha voluto risparmiare coloro che hanno fede in
Cristo. Ora vi sono due modi di perdonare, o dare un esempio o non darlo. Con molta sapienza Dio ha scelto il
mezzo che gli permettesse di manifestare nel medesimo tempo il maggior numero dei suoi attributi, cioè la sua
62
CALVINO Giovanni, Institutio Christianae Religionis, II, 16, 1011; trad. italiana a cura di G. Tourn, ed. UTET, Torino 1971, pp.
644,745; cit. Danieli, o.c., p. 46.
63
Idem.
64
cit. da SABOURIN Leopold, Rédemption sacrificielle, éd. Desclée de Brouwer, 1961, p. 149.
65
L. Sabourin così riassume il pensiero dei riformatori: «Poiché il Cristo personifica il peccatore (Lutero), ed è colpevole in nome nostro
(Calvino), i nostri peccati diventano suoi e contemporaneamente nostri, o piuttosto cessano di essere i nostri diventando i Suoi (Lutero,
Melantone) per imputazione (Calvino, Melantone, Bernel), secondo la quale i nostri peccati (Calvino) e la nostra maledizione (Calvino), sono
trasferiti in lui mediante una specie di scambio (Melantone), per il fatto che riceve tutti i nostri peccati (Lutero), se ne riveste (Lutero,
Calvino), copre i nostri (Calvino) e diventa il peccatore universale, supremo (Lutero, Turretin), unico (Lutero), maledetto (Calvino,
Osiander), nel quale si trovano riuniti il solo Peccato e la sola Giustizia (Lutero), l’ultima miseria e la gloria più sublime (Melantone).
Questo insegnamento scaturisce in particolare da Galati 3:13 (Lutero) e da 2 Corinzi 5:21 in cui è detto che il Cristo è stato fatto
“peccato”, cioè “sacrificio per il peccato”, secondo il senso di asam nell’A.T. (Calvino, Melantone, Beze, Turretin), soprattutto nel Levitico
dove l’imposizione delle mani significa la trasmissione di tutti i peccati sulla vittima (Calvino), sul becco (emissario: Calvino, Bezel),
figurando che i nostri peccati sono rigettati sul Cristo (Calvino) e cessano di esserci imputati (Calvino, Turratin).
Il fine principale della soddisfazione è, in effetti, di distogliere il peso intollerabile (Calvino) dell’orribile collera (Melantone) di Dio
che bisogna riconciliarsi (Melantone). Il Cristo caricato dei nostri peccati, soddisfa per essi, in quanto ne subisce la pena (Grotius) totale,
pure eterna (Calvino, Turretin, Quendstedt), e riceve la punizione (Calvino, Melantone) che era dovuta a noi, di modo che le esigenze della
giustizia di Dio (Grotius: castigo esemplare!) e della legge (Melantone) siano soddisfatte.
La nostra unica speranza riposa su questa imposizione dei nostri peccati su Cristo (Lutero), e non c’è altro mezzo di salvezza che
questa sostituzione penale del Cristo al nostro posto (Calvino, Turretin), sebbene qualsiasi altra soddisfazione da parte nostra sia impossibile
(Calvino), e tutte le nostre opere siano inutili (Lutero). Nello stesso modo, in effetti, che tutti i nostri peccati sono imputati al Cristo senza
renderlo realmente peccatore, così la giustizia di Cristo ci è imputata mediante la fede (Calvino, Piscator)... come primizia della giustizia
futura (Melantone)» Idem, pp. 130,131.
66
cit. SABOURIN Léopold, Rédemption sacrificielle, Une enquête exégétique, DDB, Paris 1967, pp. 115-117 ; cit. B. Sesboüé, o.c., p.
409.
67
Catéchisme romani, dit du Concile de Trente, cap, 24, 1; Desclée, Paris 1906, pp. 357,358 ; trad. Italiana, Catechismo del Concilio di
Trento, ed. Paoline 1961, pp. 332,339; cit. B. Sesboüé, o.c., pp. 77,78.
La pazzia di Dio
50
TEORIE PROPOSTE PER SPIEGARE LA MORTE DI GESÙ
giustizia, in altre parole il suo odio per il peccato e la sua volontà di far osservare la legge. … In questo modo
egli ci distacca efficacemente dal peccato. La conclusione è infatti facile: se Dio non ha voluto rimettere i
peccati neppure ai peccatori pentiti, senza che Cristo li sostituisse nel subire la pena, a maggior ragione egli non
lascerà impuniti quanti si ostinano».68
Anche autori cattolici si esprimono con lo stesso linguaggio condividendo la stessa tesi.
La vendetta di Dio si placa sulla croce e Bossuet pone la sua arte oratoria nell’evocarla nel modo più
drammatico: «Bisognava che tutto fosse divino in questo sacrificio, ci voleva una soddisfazione degna di Dio, e
ci voleva un Dio che compisse una vendetta degna di Dio, e che fosse similmente Dio a effettuarla».
Con un metodo progressivo Bossuet da questa premessa descrive le diverse sofferenze e tormenti di Gesù in
croce. «Immaginatevi dunque, o cristiani, che tutto quello che avete inteso è solo un debole preparativo: il
grande colpo del sacrificio di Gesù, il colpo che abbatte questa vittima pubblica ai piedi della giustizia divina,
doveva essere menato sulla croce e provenire da una potenza più grande di quella delle creature. Infatti spetta
solo a Dio vendicare le ingiurie; e finché la sua mano non entra in azione, i peccati sono puniti solo in maniera
debole. A lui solo spetta rendere giustizia ai peccatori come si conviene; e lui solo ha il braccio tanto potente per
trattarli secondo il loro merito. “A me, a me, - dice egli – la vendetta: sì, saprò io rendere quel che è loro
dovuto” Romani 12:19. Bisogna quindi fratelli miei, ch’egli stesso intervenisse contro il Figlio suo con tutti i
suoi fulmini; e poiché egli aveva messo in lui i nostri peccati, doveva mettervi anche la sua giusta vendetta. E lo
ha fatto, o cristiani; non dubitiamone. Per questo il medesimo profeta ci insegna che, non contento d’averlo
consegnato alla volontà dei suoi nemici, lui stesso, desideroso di unirsi ad essi, l’ha spezzato e schiacciato con i
colpi della sua mano onnipotente: “Et Dominus voluti conterere eum in infirmitate” Isaia 53:10. Egli lo ha fatto,
dice il profeta, egli l’ha voluto fare, voluti contenere con un disegno premeditato. Giudicate, signori, fin dove
arriva questo supplizio; né gli uomini, né gli angeli lo potranno mai concepire».69
Bourdaloue, contemporaneo di Bossuet, non è meno determinato nel sostenere lo stesso pensiero. «Con una
condotta tanto adorabile quanto rigorosa, dimenticando ch’Egli è suo Figlio e considerandolo come il suo
nemico (perdonatemi queste espressioni), il Padre eterno si dichiara suo persecutore o, meglio, il capo dei suoi
persecutori… La crudeltà dei giudei non bastava per punire un uomo come questo, un uomo coperto dei crimini
di tutto il genere umano: bisognava, dice sant’Ambrogio, che intervenisse Dio, e questo la fede ci fa conoscere
in maniera sensibile. Sì, cristiani, Dio stesso e non il consiglio dei giudei consegna Gesù Cristo… Dal momento
che voi vi siete rivolti contro di lui e che, scaricando su di lui la vostra collera, avete dato loro mano libera, essi
si sono gettati su questa preda innocente e riservata al loro furore. Ma riservata da chi, se non da voi, o mio Dio,
da voi che nella loro vendetta sacrilega trovavate il compimento della vostra vendetta santissima? Eravate
infatti voi, Signore, che giustamente cambiato in Dio crudele, facevate sentire la pesantezza del vostro braccio
non più al vostro servo Giobbe, ma al vostro Figlio unico. Da molto tempo attendevate questa vittima; bisognava
riparare la vostra gloria e soddisfare la vostra giustizia ... Questo salvatore appeso in croce è il soggetto che la
vostra giustizia rigorosa s’è essa stessa preparata. Colpite ora, Signore, colpite: egli è disposto a ricevere i vostri
colpi; e senza considerare che egli è il vostro Cristo, non gettate i vostri occhi su di lui che per ricordarvi… che,
immolandolo, voi soddisfate questo odio con cui odiate il peccato. Dio non si contenta di colpire; Egli sembra
volerlo riprovare, lasciandolo e abbandonandolo nel mezzo del suo supplizio: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai
abbandonato” Matteo 27:46. Questa derelizione e questo abbandono di Dio sono in qualche modo la pena del
danno,che bisognava fosse provato da Gesù per noi tutti, come dice san Paolo… Bisognava, se mi è permesso
usare questo termine, ma voi ne comprenderete il senso – e non temo che mi sospettiate di intenderlo secondo il
pensiero dell’Uomo-Dio che riempisse la misura della maledizione e della punizione che sono dovute al
peccato… Ad ogni modo non scandalizzatevene, perché in questo modo di procedere di Dio non v’è alcuna cosa
che non sia secondo le voglie dell’equità… Non è nel giudizio finale che il nostro Dio offeso e irritato si
prenderà la sua soddisfazione in maniera degna di Dio; non è nell’inferno che si manifesta nella maniera più
autentica il Dio delle vendette, ma sul Calvario: “Deus ultionum Dominus” Salmo 93. Là la sua giustizia
vendicativa agisce liberamente e senza vincoli, non essendo coartata, come avviene altrimenti, dalla piccolezza
del soggetto su cui essa si fa sentire».70
Il padre Monsabré negli anni Ottanta del XIX secolo a Notre Dame di Parigi nel corso delle sue conferenze
dichiarava: «Dio vede in lui come il peccato vivente… E la sua carne sacra, penetrata dell’orrore che l’iniquità
ispira alla santità divina, diviene al nostro posto un oggetto maledetto… Alla sua vista la giustizia divina
dimentica il gregge volgare degli esseri umani e ha gli occhi solo per questo fenomeno strano e mostruoso, su
cui si appresta a soddisfarsi. Risparmiatelo, Signore, risparmiatelo, è vostro Figlio. No, no, è il peccato bisogna
che sia castigato, “Proprio filio suo non pepercit Deus”. Il perdono senza la compensazione eclissa talmente la
giustizia da spaventarmi. Dio è buono, ma è sapiente. Senza voler imporre limiti alla sua misericordia,
comprendo meglio la sua azione se essa è preceduta da una soddisfazione concessa alla sua giustizia mediante
68
GROZIO, Defensio fidei catholicae de satisfactione Christi, 1617, J. Lange, Leipzig 1730; trad. da J. Rivière, Le dogme de la
rédemption. Etude théologique, Gabalda, Paris 1931, pp. 442,443; cit. B. Sesboüé, o.c., pp. 78,79.
69
BOSSUET Jean, Carême des Minimes, pour le Vendredi saint, 26 marzo 1660, punto terzo; in Œuvres oratoires, ed. J. Lebarq, DDB,
Paris 1916, t. 3, p. 385; cit. B. Sesboüé, o.c., pp. 79,80.
70
BOURDALOUE, Premier Sermon sur la Passion de Jésus Christ, in Œuvre complètes, Rousselot, Metz 1864, t. 4, pp. 218-220. Le
sottolineature sono nostre; cit. B. Sesboüé, o.c., pp. 80,81.
La pazzia di Dio
51
CAPITOLO IV
l’espiazione del peccato, se l’uomo colpevole ritorna a Dio riscattato attraverso pene volontarie che l’umiliano…
e compensano il castigo eterno ch’egli ha meritato».71 Sul ministero sacerdotale dice: «Quale potere, mio Dio,
avete dato ai vostri sacerdoti dicendo loro: “Fate questo in memoria di me”. La loro parola è diventata uno
strumento più acuto e più tagliente del coltello che sgozzava le vittime della legge antica… Essi mettono una
vita divina là dove non v’era che una materia morta e, nel medesimo istante, la mettono a morte».72
Nello stesso luogo, dieci anni dopo, monsignor d’Hulst diceva che la giustizia era un preliminare della
misericordia dopo essere passata per la vendetta: «Bisognava prima accontentare la giustizia. Finché essa
reclamava ciò che le era dovuto, la misericordia era legata e come impotente. Dio ha dunque cominciato col far
giustizia… è qui che l’ombra del mistero s’infittisce. Viene decisa una sostituzione, che metterà il giusto e il
santo al posto del colpevole. … Una volta soddisfatta la vendetta, nulla arresta più le effusioni della
misericordia».73
Monsignor Gay all’inizio del XX secolo analizza l’angoscia di Gesù: «Egli ha anche paura della giustizia di
Dio… Ha paura della collera di questo giudice giustamente irritato e la cui irritazione, egli lo vede, s’è ora
trasformata in furore. Ha paura della maledizione divina, perché è la verità che lui, Gesù, la benedizione vivente
e infinita, una volta fattosi peccatore per tutti, deve essere maledetto per tutti… Padre mio, se è possibile! Ma
non è possibile. Gesù vede levarsi davanti a lui questo decreto immutabile, uscito dalle profondità dell’essenza
divina e unanimemente promulgato da tutti gli attributi divini: “Bisogna che Cristo soffra”. Esso non può essere
revocato e non può più cambiare, così come non può cambiare Dio… Ecco dunque Gesù stretto e rinchiuso fra
l’iniquità di tutta la terra, di cui ha orrore, l’inesorabile giustizia del Cielo, che lo fa rabbrividire, e il decreto
divino che gli addossa questa iniquità per soddisfare questa giustizia… Bisogna ch’egli si apra a questo doppio
diluvio del peccato e della pena, che mangi questo pane amaro delle nostre iniquità, che beva fino alla feccia
questo vino aspro delle collera celeste; bisogna ch’egli assorba e questo fango umano e questa vendetta divina;
bisogna che egli, che è il santuario del mondo e il cuore dell’umanità, ne divenga la fogna».74 Dopo aver alluso a
Galati 3 :13; 2 Corinzi 5 :21, affermava: «Il semplice abbandono da parte di Dio è l’inferno; ma l’abbandono da
parte di un Dio sentito da un Dio, chi riuscirà a dire quel che essa è?».75
Il padre Jean Corne, oblate di Maria Immacolata, professore e superiore di seminari maggiori di Francia,
nella secondo metà del XIX secolo insegnava: «Dio stesso lancia su di lui l’anatema: Gesù sarà lo scomunicato
universale, il maledetto. Egli si spaventa al pensiero dei colpi terribili, che la collera divina menerà su di lui per
fargli espiare i crimini del genere umano e che costituiranno per la sua anima e per il suo corpo la più orribile
delle passioni».76 Interpreta il grido di Gesù dalla croce con i passi di Galati e 2 Corinzi: «Qui Dio è
abbandonato, in qualche modo, da Dio; L’umanità di Gesù è respinta, per così dire, dalla sua divinità… Gesù,
gravato di tutti i crimini degli uomini, divenuto il peccato universale, fatto maledizione per noi, sospeso tra le
iniquità della terra e le collere del cielo… prova il sentimento ed esperimenta in qualche modo una derelizione
reale. Egli volle provare questo tormento dei dannati (la sete), così come aveva appena provato la pena del
danno…. Gesù appare agli occhi del Padre come il peccatore universale, come il peccato vivente, come un
essere maledetto… Dio non vede più in lui il suo Figlio prediletto, ma la vittima per il peccato, il peccatore di
tutti i tempi e di tutti i luoghi su cui farà pesare tutto il rigore della sua giustizia…. Spettacolo singolare che
vediamo solo sulla croce: Dio che perseguita un Dio, che abbandona un Dio, il Dio abbandonato che si lamenta
e il Dio abbandonante che si mostra inesorabile…. È il colpo supremo. Una volta che Dio aveva scaricato la sua
collera e che la sua giustizia era stata pienamente soddisfatta, Gesù poteva morire… Tutto è consumato, la
vittima esala l’ultimo respiro, l’immolazione che soddisfa la giustizia di Dio e riscatta il mondo è compiuta».77
Un inno protestante cantato nel XIX secolo e nella prima metà del secolo scorso diceva: «Mezzanotte,
cristiani, è l’ora solenne / in cui l’Uomo-Dio discese fra noi / per cancellare la colpa originale e placare la
collera del Padre suo! / La legge inesorabile afferra la sua vittima, / un sangue d’un valore immenso placa il suo
furore».78
Victor Hugo con ironia beffarda nei confronti del teologo: «Voi prestate al buon Dio questo ragionamento: /
“Un tempo ho messo il primo uomo con la prima donna / in un luogo meraviglioso e scelto con cura; /
nonostante il mio divieto, essi hanno mangiato una mela; / per questo punisco gli uomini per sempre, / li rendo
infelici sulla terra e prometto loro / nell’inferno, ove Satana si rigira nella brace, / un castigo senza fine per la
colpa di un altro. / La loro anima si trasforma in fiamme e il loro corpo in carbone. Niente di più giusto. Ma,
dato che sono molto buono, / la cosa mi affligge. Ahimè! Come fare? Un’idea! / Invierò loro mio figlio nella
71
MONSABRÈ M.L., Conférence de Nostre-Dame de Paris, Carême 1881, 49e Conférence, aux bureaux de l’année dominicaine, Paris
1886, pp. 24-25; B. Sesboüé, o.c., p. 83.
72
Idem, Carême 1884, 70e Conférence, Paris 1885, p. 181; B. Sesboüé, o.c., p. 83.
73
HULST d’ Mgr, Conférence de Nostre-Dame de Paris, Carême de 1891, Retraite de la semaine sainte, vendredì saint, Poussielgue,
Paris 1903, pp. 325, 330, 335 ; B. Sesboüé, o.c., p. 84.
74
Mgr GAY, Sermons de Carême, t. 2, Houdin, Paris-Poitiers 1908, Passion pour le vendredì saint, pp. 217, 219-220; cit. B. Sesboüé,
o.c., p. 84.
75
Idem, p. 246; cit. B. Sesboüé, o.c., p. 85.
76
CORNE Jean, Le mystère de Notre- Seigneur Jésus-Christ, t. 4 Le sacrifice de Jésus, Paris s.d., pp. 89,90; cit. B. Sesboüé, o.c., p. 85.
77
Idem, pp. 218-220, 321, 350,351, 226; cit. B. Sesboüé, o.c., p. 85.
78
Cit. da GARDIEL;P., La Cène et la Croix, in NRT 101 (1979), p. 678 ; cit. B. Sesboüé, o.c., p. 86.
La pazzia di Dio
52
TEORIE PROPOSTE PER SPIEGARE LA MORTE DI GESÙ
Giudea. Essi lo uccideranno. Allora, - per questo io acconsento – / avendo commesso un crimine, saranno
innocenti. / Vedendoli così compiere un crimine completo, / perdonerò loro quello che non hanno commesso; /
essi erano virtuosi, io li rendo criminali; / posso dunque riaprire loro le mie vecchie braccia paterne, e in questo
modo questa razza è salvata, / essendo stata lavata la loro innocenza da un misfatto».79
L. Ackermann nelle sue Poésies philosophiques scriveva: «No a questo strumento di un infame supplizio, /
ove, con l’Innocente divino e sotto i medesimi colpi, / vediamo spirare la giustizia ! / No, alla nostra salvezza, se
essa è costata del sangue! / Poiché l’amore non può scagionarci di questo crimine, / avvolgendolo in un velo
seduttore, / no, malgrado la Sua dedizione, alla vittima /, e no, soprattutto al sacrificatore! / Che importa che
Egli sia Dio, se la sua opera è empia? / Come ha crocifisso il proprio Figlio? / Egli poteva perdonare, ma vuole
che si espii. / Immola, e questo si chiama aver pietà!».80
Il filosofo Nietzsche reagisce anche lui a questa visione di giustizia e di perdono mediante la punizione:
«Come poté Dio permettere questo? A questo la turbata ragione della piccola comunità trovò una risposta di
un’assurdità addirittura spaventosa. Dio dette suo figlio per la remissione dei peccati, come vittima. Fu di punto
in bianco la fine del vangelo! Il sacrificio espiatorio e proprio nella sua forma più ripugnante e più barbara, il
sacrificio dell’innocente per i peccati dei rei. Quale raccapricciante paganesimo».81
Il cattolico H. Lesêtre sosteneva che il peccatore meritando l’inferno: «Gesù Cristo è stato fatto maledizione
per noi. Il Padre suo gli ha fatto sentire tutto il rigore di questo anatema».82
A. d’Alès nell’articolo Rédemption scrive: «Faremo intervenire la giustizia vendicatrice? Sì, senza dubbio,
poiché la Scrittura mostra il Giusto caricato dai nostri peccati di un gran numero, castigato, trafitto per le nostre
iniquità (Isaia 53:4,5); più ancora, il Cristo, fatto peccato per noi (2 Corinzi 5:21), fatto maledizione (Galati
3:13): tutte espressioni che evocano l’idea della collera divina. Prima di essere scongiurato dalla passione
volontaria dell’innocente, l’effetto della collera divina ha dovuto essere distolta dai veri colpevoli e attirata su di
lui stesso... Gli scrittori dell’A. e del N.T. non si sono sottratti davanti a questo energico compendio che mostra
il Cristo curvo sotto il peso della collera e della maledizione... Se la Passione del Salvatore manifesta fino allo
scrupolo il bisogno della giustizia (vendicativa?) che è in Dio, essa manifesta più ancora il bisogno e il desiderio
di fare grazia».83 Ed esprimendo un pensiero simile a quello di Calvino nel 1913 scriveva: «Il principio della
sostituzione, inaccettabile come tesi generale e sul piano dello stretto diritto, perché l’essenza del castigo esige
che essi ricada sul colpevole, assume tutto un altro valore quando si tratta della redenzione, anzitutto a motivo
della solidarietà naturale che fa di Cristo il rappresentante nato dell’umanità intera; poi a motivo della generosità
che lo induce a offrirsi spontaneamente, solo in favore di tutti, ai colpi della giustizia divina; infine a motivo del
beneplacito divino che gradisce la sostituzione».84
Ancora nel XX secolo, Yves de Montcheuil nelle sue Leçons sur le Christ, tenute durante l’ultima guerra e
pubblicate dopo la sua morte insegnava: «Spesso la soddisfazione di Cristo è stata presentata come un debito
pagato in qualche modo alla giustizia di Dio, che doveva essere così prima soddisfatta, affinché poi potessimo
essere perdonati. Qualche volta tale soddisfazione è anche proposta come una espiazione propriamente detta:
Gesù avrebbe subito sulla croce la pena dovuta al peccato e, una volta placata la collera divina, Dio avrebbe
potuto dar libero corso alla sua volontà d’amore… La caratteristica di questo modo di spiegare le cose è che Dio,
deciso a perdonare, ha voluto mettere al suo perdono questa condizione preliminare, la condizione che la sua
giustizia ricevesse una soddisfazione. Le sofferenze e la morte di Cristo sarebbero quindi in primo luogo una
soddisfazione offerta alla giustizia di Dio. E poiché questa è offerta in nostro nome, al nostro posto, viene
chiamata soddisfazione vicaria».85
Nel XX secolo il teologo russo Sergio Bulgakof in forma estremistica afferma: «Cristo prende su di sé il
peccato del mondo e lo fa passare nella propria vita… Nella profondità dell’inumanazione, che è
l’identificazione del Figlio con tutto il genere umano mediante la ricezione dell’assenza umana, si verifica
l’assimilazione del peccato e dei peccati – mediante la loro accettazione – come i suoi propri peccati».86
Più vicino a noi, il teologo protestante Karl Barth, ribadendo l’insegnamento dei riformatori, scrive a
proposito di quanto è avvenuto nel venerdì santo: «Egli stesso ha subito al nostro posto la collera eterna»: perché
«nella persona di questo Crocifisso, il peccato d’Israele e quello del mondo intero, la nostra collettiva, come
anche ognuna delle nostre trasgressioni, sono state l’oggetto della collera e della retribuzione divina». La
crocifissione di Gesù è il «giudizio reale di Dio... la maledizione della collera divina su ogni iniquità e
ingiustizia degli uomini...
79
HUGO Victor, Œuvres complètes, Poésie, t. IX, Le pape, le pitié suprême. Religions et religion, l’âne, Librairie Ollendorff, Paris
1927, pp. 86,87.
80
ACKERMANN L., Poésies. Première poésies, poésies philosophiques, A. Lemerre, Paris 1877, pp. 143,144; cit. B. Sesboüé, o.c., p.
87.
81
NIETZSCHE F., L’Anticristo, Adelphi, Milano 1988, p. 54; cit. B. Sesboüé, o.c., p. 87.
82
LESTRE H., Notre Seigneur Jésus Christ dans son saint Evangile, Paris 1902, p. 529; cit. da L. Sabourin, o.c., p. 414, cit. anche da B.
Sesboüé, o.c. p. 413.
83
ALÈS Adhémar . de, Rédemption, in DAFC, vol. IV, col. 558; cit. L. Sabourin, idem, p. 149.
84
ALÈS Adhémar de, Le dogme chatolique de la rédemption, in Etudes, 135 (1913,II), p. 180; cit. B. Sesboüé, o.c., p. 88.
85
MONTCHEUIL Y de, Leçons sur le Christ, pp. 127,128 ; cit. B. Sesboüé, o.c., p. 94
86
BULGAKOF S., Du Verbe incarné (Agnus Dewi), Aubier, Paris 1943, p. 282; cit. B. Sesboüé, o.c., p. 409.
La pazzia di Dio
53
CAPITOLO IV
Nella morte di Gesù Cristo è dunque la giustizia di Dio sotto il suo aspetto di condanna e di punizione che si
è scatenata contro il peccato umano. Essa ha realmente colpito il peccato d’Israele, il peccato nostro e di tutti.
Per ciò che è avvenuto sulla croce nella persona di Gesù Cristo, la giustizia di Dio, offesa da Israele e da noi
stessi, è stata manifestata e perfettamente soddisfatta. In altre parole, la sofferenza causata da Israele e da noi
stessi, è stata subita per Israele e per noi stessi; e la collera di Dio, che noi abbiamo meritato e che doveva
segnare il nostro annientamento, è caduta su un altro - come se essa ci avesse colpito benché non ci abbia colpito
e non possa più colpirci». - Dio «poteva - e l’atto ha subito seguito la possibilità - inviare suo Figlio “in un corpo
di carne” Colossesi 1:22 e “farlo peccato per noi” 2 Corinzi 5:21: destinandolo ai colpi della sua collera, della
sua condanna e del suo castigo». Il «peccato... significa allontanamento da Dio, rivolta contro di Lui, e la
purificazione che comporta dovrebbe prodursi per annientarci. Altrimenti bisogna che Dio stesso intervenga in
nostro favore, che prenda su di Lui, porti e subisca nel suo Figlio il castigo che noi abbiamo meritato. Ed è ciò
che fa. Ecco ciò che costa a Dio essere giusto senza pertanto annientarci. Gesù Cristo nella sua unità con «la
natura umana» ha potuto “pagare per il peccato”87, e nello stesso tempo placare la collera di Dio nella sua
umanità”.88
Ha potuto, senza sminuire la sua maestà divina, diventare “simile alla carne di peccato”; in questa situazione
ha potuto, pur conservando la sua maestà divina, subire, senza essere annientato, il giudizio e la collera di Dio…
Ha potuto bere la coppa che nessuno poteva bere. Ha potuto, perché era Dio stesso, sporsi alla giusta severità di
Dio. Perché egli stesso era Dio, doveva sopravvivere a questa prova. Bisognava in effetti che Dio fosse qui
implicato, al fine di essere fedele a se stesso nel suo incontro con l’uomo, pur conservando a questi la felicità. La
collera di Dio doveva rivelarsi contro ogni empietà ed ingiustizia degli uomini. Solo Dio poteva compiere questa
necessaria rivelazione della sua giustizia senza che essa significasse la fine di ogni cosa. Solo Dio stesso poteva
sopportare il peso della collera di Dio. Solo la sua misericordia era in grado di sopportare la sofferenza alla
quale la creatura ribelle si è condannata mediante la sua opposizione al Creatore… Questo miracolo, che solo la
misericordia di Dio poteva realizzare, si è prodotto alla croce del Golgota, dove l’onnipotenza divina è esplosa
sotto il suo duplice aspetto: senza nulla sacrificare della sua giustizia, Dio si è mostrato all’altezza della sua
collera. Poiché di questa onnipotenza, la misericordia di Dio è stata veramente partecipazione totale alla miseria
umana, senza nulla perdere della sua grandezza immutabile ed eterna; Dio stesso ha potuto donarsi interamente,
senza cessare di essere e di restare pienamente se stesso in questo dono senza confronto. Ha potuto rivelarsi
contemporaneamente come il servitore che ha subito per noi tutti la fine che noi abbiamo meritata la potenza
della morte».89
Le teorie penali hanno avuto delle varianti e Mons. R.G. Bandas nel considerarle, scrive a proposito di una
di queste: «Nelle sue Cunninghan Lectures il Denney90, propone anche lui una teoria penale, con formula, per lo
meno in apparenza, raddolcita se confrontata con quelle contenute in opere anteriori. Secondo lui l’agonia e la
Passione sono “penali in quanto in quell’ora di tenebre Egli, Cristo, doveva realizzare in pieno la reazione divina
contro il peccato entro la stirpe stessa alla quale si era unito; chè se in tale compito non fosse andato fino al
limite estremo, non sarebbe stato il Redentore della stirpe del peccato né il Riconciliatore dell’uomo colpevole
con Dio”. Le sofferenze, provocate come sono dal peccato, gli sono venute addosso “perché il mondo ha peccato
e su di Lui che si faceva parte del mondo si è scaricata come sul Salvatore del mondo tutta l’esperienza della
reazione divina, la quale scatenatasi contro il peccato ha investito tutta l’anima di Lui”… Sulla croce il Figlio di
Dio, l’innocenza fatta persona, per amore dell’uomo e in obbedienza al Padre, accetta sottomesso quella tragica
esperienza nella quale l’uomo peccatore realizza che cosa il peccato significhi. Per ogni uomo Egli subisce la
morte. L’ultima cosa e la più profonda che si possa dire circa il rapporto tra lui e i nostri peccati è che Egli è
morto per essi e che Egli li inchioda nel suo stesso corpo sul legno. Se questo potessimo dire, non potremmo
affermare la sua perfetta conoscenza sperimentale di quanto gli uomini peccatori avrebbero potuto e dovuto
soffrire per i loro peccati, né potremmo dire di Lui che Egli è diventato perfetto per amore».91
E B. Sesboüé riporta: «È venuto il momento di enunciare la proposizione decisiva: è successo che il Figlio
di Dio ha eseguito il giusto giudizio di Dio su di noi uomini, divenendo lui stesso uomo al nostro posto e
accettando di subire questo giudizio per noi… Sì, punto per punto noi abbiamo subito quel che ci spettava, ma
poiché tale è stata la volontà di Dio, il suo giudizio su di noi ha avuto luogo nella persona del Figlio suo, di
modo che lui è stato accusato, condannato e messo a morte. Il Figlio di Dio ha esercitato il giudizio, e lui è il
giudice che è stato giudicato, che s’è lasciato giudicare!… Con quello che ha fatto per noi, assumendosi la nostra
condanna e il nostro castigo – per “adempiere ogni giustizia “ – egli ha operato la nostra riconciliazione con
Dio».92 Cristo si espone dunque «all’accusa e al verdetto che noi meritiamo». Egli può atteggiarsi a
«responsabile dei nostri peccati». Infatti «il peccato che noi commettiamo… è diventato il suo peccato; l’accusa,
87
Catechisme de Heidelberg, qu. 18.
Idem, qu. 17.
89
BARTH Karl, Dogmatique, vol. 2, La doctrine de Dieu, t. I, 2, Genève 1957, pp. 144-145.
90
DENNY, The christian Doctrine of Reconciliatio.
91
R.G. Bandas, o.c., p. 220.
92
BARTH Karl, Dogmatique, vol. IV, La doctrine de la réconciliation, t. I,1, Labor et Fies, Genève 1966, t. 17, p. 235. cit. B. Sesboüé,
o.c., p. 411
88
La pazzia di Dio
54
TEORIE PROPOSTE PER SPIEGARE LA MORTE DI GESÙ
il giudizio e la maledizione che ne risultano per noi son caduti su di lui».93 «Ma tale forte insistenza sulla
sostituzione è integrata in Barth nel tema della scambio fra il verdetto di condanna, che colpisce Gesù, e il
giudizio assolutorio e riconciliatore che ci dichiara giusti».94
H. Urs von Balthasar nel 1975 sostiene che Gesù ha esperimentato la «seconda morte» quella dell’inferno
propriamente detta.95
Il biblista evangelico G.E. Ladd tenta di giustificare questa posizione, ormai classica nel mondo cristiano, in
questi termini: «Bisogna dire prima di tutto che la morte del Cristo è la rivelazione suprema dell’amore di Dio.
Se l’opera espiatoria del Cristo si situa, nel N.T. come nell’A., in rapporto alla collera di Dio, è sbagliato
interpretare la sua morte come un atto trasformante la collera di Dio in amore. Nel pensiero ellenistico pagano le
divinità si indisponevano frequentemente contro gli uomini, e questi non potevano calmare la loro collera e
ottenere i loro favori che mediante i sacrifici espiatori... La croce non rivela soltanto la profondità dell’amore del
Cristo, ma anche quella di Dio» e aggiunge: se Gesù «ha conosciuto le tenebre più profonde e condiviso il
terribile fardello del loro riscatto... è difficile non concludere che Gesù non sia solamente morto per me, ma al
mio posto, poiché grazie alla sua morte io non morirò più, ma vivrò per sempre presso di lui. Subendo la morte,
salario del peccato, mi dispensa precisamente di passare per essa. Sottomettendosi al giudizio di Dio sul peccato,
mi risparmia questo giudizio. Si può difficilmente tenere questo ragionamento, a meno che il Cristo non abbia
pagato il riscatto e subìto il giudizio di Dio al posto del peccatore, risparmiando così quest’ultimo dall’atroce
condanna... La qualità di questo amore viene dal fatto che la morte del Cristo non era solamente la sua, ma la
mia: essa non rappresenta solamente la mia, ma è stata subita al mio posto. In effetti, è grazie alla morte del
Cristo che io sfuggo alla morte. Morendo, Gesù ha subito la mia morte per me e al mio posto... Mediante la
morte di Gesù Cristo, il rappresentante ed il sostituto del peccatore, Dio ha dato al peccato il suo giusto castigo e
la sua pena meritata... Una espiazione è stata accompagnata per salvare l’uomo dalla collera di Dio rivelata
dall’alto del cielo contro ogni empietà ed ogni ingiustizia degli uomini (Romani 1:18)... Dio è il Dio vivente che
nel giorno del giudizio scaricherà la sua collera su coloro che meritano il suo giusto giudizio (Romani 2:5) ...
Come peccatori colpevoli, sono condannati e meritano il castigo ultimo della morte... Il peccatore colpevole
muore, colpito dalla collera di Dio... La morte di Cristo salva il peccatore dalla morte, lo sottrae alla sua
colpevolezza e lo giustifica. Egli ha compiuto una riconciliazione tale che l’uomo non ha più bisogno di temere
la collera di Dio. Egli ne è salvato dalla morte del Cristo alfine di potersi girare, non più verso la collera, ma
verso la vita (1 Timoteo 5:9). Gesù ha preso su di sé la colpevolezza e la condanna del peccato, di modo che la
collera di Dio è stata placata... Senza la morte di Gesù, Dio non avrebbe potuto giustificare il peccatore la cui
condanna avrebbe solamente potuto attestare la giustizia di Dio. La sua morte ha permesso la relazione perfetta,
sia della giustizia sia della misericordia divina. Nella sua giustizia, Dio dà al peccato il suo dovuto e similmente
nella sua misericordia, quietanzi il peccatore di ogni colpa e toglie la sua condanna».
Questo teologo riconosce però: «Anche se la Scrittura non impiega mai questa terminologia, noi possiamo
dunque concludere che la collera di Dio ha veramente colpito Gesù nella sua morte, al posto del peccatore».96
Il teologo H. LaRondelle, arriva a fare queste affermazioni: «Quello che accadde a Cristo per mano di
uomini peccatori è, in ultima analisi, attribuito nella Scrittura a ciò che la mano e il consiglio di Dio avevano
innanzi determinato che avvenisse (Atti 4:28).- La provvidenza di Dio misteriosamente, ma in modo efficace,
attua ciò che l’eterno consiglio di Dio ha ordinato e promesso che accadrà sul pianeta terra… Dio... non può
coesistere con il peccato (Abacuc 1:13). La sua giustizia esige che il peccato sia portato in giudizio. Egli, per
conseguenza, deve eseguire la sentenza sul peccato e sul peccatore. In questa esecuzione, il Figlio di Dio prese il
nostro posto, il posto del peccatore, in armonia con la volontà di Dio. Questa espiazione era necessaria perché
l’uomo si trovava sotto la giusta ira di Dio. In questo consiste il cuore del vangelo del perdono del peccato e il
mistero della croce di Cristo, la cui perfetta giustizia soddisfa adeguatamente la divina giustizia, per cui Dio è
disposto ad accettare il personale sacrificio di Cristo al posto della morte dell’uomo. - Paolo dichiara che il Padre
stesso presenta il Figlio come sacrificio espiatorio, come propiziazione (hilasterion) (Romani 3:25). In altre
parole, Dio nella sua misericordiosa volontà, presenta Cristo come propiziazione alla sua santa ira sulla colpa
umana, perché accetta Cristo come rappresentante dell’uomo e come suo divino sostituto per subire il Suo
giudizio sul peccato. - Il sacrificio di se stesso offerto da Cristo è gradito da Dio perché questa offerta sacrificale
abbatte la barriera fra Dio e l’uomo peccatore in quanto Dio subì per intero l’ira di Dio per il peccato dell’uomo.
Per mezzo di Cristo l’ira di Dio non muta in amore, ma è distolta dall’uomo e subita da Lui stesso. (A sostegno
di questa posizione aggiunge.) Il profeta Isaia aveva rivelato il cuore del vangelo con queste parole: “L’Eterno
ha fatto cadere su lui l’iniquità di noi tutti... Piacque all’Eterno di fiaccarlo coi patimenti.” (È da notare che il
testo di Isaia dice che è caduta sul Messia “l’iniquità di noi tutti” non l’ira di Dio, ndt). Senza dubbio Paolo si
riferiva a Isaia quando scrisse: “Cristo è morto per i nostri peccati, secondo le Scritture” 2 Corinzi 15:3. Paolo
implicitamente (non viene detta però come, nda) faceva capire che Dio non solo si asteneva dall’imputarci i
93
Idem, p. 249 – cit. B. Sesboüé, o.c., p. 411.
B. Sesboüé, o.c., p. 411
95
ALTHASAR H. Urs von, La glorie e la Croix. Les aspects esthétiques de la Révélation, III, Théologie, vol. 2, La Nouvelle Alliance,
Aubier, Paris 1975, pp. 197-202 ; ed. italiana, Lgloria, Jaca Book, Milano 5 voll., 1971-1978; B. Sesboüé, o.c., p. 413.
96
LADD G.E., Théologie du N.T., vol. III, presse Biblique Universitaire, Lausanne, et ed. Sator, Paris 1984, pp.
590,591,594,595,598,599,601.
94
La pazzia di Dio
55
CAPITOLO IV
peccati, ma addirittura li addossava a Cristo, il suo Figlio, come sostituto dell’uomo. Nella morte storica di
Cristo tutti gli uomini sono morti sotto la santa maledizione di Dio per i loro peccati.- Non più oggetto dell’ira
di Dio, i credenti giustificati sono diventati oggetto del favore di Dio».97
Il rettore emerito di tutte le Souls Church, John Stott, sostenitore anch’egli di questa teoria, nel tentativo di
evitare una contrapposizione Dio-Cristo crediamo si ponga su un terreno contraddittorio. Scrive: «Non
dobbiamo mai caratterizzare il Padre come Giudice e il Figlio come Salvatore. È lo stesso Dio che tramite Cristo
ci salva da se stesso».98 E ancora, la morte del Signore «afferma che Gesù Cristo, essendo senza peccato e non
avendo alcun bisogno di morire, ha affrontato la nostra morte, la morte che i nostri peccati avrebbero meritato.
Gesù morì per noi, per il nostro bene; il “beneficio” che egli ci procurò morendo era la nostra salvezza99; per
procurarcela dovette occuparsi dei nostri peccati; e morendo per essi morì al nostro posto».100
Questa convinzione è così radicata che il mondo evangelico esprime la sua lode all’Eterno con le parole di
un inno che dice: «Di mille colpe sono reo / Lo so, Signore, io sono. / Non merito perdono, / Né lo potrei sperar.
/ Ma mira sulla croce / Chi per me muore, e poi, / Lascia, gran Dio, se puoi, / Lascia di perdonar».
Suor Maria Teresa di Calcutta diceva: «Dio crocifigge suo figlio per espiare il peccato e crea l’inferno per
punirlo».
Nell’ambito cattolico, nel Messale Romano del 1o luglio, festa del Preziosissimo Sangue, l’orazione
liturgica comincia con questa invocazione: «O Dio, che hai costituito Redentore il tuo Unigenito e che hai
desiderato d’essere placato col suo sangue...»
Critica
Molte sono le critiche soprattutto tra i contemporanei alla teoria della sostituzione.
Scrive Ferdinando Prat: «Generalmente questo sistema non è più seguito, ma le sue assurde conseguenze
hanno gettato sulla teoria della sostituzione un discredito che non sarà facilmente superato».101
J.A. Leenhardt scrive: «In nessun luogo della Bibbia... si parla di riconciliare Dio, meno ancora di placare il
suo risentimento con una sanzione esemplare».102
L’A.T. sembra presentare tre testi che affermino che Dio si riconcilia con l’uomo (Zaccaria 7:2; 8:22;
Malachia 1:9).103
Questa teoria ha avuto grande fortuna nella mentalità dei credenti perché è e fa parte di un luogo comune
presente in moltissime culture e in diverse civiltà. Si fonda sull’idea di un misterioso ma cocente rapporto fra
colpa e pena. La colpa può essere lavata dal patire del colpevole. La vittima che ha subito il male, come il
giudice, sarebbero in qualche modo appagati dal vedere che il colpevole patendo, a sua volta è diventato una
vittima. Questa figura che presenta il rapporto colpa-pena applicato alla relazione uomo Dio è un evidente
antropomorfismo che è comunque impossibile. La pena che non è espressione di cinica vendetta, altrimenti non
potrebbe essere attribuita a Dio, dovrebbe avere una funzione medicale. Essa ha senso solamente se servirà a far
maturare nel colpevole una revisione della sua vita e produrre il suo recupero ad una pacifica convinzione civile.
Altrimenti potrebbe avere valore come deterrente nei confronti dei delinquenti potenziali stornandoli dal
delinquere sapendo che potrebbero subire gravi danni. Ma non ha nessun significato, è una assurdità giuridica
che l’innocente subisca una punizione, un danno al posto del colpevole. Come può Dio, il giusto giudice,
accettare tale assurdità giuridica?
Secondo il pensiero del dr. Baruk: «Si può pagare un debito per mezzo di intermediari, ma non subire una
pena per procura. Il castigo è cosa essenzialmente personale, inseparabile dalla colpa; se cade sopra un estraneo
non è più castigo. Se il diritto umano ha qualche volta permesso d’imputare a una famiglia, a una città, a una
nazione, la colpa di uno dei suoi membri, questo è avvenuto perché la famiglia, la città e la nazione erano
considerate come uno stesso ente morale; ciò non avvenne in forza del principio della sostituzione penale, ma in
forza del principio ben diverso della solidarietà. Il paganesimo, prima di Abramo, aveva in qualche modo
legalizzato il fatto che degli innocenti potessero pagare per i colpevoli. Là risiede l’origine dei sacrifici umani
del paganesimo. Si pensava che gli sbagli della comunità potessero essere annullati mediante la messa a morte di
esseri umani innocenti paganti per gli altri, come se questi assassinati potessero placare delle divinità
vendicatrici esigenti il sangue di vittime umane innocenti per riscattare gli sbagli dei colpevoli. Questa nozione
97
98
99
LaRONDELLE Hans, Cristo nostra giustizia, traduzione italiana, s.l., s.d., ciclostilata, pp. 124,128,129,137, 139,140.
STOTT John, The Cross of Christ, Inter-Varsity Press, England, New edition, 1987, p. 140; ed. italiana o. c., pp. 187,188.
«Il punto importante è che, come conseguenza della sua morte, Gesù può largirci la grande benedizione della salvezza». J. Stott, o.c.,
p. 82.
100
J. Stott, o.c., pp. 84,85.
F. Prat, o.c., p. 190.
102
LEENHARDT J.-A., L’Épître de saint Paul aux Romains, Neuchâtel 1957, p. 63. Stesso pensiero in HERING J., La seconde Épître de
saint Paul aux Corinthiens, Neuchâtel 1958, p. 53.
103
DODD C.H., Ilaskesthai its Cognates, Derivatives, and Synonyms in the Septuagint, in The Journal of Theological Studies, n. 32,
1930-31, p. 355 e LYONNET S., De peccato et redemptione, vol. II, De vocabulario Redemptionis, Romae 1960, p.89 e seg., hanno fatto
rientrare queste dichiarazioni nella posizione generale della Bibbia.
101
La pazzia di Dio
56
TEORIE PROPOSTE PER SPIEGARE LA MORTE DI GESÙ
del pagamento dello sbaglio mediante degli innocenti sussiste ancora nella mentalità contemporanea. Essa
costituisce il fondamento dell’idea comune di redenzione. Questa idea che vede l’uomo sacrificato per riscattare
gli sbagli degli altri fu esaltata e in qualche modo idealizzata e deificata. È questa una nozione che scaturisce dal
paganesimo e il cui pericolo è evidente, ed è uno dei più grandi ostacoli alla moralizzazione dell’umanità. È
contro tale nozione che si è innalzata la civiltà ebraica a partire da Abramo. Quando Abramo ricevette da Dio
l’ordine di sacrificare il suo unico figlio e si prepara ad eseguirlo, il suo braccio fu fermato».104
È un desiderio egoistico e comune negli uomini il pensiero istintivo che qualcuno altro paghi e rimedi al
proprio sbaglio. «Ancora nel secolo scorso la pratica della barbaria usanza del capro espiatorio è più volte
testimoniata come essendo in vigore in Spagna, in Francia e in speciale modo in Inghilterra, dove aveva il nome
di whipping boy105. Quando un giovane principe commetteva una mancanza, i giovani sventurati di corte, suoi
stretti accompagnatori, ricevevano in vece sua le frustate. Si aveva la proiezione di un’ombra in persone
concrete. Esempi ve ne sono anche nella storia della civiltà tedesca, come nel caso del re Corrado IV (12281254), il padre dell’ultimo degli Hohenstaufen, Corradino, di cui però si racconta protestasse con vigore e
sagacia contro tale costumanza».106
Le dittature di tutti i tempi hanno punito e accettato la morte dell’innocente al posto dei ribelli, colpevoli di
non condividere l’empia amministrazione. In Italia abbiamo avuto l’esempio di Salvo d’Acquisto che per evitare
l’uccisione di innocenti si è proposto come l’autore dell’attentato alle SS. Gli ufficiali nazisti erano consapevoli
che non era stato lui l’attentatore ma… qualcuno doveva pagare.
«Questa idea di compensazione è associata a quella di vendetta o di giustizia vendicativa, che deve punire in
proporzione al male. Gesù, accettando la sua morte cruenta, soddisfa questo doppio bisogno aspetto della
giustizia. Offre a Dio il “preliminare” che placa la sua collera e gli permette di riconciliarsi con l’umanità.
L’incarnazione redentrice appare allora come uno “stratagemma” inventato da Dio per ottenere quello che
l’uomo peccatore era divenuto incapace di compiere. Non vi è infatti perdono senza un prezzo pagato in cambio
a Dio.
Tale caricatura dottrinale troppo diffusa tra la gente ci mostra un Dio vendicatore che sfoga la sua collera sul
proprio Figlio, un Dio violento, un Dio anche sovranamente ingiusto, perché istituisce deliberatamente la
sofferenza, un Dio che vuole che “gli sia pagata cara”. Ho sentito dire che un teologo aveva paragonato l’atto di
Cristo al caso di Massimiliano Kolbe107, il quale si era offerto di prendere su di sé la pena comminata per
liberare un padre di famiglia. Questo teologo aveva coscienza che attribuiva così implicitamente a Dio il ruolo
delle SS?108
Questo riassunto semplificatore mette in discussione la comprensione di vari termini chiave della teologia
della redenzione: sacrificio, espiazione, soddisfazione, sostituzione. In larga misura esso costituisce una
perversione del pensiero di sant’Anselmo, che appare spesso oggi come il grande mostro. Dobbiamo quindi
domandarci: Come si è arrivati a tanto?».109
«Io non posso credere alla sostituzione - scriveva nel 1844, tre anni prima di morire, Alexander Vinet - La
traslazione della colpa sull’innocente è decisamente contraria alle nostre nozioni morali».110
André Dumas osserva: «L’immagine di Dio viene falsata. Dio diventa ciò che è sempre stato per l’arcaismo
religioso dell’umanità e della sua coscienza: un perverso crudele che esige la sofferenza per compensare
l’offesa, dunque un contabile del debito e della sofferenza, un Dio che non dimentica nulla, ma che fa pagare, e
che finalmente non crea nulla, poiché lui stesso perpetua questi acconti che rendono l’uomo pauroso davanti alla
sua collera ed alienato dal suo giudizio. Questa forma di Dio è troppo simile a tutti gli dèi ben conosciuti dalle
religioni divoratrici dell’uomo perché si possa parlare di un Dio nuovo contemporaneamente nascosto e rivelato.
Non è il Dio inaudito della cessazione delle vendette e della misericordia».111
La teoria della sostituzione presenta Dio alla ricerca di un capro espiatorio affinché punitolo, possa riavere
l’uomo con sé. Tale concetto però contraddice con quello del vangelo che ci presenta il Padre che fin
dall’eternità è alla ricerca della sua creatura, ma non con l’intento di condannarla.
Secondo Galot: «Il Padre non ha potuto guardare il Figlio incarnato come un peccatore. Immaginare uno
“come se”, in maniera che il Figlio innocente sia trattato da peccatore, lui che non lo era, sarebbe introdurre
nella condotta del Padre un’offesa alla verità agli occhi del Padre, Gesù non ha potuto essere che il Figlio
innocente».112
104
dr. BARUK, Civilisation hébraique et science de l’homme, p. 32.
Un ragazzo che cresceva assieme a un coetaneo reale e veniva castigato al suo posto. The Oxford Universal Dictionary.
106
WOLFF Hann, Gesù psicoterapeuta, ed. Queriniana, Brescia 1982, pp. 68,69.
107
Francesca polacco del campo di concentramento di Auschwitz. Lasciato morire di fame in una cella sotterranea. Revor Beeson,
Discreption and Valor: Religious Conditions in Russia and Easter Europe, Collins, London 1974,Vedere, p. 139.
108
È quanto crediamo sostenga anche J. Stott, o.c., p. 182
109
B. Sesboüè, o.c., pp. 49,50.
110
VINET Alexander, Lettres, vol. II, pp. 252,408; cit. da F. Godet, o.c., p. 369.
111
DUMAS André, La mort du Christ n’est-elle pas sacrificielle?, in Études Théologiques et Religieuses, 44, 1981, p. 582.
112
J. Galot, o.c., p. 165.
105
La pazzia di Dio
57
CAPITOLO IV
Anche se nella sua misericordia Dio si mette dalla parte dell’uomo e subisce il proprio giudizio per liberare
così l’umanità dalla sua condanna, questo modo di pensare, pur mettendo in risalto l’amore dell’Eterno, Lo
presenta ancora prigioniero della propria “giustizia”. Amore e giustizia non sono presentati come un tutto
indivisibile, ma in una eterna tensione. Se il Golgota, in questa prospettiva, soddisfa la giustizia punitiva (sic!) di
Dio ed esalta l’indispensabilità della condanna non fa però giustizia alla giustizia eterna, perché l’innocente,
anche se è l’Eterno stesso, non può espiare per il colpevole.
La critica degli oppositori della teoria della sostituzione è rafforzata inoltre da alcuni testi biblici.
«Non si metteranno a morte i padri per i figli, né si metteranno a morte i figli per i padri; ognuno sarà messo
a morte per il proprio peccato» Deuteronomio 24:16. «Ognuno morrà per la propria iniquità; chiunque mangerà
l’agresto ne avrà i denti allegati» Geremia 31:10. «L’anima che pecca è quella che morrà, il figlio non porterà
l’iniquità del padre, e il padre non porterà l’iniquità del figlio; la giustizia del giusto sarà sul giusto, l’empietà
dell’empio sarà sull’empio» Ezechiele 18:20. «Come è vero che io vivo, dice il Signore, l’Eterno, io non mi
compiaccio della morte dell’empio, ma che l’empio si converta dalla sua via e viva; convertitevi, convertitevi
dalle vostre vie malvagie! E perché morreste voi, o casa di Israele?» Ezechiele 33:11. Se la volontà di Dio è che
il peccatore si converta come può Egli desiderare la morte del giusto?!
Invece di soddisfare la giustizia questo pensiero la denatura.
In base a quali principi giuridici espressi nella Parola di Dio è possibile accettare la morte del giusto in
sostituzione di quella dell’empio?
I sostenitori della teoria della sostituzione giustificano la loro posizione basandosi sull’A.T.
I passi che più vengono citati sono:
Genesi 22:13 Abramo che sull’altare aveva adagiato il figlio Isacco, sacrifica poi il montone.
Tra l’altro i critici fanno notare però che questa offerta è di olocausto e non un sacrificio di espiazione per il
peccato.
Deuteronomio 21:1-9 presenta la giovenca che si sacrifica in occasione degli omicidi ignoti.
Anche i primogeniti dei figlioli d’Israele vengono riscattati mediante l’offerta dell’agnello a sostituzione
delle proprie persone (Numeri 18:15; Esodo 13:13).
Norker Fèglister fa notare: «Si deve tuttavia mettere in rilievo che qui non si tratta di sofferenza punitiva
subita al posto di altri, o di una morte espiatoria nel senso di una satisfactio poenalis. Infatti, a prescindere dal
fatto che la teologia del sacrificio dell’A.T. sembra discostarsi completamente da un tale indirizzo, i primogeniti
degli Israeliti, al cui posto sono immolati gli agnelli pasquali, non sono colpevoli di alcuna trasgressione
perseguibile».113
Infatti questi testi non sono messi in relazione con il sacrificio che espia il peccato.
In occasione del sacrificio espiatorio si poneva la mano sul capo della vittima e mediante questo rito si
stabiliva un legame, una identificazione, ma questa non aveva però valore di sostituzione penale. L’imposizione
della mano avveniva anche in occasione dell’offerta dell’olocausto e del sacrificio di azione di grazia (Levitico
1:4; 3:2) i quali esprimevano devozione e ringraziamento dell’offerente nei confronti dell’Eterno. La morte
dell’offerta permetteva di avere il suo sangue che era il mezzo con il quale Dio purificava, santificava e
consacrava a sé l’offerente il quale, riunitosi a Dio, godeva del rapporto filiale.114
Enzo Cortese fa la seguente riflessione: «Il sacrificio, di qualunque genere sia, è sempre un “pagare di
persona” (da parte dell’offerente), con i propri mezzi economici: i propri animali, i propri prodotti. In linea di
principio perciò l’idea dell’espiazione, cioè dell’omaggio riparatore fatto non dal peccatore ma da un’altra
persona esula dal sacrificio».115
In Israele il riscatto, la salvezza, la liberazione potevano essere compiute da una persona nei confronti di
un’altra mediante i propri mezzi economici o avvalendosi dei diritti di parentela o mediante un intervento
personale.
È nel cerimoniale dei popoli circonvicini che i sacrifici espiatori avevano un significato di sostituzione.
«Non si può negare - scrive ancora E. Cortese ... che nei rituali ittiti e babilonesi ci siano dei “sostituti” del
peccatore; oggetti, animali, addirittura persone… (Ma) non va dimenticato che tali sostituzioni nei riti ittiti e
babilonesi hanno un marcato carattere magico, vogliono ingannare la divinità punitrice; non hanno molto a che
fare con l’azione leale e generosa del riscattatore ebraico».116
C’è quindi una sostanziale differenza tra l’espiazione biblica e quella pagana.
A. Médébielle sostenitore della teoria sostitutiva penale secondo la quale Gesù «ha voluto soffrire e morire
con l’intento preciso di soddisfare per i peccati, che avevamo commesso e di subire le pene, che avevamo
meritato» dopo aver riconosciuto che questo insegnamento non è chiaramente formulato nella Sacra Scrittura,
113
114
115
116
FÈGLISTER Notker, Il valore salvifico della Pasqua, ed. Paideia, Brescia 1976, p. 8.
Rinviamo il lettore al capitolo che segue alla sezione imposizione delle mani.
CORTESE Enzo, Levitico, ed. Marietti, Casale Monferrato 1982, p.149.
Idem.
La pazzia di Dio
58
TEORIE PROPOSTE PER SPIEGARE LA MORTE DI GESÙ
scrive: «... la vista del sangue versato sull’altare non evoca presso gli antichi semiti, l’idea di una pena
subita».117
J. Bonsirven scrive: «Se s. Paolo avesse voluto insegnare la dottrina della sostituzione, l’avrebbe lasciato
capire con i suoi modi di esprimersi: invece quando afferma che Cristo è morto... per noi, dice “in nostro
favore”, e non “al posto nostro”. Egli usa la preposizione uper (17 volte secondo Feine) e non anti che, sola,
significa: “al posto di”».118
Per una più ampia illustrazione sulle preposizioni uper e anti, rinviamo alle nota n. 3 e 4 del cap. VI.
Gesù ha affrontato la morte volontariamente e per amore (Giovanni 10:18). La sua tragica fine non fu un
castigo da parte di Dio, egli «morì giusto per (uper = a favore) degli ingiusti» 1 Pietro 3:16. Essa ha reso
manifesto l’amore del Padre (Giovanni 3:16).
Il concetto della sostituzione vicaria è sorto in ambiente giudaico, post biblico, a causa dell’influsso dei
popoli circonvicini, e successivamente nel cristianesimo a seguito dell’epoca apostolica.119
Hary M. Orlinsky, del quale riportiamo il pensiero, sostiene che nessun personaggio biblico (e nessuno
studioso lo ha fino a questo momento indicato) ha considerato se stesso o è stato designato o considerato da altri
come un vicario per dei malvagi meritevoli di punizione. Questo concetto di vicario, del giusto che soffre per
espiare le colpe del malvagio, non può essere preso in considerazione alla luce del patto o dell’alleanza. Dio
s’impegna con Israele a benedirlo, se questi Lo accetta come sola divinità del popolo. Israele, accettando le
promesse di prosperità, s’impegna a rispettare le condizioni presentate dall’Eterno. Da questo accordo ne deriva
il patto: un contratto legale. Questo contratto assicura al fedele e al ribelle, all’innocente e al colpevole, la
ricompensa o le conseguenze negative della propria azione. Alla luce del patto quindi e di tutti i profeti può
avvenire che il giusto ed il fedele soffrano a causa del malvagio (es. deportazione in Babilonia; e gli esempi si
possono moltiplicare), ma non è comunque accettabile che il giusto soffra e subisca la pena in sostituzione, al
posto del colpevole. Ciò sarebbe stata la più grande ingiustizia, quasi una bestemmia, che colui che non rispetta
la legge è risparmiato a spese di un osservatore fedele delle direttive dell’Eterno. Da nessuna parte nella Bibbia
ebraica qualcuno ha mai predicato una dottrina - che avrebbe dovuto sostituire il patto, l’alleanza - la quale
permetteva che l’innocente venisse sacrificato al posto del colpevole e che questo insegnamento fosse
accettevole all’Eterno. Ezechiele 14:20 afferma che Noè, Daniele e Giobbe non sarebbero stati travolti dalla
catastrofe di Gerusalemme grazie alla loro giustizia, ma questa loro giustizia non avrebbero neppure potuto
trasmetterla agli abitanti infedeli e quanto meno avrebbero potuto subire la punizione a loro dovuta. Nessun
portavoce dell’Eterno avrebbe potuto annunciare che avrebbe dovuto subire una punizione vicaria a vantaggio
del popolo.
Isaia 53 presenta il Servo dell’Eterno che soffre a causa delle iniquità del popolo. Il brano è chiaramente
messianico120, ma, qualora non lo fosse, difficilmente si troverebbe un sostenitore della punizione vicaria che
pescherebbe in questo brano delle espressioni a sostegno del proprio pensiero. Isaia 53 afferma solamente che il
Servo dell’Eterno soffre a causa delle trasgressioni d’Israele come, ad esempio, il profeta Geremia fu
minacciato, percosso, messo nei ceppi, gettato in una prigione sotterranea tanto è costretto a dire di sé: «Io ero
come un docile agnello che si mena al macello» Geremia 11:19. Di Geremia nessuno pensa alla sua sofferenza
in chiave vicaria, anche se si paragona a un agnello. Neppure la sua morte, come viene riportata dalla tradizione
ebraica è vista in espiazione. Diversi profeti furono uccisi, Gesù lo ricorda come pure la lettera agli Ebrei, ma
tutti questi porta parola dell’Eterno soffrivano a causa della loro vocazione: era il “rischio del mestiere”. Anche
il Servo dell’Eterno soffre come coloro che lo hanno preceduto, a causa, a motivo dei peccati, della ribellione
del popolo, ma mai al suo posto. Quando il popolo si è ravveduto, non è perché l’innocente ha sofferto al posto
del colpevole, ma perché la parola di Dio o/e anche la sofferenza del profeta o del giusto sono riuscite a fare
opera di esortazione al pentimento.
Da diversi secoli si spiega Isaia 53 in chiave di sostituzione vicaria, ma è interessante notare che
praticamente ogni studioso che ha affrontato questo soggetto, ha dato per scontata questa interpretazione; chi
l’ha voluta sostenere andando più in profondità lo ha fatto identificando il Servo dell’Eterno con il capro
emissario per Azazel. Questa identificazione travalica il testo biblico ed è stata causa di affermazioni che hanno
portato ombra alla Rivelazione.121
Gli stessi sostenitori della teoria della sostituzione si trovano in difficoltà per giustificarla e darle una
motivazione soddisfacente. Giovanni Calvino alla conclusione del suo commento di Galati 3:13 si chiede e
spiega: «Come il Cristo ci ha liberati dall’ira di Dio, se non l’ha ritrattata, da noi per convogliarla su di Sé? Per
questo motivo, è stato colpito per i nostri peccati, e ha sentito il rigore di Dio, come di un giudice crucciato. È
117
MÉDÈBIELLE A, Expiation, in Supplement au Dictionaire de la Bible, vol. III, col. 258.
BONSIRVEN Giuseppe, Il vangelo di Paolo, 3a ed. Paoline, Roma 1963, p. 252. I testi sono: Romani 5:6,8; 14:15; 2 Corinzi 5:15; 1
Tessalonicesi 5:10; Tito 2:14; Romani 8:32; 1 Corinzi 11:24; 1 Timoteo 2:16; 1 Corinzi 1:13.
119
Secondo J. Stott, il professor Martin HENGEL, Atonement, p. 1-32, ha illustrato con grande erudizione questo concetto.
120
Vedere capitolo seguente.
121
ORLINSKI Harry M., in Supplements to Vetus Testamentum, in Studies on the Second part of the book of Isaiah - the socalled
‘Servant of the Lord’ And ‘Suffering Servant’ in second Isaiah, vol. XIV, Leiden, E.J. Brill, 1967, pp. 51-58.
118
La pazzia di Dio
59
CAPITOLO IV
questa la follia della croce ammirata dagli stessi angeli, la quale non soltanto supera, ma ingloba tutta la
saggezza del mondo (1 Corinzi 1:18)».122
Lo stesso disagio è espresso da A. d’Alès in questi termini: «Il principio della sostituzione penale,
inaccettabile come tesi generale e in diritto, poiché è essenza del castigo cadere su un colpevole, prende un
tutt’altro valore nei confronti della Redenzione, prima a causa della solidarietà di natura che fa del Cristo il
rappresentante nato dall’umanità intera, poi, a causa della generosità che lo fa soffrire spontaneamente, solo per
tutti, ai colpi della giustizia divina; in fine a causa del piacere divino che gradisce la sostituzione».123
In altre parole siccome questa teoria della sostituzione non può essere comprensibile e logica per la ragione
umana la si deve accettare perché fa parte di una sapienza superiore, gli angeli l’ammirano, dice Calvino, e deve
essere accettata perché fa parte «del buon piacere divino che gradisce la sostituzione» conclude d’Alès. Ci
sembra che coloro che sostengono la sostituzione vicaria si trovino impacciati nel giustificarla e fanno della
propria illogicità l’infinita sapienza di Dio. Però la sapienza di Dio superò quella umana non perché è
incomprensibile alla ragione e l’annulla, ma perché essa è il frutto completo di ciò che Dio ha seminato nel
cuore dell’uomo. Non crediamo che si possa affermare: siccome una potentissima luce acceca e colui che è cieco
vive nel buio, il buio è luce.
Se la morte di Gesù, con il suo atroce supplizio sono volute dal Padre e tutto corrisponde a un disegno
prestabilito e programmato dall’Eterno, ha ragione allora Giuseppe Berto, nel suo libro, La Gloria, quando mette
nella mente e in bocca a Guida le seguenti riflessioni: «Io, Giuda, da Te (Gesù) segnato come figlio della
perdizione, sono stato semplicemente strumento affinché si adempisse una Scrittura, cioè fosse fatta la
misteriosa volontà dell’Eterno? - Era scritto che qualcuno avrebbe consegnato, e io mi dissi disposto a
consegnare il mio Rabbi, Gesù da Nazaret di Galilea. - Tutto risolto, per tutti e per sempre. Io solo dannato e
maledetto per ciò, perché ciò avvenisse. Lui lo sapeva che la sua gloria sarebbe stata dovuta anche a quel che io
pagavo in ignominia e dannazione eterna. - Ma noi due (Giuda e Gesù) sapevamo che non c’era possibilità di
scontro, né di variazioni: dovevamo realizzare un evento già scritto, stando tutti e due nella necessità di una
mostruosa innocenza, o di un’ancor più mostruosa inconsapevolezza. Fu il mio ultimo dovere d’amore, e ciò che
sarebbe accaduto dopo ne avrebbe dato spiegazione e giustificazione, l’avrebbe fatto entrare nella gloria come
necessità, e poco importa ch’io fossi destinato a pagarlo con dannazione. - Per due volte quasi di seguito, in quel
disperato passaggio che concludeva la sua difficile lotta per l’accettazione, egli aveva parlato della inevitabilità
che accadesse secondo quanto era stato stabilito dal padre nell’infinità dei tempi. Egli sempre faceva le cose
gradite al padre, non sarebbe stato abbandonato. Poi concluse dicendo: “D’altronde questa è la vostra ora e le
tenebre dominano”. Voleva, con queste parole rivolte anche a me, ricacciare il mio tradimento nella sfera delle
azioni responsabili e comunque punibili? Era il suo conciso commiato, dopo ch’io avevo mantenuto gli impegni,
e dovevo andarmene dalla storia?».124
Claudia Cardinale nel film Nell’anno del Signore, nelle vesti di una giudea, nella Roma del 1825, doveva
assistere tutti i sabati alla messa, a sfregio della razza ebraica, durante la quale un frate, nella sua omelia,
accusava gli ebrei presenti quali responsabili della morte di Gesù i quali, per non sentire quanto veniva detto,
avevano tappato le orecchie col cotone, dice: «Ma se era nel disegno della Provvidenza che Cristo penasse e
morisse da uomo, qualcuno lo doveva uccidere. Siamo stati noialtri giudei. Abbiamo fatto male? Io dico che
abbiamo batto bene. Così abbiamo compiuto la volontà di Dio. Ci dovrebbero rispettare».125
Sul piano morale questa teoria solleva altre obiezioni. Scriveva G. Frommel: «Se Gesù ha pagato a Dio ciò
che noi gli dobbiamo, la conseguenza naturale è che non ci rimane più nulla da fare. Con quale diritto Dio ci
domanderebbe ciò che Cristo gli ha già fornito e che era l’equivalente di tutti gli sbagli reali e possibili
dell’umanità? Per questo motivo in quale disordine ci si mette, lo si fa impunemente, perché qualunque cosa si
faccia si è coperti dal sacrificio espiatorio. La dottrina va contro la santificazione cristiana e, nello stesso tempo,
contro tutto il cristianesimo. Essa favorisce la tiepidezza, l’indifferenza morale, e, come si esprime il Catechismo
di Cracovie, apre la finestra alla licenza del peccato».126
Mons. R. G. Bandas a introduzione delle teorie panali moderne, che si differenziano tra di loro per
particolari dialettici che sostanziali, scrive: «Non vediamo alcuna necessità di spender molte parole circa talune
teorie per le quali Cristo diventa nella sua Passione e morte l’oggetto dell’ira del Padre, una maledizione e un
anatema da prendersi nel senso reale del termine, un proscritto da Dio, un peccatore universale, un oggetto di
repulsione da parte di tutta la corte celeste, uno che soffre tutte le pene dei dannati, uno che il Padre non solo ha
abbandonato, ma che va perseguitando, uno che a morte non verrà prima che Dio non abbia scaricato sulla sua
persona tutta la sua ira. Sono tutti concetti e modi di dire che anche se sfruttati talvolta dagli oratori sacri del
Cattolicesimo a fini retorici, non hanno niente a che fare con la teologia cattolica patristica e tradizionale.127 Il
122
CALVIN Jean, Commentaire sur l’Épître aux Galatien, p. 698.
cit. da L. Sabourin, o.c., p. 148.
124
BERTO Giuseppe, La Gloria, Oscar Mondadori, 1978; pp. 159,164,167,168,176, 177,178.
125
CARDINALE Claudia in Nell’anno del Signore, regia di Luigi Magni, 1969.
126
FROMMEL Gaston, L’expérience chrétienne, Un cours dogmatique, éd. Attinger Frère, Neuchâtel 1916, pp. 156,157.
127
RIVIÈRE, Le dogme de la Rédemption, p. 227 e seg., 385 e seg.; RICHARD, art. La Rédemption mystère d’amour, in Recherche de
Science Religieuse, ottobre 1923, pp. 397-418
123
La pazzia di Dio
60
TEORIE PROPOSTE PER SPIEGARE LA MORTE DI GESÙ
Dio che simili concetti suppongono è un nume crudele, sanguinario, reso folle dall’ira, dal furore, dalla sete di
vendetta, pronto a prender diletto del sangue delle sue vittime: non è né il Dio della ragione, né tanto meno
quello delle epistole di S. Paolo.128 Queste fantasie violente e oltraggiose ci vengono difilato dai teologi luterani
della Riforma, e rappresentano un tipo di concetti di cui gli scrittori cattolici si sono sempre ben guardati di
toglier loro il monopolio».129
Senza voler essere irriverenti, quello che sconcerta in questa teoria è: Dio compie il Suo giudizio, condanna
il Figlio alla pena della Sua ira senza però sporcarsi le mani e, come il mandante, utilizza l’uomo come suo
agente.
TEORIA DELLA SODDISFAZIONE E DEI MERITI
«Con la categoria della soddisfazione affrontiamo un vocabolario che non appartiene alla Scrittura. Questo
termine ci viene dalla tradizione ecclesiale e ha conosciuto una grande fortuna nell’Occidente latino a partire dal
Medioevo… Il suo valore specifico consiste nel dire che non vi può essere riconciliazione fra Dio e l’uomo
senza che quest’ultimo cerchi di riparare, nella misura del possibile, il male che ha commesso.
Il termine “soddisfazione” deriva dal diritto romano. La prima cosa da precisare è che esso non indica il
pagamento totale di un debito o la compensazione rigorosa del male commesso. Satisfacere significa fare
abbastanza. Nel diritto romano la soddisfazione sostituiva il pagamento di un debito: il creditore liberava il
debitore che aveva fatto ciò che aveva potuto, che aveva fatto abbastanza».130
Questa teoria è la conseguenza della precedente e diverse volte i teologi le fondono. È stata introdotta nella
Chiesa da Tertulliano, giurista che svolse un ruolo notevole nel formulare il linguaggio teologico cristiano.
Formulò questo concetto ponendolo in relazione alla condotta penitenziale: «Affliggendo la carne e lo spirito,
noi soddisfacciamo per il peccato e, nello stesso tempo, ci premuniamo contro le tentazioni».131 «Tu l’hai offeso,
ma puoi ancora riconciliarti con lui. Hai a che fare con uno che accetta una soddisfazione, anzi la desidera».132
Tertulliano ha usato il termine in forma incidentale senza stabilire una regola precisa. In seguito la Chiesa
chiederà al peccatore un’azione di soddisfazione a riparazione del male fatto per manifestare anche la propria
conversione. Venne poi espressa da Agostino, ma fu poi S. Ambrogio che utilizzò il termine di soddisfazione
in relazione alla croce. Collegando due testi del Salmo 38:20: «Essi mi odiano ingiustamente» con il Salmo
69:5: «Essi mi odiano senza motivo» osservava: «Alcuni pensano che questi due Salmi parlino della persona di
Cristo, che soddisfaceva il Padre per i nostri peccati».133 Ambrogio insegnava che il riscatto era stato pagato al
diavolo: «Il prezzo della nostra liberazione era il sangue del Signore Gesù, che bisognava necessariamente
pagare a colui a cui noi ci eravamo venduti con i nostri peccati».134 Il vescovo di Milano vedeva in questo costo
elevato del riscatto-salvezza anche la soddisfazione. In seguito questa espressione verrà utilizzata a proposito
dell’intercessione dei santi e del sacrificio eucaristico. In una preghiera dei cristiani spagnoli, durante la
dominazione araba, recitava: «Ti offriamo, Padre sovrano, questa (ostia immacolata) per la tua santa Chiesa, per
la soddisfazione del mondo peccatore, per la purificazione delle anime, per la guarigione di tutti gli infermi, per
il riposo o l’indulgenza in favore dei fedeli defunti».135
Questa spiegazione ha trovato nell’italiano Anselmo d’Aosta (1033-1109), che ha vissuto per numerosi anni
in Normandia e nominato arcivescovo di Canterbury nel 1093, la sua formulazione classica nel suo libro “Cur
Deus homo?”.
Con qualche leggera modifica è stata sostenuta dal Concilio di Trento (1545-1563). Nel Medio Evo si è
cercato di spiegare il sacrificio della croce con il diritto germanico in vigore nel periodo feudale, aggiungendovi
il senso dell’onore vivo tra i cavalieri del tempo. La mancanza di onore era offesa di lesa maestà che richiedeva
soddisfazione a ogni costo. Il sangue, conseguenza del duello, lavava l’affronto subito.
«Se nessun libro ha tanto influito sulla dottrina della redenzione in Occidente come il Cur Deus homo di
sant’Anselmo, nessun teologo della tradizione è oggi più segno di contraddizione al pari di lui. Possiamo parlare
di un processo intentato nei suoi riguardi, processo i cui accusatori e difensori alternano i loro argomenti».136
128
I teologi protestanti hanno spesso protestato contro simili concetti; scrive il ROBERTS in Salvation through Atonement, p. 52: «La
riconciliazione è opera delle tre persone divine cooperanti in santa armonia. È la rivelazione dell’amore infinito delle tre persone unico Dio.
Per amore il Padre dona il suo Figlio diletto; per amore il Figlio dona sé stesso; per amore lo Spirito Santo coopera in ogni momento all’opera
di amore. Il Figlio è il “diletto”, non solo al battesimo e alla trasfigurazione, ma anche al Getzemani e sulla croce» conf anche LODGETT,
The spiritual Principe of the Atonement, pp. 380-397.
129
R. G. Bandas, o.c., p. pp. 217,218.
130
B. Sesboüé, o.c., pp. 369,370.
131
Tertulliano, Trattato sul battesimo, XX,1; cit. B. Sesboüé, o.c., p. 370
132
Tertulliano, A penitenza, VII, 14; cit. B. Sesboüé, o.c., p. 370
133
Ambrogio, Psalmo XXXVII enarratio, 53; PL, 14; 1036; cit. B. Sesboüé, o.c., p. 371
134
Ambrogio, Epistole, 72,8; PL 15, 1245 c – 1246 a; cit. B. Sesboüé, o.c., p. 371
135
Liber mozarabicum sacramentorum, 13, ed. Férotin, Didot, Paris 1912, col. 55; cit. da J. Rivière, Sur le première application du terme
“satisfactio” à l’œuvre du Christ, IV, in Bulletin de Littérature Ecclesiastique, 1924, p. 364.
136
CORBIN M., in Anselmo di Cantorbury, Lettre sur l’incarnation du Verbe. Pourquoi un Dieu-homme, Cerf, Paris 1988, pp. 17-23; cit.
Sesboüé, o.c., p. 371.
La pazzia di Dio
61
CAPITOLO IV
Nello scritto di sant’Anselmo possiamo cogliere domande tanto “moderne” che riflettono la nostra
sensibilità, come: «Che giustizia è condannare a morte il più giusto degli uomini in luogo del peccatore? Quale
uomo non sarebbe giudicato colpevole, qualora condannasse un giusto per liberare un reo?… Se infatti non poté
salvare i peccatori che condannando il giusto, dov’è la sua onnipotenza? Se invece poté ma non volle, come
difenderemo la sua sapienza e la sua giustizia? (I:8)».137 «Desta meraviglia che Dio goda e abbia bisogno del
sangue di un innocente e che non voglia o non possa perdonare al colpevole senza la morte di un innocente
(I,10)».138 Dio Padre «non lo costrinse a morire e neppure permise che fosse fatto morire contro volontà; ma
piuttosto fu proprio questi ad abbracciare spontaneamente la morte per salvare gli uomini (I:8)».139
Se i giudei l’hanno perseguitato fino alla morte, ciò avvenne perché egli: «si teneva tenacemente attaccato
alla verità e alla giustizia nella vita e nell’insegnamento (I:9)».140
«Una misericordia che non tenesse conto della giustizia sarebbe indegna di Dio. Il lavoro del pensiero mira
all’“unione sovraeminente dei due contrari che sono la giustizia e la misericordia”.141 Essa rivela allora che in
Dio “la giustizia o non misericordia è più misericordia di ogni misericordia umana”142».
«Per quel riguarda la necessità della morte di Cristo, Anselmo è molto al di sopra delle caricature correnti:
egli rende conto della triangolazione dei partner, che sono il Padre, il Figlio e gli uomini peccatori. Dio non
condanna il Figlio a morte e non vuole questa morte come tale; l’atto degli uomini è il peccato più grande che si
possa immaginare; il Figlio è andato liberamente incontro alla morte nel compimento volontario della sua
missione e ha offerto la propria vita con un amore totale e perfetto. La morte di Cristo non è quindi soggetta ad
alcuna necessità che si imporrebbe alla volontà divina (II:17), ma è il risultato d’una decisione libera della
Trinità desiderosa di salvare l’uomo. Tuttavia tale morte non necessaria di Cristo diventa necessaria se vista
dalla parte della salvezza da procurare agli uomini, perché essa è la sola cosa supererogatoria che Cristo possa
offrire al Padre suo senza dovergliela già…. Ma Anselmo insiste sorprendentemente sul fatto che la vita di
Cristo non bastava alla nostra salvezza, se essa non si spingeva fino alla morte…. È l’ordine della giustizia a
esigere la morte».143
Scriveva S. Anselmo: «Necesse est ut omne peccatum aut paena aut satisfactio sequatur - È necessario che
la pena o la soddisfazione segua ogni peccato» affermava Anselmo, nella sua opera classica, scritta nella
maturità dei suoi 65 anni, in latino sotto forma di dialogo tra Boso e lui, nel villaggio Schiavi, presso Roma.
Per Anselmo il peccato è il rifiuto di dare a Dio, quale sovrano dell’universo, ciò che gli è dovuto.144 Ogni
creatura pensante deve sottomettersi alla volontà dell’Eterno. È in questo modo che la si onora. Chiunque si
sottrae alla sua legge gli si rivolta, deruba Dio del suo onore. Tollerare che una creatura faccia questo affronto al
Creatore sarebbe commettere la più intollerabile ingiustizia perché essa metterebbe in gioco la dignità di Dio,
introducendo nella sua creazione un principio di disordine e ne guasterebbe la bontà. Niente è più giusto per Dio
che salvaguardare il suo proprio onore. I mezzi a sua disposizione sono due. L’uomo deve restituire a Dio
l’onore che gli ha derubato e aggiungervi anche qualcosa in più in segno di riparazione all’oltraggio fatto, o, in
mancanza di questo, Dio dove riconquistare il suo onore fosse anche con la forza. O l’uomo ripara
volontariamente, o Dio gli infligge la sua pena costituita dai tormenti del fuoco eterno dell’inferno inflitti al
posto della felicità eterna che avrebbe dovuto godere. Ma l’uomo, una volta caduto nel peccato, è
impossibilitato, pur se lo volesse, a dare soddisfazione a Dio per riparare la grave offesa145 di lesa maestà, e tutto
ciò che egli può fare di buono e di meritorio - pur non potendo cancellare il peccato - è dovuto comunque alla
grazia, al dono di Dio. D’altronde, l’onore dovuto all’Eterno, al Creatore, vale più dell’intero universo. Così, per
dirla con le parole del citato Anselmo, se su un piatto di una bilancia si mettesse il valore del mondo intero e
sull’altro la minima disubbidienza alla volontà di Dio, questa peserebbe così tanto da far scendere il piatto. Da
qui l’evidenza che la creatura umana, non potrà mai pagare il debito infinito contratto con il suo Creatore.
Dopo avere sviluppato il concetto immutabile della giustizia divina, Anselmo presenta l’altra immutabilità
di Dio: la sua natura di amore. La bontà di Dio non può abbandonare il disegno della grazia manifestata nella
creazione dell’umanità, anzi essa esige che sia completata. Per conciliare in Sé queste due esigenze: giustizia e
137
Idem, p. 327; cit. Sesboüé, o.c., p. 373.
Idem, p. 339; cit. Sesboüé, o.c., p. 373.
139
Idem, p. 327; cit. Sesboüé, o.c., p. 373.
140
Idem, p. 329; cit. Sesboüé, o.c., pp. 373,374.
141
Idem, introduzione, p. 46; cit. Sesboüé, o.c., p. 383.
142
Idem, p. 47; cit. Sesboüé, o.c., p. 383.
143
B. Sesboüé, o.c., pp. 389,390.
144
Anselmo definiva il peccato: «non rendere a Dio ciò che gli è dovuto» I.XI. «niente è meno tollerabile … del fatto che la creatura
possa sottrarre al Creatore l’onore a lui dovuto, senza restituire quanto aveva sottratto» I.XIII. «Non è confacente al carattere di Dio lasciare
il peccato impunito» I.XII. «Se non si addice a Dio il compiere qualcosa di ingiusto o di illegale, non rientra negli obiettivi della sua libertà,
misericordia o volontà di lasciare impunito il peccatore che non restituisce a Dio quanto gli ha sottratto» I.XII. «Non c’è nulla che, assai
giustamente, Dio voglia sia rispettato quanto l’onore della sua dignità» I.XIII. Vedere J. Stott, o.c., p. 157.
145
«L’uomo peccatore deve a Dio, a causa del suo peccato, ciò che non può restituire e, a meno che non lo restituisca, non può essere
salvato» I:XXV.
138
La pazzia di Dio
62
TEORIE PROPOSTE PER SPIEGARE LA MORTE DI GESÙ
amore, Dio deve trovare un essere che sia all’altezza di un simile compito, essere che deve avere un valore più
grande di tutto, all’infuori di Dio; allora costui non poteva e non può essere che Dio stesso.146
Siccome il debito doveva essere pagato dall’uomo e solo Dio poteva fornire questa soddisfazione a se
stesso, era dunque necessario che Dio si facesse uomo: tale è la risposta alla domanda: “Cur Deus homo? Perché Dio si è fatto uomo?”.
La soddisfazione che questo uomo Dio avrebbe dovuto fornire alla giustizia divina non doveva essere
soltanto una ubbidienza ai comandamenti di Dio. Questa ubbidienza è quanto deve offrire naturalmente qualsiasi
persona al suo Creatore e quindi, come tale, non avrebbe riparato il male fatto. Ma questo uomo Dio, essendo
onnipotente e senza peccato, offrendo la sua vita, elargisce qualcosa che è di un prezzo infinito, sufficiente e
pure superiore per compensare il debito dell’uomo.147 Tramite il suo sacrificio, la seconda persona della Trinità
avrebbe acquistato un merito148 che il Padre non avrebbe lasciato senza ricompensa. Al Figlio appartiene tutto di
diritto fin dall’origine e non potendo, per la sua natura, essere personalmente ricompensato, perché già tutto gli
appartiene, l’opera che compie sulla terra gli dà il diritto d’avere un sovrappiù di merito, il cui beneficio potrà
essere ripartito, riversato, donato ai peccatori per la loro salvezza. Ed essi, grazie a quanto acquistato da questo
uomo Dio, possono avere il loro debito - contratto con la divinità - pagato o, meglio saldato. Così in virtù di
questa opera si ha il doppio trionfo della giustizia e della misericordia di Dio.
«Dio - afferma Anselmo - trova bella la sua morte in croce perché la giustizia è placata».
Lo sviluppo di questa dottrina farà dire al Concilio di Trento: il Cristo «con la sua santissima passione, sul
legno della croce, ci ha meritato la giustificazione».149
J. Calvino considerava dunque per Cristo «sopportare la severità della vendetta di Dio, per appagare la sua
ira e soddisfare il suo giusto giudizio». 150
Crediamo di poter dire che tutte le teorie che abbiamo presentato hanno degli elementi comuni ed è quindi
impossibile tranciare nettamente una dall’altra. Desideriamo concludere questa sezione con il tentativo di J.
Stott di spiegare il valore di questa teoria della soddisfazione che potrebbe avere come epigrafe: Dio deve
soddisfare se stesso. Scusiamo il lettore del lungo pensiero che riportiamo perché riteniamo opportuna questa
esposizione che crediamo dimostri che queste teorie storiche, ormai secolari, sono ancora fortemente radicate
nel tessuto cristiano, anche se numerose voci, come abbiamo riportato, le danno per superate e sepolte nella
sabbia del tempo. Riteniamo che quanto è stato espresso a tale proposito sia più un desiderio che una realtà. J.
Stott, con alcuni degli autori da lui citati ne è purtroppo la riprova.
Scrive J. Stott: «A dire il vero, “soddisfazione” e “sostituzione” non sono parole contenute nella Bibbia, e
ciò ci obbliga e procedere con grande cautela, ma entrambe esprimono un concetto biblico. C’è difatti una
rivelazione biblica concernente la “soddisfazione mediante la sostituzione”, che dà grande onore a Dio, e
dovrebbe perciò trovarsi al centro dell’adorazione e della testimonianza cristiana.
146
Da qui scaturisce il dilemma con il quale termina il libro I:
L’unica soluzione possibile al dilemma umano è svelata proprio agli inizi del libro II: «“non c’è nessun altro .. che può offrire questa
soddisfazione se non Dio stesso … Ma nessun altro dovrebbe farlo se non l’uomo; altrimenti non è l’uomo ad offrire la soddisfazione».
Dunque, «è necessario che una persona la quale sia contemporaneamente Dio e uomo faccia ciò» II.VI. Un essere che sia Dio e non uomo,
uomo e non Dio, o un misto di entrambi, e perciò né uomo né Dio, non sarebbe adatto a tale compito. «È necessario che la stessa Persona che
compie la soddisfazione sia perfetto Dio e perfetto uomo, poiché nessuno deve compierla se non uno che è veramente uomo» I.VII.
147
Ciò porta Anselmo ad introdurre Cristo; egli era (ed è) una Persona unica, poiché in lui «s’incontrano Dio e la Parola e l’uomo» II.IX.
Egli compì un’opera unica perché diede se stesso alla morte – non come debito (poiché era senza peccato e dunque non era sottoposto ad
alcun obbligo di morte), ma liberamente per difendere l’onore di Dio. Era anche giusto che l’uomo, «il quale peccando rubava se stesso a Dio
portandovisi il più lontano possibile, dovesse, nell’offrire la soddisfazione richiesta, arrendersi a Dio con la stessa completezza», cioè
offrendosi alla morte volontariamente. Malgrado la gravità del peccato umano, la vita dell’uomo-Dio fu talmente giusta, elevata e preziosa,
che l’offerta di se stesso alla morte «superò il numero e la grandezza di tutti i peccati» II.XIV, fornendo la riparazione richiesta dall’onore
offeso di Dio. Vedere J. Stott, o.c., pp. 158,159.
148
La dottrina delle indulgenze, insegnamento tra i più iniqui che il cattolicesimo romano sia riuscito a creare nel Medio Evo, e che
continua ad essere insegnato, creduto e proposto ai fedeli nella chiesa anche alla fine del secondo millennio, riproposto da Giovanni Paolo II
nella sua lettera… con la quale indice il Giubileo dell’anno santo ai fedeli a Roma, ha come suo supporto la dottrina dei meriti. Riportiamo
quanto Laura RONCHI DE MICHELIS scrive in Anno santo, giubileo romano o giubileo biblico?, ed. Claudiana, Torino 1999, pp. 19-21:
«L’offesa recata a Dio deve essere compensata col il pagamento delle pene. Dio diviene un creditore severo: per assolvere egli pretende
dall’essere umano la soddisfazione e permette poi di commutare in pene temporali le pene eterne che gli sarebbero dovute per il peccato
commesso… Una volta che il creditore era diventato Dio … chi pagava alla giustizia di Dio ciò che il peccatore esonerato avrebbe dovuto
pagare? La risposta viene da Alessandro di Hales (1186-1245) che esaltando l’idea della funzione sacramentale della chiesa e fondendola con
l’idea della chiesa come comunità di santi, formula la dottrina del “tesoro dei meriti”. Cristo, Maria e tutti i santi hanno, nella loro vita,
accumulato più meriti di quanto non fossero necessari alla propria salvezza; tutti quelli in più, però, non sarebbero stati dispersi ma, messi in
comune, avrebbero costituito un tesoro che grazie al potere delle chiavi i papi possono amministrare, e dispensare con l’indulgenza, a
beneficio di tutti gli altri fedeli che si trovano in difetto. La dottrina, fissata poi definitivamente da Tommaso d’Aquino, prevede già che
l’indulgenza possa per estensione essere applicata anche ai defunti che si trovano in purgatorio. L’indulgenza, espone il canone 911 del
Codice di diritto canonico, è la remissione dinanzi a Dio della pena temporale dovuta per i peccati già cancellati quanto alla colpa, remissione
che l’autorità ecclesiastica accorda dal tesoro della chiesa, per i vivi a modo di assoluzione e per i defunti a modo di suffragio. Tale dottrina,
rimasta nella sostanza stabile attraverso i secoli, viene riassunta in breve da Giovanni Paolo II nella bolla d’indizione del giubileo del 2000».
149
DENZINGER H. SCHTMMENTZER A., Enchiridion Symbolorum, ed. 32, 1963, p. 1526; cit. J. Galot, o.c., p. 231.
150
G. Calvino, Istituzione, II.XVI.10: cfr II.XII,3.
La pazzia di Dio
63
CAPITOLO IV
Quali esigenze devono essere soddisfatte perché essi (gli ostacoli sulla strada del perdono) siano eliminati? E
chi le ha richieste? Il diavolo? La legge, l’onore o la giustizia di Dio, oppure “l’ordine morale”? Tutte queste
soluzioni sono state proposte, ma dimostrerò come l’“ostacolo” primario si trovi in Dio stesso; Egli deve
“soddisfare se stesso” nel progetto di salvezza da lui decretato, non può salvarci contraddicendosi.
Non dobbiamo, quindi, parlare di Dio che punisce Gesù o di Gesù che persuade Dio, perché nel farlo li si
pongono l’uno contro l’altro come se agissero indipendentemente l’uno dall’altro, o fossero addirittura in
conflitto l’uno contro l’altro. Non dobbiamo mai fare di Cristo l’oggetto della punizione di Dio o di Dio
l’oggetto della persuasione di Cristo, perché sia Dio sia Cristo erano soggetti e non oggetti, e avevano preso
insieme l’iniziativa di salvare i peccatori. Qualunque cosa sia accaduto sulla croce nei termini di “abbandono di
Dio”, fu volontariamente accettato da entrambi nello stesso santo amore che aveva reso necessaria l’espiazione.
Fu “Dio nella nostra natura ad essere abbandonato da Dio”.151 Se il Padre “ha dato il Figlio”, il Figlio “ha dato
se stesso”. Se il “calice” del Getzemani simboleggiava l’ira di Dio (sic), esso era comunque “dato” dal Padre
(Giovanni 18:11) ed era volontariamente “bevuto” dal Figlio. Se il Padre aveva “mandato” il Figlio, il Figlio era
“venuto”. Il Padre non aveva sottoposto il Figlio a un cimento che egli stesso era riluttante ad affrontare, né il
Figlio aveva estorto al Padre una salvezza che questi era riluttante a concedere. In nessuna parte del N.T. vi è un
sia pur minimo accenno ad una qualunque discordia tra il Padre e il Figlio, “sia per un perdono strappato dal
deve
Figlio a un Padre maldisposto, sia per un sacrificio imposto dal Padre ad un Figlio riluttante”.152 Dio
soddisfare se stesso nel suo amore santo. Egli era riluttante ad agire con amore alle spese della sua santità o ad
agire santamente alle spese del suo amore. Quindi, possiamo dire, egli ha soddisfatto il suo amore santo
morendo egli stesso la morte e caricandosi del giudizio che i peccatori meritavano. Egli ha richiesto e nello
stesso tempo ha accettato le pena per il peccato umano. Ed egli lo ha fatto per essere “giusto” e giustificante
“colui che ha fede in Cristo” Romani 3:26. Ora non si tratta più del Padre che infligge la punizione al Figlio o
del Figlio che interviene presso il Padre a nostro beneficio, in quanto il Padre stesso, nel suo amore, prende
l’iniziativa, porta egli stesso la pena del peccato e perciò muore. Quindi non vi è precedenza né della “richiesta
dell’uomo a Dio” né della “richiesta di Dio all’uomo”, ma in modo supremo “la richiesta di Dio a Dio, Dio che
soddisfa la sua propria richiesta”.153 “Egli deve sia infliggere la punizione sia prenderla su di sé. Ed egli ha
scelto la seconda possibilità, onorando la legge e nello stesso tempo salvando il colpevole. Egli ha preso su di sé
il suo proprio giudizio”.154
Il nostro sostituto, dunque colui che prese il nostro posto e morì la nostra morte sulla croce, non era né solo
Cristo, né solo Dio, ma Dio in Cristo, che era veramente e pienamente sia Dio sia uomo, e per tale ragione era
l’unico qualificato a rappresentare sia Dio sia l’uomo e a mediare tra di loro.
Questa sottomissione (del Figlio) era del tutto volontaria, tanto che la sua volontà e quella del Padre erano
sempre in perfetta armonia (Giovanni 10:18; Marco 14:36; Ebrei 10:7; Salmo 40:7,8). C’era ancora di più;
secondo Giovanni, egli parlò di una mutua e reciproca “dimora”, egli nel Padre e il Padre in lui e persino di
un’unione tale da “essere uno” (Giovanni 14:11; 17:21-23; 10:30).
Anselmo aveva ragione nel credere che solo l’uomo dovrebbe compiere la riparazione per i suoi peccati,
dato che è stato lui a commetterli. E aveva ragione anche nel dire che solo Dio poteva compiere la necessaria
riparazione, poiché è lui ad averla richiesta. Gesù Cristo è perciò l’unico Salvatore poiché egli è l’unica persona
in cui il “dovrebbe” e il “poteva” si incontrano, essendo egli stesso sia Dio sia uomo.
G. Buttrick ha scritto di un quadro in una chiesa d’Italia: al primo sguardo esso è come ogni altro dipinto
della crocifissione. Ma se lo si osserva più attentamente, ci si accorge della differenza perché, dietro a quella di
Gesù, c’è una Figura grande e oscura. Il chiodo che trafigge la mano di Gesù, la attraversa e raggiunge la mano
di Dio, la spada infilzata nel fianco di Gesù, trapassa anche il fianco di Dio.155
Abbiamo iniziato, dimostrando che Dio deve “soddisfare se stesso”. Questa necessità interna è il nostro
punto fisso di partenza. Come conseguenza, sarebbe impossibile per noi peccatori rimanere eternamente gli unici
oggetti del suo santo amore, perch’egli non può punirci e perderci allo stesso tempo. Da qui la seconda
necessità, quella della sostituzione. Il solo modo per cui il santo amore di Dio possa essere soddisfatto è quello
di dirigere la sua santità nel giudicare verso il sostituto designato, così che il suo amore possa essere diretto
verso di noi nel perdonarci. Il sostituto porta la pena, così che noi peccatori possiamo ricevere il perdono. Chi è
allora il sostituto? Certamente non Cristo se lo si considera una terza parte. Ogni concetto di sostituzione penale
in cui tre attori indipendenti abbiano un ruolo – la parte colpevole, il giudice che punisce e la vittima innocente –
deve essere ripudiato il più veementemente possibile. Non sarebbe solamente ingiusto in sé ma rifletterebbe pure
una cristologia deficitaria. Perché Cristo non è una terza persona indipendente, ma il Figlio eterno del Padre, che
151
MURRAY John, Redemption Accomplished and Applied, Grand Rapids, Eerdmans 1955, Carlisle, Banner of Truth 1961, p. 77 cit.
J. Stott, o. c., p. 203.
152
MARSHALL I.H., The Work of Christ, Paternoster Press, Exeter 1969, p. 74; cit. idem, p. 204.
153
FORSYTH P.T., Justification of God, Duckworth, London 1916, p. 35; cit. idem, p. 205.
154
FORSYTH P.T., The Cruciality of the Cross, Hodder & Stoughton, London 1909, pp. 205,206; cit., idem, p. 206.
155
BUTTRICK George A., Jesus Came Preaching, una lezione fatta a Yale e pubblicata nelle “Yale Lectures”; Scribner, New York
1931, p. 207. L’illustrazione di questo quadro può essere preso in prestito da chiunque voglia parlare della sofferenza di Gesù e del Padre al
Golgota.
La pazzia di Dio
64
TEORIE PROPOSTE PER SPIEGARE LA MORTE DI GESÙ
è uno con il Padre nella sua natura essenziale. (p. 214) Quindi nel dramma della croce non vediamo tre attori, ma
due: da un lato noi e dall’altro Dio. Non Dio in quanto se stesso (il Padre), ma ciò nondimeno sempre Dio, Diofatto-uomo-in-Cristo (il Figlio). Da qui l’importanza di quei passi del N.T. in cui si parla della morte di Cristo
come della morte del Figlio di Dio; per esempio, Giovanni 3:16; Romani 8:2 e 5:10. Infatti nel dare suo Figlio
egli ha dato se stesso. E così stando le cose, è lo stesso Giudice che nel suo santo amore ha assunto la parte della
vittima innocente, perché nella persona di suo Figlio e per mezzo suo egli stesso ha portato la pena da lui inflitta.
R.W. Dale così esprime quanto è avvenuto: “l’unità misteriosa del Padre e del Figlio ha reso possibile a Dio di
sopportare e infliggere la sofferenza penale in uno stesso momento”.156 In questo non vi è né una spietata
ingiustizia né un misericordia insondabile. Per salvarci in modo tale da soddisfare se stesso, Dio tramite Cristo si
sostituì a noi. L’amore divino ha trionfato sull’ira divina col sacrificio divino. La croce fu simultaneamente un
atto di punizione e amnistia, di severità e grazia, di giustizia e misericordia.
Sotto questa luce, le obiezioni all’espiazione sostitutiva evaporano. Nemmeno lontanamente vi è qualcosa
di immorale in essa, poiché il sostituto di coloro che hanno infranto la legge non è altri se non il divino
Legislatore. Non vi è nemmeno una transazione meccanicistica, poiché l’auto-sacrificio di amore è la più
personale di tutte le azioni. E quando è ottenuto mediante la croce non è puramente un cambio esterno di status
legale, poiché coloro i quali incontrano qui l’amore di Dio e sono unti a Cristo per mezzo del suo Spirito
subiscono una radicale trasformazione nella concezione della vita e nel carattere.
Rifiutiamo decisamente, perciò, ogni spiegazione della morte di Cristo che non abbia al suo centro il
principio della “soddisfazione mediante la sostituzione”, in effetti la divina autosoddisfazione per il tramite della
divina autosostituzione. La croce non fu… una sottomissione forzata di Dio, a qualche autorità morale a lui
superiore alla quale egli non potesse in alcun altro modo sfuggire; né la punizione di un mite Cristo da parte di
un Padre aspro e punitivo; non fu una acquisizione della salvezza estorta da un Cristo amorevole a un Padre
riluttante; e nemmeno un’azione del Padre in cui egli avesse messo da parte o escluso il Cristo-Mediatore. Al
contrario, il Padre giusto e pieno di amore umiliò se stesso fino a divenire nel e mediante il suo unico Figlio
carne, peccato e maledizione per noi, al fine di redimerci senza compromettere il suo carattere. Le parole
teologiche “soddisfazione” e “sostituzione” devono essere attentamente definite e salvaguardate, ma non
possono essere per qualsiasi ragione abbandonate. Il vangelo biblico dell’espiazione consiste nel fatto che Dio
soddisfa se stesso, sostituendo se stesso a noi.
Si può dire, quindi, che il concetto di sostituzione si trova al centro sia del peccato sia della salvezza,
perché l’essenza del peccato consiste nell’uomo che si costituisce a Dio, mentre l’essenza della salvezza è Dio
che si sostituisce all’uomo. L’uomo si afferma contro Dio e si innalza là dove solo Dio è degno di stare; Dio
sacrifica se stesso per l’uomo e si pone là dove solo l’uomo merita di essere. L’uomo esige prerogative che
appartengono solo a Dio; Dio accetta pene che riguardano solo l’uomo.
K. Barth esprime il seguente pensiero che l’iniziativa sta dalla parte “dell’eterno Iddio che ha dato se stesso
nel Figlio suo per essere uomo, e come uomo prendere su di se questa passione umana… è il Giudice che in
questa passione prende il posto di coloro i quali devono essere giudicati, che in questa passione permette a se
stesso di essere giudicato al loro posto”. “La passione di Gesù Cristo è il giudizio di Dio, in cui il Giudice stesso
è stato giudicato”.157
Dunque, quando siamo posti di fronte alla croce, iniziamo ad avere una chiara visione sia di Dio sia di noi
stessi, specialmente nelle relazioni reciproche. Invece di infliggerci il giudizio da noi meritato, Dio in Cristo lo
ha sopportato al nostro posto. L’inferno è la sola alternativa. In questo consiste lo “scandalo”, la pietra
d’inciampo della croce».158
Critica
Questa teoria della soddisfazione spiega male come il Padre di Gesù Cristo, che ha insegnato agli uomini ad
amare e perdonare i propri nemici,159 pretenda una simile soddisfazione.
156
DALE R.W., The Atonement, Hodder & Stoughton, London 1894, p. 393; cit. idem, p. 214.
BARTH Karl, Church Dogmatics,a cura di G.W. Bromiley e T.F. Torrance, T % T. Clark, Edimburg,1956, 1957, pp. 246, 254.
158
J. Stott, o.c., pp. 148,149, 203-205,210-217.
159
J. Stott dopo essersi posto delle domande propone due risposte: «Perché Dio non può mettere in pratica ciò che predica ed essere
ugualmente generoso? Non è necessario che qualcuno muoia prima di perdonarci l’un l’altro. Perché allora Dio rende così complicato il
nostro perdono e lo dichiara impossibile senza il “sacrificio per il peccato” di suo Figlio? Sembra una superstizione primitiva che il mondo
moderno avrebbe dovuto abbandonare da tempo. Anselmo risponde, quel tale: “Non ha ancora considerato la gravità del peccato” o,
letteralmente, “quale peso enorme sia il peccato” (I.XXI). La seconda risposta potrebbe essere espressa similmente: “Voi non avete ancora
considerato la maestà di Dio”. Quando la nostra percezione di Dio e dell’uomo, o della santità e del peccato, è distorta, lo sarà certamente
anche la nostra comprensione dell’espiazione. Questo ragionamento, “se noi ci perdoniamo l’un l’altro senza condizioni, Dio faccia lo stesso
con noi” rivela non un ragionare sofistico ma superficialità poiché trascura il fatto elementare che noi non siamo Dio. Noi siamo degli
individui isolati e i misfatti degli altri sono delle offese personali. Dio invece non è un individuo isolato e il peccato non è semplicemente
un’offesa personale; al contrario, Dio stesso è l’autore delle leggi che noi trasgrediamo ed il peccato costituisce una ribellione contro di lui.
Perciò la domanda cruciale che dovremmo porci è un’altra: non perché sia difficile per Dio perdonare, ma come questo sia possibile. Ha detto
E. Brunner: “Il perdono è l’esatto opposto di tutto ciò che può essere dato (p. 113) per scontato. Niente è meno ovvio del perdono”
157
La pazzia di Dio
65
CAPITOLO IV
«I termini di soddisfazione e di sostituzione, tanto frequenti nella tradizione cristiana, hanno finito per
veicolare l’uno l’idea di un’equivalenza tra male e sofferenza, l’altro l’idea di un qualcuno che “paga” al posto
di un altro. … Su questo punto Girard ha ragione: l’uomo accusa Dio di essere vendicativo e violento, perché gli
attribuisce quel che il suo inconscio peccatore ritiene necessario. Ora la redenzione è l’opera dell’amore divino,
e nessun testo biblico può essere correttamente interpretato nel senso d’una giustizia commutativa (che
restituisce l’equivalente di ciò che si è ricevuto) o d’una giustizia vendicativa».160
L. Boff scrive: «L’immagine di s. Anselmo ha molto poco a che vedere con il Dio Padre di Cristo. Al
contrario, incarna la figura di un signore feudale assoluto, padrone della vita e della morte dei suoi vassalli. Dio
assume tratti di un giudice crudele e sanguinario, pronto a richiedere fino all’ultimo centesimo i debiti che si
riferiscono alla giustizia».161
Questa teoria della soddisfazione e dei meriti, sebbene accettata dalla Chiesa cattolica, Concilio di Trento,
sessione VI, canone 7, sessione XIV, canone 8, non elimina il commercio delle indulgenze che permette la
distribuzioni dei meriti accumulati da altri e l’empia dottrina della sofferenza espiatoria che insegna che l’anima
si purifica nelle fiamme del purgatorio. Queste dottrine annullano, nel nome di Dio, la salvezza per grazia.
Anche nel mondo protestante questa teoria della soddisfazione e dei meriti è stata ampiamente accettata. È
presentata nella Confessione di Augusta, art. III e Hans Kuèng, in Essere Cristiano, ricorda che è ancora
presente nelle confessioni di fede delle diverse denominazioni.162
L’italiano Socino Fausto (1539-1604) fu il primo a far notare la contraddizione tra la teoria della
soddisfazione e la remissione dei peccati. Dove si ha soddisfazione non c’è più perdono; si perdona quando non
si è ricevuto soddisfazione. Il pagamento di un debito implica un diritto. Anche se il debito è stato pagato da una
terza persona il creditore è obbligato a dichiarare di essere stato pagato. Non è magnanimo. È un suo obbligo.
Questa terza persona che paga il debito è a sua volta creditrice verso il debitore e per l’insolvente non cambia
nulla, è debitore verso un altro. Il pagamento del debito comporta il diritto di liberazione; il perdono da parte di
Dio non è quindi un dono, una grazia, è un dovuto.
Questo modo di considerare il rapporto tra Dio e l’uomo, l’uomo e Dio, in termini di dare e avere, debito e
credito, presenta diversi pericoli.
I debiti morali non sono delle somme di denaro. Non ci può essere trasferimento di merito o di pena da un
individuo a un altro, come avviene con il denaro. Il debito di denaro è qualcosa di materiale, estraneo alla
persona, impersonale; non così il merito o la pena che sono strettamente personali, inseparabili dall’individuo,
non trasmissibili.
Se un bambino non riesce a risolvere un problema e il compagno glielo esegue, l’insegnante, una volta
consapevole, non può accreditare un giudizio positivo al primo bambino per la risoluzione fatta dall’amico. I
propri talenti possono essere utilizzati per il bene degli altri, ma non possono essere donati.
La giustizia non viene soddisfatta dalla sofferenza di un innocente; essa esige che il colpevole sia punito. La
Sacra Scrittura presenta l’illegalità di questo trasferimento di pena. «Non si metteranno a morte i padri per i
figlioli, né si metteranno a morte i figlioli per i padri; ognuno sarà messo a morte per il proprio peccato»
Deuteronomio 24:16. «Ognuno morrà per la propria iniquità; chiunque ne mangerà l’agresto ne avrà i denti
allegati» Geremia 31:30. «L’anima che pecca è quella che morrà, il figlio non porterà l’iniquità del padre, e il
padre non porterà l’iniquità del figlio; la giustizia del giusto sarà sul giusto, l’empietà dell’empio sarà
sull’empio» Ezechiele 18:20. Se neppure la giustizia può essere trasmessa, il credito morale di Gesù non può
essere donato agli uomini. John Wesley affermava: «In nessun punto della Scrittura si afferma che la rettitudine
personale di Cristo viene attribuita a noi. Non si trova alcun testo che contenga l’enunciazione di tale dottrina».
Ci sembra che da nessuna parte sia scritto che quanto Gesù ha fatto venga attribuito agli uomini. Non ci può
essere secondo l’insegnamento biblico né trasmissione di colpa, né trasmissione di virtù. Ciò che Adamo ci ha
BRUNNER Emil, The Mediator, Westminster Press, Philadelphia 1947, p. 448. O, con le parole di Carnegie Simpson, “il perdono è per
l’uomo il dovere più ovvio; per Dio è il problema più profondo” CARNEGIE P. Simpson, The Fact of Christ, Hodder & Stoughton, London
1900, p. 109. Il problema del perdono è costituito dalla collisione inevitabile tra la perfezione divina e la ribellione umana, tra Dio nel suo
essere e noi nel nostro. L’ostacolo al perdono non è rappresentato soltanto dal nostro peccato e dalla nostra colpa, ma anche dalla reazione
divina sia d’amore sia d’ira verso i peccatori colpevoli. Poiché anche se “Dio è amore”, dobbiamo ricordare che il suo amore è “un amore
santo”, un amore struggente per i peccatori, che allo stesso tempo si rifiuta di condonare il loro peccato. Come può allora Dio esprimere il suo
amore santo? – il suo amore nel perdonare i peccatori senza compromettere la propria santità nel giudicare i peccatori senza rendere vano il
proprio amore? Trovandosi di fronte al peccato umano, come poteva Dio restare fedele alla sua essenza d’amore e santità? Come dice Isaia,
in che modo poteva essere contemporaneamente un “Dio giusto” e un “Salvatore” 45:21? Poiché anche se è vero che Dio dimostra la sua
giustizia prendendo l’iniziativa di salvare il suo popolo, le parole “giustizia” e “salvezza” non possono essere considerate semplici sinonimi.
La sua iniziativa salvifica, invece, era compatibile con la sua giustizia e la esprimeva. Alla croce nel suo santo amore Dio stesso pagò in
Cristo tutta la pena per la nostra disubbidienza. Egli assunse su di sé il giudizio che meritiamo per concederci il perdono che non meritiamo.
Sulla croce si espressero ugualmente la misericordia e la giustizia divine, e si riconciliarono eternamente. L’amore santo di Dio fu
“soddisfatto”». o.c., pp. 113-115.
160
B. Sesboüè, o.c., vol. 1, p. 67.
161
BOFF Leonardo, Passione di Cristo - passione del mondo, ed. Cittadella, Assisi 1978, p. 133.
162
L’accettazione di questa dottrina è involontariamente espressa, anche se di fronte all’obiezione, il fedele protestante ed evangelico
cerca di giustificare il suo linguaggio con dei distinguo le cui distinzioni sono di difficile comprensione, quando il cristiano non cattolico
conclude la propria preghiera spontanea con la formula: «Ti chiediamo questo per i meriti di tuo Figlio Cristo Gesù».
La pazzia di Dio
66
TEORIE PROPOSTE PER SPIEGARE LA MORTE DI GESÙ
trasmesso non è la sua colpa, ma una natura che protende verso il male e tende a ripetere la ribellione del padre.
Il legame del credente con il Signore, che ha spezzato l’influsso dell’iniquità vincendo il peccato, non è
trasmissione di virtù, ma l’elemento che permette al Cristo di compiere la sua purificazione/guarigione nei nostri
confronti.
«Poiché, come dalla disobbedienza di un uomo solo molti vennero resi (non reputati) colpevoli, così, dalla
obbedienza di Uno solo, molti saranno resi (non ritenuti) retti» Romani 5:19.
Anselmo considera il peccato nella prospettiva del dare e dell’avere, si è sbagliato sul significato della sua
natura. Il peccato, sebbene sia un fallo, essenzialmente però è una malattia, un cancro che corrode. Il peccato
può essere tolto solamente ed esclusivamente quando la malattia è guarita o può essere considerato tolto da
quando inizia il processo di guarigione. Non c’è redenzione se l’ammalato non guarisce. Dio non può
sbarazzarsi del male con un regolamento di conti che avviene all’esterno della persona. Dio può eliminare il
peccato dal cuore dell’uomo solamente quando questi accetta la sua azione guaritrice. Nella prospettiva di
Anselmo non è tanto l’uomo colpito dal peccato che deve cambiare, ma Dio. Non è l’uomo nemico di Dio, ma a
causa del peccato dell’uomo è Dio nemico della sua creatura ed è Lui, l’Eterno, che deve cambiare
atteggiamento. Il malato che deve guarire non è tanto l’uomo, ma Dio, colpito nel Suo onore. In questa
prospettiva, il sacrificio di Gesù libera senza altro l’uomo dalla pena del peccato, ma non dal peccato, dalla sua
ribellione, ma soprattutto libera Dio dalle posizioni contrapposte della sua natura: giustizia e amore. Paolo dice
che Dio quando perdona il peccato fa del peccatore una nuova creatura (2 Corinzi 5:17).
«Questa idea di un giudizio di Dio che vuole un sacrificio - il sacrificio del Figlio - per riappacificarsi con
l’uomo ha oppresso a lungo le coscienze di molta gente e ha a lungo giustificato atrocità compiute in nome di
Cristo».163
Questa teoria della soddisfazione non è in armonia con il vangelo, essa contrasta ampiamente con l’offerta
di grazia. H. Kuèng scrive: «In questa teoria della redenzione non domina, come nel N.T., la grazia, la
misericordia e l’amore; domina, come nel diritto romano, una giustizia di stampo spiccatamente umano (justitia
commutativa); domina una logica del diritto, in nome della quale la morte di croce viene isolata sia dal
messaggio e dalla vita di Gesù sia anche dalla sua risurrezione… Più che riflettere il N.T., la teoria della
soddisfazione enunciata da Anselmo rispecchia nella sua struttura specifica il Medio Evo e il suo concetto
giuridico di ordine». Risulta abbastanza evidente, sempre secondo Kuèng, «come il sistema giuridico di
Anselmo travisi il messaggio biblico», ed emerge incomprensibilmente il «contrasto tra la concezione di
Anselmo e il N.T.». Del resto, già Tommaso d’Aquino aveva sentito il bisogno di correggere la troppa angusta
prospettiva anselmiana definendola: «Questo fosco processo di redenzione».164
A. Richardson scrive: «Le concezioni medioevali di Dio come di una specie di sovrano feudale, che
richiede soddisfazione per il suo onore oltraggiato, non trovano posto in una genuina teologia biblica; e le
nozioni della post-Riforma che ci presentano Cristo, che sopporta una pena o un castigo in vece nostra, perché
Dio possa perdonarci e rimanere ancora giusto, non hanno alcuna base nell’insegnamento del Nuovo
Testamento».165
François Varonne scrive queste considerazioni: «Il Dio della soddisfazione è un essere stranamente
schizofrenico. Ha due personaggi in lui: il giustiziere e il padre misericordioso. Ognuno di questi due personaggi
è in difficoltà a causa dell’altro, ma questo Giano è soprattutto un insolubile problema per l’uomo: la faccia
severa e dura sull’innocente Gesù, e la faccia tenera e sorridente sui peccatori; la faccia severa e dura sui terribili
crimini e la faccia misericordiosa sul povero peccatore pentito che io sono.
Il Cristo della soddisfazione subisce anche a sua volta delle distorsioni. Una vita umana privata del suo
spessore reale e significativo, per essere ridotto a una sola operazione giuridica: la riparazione dell’offesa, la
realizzazione del diritto. Ma il peggio, la più mostruosa distorsione per chi ama Dio e ha cominciato ad
apprezzare il fascino meraviglioso del suo volto, è di vedere il mondo diviso in due campi: da una parte l’Orco
eterno, dall’altra l’infelice umanità vittima del proprio peccato e della punizione divina; e Gesù, posto dalla
nostra parte, condividendo questa situazione, prende su di sé i colpi che ci sono destinati!
Sovente, d’altronde, i teologi della soddisfazione sono incapaci di chiarire la differenza assoluta che Paolo
stabilisce tra la giustificazione giudaica mediante le opere dell’uomo fedele alla legge e la giustificazione per
fede in Gesù Cristo. Le teorie della soddisfazione sfociano di fatto in una teoria mitigata della giustificazione per
le opere. Mitigata perché, conservando lo stesso principio (per essere giustificati, in ordine davanti a Dio, gli
uomini devono riparare, compensare l’offesa infinita fatta a Dio) il Cristo supplisce all’impotenza (incapacità)
dei peccatori, riparando al loro posto; quanto a loro, Dio non richiede nient’altro che “credere” che Cristo ha
pagato per loro. Dalla giustificazione mediante le opere, si è passati alla giustificazione mediante la mini-opera;
la differenza non è fondamentale.
163
ONELLI Alfredo, culto evangelico, domenica 14/4/1982.
KUÈNG Hans, Essere cristiano, ed. Feltrinelli, Milano 1976, pp. 478,49,47,58; nota n. 5, p. 479.
165
RICHARDSON A., An Introduction to the Theology of the New Testament, London 1958, p. 239; cit. da QUARELLO Eraldo, Il
sacrificio di Cristo e della sua Chiesa, in Giornale di Teologia, n. 39, ed. Queriniana, Brescia, 1970, pp. 43,44.
164
La pazzia di Dio
67
CAPITOLO IV
A titolo d’esempio, ecco una nota significativa della TOB: “Questa giustizia... culmina in un verdetto di
grazia che non richiede all’uomo che un’umile accettazione l’obbedienza della fede”.166
L’opera richiesta è stata realizzata nel Cristo: ha sofferto ed è morto, il verdetto della collera di Dio ha
potuto realizzarsi su di lui. D’ora in avanti, Dio può passare a un verdetto di grazia sugli uomini, non
richiedendo da loro che la mini-opera di credere che è bene che sia così, perché questa sostituzione ha
alleggerito il cielo giuridico al di sopra delle loro teste».167
Questa teoria della soddisfazione secondo la quale Dio per necessità ha programmato e voluto la morte del
Figlio, al fine di soddisfare la sua lesa maestà, o la sua giustizia, o la sua legge, per potere riscattare gli uomini,
suscita la seguente obiezione: l’uomo a causa del primo peccato di sfiducia, di disubbidienza, di ribellione nei
confronti dell’Eterno viene da lui allontanato dall’Eden. Ora per salvare l’umanità da questa e da tutte le altre
disubbidienze lo stesso Dio chiede all’uomo di aggiungere, a tutti i suoi errori, colpe e crimini, l’omicidio, di
ampiezza inaudita: il deicidio!
«Già il volteriano barone De la Hontan rese celebre la frasetta con cui volle mettere in ridicolo la
riconciliazione...: “Dio per soddisfare Dio, fa morire Dio”».168
Ben presto questa frase venne cambiata - senza dubbio perché scorresse meglio e facesse più effetto - la
parola “soddisfare” con quella di “placare”. Scriveva Diderot, quarant’anni più tardi: «Che Dio faccia morire
Dio per placare Dio, è un’acuta frase del barone De la Hontan. Cento volumi in foglio scritto pro o contro il
cristianesimo avrebbero minore efficacia di queste due righe, per metterlo in ridicolo.169
Il razionalismo già nel secolo XIX aveva voluto... ragionare sull’assurdità di questa riconciliazione della
terra con il cielo mediante i tormenti di Cristo. Per Strauss costituisce “un paradosso” il fatto che Dio, amandoci
da tutta l’eternità, avrebbe bisogno di una riconciliazione, il che vorrebbe dire che assieme ci amava e ci
aborriva».170
B. Carre, professore di esegesi nell’Università Vanderbilt di Chicago, presenta come un enigma per la
teologia il fatto che la nostra riconciliazione con il cielo avvenga mediante il sangue di Cristo. Scrive: «Mai la
teologia è stata capace di dirci esattamente perché e come la morte di Gesù Cristo opera e realizza la
riconciliazione con Dio».171
Inoltre questa necessità giuridica, che l’innocente paghi, muoia al posto del colpevole, ha fatto anche
pensare che se Gesù non fosse stato ucciso dagli uomini, in caso di un loro ravvedimento o per altri motivi, Lui
stesso si sarebbe autosacrificato, cioè suicidato. Costoro non si rendono conto che così facendo Gesù avrebbe
peccato, trasgredendo il VI comandamento che dicendo di non uccidere intende anche: non ucciderti.
Gesù non attribuisce mai la sua morte a una presunta necessità di Dio. Anzi la sua morte viene attribuita a
coloro che erano animati dagli stessi sentimenti di chi nel passato aveva ucciso gli inviati di Dio (Matteo 23:2937; Luca 20:9-19) e indica come responsabili: gli anziani, i sacerdoti, gli scribi (Matteo 26:21). Giuda lo
presenta come il figlio della perdizione (Giovanni 17:12; Marco 14:21). A Pilato dice: «Chi mi ha dato nelle tue
mani ha maggiore colpa» Giovanni 19:11. Gesù mette la sua morte sul conto della cecità morale e spirituale
degli uomini e sulla croce prega: «Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno» Luca 23:34. Un
pensiero analogo è stato espresso dall’apostolo Pietro alla folla di Gerusalemme, qualche settimana dopo, nel
giorno della Pentecoste, quando disse: «Io so che lo faceste per ignoranza» Atti 3:17 e dall’apostolo Paolo ai
Corinzi che scriveva: «Se avessero conosciuto (la sapienza di Dio) non avrebbero crocifisso il Signore della
gloria» 1 Corinzi 2:8. Non è quindi il Padre che suscita i suoi boia, ma è Satana che opera mediante il potere
costituito, come riportano i vangeli e il libro degli Atti (Luca 22:3,4; Giovanni 13:2,27; 14:30, Atti 2:23; 5:30;
7:52).
Scrive René Girard: «Non solamente Dio reclama una nuova vittima, ma reclama la vittima più preziosa e
cara, suo Figlio stesso. Questo postulato, senza dubbio, più di qualsiasi altra cosa, ha fatto discreditare, nel
mondo intero, il cristianesimo agli occhi degli uomini di buona volontà».172
Il teologo cattolico F. Varonne scrive: «Nei nostri giorni... si sente correntemente rievocare la diminuzione
del numero dei fedeli, l’abbassamento catastrofico della fede e della pratica religiosa. Generalmente si accusa il
materialismo della società, la sete della ricerca del divertimento, ecc. È raro che si riconosca che proprio il
nostro linguaggio è sfasato e che su questo punto essenziale dell’annuncio della salvezza, la nostra parola
cristiana è stata segnata dalla religione, che è diventata insignificante nel miglior dei casi, alienante negli altri.
Perché non guardare in faccia tutte queste persone che non possono più credere alla salvezza, neppure possono
166
Traduction Œcuménique de la Bible (TOB), Paris 1972, Romani 3:24, nota II.
VARONNE François, Ce Dieu censé aimer la souffrance, éd. Cerf, Paris 1988, pp. 163-165.
168
HONTAN De La, Nouveau voyage dans l’Amerique Septentrionale, t. II, p. 119; cit. BASILIO DE S. PABLO, C.P., Uno scandalo per
i razionalisti, in Fonte di Vita, n. 4, 1958, p. 14.
169
DIDEROT, Pensée philosophique, XI éd., in Œeuvre de Denis Didérot, t. I, Paris 1818, p. 120; cit. idem, p. 14.
170
STRAUSS, Die Christliche Glaubenslehre in ihrer geschlichtlichen Entweekelung, Tubings, t. II, p. 257 s.; cit. idem, p. 14.
171
CARRE B., Paul’s Doctrine of Redemption, New York 1914, p. 88; cit. idem, p. 15.
172
GIRARD Remé, Des choses cachées depuis la fondation du monde, p. 206; cit. F. Varonne, o.c., p. 6.
167
La pazzia di Dio
68
TEORIE PROPOSTE PER SPIEGARE LA MORTE DI GESÙ
legare profondamente il loro desiderio e la loro pratica vivente a Dio e a Gesù a causa di ciò che la parola della
Chiesa ha detto?».173
Il domenicano Christian Duquoc, professore alla facoltà teologica di Lione, scrive: «Le teorie della
sostituzione penale: “Dio ha castigato i nostri peccati in Gesù che ha provato la maledizione del Padre”, la si
trova presso Calvino, Bourdaloue, Bossuet. Esse favoriscono dei bei voli oratori. Dimenticano però di spiegare
in cosa il castigo subito da Cristo era gradito a Dio. Quando Bossuet scrive che Dio appagava la sua vendetta su
Gesù, noi ci sentiamo rivoltati; perché con quale diritto si prestano a Dio dei sentimenti che lo disonorano e li
suppongono necessari alla nostra salvezza?».174
B. Sesboüé, dopo aver riferito quanto citato sopra scrive: «Questi testi di Bossuet e di Bourdaloue
testimoniano l’immagine di un “Dio terribile” e sono l’espressione d’una forma di “pastorale della paura”, che
contraddistinguerà vari secoli».175 E aggiunge: «Quanto riportato dagli autori citati ha diffuso nel mondo
cristiano «un sistema di pensiero che pesa ancora oggi su di noi».176
In diversi passi del N.T. si evidenzia come a causa dell’ubbidienza Gesù abbia dovuto soffrire (Ebrei
2:10,18; 4:15; 5:8,9). Il teologo avventista Jean Zurcher scrive: «L’importanza accordata alla sofferenza, in
questi passi, non ha per nulla il significato che sia Dio ad esigere la sofferenza di Gesù per salvarsi, o che noi si
sia salvati per le sue sofferenze. Non è la sofferenza177 che ha fatto di Gesù il Salvatore del mondo, ma la sua
ubbidienza perfetta. È “in virtù di questa volontà (di ubbidienza) - precisa ancora l’autore della lettera gli Ebrei che noi siamo stati santificati, mediante l’offerta del corpo di Gesù Cristo fatta una volte per sempre” Ebrei
10:10. Inoltre da questo passo, scaturisce chiaramente anche che Gesù non è venuto nel mondo per soffrire, ma
per vivere nell’ubbidienza alla volontà di Dio (10:5-10) che non poteva essere fatta senza sofferenza.
La sofferenza di Gesù non ha dunque in nessun modo un valore in sé. Essa tutt’al più non è altro che
l’occasione del suo perfezionamento, la conseguenza inevitabile della sua ubbidienza perfetta».178
Bisogna convenire che in nessun parte del N.T. troviamo nell’insegnamento degli apostoli e sotto la loro
penna la nozione di “merito” che Gesù si è acquisito, e neppure menzionano la “soddisfazione”. La parola,
merito, entra nella letteratura cristiana con Tertulliano, che la applica non a quanto compiuto da Cristo Gesù, ma
alle opere di penitenza dei fedeli.
173
F. Varonne, o.c., p. 18.
DUQUOC Christian, La mort du Christ, in Lumière et Vie, n. 101, 1971, pp. 7,9,80.
175
B. Sesboüé, o.c., pp. 80,81; vedere DELUMEAU Jean, Il peccato e la paura. L’idea di colpa in Occidente dal XIII al XVIII secolo, il
Mulino, Bologna 1987, pp. 525-535 e pp. 725-760; Le péché et la peur. La culpabilisation en Occident (XIII-XVIII siècles), Fayard, Paris
1983, pp. 321-332.
176
B. Sesboüé, o.c., p. 82.
177
Crediamo si possa dire che la croce, con la sua sofferenza, sia la risposta di Dio al problema della sofferenza umana, questa realtà che
colpisce brutalmente e profondamente l’umanità, sia nel fisico, sia, più penosa ancora, quella morale a causa dell’ingiustizia, degli imbrogli,
della derisione, delle sconfitte, dei soprusi, dell’impotenza nei confronti di chi detiene il potere. La croce risponde a questo dramma
dell’umanità. Essa è l’espressione della partecipazione di Dio all’angoscia degli uomini. In questa prospettiva la croce non è il castigo di Dio
al peccato dell’uomo e contrasta tutto il pensiero del passato e del presente.
Nella tragedia greca la sofferenza e le disgrazie erano le punizioni degli dèi alla presunzione umana. Questo modo di pensare ha
caratterizzato anche il pensiero occidentale cristiano. Albert Camus lo contesta nella sua opera La peste. Dopo una settimana di preghiere i
fedeli sono riuniti alla domenica mattina in chiesa e il rev. Paneloux dice ai fedeli: «Fratelli miei, voi siete nella sventura, fratelli miei voi
l’avete meritata. Dio punisce gli orgogliosi e i ciechi; ha atteso, ma ora castiga coloro che sono rimasti nel peccato, li castiga in vista della
loro conversione». A questo pensiero, per nulla cristiano, Camus reagisce e fa dire al medico Rieux che assiste un bambino colpito dal male:
«Questo qui almeno era innocente e lei (rev. Paneloux) lo sa molto bene». Giobbe, dopo aver perduto beni, figli e salite, si ribella agli amici
che volendolo consolare lo accusano di tenere nascosto dei peccati a causa dei quali il Signore lo punisce. Con forza chiede da Dio una
risposta. L’Eterno lo rimprovera per la sua ignoranza, ma non lo accusa per il suo peccato. Giobbe non ottiene una risposta da Dio, ma si
inchina davanti alla sua trascendenza.
Questo modo di spiegare la sofferenza, presentandola come punizione di Dio, era presente anche ai tempi di Gesù. Per contrastare
questo pensiero il Maestro dice che coloro che furono uccisi dai soldati di Pilato mentre offrivano il loro sacrificio al tempo, o coloro che
furono sepolti dal crollo della torre di Siloe non erano peggiori degli altri cittadini di Gerusalemme. Sia il massacro, sia l’incidente sono delle
realtà che non sono l’effetto di una causa, se non quella di non essere nella casa del Padre. Anche il cieco nato non soffriva questa anomalia
né a causa del peccato dei genitori, né a causa del proprio peccato.
La punizione del peccato Gesù la presenta come qualcosa che riguarda il futuro, il risultato del giudizio.
Di fronte alla sofferenza Gesù non propone pensieri, dottrine, presenta la sua persona, l’Emanuele, Dio con gli uomini. Dio che da
sempre vive e sente la sofferenza dell’umanità, nel Dio uomo lo dimostra. In Gesù si ha così la dimostrazione che la sofferenza non è la
punizione del colpevole, perché lui è innocente, santo, giusto, è l’uomo vero. Isaia, nel presentare il servo sofferente dell’Eterno ricorda che
sono gli uomini ha pensare che Lui soffre colpito da Dio.
Nella sofferenza del fratello, nella sofferenza dell’innocente, l’uomo può scorgervi il volto del Signore.
La sofferenza del Cristo può essere considerata come espiatrice del nostro peccato perché ci può purificare dalla nostra ribellione, dalla
mancanza di fede, di amore nei confronti del nostro Dio.
Se nell’A.T. la donna che soffre i dolori del parto raffigura il popolo che soffre a causa delle conseguenze delle proprie ribellioni,
Gesù utilizza la stessa immagine, completandola con la nascita del bambino, che fa dimenticare alla donna la sofferenza perché è fiorito alla
vita un altro essere (Giovanni 16:21). Così facendo Gesù sottolinea la brevità della tristezza messa in relazione con la durata molto più lunga
di una gioia che dura nel tempo e che nessuno può togliere. In questa prospettiva la Chiesa dovrebbe vedere e vivere la sofferenze come il
passaggio ad una gioia ancora più intensa. Ciò ci permette di capire perché tutte le volte che Gesù parla della sua sofferenza e della sua
morte, annuncia anche la risurrezione.
La croce non testimonia quindi la collera divina, ma la grandezza, la solidarietà dell’amore di Dio per gli uomini. La croce testimonia
che per qualsiasi tragedia, anche quella dell’innocente, c’è la vittoria della risurrezione.
178
ZURCHER Jean, La Bible et le problème de la souffrance, in Servir, IIo trimestre 1991, pp. 12,13.
174
La pazzia di Dio
69
CAPITOLO IV
Il messaggio di tutta la Sacra Scrittura è l’offerta di perdono a chi si pente con sincerità. La superiorità del
Padre di Gesù Cristo è proprio quella di elevarsi al di sopra di qualsiasi sentimento di rappresaglia e di vendetta.
«Com’è vero che io vivo, dice il Signore, l’Eterno, io non mi compiaccio della morte dell’empio, ma che
l’empio si converta e viva; convertitevi, convertitevi dalle vostre vie malvagie! Perché morreste voi... ?»
Ezechiele 33:11. Se l’Eterno non si compiace della morte degli empi, per i loro peccati, potrà compiacersi
all’idea della morte del giusto per quella dell’empio? D’altronde, di nessuna soddisfazione ha bisogno il padre
della parabola del figlio prodigo (Luca 15:11 e seg.), e di nessuna soddisfazione ha avuto bisogno Dio per
rendere giusto il pubblicano che non ardiva guardare in alto come invece faceva il fariseo (Luca 18:13 e seg.). Il
perdono è stato accordato per le parole: «Padre ho peccato contro il cielo e contro te, non sono degno d’essere
chiamato tuo figlio». «Sii placato verso di me peccatore».
La teoria della soddisfazione e dei meriti presenta Dio in costante conflitto con se stesso: da una parte la
giustizia, che vuole o deve punire, dall’altra l’amore, che desidera perdonare. Quindi l’opera di Gesù sarebbe
essenzialmente, non quella di ricondurre l’uomo al Padre, ma quella di conciliare nel Padre i suoi attributi
opposti: giustizia e amore.
Jean Galot dopo aver sostenuto che l’amore è la causa determinante della redenzione scrive: «Secondo la
Rivelazione, dobbiamo affermare che l’amore divino è l’unica causa del mistero redentivo. L’economia della
Redenzione non è il risultato di un compromesso tra l’amore e la collera, tra la misericordia e la giustizia. Essa è
esclusivamente dovuta all’amore di Dio per gli uomini».179
Gesù ci presenta un Padre perfetto che, tra l’altro, dice di amare i nemici e di pregare per loro (Matteo 5:48,
44-47), un Dio che dice ai suoi figli di non sentirsi offesi se gli altri sbagliano, un Dio che dice di perdonare le
offese senza chiedere riparazione; che sono i peccatori che amano quelli che li amano, che l’Altissimo è buono
verso gli ingiusti e i cattivi e di essere misericordiosi come lui (Luca 6:33,36). Paolo riprendendo questi pensieri
scrive: «Benedite quelli che vi perseguitano... non rendete a nessuno male per male» Romani 12:12. Pietro dopo
aver invitato i credenti a sopportare le afflizioni per amore di Dio e dopo aver riportato l’esempio di Gesù (1
Pietro 2:19-21) esorta a non rendere «male per male» e «oltraggio per oltraggio», ma al contrario
«benedicendo» 3:9.
Riteniamo sia bene ricordare ai sostenitori delle teorie giuridiche che: «Il vero perdono del peccato non è la
cancellazione di un debito, ma la ricostruzione di tutto ciò che il peccato aveva distrutto in noi: la nostra fede e il
nostro amore».180
La divina giustizia deve trionfare sul male con il bene, allora essa si confonde con l’amore. L’amore stesso è
santo, il suo scopo è quello di liberare, purificare dal male.
La volontà del Padre è quella di salvare gli uomini. Il suo amore si manifesta affinché possa far trionfare la
giustizia, e la sua giustizia si realizza nel suo disegno di amore.
Il vangelo fa appello al pentimento perché esso è l’inizio della disfatta e della distruzione del peccato. Il
pentimento manifesta la fede, il ritorno a Dio.
Il piano della salvezza è stato voluto da Dio (Giovanni 3:16). Esso è l’espressione della sua volontà che non
è determinata da nulla, ma che a sua volta determina tutto (Romani 8:28; Efesi 1:5; Filippesi 2:13).
Sia nei profeti, sia nel precursore del Messia, Giovanni Battista, sia nell’insegnamento di Gesù e nella
predicazione degli apostoli la remissione dei peccati è offerta a seguito del pentimento (Isaia 1:10-19; 55:6-13;
49:20; Geremia 3:12-14; Ezechiele 18:21-24; Osea 5:15; 6:6; Amos 5:21-24; Matteo 3:12; Marco 1:4; Atti
2:37,38;3:19; 5:31; 17:30; 26:20; 1 Giovanni 1:9; Giacomo 4:6-11). Il pentimento è la condizione
indispensabile per il perdono; senza di esso, la remissione dei peccati è una dichiarazione nulla.
La giustizia umana non è soddisfatta quando il colpevole ha espiato i suoi 20, 30, 40 anni di carcere, ma
quando egli si pente. La giustizia di Dio è soddisfatta, sempre secondo chi critica la teoria della soddisfazione,
tramite il sacrificio della croce, non perché un innocente muore, espia, paga per il peccatore e acquisisce dei
meriti, ma perché la sua morte porta l’uomo a riflettere sulla sua situazione di peccato, cioè di separazione da
Dio, e tramite la croce ha la visione senza confini dell’amore di Dio. Quindi si pente e inizia una nuova vita. La
giustizia del codice stradale viene soddisfatta non quando vengono puniti degli automobilisti che, commettendo
delle infrazioni, causano degli incidenti e provocano la morte di innocenti, bensì quando essi, constatando la
gravità delle loro azioni, si adeguano alle norme di circolazione a rispetto della propria e dell’altrui vita.
La giustizia di Dio è soddisfatta quando l’uomo, vinto dall’amore del Padre, ammorbidisce il suo cuore,
condanna se stesso, versa lacrime per i propri peccati, cade in ginocchio e grida: «Ho peccato!».
Siccome il perdono dei peccati non ha valore se non c’è il pentimento, tutta l’opera di Cristo è rivolta a
questo scopo. Alla sua incarnazione aggiunge la rinuncia, agli sforzi per una vita santa aggiunge la sofferenza, al
dolore della separazione dal Padre aggiunge la sua morte, manifestando così la sua eterna volontà di amarci e di
vincere la resistenza delle nostre menti. Gesù muore dopo aver constatato che i suoi insegnamenti e tutta la sua
vita non sono stati sufficienti a farci capire che il mondo sbaglia e siamo degli smarriti, degli orfani.
179
180
GALOT Jean, La Rédemption mystère de l’Alliance, Paris 1965, p. 85.
EVELY Louis, Oser parler, éd. le Centurion, Paris 1982, p. 140.
La pazzia di Dio
70
TEORIE PROPOSTE PER SPIEGARE LA MORTE DI GESÙ
La teoria della soddisfazione e dei meriti, nel tentativo di voler conciliare la giustizia e l’amore di Dio,
porta molti a considerare la croce come un avvenimento che si perde nella notte dei secoli e dei millenni e che
mediante essa la contabilità di Dio viene pareggiata dalla morte di Gesù mentre l’uomo può continuare a vivere
come vuole. Per il vangelo la croce è l’ultimo espediente, l’estremo mezzo che Dio ha utilizzato per farci
pervenire la sua voce, per vincere la nostra ribellione che ha prodotto insensibilità nei suoi confronti, per
ridonarci la bontà del suo amore e riaccendere in noi l’eternità. Gesù muore per potere rientrare nella nostra vita.
Alla lunga citazione di J. Stott le cui parole tentano di spiegare la morte di Gesù, con un ragionamento che
sembra abbia la sua logica181, il risultato più evidente è l’opera che Dio ha bisogno di compiere sì per salvare gli
uomini, ma soprattutto per mettere ordine, fare equilibrio nel suo essere divino a causa dei suoi due volti di
amore e di giustizia. Allo squilibrio del peccato dell’umanità, l’Eterno mette ordine in se stesso facendo sì che
gli uomini realizzino il suo bisogno di sangue, di morte per poter perdonare. A Dio necessita il crimine nei
confronti di se stesso affinché lui giusto possa fare grazia. Ci è difficile accettare questo ragionamento e ancor
più crederlo. La giustizia che accetta la morte dell’innocente per il colpevole non è giustizia, l’amore che per
esprimersi ha bisogno che un’ingiustizia sia fatta non è più amore.
Il Dio della libertà ha creato degli esseri che potessero esprimere delle scelte e portarne anche le
conseguenze. L’essere libero, posto di fronte all’Eterno, ha la facoltà di girare lo sguardo altrove, voltare le
spalle al suo Creatore, immaginare e credere che la vita migliore è quella vissuta senza di Lui. Dio creando
l’uomo con la capacità di scelta ha corso questo rischio della libertà e ciò non dà all’Eterno nessun demerito e
punizione per averlo fatto.
È vero che l’uomo e anche noi riconosciamo che non siamo nelle condizioni di avvertire tutto il peso, la
gravità, il significato della separazione da Dio, ma ci è difficile capire come il Dio della creazione, della vita, del
bene, che non ha nulla a che vedere con la morte, di fronte a degli uomini, o a un solo uomo, per il quale il
Cristo sarebbe disposto a morire per amore, deve invece morire affinché il padre lo possa perdonare.
Quest’uomo che non vuole avere relazione con Dio, non sente e non vuole amarlo, che prende il posto di Dio,
perché si considera autosufficiente e indipendente, può essere considerato un criminale non perché uccide o
tenta di sopprimere il suo Creatore, ma perché è nei suoi confronti indifferente, vive come se non ci fosse, rifiuta
il Bene ma non opera facendo il male, non sopprime né tenta di sopprimere nessuno, non è un debosciato, un
violento, e quant’altro possa esprimere il male. Come è possibile pensare che Dio per perdonare questa persona,
ferita dalla vita, che ha già perduto la sua identità di figlio di Dio, che forse quando il Signore era sulla terra,
nella sua cecità, per bisogno e non per amore, lo seguiva per la necessità del pane e dei pesci. Ha vissuto
spezzandosi la schiena, con un lavoro onesto e a causa della dura terra, cercando di rispondere alle esigenze
della sua famiglia. Pur non avendo mai mentito, né rubato, né ucciso, perché indifferente alla grazia di Dio, alla
Sua offerta di vita, qualora ritorni sui suoi passi spontaneamente, o rispondendo a un Suo invito, il Padre
dell’eternità, per poterlo perdonare, ha dovuto immaginare e poi concretizzare tutto un programma di morte
affinché la sua “ira” possa essere soddisfatta, perché l’uomo ha usato la sua libertà diversamente da come lui
avrebbe desiderato. Una simile persona, per come ha vissuto, amato e rispettato da tutti, come potrebbe meritare
un supplizio, una punizione? La morte, la cessazione della vita, come l’Eterno aveva detto nell’Eden, è la
conseguenza della sua scelta.
Queste teorie che mettendo l’accento sull’aspetto giuridico, legale, sulla contrapposizione della giustizia e
l’amore, che poi non crediamo siano presentate nel modo corretto, tra santità di Dio e ribellione dell’uomo, non
prendono in considerazione la vera natura del peccato, che è prima di tutto mancanza di fede che provoca, come
una malattia, lo squilibrio del corpo. Dio viene onorato non con l’espiazione-punizione di qualcuno, ma con la
guarigione del malato.
L’amore è una realtà che tutti sentiamo, sperimentiamo e di cui tutti abbiamo fame e bisogno, ma ci è
difficile, come per l’eternità, poterla definire. L’amore di Dio, la croce è una realtà che non è pienamente
definibile alla nostra comprensione, anche se avvertiamo la sua forza, la sua realtà e il bisogno di comprenderla.
Il pericolo di spiegare questo amore è quello di andare oltre, perderci. Forse è opportuno fare nostre le parole del
salmista: «Stai in silenzio davanti l’Eterno, e aspettalo» Salmo 37:7.
OBIEZIONE
Avendo passato in rassegna le critiche delle varie posizioni giuridiche, non possiamo negare ai sostenitori di
queste teorie, di formulare una domanda: «Se Gesù Cristo non è morto al posto del peccatore, se non ha subito la
punizione che essi avrebbero meritato, se il suo sacrificio non soddisfa la giustizia di Dio e dalla sua legge
trasgredita e se non ha acquistato dei meriti, allora tutti coloro che sono morti senza aver udito l’annuncio del
vangelo e che, quindi, non si sono potuti convertire, non potranno essere salvati? Con la vostra critica avete
181
Una domanda che mette in discussione l’onnipotenza di Dio, e che in un passato veniva formulata da chi voleva mettere in difficoltà i
crederti, recitava: “Può Dio nella sua onnipotenza creare un peso pesante che lui stesso non sarebbe in grado di sollevare?” Dietro questo
domanda c’era già l’osservazione: “Se Dio è onnipotente di fare quanto chiesto, poi non lo è più nel sollevare quanto ha fatto”. Se la risposta
è negativa allora il Dio della creazione non è onnipotente. La domanda è interessante, ha la sua logica. Ma è una di quelle domande che non
può avere risposta.
La pazzia di Dio
71
CAPITOLO IV
circoscritto la salvezza a coloro che hanno potuto conoscere e scegliere il Gesù di Nazaret, rifiutando il loro
desiderio di autonomia, visto che la salvezza la si può ottenere solamente attraverso Cristo Gesù (Atti 4:12).
Qualsiasi altra strada per noi è sbarrata e non può portare all’eternità».
A queste obiezioni e ad altre, si può rispondere che il sacrificio di Gesù non è un atto magico, la salvezza è
il dono, è l’espressione della grazia di Dio. Il sacrificio di Cristo Gesù non è servito a cambiare la disposizione
d’animo del Padre, la sua volontà infatti è stata sempre quella di perdonare le sue creature. Il sacrificio della
croce dimostra l’amore di Dio senza più lasciare ombra di dubbio negli uomini e nelle creature celesti che, fino
alla croce, per fede hanno accettato la bontà dell’Eterno. Se la grazia di Dio si basasse su un atto di qualsiasi
natura che non sia l’espressione del suo amore, non sarebbe più grazia. In Gesù l’Eterno ha dimostrato la sua
volontà di salvare.
Coloro che saranno salvati senza aver conosciuto il vangelo, non lo saranno perché l’innocente è morto e si
è costituito un deposito di meriti che può essere distribuito ma, lo saranno perché Gesù è la manifestazione
dell’amore di Dio e la salvezza non può che passare attraverso di lui che, per l’eternità, sarà il Figlio dell’uomo e
porterà nel suo corpo i segni della sua grazia, il suo trionfo sul male. Il Padre salva gli uomini che non hanno
potuto conoscere il vangelo perché manifesta nei loro confronti ciò che nella storia ha dimostrato in Gesù.
La salvezza è espressione di grazia sia nei confronti di coloro che hanno conosciuto il vangelo sia per coloro
che, non avendo avuto l’opportunità di conoscere il Signore, hanno comunque permesso allo Spirito Santo,
nell’ambito e nel contesto della loro esistenza di toccare i loro cuori convincendoli di peccato, di giustizia e di
giudizio (Giovanni 16:18). Questo, anche se la luce pervenuta fino a loro non ha permesso di farli vivere allo
splendore del «sole di giustizia» Malachia 4:2 rivelato chiaramente in Cristo Gesù mediante il suo vangelo. Non
sono quindi passati, per motivi indipendenti dalla loro volontà, dalle tenebre alla sua meravigliosa luce, ma
hanno comunque vissuto nella penombra della luce, grazia di Dio. In questa prospettiva la grazia continua a
essere grazia e il giudizio di Dio è manifestazione di misericordia. Il Signore manifesta di amare anche queste
persone di un amore eterno (Geremia 31:3). Però, in questa prospettiva, la grazia non è a buon mercato, come
una spugna bagnata su una lavagna da pulire, non è neppure il premio a una coscienza pentita e travagliata dal
peccato commesso. Essa è la manifestazione della sofferenza di Dio per il travaglio dell’uomo. La grazia
esprime quanto Dio fa per potere riprendere a camminare con l’uomo. La croce è il segno di questa sofferenza.
TEORIA DELLE METAFORE
Il linguaggio della redenzione si pone, quindi, in contrapposizione alle diverse concezioni e definizioni del
peccato nei suoi molteplici aspetti.
F. Prat fa notare: «La redenzione è appunto la distruzione del peccato. Quanti sono gli aspetti del peccato,
tante sono le facce della redenzione:
- se il peccato è una caduta, la redenzione sarà un risollevamento;
- se il peccato è una malattia, la redenzione sarà un rimedio;
- se il peccato è un debito, la redenzione sarà un pagamento;
- se il peccato è una schiavitù, la redenzione sarà una liberazione;
- se il peccato è una offesa, la redenzione sarà una soddisfazione».182
E come abbiamo espresso nel primo capitolo:
- il peccato è la manifestazione della mancanza di fiducia dell’uomo nei confronti di Dio, la redenzione è l’opera
che Dio compie per far rigermogliare nel cuore dell’uomo la fiducia nei suoi confronti;
- il peccato è la separazione dell’uomo da Dio, la redenzione presenta l’opera che Dio compie per stare accanto
all’uomo affinché questi accetti la sua presenza;
- il peccato è la trasgressione della legge, la redenzione è la trascrizione della legge nel cuore dell’uomo.
La contrapposizione può essere allungata.
Gli autori biblici, possiamo pensare che, nel presentare la salvezza abbiano risposto alle varie situazioni non
costruendo un sistema preconfezionato ma usando delle immagini, delle metafore. Essi hanno proposto, secondo
i bisogni dei loro ascoltatori o a seguito di proprie riflessioni, delle parziali spiegazioni. I termini giuridici, legali
(giusto, colpevole, legge) che vengono utilizzati nel quadro della redenzione, sono presi in prestito dall’ambiente
socio-culturale del tempo degli autori biblici, ed essi devono, però, essere compresi alla luce del Padre che non
ha mai cessato di amare la sua creatura, anche quando sulla croce, nel Figlio, era schernito e rifiutato. L’azione
redentrice di Dio ha lo scopo di ricondurre l’uomo a Sé e, nel compierla, il peccato si manifesta esplodendo in
tutta la sua virulenza e assurdità
La grazia di Dio non è in contrapposizione a qualcosa, ma scaturisce come un fiume dirompente dal cuore
di Dio e rigenera coloro che si lasciano sommergere da questa inondazione di vita.
182
F. Prat, o.c., vol. 2, Paris 1961, p. 226.
La pazzia di Dio
72
TEORIE PROPOSTE PER SPIEGARE LA MORTE DI GESÙ
L’annuncio della salvezza si muove in un mondo socioculturale dove si usano correntemente espressioni
giuridiche, morali, economiche, familiari, sociali e religiose. I modi di dire di questo linguaggio sono utilizzati
anche dagli autori biblici per illustrare l’uomo nella sua condizione di peccato e il suo passare da questo stato a
quello di salvezza.
Il teologo William G. Johnsson nel corso delle sue lezioni spiegava che con il linguaggio giuridico si
immagina l’uomo posto davanti a una corte di giustizia e, a causa del suo peccato, lo si dichiara, nei confronti di
Dio, colpevole. In questa situazione l’uomo ha bisogno di essere perdonato. Il quadro nel quale ci muoviamo è
quello giuridico (tribunale, imputato, colpa), il linguaggio usato per la salvezza deve essere corrispondente e il
termine che esprime la redenzione è “giustificazione”, cioè, considerato giusto (Romani 2:21; 3:4; Galati 2:3).
Illustrando la relazione Dio-uomo-Dio con il linguaggio morale, il peccato è segno di inimicizia. Per
ristabilire armonia occorre la ”riconciliazione” (2 Corinzi 5:18-20; Romani 5:10,11; Colossesi 1:20).
Nel linguaggio familiare l’uomo, rinnegando la sua relazione familiare con il Padre, vive nel suo silenzio
come un orfano. Ha bisogno di un focolare. Dio gli offre la sua casa, lo adotta: Gesù è presentato come fratello
(Romani 8:13-23; Galati 4:5; Efesi 1:8).
Utilizzando una illustrazione sociale, l’uomo peccatore è visto nella posizione di uno schiavo, venduto al
peccato, diventato il suo signore. Per uscire da questa situazione e ritornare libero, poiché da solo non può, ha
bisogno di un liberatore, di un salvatore che lo affranchi. Siccome nel tempo biblico gli schiavi venivano liberati
a seguito di pagamento, di riscatto, l’uomo, sempre nell’ambito di questa illustrazione, ha bisogno di qualcuno
che paghi il prezzo della sua liberazione. Per questo motivo la Sacra Scrittura utilizza l’espressione tecnica:
riscatto, redenzione, ma in realtà questo riscatto non è stato pagato a nessuno. In questo contesto la nostra
liberazione ha avuto come contropartita il prezzo del sacrificio della croce (1 Corinzi 7:22, Galati 5; Romani
8:2).
Nel linguaggio cultuale, religioso, il sacrificio che veniva offerto per il peccato era una parabola di quanto
Dio compiva. In tale illustrazione il sacrificio era visto come un qualcosa di insufficiente per la salvezza; da qui
la necessità che un sacrificio migliore, più eccellente, perfetto venisse offerto. In questo quadro religioso il
sacrificio è presentato come mezzo di espiazione, di purificazione (Romani 3:25; Efesi 2:5).
Nel linguaggio fisico-estetico il peccato è una macchia, qualcosa che sporca; il rimedio a questa situazione
è un bagno, il termine utilizzato è purificazione (1 Corinzi 6:8; Efesi 5:2-6; Tito 2:12).
Il linguaggio biblico, come qualsiasi linguaggio, per essere ben compreso deve tenere conto
dell’intenzionalità dell’autore.
Bere un bicchiere, significa bere il contenuto, sollevare una città significa alzare gli abitanti. Il testo sacro,
per esempio, dice che l’Eterno è il buon pastore. È un’illustrazione meravigliosa che deve, però, essere utilizzata
solamente nella prospettiva intenzionale dell’autore. Con questa immagine si vuole presentare Dio che si prende
cura degli uomini, come un buon pastore che ha cura del suo gregge e che, quindi, agisce di conseguenza. In
questa illustrazione è fuori dall’ottica dell’autore il pastore che cura le sue pecore per avere una lana migliore,
una carne più saporita, un capo di pregio. All’Eterno non si possono attribuire gli interessi del pastore che
macella le sue pecore e trae profitto da esse. Questa illustrazione del buon pastore è vera e valida per l’immagine
che si vuole presentare di Dio.
Il Salvatore è presentato nella figura dell’agnello, ciò non vuol dire che sia uno sprovveduto, lasciato in
balia degli avvenimenti senza capacità di imporre la sua forza. Questa illustrazione vuole dire che il Messia, «il
leone della tribù di Giuda» Apocalisse 5:5, forte, vigoroso, che decide i momenti, viene verso gli uomini
manifestando la sua mitezza e facendosi volontariamente vulnerabile.
La Bibbia parla del Regno di Dio e ci presenta il Signore incoronato con lo scettro e attorniato dai salvati i
quali, a loro volta, hanno in capo un diadema. Il linguaggio utilizzato riflette chiaramente il tempo in cui lo
scettro era segno di potere e di autorità, e la corona simbolo di regalità e nobiltà. Questo linguaggio non è una
descrizione della realtà dei nuovi cieli e della nuova terra, ma è una rappresentazione che tiene conto degli
schemi mentali degli uomini per presentare un futuro di ordine, di libertà e di giustizia.
COME GESÙ HA CONSIDERATO LA SUA MORTE183
Sebbene la croce sia la conseguenza della storia, dalle parole di Gesù, si può cogliere lo scopo che gli ha
dato. Una riflessione attenta crediamo faccia emergere quale sia stata la reazione del Signore al progetto degli
uomini di eliminarlo.
Dai vangeli possiamo cogliere i motivi della missione di Gesù per l’umanità.
- «Bisogna che io evangelizzi (annunci) il regno di Dio; poiché è per questo che io sono venuto» Luca 4:43.
183
In questa sezione ci ispiriamo al lavoro del prof. STÉVENY George, Le Mystère de la Croix, vrai Visage de Dieu, manoscritto, s.l.,
s.d., manoscritto. Per alcune precisazioni linguistiche: GEORGE Augustin, in Lumière de vie, n. 101, Lyon, marzo 1971, pp. 34-59.
La pazzia di Dio
73
CAPITOLO IV
- Non triterà la canna rotta e non spegnerà il lucignolo fumante, finché non abbia fatto trionfare la giustizia
(Matteo 12:20).
- «Io ho manifestato il tuo nome agli uomini che tu mi hai dati dal mondo» Giovanni 17:6.
- «Io sono nato… e sono venuto nel mondo, per testimoniare della verità» Giovanni 18:37.
Gesù all’inizio del suo ministero, nella sinagoga di Nazaret dalle pagine del profeta Isaia coglie il senso
della sua opera: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo egli mi ha unto per evangelizzare i poveri; mi
ha mandato a bandire liberazione ai prigionieri, ed ai ciechi recupero della vista; a rimettere in libertà gli
oppressi, e a predicare l’anno accettevole al Signore» Luca 4:18,19; cfr. Isaia 61:1,2. «L’anno accettevole al
Signore» era l’anno sabbatico, ogni sette anni, durante il quale si faceva riposare la terra (Levitico 25:4-7), si
rimettevano i debiti (Deuteronomio 15:1,2), si liberavano gli schiavi (Esodo 21.2 e seg.); ed era anche quello del
giubileo, ogni cinquanta anni, nel quale ognuno rientrava in possesso delle proprie terre (Levitico 25:10-17).
Gesù pone questa liberazione sociale sul piano spirituale, anche se la sua opera ha espresso grazia ai più deboli,
agli ammalati.
A causa del contrasto con le autorità religiose e il suo annuncio del Regno si vengono a creare dei
fraintendimenti politici e Gesù intravede la fine violenta della sua vita. A tale proposito H. Schuermann scrive:
«Gesù non poteva vivere, lavorare e predicare che con la prospettiva di una eventuale morte violenta davanti
agli occhi. È questo un argomento che è largamente riconosciuto dalle ricerche attuali».184
Gesù annuncia la sua morte a più riprese, e indica le autorità religiose a lui contemporanee come i
discendenti di coloro che hanno ucciso i profeti (Matteo 23:29-37) e vede in loro coloro che vogliono
sopprimere il figlio del padrone della vigna (Matteo 21:34-46), in contrasto con i sentimenti del Padre che non
voleva la sua morte, ma inviava il figlio per suscitare rispetto nei suoi confronti (21:37). Gesù non si fa illusioni
a proposito della propria persona.
Gesù di Giuda aveva detto: «Certo il Figlio dell’uomo se ne va, com’è scritto di lui; ma guai a quell’uomo
per cui il Figlio dell’uomo è tradito! Meglio sarebbe stato che quest’uomo non fosse mai nato» Matteo 14:21.
Non c’è nulla nell’arresto di Gesù, nel suo giudizio che corrisponda a un progetto del Padre. Anzi ancora di
Giuda Giovanni precisa in occasione dell’ultima cena: «Il diavolo aveva messo in cuor a Giuda Iscariot, di
tradirlo» e «dopo il boccone, Satana entrò in lui» Giovanni 13:2,27. Di questo istigatore Gesù dirà nella stessa
sera: «Il principe di questo mondo… non ha nulla in me (Gesù); ma così avviene, affinché il mondo conosca
che amo il Padre, e opero come il Padre mi ha ordinato» 14:30,31. E quando legato dirà a Pilato: «Tu non
avresti podestà alcuna contro di me, se ciò non ti fosse stato dato da alto; perciò chi mi ha dato nelle tue mani, ha
maggiore colpa» 19:11.
Conseguenza della morte di Gesù
Nell’ultima sera Gesù mette in relazione la sua morte con l’azione dello Spirito Santo nei confronti
dell’umanità.
«Convincerà il mondo quanto al peccato, alla giustizia e al giudizio.
Quanto al peccato, perché non credono in me.
Quanto alla giustizia, perché me ne vado al Padre.
Quanto al giudizio, perché il principe di questo mondo è stato giudicato» Giovanni 16:8,9.
Giovanni aveva scritto nel suo prologo che «la parola fatta carne», il Signore «è venuto in casa sua, e i suoi
non l’hanno ricevuto» Giovanni 1:14,11, cioè non gli hanno prestato fede, non gli hanno creduto. Il mondo così
come è, non è quello creato da Dio, è in una realtà di peccato, di morte, cioè di separazione dall’Eterno, dalla
vita, dalla verità. Il mondo è in uno stato di morte. Per questo motivo Paolo, pur dedicando il suo vivere
all’umanità, dirà ai Galati, alla conclusione della sua lettera, che il mondo nello stato di morte in cui si trova non
ha nulla che lo attrae: «Io non mi glorio d’altro che della croce del Signore nostro Gesù Cristo, mediante la quale
il mondo, per me, è stato crocifisso, e io sono stato crocifisso per il mondo» Galati 6:14. Il mondo in questo
stato di peccato, di morte non ha in sé nulla per cui sperare.
Nella morte di Gesù si esprime la giustizia, non perché il Signore è morto al posto dei peccatori e Dio ha
avuto soddisfazione, ma perché la sua morte a causa dei peccatori è seguita a Pasqua dalla risurrezione che
dimostra l’intervento di Dio in favore della verità, del Giusto. Gesù è morto non perché rappresentante o
responsabile del peccato dell’uomo, ma perché colpito dal male degli uomini, dalla violenza che gli è stata fatta.
La giustizia, vinta alla croce, con la morte dell’innocente, non poteva permettere che Gesù rimanesse nel potere
della morte (Atti 2:24). La risurrezione porta il Signore al Padre.
La morte di Gesù sentenzia il giudizio dell’universo sull’opera di Satana. Ciò che Dio sapeva
dell’Avversario: «non c’è verità in lui», è «il padre della menzogna», «omicida», alla croce s’impone in tutta la
sua veridicità per l’eternità.
184
SCHUERMANN H., Comment Jésus a-t-il vécu sa mort?, Cerf, Paris 1977, p. 41.
La pazzia di Dio
74
TEORIE PROPOSTE PER SPIEGARE LA MORTE DI GESÙ
Nel Getsemani Gesù sudava sangue e chiedeva a Dio: «Padre mio, se è possibile, passi oltre da me questo
calice! Ma pure, non come voglio io, ma come tu vuoi» Matteo 26:39.
Il prof. G. Stèveny anche a seguito di P. Jouon185 fa un importante distinguo: la volontà del Padre è
espressa mediante il verbo thelô che significa “consentire” e non boulomai che ha significato di volontà
deliberata.
Sia il Figlio che il Padre a seguito dell’incarnazione o anche dalla ribellione originaria potevano far finta di
niente, cioè abbandonare il confronto con l’Avversario, o accettare le sfide determinate dal nemico. La volontà
di Dio non è quella di creare le circostanze e situazioni che portano alla morte di Gesù, ma di vincere Satana sul
suo terreno. La storia ci presenta come le forze del male hanno operato per sopprimere il Signore. Non è il Padre
che ha concepito il progetto del Golgota, ma sono stati gli uomini del suo tempo, e Satana è stato l’istigatore.
Dio ha cercato l’uomo perso in questo mondo dall’Eden in poi. La lettura teologica della Bibbia presenta
come il Signore abbia cercato di raggiungerlo e di farsi riconoscere e accettare. Questa volontà personale di Dio
di essere il bene dell’uomo, di stare con lui, di ricondurlo a Casa, è espressa nella persona di Gesù. Pur di riavere
con sé i suoi figli perduti e vincere colui che nega la sua natura di essere amore (1 Giovanni 4:8), il Padre
accetta, si sottopone alla volontà, al progetto degli uomini e vincerli nell’espressione ultima della loro ribellione:
«Sopprimere il Dio della gloria».
Gesù chi pensa abbia voluto la sua morte: Satana o il Padre?
Satana è colui che ha il potere dell’«impero della morte» Ebrei 2:14, ed «è stato omicida fin dal principio»
Giovanni 8:44.186 Per questo suo modo di essere Gesù poteva dire: «Non ha nulla di me» Giovanni 14:30. Gli
uomini nel persistere nella loro incredulità sarebbero morti (Giovanni 8:24), ma Gesù vede nella morte che gli
avrebbero inflitto, l’elemento che li avrebbe portati a credere: «Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo,
allora conoscerete che io sono», e «quando sarò innalzato dalla terra, trarrò tutti a me» Giovanni 8:28; 12:32.
Alla trasfigurazione quando Gesù poteva salire al cielo con Elia e Mosè, il Maestro interrompe il suo
processo che dalla santificazione lo avrebbe portato alla gloria, per salire, uscire dalla terra per entrare nel cielo
passando da Gerusalemme che uccide i profeti e coloro che gli vengono inviati.
Gesù dirà: «Per questo mi ama il Padre; perché io depongo la mia vita, per ripigliarla poi. Nessuno me la
toglie, ma la depongo da me. Io ho podestà di deporla e ho podestà di ripigliarla. Questo ordine ho ricevuto dal
Padre mio» Giovanni 10:17,18.
Il Signore che era fuggito ha chi voleva il suo male, giunto nell’ora “x”, pur avendo la possibilità di
continuare a sfuggire, anche di scendere dalla croce, accetta che la volontà del Padre venga fatta. Volontà che
non vuole la morte del Figlio, ma la sua fedeltà.
Sulla croce Gesù pur non sentendo la presenza liberatrice del Padre e avvertendo il Suo abbandono, pur
essendo in simbiosi con lui, per la salvezza degli uomini, gli esprime tutta la sua fede, la sua fiducia, la sua
certezza, la sua passione e gli dice: «Padre, nelle tue mani rimetto lo spirito mio» Luca 23:46.
185
JOUON P., Les verbes boulomai et thelô dans le Nouveau Testament, in Revue Sciences Religieuses, n. XXX, 1040, pp. 227-238.
Riportiamo quanto scrive SCHRENK Gottlob, Boulemai, in Grande Lessico del Nuovo Testamento, vol II, Paideia, Brescia 1966, col.
301 e seg.: «L’originaria distinzione semantica fra Boulomai e (e)thelo è sempre oggetto di accesa controversia tra i filologi. Due tesi
contrapposte si contendono il campo:
a) la prima vede thelein l’appetizione istintiva e irriflessa e in Boulesthai invece quella razionale e cosciente. Secondo questa tesi
ethelein indicherebbe perciò il valore per inclinazione, per istinto naturale, la proclivitas animi e desiderio, mentre Boulesthai
designerebbe il valore per deliberazione riflessa, il consilium secundum deliberationem.
b) Secondo altri invece ethelein indicherebbe la decisione pratica dell’intelletto, mentre Boulesthai significherebbe aver voglia, ossia
un’inclinazione o un desiderio dell’anima». Infatti lo stesso SCHRENK Gottlob in Thélein, nel Grande Lessico del Nuovo
Testamento, vol IV, Paideia, Brescia 1968, col. 269, scrive: «Riferito a Dio, thélein ha sempre un carattere di fermezza assoluta, di
sovrana sicurezza e di certa efficacia. Ề un valore risoluto, integrale…. Significa sempre: a) volontà divina nella creazione (1
Corinzi 12:18; 15:38), oppure b) la sovranità di Dio nell’opera di salvezza (Giovanni 3:8, riferito allo Spirito nel rigenerare; 1
Timoteo 2:4, riferito alla sovrana e misericordiosa volontà di salvezza universale)».
«La prima tesi – continua G. Schrenk, nel II volume - è corroborata dall’innegabile connessione etimologica esistente fra Boulesthai e
Boule, Bouleuein, Bouleusthai, mentre a favore della seconda sta il frequente uso di Boulesthai come sinonimo di emithumein.
Il fatto che l’uso omerico ed erodoteo presupponga come significato primo di Boulomai quello di voler piuttosto, preferire, decidere,
scegliere (sovente con la congiunzione e) è una chiara conferma della tesi, sostenuta per primo da Ammonio, che attribuisce a Boulomai il
significato fondamentale di voler in base a una scelta, preferire, decidere. Da questo primitivo significato è sorto poi quello generico di
bramare, decidere, mirare…
Boulomai nel N.T.
a) Nella maggioranza dei passi neotestamentari Boulomai presenta, come nei LXX, in Aristea, Giuseppe, Filone, il significato di
desiderare, bramare, proporsi, spesso confusi fra loro (ventisette passi su trentasette complessivi).
b) Invece in tre passi delle lettere pastorali indica una disposizione impartita dall’autorità apostolica.»
c) Più importanti dal punto di vista teologico sono naturalmente i passi (sette) in cui Boulomai esprime la volontà di Dio, del Figlio e
dello Spirito. In Ebrei 6:17 si legge che Dio, nell’ambito dell’economia della salvezza, ha voluto dimostrare con maggiore
evidenza l’immutabilità del suo proposito agli eredi della salvezza. In questo caso Boulomai indica l’eterno e inalterabile
consiglio di Dio, allo stesso modo che in 2 Pietro 3:9 esprime la volontà divina di condurre tutti gli uomini alla salvezza».
186
Anche se non risulta che Satana abbia ucciso qualcuno, la sua ribellione nell’eternità (Isaia 14:12-15; Ezechiele 28:11 e seg.) è
fermento di crimini, di morte.
La pazzia di Dio
75
CAPITOLO IV
Attraverso la croce, ancor più di qualsiasi altra prova, Gesù giunge alla «perfezione» alla pienezza della sua
maturità di fiducia al Padre, rimanendogli fedele e continuando a credere nella sua bontà contro i suoi silenzi e i
non interventi (Ebrei 2:10; 5:9), diventando così autore di salvezza per tutti coloro che gli ubbidiscono, cioè gli
credono (5:9).
Dopo la sua risurrezione con i discepoli sulla via di Emmaus Gesù insegnava: «Non bisognava che il Cristo
soffrisse queste cose ed entrasse quindi nella sua gloria?» Luca 24:26.
Per 102 volte troviamo nel N.T. il verbo edei “bisognare”. Questo verbo esprime una necessità oggettiva,
ma anche una necessità di circostanza. Necessità oggettiva: l’uomo per vivere bisogna che respiri. Necessità di
circostanza: l’uomo vive in una grande città e per vivere bisogna che respiri aria inquinata. Pietro scrive che
«sebbene ora, per un po’ di tempo, se così bisogna, siate afflitti da svariate prove» 1 Pietro 1:6. Il fatto che i
credenti subiscano delle difficoltà non corrisponde a un bisogno oggettivo, come se qualcuno, il Padre, lo abbia
programmato e lo voglia. Le prove corrispondono a un bisogno di circostanza: la fedeltà ai valori dell’eternità
comporta il subire il male. Paolo dice che «bisogna che ci sia tra voi anche delle sette» 1 Corinzi 11:19. Questa
necessità negativa di sette, di divisione, quindi di male, non corrisponde a nessuna volontà di Dio, ma
permettono ai credenti «che sono approvati di manifestarsi» mediante la loro fedeltà. La setta è un fatto
negativo, di divisione, contrapposizione tra gli uomini. Anche la setta, espressione del male, permette al credente
e a Dio, pur non volendola, di manifestare la natura della sua relazione con Dio.
Il verbo “bisognare” esprime, quindi, una necessità di situazione e per questo motivo il “bisogna” non
esprime, nell’economia della rivelazione, un programma, una volontà, un decreto di Dio. Nel nostro caso il
bisogno della morte di Gesù non corrisponde a una necessità, a un progetto di sofferenza voluto dal Padre, ma al
risultato di una realtà in contrasto con Dio stesso.
La morte di Gesù diventa un bisogno, non perché è voluta da Dio per poter soddisfare la sua necessità di
perdonare, ma perché essa è la conseguenza del fatto che Dio vuole vincere il male non nella sua onnipotenza,
suscitando paura in chi vuole vedere le cose diversamente da lui, ma nel suo amore, nel suo rispetto delle
creature, nel suo essere come una creatura e vincere il male come lo avrebbero potuto vincere loro.
Scrive C. L’Espattenier: «La Passione è inevitabile in ragione di ciò che sono gli uomini: coloro che
proclamano le esigenze di Dio suscitano sempre l’odio degli orgogliosi che rifiutano di vedere, disonorare le
loro ingiustizie… La Passione è inevitabile in ragione di ciò che è Dio: se la sua santità e la sua giustizia sono
quelle dell’amore, bisognava la sofferenza di Cristo per incarnare la solidarietà totale di questo Dio con le
vittime di tutte le violenze. Bisognava perché il suo regno, la sua potenza e la sua gloria non possano mai
apparire come un potere che schiaccia e umilia».187 Tutti coloro che hanno subito violenza, che nel nome dei
loro ideali di giustizia e di solidarietà sono stati vinti, hanno in Cristo Gesù, in Dio, nella croce del Golgota la
piena, totale espressione della solidarietà, della condivisione. Gli ammalati hanno in Gesù la consolazione, la
speranza. Non soffrono per un principio, ma per una circostanza, situazione. In Gesù, Dio si è avvicinato a loro e
le guarigioni del passato annunciano il tempo in cui la malattia non ci sarà più.
La morte di Gesù non è stata progettata da Dio nell’eternità, ma dall’eternità è stata prevista da lui. La croce
inventata dagli uomini è stata accettata da Dio per la nostra salvezza. Il Padre e il Figlio non hanno voluto la
croce, ma avendola vista prima, che il mondo fosse, l’hanno accettata come percorso di vita, come programma di
salvezza. In questo senso «Dio ha tanto amato il mondo che ha dato il suo unico Figlio» Giovanni 3:16. In
questa prospettiva Pietro potrà dire alla Pentecoste che Gesù è stato dato nelle mani delle autorità di
Gerusalemme «per il determinato consiglio e per la prescienza di Dio» e che quindi la sua morte fa parte di un
piano (Atti 2:23; 1 Pietro 1:20) e Paolo scriverà ai Romani dicendo che il Padre «ha prestabilito (il Figlio) come
propiziazione» Romani 3:25. Tutto il dramma del Golgota è «conforme al proponimento (disegno) eterno
ch’Egli (Dio) ha mandato ad effetto nel nostro Signore, Gesù Cristo (o da lui Dio), formulato in Cristo Gesù…)»
Efesi 3:11. Radicalizzando queste dichiarazioni facciamo dell’Eterno il creatore della passione del Figlio, il Dio
che non comprendiamo. Nell’ottica che presentiamo acquistano una dimensione che il cuore e la ragione
possano accettare.
La croce ci presenta le estreme conseguenza del male. È ciò che Platone aveva previsto quando insegnava
che se la terra un giorno avesse conosciuto un giusto, questo sarebbe stato inchiodato «al legno». Il giusto,
scrive: «come io l’ho descritto sarà frustato, torturato, imprigionato; gli si bruceranno gli occhi, e per finire,
dopo aver subito ogni sorta di male, sarà impalato».188
Non è Dio che ha voluto che “bisognava” che Giuseppe, il figlio di Giacobbe, facesse l’esperienza di essere
venduto a dei commercianti e che andasse in galera per le bugie della moglie di Potifarre. Ma Dio da quelle
circostanze storiche ha tratto un “bisognava”. Quella strada voluta da degli uomini è stata percorsa anche da Dio
per dare al clan di Giacobbe, pace, prosperità e benessere. Si deve quindi pensare che Dio aveva per Giacobbe
un suo progetto di bene, ma a causa del comportamento degli uomini, invidia dei fratelli, immoralità di una
donna, Dio lo ha dovuto adattare, sottomettersi alle circostanze per poter camminare con gli uomini sulla loro
stessa strada e per poter trarre il bene da una realtà di male. Questo è anche il “bisogna” dei vangeli.
187
188
L’EPLATTENIER Charles, in Le Christianisme au XXe siecle, 16 aprile 1984, p. 16.
Platone, République, 362a.
La pazzia di Dio
76
TEORIE PROPOSTE PER SPIEGARE LA MORTE DI GESÙ
Dio entrando nella storia, incarnandosi in un mondo di morte fa della gioia, dell’allegrezza del suo amore,
una sofferenza d’inferno. Vive il dramma della nostra miseria, subisce la nostra violenza per far germogliare
nuovamente l’eternità per l’uomo.
Poiché Gesù sulla croce era solo, dirà: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?».
Bernard Sesboüé scriveva: «L’interpretazione di questo versetto fa paura. Poiché coinvolge l’immagine
stessa di Dio. Dal tempo della Riforma, tutta una tradizione d’interpretazione, d’altronde largamente comune ai
protestanti e ai cattolici, vi ha visto un abbandono giustiziario di Gesù da parte di suo Padre. Gesù, in effetti, era
diventato maledizione agli occhi di Dio (Galati 3:13), era stato fatto peccato (2 Corinzi 5:21). Subiva la vendetta
del Padre sul peccato che egli rappresentava ai suoi occhi. Gesù era, dunque, castigato dal Padre stesso e i suoi
carnefici diventavano in qualche modo gli alleati oggettivi, vedere gli esecutori delle alte opere, anche se le sue
intenzioni erano tutt’altro».189
Dal XVI al XIX secolo e anche nel nostro XX secolo la teologia ha fatto partecipare Dio a ciò che può
essere chiamato il gran peccato.
Per la Parola di Dio la morte di Gesù è la vittoria della potenza del male, di Satana (Ebrei 2:14). Siccome la
morte è il salario del peccato (Romani 6:23), Gesù non sarebbe dovuto morire, perché è l’unico uomo che non
ha commesso peccato. L’uomo muore perché ha lasciato la mano di Dio, Gesù è morto confidando nel Padre. Il
Padre ed il Figlio sono uno (Giovanni 17:20,21; 10:30). Gesù muore non perché ha abbandonato il Padre, ma
sebbene il Padre fosse in lui (2 Corinzi 5:19), il Padre lo ha abbandonato, non è intervenuto nel dramma del
Calvario, affinché possa morire.
Anche sulla croce Gesù poteva dire quanto aveva detto qualche ora prima ai suoi discepoli: «L’ora viene,
anzi è venuta, che sarete dispersi, ciascuno dal canto suo, e mi lascerete solo; ma io non sono solo, perché il
Padre è con me. Vi ho detto queste cose affinché abbiate pace in me» Giovanni 16:32,33.
Il «perché» di Gesù sulla croce sottolinea il carattere ingiusto della sua morte e corrisponde a quello che gli
uomini chiedono al Signore: «Fino a quando…?».
Con l’incarnazione Gesù viene a essere uomo, e quindi abbandonato tra gli uomini. La separazione tra Gesù
e Dio è dall’alto e non sua. Per la prima e unica volta nell’universo qualcuno muore senza aver abbandonato
l’Eterno. Al grido di Gesù Dio tace, non interviene e per la prima volta nell’universo Dio ha volontariamente
interrotto la comunicazione con lui, ma Gesù non ha interpretato questo atteggiamento come un rigetto o come
una condanna nei suoi confronti, per lui Dio continua a essere il Padre nel quale confida la sua vita.
Perché Dio non è intervenuto e ha abbandonato il Figlio?
La morte di Gesù è un sacrificio. Il Signore per essere fedele a se stesso si offre, muore.
La morte di Gesù è anche un omicidio è una morte premeditata. Sul piano umano gli uomini l’hanno
premeditata e realizzata.
Il martire accetta la propria morte perché la sua azione ha uno scopo, ma non è per questo da lui voluta e
desiderata. La crocifissione non è esattamente un martirio, Gesù la poteva evitare, poteva scendere dalla croce.
In un sacrificio la vita è offerta. La morte è decisa, accettata. È quanto Gesù ha fatto, ha offerto la sua vita in
sacrificio (Ebrei 9:26). Il sacrificio del Figlio è quello del Padre perché, sebbene la croce laceri le carni del
Signore, i chiodi raggiungono anche il cuore del Padre, perché l’Eterno era in Cristo a riconciliare il mondo con
sé (2 Corinzi 5:19).
Il Padre e il Figlio hanno accettato la croce come un mezzo di salvezza. L’hanno prevista ancora prima della
creazione del mondo. Dio, pur non programmandola, perché è una creazione della mente mortale e distorta
dell’uomo, l’ha messa nel suo programma di eternità (Atti 2:23; 1 Pietro 1:20; Romani 3:25; Efesi 3:11).
Questo “programma” deve essere visto alla luce della parabola dei cattivi vignaioli nei confronti dei quali il
padrone invia il proprio figlio perché pensa e crede: «Forse» avranno rispetto di lui!
La pietra che gli edificatori hanno rigettata, è quella che è diventata la pietra angolare (Luca 20:17). Non è
Dio che ha programmato l’opera di scarto dei costruttori, ma anche nella loro empietà Dio riesce nel suo
progetto di costruzione come da lui voluto: fare di Gesù il fondamento dell’eternità.
Non era il piano voluto da Dio per la salvezza dell’uomo, ma volendo salvare gli uomini Dio ha “adattato” il
suo progetto di salvezza all’azione empia degli uomini. Per salvare gli uomini Dio, di fronte al loro male, si offre
in sacrificio.
Il Padre non assassina e neppure fa e vuole che il Figlio sia assassinato. Gesù non si suicida. Ma la croce
prevista dall’eternità dal Padre e dal Figlio nella storia di un mondo decaduto, al di fuori del Regno di Dio, viene
dalla Divinità accettata, quindi, tenuto conto delle circostanze, come “voluta”, perché non rifiutata. La croce
viene quindi inserita nell’opera di salvezza, diventa, è presentata, è utilizzata come il mezzo di redenzione, il
segno della volontà di Dio di perdonare e di fare grazia.
Il sacrificio di Gesù diventa nell’«ora» “x” ciò che lo porterà alla sua gloria.
189
SESBOÜÉ Bernard, Jésus-Christ médiateur, vol. II, Les Récits du salut, éd. Desclée, Tournai 1992, p. 203.
La pazzia di Dio
77
CAPITOLO IV
Nel piano originale di Dio Gesù avrebbe raggiunto la gloria percorrendo una strada che ora non
conosciamo, ma che possiamo immaginare. Di fronte alla volontà dell’uomo, che ha voluto diversamente, la
divinità si è adattata alla sua azione, pur di raggiungere il suo scopo finale: la salvezza, la vittoria sul male,
sull’empietà degli uomini e giungendo alla gloria attraverso il Golgota.
In tutti gli annunci che Gesù ha fatto della sua morte, mai ha fatto intravedere un, allusione a una pena da
subire.
- «Colui che ama la sua vita la perde; e chi odia la sua vita in questo mondo, la conserverà in vita eterna»
Giovanni 12:25.
- «Quando sarò innalzato dalla terra trarrò tutti a me» Giovanni 12:32.
- «Voi sapete che quelli che sono reputati principi delle nazioni, le signoreggiano; e che i loro grandi usano
potestà sopra di esse. Ma non è così tra voi; anzi chiunque vorrà essere primo, sarà servo di tutti. Poiché
anche il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito ma per servire, e per dare la vita sua come prezzo
di riscatto per molti» Marco 10:42-44.
- «Io sono il buon pastore… per questo mi ama il Padre; perché io depongo la mia vita, per ripigliarla poi.
Nessuno me la toglie, ma la depongo da me. Io ho podestà di deporla e ho podesta-diritto di ripigliarla.
Quest’ordine ho ricevuto dal Padre mio» Giovanni 10:14,17,18.
- «Se il granello di frumento caduto in terra non muore, rimane solo; ma se muore, produce frutto» Giovanni
12:24.
- «Come Mosè innalzo il serpente nel deserto così bisogna che il Figlio dell’uomo sia innalzato, affinché
chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna» Giovanni 3:14,15.
CONCLUSIONE
Non ci sembra che ci sia alcun testo biblico che presenti il Salvatore come colui che a seguito del suo
sacrificio possa finalmente strappare al Padre il perdono, la salvezza, o placare il suo cruccio per la punizione
finalmente manifestata. Per questo motivo molti commentatori che sostengono la teoria della sostituzione e della
soddisfazione riconoscono che la morte di Gesù non modifica i sentimenti del Padre nei confronti dell’umanità.
Gesù è colui che salva l’umanità, ma la redenzione è anche fondamentalmente l’opera del Padre al quale
Paolo, nelle sue lettere pastorali, nel mettere in evidenza quanto l’Eterno ha compiuto, gli attribuisce il titolo di
salvatore (1 Timoteo 1:1; 2:3; 4:10; Tito 1:3; 2:10; 3:4) come fa anche per Gesù (2 Timoteo 1:10; Tito 1:4;
3:6).
È il Padre che ha tanto amato e ha dato suo Figlio: è Lui che quando viene la pienezza dei tempi manda il
Cristo per liberare gli uomini (Galati 4:4). Lo invia in una carne simile a quella di peccato (Romani 8:3) e lo ha
fatto essere peccato (2 Corinzi 5:21), non lo ha risparmiato, ma lo ha dato completamente per noi (Romani
8:32), e il Padre nel Cristo riconcilia il mondo con sé (2 Corinzi 5:19). Non è il Padre offeso che, grazie alla
croce, si riconcilia con l’umanità ribelle, ma è la croce che porta gli uomini a riconciliarsi con lui e tra di loro:
giudei e gentili (Efesi 2:14-16). La croce è la potenza e la saggezza del Padre (1 Corinzi 1:24), che in Gesù
manifesta in modo inequivocabile la sua volontà di salvezza, di grazia (Efesi 3:11; 2 Timoteo 1:9,10).
Gesù stesso non presenta mai la sua morte come qualcosa che possa cambiare l’atteggiamento del Padre nei
confronti dell’uomo, ma come la conseguenza della malvagità degli anziani, dei capi sacerdoti, degli scribi
(Matteo 16:21; Marco 8:31); a causa del disprezzo (Marco 9:12), degli uomini (Matteo 17:22; Marco 9:31), dei
gentili (Matteo 20:19; Marco 10:33). Nel suo discorso di censura agli scribi e farisei Gesù presenta la sua morte
come ciò che fa colmare la misura della malvagità già espressa dai loro padri che avevano ucciso i profeti
(Matteo 23:31,32). La morte di Gesù viene così presentata come la continuazione della rigetto di coloro che
l’Eterno invia, come è insegnato nella parabola dei cattivi vignaioli (Matteo 21:33-46; Marco 12:1-9). Gli angeli
stessi dopo la risurrezione di Gesù presentano, alle donne che erano andate al sepolcro, la morte di Cristo come
conseguenza della malvagità degli uomini (Luca 24:7).
Sebbene riconosciamo che non sia bene fare teologia basandosi su ciò che non è scritto, riteniamo però
interessanti le riflessioni del domenicano Jacques Pohier che fanno notare come le parabole di Gesù ci
forniscono l’insegnamento che Egli dava sull’atteggiamento di Dio nei confronti dell’uomo peccatore. In tutti i
suoi racconti Gesù non presenta neppure una volta la salvezza, il perdono di Dio, come una sua offerta a seguito
del sacrificio o di un atto redentore compiuto pur anche dal Messia. Così egli non presenta una sola volta nelle
sue parabole il perdono, la salvezza come risultato della morte di qualcuno.190
190
J. Stott critica questo modo di vedere facendo riferimento alla parabola del fariseo e pubblicano, al servo spietato e al figlio prodigo,
facendo tre osservazioni: «Primo, le parabole in questione non fanno allusione nemmeno a Cristo. Da ciò dobbiamo forse dedurre che per il
perdono non vi sia bisogno non solo della croce, ma nemmeno di Cristo? Secondo… le parabole gettano luce sulla condizione del perdono, e
non sul suo fondamento. Essi ci dicono cosa dobbiamo fare, ma non dicono direttamente nulla su cosa ha fatto Dio per il nostro perdono.
Terzo. I cristiani vedono la croce in tutte e tre le parabole perché la misericordia che perdona espressa da Dio all’umile pubblicano, al servo
bancarottiere e al figlio prodigo è stata dimostrata in modo supremo e storico nell’amore di Dio che ha dato se stesso in Cristo, il quale morì
perché i peccatori potessero essere perdonati» o.c., pp. 300,301.
La pazzia di Dio
78
TEORIE PROPOSTE PER SPIEGARE LA MORTE DI GESÙ
L’assenza di questa prospettiva sacrificale espiatoria penale sembra veramente intenzionale se si tiene conto
del fatto che le parabole, pur essendo immagini limitate, avevano lo scopo di illustrare l’operare di Dio. Il
contenuto delle parabole è polemico. Gesù contrappone il suo Dio, che ama i peccatori, a quello insegnato dai
farisei e dai dottori della legge.
La parabola della pecora e della dracma perduta, come quelle del figlio prodigo, degli operai dell’ultima
ora, dell’invito alle nozze, e le altre delle dieci vergini, del pubblicano esaudito e del fariseo respinto, presentano
tutte un Dio che è esattamente il contrario di una divinità che ha bisogno di un sacrificio redentivo per salvare.
In nessuno dei suoi racconti Gesù parla della necessità della espiazione compiuta dal peccatore o da qualcun
altro quale premessa per il perdono o condizione di entrata nel Regno. Il Regno di Dio è sempre accanto ai
peccatori ed essi possono entrare a seguito solamente della conversione, che è l’espressione dell’atto del ritorno
a casa.
J. Pohier scrive che la morte di Gesù «non ha nulla a che vedere con una morte che Dio richiede all’uomo
per poterlo perdonare e rendergli la vita; tutto questo non ha nulla a che vedere con una morte che Dio avrebbe
la magnanimità di ben volere accettare dall’uomo peccatore o dal suo sostituto come un riscatto o un tributo.
Dov’è il tributo richiesto al figlio prodigo, dov’è il riscatto fissato per la pecora perduta, dove è l’espiazione
richiesta perché Gesù possa dire a Zaccheo o a Levi o alla donna adultera: “Io non ti condanno”. Che cosa è più
difficile al Figlio dell’uomo dire al paralitico: “Va’, i tuoi peccati ti sono rimessi”, o dirgli: “Prendi il tuo
lettuccio, levati e cammina?”».191
Nelle parabole è assente completamente la redenzione a seguito della soddisfazione della morte e
dell’espiazione. L’insegnamento di Gesù sembra che contrasti intenzionalmente con le teorie che verranno
successivamente costruite dai predicatori e già presenti presso i suoi contemporanei. Il teologo Joachin Jeremias
a proposito del concetto di espiazione al tempo di Gesù, scrive: «Si conoscevano quattro mezzi principali di
espiazione:
- il pentimento (per i peccati di omissione);
- il sacrificio del giorno; di riconciliazione (pentimento e sacrificio espiano la trasgressione di un divieto);
- la sofferenza (pentimento, sacrificio e sofferenza espiano una trasgressione, che merita sterminio da parte
della potenza divina);
- la morte (pentimento, sacrificio, passione e morte sono tutti necessari per espiare la profanazione del nome
di Dio).
Ci sono poi vari gradi nella forza espiatrice della morte. Ogni morte ha valore di espiazione, quand’è unita
al pentimento. Ciò vale perfino della morte del malfattore; la sua morte espia, quand’egli, prima dell’esecuzione,
pronuncia il voto di espiazione: “La mia morte sia in espiazione (kapparâ) per tutte le mie colpe”. Più che mai
ha forza espiatrice la morte di ciascun israelita, quand’egli pronuncia questo voto di espiazione sul letto di
morte. Ancor più elevata è la forza che ha la morte del giusto: la sua sovrabbondante sofferenza va a vantaggio
di altri. La morte di fanciulli innocenti espia le colpe dei loro genitori. Quella del sommo sacerdote fa sì che gli
assassini possano abbandonare le città d’esilio; valendo quale espiazione della loro colpa. Ancora più elevata è
la forza espiatrice della morte del martire. Il giudaismo ellenistico esalta il martirio, perché placa la collera di
Dio contro Israele; ed esso è altresì per Israele risarcimento, mezzo di purificazione, strumento di espiazione...
“Concedi che il mio sangue sia come un lavacro per essi (per il popolo di Dio). Accogli la mia vita come
sostituzione per la loro”: così prega il vecchio martire Eleazaro. Ma nell’ambito palestinese, come è noto, si
sostiene pure che i martiri apportano la fine, che dischiudono al martire il mondo venturo, fanno di lui un
intercessore e, inoltre, che essi possiedono un’efficacia missionaria e operano l’espiazione per Israele».192
Ripetiamo, quanto riportato non è il pensiero biblico, ma quello che i giudei avevano assorbito dalla cultura
del tempo. Infatti L. Boff precisa: «Questa interpretazione (che il martirio placa la collera di Dio, e il giusto paga
per l’innocente, viene dal mondo ellenico, pagano) si articola fuori dalla Palestina, nel giudaismo della diaspora.
Nella Palestina la concentrazione dei sacrifici espiatori nel tempio, dove si offrivano animali e si versava il
sangue, impediva una simile interpretazione. A nessuno sarebbe passato per la testa che la morte e il sangue di
un giusto potesse essere interpretata come espiazione dei peccati. Il sangue umano non era mai stato considerato
come sangue sacrificale ed espiatorio. I Giudei della diaspora però, che non avevano tempio, potevano usare una
simile terminologia applicata al sangue umano».193
Sebbene Luca sia l’evangelista che abbia scritto di più (vangelo e libro degli Atti) e più degli altri fa
riferimento alla morte di Gesù e come discepolo di Paolo conosceva molto bene l’insegnamento dell’apostolo
sulla croce, egli però: «non parla della morte di Gesù in termini sacrificali, non parla mai del valore espiatorio
della sua morte» e L. Moraldi fa notare: «Luca non asserisce mai che Gesù è morto “per noi” o “per i nostri
peccati”; non parla mai della morte di Gesù in termini sacrificali, non parla mai del valore espiatorio della sua
morte: eppure è l’autore al quale risale la parte più estesa di tutto il N.T. (vangelo e Atti), e il suo Vangelo è
quello che parla e allude più spesso alla morte di Gesù anche con dati che sono esclusivi (tra i passi concernenti
191
192
193
POHIER Jacques, Quand je dis Dieu, 1987, pp. 164,165.
JEREMIAS Joachin, Teologia del Nuovo Testamento, ed. Paideia, Brescia, pp. 328,329.
L. Boff., o.c., p. 105.
La pazzia di Dio
79
CAPITOLO IV
esclusivamente la Passione si possono ricordare: l’intervento di Satana (22:3), è l’ora delle tenebre (22:53 confr.
4:13), le sette allusioni scritturali (22:34,43-45; 23:30,35,46,48,49), le sette parole di Gesù in croce (22:1518,3,48; 23:28-31; 23:34,43,46), né vi può essere dubbio che conoscesse la sintesi del kerigma primitivo riferito
da S. Paolo: “... Cristo morì per i nostri peccati...” 1 Corinzi 15:3. È vero che anche gli altri due sinottici hanno
poco più di Luca, cioè: il loghion eucaristico (Matteo 26:28 e Marco 14:24) con il riferimento al Servo di Jahvé,
e il loghion sul Figlio dell’uomo (Matteo 20:28 e Marco 14:10): tuttavia in Luca si riscontrano altri dati
interessanti:
1. fa un uso singolare dei testi di Isaia sul Servo di Jahvé, in quanto evita di applicare all’azione di Gesù valore
espiatorio e ne mette in luce piuttosto la sua sofferenza, la morte e l’esaltazione;
2. è significativa la narrazione dell’incontro di Filippo con l’eunuco che sta leggendo Isaia (Atti 8:27-35), cita
alla lettera Isaia 53:7,8, tralasciando però l’ultimo stico “per l’iniquità dei mio popolo fu percosso”, e salta
Isaia 53:4-6 e 9-12 ove si parla dei peccati del popolo;
3. nel loghion eucaristico (Luca 22:20) è assente l’allusione del Servo di Jahvé e l’evangelista sottolinea il
valore salvifico della morte di Gesù additando verosimilmente un sacrificio di alleanza;
4. nel discorso di Stefano (Atti 7:2-53) tesse una attenta e sottile filigrana tipologica di Gesù, sottolineando le
persecuzioni di cui sono oggetto i giusti apportatori di salvezza e delinea il martirio di Stefano su quello di
Gesù, ma si astiene da ogni accenno espiatorio;
5. una volta - nel discorso di addio di san Paolo a Efeso - parla in un modo per lui insolito della morte di Gesù, e
lo fa con una espressione piena di difficoltà “... la chiesa di Dio, che egli (Dio) si è acquistata col proprio
sangue - dia tou aimatos tou idiou”, Atti 20:28 trattandosi della chiesa è verosimile che Luca avesse presente
il sacrificio dell’alleanza come nelle parole eucaristiche...
Più degli altri vangeli, il vangelo di Luca proclama ripetutamente che la salvezza dell’umanità è in Gesù, fin
dal vangelo dell’infanzia addita in Gesù il “salvatore”, “la salvezza” (1:59,71,72; 2:11,30; 3:6); più degli altri si
serve del verbo “salvare” e del sostantivo “salvezza”, e dalla Pentecoste in poi presenta l’inizio della
proclamazione di Gesù “salvatore” e apportatore della “salvezza” (cioè del perdono dei peccati, dell’accesso alla
vita e del dono dello Spirito), ma tutto ciò - come indica la stessa costruzione della sua opera (Vangelo - Atti) - è
strettamente connessa alla risurrezione ed esaltazione di Gesù. È significativo che anche il perdono dei peccati
sia collegato alla risurrezione. “Dio ha esaltato... questo principe e salvatore per accordare, per mezzo suo, a
Israele la penitenza e la remissione dei peccati” Atti 5:31. A eccezione del tratto della Passione, Luca non parla
pressoché mai della morte di Gesù senza menzionare la sua risurrezione: vede, infatti, nella morte la necessaria
premessa della glorificazione: “Ma prima è necessario che soffra...” 17:24,25; “Non doveva forse il Cristo patire
tali cose ed entrare così nella sua gloria?” 24:26. D’onde l’accostamento del IV vangelo dell’uso di termini
ambivalenti indicanti sia la morte sia la glorificazione. Anche san Paolo scrive: “... e se Cristo non è risorto... voi
siete ancora nei vostri peccati” 1 Corinzi 15:17, ma Luca appunta tutto sulla glorificazione attraverso la morte, e
di qui la sua originalità nella presentazione della croce di Gesù...
Tradisce una riflessione non completa la sentenza di qualche studioso che addita in Luca una vanificazione
della “teologia della croce”, negli scritti lucani vi è piuttosto un ridimensionamento importante ed esemplare
della redenzione... dando la preferenza alla “immagine del martire” piuttosto che a quella “del sacrificio
espiatorio”... Per il discepolo di Gesù la via della salvezza sta nel compiere il proprio viaggio a Gerusalemme
con Gesù, nel portare la propria croce insieme a Gesù fino al momento della morte, che è salvezza e trionfo
(confr. 9:23; 14:27; 23:26, ecc.)».194
Anche gli altri sinottici, tranne la dichiarazione di Gesù quale Figlio dell’uomo (Matteo 20:28; Marco
14:10), mettono la morte di Gesù in relazione al patto piuttosto che al rito sacrificale.
Analogamente Gesù si pone sulla stessa strada dei profeti che sono venuti prima di lui, dei quali molti sono
stati uccisi per essere stati fino alla fine coerenti con il loro messaggio di ravvedimento (Matteo 23:35). Gesù
sapeva ciò che sa ogni essere umano: chi vuole lottare per la vita deve essere disposto a donarla. Come il chicco
di grano deve morire prima di germogliare in spiga (Giovanni 12:24), come il pastore deve lottare fino alla
morte per salvare le sue pecore (Giovanni 10:11) e, come la pietra angolare deve rischiare di essere scartata,
prima di essere compresa e utilizzata (Matteo 21:42); così Gesù sapeva che la costante osservanza dei propri
ideali porta a bere l’amaro calice (Matteo 20:22). Gesù non soltanto ha predicato tutto ciò, ma lo ha pure
consapevolmente vissuto. Egli sapeva anche bene che la verità sarebbe penetrata nel cuore degli uomini come
una spada e avrebbe bruciato come un fuoco divoratore, e che essa avrebbe diviso famiglie solo in apparenza
unite in una pseudo verità.
Chi avrebbe rifiutato la sua parola sarebbe stato abbandonato a se stesso e, come conseguenza, sarebbe
entrato nell’ombra della morte. L’osservanza del suo insegnamento porta sovente alla morte e la morte è la
conseguenza della vita e non la sua premessa.
L. Boff scrive: «Gesù è morto per gli stessi motivi per i quali tutti i profeti in ogni tempo sono morti: ha
posto i valori da lui predicati al di sopra della sua stessa vita; ha preferito morire liberamente piuttosto che
194
MORALDI Luigi, Per una corretta lettura della Soteriologia biblica, in La Scuola Cattolica, 4,5, luglio-ottobre 1980, pp. 334-337.
La pazzia di Dio
80
TEORIE PROPOSTE PER SPIEGARE LA MORTE DI GESÙ
rinunciare alla verità, alla giustizia, al diritto, all’idea di fraternità universale, alla verità della filiazione divina e
della bontà illimitata di Dio Padre».195
Per A. Dumas: «Jacques Pohier pensa che gli uomini abbiano ucciso Gesù perché annunciava loro un Dio
diverso da quello della vendetta crudele e retributiva. Gli uomini non hanno sopportato che Gesù contestasse i
loro vecchi dii, poiché essi preferivano il dolorismo dell’espiazione al vangelo... della compassione. Ora se c’è
una buona novella in Gesù, è perché Dio si mostra non in modo fittizio sostituto dell’uomo, ma affettivamente
solidale con lui. La passione non è un dramma vissuto al posto nostro, ma la risultante di una vita al nostro
fianco».196
Gesù muore perché ha voluto essere un uomo vero, un uomo che vive per una causa, con una visione. La
visione è il trionfo dell’amore di Dio, il suo Regno. È perché amava coloro che vivevano nel mondo, che ha
portato la croce fino a esserne crocifisso. In qualsiasi momento, avrebbe potuto abbandonarla, ma non lo ha
fatto; anzi ci invita a portarla a nostra volta, ad amare l’altro come lui ha fatto, e a seguirlo (Matteo 16:24).
Gesù non ha abbandonato la croce: l’amore vero si dona senza secondi fini. Colui che ama, dà la propria
vita per gli amici (Giovanni 15:13). Gesù muore perché accetta di essere uomo e lo vuole rimanere
completamente e a ogni costo, anche sulla croce. Di fronte alla violenza del male Dio non soccombe, muore.
Questo Dio che muore sconvolge, converte, vince il male, l’errore, l’Avversario.
P. de Benedetti a proposito della morte di Gesù scrive : «Perché l’ha fatto? Si potrebbe rispondere non certo
con l’empia tesi di Anselmo d’Aosta (a offesa infinita, riparazione infinita), ma con quel midrash che narra
come, quando Dio consegnò la Thora a Mosè, “le tavole avevano una lunghezza di sei palmi. Due palmi erano
fra le mani di Dio. Due palmi erano fra le mani di Mosè. In mezzo, due palmi erano vuoti”. Lì in quei due palmi
vuoti, avvengono le cose del mondo, che - commenta Garota - “possono cogliere di sorpresa Dio stesso”. Il
quale, quando sperimentò il nascere e il morire di Gesù, forse solo allora capì veramente (o meglio, riuscì a
convincerci che aveva capito) il soffrire, capì, anzi sperimentò che ogni lacrima “è suscettibile di pesantezze
superiori a tutta l’armonia cosmica messa insieme».197
La morte di Gesù, da come viene presentata nei vangeli, non è un incidente, bensì un sacrificio. Essa è il
risultato della malvagità degli uomini che non hanno sopportato la vicinanza di Dio. Questa morte, però, ha in sé
anche un elemento divino: Gesù la decide, accondiscende a che gli uomini gliela diano. Avrebbe potuto sfuggire
ai suoi nemici, sarebbe potuto ascendere al cielo in occasione della trasfigurazione, avrebbe potuto far
combattere gli angeli per lui, scendere dalla croce ma, dominando il tempo e le circostanze, le utilizza affinché il
suo sacrificio sia una offerta voluta da lui.
«La morte di Gesù non è una necessità metafisica: è stata la conseguenza di un conflitto e il termine di una
condanna penale e, quindi, della decisione e dell’esecuzione della libertà umana».198
Sono rari gli autori che proiettano le loro riflessioni al di là dei confini del tempo con l’eternità e prendono
in considerazione l’originaria ribellione di Lucifero. Riteniamo interessanti le pagine di Ellen White a tale
proposito. È anche significativo far rilevare che in tutta la sua riflessione, nella quale presenta l’opera che la
seconda persona della Trinità ha fatto per richiamarlo a ravvedimento, non c’è nessuna espressione per un
eventuale sacrificio di riparazione, di espiazione, o morte vicaria che qualcuno avrebbe dovuto subire, se
l’Avversario fosse recesso dalla sua posizione di opposizione all’Eterno.199
Non è Dio che ha voluto la morte di Gesù. Sono interessanti le riflessioni della stessa autrice che descrive
che cosa sarebbe stata Gerusalemme, se avesse accettato il Messia. Gesù piange su Gerusalemme, dopo il suo
ingresso trionfale: «“Oh se tu pure avessi conosciuto in questo giorno quel ch’è per la tua pace!”. Poi il
Salvatore si interrompe, e non dice quale sarebbe stata la condizione di Gerusalemme se avesse accettato l’aiuto
che il Signore desiderava offrirle: il dono del suo amato Figlio. Se Gerusalemme avesse conosciuto ciò che era
suo privilegio conoscere e avesse fatto attenzione alla luce che il cielo le aveva mandato, sarebbe potuta
avanzare nella piena prosperità, come regina dei regni, libera nella forza di Dio. Allora non vi sarebbe stato
alcun soldato straniero alle sue porte, e nessuna bandiera romana avrebbe sventolato sulle sue mura. Il Figlio di
Dio vide il glorioso destino di Gerusalemme se avesse accettato il suo Redentore. Vide che avrebbe potuto
essere guarita dalle sue terribili malattie, liberata dalla sua schiavitù e stabilita come grande metropoli della terra.
Dalle sue mura la colomba della pace sarebbe volata verso tutte le nazioni. Gerusalemme sarebbe diventata il
diadema glorioso del mondo intero. Ma quello splendido quadro si dissolse davanti agli occhi del Salvatore».200
195
L. Boff, o.c., p. 38.
A. Dumas, o.c., p. 583.
197
BENEDETTI Paolo de, Prefazione a, GAROTA Daniele, L’onnipotenza povera di Dio, ed. Paoline, Milano 2001, p. 8.
198
L. Boff, o.c., p. 122.
199
WHITE Ellen, Conquistatori di pace, ed. A.d.V., Falciani 1985, pp. 15-23.
200
WHITE Ellen, La speranza dell’Uomo, ed. A.d.V., Falciani 1978, pp. 408, 409.
D. Carota esprime un pensiero analogo: «Se Gerusalemme avesse riconosciuto il tempo in cui fu visitata; se Israele avesse accolto il
suo Messia; se gli uomini tutti si convertissero al Vangelo, non verrebbe forse il regno di Dio in tutto lo splendore di cui hanno parlato i
profeti? Ma così non è andata e così non va . La storia ha camminato secondo il volere di Dio ma anche secondo quello degli uomini. Dio si
lascia trascinare dall’uomo come un padre colmo d’amore dalle bizzarie del suo figliolo che sperpera ogni sostanza. Al sacrificio di Gesù si
arriva, come già per il libello di ripudio al tempo di Mosè, a causa della nostra “durezza di cuore” iMatteo 19:8. Dio avrebbe voluto
diversamente, avrebbe voluto che io suo Regno sopraggiungesse nella pienezza dell’accoglimento umano che dice: sì, tu sei degno di
196
La pazzia di Dio
81
CAPITOLO IV
«D’altra parte non è pensabile una geometrica programmazione di Dio che abbia previsto freddamente, in
un preciso punto del rettilineo storico, la croce del Figlio suo. Se la tremenda battaglia del Getsemani era già
prestabilita nei suoi esiti, come avrebbe allora potuto Gesù umanamente sperare che il “calice” passasse senza
doverlo bere? Ma se è così, dunque nessun progetto stava al di sopra del padre, e l’amarissima bevanda avrebbe
potuto anche essere evitata».201
Dio nella sua misericordia, nella sua volontà di dare la vita agli uomini, quella vita che continuamente viene
calpestata e schernita, ha manifestato la potenza del suo amore anche attraverso la malvagità degli uomini al
fine di risollevare il mondo. Così la morte di Gesù voluta ed eseguita dagli uomini, e da Lui accettata, è
trasformata da Dio in mezzo di salvezza.
L’Emanuele, presentandosi tra gli uomini, ha fatto manifestare in tutta la sua tremenda virulenza il peccato
che sopprime il Datore della vita; ma, così facendo, il peccato causa la propria sconfitta e distruzione, perché
appare all’universo e all’uomo per quello che esso è. L’autore della lettera agli Ebrei può, quindi, scrivere:
«Cristo è stato manifestato per annullare il peccato nel suo sacrificio» 9:26; cioè, per vincerlo nella sua forza.
Compresa la natura dell’amore di Dio, il peccato diventa odioso per il cuore e la mente dell’uomo.
Il sacrificio di Cristo pone in noi la potenza divina che annulla ogni nostra resistenza nei suoi confronti. La
fede non è sola una forza misteriosa che fa accettare un fatto compiuto, ma è essa che fa scomparire dal cuore
dell’uomo la sfiducia in Dio.
La grazia comincia nell’amore di Dio per l’uomo e ha fine nel nostro amore per lui. Per questo Paolo scrive:
«Noi abbiamo la mente di Cristo» 1 Corinzi 2:16. E ancora: «Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in
me» Galati 2:20.
La giustizia di Dio si dimostra nel credente quando egli, mediante la fede, vive il dono della grazia di Dio,
cresce e si sviluppa in conformità alla legge di Dio che è santa, giusta, buona e che il Signore scrive nel cuore
convertito (Romani 7:12; Ebrei 10:16).
«Ciò che Dio domanda è che la trasgressione sparisca e che i ribelli rinuncino alla loro rivolta; ora, è a
questo che tendono le sue compassioni eterne, così come ce le ha manifestate nel suo Figlio (2 Corinzi 5:19)».202
«La croce è l’espiazione dei peccati perché essa è la causa del pentimento a chi la remissione è promessa.
Più io vi rifletto - scriveva A. Sabatier -, più io giungo a questa conclusione chiara: non c’è nel mondo morale e
davanti al Dio del vangelo altra espiazione che il pentimento, cioè questo dramma interno di coscienza nel quale
l’uomo muore al peccato e rinasce alla vita di giustizia. Non c’è nulla di più grande né di migliore poiché il
pentimento è la distruzione del peccato e la salvezza del peccatore è il compimento in noi dell’opera divina».203
Il pentimento è il dolore sincero per quanto fatto. Il pentimento vero comporta un cambiamento di
atteggiamento: la conversione, per gli ebrei tesubah, in greco metanoia. Per la Sacra Scrittura la conversione dei
peccatori «deve considerarsi come un totale e sincero cambiamento di mente e di cuore. Nel N.T. è chiamata
passare dalle tenebre alla luce; dal potere di Satana a Dio; dallo stato dell’ira allo stato di grazia. Essa è
risurrezione spirituale, rinascita, rigenerazione (Atti 26:18; Efesi 2:3-5; Giovanni 3:5). Le note caratteristiche
della vera conversione sono il riconoscimento del peccato, il pentimento, la fede in Gesù Cristo, il compimento
della volontà divina e l’osservanza dei suoi comandamenti. In breve, la conversione è frutto della grazia di Dio.
“Senza di me non potete fare niente” diceva Gesù, Giovanni 15:5, 6:44; 14:6. La conversione è propriamente il
ritorno a Dio».204
«La morte è appena la metà dell’opera redentiva ed esige la risurrezione come suo completamento
necessario. Infatti la giustificazione di ciascuno di noi è prodotta dalla fede e dal battesimo; ora è facile vedere
come la risurrezione di Gesù influisca sopra queste due cause; poiché la nostra fede nel Cristo non è una fede nel
Cristo morto, ma nel Cristo vivente, nel Cristo risuscitato; ed il battesimo non è solamente il simbolo efficace
della morte del Cristo, ma anche quello della vita gloriosa».205
Nella redenzione l’uomo non è, quindi, un testimone passivo di un dramma che si svolgerebbe senza di lui e
dove egli non avrebbe parte. Con il suo battesimo egli muore idealmente sul Calvario col Cristo che muore per
rinascere a nuova vita.
ricevere ogni cosa (Apocalisse 5:12), tu sei il figlio del padrone. Ma i “vignaioli” non hanno fatto questo.. . Gli uomini sputano in faccia a
Dio: gli mettono in mano una canna, lo incoronano di spine, e poi lo fanno regnare da una croce. Ecco come è stato trattato colui che ci ama e
per sempre ci amerà. Non calcoli e programmi secondo un qualche logos eterno, ma uno scandalo e una follia d’amore conducono Dio al
grido della croce e ai margini dell’orrore apocalittico. “Caduta la prima infinita possibilità la Redenzione si orienta sulla via del sacrificio.
Così anche il regno di Dio non viene come avrebbe dovuto venire – esuberante plenitudine destinata a mutare la storia -, ma d’ora in poi
rimane, per così dire, sospeso. Rimane in ‘divenire’, fino alla fine del mondo, legato ormai alle decisioni dei singoli, di ogni piccola comunità
e di ogni tempo, se pure verrà, e fin dove potrà procedere” R. Guardini. È la croce l’arma del combattimento nostro e di Dio, di una lotta
senza quartiere e dagli esiti incerti». GAROTA Daniele, L’onnipotenza povera di Dio, ed. Paoline, Milano 2001, pp. 35,36.
201
Idem, p. 34.
202
BOVON Jules, Théologie du Nouveau Testament, t. II, Lausanne 1894, p. 165.
203
A. Sabatier, o.c., p. 107.
204
BALAQUÈ A., Conversione, in Enciclopedia della Bibbia, vol. II, ed. ElleDiCi, col. 530,531.
205
F. Prat, o.c., pp. 189,190.
La pazzia di Dio
82
TEORIE PROPOSTE PER SPIEGARE LA MORTE DI GESÙ
Lo ripetiamo, l’opera della redenzione compiuta da Gesù consiste nel rivelare all’universo intero, in un
modo che non lascia equivoci, la natura di Dio, l’amore eterno del Padre mediante la sua incarnazione, la sua
vita e soprattutto la sua morte. Questa rivelazione non può che distruggere nell’uomo la diffidenza nei confronti
di Dio e il sacrificio di Cristo vince la morte, l’Avversario e libera l’uomo dal castigo dei propri peccati, o
meglio dal castigo del peccato: la morte seconda (Apocalisse 20:14). L’amore infinito di Dio, contemplato nel
Dio uomo sulla croce, provoca nell’anima umana un amore corrispondente che lo riconduce a Dio.
«Il mondo è destinato a conversione e salvezza, non a distruzione, Dio si è pentito dei giorni del Diluvio: il
mondo va amato con tutte le forze perché si salvi, non perché si consumi nel rogo apocalittico. Non ci saranno
contese p grida, non sarà spezzata la “canna incrinata”, non sarà spento il “lucignolo fumante” Isaia 42:3;
Matteo 12:20. Se il mondo rispondesse con la conversione all’annuncio del “servo” Isaia 42:1, se si unisse
fraternamente non nelle vittoriose costruzioni di una Babele mondana, ma ai “gemiti inesprimibili” Romani 8:26
dello Spirito che invoca con insistenza “per noi” la vittoria di Dio sulla morte, la fine del mondo sarebbe evitata
e l’umanità e la “creazione” trasformate, “in un istante, in un batter d’occhio”, com’è detto per quelli che
saranno ancora in vita nell’ultimo giorno (1 Corinzi 15:51,52). Gesù non è venuto per morire, ma per regnare.
Contro la volontà del Padre che l’aveva mandato ha dovuto piangere lacrime amare davanti ai cuori induriti di
Gerusalemme (Luca 20:13; 19:41), ed essere inchiodato al patibolo. Contro ogni volontà di Dio dunque la
redenzione ha dovuto assumere i toni aspri e il destino della crocifissione e della catastrofe (Matteo 24:21).
Arriva un momento in cui diventa necessario aprire gli occhi sulla grande potenza del male che costringe Dio a
percorrere e far percorrere le vie più terribili, quelle che mai avrebbe voluto conoscere. E in quel momento, se
non si accetta la croce e la si rifiuta, si finisce in mano a satana».206
Ciò che spinge Dio a perdonare le sue creature non è altro che la sua natura, il suo essere Dio: «Io, io sono
quegli che per amore di me stesso cancello le tue trasgressioni, e non mi ricorderò più dei tuoi peccati» Isaia
43:25.
206
D. Garota, o.c., pp. 114,115.
La pazzia di Dio
83
Capitolo V
LA GRAZIA NELL’ANTICO TESTAMENTO
LA SALVEZZA ATTRAVERSO IL RITO SACRIFICALE
E IL SERVO DELL’ETERNO
Contrariamente a quanto generalmente si pensa, il Dio dell’A.T. è il Dio della grazia, del perdono
gratuito. Gli scritti di Mosè e dei profeti sono ricchi di questo insegnamento.
L’Eterno si presenta a Mosè come l’Iddio «misericordioso e pietoso, ricco in benignità, che perdona
l’iniquità, la trasgressione e il peccato» Esodo 34:6,7. La ragione per la quale Dio perdona non è il risultato di
ciò che l’uomo ha fatto per avere il perdono. Yahvé dice: «Per amore di me stesso cancello le tue trasgressioni,
e non mi ricordo più dei tuoi peccati» Isaia 43:25. Non c’è nessun merito che possa essere avanzato da
chicchessia per avere questa grazia. Il Dio che «è amore» 1 Giovanni 4:8, non può che amare e perdonare. Dio
perdona perché ciò fa parte della sua natura: cancella la trasgressione «per amore di se stesso». Il perdono è la
manifestazione della sua gloria (Numeri 14:21; Salmo 103:10-14).
L’unica condizione che l’Eterno pone per ricevere il perdono è che esso sia accettato o meglio che
l’uomo dimostri di averlo ricevuto. Egli l’offre gratuitamente, gli uomini lo ricevono confessando il loro
peccato. Tutto quanto veniva chiesto all’uomo di fare era di manifestare pubblicamente l’accettazione di questa
grazia. Ciò che l’Israelita compiva, come del resto anche ciò che compie il cristiano, non era per potere avere,
ma per dimostrare di aver avuto.
Scrive il rabbino L. Adler: «Presa di coscienza, confessione e decisione di riformarsi sono i tre gradi del
pentimento».1
E. White osserva: «Dio aveva dato le sue leggi, ma essi non hanno obbedito. Allora ha prescritto delle
cerimonie e degli ordinamenti, il cui scopo era che si ricordassero di lui. Erano così portati a dimenticare lui e i
suoi diritti su di loro che fu necessario stimolare la loro comprensione alla necessità di obbedire al Creatore e
onorarlo. Se fossero stati obbedienti e desiderosi di osservare i comandamenti di Dio, la moltitudine delle
cerimonie e degli ordinamenti non sarebbero stati necessari».2 Ciò ci permette di dire che i riti non erano
indispensabili, l’Eterno non ne aveva bisogno,3 ma avevano uno scopo pedagogico per gli israeliti. I riti non
avevano la funzione di soddisfare Dio, ma modificare l’atteggiamento degli uomini affinché Dio possa
nuovamente essere a loro favorevole.
I sacrifici «non possono essere spiegati con la preoccupazione di placare una divinità malvagia, né come un
dono interessato di tipo do ut des, né come un mezzo magico di unione con la divinità, né come un pasto del
Dio, idea contro cui i Salmi protesteranno energicamente (confr. Salmo 50). R. de Vaux definisce così il senso
del sacrificio dell’A.T.: “Il sacrificio è l’atto essenziale del culto esterno. È una preghiera in azione, un’azione
simbolica che rende efficaci gli interni sentimenti dell’offerente e la risposta di Dio; qualcosa di paragonabile
alle azioni simboliche dei profeti. Attraverso i riti sacrificali il dono a Dio è accettato, l’unione con Dio è
stabilita, la colpa del fedele è cancellata. Ma non si tratta di efficacia magica, essendo essenziale che l’atto
esterno esprima i veri sentimenti dell’offerente e incontri le disposizioni benevole di Dio: senza di che il
sacrificio non è più un atto di religione”.4 Questa definizione complessa ci indica la finalità del sacrificio:
l’unione dell’uomo con Dio. Per questo esso comporta sempre un dono. L’uomo infatti deve tutto a Dio, ed è
giusto che esprima concretamente il desiderio di ridonarsi a lui. Nel sacrificio, attraverso il dono simbolico d’un
bene che lo fa vivere, l’uomo riconosce la sovranità divina su tutte le cose e sulla vita in particolare, gli rende
omaggio e lo ringrazia di poter usare dei beni della terra per uno scopo profano. Tale dono comporta quindi una
privazione: la distruzione non è voluta per se stessa, ma è il solo modo di rendere l’offerta irrevocabile. Essa fa
passare l’offerta nel campo dell’invisibile, perché si fa “salire” un sacrificio a Dio».5
1
ADLER Léo – rabbino – La Signification morale des Fêtes Juives, éd. Labor et Fides, Genève 1967, p. 75.
WHITE Ellen, Testimonies for the Church, vol. VIII, Pacific Pres P.A., Mountain View, 1848, pp. 666,667.
3
Basterebbe leggere il primo capitolo del profeta Isaia. Vedere 2 Cronache 7:14; Nehemia 9:17; Salmo 25:6-11; 32:13; Geremia
6:20; 7:1-34; Ezechiele 18:21-32; Amos 4:4-12; Michea 6:6-8; Malachia 2:1-4.
B. Sesboüé osserva: «I profeti contestano i sacrifici (Isaia 1:11-17 Geremia 6:20; 7:21,22; Osea 6:6; Amos 5:21-27; Michea 6:6-8)
perché c’era una scissione tra il rito e la disposizione personale. L’azione sacrificale non era in sintonia con il proprio stile di vita. Non c’è
una condanna dei sacrifici in quanto tali ma della loro perversione «allorché sono contraddetti da una condotta ingiusta. Per questo
oppongono loro l’obbedienza a JHWH e la pratica del diritto e della giustizia, nonché il rispetto del povero. Le due formule che riassumono
questo insegnamento sono le seguenti: “Io voglio l’amore, non i sacrifici, la conoscenza di Dio, non gli olocausti” Osea 6:6, e: “l’obbedienza
è migliore del sacrificio, la docilità migliore del grasso dei montoni” 1 Samuele 15:22.Lo stile ebraico associa in queste formule il “questo e
non quello” al “questo meglio di quello”, che ne costituisce il vero senso. In altre parole, la cosa essenziale non è l’assiduità ai sacrifici
rituali, ma l’obbedienza, l’amore e la giustizia. I sacrifici hanno ragione di essere solo per dare simbolicamente corpo a quanto è vissuto e, di
ritorno, per concedere di viverlo veramente. I profeti si comportano da predicatori che chiamano alla religione del cuore e invitano a
spiritualizzare il culto». SESBOÜÉ Bernard, Gesù Cristo, l’unico mediatore, vol. 1, ed. Paoline, Cinisello Balsamo 1991, p. 299.
4
VAUX Roland de, Le istituzioni dell’Antico Testamento, Marietti, Torino 1967, p. 436.
5
B. Sesboüé, o.c., pp. 298-299.
2
CAPITOLO V
Il sacrificio era uno dei riti con il quale il credente manifestava la sua volontà di accettare il perdono, di
stabilire una relazione di comunione con Dio, di comunicargli il suo amore. L’Eterno stesso ne aveva fissato le
modalità.
Ecco un breve elenco dei sacrifici richiesti.
Olocausto: sacrificio di adorazione
L’olocausto, parola che significa “salire”, era l’offerta di un capo maschio, esemplare del gregge o
dell’armento. Dopo essere stato sacrificato e scuoiato della pelle, che diventava proprietà del sacerdote, era
interamente fatto bruciare sull’altare. Il fumo che saliva verso il cielo era considerato un profumo soave per
l’Eterno. Esso costituiva il sacrificio quotidiano del culto pubblico presentato ogni mattina e ogni sera ed era una
parte del “tamid”, olocausto perpetuo (Esodo 29:38-42; Numeri 28:1-8). Nel giorno di sabato questo sacrificio
era doppio, sia al mattino sia all’imbrunire (Numeri 28:9). L’olocausto era anche offerto a seguito del sacrificio
per il peccato (Numeri 29:16,22,25,28,31,34,38); in occasione della consacrazione dei leviti (Levitico 18;
Numeri 8:12); per la purificazione delle donne che avevano partorito (Levitico 12:6-8); per i nazirei che si erano
contaminati con il contatto di un morto (Numeri 6:11); nei casi di gonorrea (Levitico 15:15-30); per i lebbrosi
guariti (Levitico 14:20,32) e al termine del nazireato (Numeri 6:14-16). L’olocausto veniva offerto quale
espressione di devozione (Numeri 15:3,8). Ai gentili era permesso di offrire solo questo tipo di sacrificio
(Numeri 15:14,15; Levitico 22:18-25). L’olocausto «costituisce l’omaggio principale chiesto dal Creatore alle
sue creature, l’atto d’adorazione per eccellenza: la legge dice espressamente che serve all’espiazione (Levitico
1:4), che lo si può offrire in azione di grazia o per l’adempimento di un voto».6
Azione di grazia: sacrificio di ringraziamento
Un secondo tipo di sacrificio è quello di azione di grazia. Esso testimonia che la persona che lo offre
gioisce dell’amicizia e della benedizione di Dio. “Sacrificio di comunione” senza essere una traduzione letterale,
rende bene lo spirito del rito. Questa offerta esprime il proprio ringraziamento al Signore. Le vittime sono quelle
dell’olocausto e possono essere anche di sesso femminile. Esse vengono bruciate interamente, tranne alcune
parti che vengono consumate dal sacerdote (Levitico 7:31,32) e un’altra dall’offerente. Questo sacrificio si
conclude con un banchetto religioso che esprime allegrezza per la comunione con Dio. Chi partecipa a questo
festino deve essere puro perché la vittima è pura (Levitico 7:20).
L’israelita con l’olocausto magnificava la grandezza dell’Eterno, con il sacrificio di ringraziamento la
Sua bontà, con il sacrificio per il peccato, confessava la propria miseria.
Sacrifici per essere purificati dal peccato
L’israelita pentito di aver commesso un peccato, dimostrava di accettare il perdono offrendo un agnello.
Questo sacrificio che implicava l’aspersione del sangue (come del resto anche per gli altri sacrifici), simbolo
della vita (Levitico 17:11), era il rito più comune ed appariscente.
Quando però la fortuna economica dell’offerente non permetteva una simile offerta, egli poteva
presentare una tortora o un piccione (Levitico 5:7); se anche questo era troppo dispendioso, poteva manifestare
di accettare il perdono presentando una decima parte di fiore di farina. Il sacerdote ne prendeva una manata
piena come ricordanza, e la faceva fumare sull’altare sopra i sacrifici fatti mediante il fuoco all’Eterno. «Era un
sacrificio per il peccato. Così il sacerdote faceva per quel tale l’espiazione del peccato commesso... e gli era
perdonato» Levitico 5:11-13.
Perché questa offerta, cruenta o incruenta che fosse, era considerata indispensabile per la purificazione?
Perché l’uomo può prendere coscienza del suo stato di peccato, ma non può cambiare la propria natura e
autopurificarsi. «Quand’anche tu ti lavassi col nitro e usassi molto sapone, la tua iniquità lascerebbe una
macchia dinanzi a me, dice il Signore, l’Eterno… Un moro può egli mutare la sua pelle o un leopardo le sue
macchie? Allora anche voi, abituati come siete a fare il male, potrete fare il bene?» Geremia 2:22; 13:22.
Solo la grazia di Dio, la sua azione liberatrice compiuta nei confronti dell’uomo, può realizzare questa
trasformazione. Davide, avendo compreso che solo l’Eterno poteva purificarlo e ricreare il suo cuore, confessa:
«Abbi pietà di me, o Dio, secondo la tua benignità; secondo la moltitudine delle tue compassioni, cancella i miei
misfatti. Lavami del tutto della mia iniquità e nettami dal mio peccato… Purificami con l’issopo e sarò netto;
lavami, e sarò più bianco che neve… O Dio crea in me un cuore puro e rinnova dentro di me uno spirito ben
saldo» Salmo 51:1,2,7,10.
6
MÉDÉBIELLE P.A., L’expiation dans l’Ancien Testament et le Nouveau Testament, Rome 1924, p. 45.
La pazzia di Dio
80
LA GRAZIA NELL’ANTICO TESTAMENTO - LA SALVEZZA ATTRAVERSO IL RITO SACRIFICALE E IL SERVO DELL’ETERNO
Il sacrificio era il mezzo mediante il quale il credente manifestava la sua disponibilità affinché l’Eterno lo
purificasse dal male fatto e lo guarisse dalla sua natura incline alla disobbedienza.
Il Levitico fa una distinzione tra il sacrificio per il peccato (hatta’t) e il sacrificio di riparazione (asam),
anche se le modalità dell’offerta sono simili. Di esse è detto: «Il sacrificio di riparazione è come il sacrificio per
il peccato; la stessa legge vale per ambedue» Levitico 7:7. Quindi «non è facile cogliere la differenza essenziale
che li separa».7 «In Levitico 7:7 è detto che sia per il sacrificio asam sia per hatta’t vi è una sola legge, cosi
pure in Levitico 14:13; ciò non è riferito né al rito né alle cause determinanti, bensì alla vittima che in
ambedue i casi è sacrosanta, e ai diritti dei sacerdoti su di essa, potendola mangiare solo i membri maschi delle
famiglie sacerdotali».8
Il peccato hatta’t in Levitico 5:1-13 è messo in relazione al testimone che non dichiara ciò che ha veduto
e conserva il silenzio, o alla persona che senza saperlo si è contaminata toccando qualcosa di impuro e a chi
giura con leggerezza.
Il peccato asam, parola che significa “delitto”, Levitico 5:14-16, si riferisce a mancanze nei confronti di
Dio o del prossimo. Commette questo peccato colui che trattiene qualche cosa delle offerte consacrate all’Eterno
(decima, primizia, ecc.) e compie inavvertitamente le cose che l’Eterno ha vietato di fare. Nei confronti del
prossimo il delitto consiste nel negare un prestito, nel non restituire un deposito, un pegno ricevuto, una cosa
rubata, estorta con frode o trovata casualmente, mentendo a questo proposito e giurando il falso. Colui che
commette questo crimine deve prima restituire la cosa al suo proprietario o, qualora ciò non sia possibile, al
Tempio, e aggiungervi come riparazione il quinto del suo valore (Numeri 5:7). Così se uno si unisce
carnalmente con una schiava promessa in moglie ad un altro, commette il peccato di asam (Levitico 19:20-22).
Questo tipo di peccato, di delitto, è un attentato alla proprietà di Dio e del prossimo e per questo motivo il
sacrificio è chiamato di “riparazione” o di “compensazione”. Anche il lebbroso mondato e il nazireo che si è
contaminato con un cadavere e ha dovuto interrompere il suo periodo di consacrazione devono offrire un
sacrificio di asam.
Questo sacrificio viene generalmente visto nella prospettiva di rimediare al male fatto. Levitico 5:16 dice
che il risarcimento, maggiorato di un quinto, veniva portato al sacerdote prima che il sacrificio fosse presentato.
Con l’offerta che si portava al santuario si accettava così la purificazione dell’Eterno. «Nel sacrificio
asam, in linea generale, non era necessaria la presenza dell’offerente (Levitico 7:1-10), ma bastava che egli
pagasse al Tempio il corrispettivo per il richiesto sacrificio».9 «Nella legge dello asam si hanno due elementi
distintivi, quantunque necessariamente coordinati: la riparazione, il sacrificio. Questo, da solo, non cancella il
peccato e non è seguito dal divino perdono; quella, da sola, non è un rito levitico, quantunque soltanto ad essa
convenga in realtà il termine “riparazione, ammenda” che specifica il sacrificio. Dai due elementi congiunti
risulta il caratteristico rito del “sacrificio di riparazione”… Il sacrificio non sarebbe stato gradito, né avrebbe
portato effetto alcuno, se colui che era responsabile non avesse prima riparato al torto fatto. Probabilmente per
sottolineare questo aspetto di sacrificio fu denominato ‘asam’, riparazione…- Non v’è perdono sacrificale per
chi non ha soddisfatto gli obblighi verso il prossimo».10
La carne della vittima nell’olocausto apparteneva interamente all’Eterno ed era bruciata sull’altare,
mentre nel sacrificio di ringraziamento l’offerta veniva divisa tra Dio, i sacerdoti e l’offerente. Nei sacrifici per i
peccati hatta’t e di riparazione asam la vittima, o l’offerta in farina, era in parte bruciata in onore dell’Eterno e
in parte consumata dai sacerdoti. L’offerente era escluso da questo banchetto perché non doveva trarre profitto
da ciò che era destinato alla sua purificazione. Il festino sacro poco si addiceva a colui che era in una situazione
di pentimento e non poteva svolgere contemporaneamente il duplice ruolo di colui che ha bisogno di essere
purificato e di colui che purifica (il sacerdote): il ruolo, cioè, di impuro e di puro.
La vittima per il sacrificio variava a seconda di chi aveva commesso la trasgressione. Per il peccato del
sacerdote e di tutto il popolo, era un torello (Levitico 4:3,14) il cui sangue, oltre ad essere sparso sull’altare dei
sacrifici, era portato nel luogo santo e spruzzato davanti alla tenda che separava il luogo santo da quello
santissimo (Levitico 4:17,18). Per il peccato di un capo del popolo o di uno qualunque del popolo la vittima era
un becco, una capra o un agnello (Levitico 4:23,28,32); mentre per il sacrificio di riparazione la vittima era un
montone (Levitico 6:16,18), una pecora o una capra; per i poveri due tortore o due giovani piccioni (Levitico
5:6,7). Il sangue di questi sacrifici veniva solamente posto sui corni dell’altare dell’olocausto o sparso ai suoi
piedi. Come già abbiamo detto i poveri potevano sostituire l’offerta cruenta con quella incruenta di un decimo di
efa di fiore di farina (Levitico 5:11,12).
Il rito di purificazione comportava delle azioni ben precise:
- scelta della vittima
- imposizione della mano
7
Idem, p. 58.
MORALDI Luigi, Espiazione sacrificale e riti espiatori nell’ambiente biblico e nell’Antico Testamento, Pontificio Istituto Biblico,
Roma 1956, p. 176.
9
Idem, pp. 174,175.
10
Idem, pp. 179-181.
8
La pazzia di Dio
81
CAPITOLO V
- sacrificio della vittima
- aspersione del sangue (compito questo riservato solo al sacerdote).
Scelta della vittima
Il tipo di animale per il peccato era già stato indicato dall’Eterno e doveva essere sano e senza difetto
alcuno (Levitico 1:3; 3:1; 4:3,28,32; 5:18). La vittima, presentata al sacerdote, era da lui esaminata per
constatarne l’integrità. Essa doveva essere un capo di valore.
Imposizione della mano e confessione del peccato
Il rito delle imposizioni delle mani aveva in Israele un differente significato espresso dal porre una o
entrambe le mani. Peter René fa un’analisi significativa dell’imposizione di una mano e di entrambe le mani,
prendendo in esame i 25 testi in cui questo doppio rito viene menzionato, e giungendo alle seguenti conclusioni:
«Bisogna distinguere due riti differenti nella loro forma e nel loro significato:
a) quello dell’imposizione di una mano esprime l’identificazione dell’offerente con la vittima nel rito
sacrificale (Esodo 29:10,15,19; Levitico 1:4,10 (LXX); 3:2,8,13; 4:4,15,24,29,33; 8:14,18,22; Numeri
8:10,12; 2 Cronache 29:23);
b) quello dell’imposizione delle mani esprime il trasferimento di qualche cosa dal soggetto sul destinatario al di
fuori del rito sacrificale (Levitico 16:21; 24:14; Numeri 8:10?; 27:18,23; Deuteronomio 34:9; 2 Re
4:34;13:16)».11
Quindi possiamo dire:
- imporre le due mani esprimeva il trasferimento di qualcosa a qualcuno, dal soggetto all’oggetto
dell’imposizione;
- imporre una mano esprimeva l’identificazione del soggetto con l’oggetto dell’imposizione. Nell’offerta
sacrificale la vittima era così segno del dono dell’offerente all’Eterno.
Non si deve confondere identificazione con sostituzione. La prima è un processo puramente psicologico e
soggettivo. Ci si può identificare con qualcosa o qualcuno, ma le identità rimangono distinte. L’identificazione
ha valore solamente per colui che la compie. Chi osserva l’identificazione dall’esterno riconosce che essa è
prettamente psicologica. L’identificazione non ha alcun valore giuridico. La sostituzione invece può essere posta
sul piano giuridico. Una persona può far valere i diritti di un’altra perché legalmente le viene riconosciuta la
funzione rappresentativa, sostitutiva. La sostituzione ha, quindi, un valore oggettivo, tanto è vero che, quando
qualcuno illegalmente si presenta quale sostituto di un altro, incorre in sanzioni. Il sostituente, pur conservando
la propria identità, può far valere per se stesso i diritti di un altro. Nulla di tutto questo è possibile
nell’identificazione.
Imponendo entrambe le mani si poteva trasmettere:
1) una benedizione. Giacobbe pone sul più giovane dei figli di Giuseppe la mano destra e la sinistra sul
primogenito, volendo cosi trasmettere la parte migliore a Efraim (Genesi 48:13,14);
2) una autorità. Mosè imponendo le mani su Giosuè gli trasmise l’autorità e lo designò come suo sostituto,
quale guida del popolo. Così, a seguito di questo rito, Giosuè fu ripieno dello Spirito Santo (Deuteronomio
34:9). L’idea della trasmissione dell’autorità di funzione che giunge alla sostituzione la possiamo
apprendere dalla consacrazione dei leviti. Quando il popolo d’Israele uscì dall’Egitto, Dio si era riservato
tutti i primogeniti. Per conseguenza essi avrebbero dovuto essere impiegati nelle funzioni del Tempio. Ma
Dio rinunciò a questo diritto sostituendoli con i leviti. Affinché avvenisse questa sostituzione, i figli
d’Israele imposero le mani sui leviti (Numeri 8:17,15,16,19, 9,10);
3) una responsabilità delittuosa. Quando un israelita pronunciava una bestemmia, coloro che l’avevano udita,
prima di lapidarlo, imponevano sul peccatore le mani. «Ascoltando la bestemmia proferita dal figlio di
Shelomith i testimoni sono stati in qualche modo contaminati dal male commesso; essi scaricano questa
responsabilità sul colpevole principale imponendogli le loro due mani. Poi la comunità lo lapida (Levitico
24:16,23), per evitare ogni contatto con lui, pure nel rito di esecuzione»12;
4) c’è trasmissione di peccato non nel rito sacrificale, bensì sul capro per Azazel che non veniva sacrificato, ma
condotto nel deserto. Nel giorno dell’espiazione «il sommo sacerdote pone le due mani sulla testa del
becco emissario confessando le iniquità e le trasgressioni dei figli d’Israele». La Mishna Yoma VI,2, riporta
la seguente formula: «Ah: Signore! Il tuo popolo, la casa d’Israele ha commesso davanti a Te delle iniquità,
delle trasgressioni e dei peccati; ah! Signore, perdona le iniquità, le trasgressioni e i peccati che ha
commesso davanti a te il tuo popolo, la casa d’Israele». Per questo rito il testo biblico precisa: «Poserà
11
12
PÉTER René, L’imposition des mains dans l’Ancien Testament, in Vetus Testamentum, Vol. XXVII, Fasc. L, 1977, pp. 51,52,54,55.
Idem , p. 53.
La pazzia di Dio
82
LA GRAZIA NELL’ANTICO TESTAMENTO - LA SALVEZZA ATTRAVERSO IL RITO SACRIFICALE E IL SERVO DELL’ETERNO
ambedue le mani sul capo del capro vivo, confesserà sopra di esso tutte le iniquità dei figlioli d’Israele,
tutte le loro trasgressioni, tutti i loro peccati, e li metterà sulla testa del capro» Levitico 16:21.13
Questo è l’unico testo biblico che in modo esplicito pone la confessione dei peccati al momento
dell’imposizione delle mani sulla vittima. Chi sostiene la sostituzione vicaria dice: «Questa comprensione
delle imposizioni delle mani è stata presa come essendo valida anche per i sacrifici quotidiani».14
Nel rito sacrificale c’è imposizione di una mano (Levitico 1:4; 3:2; 4:4,15,24,29). Mediante questo rito
l’israelita si identifica con la vittima la quale esprime la sua offerta.
Il rituale della tortora e del piccione
(Levitico 1:14-17) non prescrive l’imposizione della mano. La ragione è probabilmente data dal fatto che la
vittima si trova già nella mano dell’offerente per portarla al sacerdote. Ciò sottolinea sufficientemente che si
tratta della sua offerta.15
I testi biblici di Levitico 5:5 e Numeri 5:7 parlano della confessione dei peccati in relazione al sacrificio
espiatorio. L. Moraldi fa notare che in Levitico 5:5 e Numeri 5:7 non si accenna al rito dell’imposizione della
mano. Solo Levitico 16:21 unisce imposizione delle mani e confessione. Moraldi conclude: «Non vi è alcun
testo che prescriva la confessione unitamente all’imposizione delle mani sulla vittima quando questa era
immolata».16
La tradizione ebraica associa la confessione all’imposizione della mano sulla vittima. Il Lessico rabbinico
ricorda la seguente frase che bisogna recitare con l’imposizione della mano in occasione di qualunque sacrificio
per il peccato: «Pietà, Signore, io sono colpevole di peccato, di delitto, di disubbidienza, di tale o tale altro
sbaglio; ma io mi pento. Che questa vittima mi serva di espiazione».17
Il peccatore trasmette qualcosa all’animale confessando il proprio peccato?
No nel rito sacrificale.18 Sì nella cerimonia dello yom kippur al capro per Azazel.
Nel giorno dello yom kippur, come abbiamo detto, l’imposizione delle mani comportava la trasmissione
dei peccati sul capo del capro per Azazel che rappresentava Satana, il quale ne restava contaminato, impuro
(Levitico 16:21-26), «indegno di essere sacrificato».19
Per contro qualunque vittima fosse offerta all’Eterno per l’espiazione del peccato, anche a seguito della
imposizione della mano e della confessione, continuava a rimanere «cosa santissima» come viene detto più volte
con insistenza voluta (Levitico 6:25,29; 7:1,6; Numeri 18:9,10).
Se il rito di imposizione delle mani fosse identico sia per il sacrificio di espiazione del peccato sia per il
capo di Azazel, non è comprensibile perché nel primo caso la vittima è cosa santissima, mentre nel secondo essa
diventa impura, si contamina. I due riti devono avere significato diverso per non confondere chi vi assiste.
Quanto esposto sopra crediamo che ne dia la spiegazione.
Come viene contaminato il santuario dai peccati?
Diverse sono le spiegazioni proposte. Tutte ci sembrano però criticabili.20
Il testo biblico dice chiaramente che il santuario a causa delle «impurità, delle trasgressioni e dei peccati»
d’Israele doveva essere purificato (Levitico 16:16). Non crediamo che, con altrettanta esplicicità, la Parola del
Signore dica come il santuario venga contaminato. Ogni spiegazione è frutto di accostamenti di testi biblici, di
deduzioni, di ragionamenti teologici. Due sono le spiegazioni che prendiamo in considerazione:
- Il santuario è profanato dai peccati confessati e trasmessi nel santuario mediante il rito sacrificale.
13
Cit. da Médébielle A.P., o.c., pp. 151,152.
RODRIGUEZ Angelo M., Transf of sin in Leviticus, in AA.VV., Weeks, Leviticus, Nature of Prophecy, ed. Frank B. Holbrook,
1986, p. 180. Traduzione italiana di LEONARDI Giovanni, Trasferimento dei peccati nel libro del Levitico, in Adventus, n. 9/2, 1966, pp.
32-52.
15
Péter R., o.c., p. 52, nota 9.
16
L. Moraldi, o.c., p. 158, vedi p. 120.
17
cit. da Médébielle A.P., o.c., p. 152.
18
In forma esplicita il cattolico John J. Castelot, professore di Scrittura al Seminario di Plymout, Michigan, scrive: «L’offerente
stendeva la mano sul capo della vittima per indicare che il sacrificio doveva essere offerto in suo nome e a suo beneficio. Il gesto non
significava che la vittima era un sostituto dell'’offerente o che i peccati dell’offerente erano trasmessi alla vittima per essere espiati»
CASTELOT John J., Le Istituzioni religiose di Israele, in Grande Commentario biblico Queriniana, ed. Queriniana, Brescia 1973, p. 1763.
19
VAUX Roland de, Le istituzioni dell’Antico Testamento, ed. Marietti, Torino 1964, p. 405.
In prevalenza i teologi della sostituzione vicaria vedono in Azazel un aspetto del sacrificio espiatorio di Gesù. Un esempio fra i tanti
è J. Stott John scrive: «Certi esegeti commettono l’errore di distinguere in una maniera troppo evidente il ruolo del becco del sacrificio e
quello del becco emissario, al disprezzo dell’affermazione scritturale che li presenta entrambi come “un sacrificio per il peccato” v. 5.
Bisogna senza dubbio meglio ammettere che ognuno di essi incarna un aspetto diverso dello stesso sacrificio, “L’uno evoca il mezzo
dell’espiazione, l’altro i risultati” (J.J. CRAWFORD). Il rito mostra senza alcuna ambiguità che la riconciliazione con Dio non era possibile
che grazie a questa sostituzione, a questo trasferimento del peccato degli uomini sull’animale. L’autore della lettera agli Ebrei vede senza
difficoltà in Gesù sia “un sommo sacerdote misericordioso e fedele” 2:17 e il perfetto rappresentante delle due vittime, il becco sacrificato il
cui sangue doveva essere portato nel Santo dei Santi (9:7,12), e il becco caricato dei peccati del popolo (Ebrei 9:28)» STOTT John, La croix
de Jésus-Christ, éd. Grâce et Vérité, Bâle 1988, p. 138. Questa spiegazione è logica per la tesi che sostiene, ma si urta con il significato di
Azazel. R. de VAUX chiarisce: «È il nome di un essere soprannaturale, di un demone Azazel; è così che l’ha compreso la versione siriaca e il
Targum, e di già il libro di Henoc, che fa di Azazel il principe dei demoni, relegato nel deserto» Les Sacrifices dans l’Ancien Testament, p.
87. Azazel, padre delle menzogna, capo degli angeli ribelli è ciò che è generalmente riconosciuto.
20
Vedere Rodriquez A.M., o.c..
14
La pazzia di Dio
83
CAPITOLO V
-
Il santuario è contaminato tout court dal peccato commesso.
Il santuario è profanato dai peccati confessati e trasmessi nel santuario mediante il rito sacrificale
Questo pensiero è condiviso da coloro che credono nella sostituzione vicaria e oltre al fatto che i
sacerdoti portano l’iniquità del popolo (Levitico 10:16), la vittima subisce la pena del colpevole.
Il peccato commesso dal sacerdote viene trasmesso con l’imposizione della mano alla vittima e mediante
il suo sangue che viene spruzzato davanti alla cortina che separa il luogo santo dal santissimo, viene portato nel
santuario. Questo identico processo è proposto anche in occasione del sacrificio del peccato commesso
dall’intero popolo.
Quando il peccato è commesso da un israelita passa dalla vittima al sacerdote il quale se ne fa carico,
porta l’iniquità dei figlioli d’Israele, mangiando la carne del sacrificio (Levitico 10:16)21, (il sacerdote non
mangia la carne della vittima quando si tratta del suo peccato o di quello dell’intero popolo, perché esso non gli
doveva essere trasmesso in quanto era lui che aveva peccato) e dal sacerdote il peccato viene portato nel
santuario mediante il suo ufficio.
La critica a questo modo di vedere può essere così espressa.
Considerando che il grasso della vittima per il peccato veniva bruciato sull’altare e la carne veniva
mangiata dal sacerdote perché considerata «cosa santissima» Levitico 6:22. R. de Vaux sostiene che il sacrificio
israelitico «smentisce la teoria secondo cui la vittima sarebbe caricata del peccato dell’offerente e diventasse
essa stessa “peccato”; è invece vittima gradita a Dio, il quale, in considerazione di tale offerta, cancella il
peccato».22
Come è possibile che il peccato contamini il santuario proprio quando è riconosciuto, è confessato, è
abbandonato e si esprime pentimento?
Il verbo “portare” ha significato di liberare, come riporta la versione La Parola del Signore. Infatti, il
verbo può essere tradotto con: annullare, cancellare, rimuovere, liberare. I sacerdoti erano incaricati di compiere
l’opera di purificazione dei peccati commessi. Per compiere questa loro funzione dovevano portare, cioè
impegnarsi nell’opera di liberazione. Quindi più di una trasmissione del peccato dall’offerente all’officiante, in
occasione del rito sacrificale, c’era da parte di quest’ultimo l’assunzione, la presa in carico del proprio mandato.
La presa di coscienza di questo importante compito da parte del sacerdote (portare i peccati) era dimostrata
dall’esercizio del rito.
A critica che nel sacrificio espiatorio la vittima moriva quale punizione del peccato commesso
dall’offerente, Walter Eichrodt scrive: «I principali argomenti contro l’ipotesi di una morte vicaria sacrificale
dell’animale immolato sono:
1. in quanto gravata da peccati e colpe, la vittima si sarebbe dovuta considerare impura, mentre era
considerata santissima;
2. l’atto principale doveva essere l’uccisione che considerata come punizione di morte doveva essere fatta dal
sacerdote, non dall’offerente;
21
L’espressione “portare l’iniquità” (nasa awon) si presenta nel testi biblici con diversi significati:
Portare il peccato perché responsabile della propria colpa (Levitico 1:17; 7:18; 17:16; 19:8,20; 17:19; 22:16). Per delle particolari
iniquità se ne indica anche la pena (Levitico 7:18,20,21; 19:8; Numeri 14:34; Ezechiele 4:4,6).
2. Come il becco per Azazel portava i peccati per allontanarli “portarli via”, il verbo è seguito dall’espressione che indica dove il peccato è
portato (Levitico 16:22), così il sommo sacerdote porta il nome delle tribù di Israele “davanti” all’Eterno (Esodo 28:12,2).
3. Portare con il significato di assumersi la responsabilità (Numeri 18:1).
A.M. Rodriguez fa notare che l’espressione nasa awon è sempre usata in Levitico (5:1,17; 7:18; 10:17; 17:16; 19:8; 20:17,19;
23:16) con significato di “portare un peccato e diventarne responsabile”, e quindi essere “passibile di punizione” (7:18,20,21; 19:8) (A.M.
Rodriguez, o.c., pp. 186,187; ed. italiana, p. 44). Bisogna però osservare che tranne il testo di Levitico 10:17 tutti gli altri sono in relazione
alle proprie colpe e responsabilità e non in relazione con quelle commesse da altri.
E ancora A.M. Rodriguez scrive: «Nei passi che non sono in relazione al culto Dio è sempre il soggetto del verbo e ha valore di
“portare via il peccato, perdonare» o.c., p. 185; traduzione italiana, p. 43. Crediamo che sia con questo significato che debbano essere
comprese le dichiarazioni di Levitico 10:17; Esodo 28:38. La lamina d’oro sul capo del sommo sacerdote che lo dichiara «Santo all’Eterno»
Esodo 28:37 attesta la santità del sacerdote anche quando opera per togliere l’iniquità d’Israele.
22
Idem, p. 408.
«Nella cerimonia del becco emissario (Levitico 16:21), l’animale è così caricato degli sbagli del popolo, ma precisamente a causa di
questo trasferimento, diventa impuro e indegno di essere sacrificato. L’imposizione della mano da parte dell’offerente non è una semplice
manumissio, un abbandono della vittima a Dio; è l’attestazione solenne che questa vittima viene bensì da lui, offerta, che il sacrificio che si
presenta mediante il sacerdote è offerto nel suo nome e che i frutti gli ritorneranno» VAUX Roland de, Les Institutions de l’Ancien
Testament, t. II, Paris 1960, p. 292.
«Sacrificare, è “santificare” Deuteronomio 15:19. La vittima è così penetrata di divino e da essa emana, su colui che la tocca, la
santità di Dio (Levitico 6:20) e chiunque la mangia entra in comunione con Lui. Il sacrificio è dunque un trasferimento, una trasformazione.
Quando in liturgie solenni, un fuoco “usciva da Yahvé” Levitico 9:23 e seg. 2 Cronache 1-3 e si impossessava della vittima, non
l’annientava, se ne appropriava e la santificava. Allora soltanto la vittima era sacrificata.- Per preparare il trasferimento del dono nel mistero
divino, l’uomo mette fine all’esistenza profana della vittima: la immola. L’immolazione non è una distruzione, con essa inizia l’oblazione,
con essa Dio s’appropria dell’offerta, l’oblato entra nel mistero» DURRWEL F.X., La résurrection de Jésus mystère de salut, éd. Cerf, Paris
1982, pp. 57,56.
1.
La pazzia di Dio
84
LA GRAZIA NELL’ANTICO TESTAMENTO - LA SALVEZZA ATTRAVERSO IL RITO SACRIFICALE E IL SERVO DELL’ETERNO
3.
4.
non vi può essere sostituzione per mezzo del sacrificio di farina nella satisfactio vicaria;
gli atti espiati dal sacerdote... non dovrebbero essere peccati da punire con la morte».23
Aggiungiamo:
5. anche nell’olocausto e nel sacrificio di ringraziamento l’offerente poneva la sua mano sul capo della
vittima. La loro morte non indicava nessuna punizione vicaria.
Médébielle, sostenitore della sostituzione penale, osserva: «Questo punto è essenziale. Esso differenzia
l’espiazione giudaica dalla maggior parte delle espiazioni pagane, nelle quali l’animale sacrificato si caricava di
tutte le impurità delle quali liberava l’altro. Mentre i Greci e i Romani non mangiavano mai le carni delle vittime
purificatrici, i sacerdoti di Gerusalemme al contrario avevano l’ordine di compiere l’espiazione mangiando la
vittima nel luogo santo (Levitico 6:26; 7:6,7)».24
Inoltre, come abbiamo già riportato, lo stesso autore precisa che secondo la Sacra Scrittura: «... La vista
del sangue versato sull’altare non evoca presso gli antichi semiti, l’idea di una pena subita».25
Coloro che sostengono che il sacrificio per il peccato non deve essere visto nella prospettiva della
sostituzione vicaria, fanno notare che: «Il sacrificio espiatorio non era né l’unico né il principale mezzo di
redenzione anticotestamentaria».26
La purificazione del peccato avveniva in Israele anche senza il sacrificio, il quale era un segno accanto ad
altri.
Esempi:
- «Il povero espia i propri peccati senza nessun sacrificio cruento».27
- Il soldato consegna il bottino in oggetti preziosi per l’espiazione (Numeri 31:50)28.
- Il peccato di idolatria e di fornicazione commesso da Israele nella pianura di Moab, prima di entrare nella terra
promessa, viene espiato con la morte dei soli responsabili (Numeri 25:13).
- Abramo pregò e Dio perdonò il peccato di Abimelec guarendolo con la propria moglie e la sua servitù (Genesi
20:17). Mosè prega e la sorella Maria viene guarita dalla lebbra che l’aveva colpita a causa del suo peccato
di gelosia commesso con Aaronne contro il fratello (Numeri 12:1-6). Mosè prega l’Eterno a seguito del
peccato di adorazione del vitello d’oro e anche in questa occasione avviene una purificazione extrasacrificale
(Esodo 32:30).
- Mosè espia la ribellione di Core, Dathan e Abiran mediante il turibolo contenente il fuoco dell’altare portato
in mezzo al popolo (Numeri 16:46, Versione cattolica 17:11).
- Il profeta Isaia è purificato dalle sue labbra impure senza un rito sacrificale: confessa il suo stato di peccato e
il serafino lo monda (Isaia 6:7).
- I profeti presentano l’espiazione non come conseguenza del sacrificio, che spesso contestavano per il
formalismo con il quale era celebrato (Isaia 11:11; Geremia 7:22,23; Salmo 40:5; 50:7-23), bensì come
conseguenza del pentimento, del ravvedimento, del ritorno a Dio e nel compiere le opere di giustizia (che
non hanno però un valore meritorio, ma sono piuttosto segno del loro cambiamento davanti a Dio) (Isaia
1:16-20; Geremia 4:14; Gioele 2:12).
- Anche i Niniviti furono perdonati a seguito del loro pentimento e della loro conversione (Giona 3:10).
- La sofferenza è vista come mezzo per purificare e affinare i membri del popolo (Isaia 48:10; Zaccaria 13:9;
Malachia 3:2,3).
- La letteratura rabbinica riporta che un giorno Rabbi Ben Sakkai e il suo discepolo Rabbi Josué
consideravano il tempio distrutto. Rabbi Josué esclamò: «Io sono infelice! Il luogo in cui Israele ottiene
23
24
25
26
27
EICHRODT Walter, Teologia dell’A.T., vol. I, ed. Paideia, Brescia 1979, p. 165.
P.A. Médébielle, o.c., pp. 156,157.
MÉDÉBIELLE P.A., Expiation, in Supplément au Dictionnaire de la Bible, III, col. 74.
L. Moraldi, o.c., p. 320.
Idem, p. 97.
28
Si è pensato che il kopher, espiare, dei soldati che hanno vinto debba essere considerato come Esodo 30:15, quando
gli ebrei primogeniti pagarono il kopher per la loro anima. I contesti sono però completamente diversi e non collegabili tra di
loro. La Bibbia Annotée, si chiede il perché di questi gioielli come riscatto e prima di proporre la soluzione considera diverse
ipotesi: a) per essere purificati dall’aver ucciso i nemici. Ma questo risultato era già previsto con l’azione militare e vengono
rimproverati di aver risparmiato le donne (v. 14). b) a causa del fatto che le donne siano state risparmiate (v. 14). È difficile
vedere il collegamento tra questi due testi dopo 35 versetti. c) Perché al v. 49 si fa la conta dei vissuti della guerra. Tutti. Ciò
viene visto come il censimento e, quindi, come in 2 Samuele 24 ai giudei viene chiesto di pagare il kopher al tabernacolo per
non essere colpiti dalla punizione. Ma la conta del v. 49, non è un’espressione di vanto, ma è la conferma di ciò che già si
conosceva: nessuno dei soldati era stato ucciso. I teologi e pastori di Neuchâtel concludono che questa espiazione sia da
mettersi in relazione con i peccati particolari che ogni partecipante alla guerra può aver commesso durante la spedizione
militare.
La pazzia di Dio
85
CAPITOLO V
l’espiazione dei suoi peccati è in rovina», e Rabbi Ben Sakkai gli rispose: «Figlio mio non desolarti, ci
rimane una espiazione ugualmente efficace: è la pratica della carità».29
- A. Cohen scrive: «Ciò che il Talmud ha realizzato di più grande per il popolo ebraico è stato quello di fargli
sentire che la fine del tempio non comportava la fine della religione. Così duro che sia stato il destino, la via
restava aperta per accostarsi a Dio. Oltre alla carità, la giustizia e lo studio della Torà, le preghiere erano
dichiarate “superiori ai sacrifici” (Ber. 32 b)».30
- Nel Talmud leggiamo: «Né un’offerta per il peccato, né un sacrificio espiatorio, né la morte, né la festa delle
espiazioni possono realizzare l’espiazione se non c’è pentimento».31
- Anche gli scritti apostolici si esprimono con lo stesso linguaggio: il pentimento, la preghiera, l’amore hanno
un valore espiatorio (1 Giovanni 1:9; 5:16; Giacomo 5:15,16,20; 1 Pietro 4:8).
Tutto ciò ci permette di affermare che il valore del sacrificio era nella disposizione interiore della persona
e non nella sua forza di cambiare un atteggiamento di Dio.
Desideriamo, inoltre, precisare che la parola “sacrificio” non è sinonimo di sofferenza, come può
sembrare. Con il sacrificio dell’olocausto si esprime la gioia della lode e della consacrazione, con il sacrificio di
azione di grazia si esprime l’allegrezza e il ringraziamento per quanto avuto. Il sacrificio per il peccato, anche se
è seguito dall’olocausto, esso stesso esprime gratitudine e allegrezza per la volontà di Dio.
Enzo Cortese osserva: «Non è con i sacrifici dell’A.T., ma neanche con i sacramenti del N.T. che si
cancella il peccato se prima non c’è il pentimento. Non c’è da meravigliarsi se i sacrifici espiatori non rimettono
i peccati deliberati».32
La lettera agli Ebrei, nel N.T., ricorda che «secondo la legge, quasi ogni cosa - e non ogni cosa - è
purificata con sangue» 9:22. «Si tratta di una formula rabbinica emessa in risposta al quesito: Qual è nel
sacrificio il rito costitutivo dell’espiazione? La mano sulla testa della vittima, l’uccisione, il consumare il grasso
mediante il fuoco, la combustione della carcassa? La conclusione è che, tra i vari riti del sacrificio espiatorio,
opera l’espiazione sacrificale solamente il rito del sangue (Talmud Babilonese, zebahim 6a, Joma 5a, ecc.)».33
Come spiegare che il peccato passi dalla vittima al santuario contaminandolo per mezzo del sangue
quando invece nel rituale del santuario il sangue viene indicato come elemento di purificazione e/o di
consacrazione?34
Se è vero che la contaminazione del santuario terrestre avviene mediante il trasferimento del peccato
dell’offerente alla vittima, dal suo sangue al sacerdote, dal sacerdote al santuario nel quale il sangue viene
spruzzato, si dovrebbe dedurre che il santuario celeste sia contaminato dal proprio sangue che Cristo presenta al
Padre quale conseguenza del sacrificio espiatorio fatto al Golgota. Questa affermazione, logica conseguenza
anche del parallelismo con il rituale israelitico, non trova però, a nostra conoscenza, nessun commentatore della
lettera agli Ebrei e del testo dell’A.T. che l’abbia pensata o solo supposta.
Ciò ci permette di dire che questa spiegazione della trasmissione del peccato nel santuario in
concomitanza del rito sacrificale non soddisfa completamente.
Il santuario è contaminato tout court dal peccato commesso
Il santuario è contaminato dai popoli che non hanno rispetto per il luogo di Dio (Salmo 79:1).
Il santuario e il nome del Signore sono profanati direttamente dalle seguenti empietà per le quali non c’è
espiazione: a seguito dell’idolatria del popolo (Levitico 18:31; Geremia 19:4; 32:34), giurando il falso (Levitico
19:12), facendo la tonsura sul capo (Levitico 21:5,6), non astenendosi dalle cose sante (Levitico 22:3),
presentandosi nel santuario in stato di impurità rifiutando la purificazione (Levitico 15:31; Ezechiele 44:7), dopo
aver fatto dei sacrifici a Moloc (Levitico 18:21; 20:3), rifiutando di celebrare il Giubileo per non liberare gli
oppressi (Geremia 34:15,16), avendo avuto una condotta riprovevole (Ezechiele 36:17). Sebbene in questi casi,
scrive A.M. Rodriguez, il santuario viene purificato non attraverso il rito sacrificale, «ma attraverso la
distruzione di coloro che l’hanno prodotta»35 crediamo sia più conseguente il pensare che il santuario venga
29
cit. da GOLDSTAIN Jacques, Les valeurs de la loi, éd. Beauchesne, Paris 1980, p. 180.
COHEN A., Le Talmud, éd. Payot Paris, 1958, p.210.
31
Idem, p. 154.
32
E. Cortese, o.c., p. 147.
33
L. Moraldi, o.c., p, 221.
34
Si risponde dicendo che il sangue purifica ciò che è contaminato e contamina ciò che è santo. Chi sostiene che il sangue purifica e
contamina il santuario cita l’esempio delle ceneri della giovenca rossa le quali spruzzate e mischiate con l’acqua purificavano colui che si era
contaminato toccando un morto incidentalmente, ma ponevano nella condizione di impurità colui che espletava questo ufficio (Numeri 19:921). Oltre a far rilevare che in tutto questo rituale il sangue non è menzionato, c’è anche da chiedersi se l’officiante ne veniva contaminato a
causa del rito che compiva (spruzzare le ceneri mischiate con acqua), o perché era stato lui stesso che aveva fatto la mistura, entrando così in
contatto con le ceneri contaminatrici della giovenca rossa?
35
A.M. Rodriguez, o.c., p. 36. «Questo è anche il caso della contaminazione della terra. Essa poteva essere contaminata attraverso
l’immoralità sessuale (Levitico 18:25,28), l’omicidio (Numeri 35:33,34), ecc. Per questa contaminazione non c’era un rito di purificazione.
30
La pazzia di Dio
86
LA GRAZIA NELL’ANTICO TESTAMENTO - LA SALVEZZA ATTRAVERSO IL RITO SACRIFICALE E IL SERVO DELL’ETERNO
contaminato a seguito delle impurità, delle trasgressioni e dei peccati del popolo per i quali il Signore ha
proposto il sacrificio come mezzo di purificazione.
L’osservazione che può essere fatta è che nel giorno dell’espiazione solo i peccati confessati ed espiati
venivano trasferiti dal santuario al capro per Azazel. Se tutti i peccati contaminavano il santuario, quelli per i
quali era previsto il perdono mediante il rito di espiazione, e l’israelita non riteneva confessarlo e chiederne
perdono, tale peccato doveva essere annoverato tra quelli per i quali l’espiazione è in relazione con la
distruzione del peccatore.
Nel rito sacrificale l’imposizione della mano e la confessione del peccato, non comportava la
trasmissione del peccato sull’offerta. Inoltre, come abbiamo detto e vedremo più avanti, la vittima non moriva,
come punita, in sostituzione o al posto dell’uomo.36 Essa esprimeva, quale dono dell’offerente a Dio, la propria
consacrazione a Lui.
Nel presentarsi davanti all’altare di Yahvé con la propria offerta, l’israelita non intendeva propiziare il
favore dell’Eterno, ma dimostrare di accettare il Suo perdono manifestandogli la sua consacrazione.
Crediamo che sia possibile pensare che nel momento della confessione del peccato sulla vittima che «era
cosa santissima», esso veniva purificato dalla coscienza dell’officiante, pur continuando a contaminare il
santuario fino al giorno della purificazione quando il giudizio aveva onorato Dio e reso giusto l’israelita.
Sacrificio della vittima
Perché Dio ha ritenuto necessario che l’animale morisse?
Come abbiamo già riportato, P. Médébielle, sebbene sia stato un sostenitore della teoria della sostituzione
vicaria, riconosce che: «Agli occhi degli antichi semiti la vita del sangue sparso sull’altare non evocava in alcun
modo l’idea di un castigo».37
Nella morte dell’animale l’israelita esprimeva la sua morte al peccato e il suo desiderio di riconsacrare la
propria vita a Dio.
Come spiegheremo nella sezione Significato del sangue la morte della vittima permette di avere il
principio della vita rappresentato dal sangue.
Aspersione del sangue
«Ciò che espia non è la morte della vittima, ma piuttosto “la vita” ottenuta mediante la morte, dato che il
sangue non si può ottenere senza una immolazione o uccisione».38 «I testi pasquali tuttavia, come del resto tutte
le altre prescrizioni e descrizioni veterotestamentarie di sacrifici, non si dilungano sulla morte né sulle
sofferenze mortali dell’agnello. La morte di per sé non ha alcun valore cultuale; come puro mezzo in vista del
fine, essa è piuttosto il presupposto inevitabile per i riti sacrificali specifici da compiersi con il sangue e con le
parti grasse, e per il pasto cultuale che ne segue. È chiaro quindi che l’idea di sofferenza punitiva e l’idea di
morte espiatrice dell’agnello pasquale in sostituzione di altri era lontana per lo meno dalla concezione
veterotestamentaria della pasqua».39
Desideriamo ricordare in questo contesto quanto detto sopracioé che la parola “sacrificio” non è
sinonimo di sofferenza, dolore, tristezza, come può sembrare. Essa esprime per contro: la gioia della lode (vedi
olocausto); l’allegrezza, il ringraziamento per quanto ricevuto (vedi sacrificio di azione di grazia); l’espressione
positiva, esaltante per quello che si è (avere l’Eterno quale Dio, la guarigione del lebbroso). Il sacrificio per il
peccato, anche se è seguito dall’olocausto, esprime gratitudine. In questo caso la tristezza dell’israelita non era
data dal sacrificio in sé, ma dalla presa di coscienza di aver disonorato il proprio Dio. Il sacrificio era motivo di
gioia, era il mezzo, la forma, il rito con il quale si esprimeva di accettare la volontà di Dio, cioè, il perdono, la
grazia.
Dopo l’offerta dell’israelita, il sacerdote interveniva e spargeva il sangue sull’altare e attorno a esso. Il
sangue veniva sparso davanti alla tenda che divideva il luogo santo dal luogo santissimo qualora il sacrificio si
riferisse a un peccato commesso dal sacerdote, dal popolo o si trattasse dell’immolazione del giorno
Nel caso dell’omicidio l’espiazione (kipper) era realizzata a favore (‘al) della terra attraverso l’esecuzione dell’omicida. La contaminazione
della terra avrebbe avuto come conseguenza la distruzione d’Israele (Levitico 18:28; 20:22) perché Dio non poteva abitarvi più a lungo»,
idem.
36
Gli autori de La Bible Annotée scrivono: «Come il nome di Dio è profanato da coloro che lo pronunciano con labbra impure senza il
sentimento di adorazione che Gli è dovuto, così la Dimora di Dio e quanto è in essa collocato, sono contaminati dal contatto degli uomini
peccatori che si avvicinano, e un omaggio riparatorio è dovuto all’Eterno per questa profanazione e anche per quelle che attentano alla sua
santità nel corso della vita quotidiana» Bible Annotée, idem, p. 35.
37
P.A. Médébielle, o.c., col. 74.
38
FÜGLISTER Notker, Il valore sacrificale della Pasqua, ed. Paideia, Brescia 1976, p. 90.
39
Idem, p. 63.
La pazzia di Dio
87
CAPITOLO V
dell’espiazione. Solamente i sacerdoti potevano manipolare il sangue della vittima ed era l’atto più santo e
importante del sacrificio.
Perché l’Eterno dava tanta importanza al sangue? Che cosa esso rappresentava? Consideriamo il suo
significato e la sua funzione.
Significato del sangue
«La vita della carne è nel sangue. Per questo io vi ho ordinato di porla sull’altare per fare l’espiazione per
le vostre persone; perché il sangue è quello che fa l’espiazione, mediante la vita... Nel sangue suo sta la vita...
poiché il sangue è la vita d’ogni carne» Levitico 17:10-14.
La proibizione di mangiare il sangue poteva essere data per evitare di imitare i pagani (i quali bevevano il
sangue degli animali sacrificati per impadronirsi delle forze vitali divine) e per un motivo igienico, essendo
presenti nel sangue le tossine, le impurità fisiologiche dell’animale; la sua ingestione ne causa l’assorbimento
diretto. Questo principio igienico-sanitario, che è tuttora valido, nell’A.T. viene presentato sotto l’aspetto
morale: puro, impuro.
La parola carne indica la parte organica dotata di vita; l’anima, nefesh, distinta dalla carne, designa il
principio di vita, per questo è detto: «La vita d’ogni carne è nel sangue». Quindi il sangue rappresenta la vita, è
ciò che mantiene la vita. L’animale sgozzato, perdendo il sangue, muore. L’israelita nel sangue vedeva ciò che
manteneva in vita l’animale. Quindi, si può concludere: «Il sangue è la vita» Deuteronomio 12:23.
Il sangue ha una doppia valenza:
- Simbolo della vita dell’offerente presentata e offerta a Dio
- Simbolo della vita che Dio offre all’uomo.
Simbolo della vita dell’offerente presentata e offerta a Dio
Nello scritto di F. Varonne, Ce Dieu censé aimer la souffrance, ci sono delle riflessioni interessanti sul
significato del sangue nella lettera agli Ebrei che riteniamo spieghi molto bene quanto stiamo trattando e che
altri autori hanno espresso nei loro scritti. Il teologo cattolico, già direttore del seminario diocesano di Sion a
Friburgo, si pone la domanda se la lettera considera il sacrificio con un significato “materialista” o “simbolico”.
Nella prospettiva materialista l’interpretazione «vede nel sangue sparso la materializzazione della sofferenza e
della morte della vittima nello stesso tempo la materializzazione dell’esigenza divina e della sua soddisfazione».
Nella prospettiva simbolica il rito sacrificale è una “immagine” che permette di presentare la vita stessa di Gesù
dalla sua nascita alla sua risurrezione, passando così dal rituale all’esistenziale.
Per l’uomo moderno, pur mangiando la carne due volte al giorno e chiedendo quotidianamente
l’ecatombe di animali da macello, non riflettendo sulla sua alimentazione, in relazione ai sacrifici del passato o a
qualche cerimonia che ha avuto modo di vedere in occasione di qualche viaggio in paesi con una cultura diversa
da quella occidentale, esprime la sua sensibilità considerando il sacrificio come un rito sanguinario e violento.
«In realtà, l’A.T. e le religioni apparentate o vicine conoscono molteplici forme di sacrificio. Un’offerta di frutti,
una libazione d’olio o di vino e, soprattutto, il sacrificio di lode, non hanno nulla di violento e di sanguinario,
pur essendo degli autentici sacrifici. In realtà, la messa a morte della vittima fa parte del sacrificio per delle
ragioni puramente tecniche. Se si vuole celebrare un sacrificio di alleanza nel quale il grande simbolo è il
sangue, la messa a morte dell’animale è tecnicamente necessaria: come prendere il sangue dell’animale senza
ucciderlo nello stesso tempo? O se si vuole celebrare un sacrificio di comunione che si conclude in un pasto di
carne, bisognerà ben uccidere l’animale per cucinarlo e consumarlo assieme.
È a questo livello che si fronteggiano le interpretazioni materialiste e simboliche. Per i materialisti, la
messa a morte non è semplicemente tecnica, essa è il cuore stesso del sacrificio. L’animale abbattuto si
sostituisce all’uomo che a causa del peccato ha meritato la morte e che pagherebbe così il suo debito mediante
una vittima interposta.
Già il profeta Michea aveva detto: «Con che verrò io davanti all’Eterno…? Verrò io davanti a lui con
degli olocausti, con dei vitelli di un anno? L’Eterno gradirà egli le migliaia di montoni, le miriadi dei rivi d’olio?
Darò il mio primogenito per la mia trasgressione? Il frutto delle mie viscere per il peccato dell’anima mia? O
uomo, Egli (l’Eterno) ti ha fatto conoscere ciò che è bene; e che altro richiederebbe da te l’Eterno, se non che tu
pratichi ciò che è giusto, che tu ami la misericordia, e cammini unitamente col tuo Dio?”» Michea 6:6-8.40
In ogni religione bisogna distinguere l’intuizione prima nella sua purezza originale e le sue corruzioni
ulteriori. La corruzione mercantilista, contro la quale lottano i profeti dell’A.T., non deve nascondere i significati
primari dello svolgersi del sacrificio.
40
Riteniamo che questo testo presenti in forma esplicita che il rituale del santuario non avesse senso se esso non fosse una forma per
esprimere il proprio cambiamento di vita.
La pazzia di Dio
88
LA GRAZIA NELL’ANTICO TESTAMENTO - LA SALVEZZA ATTRAVERSO IL RITO SACRIFICALE E IL SERVO DELL’ETERNO
La lettera agli Ebrei passa dal “sangue” al “corpo” (10:5-10), dopo aver insistito sul sangue, sulla sua
necessità per il perdono (9:22). Se la lettera avesse avuto una percezione materialista degli elementi del
sacrificio, non potrebbe passare improvvisamente dal “sangue” al “corpo”, e dire: “Noi siamo stati santificati,
mediante l’offerta del corpo di Cristo” (10:10), dopo aver fermamente stabilito che “Senza spargimento di
sangue non c’è remissione” 9:22...
Se il linguaggio è simbolico, nel quadro del rituale di Kippur si parla di “sangue”; nell’ambito del Salmo
40, citato a partire dal capitolo 10:4, si passa senza problema al “corpo”, “sangue” o “corpo” che significano
Gesù con tutta la sua vita, come lo vedremo più sotto.41 Noi abbiamo un sommo sacerdote, Gesù; e questo
sacerdote ha offerto il suo sacrificio: “preghiere e supplicazioni” “con gran grida e con lacrime” (5:7). La
lettura simbolica e la trascrizione esistenziale corrispondente sono perfettamente chiari e ciò si fa non in un
passo secondario, ma in un testo fondamentale della lettera. L’oggettivo reale del sacrificio non è né il sangue
sparso, né il corpo messo a morte, ma la “preghiera” di Gesù. Ciò si riallaccia al consiglio che viene dato ai
cristiani alla fine della lettera: “per mezzo di lui dunque, offriamo del continuo a Dio un sacrificio di lode: cioè il
frutto di labbra confessanti il suo nome” 13:15. Nel seguito immediato, si vede apparire in forma naturale la
grande critica contro la concezione materialista e compensatoria del sacrificio: “Non dimenticate di esercitare la
benevolenza e di far parte agli altri dei vostri beni, poiché è di tali sacrifici che Dio si compiace” (13:16).
Al termine di un anno intero di peccati, d’infedeltà all’Alleanza con Dio, Israele può ancora considerarsi
come il popolo di Dio? La domanda è angosciante: Israele non può sopravvivere come popolo se non come
popolo di Dio. È la sua vita che è in questione: bisogna con urgenza ritornare verso Dio e rinnovare l’alleanza
con lui. A questo bisogno vitale risponde l’istituzione divina della grande celebrazione dell’Espiazione: Dio
stesso invita il popolo a questa conversione e l’aspetta nel cuore dello svolgimento rituale che Lui ha istituito. Si
tratta della vita del popolo che il sangue tradizionalmente la simboleggia. Ma non è possibile prendere il sangue
del popolo: è dunque il sangue di un animale che porterà ritualmente questo significato. Il popolo, in principio,
comprende il rito e il suo simbolismo, e si identifica al sangue che il sommo sacerdote raccoglie.
Il popolo non si identifica con l’animale messo a morte, non lo vede colpito al suo posto. Nessun contesto
di punizione42 né di sostituzione: la messa a morte è puramente tecnica, serve a ottenere del simbolo rituale, il
sangue, affinché la celebrazione possa avere il significato di raffigurare il percorso vitale di tutto il popolo che
ritorna verso il suo Dio e che spera di essere accolto da Lui, una volta di più.
Il sangue raccolto in un vaso, portato dal sommo sacerdote, è dunque la vita del popolo. Il percorso
rituale del ritorno a Dio può essere fatto: il popolo si riconosce simbolicamente rappresentato, e Dio stesso è
rappresentato in mezzo al popolo mediante i simboli che si trovano all’interno del Santo dei Santi. Il sommo
sacerdote vi entra condensando ritualmente nella sua persona il percorso esistenziale del popolo intero… Nel
momento in cui il sommo sacerdote attraversa il velo e scompare nel Santo dei Santi, l’angoscia rituale
raggiunge il suo culmine: tutto può succedere, il meglio o il peggio! Il peggio: Dio, disgustato dal suo popolo,
rifiuta di rinnovare l’alleanza, ed è la rovina e la scomparsa per Israele. Il meglio: Dio, fedele alla sua alleanza e
alla sua istituzione mediante il suo rinnovamento annuale, accoglie il popolo; Israele saprà allora che è sempre il
popolo di Dio, che ha ritrovato la pienezza della sua vita.
Infatti, nel Santo dei Santi, mediante un vuoto, senza essere rappresentato, Dio simboleggia la sua
presenza… al di sopra dell’arca, tra i cherubini: là è il centro del Tempio, là lo scopo simbolico del percorso
rituale dell’espiazione.
Ritualmente, ci sarà rinnovamento di alleanza quando i due simboli si saranno incontrati: il Vuoto al di
sopra dell’arca e il Sangue. Questo incontro rituale si compie nell’aspersione del sangue; e il sangue,
inevitabilmente, ricade sul coperchio d’oro dell’arca. Questo coperchio d’oro ha una importanza rituale centrale:
si chiama il “propiziatorio”, e il sangue che ricade sopra e vi rimane diventa la prova rituale che l’Alleanza è
rinnovata, che i peccati sono espiati (cioè: soppressi mediante il perdono fedele di Dio). Secondo il suo
contenuto simbolico, il sangue sul propiziatorio, è la vita del popolo ridiventato popolo di Dio, è la vita d’Israele
41
«Innumerevoli sono le espressioni che attribuiscono la nostra redenzione al sangue di Cristo (Romani 5:9; Ebrei 9:12,14; 1
Giovanni 1:7; 1 Pietro 1:18,19; Luca 22:20: la nuova alleanza nel sangue versato di Gesù, ecc.). Il sangue ricapitola simbolicamente tutta
l’opera compiuta dalla passione di Gesù. Il contesto precisa spesso in che senso il termine viene preso: esso traduce il dono di sé fino in
fondo, fino a dare la prova più grande di amore. Il sangue è dunque il simbolo dell’amore riconciliatore che ha preso visibilmente corpo nel
nostro mondo. Metafisicamente esso sarà paragonato al sangue dei sacrifici: ma lo scopo dell’analogia è quello di fare leva su una istituzione
religiosa ben conosciuta, al fine di esprimere l’originalità e la trascendenza del sangue di Cristo versato in un sacrificio esistenziale, di fronte
al sangue degli animali, versato in maniera cultuale…
Se si dimentica queste contesto scritturistico, si potrà vedere nel sangue di Cristo il simbolo d’una condanna a morte di tipo penale.
Il sangue sarà il prezzo, la vera controparte richiesta per il perdono del peccato degli uomini. Esso avrà un valore oggettivo in se stesso. Nello
stesso tempo Dio Padre assumerà il ruolo di un sadico, e i cristiani si impegneranno in un culto sadomasochista. Tutta l’espiazione compiuta
da Gesù nel senso biblico di questo termine sarà pervertita in una falsa concezione della sofferenza riparatrice». SESBOÜÈ Bernard, Gesù
Cristo, l’unico mediatore, vol. 1, ed. Paoline, Cinisello Balsamo 1991, p. 72
42
«È interessante notare che l’efficacità del sacrificio secondo Levitico 17:11 non deriva dalla pena subita dalla vittima, come se si
trattasse di una specie di castigo. La sua morte non interviene che per liberare il principio vitale del nefesch ed è a questo principio, non alla
morte, che Dio unisce il valore del sacrificio. Non è la morte che dà sull’altare, è il sangue e non il sangue come tale, ma il sangue come
portatore di vita… vita che ritorna a Dio suo autore» ARCHIDEC Alain, De l’Autel à la Croix, Collonges sous Salève 1966, tesi di fine
studio.
La pazzia di Dio
89
CAPITOLO V
rinnovata e compiuta mediante l’avvicinanza ritrovata con il suo Dio (che ritrova mediante il suo essere vicino
al suo Dio) – e ritrovata al termine di un percorso non compensatorio (mediante il dolore e la morte della vittima
che sostituisce il popolo), ma esistenziale, un percorso di conversione espresso dal rito. Ogni efficacia del rito
viene da Dio, è Lui che l’ha istituito per il popolo, come mezzo visibile, concreto, coinvolgente, per fare
costantemente il suo ritorno a Dio, di ritrovare la fede piena nel suo essere popolo di Dio.
Il sangue sul propiziatorio è dunque la vita del popolo ora rinnovata e compiuta nell’alleanza con Dio.
Ma il popolo, che sta fuori dal santuario, non lo sa ancora. Bisogna dunque che lo apprenda, e nell’accoglierlo
lo ratifica. Il sangue, caricato ora di tutti questi significati salvifici, ritorni al suo portatore simbolico: il popolo.
È per questo che il sommo sacerdote asperge il propiziatorio con una parte del sangue riservando l’altra parte
all’aspersione sul popolo. Il sommo sacerdote, attore rituale e testimone dell’alleanza rinnovata, esce dunque
verso il popolo e l’asperge dicendo: “Ecco il sangue dell’Alleanza”. Il popolo, accogliendolo nella fede, sa che
attraverso questo gesto, è Dio che gli rende la vita, rinnovata, ritornata perfetta perché è nuovamente fondata
sull’alleanza fedele con il Dio Vivente e Perfetto.43
Il sacrificio è dunque, sul piano rituale, un atto simbolico mediante il quale il popolo può accedere a Dio
per trovare nella comunione con Lui la sua propria pienezza. ACCESSO, COMUNIONE e PIENEZZA sono i
punti fondamentali di questa definizione. Tutto il percorso si svolge nel rito e nel simbolo. Non è la materialità
delle offerte, nè il sangue e la morte che aprono l’accesso a Dio, bensì la verità interiore e personale del percorso
espresso nel rito simbolico.
Questo aspetto è ancora sottolineato dal fatto che, nella nostra epistola (agli Ebrei), il sacrificio
d’espiazione non è considerato come una invenzione dell’uomo, il suo sforzo per conciliarsi Dio, bensì come
una istituzione e una rivelazione di Dio.
I sacrifici, quelli dell’antica alleanza (tipi di quello di Gesù), sono situati già in un contesto di rivelazione.
È Dio che istituisce e dona al suo popolo il grande rito annuale mediante il quale sarà riconosciuto di nuovo
come il Dio fedele all’alleanza. In questo sacrificio che dà al popolo di celebrare, è dunque Dio che apre ai
credenti la possibilità di accedere di nuovo al Dio dell’alleanza e di ritrovare nella comunione con Lui la sua
propria perfezione di popolo di Dio».44
Simbolo della vita che Dio offre all’uomo
Il sangue, quale simbolo della vita - e non della morte -, nel rito sacrificale era ciò che Dio utilizzava per
purificare l’uomo dal suo peccato. L’israelita così santificato da Dio veniva considerato consacrato, riunito
all’Eterno.
Ricordiamo che i popoli antichi, come i Greci, vedevano nell’aspersione un mezzo con il quale l’uomo
cancellava il peccato. Il sacrificio con il quale si presentava, faceva passare il dio dalla collera alla benevolenza;
la divinità, irritata dal peccato, era placata dalla preghiera e dall’offerta. Ma a differenza dei greci, per gli
scrittori biblici, come per i traduttori della versione dei LXX che hanno ben compreso il pensiero di quelli, il
sacrificio non causa nell’Eterno alcun cambiamento. Come i teologi diranno più tardi, esso è una metafora, una
parabola che esprime il perdono, la grazia di Dio.
Si constata una differenza radicale tra l’uso che fanno i greci del verbo ilaskestai “espiare” e quello che
ne fa la Bibbia. Mentre presso i primi il verbo riceve sempre come complemento oggetto il nome della divinità
che il fedele desidera “rendere propizio”, nella Bibbia una tale costruzione non la si trova mai. Quando l’oggetto
del verbo è precisato, si tratta del peccato che Dio “espia”, cioè “cancella”, “rimette”, “perdona”, sia del
peccatore che “santifica”, sia di un luogo (altare, santuario, casa, terra) diventato impuro a causa del peccato
degli uomini e che il sacerdote con l’espiazione del sangue “espia”, cioè “purifica”. Il soggetto del verbo è
quindi Dio o il sacerdote che lo rappresenta e ne fa le veci.45
Come nei sacrifici per il patto, il sangue della vittima viene sparso sugli Ebrei (Esodo 24:1-8) quale
simbolo della vita che Dio offre al suo popolo, così il sangue dell’espiazione, che viene sparso sull’altare e nel
santuario, è il simbolo della vita che Dio offre a purificazione del peccato commesso.
«La vita della carne è nel sangue e io ve lo concedo sull’altare per espiare per voi. È il sangue che espia
in quanto è vita che espia» Levitico 17:11. Ne segue che nel sacrificio espiatorio il valore e il significato proprio
del sangue non era quello di un’offerta, di un dono fatto a Dio. Per quanto sappiamo, rarissimi sono i testi nei
quali il sangue ricorre con dei verbi contenenti l’idea di offerta e dono a Dio, ma mai nel rituale dei sacrifici
espiatori. «Il sangue non è mai un’offerta fatta a Dio: in tutto il rituale levitico, e in Ezechiele, solo tre volte il
sangue è oggetto del verbo “offrire” (in ebraico qƒrab): una volta il verbo riassume tutto il rito sacrificale, e due
volte il sangue è collegato col grasso della vittima; onde non è possibile trarre conclusioni contrarie a tutto il
43
Dobbiamo rilevare, pur condividendo il pensiero, che quanto espresso in queste due ultime frasi non crediamo trovi un riscontro
nella descrizione della cerimonia di espiazione nel libro del Levitico.
44
VARONNE François, Ce Dieu censé aimer la souffrance, éd. Cerf, Paris 1985, pp. 113-118.
45
Vedere LYONNET Stanislao, La sothériologie paulinienne, in, Introduction à la Bible, sous la direction de A. Tobert et A. Feuillet,
t. II, Nouveau Testament, Paris 1959, pp. 868,869. L. Moraldi, o.c., p. 139. N. Fùglister, o.c., p. 90.
La pazzia di Dio
90
LA GRAZIA NELL’ANTICO TESTAMENTO - LA SALVEZZA ATTRAVERSO IL RITO SACRIFICALE E IL SERVO DELL’ETERNO
resto dell’A.T. È anzi, molto importante il testo: “La vita della carne è nel sangue e io ve lo concedo sull’altare
per compiere l’espiazione in vostro favore. È il sangue che espia, è in quanto vita che espia” Levitico 17:11; era
dunque un singolare dono di Dio offerto all’uomo, non una offerta dell’uomo a Dio».46 Sabourin Léopold
precisa: «“Questo sangue, io ve l’ho dato, per fare sull’altare il rito di espiazione per le vostre vite” Levitico
17:11. Piuttosto che un’offerta fatta a Dio il sangue sacrificale è dunque, in definitiva, un dono di Dio agli
uomini».47 R. de Vaux traduce: «“La vita della carne è nel sangue. Questo sangue l’ho dato io, per fare
sull’altare il rito d’espiazione per le vostre vite; è infatti il sangue che espia per una vita” oppure “che espia per
la vita che è in lui” Levitico 17:11».48
Questo insegnamento che il sangue della vittima è un dono che Dio offre al credente per la purificazione
dei suoi peccati è anche confermato dalla versione greca dei LXX, la quale ha fatto però pensare a diversi
studiosi che il sangue sparso sull’altare è quello dell’offerente.
«To gar aima autou anti
tes psuxes ezilasitai»
«il perché sangue suo al posto dell’anima espia».
(«Il sangue della vittima espia al posto dell’anima - cioè della vita - dell’offerente» Levitico 17:11).
«La difficoltà del testo greco di Levitico 17:11 sta nella proposizione anti. Presso i LXX la terminologia
del culto è quasi affatto uniforme. Nel Levitico leggiamo antì otto volte, sei volte esso traduce tahat, di cui
quattro nella “legge del taglione” (24:18-20; 6:15; 14:24), una volta traduce ’al (26:24); e una volta rende be,
cioè nel nostro passo. Generalmente antì corrisponde bene a tahat, invece meno bene a ’al. Quanto all’antì che
rende be v’è forse una spiegazione abbastanza ovvia: se infatti i LXX avessero tradotto kipper be con il skesthai
en - come essi fanno abitualmente fuori di questo passo - il senso che ne sarebbe scaturito “espia nell’anima”
non sarebbe stato certo soddisfacente. Se avessero usato il semplice dativo compreso però come strumentale,
avrebbero sì potuto rendere il significato che noi abbiamo dato al Testo Masoretico: “il sangue espia mediante la
vita della vittima”; ma se fosse stato compreso come dativo di comodo, il senso sarebbe stato “il sangue espia in
favore dell’anima (dell’offerente)”, cioè precisamente quello che i LXX sembrano aver voluto evitare.
Probabilmente perciò in quest’unico caso hanno fatto ricorso alla preposizione antì. In tal modo è accentuata
l’identificazione tra il sangue e l’anima della vittima; il sangue espia come se fosse l’anima, ossia la vita della
vittima. Di fatto così ha compreso Filone, il quale, pur utilizzando la LXX, lo ha capito come noi abbiamo
interpretato il Testo Masoretico: “il sangue espia in luogo della vita della vittima”.
Ora è bensì vero che tutte le antiche versioni semitiche, seguite dalla Vulgata, vedono nel nefesh del v. 11
l’anima dell’offerente - non della vittima!».49 Tanto è vero che Médébielle scrive: «Le tradizioni giudaiche e
cristiane non hanno mai perso di vista questo insegnamento… I più antichi commentatori cristiani del Levitico
interpretano secondo questo stesso principio le parole della Scrittura e il linguaggio dei riti: “Come tu hai
un’anima... dice Teodoreto, così l’animale senza ragione ha il sangue al posto dell’anima. È per questo che Dio
ordina di offrire l’anima dell’animale, cioè il suo sangue, al posto della tua anima razionale...”.50 Procopio di
Gaza spiega a sua volta: “Dio accetta il sangue degli animali come simbolo dell’anima umana”. E si può dire che
questa interpretazione facesse legge tra gli esegeti».51 «Un testo accadico, che proviene da una serie di scongiuri
contro i cattivi demoni ci mostra fino a che punto questa nozione era diffusa nel mondo semitico. “L’agnello è il
sostituto dell’uomo; per la sua vita, egli offrirà l’agnello; offrirà la testa dell’agnello per il collo dell’uomo;
offrirà la pelle dell’agnello per la pelle dell’uomo ”».52
«Ma nessuna delle versioni menzionate (semitiche e Vulgata) vuole intendere che il sangue della vittima
espia in luogo dell’anima dell’offerente. In effetti traducono tutte il kipper be del Testo Masoretico con kipper
‘al, il cui senso non offre ambiguità, ma lungi dal significare “espia in luogo di” vale o “purificare, consacrare
qualcosa” o più spesso ancora “espia in favore di una persona, purificare qualcuno dai suoi peccati”. Cioè le
antiche versioni semitiche non traducono direttamente il Testo Masoretico, che vale: “il sangue espia in quanto
esso è vita”, ma ne danno una parafrasi che vuole essere esplicativa. “Il sangue espia, ossia purifica l’anima”.
Così traducono accuratamente le versioni intercolumnari della “Poliglotta” del Walton:53
- Pentateuco Samaritano
- sanguis enim ille animam expiabit
- sangue infatti quel anima espia
- Versione siriaca
- nam sanguis expiat animam
46
MORALDI Luigi, Per una corretta lettura della soteriologie biblica, in La Scuola Cattolica, anno CVIII, luglio-ottobre 1980, p.
318.
47
SABOURIN Léopold, Sacrifice, in Supplément au Dictionnaire de la Bible, fasc. 99, 1985, col. 1496.
R. de Vaux, o.c., p. 408.
«Proprio in Levitico ed in un testo particolarmente solenne sappiamo invece che esso è un dono di Dio all’uomo non tanto perché
glielo restituisca, ma affinché con esso purifichi quanto è contaminato. In questo senso il sangue espia» L. Moraldi, Espiazione sacrificale...,
p. 250.
49
L. Moraldi, o.c, pp. 241,242.
50
Leviticum q. 23 (P.G. 80,333).
51
Idem, pp. 136,139.
52
Cit. da JACOB Edmond, Théologie de l’Ancien Testament, Delachaux et Niestlé, Neuchâtel 1955, p. 23.
53
WALTON, S.S. Biblia Polyglotta, London 1657.
48
La pazzia di Dio
91
CAPITOLO V
- infatti il sangue espia l’anima
- Targum di Gerusalemme
- I quia sanguis victimae
est pro (‘al) peccatis animae
expians
- poiché il sangue della vittima è per i
peccati dell’anima espia
- Targum Babilonese
- quia sanguis pro(‘al) animat expiat
(Onkelos)
- poiché il sangue per
l’anima espia
E sulla stessa linea si mantiene la Vulgata che traduce il v. 11:
et sanguis pro animae piaculo
sit
e il sangue per l’anima l’espiazione sia.
Conclusione: la formulazione del testo ebraico (kipper ‘al, kipper be) ha un senso tecnico ben preciso che
non ha nulla a vedere con riscatto o con sostituzione. Con l’espressione greca antì tes psuxes i LXX hanno
cercato di sottolineare l’identificazione del sangue con la vita della vittima, per ovviare a false interpretazioni e
per rendere più chiaro il senso ai lettori greci; l’espressione dunque si mantiene strettamente nella linea del
significato del testo masoretico. Grammatica e contesto autorizzano pienamente a interpretare Levitico 17:11
della versione dei LXX in conformità del testo originale… Neanche minimamente è insinuata alcuna relazione
tra il sangue della vittima e quello dell’uomo, tra la vita della vittima e quella dell’offerente. Tanto meno è
possibile vedere una sostituzione della vita dell’animale a quella dell’offerente o una morte punitiva della
vittima in luogo dell’uomo. È asserito che il sangue della vittima è elemento lustrativo, catartico (espia) a pro
dell’offerente, e che questo potere è contenuto nel sangue “in quanto è vita”».54
«Nessun argomento decisivo è stato ancora presentato che permetta di scoprire l’idea della sostituzione
penale nel versetto. L’analisi del concetto dell’espiazione mediante il sangue è contraria, poiché l’espiazione è
prima di tutto “purificare”, o, più raramente, “santificare i luoghi e gli oggetti sacri”».55
Del resto in tutti i tempi, quando il povero, il suddito, il debole offre qualcosa al potente, con il suo dono
manifesta la propria volontà di porsi al suo servizio sotto la sua protezione. Non è, quindi, un dono con il quale
arricchire il signore, ma un’offerta che esprime l’accettazione della sua signoria, della sua protezione e del suo
aiuto. L’offerta più che essere dono è richiesta di soccorso. Per contro, quando è il re, il potente che offre un
dono a un suddito, a un povero, esso esprime favore e magnanimità.
Ci sembra errato considerare il sangue come un simbolo del peccato punito, infatti le sue macchie non
contaminavano alcun arredo, anzi esso era mezzo di purificazione.
Con il sacrificio di purificazione, il credente più che fare qualcosa per avere il perdono dei propri peccati
dimostra, mediante l’offerta della vittima, di accettare da parte di Dio il dono del perdono e credere nella sua
grazia. La vittima non muore quindi al posto suo, ma a causa sua, a suo favore.
Il sacrificio di purificazione che l’israelita lebbroso doveva fare (Levitico 14:2 e segg.) non veniva
compiuto per essere purificato, per chiedere la guarigione, ma per attestarla perché era stato guarito dal male che
lo rendeva impuro. Questo sacrificio dichiarava l’intervento della grazia liberatrice di Dio, non era quindi fatto
per ricevere la guarigione.
Il sangue è il mezzo mediante il quale Dio purifica l’uomo, cioè rimuove il male che impedisce l’unione
con Lui. La purificazione, quale effetto positivo, ricongiunge l’uomo con la fonte della vita ridandogli la forza
che viene dall’Eterno per compiere il bene.
Il sangue del sacrificio espiatorio ricorda quello del patto che è sparso sul popolo. Il patto infranto dal
popolo non viene rinnovato a seguito del sacrificio, viene ricordato, invitando l’Israelita a considerarsi
appartenente all’Eterno.
Consacrando la vittima al suo Dio, l’uomo si consacra a sua volta.
La vittima considerata santissima non solamente consacrava l’altare, ma anche colui che l’uccideva.
Questa unione tra vittima e offerente esprime anche la comunione con Dio.
Mediante un simbolismo che parla agli occhi (il gesto della mano sulla vittima), è come un trait-d’union,
un segno di solidarietà, di identificazione. Il credente mediante la sua offerta presentava la propria adorazione e
vedeva nel sangue della vittima la propria vita santificata che il ministro offriva all’Eterno. «Il sacrificio esprime
mediante un atto solenne l’idea che tutto appartiene a Dio. Il rito esprime il riconoscimento di questo diritto e
contemporaneamente esprime anche il desiderio dell’offerente di avvicinarsi a Lui. Essendo questo desiderio la
base stessa del sentimento religioso, il sacrificio è l’atto per eccellenza».56
L’israelita purificato dal sangue della vittima è santo, un consacrato all’Eterno.
Conclusione
54
55
56
L. Moraldi, o.c., pp. 241,242,240.
SABOURIN Léopold, Nefesh, sang et expiation - Lévitique 17:11,14, in Science Ecclésiastique, 18, 1966, p. 45.
SABOURIN Léopold, S.J., Rédemption sacrificielle, éd. Desclée de Brouwer, Tournai 1961, p. 171.
La pazzia di Dio
92
LA GRAZIA NELL’ANTICO TESTAMENTO - LA SALVEZZA ATTRAVERSO IL RITO SACRIFICALE E IL SERVO DELL’ETERNO
Stando all’insegnamento teologico dell’A.T. possiamo concludere dicendo che la vittima non moriva
perché colpita penalmente, caricata dai peccati dell’israelita. La vittima, anche a seguito dell’imposizione della
mano continuava a essere “cosa santissima” e non veniva sacrificata in punizione delle colpe dell’uomo. Il gesto
dell’imposizione della mano, fatto in forma solenne, attestava che l’israelita si identificava con la vittima la
quale, pur essendo presentata dal sacerdote, era offerta a nome dell’offerente. Il credente si privava in modo
irreversibile di un bene utile per testimoniare di consacrarsi a Dio e accettarne la protezione ristabilendo, per
quanto gli competeva, il suo rapporto filiale con Lui. Esprimendo con ciò la sua certezza che l’Eterno, a seguito
del suo ritorno, attestato dall’offerta per il peccato e di riparazione, come Lui stesso aveva stabilito nella sua
legge levitica, gli manifesta il suo favore espiandogli il peccato, purificandolo.
«Le sofferenze e la crocifissione inflitte al Cristo dai suoi carnefici non hanno in alcuna maniera un
carattere sacrificale. Esse costituiscono un crimine mentre il sacrificio implica essenzialmente un omaggio
religioso indirizzato a Dio. Questo omaggio religioso, al Calvario, emana da Cristo che essendo
contemporaneamente sacerdote e vittima, è offerto a Dio e si è immolato egli stesso nella sua passione… La passione, considerata dalla parte di coloro che hanno ucciso il Cristo, fu un misfatto; ma considerata dalla parte del
Cristo, che ha sofferto per carità, fu un sacrificio».57
Tutta la vita di Gesù è l’espressione del sacrificio in quanto essa è “esistenza per” il Padre, per il prossimo.
Esprime il dono di sé che giungerà al dono della vita. «Tutta la sua vita assumeva così il valore d’un sacrificio
esistenziale… Tale esistenza di “servizio” è orientata verso il passaggio di Gesù al Padre e mira correlativamente
al passaggio di tutti i suoi fratelli riconciliati al Padre. Il sacrificio di Gesù, espresso anche nella preghiera, è la
forma che assume il ritorno del Figlio al Padre quando egli rimette il proprio spirito nelle sue mani. Gesù,
istituendo l’eucarestia, ci dice quale senso egli dona alla sua morte. Distribuendo il pane e il vino, egli testimonia
la sua intenzione di dare la vita per quelli che ama. Si consegna da solo: la sua morte porterà a compimento e
concluderà il sacrificio della sua esistenza. Così bisogna intendere la formula della lettera agli Efesini:
“Camminate nell’amore sull’esempio del Cristo che ci ha amato e ha offerto se stesso per noi, oblazione e
sacrificio di soave odore a Dio” Efesi 5:2. La vita sacrificale di Cristo diventa la legge della vita sacrificale del
cristiano. Già lo stesso Paolo invitava i romani a fare della loro vita un sacrificio spirituale offerto a Dio,
sull’esempio di Cristo: “Vi esorto dunque fratelli…, a offrire i vostri corpi come un sacrificio vivente, santo,
gradito a Dio, come vostro culto spirituale” Romani 12:1».58
A. Vanhoye spiega il rapporto tra il sacrificio di Cristo e i riti sacrificali nel modo seguente: «Da un lato
come dall’altro vi è il sacrificio, e sacrificio cruento, ma, nel caso del Cristo, si tratta di un sacrificio personale
ed esistenziale, e non di un sacrificio rituale. … L’espressione “offrire se stesso” è una creazione del nostro
autore. Per parlare del dono di sé realizzato da Gesù, né i vangeli né Paolo hanno usato i verbi rituali
prospherein o anapherein, ma i verbi “dare”, o “porre”, o “consegnare”».59
«Nel caso di Gesù l’espressione “offrire se stesso” non rischia di designare un sacrificio rituale, perché è
troppo chiaro che Gesù è stato giustiziato. La sua passione è stata anzitutto passiva. Essa però è stata per lui
l’occasione d’una attività, con cui ha realizzato “un’opera di trasformazione positiva che sorpassa in valore la
prima creazione. Quest’opera è un sacrificio nel senso pieno della parola, cioè una trasformazione mediante la
relazione con Dio. Sacrificare significa ‘rendere sacro’, ‘impregnare della volontà di Dio’ ”.60 I sacerdoti antichi
erano incapaci “di offrire se stessi, perché erano peccatori e dovevano presentare sacrifici per i loro peccati”61.
Invece Cristo è “senza macchia” e dispone della “forza ascensionale necessaria per elevarsi fino a Dio”62. Tutto
il sistema antico è caduco, a motivo dell’incapacità dell’uomo peccatore di rendersi gradito a Dio, ed è sostituito
da un “culto nuovo”».63
Nell’introduzione della lettera agli Ebrei leggiamo: «Entrando nel mondo egli dice: “Tu non hai voluto
sacrificio né offerta64, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato.
Alloro ho detto: Ecco io vengo… per fare o Dio, la tua volontà”. Con ciò egli abolisce il primo (stato di cose)65
per stabilire il secondo66. Ed è appunto per questa volontà che noi siamo stati santificati, per mezzo dell’offerta
del corpo di Cristo, fatta una volta per sempre… Avendo offerto un solo sacrificio per i peccati, egli si è assiso
per sempre alla destra di Dio» Ebrei 10:5-12. «Questa offerta è un atto umano di obbedienza personale,
cosciente e libera. Essa costituisce un sacrificio per i peccati e, nello stesso tempo, un sacrificio di comunione,
pienamente efficace sotto ambedue gli aspetti. È indissolubilmente un’offerta a Dio e un’offerta per i fratelli».67
57
58
59
CHOPIN Cl. P.S.S., Le Verbe incarné et rédempteur, éd. Desclée de Brouwer, Tournai 1963, p. 147.
B. Sesboüé, o.c., pp. 300,301.
VANHOYE A., Sacerdoti antichi e nuovo sacerdote secondo il Nuovo Testamento, Ldc, Leuman 1985, p. 155; cit. B. Sesboüé, o.c.,
p. 303.
60
61
62
63
64
65
66
67
Idem, p. 156.
Idem, p. 156.
Idem, p. 157
B. Sesboüé, o.c., pp. 303,304.
Con significato di rito.
Quanto era fatto formalmente.
Quanto i profeti avevano detto che era anche in conformità al senso originale mosaico dell’azione sacrificale.
B. Sesboüé, o.c., p. 304.
La pazzia di Dio
93
CAPITOLO V
«Il sacrificio di Cristo presenta due aspetti inseparabili, che si realizzano uno per mezzo dell’altro. Il
primo concerne la relazione con Dio: è l’aspetto di obbedienza, l’adesione personale alla volontà divina. L’altro
concerne la relazione con gli uomini: è l’aspetto di solidarietà fraterna, spinta fino al dono totale di sé. Invece
che aspetti si potrebbe dire “dimensioni” e ricordare la dimensione verticale e quella orizzontale che si
incontrano e si congiungono per formare la croce di Cristo. ‘unione di queste due dimensioni caratterizza
similmente il culto cristiano, trasformazione cristiana dell’esistenza».68
Possiamo quindi pensare che sul Calvario Cristo Gesù non viene abbattuto dal castigo divino, che lo
colpisce direttamente o/e mediante la mano dei carnefici, al posto dell’uomo peccatore. E neppure gli uomini lo
sopprimono per liberarsi dalle proprie colpe. Sul Calvario Gesù non è la vittima che sostituisce penalmente
l’uomo, ma, come dice s. Paolo in Romani 3:25, è Colui che «Dio ha esposto come strumento di propiziazione
mediante la fede nel suo sangue». La croce è il segno inequivocabile della volontà di grazia da parte dell’Eterno.
Gesù al Golgota si presenta nella doppia funzione di vittima e di offerente. Alla croce, si sostituisce ai
sacrifici fatti nel passato che, trovano in lui la loro realizzazione quale espressione della volontà salvifica di
Dio, inoltre, come l’israelita, offre se stesso in sacrificio quale segno di ubbidienza e di consacrazione completa
al Padre (Efesi 5:2; Marco 14:34 e seg. e parall.; Ebrei 10:1-5) ed è la vittima che, pur non essendo stata
contaminata dal peccato, muore per attestare all’uomo il perdono di Dio. Quale “uomo” giusto muore per gli
uomini ingiusti (1 Pietro 3:18) per condurli a Dio.
La croce stessa contrasta il concetto della sostituzione vicaria.
Nessuno al Golgota ha visto Gesù come colui che toglie i peccati del mondo e ucciso per questo, in
sostituzione della nostra morte, punito perché sostituto dell’uomo, lui al posto nostro. Gli uomini sul Gesù di
Nazaret non hanno imposto la loro mano o le loro mani per confessare i propri peccati, identificandosi con Lui o
facendosi sostituire da Lui in una morte vicaria. Fu solo successivamente, alla risurrezione, che Gesù è stato
creduto come colui che libera l’uomo dal peccato. Dopo la sua morte, e solo allora, alcuni hanno capito che
erano i propri peccati, la propria ribellione nei confronti di Dio a sopprimere il Santo, l’Emanuele. Solo
successivamente alla tragedia del Calvario a Gesù o su di lui confessano il proprio peccato e da lui si sentono
liberati, perdonati. Così esperimentano che il suo sangue, la sua morte, la sua vita, li purifica, li rigenera, li
santifica (1 Giovanni 1:9; 1 Corinzi 1:30). È solamente dopo e non prima della sua morte che gli uomini
pongono simbolicamente la loro mano su di lui in segno di identificazione. Sono gli uomini che al loro
battesimo, segno della loro conversione, solidarizzano e si identificano nella Sua morte, nella Sua risurrezione,
nascono a nuova vita (Romani 6:2 e seg.). Ma l’identificazione con Gesù non finisce al battesimo perché, come
Cristo si trova ora alla presenza del Padre, così lo è anche chi ha creduto. San Paolo scrive che il Padre «ci ha
risuscitati con Lui e con Lui ci ha fatto (e non ci farà) sedere nei luoghi celesti in Cristo Gesù» Efesi 2:6, «e
(ora) la vita nostra è nascosta con Cristo in Dio» Colossesi 3:3.
68
A. Vanhayn, o.c., p. 176; cit. B. Sesboüé, o.c., p. 304.
La pazzia di Dio
94
LA GRAZIA NELL’ANTICO TESTAMENTO - LA SALVEZZA ATTRAVERSO IL RITO SACRIFICALE E IL SERVO DELL’ETERNO
LA SALVEZZA ATTRAVERSO IL SERVO DELL’ETERNO
I profeti d’Israele hanno in diverse occasioni annunciato la venuta del Liberatore i passi a tale riguardo
sono numerosi (vedere Introduzione). Daniele, il profeta dell’esilio in Babilonia, stabilisce sei secoli prima il
momento della sua manifestazione e riassume con espressioni lapidarie la sua opera (9:24-27). Crediamo
comunque che il profeta Isaia abbia, in un modo più ampio, dipinto la figura e l’opera di questo personaggio che
presenta come “servo dell’Eterno” nella seconda parte del suo libro (capp. 40-66).69
Il tema principale di questa parte è la visione profetica della fine dell’esilio di Israele in Babilonia con il
ritorno del popolo nella nuova Gerusalemme, tale scritto redatto nell’VIII secolo a.C. può essere diviso in tre
sezioni:
- la prima:
40-48 annuncia la liberazione dei Giudei da parte di Ciro il Medo;
- la seconda: 49-55 descrive le umiliazioni del Servo dell’Eterno che producono la salvezza del popolo;
- la terza:
56-66 presentano all’orecchio dell’ascoltatore la gloria della nuova Gerusalemme.70
69
Nel Medio Evo, il rabbino Aben-Esra per la prima volta nella storia del testo biblico emette dei dubbi sulla isaicità della seconda
parte del libro di Isaia. Nel XIX sec. si trovano ancora dei difensori della posizione tradizionale, ma già nel 1906 L. Gautier scriveva: «È
possibile affermare che al presente l’antica concezione è generalmente abbandonata. Agli occhi dell’immensa maggioranza degli ebraisti la
questione dell’isaicità dei capitoli 40-66 non si pone più» GAUTIER Lucien, Introduction à l’A.T., t. I, Lausanne, p. 429. Per i nuovi studiosi
la seconda parte di Isaia è stata scritta verso la fine dell’esilio, prima metà del VI sec. a.C.
Argomentazioni. Vocabolario e terminologie. I 27 capitoli della seconda parte del libro hanno espressioni e termini che non si
riscontrano nella prima parte. Quando, però, si incontrano le affinità espressive di Isaia, 25 volte in tutto il libro (12 nella prima parte e 13
nella seconda parte) e solo 6 volte in tutto l’A.T., le si giustificano come influenza di Isaia sul deuteroisaia. Si possono calcolare almeno
quaranta frasi che nella seconda parte di Isaia rispecchiano la prima parte: 1:20; 40:5. 14:27, 43:13. 35:10, 51:11. 11:12, 56:8. 34:8, 61:2.
11:6-9, 65:25. 35:6, 41:18. 11:2. 61:1. 35:8, 40:3. 1:11-14, 43:24. 28:5, 63:3. L’ebraico di Isaia 40-66 ha un riscontro maggiore a quello
della prima parte del libro che a quello di Esdra e Nehemia del V e IV sec. Il Seventh day Adventist (S.D.A.) Bible Commentary, vol. IV
scrive: «Le somiglianze di stile e di linguaggio tra le due parti d’Isaia sono assai più notevoli che le presunte differenze».
Stile. Sebbene il contenuto e lo stile differiscono, ciò può anche non essere a sostegno della tesi di due diversi autori dell’opera.
Anche se l’osservazione non viene accettata dai critici, la differenza di stile la si riscontra in tanti autori che hanno scritto molto. Inoltre la
prima parte del libro di Isaia può essere il riassunto di predicazioni del profeta, la seconda parte può corrispondere ad un testo scritto sul
quale si è lavorato con maggiore cura. Ciò può spiegare anche la differenza di contenuto.
Aspetto profetico. La prima parte del libro presenta avvenimenti futuri: la caduta del re d’Israele e di Siria (7:7,8,16), la rovina di
Tiro (cap. 23); il crollo dell’Assiria (14:25; 31:8, 37:6,7,29; 33-35); l’umiliazione di Babilonia (14:4-23). Il fatto che la seconda parte del
libro descriva la liberazione futura d’Israele da Babilonia come realtà già realizzata, fa dire ai critici che gli avvenimenti presentati devono
essere considerati come post eventum. Per essi un profeta può annunciare il futuro in termini vaghi, possibilistici, ma la sua rivelazione non
può essere precisa e concreta. Ai critici si può fare osservare come sia possibile che uno scrittore così importante, come doveva essere il
secondo Isaia, fosse stato già dimenticato e quindi sconosciuto al tempo della traduzione dei LXX? Certi critici hanno voluto datare il
deuteroisaia al tempo dei Maccabei. Ma già nel 180 a.C., l’autore dell’Ecclesiastico (48:23-28), Gesù ben Sirach, attribuiva varie porzioni del
libro d’Isaia al profeta omonimo che viene presentato come l’autore di tutta l’opera. Il S.D.A. Bible Commentary scrive: «La prova più
convincente che il libro d’Isaia fu considerato un’opera unitaria vari secoli prima di Cristo, è fornita da antichi manoscritti biblici, originari di
quei tempi, scoperti nel 1948 in una grotta presso il Mar Morto. Tra questi manoscritti figurano due rotoli di Isaia, designati con le sigle 1QIs
(a) 1QIs (b); essi non offrono il minimo indizio che i capitoli 1-39 siano mai esistiti come documenti indipendenti dai capitoli 40-66, anzi
tutto fa pensare il contrario. A favore della unicità dell’autore e del testo possiamo dire che il N. T. attribuisce a un’unica persona tutto il libro
di Isaia (Vedere ARCHER G.L., La Parola del Signore, Introduzione all’Antico Testamento, vol. I, ed. Voce della Bibbia, Modena 1972, pp.
401-416).
70
Nella prima sezione, il profeta Isaia, con l’espressione “servo dell’Eterno” indica a seconda dei casi:
- il popolo d’Israele: 41:8-10. Dio ha scelto questa collettività che fortifica, soccorre e non abbandona. In Isaia 42:19 il popolo, servo
dell’Eterno, è accusato di cecità. In Isaia 44:1,2; 48:20 per cinque volte il servo-popolo viene chiamato col nome di Giacobbe e al 44:21
con Israele;
- i profeti in genere: Isaia 44:26;
- un personaggio particolare: il “Servo dell’Eterno” per eccellenza: Isaia 42:1-8.
Per il fine del nostro lavoro, ci occuperemo solo di quest’ultimo personaggio dipinto dal profeta in quattro quadri - uno nella prima
sezione e tre nella seconda - che, pur avendo gli stessi tratti, viene arricchito di canto in canto.
I canto: Isaia 42:1-8
Nel servo dell’Eterno Dio si compiace perché insegnerà la giustizia alle nazioni, non spezzerà la canna rotta e non spegnerà il
lucignolo fumante, non sarà abbattuto finché non avrà stabilito la giustizia sulla terra. Preso per mano dall’Eterno, sarà da lui condotto per
diventare l’alleanza del popolo, la luce delle nazioni.
II canto: Isaia 49:1-9
All’inizio della seconda sezione ritroviamo il servo dell’Eterno per eccellenza. Al versetto 3 del capitolo 49 il Servo dell’Eterno è
chiamato Israele e sembra che contraddica la tesi secondo cui si parla di un personaggio specifico e non della collettività del popolo d’Israele.
Due sono le spiegazioni che permettono di superare questa apparente difficoltà:
- Se il Servo dell’Eterno non è un individuo ma una collettività, il popolo d’Israele, ciò sarebbe in contraddizione con il contesto stesso in
quanto Israele non potrebbe avere per missione di «accogliere intorno a lui Israele» v. 5. «Bisogna dunque vedere questo termine come
una glossa scivolata nel testo, come pensano diversi critici» P.A. Médébielle, o.c., p. 195.
- Israele non è menzionato qui come nome di nazione, ma come nome personale del patriarca Giacobbe. Il Messia è chiamato altrove un
nuovo Davide (vedere Geremia 30:9), perché deve risollevare la regalità israelitica; altrove ancora il secondo Adamo (Romani 5), in
quanto l’autore di una nuova umanità. Il precursore del Messia viene chiamato Elia (Malachia 4:5). Così pure il Messia è presentato qui
come il secondo Giacobbe, dal quale procede il nuovo Israele. Il nome Israele era il titolo d’onore dato anticamente al patriarca da Dio
stesso, a seguito della sua lotta con lui (Genesi 32:28). Il significato che esprime la parola Israele indica bene la missione del Servo, come
essa è qui dipinta. Vedere La Bible Annotée, A.T., Le Prophètes, vol. I, Isaie, Neuchâtel, pp. 235,236.
Di lui vengono riportate le stesse funzioni del canto precedente:
- l’Eterno farà di lui «l’alleanza del popolo»:
42:6; 49:8;
La pazzia di Dio
95
CAPITOLO V
IV canto. Isaia 52:13-53:12
Tra questo quarto canto e i tre precedenti l’unità è visibile.71 Ritroviamo lo stesso eroe distinto dal popolo
al quale è inviato. È docile agli ordini divini e con coraggio subisce l’infamia e i tormenti causati dalla sua
missione. Suggella l’alleanza del popolo con il suo Dio e apporta la salvezza alle nazioni. È abbassato, poi
esaltato. Dapprima messo da parte, scartato dal mondo, è infine ammirato dai popoli e dai ricchi. Ma questo
ultimo poema chiude la storia del Servo con rivelazioni importanti. Aggiunge all’annuncio della sofferenza, già
cantata nei precedenti poemi, quello della morte, e mette in rilievo un aspetto inatteso: l’espiazione del peccato.
Quest’ultimo poema si divide in cinque strofe:
52:13-15
il Servo sfigurato e trasfigurato;
53: 1- 3
cresciuto in mezzo al disprezzo;
4- 6
sofferente per i crimini degli uomini;
7-10pp
innocente, ma messo a morte a causa degli uomini;
10pp-12
fecondo nella sua morte: conquista dei popoli.
Questa celebre profezia di Isaia sul Servo dell’Eterno è un capolavoro di poesia, in cui la regolarità
classica della forma dona al pensiero sublime la sua perfetta espressione. Elegia per la tenerezza e la
compassione della quale è penetrato, canto di trionfo per le grandiose prospettive finali, questo inno alla
redenzione è anche un capitolo importante della teologia. Non c’è nessuna esposizione astratta, la salvezza si
incarna e prende vita in un fatto vivente.
Identificazione del Servo dell’Eterno
Chi è il Servo dell’Eterno che libera Israele ed è dottore delle nazioni, messo al rango dei malfattori e
condannato a morte, ma giusto davanti a Dio, che porta su di sé i crimini e i peccati degli uomini e muore per
espiarli, che sale dall’abisso dell’umiliazione per risplendere alla sommità della gloria e ha come frutti della sua
morte la giustizia e la salvezza delle folle?
Nel mondo ebraico
Più volte abbiamo nel Midrash Rabbah la figura del Messia sofferente al quale gli si attribuisce anche il
titolo di Re: «Il Re Messia... offrirà il suo cuore per implorare delle misericordie per Israele, piangendo e
soffrendo per loro secondo che è scritto in Isaia 53:5: “È stato ferito a causa dei nostri peccati”, ecc.; quando gli
Israeliti peccano. Egli invoca su loro la misericordia secondo che è scritto: “Per i suoi lividi noi siamo guariti” e
ugualmente: “Egli ha portato i peccati di molti uomini”, è perciò che il Santo benedetto l’ha così decretato alfine
di salvare Israele e di rallegrarsi con loro nel giorno della risurrezione».72
«Esiste dunque tutta una letteratura giudaica d’Isaia 53. Dal Talmud al Targum, senza dimenticare le
numerose Midrashim, una tradizione ben stabilita attesta che il Messia, nettamente distinto da Israele, è un
personaggio ben definito. La sua vocazione, prima di tutto redentrice, passa necessariamente attraverso
- ricondurrà Giacobbe e raccoglierà Israele a sé:
49:5,6,8;
- l’Eterno farà di lui «la luce delle nazioni»:
42:6; 49:6;
- sarà lo strumento dell’Eterno per la salvezza di tutta la terra: 49:6.
La dolce fisionomia del Servo dell’Eterno viene dipinta con espressioni dolorose. Gli sforzi del suo zelo sono falliti; non ha
incontrato che disprezzo presso coloro ai quali ha portato la salvezza; si lamenta nel vedere che il suo travaglio e le sue fatiche restano sterili;
ripone tutta la sua fiducia in Dio per non cedere allo scoraggiamento. E Dio, in effetti, non lo abbandona. Perciò la sua ricompensa è assicurata, ed essa è magnifica; così all’umiliazione succede la gloria: «farà l’alleanza del popolo», «la luce delle nazioni, lo strumento della
salvezza fino alle estremità della terra» 49:4-9.
Le strofe che seguono cantano con entusiasmo il ritorno degli esuli, l’allegrezza di Gerusalemme stupita dalla propria fecondità, la
potenza di Dio, autore di questa meraviglia (49:9 sp-13).
III canto. Isaia 50:4-9
In questo canto non si insiste sullo scopo della missione del “Servo”, ma si descrive soprattutto la docilità e il coraggio con cui
compie la sua opera. Questa descrizione si riallaccia strettamente a quella del poema precedente 49:4-7. Chiaramente si tratta dello stesso
“Servo”. Che spettacolo! A quali affronti l’ha condotto la sua fedeltà agli ordini di Yahvé. È oltraggiato, finora si sapeva che era trattato da
schiavo, ora (50:5-7) si presentano altri dettagli: «Io ho presentato il mio dorso a chi mi percuoteva, e le mie guance a chi mi strappava la
barba; io non ho nascosto il mio volto all’onta e agli sputi» v. 6. Ma il Servo esprime anche la sua irremovibile fiducia in Dio che lo sostiene
(v. 8,9), da parte sua l’Eterno invita tutti gli uomini ad ascoltare la voce del suo Servo (v. 10), minacciando i ribelli con i più terribili castighi
(v. 11).
71
Vedere nota precedente.
72
Berechit Rabbati de Moche Hadarshan, Genesi 24:67; cit. DOUKHAN Jacques, Boire aux sources, éd S.d.T., Dammarie-les-Lys
1977, p. 68. Il Targum su Isaia in lingua aramea riporta: «Ecco, il mio servitore il Messia prospererà». E il Midrash Tanchuma a sua volta
dice: «È il Re-Messia che sarà più grande di Abramo, più elevato di Mosé, esaltato al di sopra degli angeli».
La pazzia di Dio
96
LA GRAZIA NELL’ANTICO TESTAMENTO - LA SALVEZZA ATTRAVERSO IL RITO SACRIFICALE E IL SERVO DELL’ETERNO
l’afflizione e la morte. È un Messia che “si carica dei peccati” degli altri ..., un Messia “vittima espiatoria”,
“pecora muta”, per riprendere i termini del profeta Isaia».73
Per il fatto che i profeti avevano presentato un Messia destinato a soffrire, a morire e l’altro destinato alla
gloria e all’eternità dal viso maestoso di re, si è pensato a due Messia con vocazioni diverse. C’è «un solo passo
in tutto il Talmud74 in cui in cui si parla di due Messia. Si può dunque pensare che si tratti di una addizione
tardiva contemporanea ai Midrashime alle apocalissi giudaiche che riflettono la polemica giudeo-cristiana.75 Il
Messia vi è indicato con le parole di figlio di Giuseppe (quando è vittima) e figlio di Davide (quando è di re)».76
Col tempo, riassume J. Doukhan: «La letteratura giudaica nel suo insieme si è impossessata di questo
tema per forgiare tutta una dialettica sulla base di una distinzione tra i due Messia. E più si avanza nel tempo, più
la differenza si precisa. Ma, all’origine, i testi tradizionali tenderebbero al contrario a prevenirsi contro una tale
duplicità del Messia».77
Del resto, «la sofferenza e la morte non costituiscono il monopolio del figlio di Giuseppe. Il Talmud parla
espressamente della morte del figlio di Davide».78
È d’altronde significativo che il Messia sofferente descritto in Isaia 53 è identificato come essendo il Re
Messia,79 vocabolo designante specificamente il Messia figlio di Davide.80
Da un’altra citazione, il Messia figlio di Giuseppe appare ugualmente sotto i tratti d’un Messia glorioso
«Efraim (figlio di Giuseppe) 19:36 Messia di nostra giustizia, regna su loro (i popoli del mondo), trattali come ti
sembra bene».81
I ministeri dei due Messia si incontrano e danno sovente l’impressione di essere confusi. È difficile
dissociarli. Essi si assomigliano troppo. Questa identità ha già stupito il Targum, che li paragona a «due capri
gemelli».82
La confusione dei due Messia tradisce l’idea di base di un solo Messia e i nomi che gli si danno rivelano
differenti aspetti e funzioni della sua persona. Un significativo discorso riportato nel Talmud confermerebbe
questo pensiero: «Un secondo re Davide, chiamato a regnare in gloria ed eternamente; o il lebbroso stesso
chiamato a essere umiliato e caricato delle nostre sofferenze e delle nostre malattie».83
«Secondo il lessico dei nomi propri biblico e rabbinico, era normale che una sola e medesima persona
portasse diversi nomi».84
Parlare di un figlio di Giuseppe o di un figlio di Davide non significava necessariamente riferirsi a due
Messia diversi. Si aveva in effetti la tendenza a riportare tutto al Messia figlio di Davide, come lascia capire un
aforisma talmudico: «Quanto al Messia, che faccia parte dei viventi o dei morti, il suo nome sarà Davide».85
«Accanto a numerosi passi che ci presentano un Messia umano di carne e di sangue, la Bibbia e la
tradizione giudaica ci presentano un ventaglio di testi nei quali il Messia prende la figura del Dio eterno... Non è
il Messia che è Dio ma più precisamente Dio che è il Messia... Il movimento è qui discendente, e non
ascendente. Si tratta di una rivelazione di Dio e non di una usurpazione dell’uomo rassomigliabile alla
presunzione di Babele».86
Era normale che gli Ebrei si aspettassero un Messia d’origine divina perché è scritto: «Io sono l’Eterno, e
fuori di me non v’è Salvatore». 87
Nel mondo cristiano
Alla domanda presentata sopra, l’esegesi cristiana dà una risposta chiara che non è mai stata cambiata se
non in tempo recente dalla teologia liberale. All’alba della Chiesa, qualche mese dopo la Pentecoste, il diacono
Filippo, sulla strada che univa Gerusalemme a Gaza, spiega, al ministro della regina Candace, il testo di Isaia
53:8 raccontandogli la storia di Gesù (Atti 8:26-40; vedere Matteo 12:18-20; Luca 22:37; 24:26,44; Giovanni
12:38; 1 Pietro 2:22-25).
73
J. Doukhan, idem, p. 69.
Conf. Soukhat 52a.
75
cit. idem, nota n. 126.
76
Idem, p. 171.
77
Idem.
78
Sanhédrin 98b; cit. idem.
79
Bereshit Rabbati, Genesi 24:67; cit. idem.
80
Idem, Genesi 19:36.
81
Pesiqta Rabbati, Pisqa 37; cit. J. Doukhan, idem, p. 72.
82
Targum du Cant. 4:5 e 7:3; cit. idem, p. 72.
83
Sanhédrin 98b; cit. idem, p. 72.
84
Vedere Isaia 9:5,6. Confr. A. Sarsowsky, Die ethisch-religiose Bedeutung der alttestamentlichen Namen (nach Talmud, Targum
und Midrash).
85
T. T. Ber 5a; cit. idem, p. 72.
86
Idem, p. 73.
87
Isaia 43:11; Osea 13:4.
74
La pazzia di Dio
97
CAPITOLO V
A seguito di questa spiegazione tutti i Padri della Chiesa «sono unanimi nel riconoscere nel Servo il
Cristo immolato per noi... scartano l’idea di tipo o di figura; per loro il profeta presenta un personaggio il cui
ruolo rappresenta a vivo quello del Salvatore: è del Messia stesso che si parla qui. Isaia, dicono, parla della
passione come un evangelista e la racconta da testimone piuttosto che in profezia; il suo racconto può essere
chiamato: “il vangelo della passione secondo Isaia”. Inoltre questo vangelo scritto da un profeta è ai loro occhi
una delle dimostrazioni più chiare dell’A.T., una prova dell’esperienza profetica, un argomento offerto dalla
Provvidenza per stabilire, contro i Giudei e gli eretici, che il Messia doveva soffrire e morire per la salvezza degli uomini, conformemente alle Scritture».88
88
A.P. Médébielle, o.c., pp. 203,204.
Eccetto un eretico oscuro dal nome Seidel che pretendeva che il Messia non fosse ancora venuto e non sarebbe mai giunto, Grotius
fu il primo che, nella Chiesa cristiana, mise in discussione il senso messianico di questo capitolo e lo applicò a Geremia. Nel XVIII secolo la
pseudo esegesi razionalista adotta il sistema giudaico che già era presentato nel Talmud. Il servo non è un individuo, ma una collettività,
rappresenta sia il popolo d’Israele tutto intero, sia la parte giusta del popolo, sia un gruppo determinato come l’ordine dei sacerdoti o quello
dei profeti.
Verso la metà del secolo scorso si avanza un’altra opinione che vede nei canti menzionati un personaggio reale, probabilmente un
martire del tempo del re Manasse (2 Re 21:16) come ha pensato anche E. Renan.
Tuttavia i partigiani del senso collettivo rimangono molto numerosi e risoluti. Il loro più forte argomento pensano di trovarlo nel
contesto che parla del popolo d’Israele. Se i quattro poemi fossero riuniti in uno solo o se essi formassero tanti pezzi indipendenti, il pensiero
che questo servo si riferisca a un gruppo o a una collettività non sarebbe venuto a nessuno. La confusione è data dal fatto che il testo di Isaia
42:1-7 è inserito in brani in cui l’espressione Servo di Dio è attribuita al popolo (42:19; 44:1,2,21; 45:3; 48.20). Per valutare questo
argomento nel suo giusto valore, bisogna notare che dall’inizio del cap. 49 fino alla fine del libro d’Isaia, il “Servo” non è nominato che sei
volte: 49:3,5; 50:10; 52:13; 53:11. Ora tutti questi testi sono ripartiti nei tre brani di: 49:1-9 (II canto), 50:4-11 (III canto), 52.13-53:12 (IV
canto) dove tale sostantivo ha chiaramente un valore individuale. Inoltre, i poemi nei quali viene presentato il Servo dell’Eterno sono in
dipendenti dalle altre profezie che li circondano e l’insieme di questi brani costituisce una sessione a parte, a sé stante. Il fatto che il titolo di
“servo” sia dato ad Israele o a Giacobbe (41:8,10) non significa che esso non possa essere attribuito a un personaggio singolo. È proprio il
contesto che ci porta a definire se il servo ha senso collettivo, come popolo, o se si riferisce a un individuo. Isaia 41:1,9 indica il popolo
come servo dell’Eterno. Nel cap. 42:19 è detto: «Chi è cieco se non il mio servo, e sordo come il messo che invio?...» Bisogna fare uno
sforzo notevole per identificare in questo personaggio che ha valore collettivo quello indicato nel brano che lo precede dove è esaltato (42:19). Inoltre il Servo dell’Eterno non può essere la personificazione del popolo perché in diversi passi egli con cura viene distinto dal popolo:
ad esempio quando il popolo viene esortato ad ascoltarlo (50:10); quando è detto che il Servo è chiamato a ristabilire le tribù di Giacobbe e
ad essere il mediatore del popolo (49:6-8 e 42:6); quando è presentato come il giusto, il solo fedele, che soffre per tutti gli altri (42:1-7; 50:4;
53); mentre il popolo viene censurato, in ogni pagina di questa profezia, come il servo sordo e cieco, come la nazione colpevole che
nell’esilio subisce la pena dei propri sbagli (43:8; 48:4; 50:1; 53:6). I sostenitori del senso collettivo presentano il poema (52:13-53:12)
come indicante Israele nel suo ruolo religioso nel mondo. Spiegano che all’umiliazione della cattività seguono le gioie del ritorno e la gloria
della nuova Gerusalemme. I popoli pagani, ammirando le virtù degli Ebrei e i prodigi compiuti in loro favore, si convertiranno;
rimpiangeranno di avere prima sprezzato la razza eletta di Dio e riconosceranno agli antichi esuli di aver conservato la verità che essi contemplandola glorificheranno l’Eterno qual solo Dio. A critica di questo tentativo di adattamento del testo si deve dire che la descrizione narrativa,
letterale di Isaia, non permette un senso metaforico ed una spiegazione allegorica. Le sofferenze del Servo hanno degli attributi incompatibili
con ciò che si conosce delle sofferenze d’Israele. Israele è colpevole prima, durante e dopo l’esilio; il Servo è per contro innocente. Questo
contrasto è irriducibile. Il Servo subisce i peccati del popolo come innocente; per contro Israele soffre per colpa propria. Secondo Isaia
42:2,18-24; 43:8,24; 47:6; 48:1,4,8-10; 50:1 ecc., e i profeti in genere, Israele è ingrato, empio e ribelle. Il suo esilio è un castigo da molto
tempo annunciato e questa punizione ha lo scopo di piegare il suo orgoglio affinché riconosca i suoi sbagli, chieda perdono e sia liberato
dall’idolatria. C’è un chiaro contrasto tra Israele e il Servo. Questo è “il Giusto” 53:11,9, l’altro, Israele, è un «ribelle fin dal seno materno»
48:8. Il Servo è fedele sino alla morte, il popolo, quale servitore infedele, ha una storia di ribellioni e viene corretto in terra d’esilio. Anche
dopo la prigionia, Israele ha avuto continuamente bisogno del richiamo dei profeti alla fedeltà e alla lealtà nei confronti di Dio. Un’altra
motivazione che impedisce l’identificazione del Servo, nei quattro canti indicati, con tutto il popolo, è data dalle parole dei testimoni delle
sue sofferenze: «Egli è stato trafitto a motivo delle nostre trasgressioni, fiaccato a motivo delle nostre iniquità» 53:5. Se è Israele che è
trafitto e fiaccato, di chi sono le trasgressioni e le iniquità? Si può pensare che siano quelle dei popoli pagani, ma Isaia precisa: «A motivo
delle trasgressioni del suo popolo» v. 8. Inoltre l’idea che Israele espii per le nazioni non è solamente estranea all’A.T., ma in opposizione
con le concezioni ed i sentimenti dell’autore di questa profezia. Isaia insegna proprio il contrario: Egitto, Etiopia e Seba, conquistate da
Cambise, figlio di Ciro, sono date quale ricompensa al posto d’Israele (43:3,4). Israele beneficerà del commercio con l’Etiopia coi Sabei
(45:14-17). Le nazioni, i re saranno al servizio di Israele (49:22-26). Senza dubbio Israele è incaricato di una missione di salvezza che si deve
estendere all’universo, ma per questa missione non si esige da nessuna parte che il popolo sia sacrificato. Come abbiamo detto, non è Israele
che è colpito al posto dei pagani, ma Dio dà l’Egitto e l’Etiopia, nazioni e regni, come ricompensa ai Persiani per la liberazione d’Israele
(43:3,4).
Non potendo sostenere che il Servo sofferente sia il popolo d’Israele nella sua totalità, allora i sostenitori del senso collettivo distinguono due gruppi in seno alla nazione: il servo che rappresenta il nucleo fedele e, l’altra parte, il popolo del quale il servo espia il
peccato. Il giusto soffre per il popolo, cioè l’Israele spirituale soffre per l’Israele colpevole. Questo tentativo di spiegare il testo sacro
contraddice tutte le minacce e le promesse dei profeti i quali non hanno mai affermato che i buoni sono colpiti al posto dei cattivi, bensì che i
fedeli sfuggiranno ai castighi che subiranno gli infedeli, sebbene nella tragedia dell’esilio anche la parte fedele d’Israele subì la deportazione.
Le sofferenze dei giusti, in Israele, sono delle sofferenze di purificazione per loro stessi, mai d’espiazione per gli altri: «Nessuno saprebbe
riscattare il suo fratello, né dare la vita a Dio per il suo riscatto; poiché il riscatto della loro anima è troppo caro» Salmo 49:8. Queste parole
del salmista esprimono i sentimenti dei fedeli in Israele. Israele che riscatta Israele è una mostruosità agli occhi di ogni vero Israelita: «Lui
stesso (l’Eterno) riscatterà Israele dalle sue iniquità» Salmo 130:8. Tale è la fede d’Israele. Il “resto santo”, l’élite del popolo, ben lontano
dall’essere colui che ristabilisce Israele, è al contrario l’Israele ristabilito.
Si è sostenuto che il Servo rappresentasse il corpo profetico d’Israele o il corpo sacerdotale. Ma la storia e il testo sacro non hanno
mai presentato un solo profeta o sacerdote che volontariamente abbia subito la morte in espiazione dei peccati del popolo. Il profeta Isaia
stesso si pone tra coloro i cui peccati sono stati espiati dal Servo (53:6).
In generale, quando si leggono tutti i passi dei capitoli 42, 49, 50, 52 e 53 sul Servo dell’Eterno, senza preconcetti, è impossibile
difendersi dall’impressione che non si tratti di una collettività, ma di un individuo. Non volendo però identificare in questi brani il futuro
Messia sofferente si è cercato di attribuirli a Mosè, Davide, Uzzia, Ezechiele, Isaia stesso, Geremia, Giosia, Zorobabele, Jonia, Eleazar e
addirittura con Joakim umiliato nella sua deportazione in Babilonia e ammesso, dopo trenta anni di prigionia, alla tavola del re Amel Marduk.
Ma se, a certi gradi, questi uomini sono dei tipi del Messia sofferente, mai sarà possibile attribuire alle loro sofferenze il carattere espiatorio.
La pazzia di Dio
98
LA GRAZIA NELL’ANTICO TESTAMENTO - LA SALVEZZA ATTRAVERSO IL RITO SACRIFICALE E IL SERVO DELL’ETERNO
Non è necessario refutare in particolare ognuna di queste ipotesi. Crediamo sia evidente che nessun
personaggio proposto corrisponde al modello del testo biblico. Questo Servo di Dio, messo al rango dei
peccatori, e tuttavia puro da ogni peccato, che si credeva maledetto dal cielo quando realizzava una missione
celeste, senza parole davanti agli oltraggi, dolce in mezzo ai tormenti, che offre la sua vita in sacrificio di
riparazione per i crimini del popolo e che prega per i colpevoli, sul quale ricade l’iniquità di noi tutti la cui morte
la espia; le cui piaghe ci guariscono e ci restituiscono la vita; umiliato poi glorificato, alleanza del popolo, luce
delle nazioni, padre di una posterità immensa, santificatore e salvatore delle moltitudini, pacifico conquistatore
di sudditi senza numero, capo e propagatore trionfante del regno di Yahvé, questo Servo non si è mai incontrato
nell’A.T. Un solo personaggio nella storia ha sostenuto questo grande ruolo, uno solo ha riprodotto - e in un
senso straordinario - tutti i particolari della profezia, uno solo salva mediante la sua morte che purifica Israele
ed il mondo, ed è colui che, pienamente cosciente di essere il Servo di Yahvé, ha potuto dire: «Non sono venuto
per essere servito, ma per servire, e dare la mia vita come prezzo di riscatto per molti» Matteo 20:28; e ancora:
«Questo è il mio sangue, il sangue del patto, il quale è sparso per molti per la redenzione dei peccati» Matteo
26:28.89
Il vero motivo per il quale molti teologi contemporanei non accettano che questa profezia si riferisca al
Messia è di natura pseudoteologica. Se Isaia avesse con il suo scritto presentato l’opera di Cristo Gesù, allora
veramente dovrebbero riconoscere che ha ricevuto da Dio una rivelazione positiva di avvenimenti futuri e che
lo Spirito Santo agisce sullo spirito dell’uomo per rivelargli realtà future. Questo pensiero contrasta non con la
rivelazione, ma con la teologia liberale. «La profezia di Isaia 53, per il suo carattere evidentemente messianico,
dà la smentita più assoluta a coloro che negano la rivelazione profetica».90
«Nessun altro passo dell’A.T. è stato così importante per la Chiesa quanto Isaia 53».91
Gli autori del N.T. riportano otto versetti sui dodici del capitolo 53 che trovano il loro adempimento in
Gesù.92
O. Cullmann ha osservato che al momento del suo battesimo Gesù si è deliberatamente identificato con
coloro dei quali è venuto a portare i peccati, e che la sua risoluzione ad adempiere “ogni giustizia” Matteo 3:15
era frutto della decisione di voler essere il “giusto… servo” (CEI) di Dio, la cui morte come colui che porta i
peccati “avrebbe reso giusti i molti” Isaia 53:11, ed infine che la voce del Padre dal cielo, nel dichiararlo Figlio
nel quale si era “compiaciuto”, lo identificava con il servo (Isaia 42:1).93
J. Stott osserva: «“Anche il figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire, e per dare la
sua vita come prezzo di riscatto per molti” Marco 14:45. Qui Gesù unifica le profezie separate e distanti nel
A.T. sul “Figlio dell’Uomo” e sul “Servo”. Il Figlio dell’uomo sarebbe venuto “sulle nuvole del cielo” perché
tutti i popoli lo “servissero” Daniele 7:13,14, mentre il Servo non dovrebbe essere servito ma servire, e
completare il suo servizio soffrendo, soprattutto dando la sua vita come riscatto al posto di molti. Solo servendo
sarebbe stato servito, solo con la sofferenza egli sarebbe entrato nella sua gloria… Sembra perciò non esservi
alcun dubbio che Gesù abbia applicato Isaia 53 a se stesso e che intendesse la sua morte alla sua luce come
quella di uno che porta i peccati».94
Isaia aveva contemplato questo Servo nell’Emanuele, Dio con noi (prima della sua incarnazione), poi lo
contemplava nato e infine regnante (cap. 7, 9 e 11).
Il Servo, dopo essere stato presentato al capitolo 42 come profeta; viene descritto come colui che fallisce
la sua opera presso Israele al capitolo 49; viene disprezzato e maltrattato al capitolo 50; muore infine al capitolo
53. Ma con questa morte non termina la sua storia. Dal momento in cui viene separato dal mondo dei viventi,
riappare e agisce più vittorioso che mai. A causa della sua morte è diventato il re del capitolo 11.
Un solo personaggio attraversa tutte queste fasi e riunisce in sé tutti questi contrasti: il Messia.
La salvezza del Servo dell’Eterno in Isaia 52:13-53:12.
Questo brano di Isaia è il punto culminante del libro del profeta e della profezia messianica in generale
dell’A.T. La figura del Messia non è dipinta da nessuna parte con una simile precisione, in un unico brano, sotto
il suo duplice aspetto di umiliazione e di gloria. Isaia comincia con un quadro sommario dell’elevazione prima e
dell’abbassamento poi del Servo dell’Eterno (52:13-15); quindi confessa, a nome d’Israele, l’incredulità di
Come si potrebbero applicare a loro le seguenti parole: «Il mio servo giusto ne giustificherà molti» 53:11? Come spiegare il prolungamento
di vita dopo il sacrificio (53:10) e del dominio universale che deve essere la ricompensa della sua opera (53:12)?
89
P.A. Médébielle, o.c., p216.
90
Vedere, La Bible Annotée, o.c., p. 253.
91
JEREMIAS Joachim, The Eucharistic Words of Jesus, p. 228; cit. STOTT John, La Croce di Cristo, Edizione GBU, Chieti Scalo
2001, p. 194.
92
Verso 1, in Giovanni 12:38; v. 4, in Matteo 8:17; vv. 6,5,9,11 espressi i concetti sono in 1 Pietro 2:22-25; vv. 7,8, in Atti 8:30-35.
93
CULLMANN Oscar, Baptism in the New Testament, tr. Ingl. Di J..L. Reid, SCM Press, London 1964, p. 18; cit. J. Stott, o.c., pp.
195,196.
94
J. Stott, o.c., pp. 196,197.
La pazzia di Dio
99
CAPITOLO V
questo popolo nei suoi confronti e descrive con abbondanza di particolari le sofferenze immeritate mediante le
quali espierà il peccato dei suoi fratelli (53:1-9); infine annuncia la ricompensa che sarà il salario del suo
sacrificio (53:10-12).
È l’Eterno che pronuncia le prime parole (52:13-15); poi è il popolo che parla per bocca del profeta
(53:1-10) e successivamente è l’Eterno che riprende la parola (vv. 11,12). Questo quadro incomparabile
dell’opera del Messia lo si è chiamato il quinto vangelo, esso è lo sviluppo più completo e più preciso dei canti
del Servo dell’Eterno. È citato più spesso nel N.T. Gli autori sacri non esitano a riconoscervi una profezia della
violenza subita e della gloria di Cristo Gesù.
52:13 Ecco, il mio Servo prospererà,
sarà elevato, esaltato, reso sommamente eccelso.
14
Come molti, vedendolo, sono rimasti sbigottiti
(tanto era disfatto il suo sembiante
sì da non parere più uomo,
e il suo aspetto sì da non parere più un figliolo d’uomo)
15 così molte saranno le nazioni, di cui egli desterà l’ammirazione;
i re chiuderanno la bocca dinanzi a lui,
poiché vedranno quello che non era a loro mai stato narrato,
e apprenderanno quello che non avevano udito.
(V. 13). Prima di parlare dell’umiliazione del Servo, il profeta annuncia la sua elevazione gloriosa. La sua
prosperità consisterà nello stabilire il regno di Dio in tutto il mondo. Questa conquista la compirà dal seno della
sua gloria. Al periodo dell’umiliazione e dell’insuccesso umano, durante il ministero in Israele, segue la sua
elevazione. Gesù stesso dirà: «E io, quando sarò innalzato dalla terra, trarrò tutti a me» Giovanni 12:32. I tre
verbi: elevato, esaltato, sommamente eccelso, corrispondono a quello che l’apostolo Paolo dice ai Filippesi 2:911: «Ed è perciò che Dio lo ha sovranamente innalzato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni nome,
affinché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio nei cieli, sulla terra e sotto la terra, e ogni lingua confessi che
Gesù è il Cristo, alla gloria di Dio Padre».
Gli antichi interpreti giudei riconoscevano che si trattava qui del Messia. Il Midrash Tanchuma dice a
proposito di questo passo: «È il Re-Messia, che sarà più grande di Abramo, più elevato di Mosè, esaltato al di
sopra degli angeli».
(V. 14,15). Dopo che Dio ha parlato del suo Servo, al v. 14 egli viene presentato come se si avvicinasse
da una lontananza infinita e in questo suo approssimarsi appare sempre più distinto. Al vederlo si è interdetti,
stupiti, come pietrificati. La seconda parte del v. 15 è una parentesi che spiega questo sbigottimento. Il Servo
raggiunge la gloria in seguito a sofferenze tali che lo sfigureranno. Questo stato è descritto nel III canto 50:6,7 e
viene ripreso più avanti 53:3-7.
(V. 15). Come la sua miseria ha causato grande stupore, la sua gloria susciterà lo stesso sentimento di
ammirazione, v. 15. Il termine ebraico tradotto con ammirazione è incerto. Può avere valore di fare trasalire, o
più esattamente saltare, sobbalzare, cioè fare alzare i popoli e i re per farsi rendere omaggio. Il suo apparire nella
gloria susciterà emozione profonda. È la stessa idea espressa nel II canto 49:7. Non riusciranno aprire la bocca,
tale è il loro stupore, perché quanto vedranno è superiore a tutto ciò che potrebbero esprimere.
53:1 Chi ha creduto a quel che noi abbiamo annunziato?
e a chi è stato rivelato il braccio dell’Eterno?
2
Egli è venuto su dinanzi a lui come un rampollo,
come una radice che esce da un arido suolo;
non aveva forma né bellezza
da attirare i nostri sguardi,
né apparenza, da farcelo desiderare.
3 Disprezzato e abbandonato dagli uomini,
uomo di dolore, familiare col patire,
pari a colui dinanzi al quale ciascuno si nasconde la faccia
era spregiato e noi non ne facemmo stima alcuna.
(V. 1). Isaia inizia a parlare come rappresentante del popolo d’Israele. Il suo stupore è grande, si sente
come davanti a un mistero. È questo «il braccio dell’Eterno?». La potenza divina si manifesta in modo incredibile, esce da qualsiasi schema e non corrisponde ai modi fino a quel momento seguiti dal Signore con i suoi
interventi straordinari. Ogni volta che Yahvé ha agito, ha stupito le attese umane. Questa volta lo stupore è senza
limiti. Isaia si trasporta nel momento in cui gli uomini, dopo aver rigettato il Messia, apriranno gli occhi e
«riguarderanno... a colui che hanno trafitto» Zaccaria 12:10. Israele confessa la sua incredulità e si accusa di
essere rimasto sordo agli appelli divini (vedere 49:19,20), mentre i pagani che non hanno sentito parlare del
Servo di Dio hanno creduto in lui (52:15). Giovanni e Paolo citano questo primo versetto nella versione dei
LXX in Giovanni 12:38; Romani 10:16.
La pazzia di Dio
100
LA GRAZIA NELL’ANTICO TESTAMENTO - LA SALVEZZA ATTRAVERSO IL RITO SACRIFICALE E IL SERVO DELL’ETERNO
Il v. 2 spiega il fatto inaudito del rigetto del Messia da parte d’Israele. Ha avuto una umile origine, di
oscure condizioni. Isaia la paragona a una pianta senza valore, che nessuno nota, ma sulla quale riposa lo
sguardo e il favore di Dio, perché Lui solo ne conosce il prezzo. L’espressione: «È venuto su davanti a Lui»,
ricorda quella con la quale Luca descrive la sua crescita spirituale, sociale e fisica (2:40,52). Questo germoglio
pur essendo della stirpe di Davide non spunta dallo splendore del suo trono regale, come il Messia era atteso
(Isaia 11:1), ma da un «arido suolo», in mezzo a un popolo degradato. Gli Ebrei prenderanno spunto da questa
bassa origine di Gesù per non accettarlo come l’unto e diranno: «Donde ha costui queste cose? E che cosa sono
tali opere potenti fatte per mano sua? Non è costui il falegname, il figlio di Maria, e il fratello di Giacomo e
Giosuè, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle non stanno qui con noi? E si scandalizzarono di lui» Marco
6:2,3; Luca 4:22; Giovanni 6:42. E Natanaele, alle parole: «Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè
nella legge, e i profeti: Gesù figliolo di Giuseppe, da Nazaret», risponderà: «Può forse venire qualcosa di buono
da Nazaret?» Giovanni 1:45,46. È a causa di questa sua umile manifestazione, che quando Gesù dirà a Caiafa di
essere il figlio dell’uomo, lui che in quel momento era legato, disprezzato, beffeggiato, in balia dei suoi nemici,
il sommo sacerdote lo accusò di bestemmia e lo condannò.
(V. 3). La legge prescriveva ai lebbrosi di velarsi il volto davanti alle persone (Levitico 13:45). Qui sono
invece le persone che nascondono la faccia. È una descrizione plastica del giorno in cui Gesù, dopo essere stato
flagellato, coperto di sputi, maltrattato, incoronato di spine, viene presentato da Pilato alla folla: «Ecco l’uomo!»
Giovanni 19:6 e viene rifiutato con il grido: «Crocifiggilo, crocifiggilo!» Ci si nasconde la faccia perché fa
orrore guardarlo così ridotto, come un lebbroso. «Era spregiato», cioè il più vile, il più abbietto degli uomini, è il
senso dell’espressione ebraica.
53:4. E, nondimeno, erano le nostre malattie ch’egli portava,
erano i nostri dolori quelli di cui s’era caricato;
e noi lo reputavamo colpito,
battuto da Dio, ed umiliato!
5.
Ma egli è stato trafitto a motivo delle nostre trasgressioni
fiaccato a motivo delle nostre iniquità;
il castigo, per cui abbiamo pace, è stato su di lui;
e per le sue lividure noi abbiamo avuto guarigione.
6. Noi tutti eravamo erranti come pecore,
ognuno di noi seguiva la sua propria via;
e l’Eterno ha fatto cadere su di lui
l’iniquità di noi tutti.
(V. 4). In questa prima strofa il Servo viene presentato come colui che ha sofferto per espiare i nostri
crimini. Sono essi la causa dei patimenti del Cristo. È il brano centrale che ci permette di comprendere il
significato dell’espiazione. «Erano le nostre malattie che Egli portava, erano i nostri dolori quelli di cui si era
caricato», cioè tutte le nostre sofferenze che costituiscono il salario del peccato. Isaia usa il verbo sabalche che
significa portare un fardello. Questo peso è il risultato dei nostri crimini, la conseguenza della nostra ribellione a
Dio. Il Servo si è caricato dei nostri peccati non in un senso materiale, ma nel suo significato psicologico.
Matteo 8:16,17 riprende questo versetto 4 di Isaia in occasione delle numerose guarigioni operate da Gesù.
L’evangelista vede nei miracoli compiuti dal Signore la realizzazione di questo testo profetico. In che senso:
«Egli ha preso le nostre infermità, ed ha portato le nostre malattie»? Se dovessimo dare un significato materiale,
letterale, fisico, dovremmo dedurre che Gesù stesso sia diventato indemoniato, paralitico, lebbroso e ammalato
(perché di queste infermità si è caricato compiendo la sua opera), e ciò non corrisponde a realtà. Gesù non si è
ammalato al posto di... o è diventato posseduto al posto di..., Egli ha manifestato la sua solidarietà con chi
soffriva tanto da sentire psicologicamente il dolore della sua malattia. Egli si è caricato delle nostre infermità
perché prese su di sé l’impegno di liberare l’umanità dal suo squilibrio spirituale, morale e fisico. Egli è stato
disposto a portare tutte le sofferenze che le nostre azioni avrebbero comportato. È stata la nostra indifferenza, il
nostro disinteresse, i nostri scherni, il nostro male fisico e morale che egli ha preso su di sé e lo hanno fatto
soffrire fino a fargli dire: «L’anima mia è oppressa da tristezza mortale» e fino a farlo sudare sangue (Matteo
26:38; Luca 22:44).
«Il servo non soffre per i peccati propri, ma per quelli degli interlocutori e di tutti gli uomini. Questo
concetto è completamente nuovo e trascende i limiti dell’antica concezione del male».95
Il Servo soffre non perché è colpito da Dio. Non è l’Eterno che gli infligge l’angoscia. È Israele che lo
reputa «colpito, battuto da Dio e umiliato!». È così che al Golgota le persone hanno pensato e creduto. Chi
assisteva alla sua morte considerava Gesù come un maledetto da Dio, lo avevano accusato di aver bestemmiato
(Matteo 27:65-68) e appeso alla croce non poteva essere che un maledetto (Deuteronomio 21:23; Galati 3:13).
Queste parole sono, forse, anche pronunciate nella stessa prospettiva in cui si poneva Giobbe quando si
considerava battuto e colpito da Dio. «Se non è Lui (il Signore) chi lo colpisce dunque?» si chiedeva Giobbe
9:24. C’è qualcuno che può superare la protezione che Dio ha messo attorno ai suoi figli? Se questo qualcuno
95
AA.VV., Introduzione alla Bibbia, II/2, Marietti, Torino 1971, p. 174.
La pazzia di Dio
101
CAPITOLO V
colpisce, non è forse perché Dio glielo permette? E quindi ancora, in ultima analisi, non può sembrare che Dio
colpisca il giusto con la mano dell’empio non intervenendo per fermarla? Chi colpisce Giobbe non è Dio, ma il
suo e nostro nemico (2:7). Chi colpisce il Servo dell’Eterno non è Dio, ma il suo e nostro nemico del quale noi
siamo purtroppo i suoi lacchè.
Anche nell’ottica della sostituzione vicaria non è mai Dio, o il suo rappresentante il sacerdote, che
colpisce la vittima sacrificale per il peccato, è sempre il colpevole, l’offerente, che infligge la morte. Il capro
espiatorio subisce sempre l’azione del peccatore. Gesù non è punito, colpito dal Padre, ma il Padre, avendolo
abbandonato nelle mani degli uomini, non interviene quando questi lo colpiscano nella loro ira e nel loro empio
giudizio. «Non vogliamo che costui regni su di noi… Toglilo di mezzo, crocifiggilo!» Luca 19:14; Giovanni
19:15.
È la religione dei benpensanti che credono che Dio faccia soffrire il giusto per il peccatore, che nella
sofferenza ci sia un merito. Troppe sono le preghiere pronunciate in questa prospettiva. Troppi santuari sono
visitati perché si crede in un Dio che si compiace nella sofferenza e al quale si offre la propria angoscia. Se
questo Giusto soffre e muore, non è per espiare, nel senso di pagare il debito del peccatore. Gesù è nei patimenti
perché si è incaricato di ricondurre nella casa del Padre il figlio prodigo a qualsiasi prezzo, compreso anche
quello della morte che gli infligge l’umanità cieca e sorda al suo richiamo angoscioso che grida tutto il suo
affetto e la sua volontà di perdono. Gesù muore per fare tacere l’accusatore.
(V. 5). «Il castigo per cui noi abbiamo pace, è stato su di lui». Isaia con queste parole non vuole dire che
il castigo che meritavamo noi è stato dirottato su di lui come se venisse castigato al posto nostro. Il profeta ci
sembra voglia dire che la morte, quale castigo, conseguenza del nostro peccato è stato su di lui, ha colpito anche
lui, Servo innocente. Questa morte contro natura, colpendo chi non è colpevole, ci dà pace.
Il v. 5 chiaramente afferma che non è il Padre a colpire il Figlio. Il Servo subisce non soltanto il
disprezzo e l’incredulità, ma l’odio del suo popolo che si abbatte con la più folle violenza nei suoi confronti
facendolo morire. Già Isaia aveva detto di lui: «Io ho presentato il mio dorso a chi mi percuoteva, e le mie
guance, a chi mi strappava la barba; io non ho nascosto il mio volto all’onta e agli sputi». E, quasi a voler in
modo intenzionale scagionare Dio in tutta questa azione, aggiunge: «Ma il Signore, l’Eterno, mi ha soccorso;
perciò non sono stato confuso» Isaia 50:6,7. Il profeta Zaccaria dirà che sarà il popolo di Gerusalemme a
trafiggerlo, 12:10.
Le parole “trafitto” e “fiaccato”, cioè, contrito, stritolato, spezzato, esprimono: la prima, gli strazi della
crocifissione qui adombrata; la seconda, i dolori interni della vittima, che subisce la tragedia del Golgota non “al
posto” nostro, ma a “motivo” a “causa” nostra. Cristo Gesù, dice Isaia, non ci sostituisce, ma come Paolo scrive:
«è stato dato a cagione delle nostre offese» Romani 4:25.
Il male che abbiamo causato al Servo ci dona pace e ci guarisce perché sulla croce anziché parole di
maledizione l’umanità ode ancora dalla bocca del Figlio di Dio espressioni di speranza, benedizione: «Padre,
perdona loro perché non sanno quel che fanno» Luca 23:34. Veramente il Dio tre volte santo ama le sue
creature, anche le più lontane, le più ribelli nei suoi confronti e si serve ancora del male che esse gli causano per
offrire la sua pace e guarigione. E noi abbiamo accettato questa sua fatica, è quanto l’apostolo Pietro scrive nella
sua prima lettera: «Egli, che non commise peccato, e nella cui bocca non fu trovata alcuna frode; che,
oltraggiato, non rendeva gli oltraggi; che, soffrendo, non minacciava, ma si rimetteva nelle mani di Colui che
giudica giustamente; egli, che ha portato egli stesso i nostri peccati nel suo corpo, sul legno, affinché morti al
peccato, vivessimo per la giustizia, e mediante le cui lividure siete stati sanati. Poiché eravate erranti come
pecore; ma ora siete tornati al Pastore e Vescovo delle anime vostre» 1 Pietro 2:22-25. La pace che ci è offerta e
la guarigione che ci è data non è la conseguenza di un pareggiamento di conti, avendo subito lui ciò che noi
avremmo dovuto patire come conseguenza del nostro peccato, come avviene in una transazione commerciale a
seguito del pagamento di un debito. Siamo stati guariti e abbiamo la pace perché, avendo riacquistato la fiducia
nei confronti di Dio, non siamo più in guerra con Lui, col nostro prossimo e con noi stessi, siamo entrati nella
sua quiete e sanati dal fuoco della concupiscenza che è la causa delle nostre infermità.
Il v. 6 è tradotto: «L’Eterno ha fatto cadere su di lui i peccati di noi tutti». Il suo significato dovrebbe
corrispondere a: «L’Eterno lo ha abbandonato ai nostri peccati»; cioè: l’iniquità di noi tutti è caduta su di lui,
perché in qualunque momento della storia dell’umanità se Dio si fosse incarnato per presentarsi agli uomini
avrebbe ricevuto, da questa creazione in rivolta nei suoi confronti, la stessa manifestazione di ostilità. Il Servo
dell’Eterno venendo in mezzo agli uomini è stato abbandonato tra gli uomini subendo le conseguenze del loro
peccato. In una forma figurata, il peccato dell’umanità è caduto sopra di lui.
«Alcuni testi biblici... hanno dato motivo ai critici radicali di affermare che l’antica religione d’Israele
credeva Dio responsabile del peccato. Dio tentò Abramo (Genesi 22:1), indurì il cuore di faraone (Esodo 4:21;
7:3), mandò uno spirito cattivo a Saul (1 Samuele 16:14) ecc. È noto che l’A.T. considera Dio come causa
universale, e relega a un ruolo senza importanza l’attività delle cause secondarie… Perciò gli scrittori sacri,
benché non facciano distinzione come noi, tra ciò che Dio vuole positivamente e ciò che permette soltanto,
sanno molto bene che Dio non è causa del peccato. In Israele il male morale è incompatibile con il Dio santo e
La pazzia di Dio
102
LA GRAZIA NELL’ANTICO TESTAMENTO - LA SALVEZZA ATTRAVERSO IL RITO SACRIFICALE E IL SERVO DELL’ETERNO
giusto. Il male è un effetto della volontà umana, la cui libertà è ammessa senza alcun dubbio (vedere
Deuteronomio 30:11-20)».96
Mosè, considerando l’uccisione involontaria di una persona, scrive in termini antropologici: «Chi
percuote un uomo sì ch’egli muoia, dev’essere messo a morte. Se non gli ha teso agguato, ma Dio gliel’ha fatto
cadere sotto mano, io ti stabilirò un luogo dove egli si possa rifugiare» Esodo 21:12. Nell’espressione «Dio
gliel’ha fatto cadere sotto mano» sta l’idea secondo la quale questo crimine è stato commesso senza
intenzionalità, senza premeditazione alcuna da parte dell’assassino, come è chiaramente espresso in
Deuteronomio 19:5. Nessuno penserebbe di attribuire a Dio, per le espressioni del testo, la volontà di
quell’uccisione; si tratta di un incidente, di una disgrazia. «Dio gliel’ha fatto cadere sotto mano» nel senso che
non ha impedito la tragedia. Un altro esempio è dato dai testi di 2 Samuele 24:1 dove è detto che Dio ha incitato
Davide a fare il censimento, mentre in 1 Cronache 21:1 viene detto che Davide è stato incitato da Satana. La
contraddizione è solo apparente. Affinché il re e il popolo si umiliassero e potessero ritornare a Dio, l’Eterno ha
lasciato che un cattivo pensiero, suscitato dal nemico e accettato dal re avesse le sue conseguenze. Non avere
impedito questa tentazione, le cui conseguenze hanno cooperato al bene del popolo d’Israele, ha fatto scrivere
all’autore di 2 Samuele che è stato Dio a suggerire il pensiero del censimento. Isaia non ha voluto quindi dire
che l’Eterno ha diretto la nostra iniquità affinché cadesse sul Figlio. La morte è la conseguenza inevitabile, in
questo caso non di una disgrazia, ma della volontà dell’uomo, che non sopporta che Dio gli sia accanto. E
l’Eterno non ha impedito il suo iniquo disegno.
Harry M. Orlinsky fa notare: «Possiamo osservare che se l’autore di questi versetti (4,5) avesse inteso qui
qualcosa come la sostituzione, avrebbe probabilmente impiegato non la preposizione mem ma bet (il bet di
scambio). In modo analogo in Lamentazione 4:13, dove non c’è nulla di vicario, è di nuovo impiegato. “Così è
avvenuto per via dei peccati dei suoi profeti, delle iniquità dei suoi sacerdoti...”. Il mem del v. 8, di solito è reso
“a causa di”, “a motivo (di) delle trasgressioni del mio popolo", e similmente causale. Cosicché l’importanza
dell’unico esempio di bet della nostra sezione (v. 5 up) difficilmente può dimostrare qualcosa per la sostituzione
vicaria».97
Così il v. 6 di Isaia «l’iniquità di noi tutti è caduta su di lui» vuole forse affermare che in qualunque
momento della storia dell’umanità, Dio si fosse incarnato per presentarsi agli uomini, avrebbe sempre ricevuto
da questa creazione in rivolta la stessa manifestazione di ostilità.
53: 7 Maltrattato, umiliò se stesso
e non aperse la bocca.
Come l’agnello menato allo scannatoio,
come la pecora muta dinanzi a chi la tosa,
egli non aperse la bocca.
8
Dall’oppressione e dal giudizio fu portato via,
e fra quelli della sua generazione chi rifletté
ch’egli era strappato dalla terra dei viventi
e colpito a motivo delle trasgressioni del mio popolo?
9 Gli avevano assegnato la sepoltura fra gli empi,
ma nella sua morte, egli è stato con il ricco
perché non aveva commesso violenza
né v’era stata frode nella sua bocca.
10
Ma piacque all’Eterno di fiaccarlo coi patimenti –
Dio si compiacque di lui colpito, lo salvò, lui che aveva dato la sua vita in sacrificio -.
(V. 7). Isaia dopo aver descritto i patimenti del Servo dell’Eterno, in questo quadro profetico dipinge
poeticamente il modo con il quale egli li affronta. Anziché dimenarsi, protestare, inveire contro la sua tragedia
immeritata, l’accetta in silenzio.
«Maltrattato, umiliò se stesso». Sì, patisce di sua spontanea volontà e, con infinita accettazione, con
animo calmo, si lascia duramente maltrattare e uccidere, senza manifestare la sua onnipotenza.
Sono molto espressive in questo testo le illustrazioni dell’agnello condotto al macello e della pecora che
si lascia tosare, entrambi senza protestare. In confronto all’agnello, che nella sua docilità resta passivo, nel
seguire colui che lo conduce perché non sa quale sia la sua destinazione e la morte crudele che subirà, il
Redentore va ben oltre. Infatti egli da molto tempo prima sapeva che la sua strada lo avrebbe condotto a Gerusalemme, la città che uccide i profeti, e in anticipo ha svelato ai suoi discepoli che cosa gli avrebbero fatto il
96
FUENTE O. Garcia de la, Peccato, in Enciclopedia della Bibbia, ed. ElleDiCi, vol. V, col. 587.
ORLINSKI Harry M., in Supplements to Vestus Testamentum, in Studies on the Second part of the book of Isaiah - the so called
‘Servant of the Lord’ And ‘Suffering Servant’ in second Isaiah, vol. XIV, Leiden, E.J. Brill, 1967, p. 59.
J.S. Whale, sostenitore della sostituzione vicaria, ha scritto che «il canto fa dodici distinte ed esplicite affermazioni sul fatto che il
servo soffre le pena per i peccati di altri uomini: non solo una sofferenza vicaria, ma una sostituzione penale costituisce il significato evidente
del quarto, quinto e sesto versetto». WHALE J.S, Victor and Victim: the Christian doctrine of redemption, Cambrigde University Press,
Cambridge 1960, pp. 69,70; cit. J. Stott, o.c., p. 197.
97
La pazzia di Dio
103
CAPITOLO V
Sinedrio e i Gentili. Non subisce gli avvenimenti futuri: l’arresto, il processo beffa, la dolorosa ascesa al
Golgota, ma dirige la sua vita per darla «in sacrificio» v. 10, per dare «se stesso alla morte» v. 12. Paolo dirà:
«Ha dato se stesso per noi in offerta e sacrificio a Dio, qual profumo di odore soave» Efesi 5:2. Il Servo non è
venuto a contrastare il malvagio o per giudicare il mondo (Matteo 5:39; Giovanni 3:17). Per questo subisce la
violenza e non la respinge; non combatte, ma si offre. Nel giorno del suo ritorno, quando manifesterà la sua
gloria, questo agnello immolato compirà il suo giudizio e la sua mansuetudine sarà avvertita come l’“ira” del
«leone della tribù di Giuda» Apocalisse 6:17; 5:5.
Il v. 8 ha una traduzione difficile. «Tutti si accordano nel dire che qui il profeta predice come questa
condanna, con la quale si vuole la morte del Servo di Yahvé, sarà tumultuosa, violenta e ingiusta… Anche gli
evangelisti dimostrano l’avveramento di questa profezia, mentre ci narrano in modo drammatico il furore dei
principi della Sinagoga e del popolo, che domandano con insistenza a Pilato la morte di Cristo, e l’imbarazzo del
preside romano che non sa a qual partito appigliarsi per liberarlo dalle loro mani. Sembra che il profeta avesse
una chiara visione di tanta scelleratezza, onde è costretto ad esclamare: “Chi potrebbe mai narrarlo?”».98
(V. 9). Coloro che hanno condannato a morte il Servo gli hanno designato la sepoltura fra i criminali, ma,
a causa della sua innocenza, Dio ha provveduto al suo seppellimento fra i ricchi (v. 9). Il racconto evangelico
della morte di Gesù tra i due malfattori e del suo seppellimento nella tomba del “ricco” Giuseppe d’Arimatea
(Matteo 27:57) offre la realizzazione di questo particolare della profezia. Ma abbiamo un po’ di difficoltà nel
riconoscere che questo sia il vero senso del testo, in considerazione anche del fatto che la ricchezza non è
sinonimo di giustizia. Le spiegazioni che seguono ci sembrano forse più valide.
«Nella sua morte è stato messo al rango degli onorati». Ciò corrisponderebbe alla confessione del
centurione che, constatando i fenomeni concomitanti alla morte di Gesù, disse: «Veramente, costui era figlio di
Dio» Matteo 27:54. Il Servo dell’Eterno “invece” di essere sepolto con i condannati in una fossa comune, come
avrebbero voluto i membri del Sinedrio, ha avuto un’onorata sepoltura, non perché messo in una tomba di un
ricco, ma in quanto deposto in un sepolcro nel quale avrebbe potuto ricevere delle onoranze rispettose (Giovanni
19:10).
Non dovremmo neppure escludere quelle moltitudini di persone che dal ministero di Gesù avevano avuto
dei benefici e alla notizia della sua morte l’avranno onorato «perché non aveva commesso violenza né v’era stata
frode nella sua bocca».
La frase del v. 10 (che chiude la quarta strofa) è molto enfatica nel presentare il martirio del Figlio di Dio:
«Yahvé lo volle stritolare, spezzare e lo percosse con piaga mortale». Isaia con queste parole sembra attribuire a
Dio i dolori subiti e sofferti dal Messia. Nel Salmo secondo vediamo però Dio estraneo, ma osservatore passivo
dei complotti iniqui dei potenti contro di lui e del suo unto. Per una buona comprensione del testo di Isaia, come
già abbiamo detto in occasione dei versi 4,6, dobbiamo fare una distinzione fra azione attiva e passiva di Dio, se
così ci possiamo esprimere. Se fosse il Padre ad agire in modo diretto, attivo, nel causare al Figlio le torture e la
morte per fargli espiare le pene dovute a tutti i peccatori, pensiero tanto caro a molti teologi, l’apostolo Pietro
accuserebbe Dio di empietà. Infatti nel suo primo discorso nel giorno della Pentecoste dichiarò ad alta voce
davanti alla numerosa folla: «Quest’uomo (Gesù) allorché vi fu dato nelle mani per il determinato consiglio e
per la prescienza di Dio, voi, per man di iniqui inchiodandolo sulla croce, lo uccideste» Atti 2:23.99 C’è in queste
parole una veduta luminosa sulle cause della morte di Gesù; l’apostolo vi trova delle cause umane ma dominate
dall’alto da un disegno divino. Gesù fu tradito da Giuda, giudicato dal Sinedrio, condannato da Pilato e
crocifisso dai Romani. Ma con le parole: “Voi ...lo uccideste”, Pietro accomuna con i responsabili anche i
numerosi ascoltatori rimasti estranei a questo crimine giuridico. Questa solidarietà di tutto il popolo con il
Sinedrio fu profondamente sentita e condivisa dagli ascoltatori i quali, dopo essere stati compunti nel cuore,
chiesero, alla conclusione del discorso di Pietro: «Fratelli, che dobbiamo fare?» Atti 2:36,37. Pietro precisa che
le mani inique non furono quelle di Dio ma quelle dei carnefici. «Il determinato consiglio e la prescienza di
Dio», non significano che l’Eterno abbia consigliato, voluto e organizzato la morte del Figlio, facendo, in tal
caso, delle mani degli iniqui lo strumento del suo proponimento. Non è l’Eterno che ha ideato questo
stratagemma. Egli, nella sua prescienza, ha veduto che l’umanità non avrebbe sopportato Gesù e volendo
rimanere nelle sue tradizioni si sarebbe industriata per sbarazzarsi di lui. Dio è però così grande, che il suo
“consiglio”, cioè la sua sapienza senza limiti, ha visto la possibilità di cogliere da questa follia dell’uomo ciò che
avrebbe trasformato la stessa cattiveria umana nella più grande, inimmaginabile occasione per risollevare il
mondo. Ed è così che la morte di Cristo, voluta e decisa dai soli uomini, è accettata a malincuore da Dio e da
98
P. ALESSIO di s. Paolo della Croce, La passione del Servo di Yahwé, in AA.VV., La Redenzione, conferenze bibliche tenute
nell’anno giubilare 1933, Roma 1934, p. 46.
99
LUZZI Giovanni, Fatti degli Apostoli, ed. Claudiana, Firenze 1899; riproduzione, Torino 1988, p. 101, nel commento classico del
testo, crediamo che gli faccia dire proprio il contrario. «Il te orismene Boule vuol dire: per consiglio, decreto, proposito ben definito, ben
determinato. Il te prognosei significa: per la preconoscenza di Dio. Il Diodati dice provvidenza; meglio il Martini, che dice: prescienza.
L’idea di Pietro è questa. La morte di Cristo non fu il trionfo della iniquità dell’uomo sulla potenza di Dio; tutt’altro. Essa fu il compimento
di un disegno, che Dio stesso avea, in seno all’eternità, formato; e di un disegno del quale non solo Egli avea concepito l’idea, ma del quale
anche, nella sua divina prescienza, aveva visto, nell’oceano del tempo, il quando, il come ed il dove del compimento. Premeva a Pietro, che
volea convincere i suoi uditori della necessità del Cristo, di mettere in atto questo fatto: che il Messia, ch’essi credevano non potesse morire,
non fu ucciso perché debole, né perché non aveva potuto liberarsi dai suoi nemici, ma perché Dio stesso volle che il Cristo, venuto dalla
gloria, ritornasse nella gloria per la umiliazione e le angosce del Calvario».
La pazzia di Dio
104
LA GRAZIA NELL’ANTICO TESTAMENTO - LA SALVEZZA ATTRAVERSO IL RITO SACRIFICALE E IL SERVO DELL’ETERNO
Lui trasformata nello strumento di salvezza. Se si vuole vedere nell’Eterno l’autore dello stritolamento del suo
diletto Compagno (Zaccaria 13:7), dobbiamo vederlo nel suo atteggiamento passivo di non intervento
liberatorio nella tragedia del Golgota, in quanto Lui stesso era attivamente in Cristo per riconciliare il mondo
con Sé (2 Corinzi 5:19). Anche queste testo deve essere letto nella prospettiva del «noi credevamo che».
Le osservazioni di Claus Westermann ci permettano di eliminare ogni riserva. «Il v. 10a è corrotto ed è
stato ricostruito da Begrich in modo convincente, sulla base di una proposta di Elliger, a cui apporta lievissime
variazioni. “Ma Yahvé si compiacque del suo (Servo) colpito” (adattato da K”hler, Lexikon). Si dicono così due
cose: che Yahvé già stava dalla parte del Servo sofferente, nonostante le apparenze; che dopo la morte del Servo
egli concretizzò il suo compiacimento in un intervento concreto a suo favore. Gli ridiede la vita e lo guarì».100
La traduzione del nostro testo biblico nell’opera di Westermann riporta: «Ma Yahvé si compiacque di ‘lui
colpito’, lo salvò, lui che aveva dato la sua vita in sacrificio».
53:10 Dopo aver dato la sua vita in riscatto per la colpa,
egli vedrà una progenie, prolungherà i suoi giorni,
e l’opera dell’Eterno prospererà nelle sue mani.
11
Egli vedrà il frutto del tormento dell’anima sua,
e ne sarà saziato; per la sua conoscenza,
il mio servo il giusto, renderà giusti i molti,
e si caricherà101 egli stesso delle loro iniquità.
12 Perciò io gli darò la sua parte fra i grandi,
ed egli dividerà il bottino con i potenti,
perché ha dato se stesso alla morte,
ed è stato annoverato tra i trasgressori,
perch’egli ha portato i peccati di molti,
e ha interceduto per i trasgressori.
(V. 10). La TOB al versetto 10 parla di «un sacrificio d’espiazione» e in nota osserva: «È il solo testo
dell’A.T. che presenta una vittima umana offerta in espiazione. Si sa che i sacrifici umani erano assolutamente
proibiti». Il teologo protestante G. von Rad scrive: «Se ci fosse stata una allusione chiara all’uso dell’offerta
cultuale, questa affermazione sarebbe d’una singolare portata teologica; in effetti l’idea che l’offerta del
servitore sorpassi il culto sacrificale è senza esempio nell’A.T.». Del resto, come poteva l’Eterno che aveva
proibito i sacrifici umani, richiederlo ora?
A chi è stato pagata questa riparazione e in cosa consiste?
Il Servo «offre la sua vita in sacrificio per la colpa», per l’asam, termine tecnico del rituale levitico che
esprime il sacrificio riparatorio per il crimine commesso. Il sacrificio della vita del Cristo non è a riparazione dei
danni morali che Dio ha subito a causa del peccato dell’uomo. Esso è il dono totale di se stesso il cui scopo è di
”riparare”, cioè ristabilire la giusta relazione dell’uomo con Dio. Il sacrificio di Gesù è a riconciliazione
dell’uomo con Dio e non viceversa (Romani 5:10,11; 2 Corinzi 5:18,19,20; Colossesi 1:20), è a riparazione di
questa rottura di relazione.
Si può anche vedere in questa riparazione, la ricucitura dell’ordine, dato dalla “legge” presente in tutto
l’universo; un essere è stato fedele al bene, fino alla morte.
(V. 11). I frutti di questo sacrificio sono tre: «Vedrà una posterità; prolungherà i suoi giorni, e l’opera
dell’Eterno prospererà nelle sue mani». Gesù, quale secondo Adamo, infonderà nuova vita, la vera vita a tutti
coloro che, come dice Pietro, sono «stati rigenerati... da seme... incorruttibile» 1 lettera 1:23. Si ha qui la
realizzazione della posterità incalcolabile promessa ad Abrahamo.
(Vv. 10,11). Nelle parole “prolungamento dei suoi giorni” o “lunghezza di giorni” v. 10, Isaia annuncia la
risurrezione del Messia. Senza di essa non potrebbero esserci, per colui che è morto ed è stato sepolto, altri
giorni, che sono quelli dell’eternità gloriosa.
Il verbo “vedrà” esprime il trionfo del Servo sui suoi nemici. «Egli vedrà» - a seguito del suo ritorno in
vita - «una progenie, prolungherà i suoi giorni». «Egli vedrà la luce» v. 11, riportano alcuni manoscritti. Questa
espressione sia in ebraico sia nella lingua accadica, significa “vivere”. Abbiamo qui la realizzazione del Salmo
2, nel quale, dopo aver messo in evidenza la rottura dei legami che uniscono l’Unto (il Servo) all’Eterno,
l’Eterno riderà del tumulto delle nazioni e dell’alleanza dei potenti che hanno operato questa empia
macchinazione, trasformandola nel trionfo di suo Figlio al quale avrebbe dato le nazioni in eredità (Salmo
2:4,8).
(V. 10). Grazie a quanto compiuto da Gesù «l’opera dell’Eterno», il suo proponimento di vita eterna per
gli uomini, avrà una felice realizzazione, “prospererà”. Il Getzemani e il Golgota saranno così il trono della
gloria divina.
100
WESTERMANN Claus, Antico Testamento, Isaia capp. 40-66, ed. Paideia, Brescia 1978, pp. 321,322.
«Addosserà la loro iniquità» La Bibbia di Gerusalemme; «Si è addossato i loro peccati» TILC; «Si caricherà egli stesso delle loro
iniquità» Nuova Luzzi; «lui che si è caricato dei loro sbagli» La Sainte Bible, francese corrente, ed. 1991.
101
La pazzia di Dio
105
CAPITOLO V
(V. 11). Il Cristo, nel contemplare quella parte dell’umanità redenta «frutto del tormento dell’anima sua»,
«ne sarà saziato», soddisfatto cioè, nella piena gioia di essere fratello tra tanti fratelli (Romani 8:29). Tutto il
bene di cui l’umanità beneficerà e tutta la gloria futura di Cristo saranno il frutto della sua Passione. Gesù disse
ai suoi discepoli che, scoraggiati e delusi, se ne tornavano a Emmaus dopo la sua morte: «Bisognava che il
Cristo soffrisse queste cose ed entrasse quindi nella sua gloria» Luca 24:26.
Le parole «per la sua conoscenza» v. 11, possono avere una doppia spiegazione: per la conoscenza che
Gesù avrà delle persone, o per la conoscenza che le persone avranno della sua opera, «il Giusto per eccellenza»,
come conseguenza della sua morte, «renderà giusti molti».
L’ultima parte del v. 11 con il verbo al futuro: «Si caricherà egli stesso delle loro iniquità», più che essere
una ripetizione di quanto già espresso nel versi precedenti può indicare l’impegno futuro che il Servo assumerà
dopo la sua morte e resurrezione, quale sacerdote nel santuario celeste per purificare il credente che, pur liberato
dalla sua volontà di rivolta nei confronti di Dio, cade ancora nel peccato a causa dell’infermità della carne. Di
quest’opera l’apostolo Giovanni nella sua prima lettera scrive: «Figlioletti miei, io vi scrivo queste cose affinché
non pecchiate; e se alcuno ha peccato, noi abbiamo un paracletos (soccorritore) presso il Padre, cioè Gesù
Cristo, il giusto» Giovanni 2:1.
(V. 12). Al Servo disprezzato, allo «schiavo dei potenti» Isaia 49:7, per la sua vittoria gli «apparterranno
molti, e riceverà delle folle come sua parte di bottino» o gli «apparterranno molti e dei potenti dividerà le
spoglie».
L’espressione “moltitudini” che troviamo per due volte all’inizio del poema: 52:14a,15a, indica le
nazioni e i re, compreso Israele stesso. Il profeta riprende nella conclusione quanto espresso all’inizio. Alla fine
del suo canto dipinge nuovamente lo stupore suscitato all’inizio. Le moltitudini che prima si erano scandalizzate
per le umiliazioni del Servo finiranno per ammirarlo ed amarlo.
Se si accetta la traduzione «e dei potenti dividerà le spoglie» possiamo trovare sotto la penna di Paolo il
commento. Gesù è seduto alla destra del Padre «nei luoghi celesti, al di sopra di ogni principato e autorità e
potestà e signoria, e d’ogni altro nome che si nomina non solo in questo mondo, ma anche in quello a venire.
Ogni cosa Egli ha posto sotto ai piedi» Efesi 1:20-22.
I capitoli 55 e 60 di Isaia presentano i risultati felici dell’opera del Messia: i popoli e i re accorreranno
verso la nuova Gerusalemme.
Le ultime parole di Isaia (v. 12sp) ripetono ancora la vera causa del trionfo del Servo: ha dato la sua vita,
ha accettato di essere considerato colpevole, ha portato, per potere vincere, il peccato di molti, diventando così il
garante della salvezza dei trasgressori. Il Servo è così un esempio luminoso di amore, umiltà, forza e carità.
Sia al v. 12 come nel v. 4 il verbo «ha portato i peccati di molti» è lo stesso e per questo motivo la
comprensione dovrebbe essere la stessa. Il peccato come la malattia è causa di sofferenza. Gesù è venuto per
abolire il peccato (Ebrei 9:26) che è la causa del male. Nella sua opera di redenzione, portare i peccati
corrisponde all’azione di liberarcene, guarirci, vincere il male, la nostra ribellione.
Il Servo fedele non si sostituisce al popolo peccatore; solidarizza con l’umanità peccatrice, porta il
peccato e le sue conseguenze (la morte). La risurrezione è la manifestazione della vittoria.
Giacomo Biffi riepiloga con queste parole. «Certo egli è “trafitto a causa dei nostri peccati, schiacciato
per i nostri delitti (v. 5)... Yahvé ha fatto ricadere su di lui le iniquità di noi tutti (v. 6)... Egli è stato annoverato
tra i malfattori (v. 12)”. Ma non ci viene detto che tutto questo sia stato fatto al “nostro posto”. Piuttosto si parla
qui di una speciale partecipazione al nostro destino di peccatori; partecipazione che è eccezionale per due
ragioni: per l’innocenza di colui che l’ha volontariamente accettata e per il suo carattere salvifico: “attraverso le
sue sofferenze giustificherà la moltitudine”».102
102
BIFFI Giacomo, Tu solo il Signore, saggi teologici d’altri tempi, ed. Piemme, Casale Monferrato 1987, p. 49.
La pazzia di Dio
106
Capitolo VI
LA SALVEZZA NEL NUOVO TESTAMENTO
Riteniamo opportuno riportare i testi che nel N.T. sono in relazione alla morte di Gesù affinché il lettore
possa avere una visione d’insieme su quanto gli apostoli hanno scritto.
PASSI DEL N.T. IN RELAZIONE ALLA MORTE DI GESÙ
La volontà di sopprimere Gesù
Matteo 12:14, cfr Marco 3:6
«I farisei, usciti, tennero consiglio contro di lui, col fine di farlo morire».
Luca 20:19
«Gli scribi e i capi sacerdoti cercarono di mettergli le mani addosso in quella stessa ora, ma temevano il
popolo».
Giovanni 5:16
(dopo la guarigione del paralitico di Betesda) «I giudei perseguitavano Gesù e cercavano di ucciderlo; perché
faceva quelle cose di sabato».
Giovanni 5:18
«I Giudei... cercavano di ucciderlo; perché non soltanto violava il sabato, ma chiamava Dio suo Padre, facendosi
uguale a Dio».
Giovanni 7:1
«Gesù andava attorno per la Galilea; non voleva andare attorno per la Giudea perché i Giudei cercavano di
ucciderlo».
Giovanni 7:20,23
«Perché cercate di uccidermi?... Vi adirate voi contro di me perché in giorno di sabato ho guarito un uomo tutto
intero?».
Giovanni 8:58,59
«Gesù disse: ... “Prima che Abramo fosse nato, io sono”. Allora essi presero delle pietre per tirargliele
(lapidarlo)».
Giovanni 10:30,31,33
«“Io e il Padre siamo uno”. I giudei presero di nuovo delle pietre per lapidarlo. I giudei gli risposero: Non ti
lapidiamo per una buona opera, ma per bestemmia e perché tu che sei uomo, ti fai Dio».
Giovanni 11:47-50,53
(dopo la risurrezione di Lazzaro) «I capi sacerdoti e i Farisei radunarono il Sinedrio e dicevano: “Che facciamo?
Perché questo uomo fa molti miracoli. Se lo lasciamo fare tutti crederanno in lui; e i Romani verranno e ci
distruggeranno e città e nazione”. E uno di loro Caiafa, che era sommo sacerdote di quell’anno disse loro: “Voi
non capite nulla e non riflettete come vi torni conto che un uomo solo muoia per tutto il popolo e non perisca
tutta la nazione”… Da quel giorno dunque deliberarono di farlo morire».
Giovanni 12:10,11
«I capi sacerdoti deliberarono di far morire anche Lazzaro, perché per cagione sua, molti dei Giudei andavano e
credevano in Gesù».
Matteo 26:3,4
«I capi sacerdoti e gli anziani del popolo si radunarono nella corte del sommo sacerdote detto Caiafa e
deliberarono nel loro consiglio di pigliare Gesù con inganno e di farlo morire».
Matteo 27:1
«Poi, venuta la mattina, tutti i capi sacerdoti e gli anziani del popolo tennero consiglio contro Gesù per farlo
morire».
Matteo 26:65,66
«“Egli ha bestemmiato... avete udito la sua bestemmia”. Essi risposero: “È reo di morte”».
Marco 14:64
«E tutti lo condannarono come reo di morte».
Matteo 27:12
«Accusato dai capi sacerdoti e dagli anziani».
Marco 15:3
«I capi sacerdoti lo accusavano di molte cose».
CAPITOLO VI
Matteo 27:18
«Egli (Pilato) sapeva che glielo avevano consegnato per invidia».
Matteo 27:20,22,23 cfr Marco 15:14
«I capi sacerdoti e gli anziani persuasero le turbe a chiedere Barabba e far morire Gesù. “Che farò dunque di
Gesù detto Cristo? (Chiese Pilato)”. Tutti risposero: “Sia crocifisso”. “Ma pure, riprese egli, che male ha fatto?”
Ma quelli vie più gridavano: “Sia crocifisso!”»
Luca 23:14-18,22-25 cfr Giovanni 18:38
«“Voi mi avete fatto comparire dinanzi questo uomo come sovversivo del popolo; ed ecco, dopo averlo in
presenza vostra esaminato, non ho trovato in lui alcuna delle colpe di cui l’accusate; e neppure Erode, poiché
egli lo ha rimandato a noi; ed ecco, egli non ha fatto nulla che sia degno di morte. Io dunque dopo averlo
castigato lo libererò". Ma essi gridarono tutti insieme: “Fai morire costui e liberaci Barabba!” E per la terza volta
disse a loro: “Ma che male egli ha fatto? Io non ho trovato nulla in lui, che meriti la morte. Io dunque, dopo
averlo castigato lo libererò”. Ma essi insistevano con gran grida, chiedendo che fosse crocifisso; e le loro grida
finirono per avere il sopravvento. E Pilato sentenziò che fosse fatto quello che domandavano... Abbandonò Gesù
alla loro volontà».
Giovanni 19:4,6,7
«Pilato uscì di nuovo e disse: “Ecco, ve lo meno fuori affinché sappiate che non trovo in lui alcuna colpa”…
Come dunque i capi sacerdoti e le guardie l’ebbero veduto, gridarono: “Crocifiggilo, crocifiggilo!” Pilato disse
loro: “Prendetelo voi e crocifiggetelo; perché io non trovo in lui alcuna colpa”. I Giudei gli risposero: “Noi
abbiamo una legge, e secondo questa legge egli deve morire, perché egli s’è fatto Figlio di Dio”».
Giovanni 19:12,14,15
«Da quel momento Pilato cercava di liberarlo; ma i Giudei gridarono dicendo: “Se liberi costui non sei amico di
Cesare. Chiunque si fa re si oppone a Cesare”… Ed egli disse ai Giudei: “Ecco il vostro Re!” Allora essi
gridarono: “Toglilo, toglilo di mezzo, crocifiggilo!... Noi non abbiamo altro re che Cesare”».
Gesù annuncia la propria morte
Matteo 16:21; cfr Luca 9.22
«Da quell’ora Gesù cominciò a dichiarare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molte
cose dagli anziani, dai capi sacerdoti e dagli scribi, ed essere ucciso e resuscitare il terzo giorno».
Matteo 17:22,23; cfr Marco 9:31
«Il Figlio dell’uomo sta per essere dato nelle mani degli uomini, e l’uccideranno...»
Matteo 20:18,19; cfr Marco 10:33; Luca 18:31-33
«Il Figlio dell’uomo sarà dato nella mani dei capi sacerdoti e degli scribi e lo condanneranno a morte e lo
metteranno nelle mani dei Gentili per essere schernito e flagellato e crocifisso».
Matteo 21:37-39; cfr Marco 12:6,7
«Mandò loro il suo figlio dicendo: “Avranno rispetto del mio figlio”. Ma i lavoratori, vedendo il figlio, dissero
tra di loro: “Costui è l’erede; venite, uccidiamolo e facciamo nostra la sua eredità”. E presolo lo cacciarono fuori
dalla vigna e l’uccisero».
Matteo 23:31,32
«Voi siete i figli di coloro che uccisero i profeti. E voi colmate pure la misura dei vostri padri».
Matteo 26:2
«Il Figlio dell’uomo sarà consegnato per essere ucciso».
Matteo 26:23, cfr Marco 14:21
«Colui che ha messo con me la mano nel piatto, quello mi tradirà».
Matteo 26:45
«Il Figlio dell’uomo è dato nelle mani dei peccatori».
Giovanni 2:19
«Disfate questo tempio e in tre giorni lo faro risorgere».
Giovanni 8:37,40
«Cercate di uccidermi, perché la mia parola non penetra in voi. Cercate di uccidere me, uomo che v’ho detta la
verità che ho udito da Dio».
Giovanni 10:11
«Il buon pastore mette la sua vita per le pecore».
Giovanni 10:17,18
«Per questo mi ama il Padre; perché io depongo la mia vita per ripigliarla poi. Nessuno me la toglie, ma la
depongo da me. Io ho podestà di deporla e ho podestà di ripigliarla».
La pazzia di Dio
112
LA SALVEZZA NEL NUOVO TESTAMENTO
Giovanni 15:13
«Nessuno ha amore più grande che quello di dare la sua vita per i suoi amici».
Giovanni 15:18-20,25
«Se il mondo vi odia, sapete bene che prima di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe quel
che è suo; ma perché non siete del mondo, ma perché io vi ho scelti di mezzo al mondo, perciò vi odia il mondo.
Ricordatevi della parola che vi ho detta: Il servitore non è da più del suo signore (cfr 13:16). Se hanno
perseguitato me perseguiteranno anche voi… Ma questo è avvenuto affinché siano compiute le parole scritte
nella loro legge: Mi hanno odiato senza cagione».
Giovanni 3:14-16
«Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che il Figlio dell’uomo sia innalzato, affinché
chiunque creda in lui abbia vita eterna. Poiché Iddio ha tanto amato il mondo, che ha dato il suo unigenito Figlio
affinché chiunque crede in lui non perisca ma abbia vita eterna».
Matteo 20:28
«Il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita come prezzo di riscatto per
molti».
Luca 19:10
«Il Figlio dell’uomo è venuto per salvare ciò che era perito».
Luca 22:19
«Avendo preso del pane, rese grazie e lo ruppe e lo diede loro dicendo: Questo è il mio corpo il quale è dato per
voi; fare questo in memoria di me».
Matteo 26:28, cfr Marco 14:24; Luca 22:20
«Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue , il sangue del patto, il quale è sparso per molti per la remissione
dei peccati».
Giovanni 1:29
«Ecco l’agnello di Dio che toglie i peccati del mondo».
Giovanni 3:14-16 vedere: annuncio da parte di Gesù Giovanni 6:51
«Io sono il pane vivente che è disceso dal cielo; se uno mangia di questo pane vivrà in eterno. E il pane che darò
è la mia carne che darò per la vita del mondo».
Giovanni 8:28
«Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora conoscerete che sono io (il Cristo) e che non faccio nulla da
me, ma dico queste cose che il Padre mi ha insegnato».
Giovanni 10:15
«Come il Padre mi conosce e io conosco il Padre e metto la mia vita per le pecore».
Giovanni 11:51,52
(vedere Giovanni 11:47-50,53: volontà di ucciderlo) «Or egli (Caiafa) non disse questo di suo; ma siccome era
sommo sacerdote di quell’anno, profetò che Gesù doveva morire per la nazione; e non soltanto per la nazione,
ma anche per raccogliere in uno i figlioli di Dio dispersi».
Giovanni 12:23-25,27,28
«L’ora è venuta, che il Figlio dell’uomo ha da essere glorificato. In verità, in verità io vi dico che se il granello
di frumento caduto in terra non muore, rimane solo; ma se muore produce molto frutto. Chi ama la sua vita, la
perde; e chi odia la sua vita in questo mondo, la conserva in vita eterna… Ora è tormentata l’anima mia; e che
dirò? Padre, salvami da quest’ora!? Ma è per questo che io sono venuto in contro a quest’ora. Padre glorifica il
tuo nome!”».
Realizzazione storica
Matteo 27:46; cfr Marco 15:34
«Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?».
Luca 23:46
«E Gesù, gridando con gran voce, disse: “Padre, nelle tue mani rimetto lo spirito mio”».
Luca 24:7
«Il Figlio dell’uomo doveva essere dato nelle mani d’uomini peccatori ed essere crocifisso e il terzo giorno
resuscitare».
Luca 24:26
«Non bisognava egli che il Cristo soffrisse queste cose ed entrasse quindi nella sua gloria?».
Luca 24:46
«Così è scritto, che il Cristo soffrirebbe e resusciterebbe dai morti».
La pazzia di Dio
113
CAPITOLO VI
Atti 2:23,24
«Quest’uomo (Gesù) allorché vi fu dato nelle mani per il determinato consiglio e per la prescienza di Dio, voi
per mano d’iniqui, inchiodandolo sulla croce, lo uccideste, ma Dio lo ha resuscitato».
Atti 3:13-15,17,18
«L’Iddio dei nostri padri ha glorificato il suo Servitore Gesù, che voi metteste in mano di Pilato e rinnegaste
dinanzi a lui, mentre egli aveva giudicato di doverlo liberare. Voi rinnegaste il Santo ed il Giusto e chiedeste
che vi fosse consegnato un omicida e uccideste il Principe della vita, che Dio ha resuscitato dai morti… Ed ora,
fratelli, io so che lo faceste per ignoranza, al pari dei vostri rettori. Ma quello che Dio aveva preannunciato per
bocca di tutti i profeti, cioè, che il suo Cristo soffrirebbe, Egli l’ha adempiuto in questa maniera».
Atti 4:26-28
«I re della terra si sono fatti avanti e i principi si sono riuniti assieme contro al Signore e al suo Unto. E invero in
questa città, contro al tuo santo Servitore Gesù che tu hai unto, si sono radunati Erode e Ponzio Pilato, insieme
coi Gentili e con tutto il popolo d’Israele, per far tutte le cose che la tua mano e il tuo consiglio avevano innanzi
determinato che avvenissero».
Atti 7:52
«Quali dei profeti non perseguitarono i padri vostri? E uccisero quelli che preannunciarono la venuta del Giusto,
del quale voi ora siete stati i traditori e gli uccisori».
Atti 13:27,28
«Infatti gli abitanti di Gerusalemme e i loro capi non hanno riconosciuto questo Gesù… E benché non trovassero
in lui nulla che fosse degno di morte, chiesero a Pilato che fosse fatto morire».
Atti 17:3
«Spiegando e dimostrando che era stato necessario che il Cristo soffrisse e resuscitasse dai morti».
Significato teologico
Atti 17:30
«Dio dunque passando sopra i tempi dell’ignoranza, ora comanda agli uomini che tutti, in ogni luogo si
ravvedano».
Atti 20:28
«Badate bene a voi stessi e a tutto il gregge, in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha costituiti vescovi, per
pascere la chiesa di Dio, la quale egli ha acquistato col proprio sangue».
Romani 3:21-28
«Ora, però, indipendentemente dalla legge, è stata manifestata un’altra giustizia di Dio, attestata dalla legge e dai
profeti: vale a dire la giustizia di Dio mediante la fede in Gesù Cristo, per tutti i credenti; poiché non v’è
distinzione; difatti, tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, e sono giustificati gratuitamente per la
sua grazia, mediante la redenzione che è in Cristo Gesù, il quale Iddio ha prestabilito mediante la fede nel
sangue d’esso, per dimostrare la sua giustizia, avendo egli usato tolleranza versi i peccati commessi in passato,
al tempo della sua divina pazienza; per dimostrare, dico, la sua giustizia nel tempo presente; ond’Egli sia giusto
e giustificante colui che ha fede in Gesù».
Romani 4:25
«Il quale è stato dato a cagione delle nostre offese ed è risuscitato a cagione della nostra giustificazione».
Romani 5:6,8-11
«Perché mentre eravamo ancora senza forza, Cristo, a suo tempo è morto per gli empi… Ma Dio mostra la
grandezza del proprio amore per noi, in quanto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi.
Tanto più adesso, essendo ora giustificati per il suo sangue, saremo per mezzo di lui salvati dall’ira. Perché se
mentre eravamo nemici siamo stati riconciliati con Dio mediante la morte del suo Figlio, tanto più ora, essendo
riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita. E non soltanto questo, ma anche ci gloriamo in Dio per mezzo
del nostro Signore Gesù Cristo, per il quale abbiamo ora ottenuto la riconciliazione».
Romani 6:3-8,10
«O ignorate voi che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? Noi
siamo dunque stati con lui seppelliti nella sua morte, affinché come Cristo è resuscitato dai morti mediante la
gloria del Padre, così anche noi camminiamo in novità di vita. Perché se siamo diventati una stessa cosa con lui
per una morte somigliante alla sua, lo saremo anche per una risurrezione simile alla sua, sapendo questo: che il
nostro vecchio uomo è stato crocifisso con lui, affinché il corpo del peccato fosse annullato, onde noi non
serviamo più al peccato; poiché colui che è morto è affrancato dal peccato. Ora se siamo morti con Cristo, noi
crediamo che altresì vivremo con lui… Poiché il suo morire fu un morire al peccato una volta per sempre; ma il
suo vivere è un vivere a Dio».
Romani 6:18
«Essendo stati affrancati dal peccato, siete diventati servi della giustizia».
La pazzia di Dio
114
LA SALVEZZA NEL NUOVO TESTAMENTO
Romani 8:3,4
«Poiché quello che era impossibile alla legge, perché la carne la rendeva debole, Iddio l’ha fatto; mandando il
suo proprio Figlio in carne simile a carne di peccato e a motivo del peccato, ha condannato il peccato nella
carne, affinché il comandamento della legge fosse adempiuto in noi, che camminiamo non secondo la carne, ma
secondo lo spirito».
Romani 8:31-34
«Che diremo dunque a queste cose? Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Colui che non ha risparmiato il suo
proprio Figlio, ma l’ha dato per tutti noi, come non ci donerà egli anche tutte le cose con lui? Chi accuserà gli
eletti di Dio? Iddio è quel che li giustifica. Chi sarà quel che li condanni? Cristo Gesù è quel che è morto; e, più
che questo è risuscitato; ed è alla destra di Dio; ed anche intercede per noi».
1 Corinzi 1:18
«La parola della croce è pazzia per quelli che periscono; ma per noi che siamo sulla via della salvazione, è la
potenza di Dio».
1 Corinzi 1:23
«Noi predichiamo Cristo crocifisso, che per i Giudei è scandalo e per i Gentili pazzia».
1 Corinzi 2:7,8
«Ma esponiamo la sapienza di Dio misteriosa e nascosta, che Dio aveva prima dei secoli predestinata a nostra
gloria e che nessuno dei dominatori di questo mondo ha conosciuta; perché se l’avessero conosciuta, non
avrebbero conosciuto il Signore della gloria».
1 Corinzi 5:7
«Poiché anche la nostra Pasqua, cioè Cristo è stato immolato».
1 Corinzi 6:20
«Poiché siete stati comprati a prezzo; glorificate dunque Dio nel vostro corpo».
1 Corinzi 11:23-26
«Il Signore Gesù nella notte che fu tradito, prese del pane e dopo aver rese grazie, lo ruppe e disse: “Questo è il
mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me”. Parimenti dopo aver cenato prese anche il calice,
dicendo: “Questo calice e il nuovo patto nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne berrete in memoria di me.
Poiché ogni volta che voi mangiate questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore
finché egli venga”».
1 Corinzi 15:3
«Cristo è morto per i nostri peccati, secondo le Scritture».
2 Corinzi 5:14,15
«Perché siamo giunti a questo conclusione: che uno solo morì per tutti, quindi tutti morirono; e ch’egli morì per
tutti, affinché quelli che vivono non vivono più per se stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per loro».
2 Corinzi 3:14-16
«Ma le loro menti furono rese ottuse; infatti, sino al giorno d’oggi, quando leggono l’antico patto, lo stesso velo
rimane, senza essere rimosso, perché è in Cristo che esso è abolito».
2 Corinzi 5:19
«In quanto che Iddio riconciliava il mondo con sé in Cristo - Dio era in Cristo riconciliando il mondo con sé non imputando agli uomini i loro falli».
2 Corinzi 5:21
«Colui che non ha conosciuto peccato, Egli l’ha fatto essere peccato per noi, affinché noi diventassimo giustizia
di Dio in lui».
Galati 1:4
«Ha dato se stesso per i nostri peccati alfine di strapparci al presente secolo malvagio, secondo la volontà del
nostro Dio e Padre».
Galati 2:20
«Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me».
Galati 3:13
«Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge, essendo diventato maledizione per noi (poiché è scritto:
“Maledetto chiunque è appeso al legno”)».
Galati 4:4,5
«Iddio mandò il suo Figlio, nato di donna, nato sotto la legge, per riscattare quelli che erano sotto la legge,
affinché noi ricevessimo l’adozione di figli».
Galati 5:1
«Cristo ci ha affrancati perché fossimo liberi».
La pazzia di Dio
115
CAPITOLO VI
Galati 6:14
«Quanto a me, non sia mai che io mi glori d’altro che della croce del Signore nostro Gesù Cristo, mediante la
quale il mondo, per me, è stato crocifisso e io sono stato crocifisso per il mondo».
Efesi 1:7
«Poiché in lui noi abbiamo la redenzione mediante il suo sangue, la remissione dei peccati, secondo le ricchezze
della sua grazia».
Efesi 2:4,5,7
«Ma Dio che è ricco in misericordia, per il grande amore del quale ci ha amati, anche quando eravamo morti nei
falli, ci ha vivificati con Cristo (egli è per grazia che siete stati salvati) per mostrare alle età a venire l’immensa
ricchezza della sua grazia, nella benignità che Egli ha avuto per noi in Cristo Gesù».
Efesi 2:13-16,18
«In Cristo Gesù, voi che già eravate lontani, siete stati avvicinati mediante il sangue di Cristo. Poiché è lui che è
la nostra pace; lui che dei due popoli ne ha fatto uno solo, ed ha abbattuto il muro di separazione con l’abolire
nella sua carne la causa dell’inimicizia, la legge fatti di comandamenti in forma di precetti, alfine di creare in se
stesso dei due un solo uomo nuovo, facendo la pace, ed alfine di riconciliarli ambedue in un corpo unico con
Dio mediante la sua croce, sulla quale fece morire l’inimicizia loro… Poiché per mezzo di lui e gli uni e gli altri
abbiamo accesso al Padre in un medesimo Spirito».
Efesi 5:2
«Come Cristo... ha dato se stesso per noi in offerta e sacrificio a Dio, qual profumo di odore soave».
Efesi 5:25,26
«Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, alfine di santificarla, dopo averla lavata con il lavacro
dell’acqua mediante la Parola».
Filippesi 2:8
«Essendo trovato nell’esteriore come un uomo, abbassò se stesso, facendosi obbediente fino alla morte e alla
morte della croce».
Filippesi 3:9-11
«E d’esser trovato in lui avendo non una giustizia mia, derivante dalla legge, ma quella che si ha mediante la
fede in Cristo; la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede; in guisa ch’io possa conoscere esso Cristo, e la
potenza della sua risurrezione e la comunione delle sue sofferenze, essendo reso conforme a lui nella sua morte,
per giungere in qualche modo alla risurrezione dei morti».
Colossesi 1:14
«Nel quale abbiamo la redenzione, la remissione dei peccati».
Colossesi 1:22
«Ora Iddio vi ha riconciliati nel corpo della carne di lui, per mezzo della morte d’esso, per farvi comparire
davanti a sé santi e immacolati e irreprensibili».
Colossesi 2:13,14
«Egli vi ha vivificati con lui, avendoci perdonati tutti i falli, avendo cancellato l’atto accusatore scritto in
precetti».
1 Tessalonicesi 5:9,10
«Poiché Iddio non ci ha destinati ad ira, ma ad ottenere salvezza per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo, il
quale è morto per noi affinché, sia che vegliamo, sia che dormiamo, viviamo insieme con lui».
1 Timoteo 2:6
«Il quale diede se stesso quale prezzo di riscatto per tutti».
Tito 2:11,12
«Poiché la grazia di Dio, salutare per tutti gli uomini, è apparsa e ci ammaestra a rinunciare all’empietà e alle
mondane concupiscenze, per vivere in questo mondo temperatamente, giustamente e piamente».
Tito 2:14
«Il quale ha dato se stesso per noi al fine di riscattarci da ogni iniquità e di purificarsi un popolo suo proprio,
zelante nelle opere buone».
Ebrei 1:3
«Quando ebbe fatta la purificazione dei peccati, si pose a sedere alla destra della maestà nei luoghi altissimi».
Ebrei 2:9
«Colui che è stato fatto di poco inferiore agli angeli, cioè Gesù, coronato di gloria e d’onore a motivo della
morte che ha patita, onde per la grazia di Dio, gustasse la morte per tutti».
Ebrei 2:14,15, 17-18
«Poiché dunque i figli partecipano del sangue e della carne, anch’egli vi ha similmente partecipato, affinché
mediante la morte, distruggesse colui che aveva l’impero della morte, cioè il diavolo, e liberasse tutti quelli che
per il timore della morte erano per tutta la vita soggetti alla schiavitù… Affinché diventasse un misericordioso e
La pazzia di Dio
116
LA SALVEZZA NEL NUOVO TESTAMENTO
fedele Sommo Sacerdote nelle cose appartenenti a Dio, per compiere l’espiazione dei peccati del popolo. Poiché,
in quanto egli stesso ha sofferto essendo tentato, può soccorrere quelli che sono tentati».
Ebrei 7:25,27
«Ond’è che può salvare appieno quelli che per mezzo di lui si accostano a Dio, vivendo egli sempre per
intercedere per loro… Il quale (Gesù come sommo sacerdote) non ha ogni giorno bisogno, come gli altri sommi
sacerdoti, d’offrire dei sacrifici prima per i propri peccati e poi per quelli di tutto il popolo; perché questi egli ha
fatto una volta per sempre, quando ha offerto se stesso».
Ebrei 9:11,12,14,15
«Ma venuto Cristo, Sommo Sacerdote dei futuri beni, egli attraverso il tabernacolo più grande e più perfetto,
non fatto con mano, vale a dire, non di questa creazione, e non mediante il sangue di becchi e di vitelli, è entrato
una volta per sempre nel santuario, avendo acquistata una redenzione eterna… Quanto più il sangue di Cristo
che mediante lo Spirito eterno ha offerto se stesso puro d’ogni colpa a Dio, purificherà la vostra coscienza dalle
opere morte per servire all’Iddio vivente? Ed è per questa ragione che Egli è mediatore di un nuovo patto».
Ebrei 9:22
«E secondo la legge, quasi ogni cosa è purificata col sangue, e senza spargimento di sangue non c’è remissione».
Ebrei 9:25,26,28
«Non per offrire se stesso più volte, come il sommo sacerdote, che entra ogni anno nel santuario con sangue non
suo; cioè, in questo caso, avrebbe dovuto soffrire più volte dalla fondazione del mondo; ma ora, una volta sola,
alla fine dei secoli, è stato manifestato per annullare il peccato nel suo sacrificio… Così anche Cristo dopo
essere stato offerto una volta sola, per portare i peccati di molti, apparirà una seconda volta, senza peccato, a
quelli che lo aspettano per la loro salvezza».
Ebrei 10:9-12
«Ecco io vengo per fare la tua volontà... In virtù di questa volontà noi siamo stati santificati, mediante l’offerta
del corpo di Gesù Cristo fatta una volta per sempre. E mentre ogni sacerdote è in piè ogni giorno ministrando e
offrendo spesse volte gli stessi sacrifici che non possono mai togliere i peccati, questi, dopo aver offerto un
unico sacrificio per i peccati e per sempre, si è posto a sedere alla destra di Dio».
Ebrei 10:19-22
«Avendo dunque, fratelli, libertà d’entrare nel santuario in virtù del sangue di Gesù, per quella via recente e
vivente che egli ha inaugurata per noi attraverso la cortina, vale a dire la sua carne, e avendo noi un gran
Sacerdote sopra la casa di Dio, accostiamoci di vero cuore, con piena certezza di fede, avendo i cuori sparsi di
quell’aspersione che li purifica della mala coscienza, e il corpo lavato dall’acqua pura».
Ebrei 13:12
«Perciò anche Gesù, per santificare il popolo col proprio sangue, soffri fuori dalla porta».
1 Pietro 1:11
«Essi indagavano quale fosse il tempo e le circostanze a cui lo Spirito di Cristo che era in loro accennava,
quando anticipatamente testimoniava delle sofferenze di Cristo e della gloria che doveva seguire».
1 Pietro 1:18-21
«Sapendo che non con cose corruttibili, con argento o con oro, siete stati riscattati dal vano modo di vivere
tramandatovi dai padri, ma col prezioso sangue di Cristo, come d’agnello senza difetto ne macchia, ben
predestinato fin dalla fondazione del mondo, ma manifestato negli ultimi tempi per voi, i quali per mezzo di lui
credete in Dio che l’ha resuscitato dai morti».
1 Pietro 2:21-25
«Cristo ha patito per voi, lasciandovi un esempio, onde seguiate le sue orme; egli che non commise peccato e
nella cui bocca non fu trovata alcuna frode; che oltraggiato non rendeva gli oltraggi; che soffrendo non
minacciava, ma si rimetteva nella mani di colui che giudica giustamente, egli che ha portato egli stesso i nostri
peccati nel suo corpo, sul legno, affinché morti al peccato vivessimo per la giustizia, e mediante le cui lividure
siete stati sanati. Poiché eravate erranti come pecore; ma ora siete ritornati al Pastore e Vescovo delle anime
vostre».
1 Pietro 3:18
«Poiché anche Cristo ha sofferto una volta per i peccati, egli giusto per gli ingiusti, per condurci a Dio, essendo
stato messo a morte, quanto alla carne, ma vivificato quanto allo spirito».
1 Pietro 4:1
«Poiché dunque Cristo ha sofferto nella carne, anche voi armatevi di questo stesso pensiero, che, cioè, colui che
ha sofferto nella carne ha cessato dal peccato».
1 Giovanni 2:2
«Egli è la propiziazione dei nostri peccati e non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo».
1 Giovanni 3:8
«Chi commette il peccato e dal diavolo, perché il diavolo pecca dal principio. Per questo il Figlio di Dio è stato
manifestato: per distruggere le opere del diavolo».
La pazzia di Dio
117
CAPITOLO VI
1 Giovanni 3:16
«Egli ha dato la sua vita per noi; noi pure dobbiamo dare la nostra vita per i fratelli».
1 Giovanni 4:10
«Egli ha mandato il suo Figlio per essere la propiziazione per i nostri peccati».
Apocalisse 1:5
«A lui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati col suo sangue».
Apocalisse 5:9
«Tu sei degno di prendere il libro e d’aprirne i suggelli, perché sei stato immolato e hai comprato a Dio col tuo
sangue, gente d’ogni tribù e lingua e popolo e nazione».
Apocalisse 7:14
«... Egli mi disse: “Essi sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti e le hanno
imbiancate nel sangue dell’Agnello”».
Apocalisse 12:11
«Ma essi l’hanno vinto a cagione del sangue dell’Agnello e a cagione della parola della loro testimonianza...».
Apocalisse 13:8
«Dell’agnello che è stato immolato».
In questo capitolo analizziamo quelli che noi consideriamo i principali passi con i quali gli apostoli
presentano la salvezza offertaci da Dio in Cristo Gesù. Li vedremo negli vangeli sinottici, nelle lettere di Paolo,
nelle lettere cattoliche, per concludere con gli scritti di Giovanni.
VANGELI SINOTTICI
I vangeli dicono poco della nascita, un brano in Luca sull’adolescenza, silenzio sulla giovinezza e il
periodo del ministero è una tensione verso la passione che occupa in proporzione la parte maggiore del testo.
In diverse occasioni Gesù fa riferimento alla morte,1 ma tre ci sembrano i testi principali che
generalmente vengono citati con una motivazione sacrificale.
Matteo 20:28; Marco 10:45
«Il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire, e per dare la
vita sua come prezzo di riscatto per molti».
Questa dichiarazione del Maestro la troviamo alla conclusione della conversazione con la madre dei
fratelli Giacomo e Giovanni e presenta la natura del suo Regno: non dominio, ma servizio. Questo è anche lo
scopo della sua venuta. Gesù, essendo il modello perfetto del suo Regno e dello spirito che vi deve esistere,
cerca di sradicare dal cuore dei suoi discepoli il senso dell’autoritarismo, del dominio e del potere. Gesù ha
manifestato la sua volontà di servire e di non essere servito in ogni istante della sua vita. Ed è motivo di
scandalo quando, in occasione dell’ultima cena, si china davanti ai suoi discepoli e compie il gesto più umile,
riservato agli schiavi, a coloro cioè che non avevano né dignità né diritto alcuno. Lavando i loro piedi suscitò nei
suoi confronti perplessità: Giuda si scandalizzò, Pietro reagì. Fu in quell’occasione che Gesù disse: «Voi mi
chiamate Maestro e Signore; e dite bene perché lo sono... Io vi ho dato un esempio» Giovanni 13:13,15. Questa
signoria di Gesù porta fino alle estreme conseguenze un potere di servizio che raggiunge il punto culminante
nell’offerta della propria vita. “Dare”, termine scelto a proposito, che esprime l’idea di offrire un dono e spiega
l’espressione “riscatto per molti”. “Riscatto”2 in greco lutron, ha come significato “mezzo di liberazione”,
“mezzo di scioglimento”. «La parola riscatto (lutron) si trova assai frequentemente nella LXX (90 volte) e ha
per lo più Dio come soggetto. Essa significa (per 40 volte) “mettere in libertà” in qualità di go’el (redentore,
prossimo parente). Si sa che Dio era go’el del suo popolo. È usata (41 volte) nel senso “riscattare, liberare,
salvare”; o di “strappare” (5 volte), per esempio da un pericolo. In tutti questi casi, quando si tratta di Dio,
l’accezione etimologica di “liberare contro il pagamento di un riscatto (lutron)” è completamente assente».3
Questo mezzo di liberazione, la sua vita, Gesù l’ha data “per” molti. La preposizione greca è anti.
È questo testo di Matteo e di Marco l’unico brano del N.T. in cui si parla della morte di Gesù che
contiene la preposizione anti. Questa preposizione nel greco classico significa “al posto di”, ma nel greco
1
Matteo 9:15; Marco 2:19,20; Luca 5:34,35; 13:31-33; Matteo 20:22; Marco 10:38; Matteo 20:22; Marco 10:38; Matteo 21:33-46;
Marco 12:1-12; Luca 20:9-19; Marco 8:31; 9:31; 10:33,34 e parall.; Matteo 26:6-13; Marco 14:3-9; Giovanni 12:1-8; Giovanni 13:1-7;
Matteo 26:21-35, 47-56, 57-66; 27:46.
2
Sul significato di riscatto vedere quanto detto a tale proposito nel nostro cap. 3: Redenzione o riscatto.
3
PRAT Ferdinando S.J., La Teologia di S. Paolo, vol. 2, ed. S.E.I., Torino 1928, p. 204.
La pazzia di Dio
118
LA SALVEZZA NEL NUOVO TESTAMENTO
popolare del primo secolo ha valore anche: “a favore di” e il contesto di questo passo biblico avalla questo modo
di vedere. «Gli autori del N.T. non dicono mai che Gesù abbia subito una pena al nostro posto; l’anti (al posto
di) in alcuni testi biblici equivale alla preposizione uper (a favore di); confr, Matteo 17:27)».4
È anche vero che la preposizione uper a volte nel N.T. è utilizzata con il valore di anti5 e quindi si
potrebbe essere in dubbio sul significato preciso di questo nostro testo. Giacomo Biffi fa, però, notare che in
relazione alla morte di Gesù tutti i «testi neotestamentari, evitando accuratamente l’uso della preposizione anti,
sembrano consapevolmente risolvere l’ambiguità nel senso contrario alla sostituzione».6
Del resto l’idea di servizio è più in armonia con una vita data in favore dell’uomo, dalla quale questi può
trarre un profitto, piuttosto che da una vita data in vece sua. «La sua morte non fu affatto il castigo di un
innocente, sul quale sarebbero stati posti da Dio i peccati di tutti gli altri, ma va compresa alla luce della
concezione sacrificale del popolo d’Israele. Secondo questa concezione la vittima non sostituiva affatto
l’offerente, né tanto meno veniva punita al suo posto, ma, grazie alla solidarietà, rappresentava il mezzo7 per
ottenere da Dio il perdono della colpa. Del resto le pagine neotestamentarie parlano della morte di Cristo come
di qualcosa che egli affronta volontariamente (Giovanni 10:18; 11:9,10) e per amore (Giovanni 14:31; 15:13;
Romani 5:6; Galati 2:20; Efesi 5:2,25). La sua tragica fine non fu dunque per castigo (1 Pietro 3:18 “morì
giusto per gli ingiusti”) ma un atto di misericordia...».8
Che Gesù abbia dato la sua vita quale mezzo di liberazione a nostro favore e non al posto nostro, ci è
confermato dall’apostolo Paolo il quale, si può credere “intenzionalmente”, cambiò la proposizione anti citata da
Matteo e Marco: «dare la sua vita al posto/a favore di molti», in uper «ha dato se stesso in riscatto a favore di
tutti» 1 Timoteo 2:6. Lo stesso pensiero viene espresso in 1 Corinzi 15:39 e in Galati 1:4.
4
DACQUINO Pietro, Peccato originale e redenzione secondo la Bibbia, ed. ElleDiCi, Torino 1970, pp. 183,184.
BÙCHSEL F., anti, in Grande Lessico del N.T., vol. I, ed. Paideia, Brescia, col. 999,1000 riporta: anti «per lo più significa:
a) in luogo di (Romani 12:1; 1 Tessalonicesi 5:15; 1 Pietro 3:9);
b) in favore di = uper (Matteo 17:27);
c) a causa di = perciò (Efesi 5:31)».
5
LIDDELL Henry G. and SCOTT Robert, A Greek-English Lexicon, rev. ed. Oxford 1940; MOULTON James H. and MILLIGAN
George, The Vocabulary of the Greek New Testament, London 1952.
«È sbagliato invocare l’uso di uper al posto di anti per pretendere che, secondo s. Paolo, il Cristo non è morto al posto nostro, ma
solamente in nostro favore. Poiché uper può molto bene avere l’idea di sostituzione» BENOIT P., Revue Biblique, n. 55, 1948, p. 618, n. 3.
Riassumiamo quanto Médébielle, sostenitore della sostituzione vicaria, scrive a spiegazione della preposizione greca uper che
avrebbe valore di anti. «La preposizione uper, con il genitivo, si incontra 126 volte nel N.T. Paolo l’utilizza più di 80 volte, cioè due volte di
più di tutti gli altri autori del N. T. messi insieme. L’uso che ne fa è molto vario e percorre quasi tutte le gamme di accezioni possibili. Nel
più grande numero dei casi uper significa “per”, “in favore di”, “a profitto di”... È il significato maggiormente frequente nel N.T... Uper può
indicare la causa, il motivo che spinge ad agire. (Romani 15:9; 1 Corinzi 10:30; Romani 1:5; 2 Corinzi 12:10; 2 Tessalonicesi 1:5; Filippesi
1:29; 1 Corinzi 15:3.)... In qualche caso Paolo utilizza peri con il significato di uper (1 Tessalonicesi 5:10; 1 Corinzi 15:3). Se uper, nel caso
precedente perde molto della sua forza nativa, la ritrova intera in una terza classe di testi dove non significa soltanto “in favore di”, ma “al
posto di”: La prima nozione (in favore di) conduce logicamente alla seconda, poiché l’opera intrapresa nell’interesse di qualcuno è fatta
molto sovente nel suo nome e al suo posto. D’altronde l’idea di sostituzione può risultare dal senso locale: un oggetto situato al di sopra di un
altro gli serve naturalmente di riparo e di difesa, ricevendo al suo posto i colpi che lo vorrebbero raggiungere. Per questo motivo, il dominio
di uper confina con quello di anti. Non è completamente esatto dire, come lo si è fatto qualche volta, che anti significa letteralmente “al posto
di” e uper “in favore di”. In realtà, «in numerosi casi, chi agisce in favore dell’altro agisce al suo posto; il fatto della sostituzione dipende
dalla natura dell’azione, non dell’impiego di uper o di anti». L’uso conferma qui la teoria. Ci sono dei casi autentici in cui uper deve essere
tradotto “al posto di”. Così in Platone, Gorgias, p. 515; Tucidite, t. I, p. 141; Senofonte, Anabase, VII, IV, 9; Polibe, III, LXVII, 7. Da questo
punto di vista la tragedia di Alceste è particolarmente interessante da studiare, poiché tutto il dramma ruota attorno alla devozione d’Alceste
che si offre alla morte al posto del suo sposo; o, la sostituzione, fa notare Robertson (pp. 630-631), vi è espressa da uper nello stesso modo
che da unti. ... Filone, commentando il testo della legge, che proibisce di mettere i genitori a morte per i figli e i figli per i genitori, fa
alternare senza differenza apprezzabile uper e anti, per esempio: pateras uper uoion e goneis anti uion, eterois anti eteron e uper eteron
eterois (De spec. leg. III, Mangey. t. II, pp. 326,327; Cohn. t. V, n. 193-197). S. Ireneo stesso dà il medesimo significato alle due
preposizione quando scrive: «Il Signore ci ha riscattato con il suo proprio sangue, e ha dato la sua anima per le nostre anime (ten psuxen uper
tov emeteron psuxon) e isuo corpo per i nostri corpi (kai ten sarka ten eautou anti ton emeteron sarkon)» Ireneo, Contro le eresie, I.V. c. II.
Il linguaggio popolare dei papiri e degli ostraci si esprime sovente in forma simile. Molti contratti terminano con la formula: il tale non
sapendo scrivere, lo scriba, un tale ha scritto nel suo nome e al suo posto, uper autou. Conf. A. T. Robertson, The use of uper in business
documents in the papyri, in The exposition, VIII serie, t. VIII, pp. 321-327. ... Risulta da questa constatazione che uper può servire a
esprimere la sostituzione: “in sé, è così naturale che con anti” Robertson, Grammar..., p. 632. Non è quindi da escludere a priori questo
significato, per la sola ragione che l’autore impieghi uper al posto di anti o di pro. Ma, se non si è in diritto di scartare a priori, come vero o
falso il senso di uper, non si deve neppure introdurlo a priori e senza esaminare. Appartiene al contesto la decisione di dire ciò che è fatto
viene realizzato in vista, a favore dell’altro o se è fatto anche nel suo nome e al suo posto» Expiation, in Supplément Dictionnaire de la Bible,
c. 176-188.
Pensiamo, quindi, di poter affermare che quando una dichiarazione con la proposizione uper “in favore di” esprime, anche nel suo
contesto, un significato chiaro, non bisogna spiegarla con il significato di anti “al posto di”. Tutte le dichiarazioni del N.T. relative alla
morte di Gesù, tranne Matteo 20:28; Marco 10:45, volerle spiegare nella prospettiva della sostituzione vicaria significa accostarsi al testo
biblico con una tesi già confezionata in anticipo.
6
BIFFI Giacomo, Tu solo il Signore, ed. Piemme, Casale Monferrato 1987, p. 49.
7
Riteniamo sia più corretto il pensiero: il mezzo per testimoniare di accettare da Dio il perdono.
8
P. Dacquino, o.c., p. 184.
9
Osserva il teologo cattolico O. Kuss: «Queste parole sono l’espressione del convincimento, già comune prima di Paolo, che le
Scritture dell’A.T. hanno notizia della morte di Gesù per i nostri peccati; purtroppo, però, in questo contesto non si trova un cenno, sia pure
piccolissimo, ai passi precisi dell’A.T. a cui Paolo, e prima di lui, la comunità intendono rifarsi. Se in Romani 4:25 il riferimento a Isaia
53:12 (4,5,6) interessi anche il pensiero teologico, oltre alla forma, rimane, a voler essere precisi, incerto; ad ogni modo, quel che è sicuro è
che non si può parlare, qui, di una esplicita dimostrazione scritturale. Romani 15:3 propone Cristo quale esempio da seguire per la vita nella
La pazzia di Dio
119
CAPITOLO VI
Che nella dichiarazione di Gesù non ci sia l’idea del sacrificio espiatorio, sostitutivo, ma semplicemente
quella del sacrificio, cioè di chi si dona a favore di un altro, è confermato dal suo contesto. Al v. 22 Gesù dice
che deve bere un “calice” di sofferenza, allusione alla sua morte senza però suggerire l’idea che sia dato in
sostituzione a quella dei peccatori. I discepoli Giacomo e Giovanni berranno pure loro lo stesso calice di Gesù
(v. 23), non per espiare qualcosa per loro o per gli altri, ma perché essi stessi sono stati fedeli alla Parola di Dio e
hanno seguito il Maestro. Il calice è il medesimo perché la mèta è la stessa: la fedeltà ad ogni costo. Se Gesù
fosse una vittima espiatoria sostitutiva sulla quale si abbatte l’ira o il giudizio punitivo di Dio, per analogia e
fedeltà al testo si dovrebbe dire che la morte dei due discepoli ha lo stesso valore, perché anche loro come Gesù
sulla croce, non vedendo l’intervento liberatorio del Padre, hanno potuto dire: «Dio mio, Dio mio perché mi hai
abbandonato?!». Paolo nella sua lettera ai Colossesi 1:24 scriveva: «Io mi rallegro nelle mie sofferenze per voi;
e quel che manca alle afflizioni di Cristo lo compio nella mia carne a pro del corpo di lui che è la Chiesa». Se le
sofferenze di Gesù fossero il prezzo del riscatto, Paolo direbbe che a questo conteggio manca qualche cosa e
quindi è giustificata la sua offerta e quella di tutti i fedeli che attraverso i secoli hanno offerto le proprie
sofferenze a Dio affinché il Padre faccia grazia agli uomini. Ma non è questo il pensiero dell’apostolo. Coloro
che sono fedeli al Signore anche nella sofferenza, presentano la loro vita nel prolungamento di quella di Cristo,
non perché manchi qualcosa alla salvezza, ma perché la fedeltà comporta la sofferenza, come Gesù ce lo ha
dimostrato.
Se la morte di Gesù, rispetto a quella degli apostoli, salva è perché per mezzo di essa l’uomo non è solo
scosso emotivamente e psicologicamente, come può avvenire di fronte alla morte degli innocenti Giacomo e
Giovanni, ma perché l’uomo, riconoscendo in Gesù il Dio fatto uomo, comprende quanto grande e reale sia
l’amore di quel suo Dio che pur potendo evitare la morte non l’ha fatto, accettando l’incarnazione con tutte le
sue conseguenze e le sue limitazioni affinché l’umanità e l’universo non avessero dubbi sulla volontà divina di
essere solidale con le sue creature fino in fondo per aiutarle a ritrovare per sempre la strada dell’eternità.
Marco 8:3
«Poi cominciò ad insegnare loro che era necessario che il Figlio dell’uomo
soffrisse molte cose... e fosse ucciso e in capo a tre giorni resuscitasse».
Questa dichiarazione di Marco unita ad altre di Gesù riportate nel vangelo di Luca 24:44 e da Giovanni
3:14 sottolineano la necessità della morte di Gesù. In questi testi viene utilizzata l’espressione greca dei
“bisogna”, “è necessario”, che secondo alcuni studiosi: «Nei vangeli, dei è usato per indicare ovunque che ogni
atto di Gesù non veniva compiuto per caso, ma per l’adempimento della volontà divina; sia Matteo sia Giovanni,
come Luca, la considerano la necessaria attuazione della Scrittura: Matteo 26:54; Giovanni 20:9».10
Questo modo di attribuire a Dio la “necessità” della morte di Gesù non viene da tutti condivisa perché si
dovrebbe per conseguenza anche attribuirgli il “bisogna” - volontà - di aver predestinato il tradimento da parte di
Giuda (Atti 1:16). In questo caso Giuda avrebbe agito non più per libera determinazione, ma come un passivo
esecutore di giochi programmati al di fuori di lui e indipendenti da lui. Se così fosse avrebbe ragione Berto
Giuseppe nel suo romanzo: La gloria del 1990, quando scrive: «Io Giuda, da Te segnato come figlio di
perdizione, sono stato semplicemente strumento affinché si adempisse una Scrittura, cioè fosse fatta la
misteriosa volontà dell’Eterno ... una volta deciso che il punto d’arrivo fosse la gloria, non fui io a mancare…
Perfino Caifa stesso, che dando trenta denari sarebbe diventato partecipe d’una necessaria e universale
vicenda… Tutto risolto, per tutti e per sempre. Io solo dannato e maledetto per ciò, perché ciò divenisse. Lui lo
sapeva che la sua gloria sarebbe stata dovuta anche a quel che io pagavo in ignoranza e dannazione eterna… Ma
noi due sapevamo che non c’era possibilità di scontro, né di variazioni: dovevamo realizzare un evento già
scritto».11
In questa prospettiva si dovrebbe anche attribuire a Dio il progetto “necessità” del “bisogno” delle sette
che travagliano la Chiesa (1 Corinzi 11:19) e la programmazione dell’utilità degli scandali (Matteo 18:7). Ma
nessuno condividerebbe queste conclusioni, anche se nei testi di Atti e di Corinzi ci si esprime con dei.
comunità e, con un accostamento non chiaramente logico, adduce a prova il Salmo 69 (68):10b; anche qui va da sé che non si può parlare di
un’interpretazione della morte di Gesù fatta in base all’A.T.; lo stesso si dica a proposito di Galati 3:13, dove Paolo adatta il passo di
Deuteronomio 21:23 alla sua speciale problematica teologica» o.c., p. 229. Crediamo che non sia da sottovalutare Genesi 3:15.
10
AA.VV., Dizionario concetti Biblici del N.T., ed. Dehoniane, Bologna 1970, p. 1089.
«Dei 102 passi del N.T. nei quali ricorre dei o deon esti, 41 si contano nel corpus lucano... Conforme all’uso dei LXX, in Luca il dei
è anzitutto espressione del volere di Dio manifestato nella legge (Luca 11:42; 13:14; 22:7; Atti 15:5). È contro questo dei significato dalla
legge che Gesù entra in urto, dichiarando di seguire non la halaka dei rabbini, ma il dei del divino volere che lui conosce (Luca 13:16). Così
dei diviene espressione universale della volontà di Dio e la sentenza che da esso dipende viene facilmente ad esprimere una norma di vita
(Luca 15:32; 18:1; Atti 5:29; 20:35). La sua propria vita, attività e passione, in particolare, appare a Gesù nella luce del divino volere che si
riassume in un dei, quello della divina sovranità, che è presente fin dalla storia dell’infanzia (Luca 2:49), ne determina l’azione (Luca 4:43;
13:33; 19:5) e lo guida alla passione e morte e per essa alla gloria (Luca 9:22; 17:25; 24:7,26; Atti 1:16; 3:21; 17:3). Questo dei affonda le
proprie radici nella volontà di Dio espressa nella Scrittura, alla quale egli si adegua incondizionatamente (Luca 22:37; 24:44)»
GRUNDMANN W., dei, in Grande Lessico del N.T., vol. 2, ed. Paideia, Brescia 1966, col. 796,797.
11
BERTO Giuseppe, La gloria, ed. Oscar Mondadori 1990, pp. 159,164,168,176.
La pazzia di Dio
120
LA SALVEZZA NEL NUOVO TESTAMENTO
La morte di Gesù non è un “bisogno” stabilito dal Padre. La coerenza di Gesù col suo insegnamento, il
suo legame con il Padre lo avrebbero inevitabilmente portato alla morte. Essa è sì voluta da Dio, ma non nel
senso che Lui l’ha decisa (la volontà dell’Eterno è che le sue creature, il Figlio nel quale si compiace, vivano la
sua parola) ma nel contesto di peccato e di ribellione, quale è quello del pianeta terra, la morte diventa un
bisogno, una necessità, una conseguenza inevitabile se si vogliono vivere i valori dell’eternità. Gesù nel
realizzare la volontà di Dio deve morire, se non si vuole adeguare all’andazzo del mondo.
Non tutte le profezie di Dio, come abbiamo detto (ad esempio il tradimento di Giuda, il sorgere
dell’anticristo), sono l’espressione di un progetto divino. Se il Signore prevede e annuncia le azioni degli
uomini, gli avvenimenti e, quando questi realizzano, è detto che era necessario che le Scritture si adempissero,
ciò non significa che tali fatti avvengano perché realizzano un progetto Divino. Essi si compiono come
espressione della volontà dell’uomo, e Dio li ha previsti e la storia li ha confermati. La profezia è preconoscenza
di Dio non predeterminazione.
Così la morte di Gesù non è un incidente, è lui stesso, il Cristo, che la decide, accondiscendendo a che gli
uomini gliela diano.
La morte è una “necessità”, è un “bisogno” che deve essere soddisfatto perché Gesù ha deciso di vivere
senza compromesso con il male; di dimostrare che il peccato non è nella natura originale dell’uomo, ma è la
conseguenza di una scelta; di avere fede nel Padre anche nella valle dell’ombra della morte; di amarlo anche se
non riceve da Lui favori; di voler salvare gli uomini nell’amore del Padre, rifiutando i suggerimenti
dell’avversario.
Questa morte voluta ed eseguita dagli uomini, prevista e accettata dal Padre e da Lui rivelata, esprime
l’amore dell’Eterno e la sua volontà di salvezza, non può che essere presentata come l’elemento centrale,
indispensabile per la redenzione. Numerosi sono i testi che l’affermano in questa chiave di lettura: Atti 8:33;
3:18; 4:27,28; 17:2,3; 20:28; Romani 3:22-25; 5:6-10; 1:8; 8:31-34; 1 Corinzi 1:18,22-24; 5:7; 15:3,4; 2
Corinzi 5:14-21; Galati 3:13; Efesi 1:7; 2:4-8,13-16; 5:1,25; Filippesi 3:8-11; Colossesi 1:19-22; Tito 2:1114; Ebrei 2:9,14-18; 7:24-27; 9:9-14,22-28; 10:5-12,19-22; 1 Pietro 1:10,11,18-21; 2:21-24; 3:18; 1 Giovanni
2:1,2; 4:19; Apocalisse 1:5; 5:9; 7:14; 12:11; 13:8.
Se la salvezza avvenisse per un elemento da non porsi in relazione con la nostra risposta e l’accettazione
della grazia di Dio, che viene espressa nell’accettazione della morte da parte di Gesù, «il Cristo sarebbe morto
invano» Galati 2:21.
Luca 22:19,20; Marco 14:22-24; Matteo 26:26-28
«Nell’ultima cena Gesù avendo preso il pane, rese grazie e lo ruppe e lo diede loro
dicendo: Questo è il mio corpo il quale è dato per voi; fate questo in memoria di
me. Parimente ancora, dopo aver cenato, dette loro il calice dicendo: Questo calice
è il nuovo patto nel mio sangue, il quale è sparso per voi».
Gesù offre il corpo e il sangue “a favore” di molti. Questa idea è espressa dalla proposizione uper che
troviamo sia in Luca che in Marco. Matteo utilizza la preposizione peri che esprime l’idea che il sangue è dato
“a cagione”, “a causa di molti”, “a riguardo”, cioè a cura, a favore di molti. Pensiero comunque analogo al
precedente testo di Matteo 20:28. Il suo sacrificio è per molti che lo accettano.
Il sangue che è sparso, rappresentato dal vino della cena, nei quattro racconti (compreso quello di Paolo
in 1 Corinzi 11:24,25) è messo in relazione all’alleanza: «Questo è il mio sangue del patto», Matteo e Marco,
«questo è il nuovo patto nel mio sangue», Luca e Paolo. Il sangue dei sacrifici, nell’A.T., veniva messo in
relazione al patto (Genesi 15:17; Esodo 24:5-8). Gesù pronuncia le stesse parole di Mosè quando questi al Sinai
prese il sangue e ne asperse il popolo dicendo: «Ecco il sangue del patto che l’Eterno ha fatto con voi» Esodo
24:8. A queste parole Gesù aggiunge l’aggettivo “mio”. Questo sangue sparso a conferma dell’antico patto,
secondo il testo di Matteo e Marco, diventa simbolo della nuova alleanza, e secondo Luca e Paolo, realizza
quanto il profeta Ezechiele (16:60) e Geremia (31:31-33) avevano annunciato per il futuro, confermando il patto
fatto in precedenza e stabilendolo per l’eternità. È presentato come nuovo, perché la legge verrà scritta nei cuori
e non su tavole di pietra. Il sangue di Gesù Cristo, oltre ad esprimere l’idea di patto, manifesta anche il suo
perdono. Per questo motivo Matteo aggiunge: «Il quale è sparso per molti, per la remissione dei peccati».
Secondo i vangeli Gesù celebra la Pasqua con i discepoli alla vigilia di quella giudaica. Gesù muore nel
momento in cui nel santuario si sacrificava l’agnello pasquale. In questo contesto il sangue di Gesù appare come
quello del vero agnello liberatore e protettore.12
Matteo 26:39; Marco 14:36; Luca 22:17,20
12
Vedere in questo capitolo il nostro commento di Giovanni 1:29.
La pazzia di Dio
121
CAPITOLO VI
«Padre mio, se è possibile, passi oltre da me questo calice! Ma pure, non come
voglio io, ma come tu vuoi».
Johm Stott spiega questo testo del vangelo dicendo: «Il calice dal quale Gesù rifuggiva… non
simboleggiava il dolore fisico della flagello e della crocifissione, e neppure l’angoscia di essere disprezzato e
respinto persino dal suo popolo, ma piuttosto l’agonia spirituale di portare i peccati del mondo, in altre parole di
sopportare il giudizio divino che quei peccati meritavano. Che questa sia la corretta interpretazione è confermato
con forza dall’uso del termine dell’A.T., poiché sia nella letteratura sapienziale che nei profeti, la “coppa” del
Signore costituiva un simbolo ricorrente della sua ira. Di una persona malvagia si diceva: “beve egli stesso l’ira
dell’Onnipotente” Giobbe 21:20. Tramite Ezechiele, Iahvé avvertì Gerusalemme che avrebbe presto sofferto la
stessa sorte di Samaria, che era stata distrutta: “Tu berrai la coppia di tua sorella: coppa profonda ed ampia; sarai
esposta alle risa e alle beffe; la coppa è di gran capacità. Tu sarai riempita di ebrezza e di dolore: è la coppa della
desolazione e della devastazione, è la coppa di tua sorella Samaria. Tu la berrai, la vuoterai…» Ezechiele 23:3234. Non molto tempo dopo, questa profezia di giudizio si avverò, e in seguito i profeti cominciarono a
incoraggiare il popolo con promesse di restaurazione. Isaia (51:22) le intimò di svegliarsi e di alzarsi perché
Iahvé le avrebbe tolto di mano la coppa e non avrebbe più dovuta berla. La coppa dell’ira del Signore non era
data soltanto al suo popolo disubbidiente. Il Salmo 75 è una meditazione sul giudizio universale di Dio: “Il
Signore ha in mano una coppa di vino spumeggiante, pieno di mistura. Egli ne versa; certo tutti gli empi della
terra ne dovranno sorseggiare, ne berranno fino alla feccia” v. 8. Similmente fu detto a Geremia di prendere
dalla mano di Dio una coppa colma del vino della sua ira e di farla bere a tutte le nazioni a cui sarebbe stato
mandato. La stessa figura retorica ricorre nel libro dell’Apocalisse, dove i malvagi berranno “il vino dell’ira di
Dio versato puro nel calice della sua ira”, e il giudizio finale è descritto con l’azione del versare “sulla terra le
sette coppe dell’ira di Dio” Apocalisse 14:10; 16:1 e seg; 18:6.
Gesù conosceva bene queste metafore dell’Antico Testamento; dovette aver compreso che la coppa
offertagli conteneva il vino dell’ira di Dio destinata ai malvagi… Doveva identificarsi ai peccatori a tal punto da
prendere su di sé il giudizio spettante a loro? La sua anima pura rifuggiva da questo contatto con il peccato
umano. Egli indietreggiava con orrore all’esperienza di allontanamento dal Padre che il giudizio sul peccato
avrebbe comportato. … Il proposito amorevole di Dio era di salvare i peccatori e allo stesso tempo di soddisfare
la sua giustizia».13
Se è vero quanto riportato sull’allegoria della coppa nella Scrittura, è altrettanto vero che essa è anche
l’espressione dell’adorazione, per il profumo che vi era contenuto (Numeri 7:14; Apocalisse 5:8; Zaccaria
9:15), era un arredo del tempio (Numero 7:84), era simbolo di consolazione (Geremia 16:7); simbolo
dell’Eterno (Salmo 16:5) e della salvezza (Salmo 116:13).
La coppa più che esprimere la condanna del giudizio di Dio, aera nella circostanza del Getzemani, il
simbolo con il quale esprimere la volontà di essere fedeli al Padre, con le sofferenze che poteva comportare in
un mondo in rivolta. La volontà del Padre non era quella di esprimere la condanna del “giudizio divino che quei
peccati meritavano”, ma la volontà che Gesù sarebbe stato fedele al bene, all’amore ad ogni costo.
NEL LIBRO DEGLI ATTI DEGLI APOSTOLI
Atti 2:23,24
«Quest’uomo (Gesù) allorché vi fu dato nelle mani per il determinato consiglio e
per la prescienza di Dio, voi per mano d’iniqui, inchiodandolo sulla croce, lo
uccideste, ma Dio lo ha resuscitato».
Rinviamo il lettore a quanto abbiamo già scritto a pag. 121.
Atti 3:13-15,17,18
«L’Iddio dei nostri padri ha glorificato il suo Servitore Gesù, che voi metteste in
mano di Pilato e rinnegaste dinanzi a lui, mentre egli aveva giudicato di doverlo
liberare. Voi rinnegaste il Santo ed il Giusto e chiedeste che vi fosse consegnato un
omicida e uccideste il Principe della vita, che Dio ha resuscitato dai morti… Ed
ora, fratelli, io so che lo faceste per ignoranza, al pari dei vostri rettori. Ma quello
che Dio aveva preannunciato per bocca di tutti i profeti, cioè, che il suo Cristo
soffrirebbe, Egli l’ha adempiuto in questa maniera».
13
STOTT John, La croce di Cristo, Edizione GBU, 2001, p. 98-100.
La pazzia di Dio
122
LA SALVEZZA NEL NUOVO TESTAMENTO
In questo testo riteniamo che l’accento della causa dell’azione di chi ha commesso l’orrendo crimine al
Golgota sia espressa con le parole: «Io so che lo faceste per ignoranza». Questo pensiero ritorna altre volte in
questo scritto di Luca (Atti 13:27; 17:30) e nel suo vangelo, nelle parole di Gesù pronunciate sulla croce (Luca
23:34) e anche sotto la penna di Paolo (2 Corinzi 3:14-16; 1 Timoteo 1:13) e riteniamo che corrisponda alla
stesso pensiero dell’apostolo che scrive ai Corinzi: «Nessuno dei principati di questo mondo ha conosciuta (la
sapienza di Dio); perché se l’avessero conosciuta, non avrebbero crocifisso il Signore della gloria» 1 Corinzi
2:8.
Alla base dell’azione degli uomini, pur non togliendo nulla alla loro responsabilità, ci fu l’ignoranza,
la cecità del non capire, del non conoscere, del non sapere. La causa di tutto questo è data dal peccato la cui
espressione significa proprio sbagliare la mira.
Atti 4:27,28
«… contro al tuo santo Servitore Gesù… per far tutte le cose che la tua mano e il
tuo consiglio aveano innanzi determinato che avvenissero».
Queste parole pronunciate nella preghiera, a seguito della liberazione di Pietro e di Giovanni a causa
della guarigione dello zoppo alla porta bella di Gerusalemme, nel loro letteralismo attribuiscono alla “mano” di
Dio e al suo “consiglio” “determinato” nella notte dei tempi quanto compiuto da Pilato, Erode, membri del
sinedrio, popolo. Se così fosse quanto noi cerchiamo di dire con questo viene annullato.
Riteniamo, alla luce di quanto detto nei passi indicati sopra, sempre di questo libro degli Atti, che il Dio
della creazione non è stato preso di sorpresa dall’azione degli uomini; l’aveva vista prima, l’aveva accettata, non
è intervenuto nella storia per impedirla, per poter fare nella sua saggezza, sapienza, del male progettato e
realizzato dagli uomini uno strumento, un “consiglio” di salvezza.
NELLE LETTERE DI S. PAOLO
Romani 3:21-26
«(21) Ora, però, indipendentemente dalla legge è stata manifestata una giustizia di
Dio, attestata dalla legge e dai profeti: (22) vale a dire la giustizia di Dio mediante
la fede in Gesù Cristo, per tutti i credenti, poiché non v’è distinzione; (23) difatti,
tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, (24) e sono giustificati
gratuitamente per la sua grazia, mediante la redenzione che è in Cristo Gesù, (25) il
quale Iddio ha prestabilito come propiziazione mediante la fede nel sangue d’esso,
per dimostrare la sua giustizia, avendo Egli usato tolleranza verso i peccati
commessi in passato, al tempo della divina pazienza; (26) per dimostrare, dico, la
sua giustizia nel tempo presente; ond’Egli sia giusto e giustificante colui che ha la
fede in Gesù».
Gli studiosi di tutte le scuole sono unanimi nel riconoscere l’importanza di questo passo. «Queste poche
righe comprendono ciò che si può chiamare il riassunto della teologia paolina» scrive il Reuss.14
Mentre il Prat dice: «Questo passo è parso a qualche autore come il riassunto e l’idea madre della
teologia di s. Paolo. Ce ne sono veramente pochi che entrano così a vivo nella sua dottrina e che siano più ricchi
in insegnamento». «È la tesi principale della lettera», dice il Lagrange.15
Secondo Calvino «non c’è probabilmente un passo in tutta la Bibbia che esponga in maniera più
approfondita la giustizia di Dio in Cristo». Enrico Bosio scriveva: «È il modello della teologia,... il vangelo della
fede cristiana,... (il) breve sommario della sapienza divina in cui i pensieri più decisivi sono concentrati in poche
righe».16
Attorno all’idea centrale di questo brano gravitano le affermazioni sulla giustizia di Dio, sulla sua natura
e origine, sulla volontà del Padre che la dona, di Gesù Cristo che ne è il garante, sull’uomo che la riceve.
Essendo questo testo di fondamentale importanza per comprendere il pensiero paolino sul significato
della morte di Gesù, pensiamo sia utile analizzarlo in tutte le sue espressioni.
La giustizia di Dio mediante la fede è il tema di tutta la lettera ai Romani e questo insegnamento lo
troviamo già nelle prime righe: 1:16,17. L’apostolo per raggiungere il cuore del suo insegnamento percorre la
strada mediante la quale presenta ai suoi ascoltatori che non c’è un solo uomo giusto (3:10). Dimostrazione: i
pagani hanno trascurato la rivelazione di Dio trasmessa mediante la natura, hanno rappresentato la divinità con
14
15
16
REUSS, Les Épîtres Paulines, t. II, Paris 1878, p. 42.
LAGRANGE, L’Épître aux Romains, p. 103.
BOSIO Enrico, Commentario esegetico pratico del Nuovo Testamento - L’Epistola di S. Paolo ai Romani, Torre Pellice 1930, p. 46.
La pazzia di Dio
123
CAPITOLO VI
figure di animali (1:18-23) e hanno abbandonato anche la sua rivelazione espressa nella coscienza (2:12-16);
sono così «degni di morte» 1:32. I giudei sono ancora più colpevoli a causa del privilegio a loro accordato
nell’aver ricevuto gli oracoli di Dio (3:1). Essi hanno beffeggiato la legge di Dio (2:12-24). Il loro peccato è
stato quello di osservare le prescrizioni divine in forma legale, consolarsi nelle loro opere pie e non vedere la
realtà della loro situazione. La conseguenza di questa duplice dimostrazione (l’apostolo prende un pensiero già
espresso nell’A.T.) è che «Non v’è alcun giusto neppure uno. Non vi è alcuno che abbia intendimento, non c’è
alcuno che ricerchi Dio» 3:10,11; Salmo 14:1. Paolo conclude il suo ragionamento aggiungendo che la giustizia
dell’uomo non viene neppure dall’osservanza dei comandamenti di Dio (3:20), perché la fedeltà di oggi, qualora
ci fosse, non rimedia al peccato di ieri. L’osservanza della legge al di fuori dell’amore, cioè della grazia di Dio e
della fede in Dio, continua a essere peccato. La legge manifesta tra l’altro la discontinuità del rapporto uomoDio o nel migliore dei casi l’inizio di questa relazione. Essa mette, quindi, in risalto il peccato, ossia la
situazione di separazione dell’uomo da Dio. L’osservanza della legge non cambia la natura dell’uomo, non lo
guarisce dal suo peccato e, quindi, non lo può rendere giusto (3:21). Il fariseo che va al tempio, nella parabola di
Gesù, presenta al Signore le sue medaglie di fedeltà e Gesù dice che questi è ritornato a casa non giustificato;
non gli è contestata la veridicità della sua ubbidienza, ma la carenza di ciò che ha riconosciuto il pubblicano: il
bisogno della grazia (Luca 18:9-14). Per questo motivo l’apostolo Paolo dice che l’uomo per essere considerato
giusto, ha bisogno di qualcosa d’altro di un’osservanza della legge.
Riepilogando: «Dopo aver provato nei primi tre capitoli che giudei e pagani sono tutti sotto l’impero del
peccato, ugualmente incapaci con le loro sole forze - malgrado il soccorso della legge naturale o della legge
mosaica - di operare qualche bene soprannaturale e arrivare alla salvezza, l’apostolo mostra Dio che entra in
scena per tirare via l’uomo dalla sua miseria, ed espone in qualche riga tutto il piano della redenzione nel testo
considerato».17
Dopo aver dichiarato: «Il giusto vivrà per fede» 1:17, l’apostolo si accinge a dimostrare come la giustizia
di Dio venga acquisita dalla fede.
(v. 21). «Ora» si presenta la via proposta da Dio per fare dell’uomo un essere giusto. Questo avverbio
“ora” più che avere il senso temporale indicante il presente in contrapposizione con il passato, quando Cristo
non si era ancora manifestato, segna il contrasto di situazione. La nozione di tempo non esiste al v. 20 che
presenta l’importanza della legge. Ciò che Paolo vuole presentare non è nuovo, perché Abramo, Sara e Davide,
che menzionerà al capitolo 4, l’avevano già conosciuto. Ora, «indipendentemente» dalla giustizia che può
provenire dall’osservanza «della legge, è stata manifestata una giustizia di Dio». La giustizia di Dio è stata
«manifestata», «è stata resa visibile». Questo verbo è regolarmente impiegato a proposito dell’incarnazione per
indicare la sua realtà inconfutabile. Con esso Paolo vuole sottolineare la volontà concreta di Dio di far
conoscere, in modo indiscutibile e palese, come intende rendere giusta l’umanità.
Questa giustizia di Dio rivelata18 non è il risultato di un cambiamento avvenuto nell’Eterno a seguito di
qualcosa. Essa è una realtà che da sempre è in Lui. Scrive F. Varonne: «Dio la rivela “esponendola”, realizzando
apertamente nella storia gli effetti concreti di questa giustizia... La giustizia di Dio è rivelata quando l’uomo
diventa un “credente in Dio che ha risuscitato dai morti Gesù nostro Signore” 4:24. Sono due gli effetti tra di
loro incatenati che producono la giustizia e la rivelano: prima di tutto Gesù reso perfetto al termine della sua vita
di uomo; poi, alla luce di questo avvenimento, il primo “accesso” dell’uomo a questa perfezione, il suo primo
passo verso questa gloria, diventando credente, cioè: cessando di misconoscere Dio come una potenza ostile,
dandogli fiducia e riconoscendo che il suo giudizio è giusto, potente per il pieno compimento del suo
desiderio».19
«La giustizia di Dio», è la giustizia che è di Dio e proviene da Lui e rende l’uomo giusto. Essa è un dono
gratuito da parte sua e non il risultato delle opere dell’uomo che lo elevano alla giustizia di Dio. Questo stesso
pensiero è espresso in Filippesi 3:9: «Essere trovato in Lui avendo non una giustizia mia, derivante dalla legge,
ma quella che si ha mediante la fede in Cristo; la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede». Il contesto della
lettera ai Romani sottolinea che questa giustizia, sebbene non venga dalla fedeltà ai comandamenti, non contrasta con i principi di Dio, anzi li manifesta. L’osservanza della legge è la manifestazione della fede (3:31).
Paolo ha un sentimento molto vivo dell’armonia che c’è tra la rivelazione che ha preceduto l’incarnazione
da quelle che l’ha seguita. Egli intende mostrare che la giustizia di Dio ottenuta mediante la fede non è un
insegnamento nuovo, è già stata «attestata dalla legge e dai profeti». Dalla legge, cioè dal Pentateuco, dal quale
Paolo trae l’esempio di Abramo (4:1-5,9-25; 10:5-10); dagli scritti dei profeti cita Davide, Osea, Isaia, Elia (4:68; 9:23-25; 10:16-21; 11:1-10,26-36; ecc.). Queste due porzioni della Scrittura (legge e profeti) attestano che la
vera giustizia è quella che l’uomo riceve mediante la fede ed essa non è conquistabile per mezzo delle opere, lo
scopo delle quali è di dimostrarla. In altre parole l’apostolo asserisce che quanto insegna non è nuovo, ma è già
stato insegnato, conosciuto, vissuto e accettato nel passato.
17
P.A. Médébielle, o.c., col. 162.
«“È stata rivelata” (in greco, al perfetto, per dire che l’azione perdura tuttora)». KUSS Otto, La Lettera ai Romani, Morcelliana,
Brescia 1968, p. 157.
19
VARONNE François, Ce Dieu censé aimer la souffrance, éd. Cerf, Paris 1986, pp. 158,159.
18
La pazzia di Dio
124
LA SALVEZZA NEL NUOVO TESTAMENTO
(vv. 21,22). Il v. 21 presenta la vera giustizia che proviene da Dio ed è un suo dono. Il v. 22 ribadisce lo
stesso pensiero e lo completa: «La giustizia di Dio mediante la fede in Cristo Gesù».
(v. 22). Come il peccato è l’espressione di una volontà che vive separata da Dio, così la fede esprime una
realtà opposta: la volontà dell’uomo che vuole vivere unito a Dio, manifestandogli la sua completa fiducia. Non
è la fede in se stessa che salva, ma è essa che permette allo Spirito Santo di rigenerare il credente unito a Dio,
come il tralcio alla vite (Giovanni 15:1-5). Infatti come il tralcio riceve dalla vite la linfa, così la giustizia di Dio
raggiunge e alimenta tutti i credenti che sono innestati in Lui. È significativa la precisazione dell’apostolo. Egli
non dice «tutti gli uomini», come se la morte di Gesù fosse stata un regolamento di conti, ma «tutti i credenti»,
cioè tutti coloro che sono disposti a ricevere il dono da Dio. Come il mendicante che stende la sua mano vuota e,
proprio perché è vuota, è nella condizione di essere riempita, così è dell’uomo che prende coscienza della
propria nudità spirituale e si presenta a Dio ottenendo tutto da Lui. Egli è beato, dice Gesù, perché ha fame e sete
della giustizia che viene da Dio e ne sarà saziato (Matteo 5:8).
«Poiché non v’è distinzione - differenza» tra giudei e pagani, perché sia gli uni sia gli altri «sono sotto
peccato» v. 9 e come tali non hanno salvezza.
(v. 23). «Difatti, tutti hanno peccato», cioè tutti hanno fatto atto di peccato. Paolo non considera quante
volte si è peccato, non ha importanza. Il peccato è una realtà, uno stato che accomuna tutti e priva del titolo di
“giusti”. Dimostrazione: «sono privi della gloria di Dio». La gloria di Dio sono le perfezioni eterne che devono
essere riflesse nell’uomo creato a sua immagine e somiglianza. Per rendere meno astratto questo pensiero
ricordiamo che la parola “gloria” in ebraico kabod, in greco doksa, è ricca di significato. In ebraico ha valore di:
“essere pesante”, “essere grave”. Un individuo vale per quanto pesa, per quanto è stimato. Da qui il pensiero
corrente che una persona è onorata per il peso delle sue ricchezze. La pesantezza di Dio è nella sua trascendenza.
In greco la parola esprime il valore di “opinione”. L’uomo è privato della gloria di Dio perché egli non ha più la
giusta “opinione” sull’Eterno.20 In effetti il peccato ha tolto all’uomo la vera dimensione di Dio e come creatura
ha pensato di potere occupare il posto del Creatore, cercando la propria gloria. L’individuo, privato della gloria
di Dio, non sente più di essere un suo figlio e di goderlo come Padre. L’uomo non gioisce della bontà di Dio.
Dio è avvertito come un problema, come qualcuno che, anziché elevarlo, lo abbassa, lo condiziona. Re decaduto,
l’uomo è privato della sua corona. La conseguenza di questo deficit di giustizia e di gloria è annunciato al
versetto che segue. Non è la rovina; è la salvezza gratuita.21
(v. 24). «E sono giustificati gratuitamente per la sua grazia». Tutti si trovano nella stessa situazione di
morte e tutti possono partecipare allo stesso favore. La giustizia ha la sua origine nella gratuità della grazia di
Dio. La parola gratuità significa per “puro dono”, ed esclude ogni partecipazione di meriti umani e di
qualsivoglia diritto. La parola grazia indica la sorgente positiva di questo stato di giustizia. «La giustificazione
del peccatore è stato un atto della libera benevolenza divina che s’inclina spontaneamente verso l’uomo, per
conferirgli il suo favore. Non c’è nell’azione giustificante di Dio nessun obbligo e necessità cieca: c’è
l’espressione libera della compassione e dell’amore».22
Dalla sorgente Paolo passa al mezzo che ha operato questa liberazione e ha vinto la nostra resistenza nei
confronti di Dio: «mediante la redenzione che è in Cristo Gesù». La parola greca apolutroseos, redenzione,
come abbiamo già visto23, più che indicare il riscatto, risultato di un pagamento, indica la liberazione stessa. «La
proposizione en, “in”, nei LXX e nella koinè indica sovente il mezzo, lo strumento: la redenzione in Cristo Gesù
potrebbe significare la redenzione “operata dal Messia Gesù”. Ma la formula “in Cristo Gesù”, impiegata 164
volte da s. Paolo, si riferisce, nella maggioranza dei casi, alla... redenzione che si trova in Cristo Gesù, ed è
goduta da noi mediante la nostra unione con lui».24
(v. 25). «Il quale Dio ha prestabilito come propiziazione mediante la fede nel sangue d’esso». Il prof. G.
Stèveny ricorda che per i greci rappresentano la giustizia come una donna con gli occhi bendati che teneva in
mano una bilancia, bisognava agire in maniera diversa se il piatto della bilancia stessa scendeva a destra o a
sinistra. Gli ebrei a questa nozione astratta e giuridica ne contrapponevano un’altra: l’uomo forte, il parente
prossimo offre il suo braccio, il suo aiuto al parente debole per soccorrerlo. È in questa prospettiva che Dio
agisce. L’Eterno non è indifferente al peccato, ma opera per liberare il peccatore.
«Già nel v. 21 con le parole per la sua grazia» Paolo aveva fatto capire che l’iniziativa dell’opera della
redenzione appartiene alla carità divina. Questo pensiero lo mette in risalto ancora più chiaramente con
l’espressione: «che aveva destinato o stabilito prima». La salvezza del mondo non è stata strappata a Dio dalla
mediazione di Cristo. È Dio che è l’autore di questa opera. Lo stesso pensiero lo si ritrova in 2 Corinzi 5:18:
20
O. Kuss osserva: «Quanto alla gloria di Dio, essa è sostanzialmente un bene di ordine escatologico, riservato ai credenti; ci sono, è
vero, anche degli accenni che farebbero pensare alla possibilità di perderla con il peccato, e in base a questa possibilità far credere che si tratti
non di una realtà escatologica, ma di un bene presente. Ma l’interpretazione di tali passi è incerta, per cui gli autori sono divisi in due
correnti…. Forse, però, non si è lontani dal pensiero dell’apostolo se si fa la seguente parafrasi: “Tutti hanno peccato, e sono venuti così a
trovarsi in una condizione di incapacità a ricevere quella gloria che solo nell’avvenire sarà perfetta, ma che nei credenti è presente, in maniera
misteriosa, sin da adesso, secondo un insegnamento costante del N.T. (cfr. anche 2 Corinzi 3:18)» o.c., pp. 159,160.
21
F. Godet, o.c., t. I, pp. 349,350.
22
Idem.
23
Vedere cap. 3: Liberazione o riscatto.
24
P.A. Médébielle, o.c., col. 165.
La pazzia di Dio
125
CAPITOLO VI
«Tutto viene da Dio che ci ha riconciliati con sé per mezzo di Cristo Gesù», e in Giovanni 3:16: “Dio ha tanto
amato il mondo che ha dato il suo unigenito Figlio”. Questo punto non deve essere trascurato nell’idea che si fa
dell’espiazione».25
Il verbo proetheto è visto con un doppio significato. Il primo “prestabilito”, “destinato prima” presenta
l’idea che quanto Gesù ha compiuto per vincere la durezza del nostro cuore, faceva parte del piano stabilito in
anticipo da Dio e, come si legge nella prima lettera di Pietro: «Ben preordinato prima della fondazione del
mondo, ma manifestato negli ultimi tempi per noi» 1 Pietro 1:20; vedere Efesi 1:9. Il secondo: «mettere
davanti» agli uomini. In Galati 3:1 si esprime una idea analoga: «O Galati insensati, chi vi ha ammaliati, voi,
dinanzi agli occhi dei quali Gesù Cristo crocifisso è stato ritratto a vivo». Il P. Lagrange, pur preferendo l’idea
del «disegno formato in precedenza», aggiunge: «Ciò che segue indica che Dio ha deciso di fare di Gesù, agli
occhi di tutti, un ilasterion (propiziazione), di esporlo in questa qualità» e, quindi, è più conforme al secondo
significato. Possiamo però conciliare i due pensieri: il Dio dall’eternità ha previsto che Gesù fosse posto davanti
ai peccatori come colui che li avrebbe rigenerati.
La parola chiave di questo brano è ilasterion. Il verbo ilaskomai è impiegato due volte nel N.T.: Ebrei
2:17; Luca 18:13. Il sostantivo ilasmos, lo si incontra due volte: 1 Giovanni 2:2 e 4:10. Anche il termine
ilasterion appare due volte: nel nostro testo e in Ebrei 9:5. L’aggettivo lieos viene anche impiegato due volte,
nella forma attica in Matteo 16:22 e in Ebrei 8:12. O. Kuss osserva: «Che cosa Paolo intenda di preciso con
questo termine, è incerto».26 F. Godet scriveva: «Un folto numero di interpreti: Origene, Teofilasso, Erasmo,
Lutero, Calvino, Tholuk, Filippi, ecc. sono ricorsi al significato che ha nella LXX e in Ebrei 9:5, dove indica il
propiziatorio o coperchio dell’arca dell’alleanza... che nel grande giorno dell’espiazione il sommo sacerdote
ungeva con il sangue della vittima (Levitico 16:14 e seg.)27. È per questa ragione che sarebbe visto qui da Paolo
come il tipo di Cristo il cui sangue sparso copre il peccato del mondo. Noi non crediamo che questa
interpretazione sia ammissibile per le seguenti obiezioni: 1a se si tratta realmente qui di un oggetto determinato,
conosciuto e unico, come il coperchio dell’arca, l’articolo to non dovrebbe mancare; 2a l’epistola ai Romani non
è uno scritto che si muove come la lettera agli Ebrei nel simbolismo levitico; nulla nel testo prepara
l’applicazione di questo termine a un oggetto del culto israelitico; 3a Gess osserva con ragione che, se questo
argomento fosse stato familiare a s. Paolo, si dovrebbe ritrovarlo altrove nelle sue lettere, e se così non fosse,
l’espressione sarebbe stata incomprensibile per i suoi lettori; 4a da ogni punto di vista l’immagine sarebbe stata
estranea. Quale comparazione tra Cristo Gesù crocifisso con un mobile del tabernacolo, tanto più che come
osserva H. Oltramare, l’efficacia espiatoria non è mai rappresentata dal coperchio dell’arca, ma unicamente
dall’aspersione del sangue su questo coperchio? 5a che si dia al verbo proetheto il senso che si preferisce
(prestabilire prima o mettere davanti), l’immagine del propiziatorio non può convenire. Nel senso di esporre
pubblicamente, c’è contraddizione tra questa idea di pubblicità e il ruolo nascosto nel santuario; il sommo
sacerdote soltanto poteva contemplarlo, e questo una sola volta all’anno e solamente attraverso una nube di
fumo. Se si spiega il verbo nel senso di stabilire in anticipo, è ancora più impossibile applicare questa idea di un
disegno eterno, sia a un oggetto materiale, come il propiziatorio stesso, sia a una relazione tipica come Gesù
Cristo. Bisogna dunque intendere la parola ilasterion in un senso molto largo: mezzo di propiziazione».28
Diversi traducono con vittima espiatoria (o di propiziazione) considerando ilasterion come aggettivo del
sostantivo thum - vittima, non espresso da Paolo, ma da lui sottinteso. Si pensa che questo modo di vedere sia
confermato dalle parole che seguono: “nel sangue suo” che precisano il pensiero e mettono in risalto la nozione
di sacrificio. «L’idea del sacrificio, se non si trova nella stessa parola, risulta dall’espressione per mezzo del mio
sangue: infatti un mezzo di propiziazione nel quale c’entra il sangue, che altro è, se non un sacrificio?».29
Crediamo che il significato migliore di ilasterion, sostantivo neutro, sia “mezzo di propiziazione”, o come traduce il Luzzi - “propiziazione”; oppure “strumento di espiazione”, come riporta la Bibbia della C.E.I.30
25
F. Godet, o.c., p. 354.
O. Kuss, o.c., p. 208.
27
«Si può pensare che Paolo voglia dire che la vera espiazione, il compimento e la perfezione di ciò che Dio voleva significare con
l’espiazione dell’A.T., è Cristo Gesù. Come hanno compreso: Althaus, Gaugler, Kühl, Nygren. Schlatter… Il rapporto esistente tra Romani
3:25,26 da una parte e il rito espiatorio e il giorno dell’espiazione dall’altra, non è tanto chiaro da far pensare che Paolo intenda precisamente
sottolinearlo» Idem, pp. 210,211.
28
F. Godet, o.c., pp. 354-357. «Tuttavia una parte considerevole degli interpreti sta per un valore più ampio del termine greco, che
significherebbe insieme e “mezzo di espiazione”, e “espiazione”, e “sacrificio espiatorio”. Come pensano Gutjahr, Jülicher, Kürzinger,
Lagrange, Lietzmann, B. Weiss, Zahn.» O. Kuss, o.c., p. 211.
29
Godet; cit. da F. Prat, o.c., ed. 1945, p. 179.
30
Ad. Deissmann in uno studio decennale di ricerca e di riflessione presentato, nell’articolo, ormai datato, Ilasterion und Ilasterion
Eine lexikalische Studio, nel 1903, dimostra come questa parola nell’A.T. (Esodo 25:17-22; 26:34;30:8;31:7;35:12;37:6-9;39:35;40:20;
Levitico 16:12-15; Numeri 7:39; 1 Re 28:11) indichi la placca d’oro rettangolare posta sull’arca e che porta i due cherubini d’oro tra le ali dei
quali dimora Yahvé. Dal momento che questo arredo compie l’ufficio di coperchio si è concluso che kapporet voglia dire coperchio. Ciò
significa andare troppo in fretta. Ci si può servire di un disco per coprire un vaso, senza che il disco significhi coperchio; la patena che copre
il calice nella Messa è una patena e questa non vuol dire coperchio, anche se ne fa la funzione (gli esempi si possono moltiplicare). Kapporet
è un nome d’agente che deriva dalla forma verbale del piel e conserva il senso che ha sempre il piel in ebraico, soprattutto nel codice
levitico: “chi espia”. Questo nome esprime l’ufficio importante che il kapporet compie nel grande giorno dell’espiazione e sul quale l’Esodo
e il Levitico si dilungano. Kapporet sarebbe un abbreviazione dell’espressione ebraica: “oggetto che serve all’espiazione”. In questo senso
l’hanno compreso i LXX i quali fin dalla prima volta che incontrarono il termine kapporet (Esodo 25:11) l’hanno sempre tradotto: ilasterion
26
La pazzia di Dio
126
LA SALVEZZA NEL NUOVO TESTAMENTO
Crediamo di potere tradurre il pensiero di Paolo in questi termini: «Il quale Iddio ha prestabilito/messo
innanzi come purificatore mediante la fede nel suo sangue».
Questo strumento di espiazione, diversamente dai sacrifici pagani, non ha lo scopo di cambiare i
sentimenti di Dio nei confronti degli uomini affinché li guardi in modo favorevole. Dio non ha mai cessato di
amare la sua creatura anche peccatrice. È l’uomo che, allontanandosi da Lui, non lo riconosce più come suo
bene (Isaia 1:2-4). Questo mezzo di propiziazione, di purificazione serve all’uomo affinché possa ritornare a
Dio in una perfetta armonia di volontà.
Il peccatore, dopo aver compreso l’amore di Dio, dimostrato dall’incarnazione fino all’agonia della croce,
sente la gravità della sua malattia, lo squilibrio della sua natura e la contaminazione del suo peccato.
Nell’avvicinarsi a Dio avverte la profondità della lebbra della sua corruzione: sente il bisogno di essere
mondato. Questa certezza di guarigione Dio gliela offre in Gesù quale ilasterion, mezzo di purificazione,
purificatore. Come abbiamo visto nel nostro cap. 3 “espiazione” il verbo ebraico kipper, dal quale viene il
sostantivo kapporet, coperchio, significa: purificazione, assolvimento, cancellazione, perdono.31
Il pubblicano nel tempio prega: «O Dio sii placato verso di me» Luca 18:13. Il verbo tradotto con “sii
placato” è in greco ilastheti, da ilaskomai dal sostantivo ilasterion e significa “purificami”, “assolvimi”. E Gesù
aggiunge: «Scese a casa sua giustificato», cioè reso giusto, purificato, (v. 14).
Questa determinazione di Dio di purificare, perdonare tutti gli uomini, diventa soggettivamente valida
«mediante la fede nel suo sangue». Avere fede nel sangue di Gesù Cristo significa accettare tutto quanto Egli ha
compiuto per la nostra liberazione dal male (1 Pietro 1:18,19) e desidera ancora compiere nei nostri confronti
(Ebrei 9:14), significa morire alla nostra ribellione nei confronti del Padre e nascere a nuova vita, volontà che si
manifesta con il battesimo (Romani 6:2-11).
«Per dimostrare la sua giustizia». Paolo parla di “dimostrazione” e mai di “soddisfazione”, come se la
morte di Gesù avesse finalmente pagato un debito che l’umanità aveva contratto con la divinità. Non si tratta
della giustizia di Dio che è soddisfatta perché finalmente l’ordine è ritornato nell’universo e soprattutto in Dio,
in quanto l’offesa di lesa maestà è stata cancellata dal sacrificio di un innocente che ha preso il posto dell’uomo
peccatore. Il supplizio meritato da ogni peccatore è stato subito da Gesù? No, Dio dimostra la sua giustizia non
colpendo l’innocente al posto del colpevole, ma facendo vedere come la giustizia riprende a vivere nel cuore
dell’uomo che accetta il suo amore. L’uomo da solo non riusciva, anche mediante l’osservanza dei
comandamenti, a presentarsi giusto davanti a Dio. Ma ora, come nel passato, mediante l’accettazione della
grazia, nell’unione con Cristo, la giustizia che viene da Dio può manifestarsi nella sua vita, come il frutto del
tralcio che viene alimentato dalla linfa della vite. La morte di Gesù dimostra anche la giustizia di Dio perché
manifesta fin dove arriva la sua bontà, la sua fedeltà, il suo amore per noi. Dio mediante Gesù sulla croce
dimostra la sua giustizia, il suo essere il Santo d’Israele che pur nel dolore, nella morte, nell’apparente
separazione da Dio non è vinto, sopraffatto dal peccato. La giustizia può essere vinta dal male, ma non si
confonde con essa. È perché Gesù ha amato e ubbidito fino alla fine che noi in lui siamo resi capaci di amare e
obbedire come lui.
«Avendo Egli usato tolleranza verso i peccati commessi in passato, al tempo della sua divina pazienza».
“Tolleranza”, paresis in greco, è un hapax nel N.T., cioè lo si trova una sola volta, indica la “pazienza” che Dio
ha avuto nel non punire il peccato, come se non ne tenesse conto. Questa dichiarazione dell’apostolo è
generalmente spiegata nell’ottica della sostituzione penale in questi termini: l’Eterno tollerava, sopportava i
peccati con pazienza, ma a un certo punto «Dio ha giudicato necessario, in ragione dell’impunità di cui godeva
da molto tempo questa umanità che si agitava sulla terra, di dimostrare infine la sua giustizia con un atto
eclatante; e l’ha fatto realizzando nella morte di Gesù Cristo il supplizio che avrebbe meritato di subire ogni
peccatore».32
epithema, cioè: ilasterion “che opera propiziazione”; corrisponde a kapporet ed epithema (keil) indicante la forma di questo “strumento di
propiziazione”. La prova che i LXX traducendo kapporet per ilasterion non pensavano per nulla al coperchio è data dal fatto che essi
rendono anche con ilasterion la parola ebraica di Ezechiele 43:14,17,20; 45:19 che viene tradotta con “orlo” o “quadrato” dell’altare che,
anche se non rassomiglia a un coperchio, serve, come il kapporet, all’espiazione. Dunque conclude Deissmann, Kapporet non significa né
coperchio, né coperchio che serve all’espiazione, ma propriamente e unicamente “strumento di espiazione”, in una parola: “propiziatorio”»
cit. da P.A. Médébielle, o.c., pp. 77,78.
C.E.B. Cranfield, la cui opera viene considerata come il più importante commentario a questa lettera di Paolo attualmente
disponibile, dopo aver criticato che ilasterion sia messo in relazione con il coperchio dell’arca scrive che Paolo voleva dire: «Dio ha voluto
che il Cristo fosse un sacrificio propiziatorio per significare che Dio – poiché nella sua misericordia intendeva perdonare gli uomini peccatori
e, essendo veramente misericordioso, voleva perdonarli correttamente, cioè, senza passare sopra in alcun modo ai loro peccati – si è proposto
di dirigere proprio contro il suo stesso essere, nella persona del Figlio il peso totale di quella giusta collera che essi avevano meritato» La
Lettera di Paolo ai Romani - capitoli 1-8, ed. Claudiana, Torino 1998, pp. 101,102.
31
«Numerosi commentatori pensano che nel nostro testo Paolo compari semplicemente Cristo Gesù al propiziatorio della Bibbia
ebraica, volendo dire questo: come il sopra dell’arca era, nel giorno annuale delle espiazioni, asperso di sangue, indicando in questo modo
l’azione di cancellazione dei peccati d’Israele, così il Cristo cancella gli sbagli degli uomini che credono nel suo nome. La TOB si schiera da
questa parte… Chouraqui nella sua versione ha forgiato una parola per rendere ciò che egli stima essere l’idea essenziale della parola
originale (Kapporet in ebraico): «Egli (Dio) l’ha stabilito (Gesù Cristo) assolvitore per mostrare la giustizia. Chouraqui vede nel kapporet il
segno dell’assoluzione, della remissione dei peccati del popolo» POUBLAN Gerard, Vocaboulaire biblique et traduction, in Revue
Adventiste, mars 1980, p. 6.
32
F. Godet, o.c., p. 354.
La pazzia di Dio
127
CAPITOLO VI
È guardando a quanto si sarebbe compiuto al Golgota che il Padre “sopporta”, tiene in sospeso la sua
punizione. Ma in questa prospettiva: «il tempo della divina pazienza» diventa di fatto il tempo dell’impazienza
di Dio, che attende la morte dell’innocente.33 Con la parabola dei cattivi vignaioli Gesù spiega il perché della sua
morte. Non dice che il Padre lo mandò a morire perché era giunto il tempo di punire nel figlio le mancanze degli
operai, ma perché credeva che gli operai vedendo suo figlio, gli avrebbero portato rispetto (Luca 20:13). Lo
stesso pensiero che Paolo formula in questa lettera lo ha presentato ad Atene davanti ai filosofi nel santuario
della cultura del tempo: «Iddio dunque, passando sopra ai tempi dell’ignoranza, fa ora annunciare agli uomini
che tutti, per ogni dove, abbiano a ravvedersi» Atti 17:30. In 1 Corinzi 2:8 scrive che la morte del Cristo è stata
causata dal fatto «che nessuno dei prìncipi di questo mondo ha conosciuto (la sapienza di Dio); perché, se
l’avessero conosciuta, non avrebbero crocifisso il Signore della gloria».
«Il tempo della pazienza divina» è il tempo nel quale l’umanità è immersa nell’“ignoranza”, e Dio, nella
sua misericordia, non ha voluto prendere in considerazione questa non conoscenza per giudicarla e punirla, ma è
“passato sopra”, sopportando che le nazioni camminassero nelle loro vie (Atti 14:18).
Dio non dimostra la sua giustizia facendo morire il giusto al posto del peccatore, ma ha dimostrato la sua
giustizia nell’insegnamento del sermone sul monte, nell’opera, nella persona di Gesù Cristo. La giustizia di Dio
è stata manifestata nella vita di Cristo Gesù che ha vissuto la santità di Dio su questa terra. Che ha continuato ad
amare gli uomini e il Padre, pur essendo appeso alla croce. Davanti alla croce l’uomo vede l’amore di Dio e la
malvagità dell’umanità. Non ci può essere più nessuna riserva in questo senso.
(v. 26). «Per dimostrare, dico, la sua giustizia, nel tempo presente». Generalmente questa dichiarazione,
come la precedente, è intesa nel senso che Dio dimostra la sua giustizia punendo i peccati dell’umanità nella
persona di Gesù. Ma c’è chi dissente. L’apostolo riprende il pensiero interrotto e ribadendo il suo insegnamento
“dimostra” la giustizia di Dio nel tempo presente. Paolo, purificato da Gesù e avendo con lui stabilito un nuovo
legame, può dire: «Non sono più io che vivo, ma è Cristo Gesù che vive in me; e la vita che vivo nella carne, la
vivo nella fede del Figlio di Dio» Galati 2:20. In questo rapporto i credenti non possono che crescere e maturare
e giungere così allo stato di uomini fatti, all’altezza della statura perfetta di Cristo» Ebrei 4:13. Questa crescita è
la conseguenza del patto, rinnovato da Cristo Gesù, il quale consiste nell’accettazione da parte degli uomini che
Dio ritorni ad abitare in loro. L’uomo, rientrato nella casa paterna, vede i princìpi che regolano i rapporti
Creatore-creatura, creatura-Creatore come manifestazioni della grazia di Dio e sono per lui motivo di lode. Dio
dimostra la sua giustizia perché l’uomo, che ha accettato quanto Dio gli ha offerto, cresce e si sviluppa in
armonia con la legge scritta nella mente e nel cuore (Ebrei 8:10; 10:16). Mediante vite rigenerate Dio può
«dimostrare nel tempo presente la sua giustizia» vivente in loro.
«Onde Egli sia giusto e giustificante colui che ha fede in Gesù». Era un gran problema, degno della
sapienza divina, quello che l’uomo aveva posto a Dio, con la caduta nel peccato. Se Dio avesse pensato
solamente di punire il peccatore, dov’era la sua grazia? Egli era giusto, ma non giustificante. Se al contrario, Dio
si fosse accontentato soltanto di fargli grazia perdonandolo e basta, dove era la sua giustizia? Sarebbe stato un
Dio perdonatore, ma non giusto. Che ha fatto Dio? Ha presentato alla fede del peccatore colui che lo può
guarire. Difatti, la grazia che Dio manifesta alla croce non è per nulla un regolamento di conti tra il cielo e la
terra a seguito del quale l’uomo avrebbe potuto trarre profitto manifestando un po’ di gratitudine. L’accettazione
della grazia mediante la fede, non è una semplice adesione intellettuale o un orecchiare passivo che lo porta a
beneficiare di una giustificazione magica. La fede è l’espressione di una trasformazione di natura che è avvenuta
nel cuore dell’uomo, guarendolo dalla sua ribellione. È per questo motivo che alla domanda fatta a Gesù: «“Che
dobbiamo fare per effettuare le opere di Dio?” Gesù rispose: “Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che
Egli ha mandato”» Giovanni 6:28,29.
Dio è pienamente “giusto” quando può “giustificare”, cioè condividere la sua giustizia con un uomo che
la realizza perfettamente: Gesù. Poi per mezzo suo, il risorto, la condivide con tutti coloro che credono e hanno
una fiducia (come il Cristo) nel Dio che risusciterà gli uomini come ha risuscitato Gesù.
Una certa teologia, diventata tradizionale, ha spiegato l’opera compiuta da Cristo Gesù come mezzo di
riconciliazione dei due attributi divini: amore e giustizia, in antitesi tra di loro a causa del peccato dell’uomo.34
Ma la Sacra Scrittura non insegna nulla di tutto questo. A conclusione del ragionamento dell’apostolo, Dio, nel
giustificare l’uomo mediante la fede in Cristo Gesù, è contemporaneamente “giusto e giustificante”. La parola
“giusto” si riferisce alla maniera di essere di Dio; giusto nella sua condotta, giusto nella sua essenza; la parola
“giustificante”, Paolo l’avrebbe potuta sostituire con “misericordioso”, ma è solo con il termine usato che fa
esattamente comprendere che anche la grazia agisce, è presente nella giustizia e non è in antitesi con essa, bensì
ne è la manifestazione.
Il verbo giustificare ha due significati di base: senso giuridico o forense: “dichiarare giusto”; e senso
morale: “rendere giusto moralmente per infusione di giustizia”. Questi due aspetti si completano e indicano ciò
che avviene per il credente. Accettando Cristo Gesù, Dio lo dichiara giusto perché vede in lui, nel presente, la
realtà futura. Questi avendo accettato il seme dell’amore di Dio, non potrà che manifestare domani la sua spiga
33
«Mediante la morte sanguinosa di Gesù Dio volle manifestare la sua “giustizia”, e lo volle fare nel tempo presente, che è il momento
della croce e segna insieme la fine del periodo della “pazienza”» O. Kuss, o.c., p. 213.
34
Vedere cap. IV: Teoria della soddisfazione e dei meriti
La pazzia di Dio
128
LA SALVEZZA NEL NUOVO TESTAMENTO
matura, piena: la giustizia di Dio vissuta in lui. Tale unione con Cristo fa dell’uomo un giustificato. Attraverso la
fede Gesù compie in lui una metamorfosi, la quale esprime il bisogno di vivere secondo i principi del Regno di
Dio; così che l’osservanza dei comandamenti non è una costrizione, ma il risultato della liberazione o guarigione
che Gesù ha compiuto. Questa osservanza della legge non è perciò vissuta nella paura, ma nello stato gioioso di
figlioli di Dio, in una libera relazione d’amore con Lui.
La salvezza non è un espediente per soddisfare gli attributi divini, ma l’unione dell’uomo con il Dio
giusto. In questo senso possiamo dire: la giustizia di Dio è soddisfatta perché il credente in Cristo Gesù vive la
sua legge, che non è in antitesi con la sua grazia, ma una sua espressione. Questo pensiero Paolo lo conferma al
v. 31 dove dice: «Annulliamo noi dunque la legge mediante la fede? Così non sia; anzi, stabiliamo la legge».
Generalmente la teologia della croce fonda la salvezza su una falsa comprensione della grazia. La si
spiega dicendo che la fede nel dono della grazia di Dio libera l’uomo dall’osservanza della legge. Questo
pensiero teologico è il trionfo dell’avversario che nel nome di Dio riesce a fare rifiutare all’uomo il dono della
grazia espressa nella legge. Il sacrificio della croce non è qui per dispensare il credente dall’osservanza dei
comandamenti; è l’incredulo che si sente già dispensato. La legge vissuta da Gesù continua a essere vissuta dal
convertito che cresce in lui, come il tralcio sulla vite. Così la giustizia richiesta dalla legge è realizzata da colui
che vive in Gesù, o meglio nel quale Cristo vive. Gesù è venuto a liberare l’uomo «dalla legge (non intesa come
comandamenti di Dio, ma dalla legge del peccato, che esprime istintivamente la natura decaduta dell’uomo),
affinché il comandamento della legge (di Dio) fosse adempiuto (vissuto, realizzato) in noi, che camminiamo non
secondo la carne (espressione che indica l’uomo degenerato con le sue passioni che manifesta la legge del
peccato iscritta nella natura dell’uomo), ma secondo lo spirito (mediante il nuovo legame che si è venuto a
creare con Dio)» Romani 8:2,4.
Romani 5:6,8-11
«Perché mentre eravamo ancora senza forza, Cristo, a suo tempo è morto per gli
empi… Ma Dio mostra la grandezza del proprio amore per noi, in quanto che,
mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. Tanto più adesso,
essendo ora giustificati per il suo sangue, saremo per mezzo di lui salvati dall’ira.
Perché se mentre eravamo nemici siamo stati riconciliati con Dio mediante la morte
del suo Figlio, tanto più ora, essendo riconciliati, saremo salvati mediante la sua
vita. E non soltanto questo, ma anche ci gloriamo in Dio per mezzo del nostro
Signore Gesù Cristo, per il quale abbiamo ora ottenuto la riconciliazione».
Ogni qualvolta leggiamo questo testo, per l’educazione avuta e a causa di alcune espressione legali:
giustificati, riconciliati e parole come “sangue, ira, morte”, è istintivo pensare alla morte di Gesù in chiave
vicaria. Soffermandoci però a considerare le varie affermazioni di Paolo, questo pensiero scompare. Vediamo da
vicino quanto l’apostolo scrive.
A causa della mancanza di forza, di vita degli uomini, Gesù è morto in loro favore. L’espressione in
“favore” nostro, greco uper, e non al “posto” nostro -, è avvallata dal fatto che la morte di Gesù esprime amore,
protezione nei nostri confronti. Il contesto, come in altre occasioni,35 non permette la traduzione di uper con il
significato di sostituzione espresso dalla preposizione anti “al posto di”. Con l’espressione “in nostro favore”
l’apostolo vuole dimostrare che l’amore di Dio per noi è immenso, ed è esploso in una forma che non la si
poteva immaginare: Gesù è morto per degli empi.
Il concetto che Gesù sia morto al posto degli empi, più che mettere in risalto l’amore di Dio, pone l’accento
sulla pseudogiustizia di Dio con la quale punisce l’innocente al posto del colpevole. Di fatto Gesù ha amato gli
empi fino al punto di morire per loro affinché cessino la loro ribellione nei confronti di Dio.36
Il versetto 8 ribadisce il concetto che il sacrificio, la morte di Gesù, è la conseguenza dell’amore
personale di Dio per noi. Paolo utilizza il verbo al presente perché, anche se il sacrificio è stato compiuto nel
passato, l’amore non cessa di brillare e di mostrarsi. Il testo mette in risalto il “come” Dio ama. Solo Dio ha
potuto inventare quello che Gesù ha fatto, non morire per un giusto, ma per degli empi.37
Al v. 9 Paolo riprende quanto ha già espresso ai vv. 1 e 2: l’essere resi giusti. Pur non menzionando la
risposta dell’uomo alla grazia di Dio, la fede, ne presenta però la conseguenza: l’essere salvati dall’ira. Questa
salvezza dal giudizio è la conseguenza del fatto che i credenti sono stati fatti giusti «perché» l’amore di Dio ha
fatto degli uomini che gli erano nemici, dei riconciliati, dei salvati. Il versetto 10 è «una ripetizione rinforzata del
v. 9» scriveva F. Godet.
35
Romani 14:15; 2 Corinzi 5:15; 1 Tessalonicesi 5:10: cfr. Romani 8:32; 1 Corinzi 1:13; Efesi 5:2; Galati 3:13; 1 Timoteo 2:6; Tito
2:14.
36
OLTRAMARE Hugues, Commentaire sur l’Épître aux Romains, t. I, éd. Cherbuliez & C., Genève, Fischbacher, Paris 1881, pp.
399,400.
37
Idem, pp. 401,402.
La pazzia di Dio
129
CAPITOLO VI
L’espressione «nemici di Dio», ricorda H. Oltramare, è stata considerata dai commentatori e dai
dogmatici in due modi: nella forma attiva “nemici di Dio” e nella forma passiva “odiati da Dio”. Meyer,
condividendo quest’ultimo significato, pretende che la morte di Cristo non annienti l’inimicizia degli uomini nei
confronti di Dio, ma l’inimicizia di Dio verso gli uomini, perché essa ha per effetto di farli graziare da Dio: è
solamente allora che si produce la cessazione dell’inimicizia degli uomini nei confronti di Dio, come
conseguenza morale causata dalla fede. Mai, nel nostro paragrafo, Paolo ha considerato la morte di Gesù come
annientante “l’inimicizia di Dio”, ponendo così in Dio l’odio per spiegare il sacrificio e la morte del Cristo. Al
contrario, l’apostolo, ha presentato la morte di Cristo come essendo la prova dell’immenso amore di Dio per i
peccatori, ponendo questo amore alla base del sacrificio. Ripetiamolo ancora: Paolo presenta la morte di Gesù
come l’espressione dell’amore di Dio e non come la conseguenza della sua giustizia. Precisa H. Oltramare: «È
evidente che questo amore (di Dio), di cui la morte di Gesù è l’eclatante testimonianza, è precisamente ciò che
tocca il cuore dei peccatori e fa cessare la loro inimicizia nei confronti di Dio provocando il loro cuore alla fede
in Cristo: “Noi l’amiamo, perché lui ci ha amati per primo”».38 Solamente il senso attivo può essere preso in
considerazione nel nostro testo. È contrario al testo, conclude H. Oltramare, mettere l’accento sull’inimicizia,
l’odio, di Dio per i peccatori come ragione di base della morte di Gesù. «Il peccatore, l’uomo nemico di Dio, si
sente attirato a Dio da questo amore, e se cede a questa attrazione e risponde mediante la fede in Cristo Gesù,
questa fede, che è in se fiducia del cuore, il germe dell’amore. È la mano con la quale l’uomo coglie la mano
della riconciliazione che Dio gli tende, la pace che gli offre. L’unione, l’armonia, l’amicizia, sono ristabiliti là
dove c’era prima disunione, opposizione, inimicizia: si sono riconciliati; il peccatore è in pace con Dio (v. 1). La
formula “mediante la morte del suo Figlio” giustifica bene questa nostra interpretazione. Cristo è l’intermediario
mediante il quale questa pace si opera, in tanto che rivela agli uomini l’immensità dell’amore di Dio, e tutto
quello che questo amore ha fatto per loro. Una volta che l’amore di Dio si è mostrato con una certa chiarezza da
fare dei nemici di Dio, degli amici, “con maggior ragione, essendo riconciliati, diventati degli amici di Dio,
saremo salvati” (v. 9), cioè, otterremo la salvezza, la felicità eterna che è la seconda parte del beneficio cristiano,
il complemento finale della prima (che è l’amicizia con Dio)».39
L’essere «salvati mediante la sua vita». Per “vita” di Gesù non si deve intendere quella terrena, ma quella
gloriosa in cielo che è il coronamento di quanto compiuto al Golgota. Gesù in cielo ci assicura la vita, dice Paolo
più avanti nella sua lettera (8:17,34). Il ministero sacerdotale di Cristo in favore degli uomini fa del credente
giustificato un credente santificato.
Concludiamo con il pensiero di H. Oltramare che scrive che «quando ci si domanda cosa Gesù sia venuto
a fare, in altre parole quale sia lo scopo della sua venuta e della sua opera, l’immensa maggioranza dei teologi
cattolici e riformati, si rifanno più o meno alla teoria di Anselmo, rispondendo “è venuto a riconciliare Dio con
gli uomini e salvarli”. Partono, per spiegare l’opera della nostra Redenzione, dall’inimicizia di Dio verso gli
uomini peccatori: Dio li odia (“essendo odiati da Dio” vv. 5,10), e la sua giustizia offesa dai loro peccati reclama
imperiosamente una soddisfazione. Gesù viene proprio con lo scopo di riconciliare Dio con gli uomini: placare
l’inimicizia di Dio dando piena e intera soddisfazione alla giustizia divina mediante la sua morte espiatoria. Egli
si sostituisce ai peccatori e si abbandona alla collera di Dio, subendo al posto degli uomini la pena meritata dai
loro peccati. Tutta l’opera di Gesù si concentra, dunque, nel suo sacrificio espiatorio che ha per oggetto primo e
diretto, Dio e la sua giustizia. Questa giustizia una volta soddisfatta, l’inimicizia di Dio svanisce e la
riconciliazione di Dio con gli uomini peccatori è consumata; è cosa fatta e perfetta: Dio è stato riconciliato con
gli uomini. Questa riconciliazione si opera completamente al di fuori dell’uomo, a seguito di un dramma terribile
e commovente, che si pone unicamente tra Dio e Gesù, e nel quale l’innocente, il Giusto, si sacrifica
volontariamente per i colpevoli: espia i loro sbagli, soffre e muore al loro posto. Gli uomini peccatori
beneficiano di questo sacrificio per la loro salvezza, poiché la giustizia di Dio non ha più nulla da reclamare da
loro: Gesù ha pagato il loro debito; essi sono salvati. Da questo punto di vista l’amore di Gesù per i peccatori è
toccante, sublime. Quanto a Dio, quale differenza! Non bisogna, in questo momento almeno, parlare del suo
amore, poiché la sua giustizia lo domina così completamente, che lo paralizza. Dio non prova in principio per gli
uomini peccatori che dell’inimicizia; li odia (eXthroi ontes, 5,10), ed è solamente quando questa inimicizia
(eXthra) è placata dal pagamento del loro debito, che la sua giustizia non avendo più nulla da reclamare, diventa
propizio nei loro confronti e che il suo amore può apparire. Il sacrificio di Cristo è la causa di questo amore:
espiatorio per Dio, è nello stesso tempo propiziatorio per l’uomo. Questa concezione che viene prestata a Paolo,
e che è stata decorata con il nome di “ortodossa”, è proprio opposta alla sua; né gli appartiene né da vicino, né
da lontano e a nessun titolo. Rovescia in forma radicale i termini utilizzati dall’apostolo e sconvolge
completamente il suo punto di vista religioso. Alla domanda sullo scopo della venuta e dell’opera di Gesù
Cristo, Paolo risponde che: “Gesù è venuto a riconciliare - non Dio con gli uomini, ma gli uomini peccatori con
Dio;40- fare dei nemici di Dio degli amici, e salvarli”. La differenza sembra poca cosa a prima vista; in realtà
essa è enorme; è il punto di vista precedente capovolto. Sono gli uomini nemici di Dio e Paolo pone in Dio la
base stessa e come principio della Redenzione, l’amore di Dio per i peccatori, un amore inaudito, lasciando ben
lontano dietro lui tutto ciò che l’amore umano ha potuto fare di più grande (vv. 5,10) e manifestandosi con
38
39
40
Idem, pp. 405,406.
Idem, pp. 409-412.
Vedere: 2 Corinzi 5:18-20.
La pazzia di Dio
130
LA SALVEZZA NEL NUOVO TESTAMENTO
splendore nel tempo voluto da lui (vv. 5,6), e quando gli uomini erano ancora peccatori (vv. 5,8), suoi nemici (vv.
5.10), mediante il dono di Suo Figlio che muore per loro. Non è questione di giustizia divina soddisfatta là dove
l’amore di Dio prende l’iniziativa di tutto. Si deve in effetti rimarcare che Paolo non cessa di ripetere che è
all’amore di Dio e alla sua grazia sovrana che noi dobbiamo il suo piano eterno di salvezza (confr. Romani
11:22; Efesi 1:4; 2:4-7; 2 Tessalonicesi 2:16; 2 Timoteo 1:9; Tito 3:4-7), e che la realizzazione di questo piano
è in Gesù Cristo (Romani 8:31; Efesi 2:7; 3:18,19; Colossesi 1:13,19-22; 2:13-15; 3:13,14; Tito 2:14); per
contro mai, né nell’epistola ai Romani, né in alcuna delle sue lettere mette la giustizia divina in relazione, sia con
il piano di salvezza di Dio, sia con l’opera redentrice di Gesù. Questo dualismo in Dio della giustizia e della
bontà, questa dominazione esclusiva della giustizia divina, che la teoria precedente mette alla base della
concezione di Paolo, gli è assolutamente estranea, poiché quando pure parla di ira di Dio verso gli uomini
peccatori, questa ira non è da vedersi come proveniente da una inimicizia forense, che sarebbe l’ultima parola
dei sentimenti di Dio nei confronti dell’uomo; ma al contrario, come esprimente ancora una delle facce del suo
amore imperituro, ma santo. L’oggetto primo, diretto, e si potrebbe anche dire unico, della venuta e dell’opera di
Gesù, non è Dio, bensì gli uomini peccatori, nemici di Dio per i loro sentimenti, per i loro pensieri e per la loro
vita, per la loro riconciliazione con Dio e la loro salvezza. È il cuore duro e ostile dell’uomo che bisogna
raggiungere e riportare a Dio, non Dio che bisogna placare, lui il cui cuore è tutto aperto ai peccatori e che li fa
avanzare mediante l’invio e il dono del suo proprio Figlio! Nella morte sanguinante di Gesù si concentra, come
nella sua espressione più toccante e più alta, tutta l’opera del Salvatore, perch’Egli è la manifestazione
risplendente, inimmaginabile dell’amore immenso con il quale i peccatori sono amati, dall’amore di Dio e di
Gesù assieme; è il fatto centrale del vangelo che Paolo predica; dichiara pure di non voler “sapere altro cosa che
Gesù Cristo e Gesù Cristo crocifisso” (1 Corinzi 2:2; cfr 1 Corinzi 1:17,18,23; 5:7; Galati 3:1; 6:14; Filippesi
2:8)».41
Romani 8:1-3
L’uomo di Romani 7 è in una situazione drammatica quando vuole fare la volontà di Dio, vive la
contraddizione e l’impotenza della sua natura, pur essendosi posto sotto la legge42 non riesce a realizzare ciò che
essa chiede. La risposta al grido di angoscia «Misero me uomo chi mi trarrà da questo corpo di morte?» Romani
7:24, è in Romani 8 quando scopre il valore del proprio legame con Cristo Gesù, grazie al quale passa dalla
schiavitù del peccato, dall’impossibilità di fare ciò che ritiene giusto, alla liberazione, al vivere la bellezza della
volontà di Dio. Perché?
«Non vi è alcuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù; perché la legge
dello Spirito della vita in Cristo Gesù mi ha affrancato dalla legge del peccato e
della morte. Poiché quel che era impossibile alla legge perché la carne la rendeva
debole, Iddio l’ha fatto mandando il suo proprio Figlio in carne simile43 a carne di
peccato44 e a motivo del peccato45 ha condannato il peccato nella carne46» Romani
8:1-3.
41
Idem, pp. 415-4121.
L’uomo di Romani 7 è stato identificato con il non credente, il credente nell’Eterno al di fuori del vangelo, cioè il giudeo legalista
che apprezzando il valore della rivelazione si pone “sotto la legge” per realizzarla con la propria giustizia mediante l’ubbidienza. Da qui la
grande delusione. Questo uomo non può essere il non credente perché riconosce la bontà della legge dell’Eterno (7:16) e in essa trova
piacere (7:22) e la considera come spirituale (7:14).
43
«Si è molto discusso sul senso dell’espressione greca: en honoiômai. Essa indica la “somiglianza”, la “similitudine”, l’“identità”.
Paolo l’utilizza in Romani 8:3, per dire “simile a carne di peccato”, e in Filippesi 2:8, per dire: “simile agli uomini”. Il verbo tratto dalla
stessa radice si trova in Ebrei 2:17, per dire: “reso simile in ogni cosa ai suoi fratelli”. In questi tre casi, in cui si presenta la rassomiglianza
tra il Cristo e l’uomo, l’apostolo indica manifestatamente una identità di natura» ZURCHER Jean, Le Christ manifesté en chair, Collonges
sous Salève 1995, p. 246.
44
«La locuzione abbastanza complessa nella somiglianza di una carne di peccato, è stata evidentemente formulata dall’apostolo con
una cura particolare. Se avesse detto: “in carne di peccato”, avrebbe potuto attribuire a Gesù un minimo di peccato, come l’hanno fatto
Menken, Irving, Holsten, ecc., e sarebbe in contraddizione con 2 Corinzi 5:21. Se avesse scritto: “In rassomiglianza di carne”, avrebbe
attribuito a Gesù una apparenza corporale e avrebbe insegnato il docetismo, come lo credeva realmente Pfeiderer, sicuramente ben a torto;
poiché scaturisce da tutti gli scritti di Paolo, particolarmente in quelli in cui parla della filiazione davidica di Gesù e della sua risurrezione
corporale, attribuendogli un corpo reale e materiale come il nostro. Paolo ha evitato questi due scogli con l’espressione che ha utilizzato,
nella quale il termine di assomiglianza si riferisce, non solo alla parola carne isolata, ma all’intera locuzione: carne di peccato. Gesù è stato
realmente rivestito di carne, come noi; la sostanza del corpo è stata materiale e sensibile come quella del nostro, una carne di peccato, cioè
alla quale il peccato si sia attaccato. Questa parola ricorda quella del corpo di peccato, 6:6, di cui il senso era, non che il corpo è per la sua
natura pure macchiato di peccato, ma che, nello stato dell’umanità attuale, è per le sue concupiscenze l’agente abituale del peccato.
L’espressione di carne di peccato va tuttavia ancora più lontano. La carne indica, come noi l’abbiamo visto, nel senso letterale le parti molle
del corpo, sensibili alla gioia e al dolore, poi al senso neutro (moralmente parlando) questa sensibilità che in se stessa non è né buona né
cattiva, e in fine, nel senso sfavorevole, il dominio ereditario e istintivo che esercita sulla volontà dell’uomo caduto la ricerca del piacere e la
paura della sofferenza. È questo dominio che costituisce la carne di peccato. Gesù ha posseduto la carne nei due primi significati; nel terzo
non ha avuto che la rassomiglianza, gli esterni. Ha avuto le stesse sensazioni e gli stessi nostri bisogni; ma non ha lasciato un momento
all’attrazione della gioia e allo spavento del dolore di dominare la sua volontà; li ha costantemente tenuti in scacco mediante la visione chiara
dell’obbligo morale e il riconoscimento della sua autorità assoluta. Ed è così che in lui la libertà d’adesione sia all’attrazione sensibile, sia
alla sollecitazione morale è sempre stata intatta, mentre la nostra è originariamente indebolita, se non interamente soppressa, dall’inclinazione
42
La pazzia di Dio
131
CAPITOLO VI
Questo testo dell’apostolo Paolo oltre a presentarci la salvezza in Cristo ci introduce nella sua natura a
continuazione di quanto detto nel capitolo 5 dove era presentato come secondo Adamo.
Natura umana di Gesù
Natura divina di Gesù
-
-
Proviene dal cielo (Giovanni 1:18);
il «santo che nascerà sarà chiamato
Figlio di Dio – perché – lo
Spirito
Santo verrà su di te e la Potenza
dell’Altissimo ti coprirà con la sua
ombra» Luca 1:35;
Maria «si trovò incinta per virtù dello
Spirito Santo» Matteo 1:18.
-
-
-
-
«Ripieno di Spirito Santo dal seno di
sua madre» Luca 1:15.
Gesù «ripieno dello Spirito Santo se ne
tornò» Luca 4:1.
«Santo,
innocente,
immacolato (senza peccato), separato dai
peccatori ed elevato al di sopra dei cieli»
Ebrei 7:26;
“santo” dalla nascita, fino alla croce,
nessuno lo convince, accusa, di peccato
(Giovanni 8:46).
Senza peccato in Lui (1 Giovanni 3:5)
-
Proviene dall’umanità degenerata,
Il Figlio dell’uomo, nasce da una
donna (Galati 4:4) dell’umanità
peccatrice, della discendenza di
Davide e lei stessa necessita di un
Salvatore (Luca 1:47).
ha antenati con tare morali e spirituali,
una natura di peccato (Luca 3:23 e seg.)
«il Signore gli darà il trono di Davide
suo padre» Luca 1:32;
«nato dal seme di Davide secondo
la carne» Romani 1:4.
In carne simile a carne di peccato
(Romani 8:3)
naturale a lasciarsi determinare dalla sensazione sperata o temuta. Non abbiamo dunque bisogno, per sottrarci alla conseguenza che Holsten
ha tratto dal nostro passo (l’esistenza del peccato originale nella persona di Cristo), di ricorrere al significato che Wendt dà qui alla parola
carne: la persona umana tutta intera, come nelle espressioni nessuna carne, ogni carne, utilizzate per dire: nessun uomo, ogni uomo» GODET
Frédéric, Commentaire sur l’Épître aux Romains, t. 2, 3a ed., Labor et Fides, Genève 1968, pp. 146,147.
45
«Qual è stata la ragione mediante la quale Dio ha inviato suo Figlio sotto questa forma, mentre egli sarebbe potuto apparire nella sua
forma di Dio (suo stato divino)? Questa ragione è indicata dalle parole: e per il peccato. Se l’uomo fosse stato ancora nello stato normale,
l’apparizione del Figlio non avrebbe dovuto prendere questo carattere anormale. Ma c’era un fatto contro natura per distruggere, il peccato.
Ed è ciò che ha reso necessario la venuta del Figlio in una carne assomigliante alla nostra carne peccatrice. L’espressione: per il peccato, è
presa qualche volta nell’A.T. (versione dei LXX) come sostantivo, nel senso di sacrificio per il peccato (Salmo 40:6), ed è passata in questo
senso nel N.T. (Ebrei 10:6,18); così alcuni interpreti hanno pensato che Paolo si appropriasse qui di questa locuzione alessandrina. Ma
questo senso così speciale, che poteva presentarsi naturalmente alla mente dei lettori di un libro come la lettera agli Ebrei, riempita di
allusioni alle cerimonie del culto levitico, sarebbe stato difficilmente compreso senza spiegazioni in una lettera come la nostra e per i cristiani
di Roma, pagani per la maggioranza. Poi il contesto non richiama l’idea del sacrificio, perché non è una questione di sbagli da espiare, ma
unicamente dell’inclinazione cattiva da sradicare. Non che si debba escludere completamente dal contenuto di questa espressione la nozione
d’espiazione; ma non è qui l’idea dominante. Paolo vuole dire, in un senso largo, che è il fatto del peccato e l’intenzione di distruggerlo
(mediante tutti i mezzi, l’espiazione, la santificazione), che hanno motivato l’invio di Cristo qui in basso sotto questa forma così opposta alla
sua gloriosa natura» Idem, pp. 147,148.
46
«Questo inviato era il mezzo dei mezzi, cioè la condizione dell’atto decisivo espresso dalle parole: ha condannato il peccato.
Condannare, è dichiarare cattivo e votare alla rovina; e non crediamo che ci sia motivo per allontanarci da questa significato semplice e
ordinario. La maggioranza degli interpreti l’hanno giudicato inapplicabile e vi hanno sostituito quello di vincere, abbattere, distruggere;
Crisostomo, enikesen; Teodosio, katelusen; Beze, abolevit; Calvino, abrogavit; Grotius, interfecit; Bengel, virtute privavit; Meyer, Weiss, in
lui è tolto il suo potere; Beet, l’ha destituito; così ancora Thol., Fritzs, de Weis, ecc. Ma Paolo ha una parola consacrata per questa idea; è il
termine xatargein, abolire, annullare (cfr. 6:6; 1 Corinzi 15:24, ecc.). C’è nella parola xataxrinein, condannare, la nozione di sentenza
giuridica, che non contiene il senso indicato da questi autori. Baur, Holsten, Pfleiderer trovano in questa parola l’idea che Dio, uccidendo
sulla croce la carne di Gesù, abbia ucciso il peccato stesso. Ma condannare non significa uccidere, e come la distruzione del peccato nella
carne di Gesù lo distruggerebbe in noi? D'altronde questa idea implica quella dell’esistenza del peccato in Gesù, idea contraria non solamente
a 2 Corinzi 5:21, ma ancora alla testimonianza della coscienza di Gesù stesso. Altri interpreti ritrovano qui l’idea dell’espiazione, sviluppata
nel capitolo 3. Dio ha condannato il peccato nella persona del Cristo immolato sulla croce come rappresentante del peccato (Ruck., Olsh.,
Philip. Hofn.?), idea alla quale diversi aggiungono quella della distruzione del peccato mediante questo mezzo; così Philippi: “distruggere
espiando”; Gess: “la distruzione della potenza del peccato mediante lo Spirito Santo fondata su una sentenza giuridica, cioè sulla morte
espiatoria di Gesù”. Ma la legge così condannava il peccato e lo minacciava di castigo; solamente era impotente a distruggerlo, a rendere
l’uomo vittorioso del suo potere. Non sarebbe stupefacente che Paolo, dopo aver sviluppato il soggetto dell’espiazione nel suo posto, al
capitolo 3, vi ritorna qui e in termini così diversi? Siamo dunque condotti dal contesto e mediante la relazione stretta con il verbo ha
condannato e il participio, avendo inviato, a pensare a tutta la vita terrestre di Cristo, come essendo stata la condanna vivente del peccato. La
carne era là presso lui, come presso di noi, offerente un incessante accesso a tutte le tentazioni che risultano dalla gioia o dal dolore in
prospettiva; nondimeno ha costantemente tenuto fermo, rifiutando ogni entrata del peccato nella sua volontà e nella sua attività. In una carne
della stessa nostra natura, ha tenuto il peccato estraneo alla sua persona, e mediante questa esclusione perseverante, assoluta, ha dichiarato
cattivo, indegno di esistere nell’umanità. … Era certamente l’idea di Teofilatto quando diceva: “Ha santificato la carne e l’ha coronata
condannando il peccato nella carne che si era appropriato, e mostrando che la carne non è peccatrice per natura”» Idem, pp. 148,149.
La pazzia di Dio
132
LA SALVEZZA NEL NUOVO TESTAMENTO
-
«Il principe di questo mondo non ha
nulla in me (Gesù)» Giovanni 14:30.
La Parola fatta carne, ha abitato fra noi
piena di grazia e verità (Giovanni 1:14).
«In lui abita la pienezza della deità»
(Colossesi 2:9)
In Gesù abbiamo un essere con una doppia natura il cui corpo fiorisce dall’umanità (mediante
l’intervento di Maria) e dalla trascendenza, conseguenza del fatto che il Padre celeste per «entrare nel mondo»
gli ha «preparato un corpo» Ebrei 10:5.
In Gesù abbiamo «colui che doveva venire» Romani 5:14, di cui l’Adamo caduto ne era il tipo, una
figura.
Paolo scrive che ciò che impedisce all’uomo l’osservanza della legge è la propria “carne”47 nella quale
«vede un’altra legge nelle proprie membra, che combatte contro la legge della propria mente, e rende (l’uomo)
prigioniero della legge del peccato che è nelle proprie membra» Romani 7:23.
L’uomo a causa della carne è schiavo della legge del peccato (Romani 7:25).
A causa di questa incapacità ontologica dell’uomo, dopo l’Eden, Dio deve compiere un’azione di
salvezza, per liberare l’uomo dalla sua “carne” e non farlo più “debitore” della sua natura carnale (Romani
8:12), cioè un suo ostaggio, e non essere più, a causa della carne, schiavo della «legge del peccato» Romani
7:25.
Dio c’è riuscito perché in Cristo «ha condannato - vinto - il peccato nella carne» Romani 8:3. M.
Fernandez vede in questa espressione «la forza stessa della legge del peccato nella natura umana annichilita,
privata del suo potere funesto. L’egoismo non sarà più dominatore su noi. In effetti la “legge dello Spirito della
vita in Gesù Cristo ha liberato l’umanità dalle conseguenze di questa legge di morte”.».48
Il credente è solo mediante la sua relazione con il Cristo che può compiere la giustizia di Dio. Da qui
l’importanza di comprendere la natura di Cristo.
Due riteniamo siano le principali posizioni che spiegano la natura di Gesù in relazione al peccato:
a) Gesù aveva la natura di Adamo prima del peccato, ma aveva un corpo che subiva le conseguenze del
peccato e viveva in un mondo che non era quello originale dell’Eden. A causa della sua natura
47
a)
b)
c)
d)
a)
b)
c)
d)
48
Rinviamo il lettore alla nota n. 39 e precisiamo che la Sacra Scrittura con l’espressione “carne” indica la persona :
nel suo stato di innocenza edenica;
nella sua natura, dopo l’Eden, non con sinonimo di peccato; i testi relativi a Gesù sono contrassegnati da un *
nella sua rivolta nei confronti di Dio;
nella nuova terra e il credente rigenerato.
Riteniamo che non sempre sia esplicita la differenza tra la b) e la c). Quando si incontrano le parole “carne” e “corpo” si può ritenere
che la prima indichi la natura degenerata a causa del peccato, i testi sono indicati con **. Riteniamo che in Romani 8 e Galati 3 la
parola “carne” sia messa in relazione con la natura degenerata del peccato.
Genesi 2:23; 2:24 (non crediamo che ci sia un termine diverso per indicare la relazione coniugale); Matteo 19:5; Marco 10:7; 1
Corinzi 6:16; Efesi 5:29,31; Luca 24:39;
Genesi 6:13; 7:21; 29:14; Levitico 26:29; Giudici 9:2; 2 Re 5:14; 2 Cronache 32:8; Nehemia 5:5; Giobbe 6:12; 7:5; 10:4, 11; 19:22;
21:6; 34:15; Salmo 16:9; 27:2; 38:3,7; 63:1; 65:2; 102:5; 136:25; Ecclesiaste 2:3; Isaia 40:6; 49:26; Geremia 17:5; 32:27; Michea
3:3; Zaccaria 14:12; Matteo 26:42; Marco 14:38; Luca 24:39; Giovanni 1:13, 1:14*; 3:6; 6:51*,54*,55*,56*; 8:15; 17:2; Atti 2:31*;
Romani 1:3*; 2:28; 4:1; 6:19; 9:3; 9:5*; 1 Corinzi 1:26,29; 7:28; 10:18; 2 Corinzi 1:17; 5:16; 7:5; 10:3; 11:18; 12:7; Galati 1:16;
2:16; Galati 4:13,23,29; Efesi 2:11; 2:15*; Efesi 5:29; 6:5,12; Filippesi 1:24; 3:3; Colossesi 3:22; 1 Timoteo 3:16*; Ebrei 2:14*;
5:7*; 10:20*; 12:9; 1 Pietro 3:18*; 4:1*; 1 Giovanni 4:2; 2 Giovanni 7*; Giuda 8; Romani 9:8;
Genesi 6:3,12,13; 7:21; 9:11; Salmo 78:39; Proverbi 5:11**; 11:17; Ecclesiaste 4:5; Isaia 49:26; Geremia 17:5; 25:31; Matteo
16:17; Luca 3:6; Romani 7:5, 18, 25; 8:3*, 4, 6, 7, 8, 9, 12, 13; 1 Corinzi 15:50; 2 Corinzi 7:1; Galati 3:3; 5:13,16,17,19,24; Efesi
2:13; Colossesi 1:22* **; 2:11,13,23; Ebrei 2:14; 9:13; 1 Pietro 3:21; 2 Pietro 2:10; 1 Giovanni 2:16. L’espressione “carne e
sangue” di Ebrei 2:14 (che troviamo anche in Matteo 16:17; 1 Corinzi 15:50) viene così commentato: «Cerchiamo di cogliere bene
tutta l’importanza e il valore dell’incarnazione. Nello stesso modo che Adamo… ci comunica la sua propria natura, Cristo ci ha potuto
salvare prendendo la nostra natura… Il Secondo Adamo, il Padre di una nuova razza» MURRAY Andrew, Le voile déchiré, Valence
sur Rhone 1953, p. 60. «I membri di una stessa famiglia sono consanguigni» HERING Jean, L’Épître aux Hébreux, Delachaux et
Niesle, Neuchâtel 1954, p. 34. «Nella natura umana, debole, inferma, mortale, soggetta al dolore, alla morte, a tutte le conseguenze
della caduta dell'uomo» BONNET Louis, Le Nouveau Testament, vol. IV, Épître aux Hébreux, 3a ed. revue, et augmentée, Lausanne
1905, pp. 37,38. «Doveva essere il compagno di coloro che venne a salvare; di qui la necessità al partecipare alla loro natura terrena… I
suoi figli hanno un corpo fatto di sangue e di carne, soggetto alle infermità e alla morte, egli ha voluto scendere in questa loro vita
terrena partecipando anche lui, al modo stesso degli altri, a sangue e carne. Questi elementi materiali contraddistinguono non solo la
natura umana dall’angelica, ma ancora lo stato terreno dell’uomo dal celeste. Il corpo di cui saranno rivestiti i redenti alla risurrezione
non sarà più di sangue e di carne secondo 1 Corinzi 15:50» BOSIO Enrico, Commentario esegetico pratico del N.T. - L’Epistola agli
Ebrei, Claudiana, Firenze 1904, p. 14.
- La persona rigenerata: Salmo 63:1; 73:26; 84:2; 119:120; 145:21; Ezechiele 11:19; 36:26; Gioele 2:28; Atti 2:17; Luca 3:6;
Romani 8:9; 2 Corinzi 3:3; 4:11; 10:3; Galati 2:20; Colossesi 1:24;
- il credente nella nuova terra: Giobbe 19:26 (ed. Paoline); Isaia 40:5 (si può riferire sia ai salvati e ai non salvati) 66:23.
FERNANDEZ Marcel, Nature de l’homme nature du Christ et santification, dattiloscritto, s.d., p. 6.
La pazzia di Dio
133
CAPITOLO VI
incontaminata dal peccato come uomo non era tentato dalle sue proprie concupiscenze (Giacomo 1:13), ma
essa gli veniva dall’esterno, come lo fu per i nostri progenitori.
b) Gesù aveva la natura di peccato, come l’uomo dopo l’Eden.
A critica della prima posizione, i cui sostenitori credono che partendo dalla natura di Adamo il Figlio di
Dio riprende il confronto con il male là dove il primo uomo aveva fallito, si costruisce un sillogismo discutibile.
Se Gesù, quale secondo Adamo, avesse avuto una carne simile a carne di peccato, ed era quella di Adamo prima
del peccato, ciò significa che Adamo stesso è stato generato in Eden con una carne simile a carne di peccato. Si
conclude il pensiero dicendo che il peccato dell’uomo è insito nel progetto creativo di Dio. Inoltre, si aggiunge
che Gesù è stato fatto «in ogni cosa simile ai suoi fratelli» Ebrei 2:17.
Con la sua incarnazione, pur avendo la natura di Adamo prima del peccato, Gesù ha subito le
conseguenze e le debolezze della natura umana, del corpo, dopo secoli di peccato, cioè “le infermità innocenti”
come le ha definite in un sermone H. Nelvill.49 Per questo motivo la posizione di Gesù è svantaggiosa rispetto a
quella di Adamo.
Con la seconda posizione non si vuole affermare che Gesù fosse un peccatore, in quanto sarebbe in
contrasto con tutti i testi che presentano il Cristo come il “Santo”, senza peccato, Figlio nel quale il Padre si
compiace. Se Gesù avesse peccato, lui stesso avrebbe avuto bisogno di un Salvatore.
Ma in questo modo di spiegare ci sono due posizioni, di cui la prima, non accettabile è già stata criticata
con le parole espresse alle quali possiamo aggiungere solo, non ritenendo necessario continuare, che Gesù,
facendosi uomo, non è stato un essere “carnale” e come dice Paolo: «venduto schiavo al peccato» Romani 7:14,
come siamo noi, con la propensione al male50; la seconda, condivisa nel nostro secolo51 da teologi come K.
Barth52, E. Brunner53, O. Cullmann54, J.A.T. Robinson55, T.F. Torrance56, dal pastore riformato R. de Pury57 non
49
MELVILL Henry, The Humiliation of the Man Christ Jesus.
WHITE Ellen: «Siate prudenti, eccessivamente prudenti sul modo con il quale concepite la natura umana del Cristo. Non
presentatelo davanti alle persone come un uomo che ha delle propensioni al peccato… Cristo era il Figlio unico di Dio. Rivestì la natura
umana e fu tentato in ogni aspetto come la natura umana è tentata. Avrebbe potuto peccare, avrebbe potuto cadere. Ma neppure per un solo
istante c’è stato in lui una propensione al male» lettera n. 8, 1895, al pastore australiano W. L. Baker, S.D.A.B.C., vol. 5, pp. 1128,1129.
51
J. Zurcher osserva che «nel corso dei secoli, osare supporrere che la natura umana del Cristo fosse quella di Adamo dopo la caduta
era considerato come una grave eresia. Nel nostro tempo qualcuno stima che sia una “concezione criticabile” BLOCHER Henri, Cristologie,
série Fac. Étude, Vaux sur Seine 1984, vol. II, pp. 189-192» o.c., p. 11.
52
«La Parola è stata fatta carne, “carne dominata dal peccato”… Dio mandò il suo Figlio in similitudine della “carne dominata dal
peccato”. Questo invio non avviene dunque come una partecipazione e posizione immediata di innocenza paradisiaca, di vita paradisiaca.
Non può, non deve… Dio manda il suo Figlio nella carne dominata dal peccato… affinché siano eliminate le sue conseguenze» BARTH
Karl, L’Epistola ai Romani, Feltrinelli editore, Milano 1962, 1974, 1989, pp. 258,259,262.
BARTH Karl, Dogmatique, vol. I, t. 2, Labor et Fides, Genève 1954, pp. 140-142, scrive: «Che la Parola eterna sia stata fatta
“carne”, cioè sia diventata esattamente ciò che noi siamo nella nostra rivolta contro di lei, tale è l’incomprensibile miracolo della rivelazione.
Perché ci fosse rivelazione , bisognava che Dio si facesse uomo. E perché si facesse uomo, era necessario che diventasse “carne” in questo
senso molto preciso. La rivelazione della Parola di Dio si compì al prezzo di questa incomprensibile e sconvolgente condiscendenza, che
sorpassa ogni intelligenza.
Calvino non si è sbagliato. Ecco un suo frammento del suo commentario di Giovanni 1:14: “Ha voluto mostrare a quale vile e bassa
condizione il Figlio di Dio è disceso, per l’amore di noi, dall’altezza della sua gloria celeste. Quando la Scrittura parla dell’uomo in senso
negativo, lo chiama carne”. Commentaire du Nouveau Testament, vol. II, p. 12. Però, più avanti, Calvino precisa e non possiamo condividere
il pensiero: “Questa parola carne non è qui presa per la natura corrotta, come S. Paolo la indica sovente, ma per l’uomo mortale”.
Non è stato un uomo peccatore. Ma, interiormente ed esteriormente, la sua situazione è stata quella di un uomo peccatore…
Liberamente è diventato solidale della nostra esistenza decaduta e perduta.
Un fatto è certo e non deve essere attenuato, né abbreviato: la natura assunta da Dio in Cristo è identica alla nostra natura di uomini
posti sotto il segno della carne. Altrimenti, come il Cristo sarebbe simile a noi?… Il Figlio di Dio non ha solamente preso la nostra natura ma
è entrato nella nostra distretta di uomini condannati, decaduti e separati da Dio. A differenza di noi tutti non ha partecipato alla rivolta contro
Dio… è pienamente solidale con noi e nulla di ciò che è umano gli è estraneo.
Secondo F. Kohlbrügger, Gesù Cristo “non è di una natura carnale diversa dalla nostra. Mediante la sua nascita, ha preso la nostra
carne e si è spogliato completamente della gloria divina. Nato da una donna ha conosciuto tutte le passioni, tutti i desideri e tutti i bisogni che
colpiscono l’uomo”. Betr. Üb. Das 1. Kap. Des Ev. Matth. 1844, p. 92.
Emanuele, Dio con noi, significa: la Parola è stata fatta carne. Diventando carne “Dio ha assunto l’umanità perduta, la condizioni dei
peccatori e delle peccatrici” p. 132».
53
«Il fatto di essere nato da una donna significa che Gesù partecipa alla sorte che è comune a tutti gli uomini… Gesù fu “un uomo
come noi?” A questa domanda si può rispondere d’emblée in modo affermativo, e pure il dogma cristologico del V secolo, preoccupato
dell’affermazione della sua divinità, si è espresso su questo punto con una chiara audacia dicendo: Vere homo. Ma Gesù fu veramente un
uomo come noi, cioè un uomo peccatore? Paolo spinge all’estremo il suo modo di formulare la vera umanità di Gesù: Dio ha inviato suo
Figlio “in una carne simile a carne di peccato” Romani 8:3. L’epistola agli Ebrei persegue con maggiore insistenza: “È stato tentato come noi
in ogni cosa, senza commettere peccato” Ebrei 4:14… È un uomo come noi, … nello stesso tempo, non è un uomo come noi» BRUNNER
Emil, Dogmatique, vol. 2, éd. Labor et Fide, Genève 1965, pp. 359-362.
Desideriamo fare un distinguo a proposito del testo di Ebrei 4:14: «È stato tentato come noi in ogni cosa». Riteniamo che questa
affermazione non debba essere presa in modo assoluto, ma nella forma relativa alla sua persona, come del resto ognuno di noi è giudicato non
in base al valore delle tentazioni degli altri, ma a ciò che è specifico della sua persona. In altre parole Gesù non ha esperimentato la violenza
infantile di una famiglia alcolizzata o di una ragazza violentata dal padre. Non ha subito i drammi di una famiglia violenta e divisa. Non ha
conosciuto neppure gli agi di una posizione elevata. Nella sua sfera, di Dio fatto uomo tra gli uomini, Gesù ha subito tutte quelle tentazioni
che lo avrebbero potuto separare dal Padre. Non ha avuto le mie tentazioni, ma ha avuto le sue che come le mie tendono a farci prendere le
distanze da Dio.
54
Spiegando Filippesi 3:8, scrive: «Per poter prendere la forma di schiavo, gli è stato necessario prima prendere la forma di un uomo,
cioè di un uomo che partecipa alla decadenza umana. È ciò che vuole dire l’espressione “diventando simile agli uomini”… Lui che, per la sua
50
La pazzia di Dio
134
LA SALVEZZA NEL NUOVO TESTAMENTO
sospetto di liberalismo teologico, dal cattolico G. Bonsirven58 e da altri, presenta la partecipazione del Cristo alla
natura caduta, assoggettata al peccato pur non sperimentandolo. «Il test al quale il Cristo dovette far fronte fu
infinitamente più difficile di quello di Adamo e di Eva, poiché aveva preso la natura decaduta, ma non corrotta,
che sarebbe stata tale se il Cristo avesse risposto alle parole di Satana piuttosto che a quelle di Dio».59
«E. White e i partigiani della cristologia tradizionale60 hanno sempre fatto la differenza tra ciò che hanno
chiamato “le tendenze ereditarie al male” che ha ogni persona “nata da una donna, nata sotto la legge”, e “le
tendenze coltivate” che sono le proprie di tutti gli uomini peccatori per essere stati sopraffatti alla tentazione.
Ora, se Gesù ha ereditato le tendenze naturali al male, non le ha, tuttavia, mai coltivate. È per questo, Ellen
White ha potuto scrivere che (Gesù) ha fatto l’esperienza della “forza della tentazione”. Della “forza della
passione”, come anche “delle propensioni naturali”, ma senza mai soccombere alle loro potenze di attrazione.
“Come tutti i figli di Adamo, il Cristo ha accettato i risultati della grande legge dell’eredità. È con una tale
eredità che venne a partecipare i nostri dolori e le nostre tentazioni e a darci l’esempio di una vita senza
peccato”61».62
La vittoria di Gesù sulla croce, per sé e in favore dell’uomo va, quindi, oltre a una liberazione dalle
infermità innocenti. Il prof. M. Fernandez scrive: «Se Dio ha voluto “condannare il peccato” nella carne del
Cristo, deduciamo dall’evidenza che la sua natura umana doveva portare qualcosa da condannare – per liberare
l’uomo – affinché non “sia più schiavo di questo peccato”… Se il Cristo non avesse portato in sé che queste
infermità innocenti, potremmo dire che la natura del “nostro vecchio uomo” sia limitata a queste sole
caratteristiche benigne? Meritavano allora d’essere “crocefisse con lui” sul Golgota? Lo ripetiamo, la croce
essendo una maledizione (Galati 3:13; Deuteronomio 21:23) sul peccato, perché maledire del nostro vecchio
uomo queste sole infermità innocenti, senza voler giungere alla causa stessa che le ha prodotte?». 63
La natura di Cristo dopo il peccato di Adamo, pur non avendo una propensione al male che caratterizza
l’intera umanità incapace di vivere il bene e la giustizia, non consisteva soltanto alla partecipazione delle
“infermità innocenti”, cioè alle conseguenze esterne del peccato? Ancora il prof. M. Fernandez scrive: «Cristo
ha rotto – per mezzo della carne della sua natura decaduta - i legami mediante i quali la legge del peccato e della
morte ci mantengono separati da Dio, dunque incapaci di amare. C’era dunque un ostacolo da distruggere64 nella
essenza era il solo uomo-Dio, il solo che possa rivendicare questo titolo in virtù della sua assomiglianza con Dio, è diventato, per obbedire
alla sua vocazione d’uomo celeste, per compiere la sua opera espiatoria, un uomo incarnato nella carne decaduta» CULLMANN Oscar,
Christologie du Nouveau Testament, 3a ed., éd. Delachaux & Niestlé, Neuchâtel 1968, p. 154.
55
Il primo atto nel dramma della redenzione è: «l’identificazione del Figlio di Dio fino al limite, cioè fino al peccato escluso, con il
corpo di carne nel suo stato di decadenza. Bisogna insistere su queste parole poiché alla verità la teologia cristiana ha espresso una
stupefacente ripugnanza ad accettare, nel loro pieno valore, le audaci espressioni, quasi barbariche, di cui si serve Paolo per affermare lo
scandalo del vangelo su questo punto. L’ortodossia tradizionale, sia cattolica che protestante, ha sostenuto che Cristo avesse assunto,
nell’incarnazione, una natura umana non decaduta. Ma se si formula la domanda, e questa volta nei suoi termini biblici, non c’è nessuna
ragione di temere, ci sono pure delle motivazioni imperiose di esigere, che si attribuisce al Cristo una umanità sottomessa a tutti gli effetti e
conseguenze della caduta. È chiaro, in ogni caso, che tale sia l’idea paolina dell’incarnazione, e che questa idea sia essenziale alla
comprensione esatta dell’opera della redenzione» ROBINSON J.A.T., Le corps, étude sur la théologie de Saint Paul, éditions du Chalet,
Lyon 1966, p. 63,64; cit. da J. Zurcher, o.c., p. 13.
56
Nel quadro della Commissione “Foi et Constitution” del Concilio ecumenico mondiale, tenutosi a Herrenalb, Germania, luglio 1956
in una proposizione scrisse: «Dobbiamo prendere in considerazione in una forma più seria che la Parola di Dio ha assunto la nostra sarx, cioè
la nostra umanità decaduta (non uno che sia stato concepito immacolato), e ciò facendo l’ha santificata. La dottrina della Chiesa ha bisogno
di essere ripensata in termini che tengano conto del fatto che Gesù ha assunto la nostra umanità e si è santificato lui stesso. La Chiesa è
Sancta nella santificazione del Cristo» Cit. JOHNSON Harry, The Humanity of the Saviour, the Epworth Press, London 1962, p. 70; cit. da J.
Zurcher, o.c., pp. 13,14. E in una forma ancora più esplicita: «Probabilmente la verità la più fondamentale che noi dobbiamo apprendere nella
Chiesa cristiana, o piuttosto a riapprendere, poiché l’abbiamo eliminata: è che l’incarnazione era la venuta di Dio nel cuore della nostra
umanità decaduta e depravata, là dove l’umanità è più debole nella sua inimicizia e nella sua violenza contro l’amore riconciliatore di Dio,
per salvarci. Detto in modo diverso, l’incarnazione deve essere compresa come la venuta di Dio per prendere su di sé la nostra natura umana
decaduta, la nostra vera esistenza umana caricata del peccato e della colpevolezza, la nostra umanità malata nello spirito e nell’anima,
alienata e separata dal Creatore. Una dottrina che si trova dappertutto nella Chiesa primitiva dei cinque primi secoli, ripetuta con termini che
affermano che l’uomo intero deve essere assunto dal Cristo perché l’uomo interamente sia salvato» TORRANCE Thomas F., The Médiation
of Christ, pp. 48,49; cit. J. Zurcher, o.c., p. 14.
57
«La grazia quale il protestantesimo la confessa è prima di tutto la grazia dell’umanità di Gesù. Converrà insistere molto su questo
punto per tenere lontane le tendenze naturali al docetismo, alla magia, alla divinazione; le tendenze a edulcorare, a superare lo scandalo
dell’incarnazione. Gesù “vero uomo” è il principale fronte su cui si combatte la battaglia per rivendicare la grazia di Dio contro tutte le
maniere che il nostro cristianesimo usa per disumanizzare Gesù, facendone il più cristiano degli idoli. Per esempio come non vedere nelle
dottrine quali quella della devozione al Sacro Cuore o quella della perpetua verginità di Maria, degli attacchi alla umanità di Gesù, virulenti
quanto le esaltazioni che vogliono fare di lui il massimo genio della storia o il massimo fondatore di religione?» PURY Roland de, Che cosa
è il Protestantesimo, ed. Claudiana, Torino 1964, pp. 44,45.
58
«Sappiamo che questo significa non una rassomiglianza esteriore, ma una assoluta identità: per riparare ha dovuto prendere la carne
peccatrice, escluso solo il peccato» BONSIRVEN Giuseppe, Il Vangelo di Paolo, 3a ed., ed. Paoline, 1963, p. 253
59
WHITE Ellen, Manoscritto 57, 1890. In Extrait de son Journal, n. 14, pp. 272-285; cit. da J. Zurcher, o.c., p. 250. Di E. White «Si
potrebbero citare più di 250 dichiarazioni uscite dalla sua penna… nelle quali insiste sul fatto che Gesù è venuto “in the human nature of
fallen man”, nella natura umana dell’uomo caduto» STÉVENY George, À la découverte du Christ, éd. Vie & Santé, Dammarie les Lys, 1991,
p. 291.
60
Quelli che nell’ambito della Chiesa Avventista sostengono la natura decaduta di Cristo, ma non corrotta.
61
E. White, Jèsus-Christ, p. 34.
62
J. Zurcher, o.c., pp. 246,247.
63
M. Fernandez, o.c., p. 9.
64
Vedere la nota n. 41.
La pazzia di Dio
135
CAPITOLO VI
natura umana, bisognava che il Cristo fosse inviato in una natura unica: che doveva avere in sé
contemporaneamente la legge del peccato e della morte, causa della nostra morte, e il suo principio distruttore:
la legge dello Spirito di vita, antidoto del peccato. Gloria al Cristo e allo Spirito Santo, poiché la legge dello
Spirito di vita in Gesù Cristo ci ha liberati dalla legge del peccato e della morte!».65
Utilizzando l’esempio dell’innesto di M. Fernandez, dobbiamo dire che Gesù è il ramo che fa partecipare
l’umanità alla natura divina (2 Pietro 1:4), ma che lui stesso, pur essendo il rigeneratore, partecipa grazie alla
sua natura che lo caratterizza a quello dell’albero selvatico, con la quale può realizzare l’innesto sull’albero
stesso rendendo tutto buono l’albero. L’uomo diventando una stessa pianta con il Cristo, nella sua nuova
umanità, attraverso la sua morte e la sua risurrezione, mediante il battesimo (Romani 6:4,5), per la propria natura
selvatica cambiata produce i frutti dello Spirito (Galati 5:22). Conservando questa immagine, si può dire, che
se Gesù si fosse presentato con la natura di Adamo prima del peccato, non si sarebbe potuto innestare
nell’umanità peccatrice a causa della sua natura diversa.
Il Signore fu “uno con noi”, ma non “uno come noi” e “uno di noi”. «Ha partecipato alla nostra carne e al
nostro sangue» Ebrei 2:14, ma non al nostro peccato e alla nostra ribellione. L’inclinazione al male, alla
disubbidienza, non è ancora peccato, non può essere confusa con il peccato.
Il Signore stesso è stato un essere-albero innestato. La sua natura umana è stata innestata in quella divina.
Come tale era portatrice dei frutti dell’eternità, ma se avesse favorito la sua discendenza davidica, avrebbe
sviluppato la sua selvaticità, da qui la sua volontà e necessità di avere un legame profondo e costante con il
Padre e la sua apertura - bisogno - a ricevere la grazia dello Spirito non hanno permesso che diventasse
«carnale», «venduto al peccato». Gesù potrà dire: «Il Padre che dimora in me fa le opere sue» Giovanni 14:10.
Gesù a seguito dell’incarnazione ha portato in sé il germe, la naturalezza all’indipendenza dal Padre, ma
questa possibilità mediante la sua relazione con il Cielo non ha germogliato, anzi è stata soffocata, vinta. Gesù
aveva in sé sì «le opere della carne» Galati 5:11, ma non si sono mai espresse virtualmente.
Gesù ha portato la causa delle nostre malattie senza svilupparle e ammalarsi di esse. Ha portato in sé il
virus del peccato, e della debolezza della nostra carne, ma come il portatore sano, pur avendolo ricevuto in
eredità dal seme di Davide e dai suoi antenati non è degenerato in lui e a differenza di qualsiasi altro uomo, non
lo ha fatto sviluppare perché non si è «privato dalla gloria di Dio», come lo siamo noi (Romani 3:23).66 La
natura di Gesù porta in sé il germe del peccato o come si esprime Paolo «la legge del peccato» o «la potenzialità
- germe - del peccato».
C’è una differenza tra avere la natura di peccato ed essere peccatori.67
M.L. Andreasen scrive: «La legge dell’ereditarietà si applica alle passioni e non alla contaminazione. Se
la contaminazione era ereditaria, Cristo venendo al mondo avrebbe ricevuto questa contaminazione, e non
sarebbe stato chiamato “il santo bambino” (Luca 1:35; vers. L. Segond)».68
Questo concetto è in antitesi con l’idea del peccato originale che fa di ogni uomo un essere che nasce con
un bagaglio di colpa. C’è, quindi, differenza tra avere una carne di peccato ed essere peccatore.69
J. Crews fa una osservazione importante: «Le propensioni al male sono le tendenze al peccato che sono
state coltivate e rinforzate nella compiacenza con il peccato. Per contro, le propensioni naturali sono le tendenze
che sono state ereditate. La colpevolezza è implicita nel primo caso, ma non nel secondo».70 C’è quindi una
differenza tra il peccato, espressione della volontà, e la natura di peccato che esprime la natura dell’uomo che si
può trasformare in propensione al male a seguito di scelte fatte.
Romani 9:11 dice che i figli di Isacco prima della loro nascita non avevano fatto alcun che di bene e di
male. Ciò ci permette di pensare che la loro natura, pur degenerata da secoli di storia, non era contaminata dal
65
M. Fernandez, o.c., p. 12.
Nel credere che il Signore sia venuto con la natura di Adamo prima del peccato, senza avere in sé la propensione al male, ma
subendone le conseguenze, le tentazioni e le seduzioni del peccato gli venivano dall’esterno, come è stato per Adamo. Per questo motivo si
pensa che Gesù abbia combattuto il male là dove il primo uomo era caduto quand’era ancora in un mondo che usciva dalle mani creative di
Dio. Gesù non ha peccato perché ha sviluppato la sua natura innocente come avrebbe fatto Adamo se avesse scelto di essere dalla parte del
suo Creatore.
Nel credere che il Signore sia stato un portatore sano del peccato, senza averne però la propensione, ma vincendo la sua natura
mediante la grazia dello Spirito, si può forse pensare che per un certo tempo il germe del male e la seduzione del peccato, che così facilmente
avvolgono e degenerano i figli di Adamo che inevitabilmente, a causa della propensione della loro natura, prima o poi si manifesta in
ribellione, per difendere l’unigenito Figlio di Dio, siano stati come incapsulati dallo Spirito fino al tempo in cui Gesù fu maturo nel fare delle
scelte libere in conformità al bene, al vero, alla gloria di Dio.
67
Colui che non ha mai preso la droga può avere la curiosità, il desiderio, la tentazione di provarla. Rifiutare queste minacce è
relativamente facile. Ma la situazione è completamente diversa per chi, in fase di astinenza, divorato dal bisogno che lo domina dal di dentro
farebbe qualsiasi cosa per poterla avere. «Ciò che è vero per la droga è vero per ogni forma di peccato. L’ereditarietà non pesa soltanto
contro noi. A causa delle nostre debolezze, noi siamo “venduti al peccato, … il peccato abita in noi, … noi abbiamo la volontà, ma non il
potere di fare il bene” Romani 7:14,24. Gesù non ha vissuto l’esperienza della caduta; ha conosciuto soltanto la situazione, con tutte le
debolezze inerenti all’eredità che ne risulta». G. Stéveny, o.c., p. 294.
68
ANDREASEN M.L., Lettres auz Eglises, Roiffeux, s.d., p. 63.
69
Vedere DOUGLASS Herbert E., A critique of the pre-Fall view, in Ministry, agosto 1985, pp. 10,11.
70
CREWS Joe, Letters, in Ministry, dicembre 1985, pp. 26,27.
66
La pazzia di Dio
136
LA SALVEZZA NEL NUOVO TESTAMENTO
peccato originale, e non era di fatto considerata peccatrice, e nascendo non erano per natura separati da Dio71,
cosa che avviene a seguito del peccato come dice il profeta Isaia (59:2). Scrive M. Fernandez: «Nessun
bambino nasce peccatore davanti a Dio. A causa delle legge dell’ereditarietà, nasce biologicamente solidale a
ciò che la Bibbia chiama “l’iniquità dei padri” (Esodo 20:5). Per questo motivo è irrimediabilmente condannato
alla caduta, ereditando la debolezza di una carne minata dalla legge del peccato e della morte».72 «Poiché
secondo le Scritture, il peccato è essenzialmente un atto,73 non trasmissibile per eredità, e di cui solo è colpevole
colui che lo compie… Ciascuno è dunque colpevole per i suoi propri falli. Di conseguenza, pure se il bambino è
“concepito nel peccato” e “nato nell’iniquità” secondo le parole del salmista (Salmo 51:7), non è per nulla
colpevole dei peccati dei suoi antenati. Paolo scrive che alla loro nascita i figli di Isacco e di Rebecca…
portavano in loro, mediante l’eredità, le conseguenze del peccato di Adamo, che faranno di loro,
inevitabilmente, dei peccatori, responsabili delle loro proprie trasgressioni della legge di Dio. Ma essi non sono
colpevoli né per natura né per ereditarietà. Così è di tutti coloro che sono “nati da una donna, nati sotto la legge”
Galati 4:4, come lo fu Gesù stesso».74
Può sembrare sottile la linea di demarcazione tra la natura di Cristo che porta in sé la legge, il germe, del
peccato, ma non pecca e quella dell’uomo che eredita lui pure questa natura assoggettato alla legge del peccato,
che però in lui conduce fatalmente al peccato e sviluppa la propensione al male, rendendolo a lui schiavo. Anche
la linea che distingue la natura caduta di Gesù, ma senza avere la propensione al male con la natura di Gesù di
Adamo prima del peccato.75 Ma «una dottrina erronea del peccato conduce necessariamente – inevitabilmente –
a una dottrina sbagliata della salvezza».76
Lo scopo dell’incarnazione Paolo lo aveva già espresso con due motivi ai quali ne aggiunge un terzo:
- «Affinché il corpo del peccato fosse annullato».
- «Affinché non si sia più schiavi del peccato» Romani 6:6.
- «Affinché “la giustizia della legge fosse compiuta in noi, che camminiamo, non secondo la carne, ma
secondo lo Spirito” Romani 8:2-4.
«Questi testi77 rivelano il perché dell’incarnazione e il come della sua realizzazione. Ma soprattutto, ci
fanno comprendere che la riconciliazione dell’uomo con Dio non si è fatta sulla base d’una semplice
dichiarazione giuridica, o mediante una semplice sostituzione legale.78 Secondo le precisioni dei testi
neotestamentari, la riconciliazione, al contrario, è stata realizzata dal Cristo, “nel corpo della sua carne”
Colossesi 1:27, “lottando contro il peccato”, “resistendo fino al sangue” Ebrei 12:4; confr. Luca 22:44.
“Essendo trovato nell’esteriore come un uomo, abbassò se stesso, facendosi ubbidiente fino alla morte e alla
morte della croce” Filippesi 2:8. In breve, Cristo ha realmente “portato i nostri peccati nel suo corpo, sul legno,
affinché morti al peccato, vivessimo per la giustizia” 1 Pietro 2:24. È “attraverso la sua carne” che ha inaugurato
“quella via recente e vivente” che conduce alla nostra riconciliazione con Dio (Ebrei 10:20).
Se c’è una verità cristologica fondamentale è giustamente quella della partecipazione reale del Cristo “al
sangue e alla carne” dell’uomo, in vista di poterlo liberare dalla potenza del peccato e dalla morte (Ebrei
2:14,15). Ma ciò non fu possibile che mediante la potenza dello Spirito di Dio. “Cristo non avrebbe potuto fare
nulla, durante il suo ministero terrestre, per salvare gli uomini, se il divino non fosse stato unito all’umano”.79 È
dire una volta di più che la riconciliazione dell’uomo con Dio è veramente possibile in Cristo alla condizione
della sua piena e intera partecipazione all’umanità e alla divinità».80
«In effetti Paolo conferma che “il mistero della pietà è grande”. Ma nello stesso tempo, ci rivela il
segreto: “Colui che è stato manifestato in carne” è stato “giustificato dallo Spirito” 1 Timoteo 3:16… Paolo
dichiara che “il primo uomo, Adamo, divenne un’anima vivente”, mentre “il secondo Adamo divenne uno
71
Pur riconoscendo, nel pensiero dell’autore che segue, che la nostra natura è decaduta, non possiamo condividere quando VENDEN
Morris scrive: «Siamo peccatori dalla nascita; siamo peccatori per natura. È la nostra natura che è cattiva; le nostre azioni non ne sono che il
risultato… Pensiamo che sia il fatto di commettere della cattive azioni che ci separano da Dio. In realtà, è la separazione da Dio che ci
conduce a commettere le cattive azioni» 95 Thèses sur la justification par la fois, Coral Gable, Florida 1989, pp. 34,40.
72
FERNANDEZ Marcel, Note vieil homme crucificié en Christ, Collonges sous Salève 1994, pp. 24,25; manoscritto.
73
Vedere E. Brunner, o.c., p. 120.
74
J. Zurcher, o.c., p. 245.
75
La Chiesa cattolica per sostenere che la natura di Gesù fosse assente dal peccato originale o che una natura caduta, una carne di
peccato fosse automaticamente peccatrice, per mettere a tacere le discussioni teologiche in questo campo, l’8 dicembre 1854, Pio IX, con la
sola propria autorità, stabilì il dogma dell’Immacolata Concezione con il quale si afferma una volte per tutte che Gesù è nato senza il peccato
originale e senza una natura di peccato perché Maria, l'ancella del Signore, lei stessa, prima di lui, è nata con questa natura, trasmettendogli
così quella del primo Adamo. È legittimo chiedersi che rapporto ci sia tra questo dogma e quanto annunciava l’apostolo Giovanni nella prima
lettera al capitolo 4 e versetti 2,3.
76
HASEL Gerhard, Salvation, in Perspective Digest, vol. II, n. 1, 1997, p. 37.
77
1 Timoteo 3:16; Romani 1:4; Filippesi 2:7; Matteo 1:18; Colossesi 2:9; 1 Corinzi 15:19. 2 Corinzi 5:19; Galati 4:4,5; Romani 8:24.
78
M. Fernandez, dopo aver presentato Ezechiele 18:23,31,32 scrive: «Se Dio, dunque, non vuole la nostra morte, di conseguenza, non
può avere voluto che il Cristo innocente e santo muoia al nostro posto, per fargli “pagare” questo salario del peccato che noi meritiamo…
Tuttavia se la croce non è stata in sé voluta da Dio, era la conseguenza ineluttabile del peccato dell’uomo» o.c., p. 21.
79
WHITE Ellen, Lettre 5, 1889, in S.D.B.C., vol. 7, p. 904.
80
J. Zurcher, o.c., p. 249.
La pazzia di Dio
137
CAPITOLO VI
spirito vivificante… Il primo uomo, tratto dalla terra, è terrestre, il secondo uomo è dal cielo” 1 Corinzi 15:19
».81
Mediante il Cristo l’umanità può diventare a sua volta «una stessa cosa-albero con lui» Romani 6:5. È
stata adottata dal Padre «e perché siete suoi figli, Dio ha mandato lo Spirito del suo Figlio nei nostri cuori, che
grida: “Abba Padre”» Galati 4:5,6.
«Il trionfo sul peccato e sulla carne viene dunque essenzialmente dalla forza divina che ci è infusa e dalla
potenza soprannaturale che essa crea in noi».82
Prima di concludere con un’immagine riportiamo il pensiero di W. Prescott: «Ognuno di noi era
rappresentato in Gesù Cristo quando la parola è stata fatta carne e che ha abitato un tempo fra di noi… Noi tutti
eravamo rappresentati in Adamo secondo la carne; e quando Cristo è venuto come secondo Adamo, ha preso il
posto del primo Adamo e noi siamo così tutti rappresentati in lui… Ha formato questa nuova famiglia di cui è il
capo. È l’uomo nuovo. Noi abbiamo in lui l’unione del divino e dell’umano… Tutta l’umanità fu riunita in un
capo divino, Gesù Cristo. Ha sofferto sulla croce. È tutta la famiglia che è stata crocifissa in Cristo Gesù».83
Cristo è giunto alla vetta del cielo coinvolgendoci nella sua vittoria. È il capo cordata che ci conduce
verso l’eternità. La nostra sola possibilità di caduta è quella di staccarci da lui, tagliando la corda. Ma se siamo e
rimaniamo incordati al Signore, lui è «potente da preservarci da ogni caduta e da farci comparire davanti alla sua
gloria irreprensibili, con giubilo» Giuda 24.84
2 Corinzi 5:14,15
«Poiché l’amore di Cristo ci costringe; perché siamo giunti a questa conclusione
che uno solo morì per tutti, quindi tutti morirono; e che Egli morì per tutti, affinché
quelli che vivono non vivano più per loro stessi ma per Colui che è morto e resuscitato per loro».
L’amore che Cristo ha per noi ci trasforma, ci anima e ci impedisce di vivere ripiegati su noi stessi.
L’amore che il Cristo ha manifestato senza riserve esalta la dedizione e l’ambizione dell’apostolo. La morte di
Gesù deve produrre la morte al male di tutti gli uomini che accettano il suo sacrificio. Questa morte del credente
avviene idealmente sul Calvario identificandosi nella morte fisica di Gesù che esprime in occasione del
battesimo. Per Paolo il credente non appartiene più a se stesso, la sua persona è pienamente impegnata al
servizio di Cristo Gesù e lo manifesta svolgendo un’opera nei confronti dei suoi fratelli.
In questa affermazione Paolo esprime il concetto che la morte di Gesù non è in sostituzione della nostra,
per soddisfare la vendetta divina. Infatti non dice: «Uno è morto al posto (anti) di tutti» al contrario: «Uno è
morto in favore e a vantaggio (uper) di tutti».
Paolo non identifica e non sostituisce la morte di Cristo con quella degli uomini, ma al contrario presenta
una identificazione del credente con la morte del Cristo: «Quindi tutti morirono».
Nella lettera ai Romani 5 l’apostolo presenta Gesù come il secondo Adamo. Con il peccato del primo
Adamo l’umanità è legata a lui nella ribellione al Padre, nella morte. Con la vittoria del seconda Adamo,
l’umanità è legata a Gesù nella vittoria sul male, nella vita eterna. «Ci ha resuscitati con lui e con lui ci ha fatto
sedere nei luoghi celesti in Cristo Gesù» Efesi 2:5. In Cristo ciò che era patrimonio suo diventa eredità di tutti.
Questo concetto ci è espresso nella figura di Abramo, il padre dei credenti. Come Abramo nel restituire la
decima a Melchisedec, il suo futuro discendente, nipote Levi, che avrebbe beneficiato della decima del popolo
d’Israele, in lui (Abramo) fu sottoposto alla decima restituendola a sua volta. La discendenza levitica, in Abramo
la restituiva al sacerdote di Gerusalemme. Quello che fece Abramo, Levi lo fece altrettanto (Ebrei 7:9,10). Gesù
ha gustato «la morte per tutti» Ebrei 2:9, non quale punizione per tutti, ma perché ogni uomo era in lui, «in
Cristo Gesù». «Così, fratelli miei, anche voi siete diventati morti alla legge mediante il corpo di Cristo» Romani
7:4.
Come Adamo è il padre dell’umanità, Abramo il padre del popolo di Dio, Giacobbe ed Esaù, sono i
capostipiti di due grandi popoli in lotta tra di loro (Genesi 25:19-23), come il credente in Cristo è ora alla
presenza del Padre nel santuario celeste, dove il Signore svolge la funzione di sommo sacerdote, così Gesù è il
padre dell’umanità redenta, di tutti coloro che rinascono e vivono in lui. Sebbene Gesù non venga mai chiamato
esplicitamente padre dei credenti ne è comunque il capostipite, il secondo Adamo, è colui mediante il quale è
venuta la risurrezione (1 Corinzi 15:21,22). Scrive W. Prescott: «Appena noi entriamo nella famiglia, entriamo
in possesso di tutto quello che il Padre della famiglia ha fatto. Ciò è illustrato pallidamente quando nella famiglia
terrena nascono dei bambini: essi hanno dei diritti certi, su tutto quello che il padre ha fatto, il che è
rappresentato dalla sua proprietà. Il bambino ha certi diritti e pretese, che la legge riconosce. Questa è una
81
Idem, p. 248.
G. Bonsirven, o.c., p. 311.
83
PRESCOTT William, La Parole faite chair, Québec, 1994, pp. 13,14.
84
SIMONNEAU Pierre, Christ notre victoire, ou le viel homme crucifié dans la chair, mémoire de Master in Teologia Applicata,
Collonges sous Salève 1999.
82
La pazzia di Dio
138
LA SALVEZZA NEL NUOVO TESTAMENTO
pallida illustrazione e, tuttavia, essa segue la stessa linea di pensiero, poiché noi siamo nati nella famiglia divinoumana, e abbiamo preso realmente il nostro posto in lui, per nostra propria scelta; non solo è vero che noi
abbiamo un diritto su certe cose che egli possiede, e che ha fatte, ma tutto quello che egli ha fatto, e tutto quello
che egli ha, appartiene a ogni membro della famiglia. .. Quindi in quanto figli e membri della famiglia, tutto
quello che ha fatto è nostro; tutto quello che ha è nostro; tutto viene a noi non appena siamo nati nella famiglia,
al momento stesso in cui diventiamo figli di Dio».85
In questa prospettiva la morte di Gesù al male, quale secondo Adamo, capostipite di una umanità redenta,
è la morte di tutti coloro che sono in Cristo Gesù, che sono rivestiti di lui, della sua grazia.
2 Corinzi 5:21
«Colui che non ha conosciuto peccato, Egli (il Padre) l’ha fatto peccato per noi,
affinché noi diventassimo giustizia di Dio in lui».
Gesù incarnandosi non ha ereditato, come ogni persona, la propensione al male; egli era il secondo
Adamo. È venuto tra di noi innocente e ha vinto ogni tentazione che gli proveniva dall’esterno, che lo invitava a
staccarsi dal Padre e, quindi, a peccare.
In che modo e quando Dio ha fatto Gesù peccato?
«Dio era in Cristo riconciliando il mondo con sé» dice Paolo al v. 19. Se dunque il Dio santo era in Cristo
come è possibile che Egli sia diventato peccato.
Questo testo è stato spiegato in tre modi:
- Dio tratta Gesù come peccatore, come la personificazione del peccato;
- Gesù manifestato in carne di peccato, simile a carne di peccato (Romani 8:3) subisce la conseguenza del
peccato;
- Gesù è stato fatto peccato, cioè: sacrificio per il peccato.
1. La prima tesi sostiene che Dio ha fatto Gesù peccato per noi, trattando il suo diletto figlio come il più
grande dei peccatori, come il peccato stesso.
Con Origene e Cirillo d’Alessandria, per la prima volta, Gesù viene raffigurato al becco emissario per
Azazel che nel giorno dell’espiazione dei peccati di tutto il popolo d’Israele era portato nel deserto.
Gesù quale becco emissario non era visto come colui che subiva la pena dei peccatori, ma come colui che
allontanava i peccati dalla terra per portarli al cielo, dove questa vittima di propiziazione, nostro “paracletos”
intercede continuamente per noi, secondo il pensiero di 1 Giovanni 2:1,2.86
Per Teodoreto i due becchi sono la raffigurazione delle due nature di Gesù.87
Girolamo scriveva: «L’altro capro ricevette tutti i peccati del popolo come il “tipo” del Signore Salvatore
e li portava nella solitudine; e così Dio è placato di fronte alla moltitudine».88
È però a Denys le Chartreaux che va attribuito l’errore di aver rappresentato nella storia
dell’interpretazione, il Cristo come il becco emissario che camminava verso il Calvario caricato dei peccati degli
uomini.
Con la Riforma l’aspetto giuridico e punitivo viene accentuato, come fanno anche autori cattolici.
Il protestante Holtzmann, commentando questo passo, diceva: «La frase paradossale: “Colui che ignorava
il peccato Egli l’ha fatto peccato per noi”; non può essere spiegata che per sostituzione e imputazione. Dio rende
l’innocente responsabile del peccato e, per questo, l’identifica con il peccato stesso, fa di lui la personificazione
del peccato e per conseguenza l’oggetto della sua giustizia vendicatrice; di modo che il Cristo, nella sua morte,
realizza la piena concezione del peccato e rappresenta la totalità dei peccati che sono stati commessi. Per questo
motivo i peccatori sono sottratti alla collera che Dio ha per il peccato. Il castigo di Dio ha colpito Gesù al posto
dei peccatori. Così essi diventano giustizia di Dio in lui, per una specie di scambio reciproco che trasferisce al
Cristo i peccati degli uomini e agli uomini la sua giustizia».89
Bossuet nella sua enfasi oratoria scriveva: «È Dio stesso che ha messo su Gesù Cristo l’iniquità di tutti gli
uomini. Eccolo, questo innocente, questo agnello senza macchia, diventato tutto d’un colpo un becco di
abominazione, caricato dei crimini, delle empietà, delle bestemmie di tutti gli uomini».90
85
PRESCOTT W. W., In Cristo, la Famiglia Divina-Umana, ed. Alfa, Romania, s.d., p. 26.
SABOURIN Léopold S.J., Le buc emissaire, figure de Christ?, p. 58
87
Idem.
88
Idem, p. 67.
89
Cit. P.A. Médébielle, o.c., col. 181.
90
BOSSUET, Œuvre complete, éd. Cuthenin-Chalandre, Paris 1840, Première sermon pour le Vendredi saint, vol. VI, p. 135; cit. L.
Sabourin, o.c., p. 68.
86
La pazzia di Dio
139
CAPITOLO VI
P.A. Médébielle arriva ad affermare: «Gesù è stato caricato degli sbagli dell’umanità, e Dio lo ha reso
responsabile dei nostri crimini e con la responsabilità, ha fatto così cadere su di lui la pena: egli (Dio) l’ha
costituito peccatore universale e lo ha trattato come tale... Gesù Cristo è in qualche modo, per sostituzione, il
peccato personificato; tutto ciò che c’è stato e che ci sarà fino alla fine, di peccato nel mondo, è imputato da Dio
sul solo Gesù».91
H. Lasître nel Dictionnaire de la Bible scriveva: «San Paolo, nella sua lettera agli Ebrei 9:1-4 spiega il
senso figurato dei riti della festa dell’espiazione, ma non dice in che modo il becco emissario rappresentava
Gesù Cristo. È probabile che, nella stessa passione, il Salvatore riuniva nella sua persona il ruolo dei due becchi
nel modo seguente. Come l’emissario porta veramente le nostre malattie, e si carica lui stesso dei nostri dolori
(Isaia 53:6), è lui che toglie i peccati del mondo (Giovanni 1:29), e che assicura una redenzione eterna (Ebrei
9:12). Molto di più, Dio non ha solo costituito Gesù Cristo vittima per il peccato, l’ha fatto peccato in persona (2
Corinzi 5:21), di modo che Gesù Cristo cacciato, come già avveniva per il becco emissario, è il peccato stesso
cacciato per non più ritornare».92
Ernest Bernard Allo ribadisce il pensiero di Lesître in questi termini: «L’uomo che non ha mai commesso
peccato, Dio ne ha fatto l’incarnazione del peccato; l’ha trattato come il più grande dei peccatori, affinché gli
uomini peccatori diventassero giustizia di Dio».93
Ma come è possibile pensare che Gesù sia stato fatto peccato senza essere diventato a sua volta
peccatore?
A critica di questa spiegazione che suscita stupore per ciò che le persone possono dire, Léopold Sabourin
scrive: «A nostra conoscenza nessuno scrittore anteriore alla Riforma ha utilizzato l’imposizione simbolica dei
peccati sul becco emissario per illustrare i paradossi paolinici di 2 Corinzi 5:21 e di Galati 3:13, secondo i quali
si pretende che il Cristo sarebbe diventato il peccato personificato, la maledizione stessa»94
J.F. Collanges ricorda e conferma: «L’interpretazione quasi universalmente presente nei commentari e
nella teologia della Riforma è quella di uno scambio giuridico e forense che comporta una doppia imputazione:
il peccato dell’uomo a Cristo, la giustizia di Cristo all’uomo; il Cristo è concepito e fatto peccato nel senso che
egli impersonifica tutto il peccato dell’uomo, che è la maledizione incarnata (Galati 3:13) su cui si riversa la
collera di Dio che non perdona fino a che non sia stato placato punendo al posto nostro Suo Figlio».95
L. Sabourin continuando nella sua critica osserva: «I primi riformatori hanno trovato in 2 Corinzi 5:21 un
fondamento per una teoria quasi interamente nuova: il Cristo prendendo su di sé tutti i peccati del mondo diventa
per così dire l’amartia (peccato) personificato, nonché “maledizione” Galati 3:13, e subisce al posto nostro il
castigo della pena dovuta al peccatore. È una interpretazione senza appoggio reale nel N.T., benché diversi
autori cattolici abbiano scritto in questo senso senza troppo rendersi conto che essi si impegnavano in tal modo
in una deviazione dottrinale, che giungeva a rappresentare il Cristo come il becco emissario di Levitico 16».
Come abbiamo già visto, le teorie della redenzione riflettono spesso l’ambiente storico in cui sono
formulate. Questo testo di Paolo al tempo della Riforma è stato preso a prestito dai Riformatori per spiegare
nella visione giuridica e legale d’allora la giustificazione per fede contrapponendola alla salvezza per opere
meritorie e alle indulgenze presentata dal cattolicesimo. Nel tentativo di esaltare la gratuità della salvezza quale
dono di Dio manifestato in Cristo Gesù, la spiegazione di 2 Corinzi 5:21 pensiamo sia stata forzata e alterata.
L’errore fondamentale di questa interpretazione, che la rende insostenibile, è di aver identificato Gesù
con il capro per Azazel che invece raffigura Satana (vedere seconda parte: Cap. VII, Gesù ed il giudizio preliminare), e quindi vederlo come l’essere santo e innocente che incarna il peccato.
A. Feuillet giustamente scrive: «Questa idea infelice, così frequentemente espressa dalla Riforma in poi,
che bisognerebbe da parecchio tempo abbandonare per sempre: il Cristo sarebbe stato trattato da Dio come una
vera personificazione dei peccati, esattamente come se i peccati degli uomini fossero diventati i suoi. In Isaia
53:10, testo al quale S. Paolo deve ispirarsi, la parola ebraica asam, che può significare “peccato”, riveste in
effetti, come spesso in altri casi, l’accezione di sacrificio per il peccato. Questo stesso senso di sacrificio per il
peccato sarebbe conferito da S. Paolo al termine amartia. Quando dichiara del Cristo che Dio l’ha fatto peccato
per noi, non vorrebbe dire che questo: Dio l’ha fatto sacrificio per i nostri peccati. Questa esegesi non ha
solamente un buon appoggio scritturale, ma è solidamente attestata dalla tradizione».96
2. La seconda tesi accosta la dichiarazione di 2 Corinzi 5:21 a quella di Romani 8:3 in cui l’apostolo
Paolo dice che Gesù è venuto «in carne simile a carne di peccato e a motivo del peccato ha condannato il
peccato nella carne».
91
P.A. Médébielle, o.c., col. 180,181.
Cit. L. Sabourin, Rédemption sacrificielle, éd. Desclée de Brouwer, 1961, p. 140.
93
Cit. Idem, p. 139; Le buc... , p. 67.
94
Idem, p. 141.
95
COLLANGES J.F., Enigmes de la Deuxième Épître de Paul aux Corinthiens, Étude Exegetiques de la 2 Cor. 2:14-7:4, Cambridge
University, Press, 1972, p. 276.
96
FEUILLET André, Christologie paulinienne et tradision biblique, éd. Desclée, Paris 1973, pp. 143,144.
92
La pazzia di Dio
140
LA SALVEZZA NEL NUOVO TESTAMENTO
Gli interpreti presentano delle differenti sfumature, ma concordano sul concetto di fondo. «Se il Cristo è
stato fatto peccato, dice Sant’Illardo, è perché doveva condannare il peccato nella sua propria carne, poiché,
secondo Ambrosiaste, diventare carne è diventare peccato, poiché ogni carne è sottomessa al peccato, che è
Satana. Poiché la morte, dice Agostino, viene dal peccato, non è essa anche “peccato” per il fatto che Cristo era
mortale, portava l’assomiglianza della carne peccatrice e morendo alla sua carne morì al peccato. Questa visione
delle cose prosegue nel Medio Evo, attira l’attenzione di s. Tommaso d’Aquino...
Al tempo della Riforma questa interpretazione cadde nel dimenticatoio anche presso un buon numero di
autori cattolici; rinasce oggi in una forma un po’ nuova, in cui il realismo degli antichi autori cede il posto a dei
modi di espressione più conformi al pensiero moderno; eccone un esempio: «Considerando il peccato e la
giustizia di Dio come due potenze opposte, l’una producente la morte, l’altra operando la vita, Cristo è
presentato abbandonato da Dio alla potenza del peccato..., per subirne gli effetti, cioè la morte, affinché a nostra
volta ne siamo strappati, da questa potenza, per essere sottomessi alla potenza vivificante della giustizia di Dio.
È cosi che il Cristo è stato fatto peccato per noi affinché noi diventassimo giustizia di Dio. La giustizia di Dio
sarebbe ancora l’attività giustificante e salvifica di Dio che si manifesta in nostro favore mediante la nostra
unione con Cristo il quale ha subito per liberarci dal castigo del peccato e dalla morte».97 Stesso pensiero di
Bonsirven Giuseppe: «Queste espressioni veementi (2 Corinzi 5:21; Galati 3:13) significano solamente che il
nostro fratello maggiore ha esteso fino alle estreme conseguenze la sua solidarietà con noi».98
3. La terza tesi si poggia sull’insegnamento dei Padri della Chiesa: Ambrosiaste, Pelagio, Cirillo di
Alessandria e soprattutto su s. Agostino. Fu la posizione che più si è perpetuata nel tempo e oggi sostenuta in
prevalenza da autori cattolici. Essa è più giustificabile filologicamente e trova la conferma nell’A.T.
«Dio ha fatto Cristo peccato» cioè “vittima”. «Paolo parlava molto bene il greco, ma pensava in ebraico»
precisa Leenhardt.99i
Ora nell’ebraico, lo stesso termine significa indifferentemente “peccato”, o “sacrificio per il peccato”,
solo il contesto ci permette di precisare il senso. Il biblista Roland de Vaux considerando che la legislazione
levitica dice che i grassi devono essere bruciati sull’altare e la carne dei sacrifici per i peccati delle persone
singole deve essere mangiata dai sacerdoti, dimostra che la vittima non diventa “peccato”, «è cosa santissima»
Levitico 6:22. Ciò contraddice la teoria che sostiene che la vittima sarebbe caricata dai peccati dell’offerente e
subisce la pena che lo doveva colpire. «La vittima non diventa peccato, essa è gradita a Dio che, in
considerazione di tale offerta, cancella il peccato. È evidente in questo senso rituale che il termine è ripreso da
san Paolo: “Il Cristo che non ha conosciuto il peccato Dio, l’ha fatto peccato (hatta’t), cioè vittima per il
peccato” 2 Corinzi 5:21».100
La parola amartia (peccato), notiamolo, è impiegata senza preposizione, per indicare così il «sacrificio
per il peccato» come avviene in diversi testi dell’A.T. Esodo 29:14; Levitico 4:21,24;5:9,12; Numeri 6:18-25.101
Ancora il Sabourin scrive: «La parola ebraica hatta’t ha diversi significati: indica il peccato, il sacrificio
che lo cancella e la vittima di questo sacrificio... Per esprimere il sacrificio per il peccato i LXX sono il più delle
volte ricorsi a una parafrasi come per amartia (che preciseremo più avanti), ma si trova anche amartia utilizzato
assolutamente per designare il sacrificio per il peccato (Esodo 29:14,30; 30:10; Levitico
4:8,20,21,24,25,29,32,34; 8:14b; Numeri 6:11,14-16; 18:9), nella formula amartia esti “è un (sacrificio per il)
peccato” (Levitico 4:24; 5:9,12), amartia sunagones estin “è un sacrificio per il peccato” Esodo 29:14, outos o
nomo tes amartias “è la legge del (sacrificio per il) peccato” Levitico 6:18-26».102
S. Daniel sostiene che questo termine amartia è usato per tradurre hatta’t,103 designa il rito e non l’offerta
o la vittima. Per indicare la vittima verrebbe adoperato un derivato, per es. Levitico 4:29: «Metterà la mano sul
capo dell’offerta per il peccato (tou amartematos)» (cfr. Esodo 29:14). Secondo questo uso si potrebbe pensare
che in 2 Corinzi 5:21 Paolo affermi che Dio ha fatto Cristo sacrificio d’espiazione per il peccato proprio come
Giovanni dice che «Gesù Cristo il Giusto» è «espiazione per i nostri peccati (ilasmos)» 1 Giovanni 2:2, cfr.
4:10; Romani 8:25.
A proposito della formula paolina: «Dio ha fatto peccato (amartia epoisen)» 2 Corinzi 5:21, è curioso
notare che il verbo greco è usato comunemente nella versione dei LXX per designare l’azione di offrire un
sacrificio (cfr. Esodo 29:38; Numeri 6:11,16; Ezechiele 43:26;45:22,23, 25)».104
97
TABAC E., Le problème de la justification dans saint Paul, Louvain 1908, p. 128.
BONSIRVEN Giuseppe, Theologie du N.T., Paris 1951, p. 397; cit. da L. Sabourin, o.c., p. 136.
99
LEENHARDT F.J., L’Épître de s. Paul aux Romains, Neuchâtel 1957, p. 30; cit. L. Sabourin, Sacrifice, in, Supplement au
Dictionaire de la Bible, col. 1518,1519.
100
VAUX Roland de, Le Istituzioni dell’A.T., ed. Marietti, Torino 1964, p. 408; cit. idem.
101
L. Sabourin, o.c., col. 1518,1519. Vedere L. Moraldi, Per la corretta lettura..., pp. 330,331. Vedere F. Godet, o.c., p. 148.
102
SABOURIN Lèopold, Il sacrificio di Gesù e le realtà cultuali, in Bibbia e Oriente, n. 20, 1968/1, pp. 30,31.
103
DANIEL S., Recherches sur le vocaboulaire du culte dans la Septante, Paris 1966, p. 304.
104
L. Sabourin, o.c., p. 31
98
La pazzia di Dio
141
CAPITOLO VI
È in questo senso che i Padri più autorevoli della Chiesa hanno compreso il nostro testo. «Dopo aver
citato Romani 8:3 e 2 Corinzi 5:21, san Cirillo Alessandrino scriveva: “Ciò che noi riteniamo è che Cristo è
stato fatto sacrificio per il peccato, perché Cristo è stato immolato essendo la nostra Pasqua (1 Corinzi 5:7)”».105
Agostino riprende l’esegesi dei suoi predecessori quando scrive, citando, anche lui, Romani 8:3 e 2
Corinzi 5:21: «La carne dunque è chiamata peccato poiché ha assomiglianza con la carne del peccato per essere
sacrificio per il peccato. Dice infatti la stessa cosa l’apostolo in un altro luogo: “Colui che non ha
conosciuto...”».106
J.F. Collanges dopo aver ricordato che nella LXX, “amartia“ sacrificio per il peccato, lo si trova in
Levitico 4:21;6:25; Osea 4:8; Numeri 6:14, critica l’esegesi di L. Sabourin in questi termini: «Amartia impiegato a due riprese nella stessa frase (2 Corinzi 5:21) può difficilmente avere un senso diverso ogni volta,
soprattutto qui dove esiste un legame molto stretto tra 21 a e 21b. Se Paolo avesse voluto dare alla seconda volta
un senso diverso dalla prima è quasi certo che si sarebbe reso conto della possibile confusione e avrebbe messo
le cose in chiaro. Se è vero che si possa trovare amartia con il significato di sacrificio per il peccato nella LXX,
questo significato non lo si trova in Paolo, come non lo si trova nel resto del N.T. Del resto l’antitesi amartia
(peccato), dikaissune theou (giustizia di Dio) presente nel nostro versetto non permette di comprendere amartia
diversamente che come peccato. È d’altronde la linea giuridico-forense che predomina dappertutto presso Paolo
e non l’evoca giustamente al v. 19?».107
A questa critica L. Sabourin replica: «L’obiezione ci sembra debole per il fatto che si tratta qui non di
senso equivoco, ma di senso derivato. Bisogna pure aggiungere questo: è impossibile nel nostro versetto dare
esattamente lo stesso senso al primo e al secondo amartia. Nella prima frase, ton me gnonta amartia (colui che
non ha conosciuto peccato) si tratta dell’atto di peccare, chiaramente inapplicabile nel secondo, amartia
epoiesen (è stato fatto peccato)».108
L. Sabourin aggiunge: Paolo «impiegando amartia in un senso relativamente nuovo (unica volta nel
N.T.), arricchisce espressamente la lingua religiosa dei suoi lettori con un concetto profondamente biblico…
Una terza obiezione, la più seria, forse, che si oppone all’esegesi “sacrificium pro peccato”, si riferisce al
mantenimento di un parallelismo: “Gesù Cristo, scrive Prat, deve diventare peccato per noi, come noi dobbiamo
diventare giustizia in lui».109 «Noi osserviamo prima di tutto che questo ultimo enunciato è accettabile se il
Cristo è veramente diventato “peccato”».110
L. Sabourin ricorda che l’apostolo Paolo nel nostro testo in esame ripropone Isaia 53:9-11. «Il
parallelismo letterale e concettuale lo indicano ognuna delle tre proposizioni della frase paolina trova il suo
corrispondente in Isaia:
2 Corinzi 5:21
«Colui che non ha conosciuto peccato...»
«Egli (Dio) l’ha fatto essere peccato»
«affinché noi diventassimo giustizia di Dio
in lui»
Isaia 53
v. 9 «non aveva commesso violenza, né v’era
stata frode nelle sua bocca”
v. 10 «Dopo aver dato in sacrificio per la
colpa...»
v. 11 «il mio servo il giusto renderà giusti
molti...».111
Il pensiero di Paolo è espresso anche concettualmente e verbalmente da Pietro nella sua prima lettera:
«Poiché anche Cristo ha sofferto una volta per i peccati, Egli giusto per gli ingiusti, per condurci a Dio; essendo
stato messo a morte, quanto alla carne, ma vivificato quanto allo spirito» 3:18. Con questa dichiarazione
l’apostolo presenta la morte di Gesù come il sacrificio che ci conduce al Padre e non come chi è identificato con
il peccato e subisce la pena.
L’espressione peri amartia per il peccato è la formula che la LXX utilizza per indicare il sacrificio per il
peccato. Gesù è il sacrificio che il Padre propone all’uomo per purificarlo dal suo peccato. Il peccato è vinto
nella morte con la quale il figlio si consacra al Padre e in lui la natura umana vince il proprio nemico. Il credente
esprime simbolicamente il suo legame con il Cristo in occasione della Cena prendendo il pane e il vino. La sua
morte al peccato e la sua nascita a nuova vita sono state manifestate in occasione del battesimo.
L’apostolo non dice che Gesù è stato fatto peccato per attirare su di sé il giudizio di morte da parte del
Padre, ma «affinché gli uomini diventassero giustizia di Dio in lui». Gesù non assorbe il giudizio di Dio, ma
105
Cirillo d’Alessandria, Glaph in Leviticus 69,518s. cf. lettera 41, ad Acazio di Nelitene: P.G. 77, c. 209; cit. L. Sabourin, o.c., pp.
29,30.
«Qui la morte di Gesù Cristo… introduce o simboleggia una nuova era, come già l’agnello pasquale o dell’esodo (Esodo 12)» O.
Kuss, o.c., p. 224.
106
Agostino, Sermo 134, IV, 5; P.L. 38, c. 745; cit. idem, p. 30
107
J.F. Collanges, o.c., p. 278.
108
L. Sabourin, Redemption.., p. 155.
109
L. Sabourin, o.c., vol. II, p. 244.
110
Idem, pp. 157,158
111
L. Sabourin, Rédemption..., pp. 156,157.
La pazzia di Dio
142
LA SALVEZZA NEL NUOVO TESTAMENTO
vince il male anche nella situazione ingiusta, dolorosa di morte nella quale gli uomini l’hanno posto a causa
della loro malvagità.
Il Padre non intervenendo per liberare il figlio e lasciandolo mettere in croce, pone il Cristo in un’ottica
di peccato (lo pone come chi veniva considerato maledetto da Dio perché appeso al legno (Deuteronomio
27:25)), benché non abbia commesso nessun peccato e non sia un peccatore. In questo senso Gesù è diventato
un sacrificio per il peccato, la croce ne è il simbolo e tramite quanto è avvenuto su di lei il peccato è vinto.
In questa prospettiva si evita di vedere come scrive Moltemann in Le Dieu crucifié, «Dio contro Dio».
Galati 3:13
«Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge, essendo diventato maledizione
per noi, (poiché sta scritto: “Maledetto chiunque è appeso al legno”)».
L’apostolo Paolo scrive questa lettera ai Galati perché è preoccupato e rammaricato a causa loro. Essi in
un primo momento avevano accettato con entusiasmo la sua predicazione della salvezza quale dono della grazia,
e avevano iniziato a camminare nel Signore ricevendo il suo Spirito (3:2). Ma a seguito di un lavoro compiuto
da falsi fratelli, che come guastatori seguivano le tracce dell’apostolo, i Galati, in un modo insensato, senza
possibilità alcuna di riuscita, avevano deciso di giungere alla perfezione mediante le proprie opere, che Paolo
chiama della carne (3:3), così da realizzare con le medesime una giustizia propria derivante dall’osservanza della
legge.
Questa strada che avevano iniziato a percorrere, abbandonando quella presentata da Paolo che li univa
allo Spirito di Dio, non poteva portare alla salvezza ma al legalismo, a una giustizia apparente, morta. È
nell’unione con il Cristo vivente (2:20) che il credente realizza la vera giustizia. Nel presentare la centralità della
salvezza in Cristo Gesù, già all’inizio della sua lettera, dopo i saluti, in un modo inconsueto al suo stile, Paolo
ricorda quanto Gesù ha fatto: Egli «ha dato se stesso per i nostri peccati, alfine di strapparci dal presente secolo
malvagio» 1:14. L’apostolo, ricordando fin dall’inizio, il grande fatto della redenzione, quale mezzo unico di
salvezza, voleva di già confutare gli errori che in seguito avrebbe combattuto. Lo scopo finale che aveva il
Salvatore donandosi per i nostri peccati, in sacrificio espiatorio (1 Timoteo 2:6; Tito 2:14) - in sacrificio di
purificazione, di liberazione -, era di strapparci da questo presente secolo malvagio.
«Il primo di questi atti, “dare se stesso”, indica la redenzione compiuta sul Calvario; il secondo,
“strapparci dal nemico”, indica la rigenerazione, risultato dell’unione con Cristo Gesù come il tralcio con la vite.
Questi due atti di grazia benché distinti, sono sempre inseparabilmente uniti nella Scrittura; e, in effetti, l’uno
produce l’altro in tutti coloro che si uniscono al Salvatore mediante una fede vivente».112
Nei versi precedenti al nostro testo in esame - 3:13 -, Paolo aveva detto che tutti coloro che mettono la
loro speranza nelle opere della legge sono maledetti, perché la legge pronuncia una maledizione contro chiunque
trasgredisce uno dei precetti (v. 10; Deuteronomio 27:26). Inoltre la legge non può togliere questa maledizione
giustificando l’uomo perché, secondo quanto insegna l’A.T., è la fede quella che giustifica (v. 11; Habacuc
2:4) e la legge non si basa sul principio della fede, ma sul principio delle opere (v. 12; Levitico 18:5).
La maledizione colpisce i trasgressori della legge e quelli che si affidano solo ad essa. I comandamenti
sono sì una luce che indica ciò che è bene e ciò che è male, ma non hanno forza in sé per dare all’uomo la
capacità di agire in conformità alle proprie prescrizioni. Essi illuminano, ma non sostengono. È Gesù che ci
libera dalla maledizione della legge.
Chi maledice o quale maledizione Gesù subisce?
A questa domanda si sono date tre risposte:
- subisce la maledizione della legge;
- subisce la maledizione di Dio. Fa anche parte di questa risposta il concetto che Gesù ha subito la pena che
avrebbero dovuto subire i malvagi;
- Gesù è maledetto nell’opinione degli uomini.
1. P. Benoit scrive a favore della prima tesi: «Il Cristo morendo sulla croce ha subito dunque al nostro
posto (uper emou) la maledizione della legge... Il senso ovvio è dunque che nella persona del Cristo, la legge,
sistema di retribuzione fondato da Dio, esercita la condanna che fa cadere sui peccatori, o meglio su tutti coloro
che sono sotto il suo regime e non si basano che su di essa (Galati 3:10)... Dal momento che si fa intervenire la
legge, e la sostituzione giuridica che permette di soddisfarla, tutto si chiarisce e si estende perfettamente alla
morte del Cristo».113
La Bibbia di Gerusalemme in nota a Colossesi 2:14 scrive: «Il regime della legge, proibisce il peccato, e
sfocia in una sentenza di morte portata contro l’uomo trasgressore, (cfr. Romani 7:7). È questa sentenza che Dio
112
113
BONNET Louis, Le Nouveau Testament, vol. III, Les Épîtres de Paul, 2a ed., Lausanne 1875, pp. 320,334.
BENOIT Pierre, La Loi et la Croix d’après sait Paul, in Revue Biblique, n. 47, 1938, pp. 482,495; cit. da L. Sabourin, Rédemption...,
p. 143.
La pazzia di Dio
143
CAPITOLO VI
ha soppresso eseguendola sulla persona di suo Figlio: dopo averlo “fatto peccato” 2 Corinzi 5:21, “sottomesso
alla legge” Galati 4:14, e “maledetto” da essa (Galati 3:13)».114
C’è una maledizione che pesa sui trasgressori della legge e una maledizione che pesa su Gesù. Gli uni
sono maledetti dalla legge (Deuteronomio 27:25) perché trasgressori (Galati 3:10), mentre Gesù è considerato
maledetto perché, sebbene innocente, è appeso come un colpevole. «La maledizione che pesa sopra di lui è ben
diversa da quella che pesa sopra gli Ebrei: tutte e due sono pronunciate dalla legge, ma una è reale, e l’altra è
apparente; una è valida agli occhi di Dio, l’altra ha valore soltanto nella stima erronea degli uomini: una deriva
da una trasgressione della legge, l’altra risulta da un fatto senza rapporti con la legge; una ha per effetto la giusta
morte del colpevole, l’altra ha per causa la morte ingiusta di un innocente. Non bisogna completare
arbitrariamente il pensiero di Paolo, col rischio di falsificarlo o di sviarlo. Paolo non insinua per nulla che la
legge, nel maledire a torto l’innocente, perde il diritto di maledire i colpevoli; né che la legge, ottenendo la morte
di Cristo, riceve quanto le è dovuto e non abbia dunque più nulla da esigere: queste sono pure fantasie degli
esegeti ridotti a mal termine».115
A questo modo di pensare ci si chiede come la legge santa, giusta e buona (Romani 7:12) possa maledire
un innocente. Non sarebbe ciò in contrasto con la propria natura?
2. La seconda tesi sostiene che sia il Padre a maledire il Figlio.
Coloro che sostengono che Gesù ha subito la maledizione riservata ai malvagi non sempre in un modo
esplicito, dicono che a maledire il figlio sia il Padre.
Lutero spiegava Galati 3:13 nel modo seguente: Gesù «rivestì se stesso della nostra persona, pose i nostri
peccati sulle sue proprie spalle e disse: “Io ho commesso i peccati che tutti gli uomini hanno commesso”… Così
Cristo divenne una maledizione per noi, ed è diventato un peccatore che merita l’ira di Dio. Da questo fortunato
scambio con noi, Egli prese su di sé la nostra persona peccatrice e la scambiò con la sua persona innocente e
vincitrice».116
Melantone affermava: «Così grande è la severità della giustizia che non ci sarebbe riconciliazione se non
ci fosse una pena subita; così grande è la collera che il Padre eterno non è placato se non mediante la morte di
suo Figlio... Così grande è l’amore del Figlio per noi che ha fatto deviare su di sé questa vera ed immensa
collera».117
Il professore E. Ménégoz scriveva: «Galati 3:13. Qui “per noi” non significa solamente “in nostro
favore”, ma anche “al nostro posto”; poiché il Messia, il Figlio di Dio, non merita questo supplizio... mentre
siamo noi, i peccatori, i colpevoli, che abbiamo meritato la collera di Dio, la maledizione e la morte. Il Figlio di
Dio si è fatto uomo per sostituirsi a noi, per prendere su di lui la maledizione che noi abbiamo meritato, per
soffrire al posto nostro, in una parola, per espiare i nostri peccati, allo scopo di liberarci da una giusta condanna.
Uper (per noi) ha qui il senso di “anti“, al posto di. Il Cristo è morto per noi, morendo al posto nostro.
2 Corinzi 5:21, nella transazione tra Dio e il rappresentante dell’umanità, questi è stato fatto “peccato” in
vece e al posto degli uomini... Dio anziché imputare i peccati agli uomini colpevoli, li imputa al loro sostituto, e
considera i colpevoli liberi...
Il Cristo si è dunque abbandonato all’ultimo supplizio per subire al posto dell’umanità, la giusta
condanna che questa aveva meritato per i suoi peccati. Ecco, secondo Paolo, il senso nascosto, divino, della
morte del Messia».118
Il Vocabulaire Biblique dei riformatori svizzeri riporta: «Nella Passione del Cristo, il giudizio ultimo è
stato anticipato: la collera e la maledizione di Dio contro il mondo in rivolta sono caduti sul solo Cristo in
croce perché egli subendoli li allontana (2 Corinzi 5:21; Galati 3:13)».119
Autori cattolici si esprimono nello stesso modo.
I cattolici G. Kuss e L. Muller scrivono: «Le esigenze della sua giustizia incorruttibile hanno trovato
soddisfazione nell’orribile dramma del Calvario... Dio ha esposto suo Figlio a una morte ignominiosa, e per
soddisfare la sua giustizia e per salvare l’umanità; il Cristo ha preso su di sé la maledizione (Galati 3:13), è
diventato peccato per noi (2 Corinzi 5:21), e ha subito, al posto nostro, la morte sulla croce».120
Ernest (Bernard Marie) Allo scrive: «L’uomo che non ha mai conosciuto il peccato, Dio ne ha fatto
l’incarnazione del peccato, l’ha trattato come il più grande dei peccatori, come un maledetto (Galati 3:13), come
114
Bibbia di Gerusalemme, nota a Colossesi 2:14.
F. Prat, o.c., pp. 196,197.
116
LUTERO Martin, Lectures on Galatians, LW 26, 283,284; cit. La RONDELLE Hans K., Salvation and the Atonement; a biblical
Exegetical Approach, in Jornal of the Adventist Theological Society, 3/1, 1992, p. 35.
117
Melantone, cit. RIVIÈRE J., Le dogme de la Rédemption dans la théologie contemporaine, Albi 1848, p. 389; cit. da L. Sabourin,
o.c., p. 149.
118
MÈNÈGOZ E., Le péché et la Rédemption d’après saint Paul, Paris 1882, pp. 220,221,224,250; cit. da L. Sabourin, idem, pp.
146,147.
119
ALLMEN J.J. Van, art. Baptême, in Vocabulaire Biblique, Neuchâtel 1954, p. 34; cit. L. Sabourin, idem, p. 146.
120
KUSS O. et MULLER L., Doctrine du Nouveau Testament à la portée de tous, Paris 1938, p. 267; cit. L. Sabourin, idem, p. 149.
115
La pazzia di Dio
144
LA SALVEZZA NEL NUOVO TESTAMENTO
un becco emissario, affinché gli uomini peccatori diventassero giustizia di Dio. È il soggetto della lettera ai
Galati e ai Romani».121
Non si può accettare questa spiegazione perché a sostegno dell’identificazione di Gesù con il becco
emissario non c’è un solo passo biblico. Tutte le affermazioni sono invalidate da un presupposto sbagliato anche
se universalmente accettato.
Inoltre non esiste nel N.T. un testo in cui Dio è irritato con suo Figlio. Léopold Sabourin fa notare:
«Prima della Riforma non si è mai scritto, a nostra conoscenza, nulla di simile a proposito di 2 Corinzi 5:21 e
Galati 3:13, testi che potevano più di ogni altro fornire l’occasione».122
Deuteronomio 21:23 nella versione dei LXX dice: «È maledetto da Dio chiunque è appeso al legno»; il
testo ebraico dice: «Un appeso è una maledizione di Dio». Avrebbe il Padre maledetto il suo ben amato, il Santo,
il Giusto (Atti 3:14)?
L’apostolo non dice nulla di tutto questo. Questa maledizione da parte del Padre «è una impossibilità
morale».123
Lo stesso Paolo in Efesi 5:2 dice: «Cristo vi ha amato e ha dato se stesso per voi in offerta (volontaria) e
sacrificio a Dio, quale profumo di odore soave». Per evitare ogni malinteso, Paolo sopprime, nel citare il testo
greco, “upo Theou“ - «da Dio», che non conviene alla persona di Cristo o almeno richiederebbe una
spiegazione. Scrive F. Mussner: «Paolo nel citare il Deuteronomio tralascia upo theou - da Dio -, perché
secondo lui era impossibile che il Cristo crocifisso fosse maledetto da Dio stesso».124
Gesù non ha mai cessato di essere l’oggetto dell’amore del Padre. Pur soffrendo per i nostri peccati, sia
nel Getzemani, sia sulla croce, chiama Dio suo Padre (Matteo 26:29; Luca 23:46); ancor più, lui stesso dichiara
che il Padre l’ama, perché egli mette la sua vita per le pecore, per i peccatori (Giovanni 10:17).
Quando il testo biblico presenta antropologicamente la collera di Dio, questa non esprime mai la sua
vendetta contro l’innocente, bensì contro il peccato, i malvagi e i nemici del suo popolo. Essa troverà la sua
manifestazione ultima nel giudizio finale.
3. Nessuno maledice Gesù Cristo. Il Padre l’ama, la legge non lo può condannare perché non ha peccato,
ma ugualmente Gesù accetta di essere visto, considerato come un maledetto. Agli occhi dei suoi accusatori Gesù
non muore come una vittima innocente, ma come un colpevole. «Ha bestemmiato» aveva detto Caifa nel
sinedrio. «Avete udito la sua bestemmia. Che ve ne pare?». Ed essi rispondendo dissero: «È reo di morte» Matteo 26:65,66.
Il Signore è stato disposto a subire tutto questo, di essere considerato dagli uomini un maledetto, pur di
dimostrare aperta davanti a noi la strada dell’eternità. Gesù ha subito le conseguenze del nostro peccato per
guarirci dalla ribellione e sottrarci alla nostra giustizia e autosufficienza, che lo hanno condannato. Galati 3:13
vuol dire che «l’amore di Cristo per noi è stato tale da indurlo ad accettare di essere maledetto agli occhi delle
legge, perché questa era l’infamia sacra che colpiva colui che veniva appeso alla forca».125
Efesi 5:2
«Camminate nell’amore come anche Cristo vi ha amati e ha dato se stesso per noi
in offerta e sacrificio a Dio, qual profumo d’odore soave».
Paolo raccomanda agli Efesini di essere imitatori di Dio, cioè misericordiosi e pronti a perdonarsi a
vicenda (4:32 cfr Colossesi 3:12,13). Li esorta a camminare nell’amore imitando Gesù, del quale presenta la
morte come un dono completo della propria dedizione.
Le parole prosfora, “offerta” e thusia, “sacrificio”, “vittima”, indicano le due forme di offerta che
l’israelita portava al tempio: le oblazioni incruente e le vittime sacrificali. Nel pensiero di Paolo la morte di Gesù
corrisponde a tutto ciò che il credente dell’A.T. poteva donare all’Eterno come espressione della propria
consacrazione e lode. Gesù offre se stesso a Dio come offerta incruenta, vivendo una vita santa, invitandoci così
a consacrarci interamente al Padre; si offre in sacrificio cruento volontario e libero da qualsiasi costrizione,
accettando la morte che gli uomini gli hanno dato, affinché, se necessario e per rimanere fedeli, anche noi si sia
disposti a fare la stessa cosa.
Per Dio questa duplice offerta è un “profumo di odore soave”, secondo il linguaggio dell’antico patto
(Esodo 29:18,25,41; Levitico 1:9; ecc.).
121
122
123
124
125
ALLO E.B., La Second Épître aux Corinthiens, Paris 1937, p. 172; cit. L. Sabourin, idem, p. 139.
L. Sabourin, idem, p. 151.
L. Bonnet, o.c., p. 334.
MUSSNER Franz, Commentario teologico del Nuovo Testamento - La lettera ai Galati, ed. Paideia, Brescia, p. 366.
B. Sesboüé, o.c., p. 102.
La pazzia di Dio
145
CAPITOLO VI
Questa affermazione dell’apostolo riassumeva una professione di fede (Efesi 5:25; Galati 2:20) che la
Chiesa del tempo esprimeva, come del resto la Chiesa farà anche nel corso della storia. Il nostro testo è la
conclusione di una esortazione iniziata nel capitolo 4. Paolo scriveva: «Vi esorto a condurvi in modo degno
della vocazione che vi è stata rivolta» 4:1, precisandola nei vv. 2 e 3. Dopo la digressione dei vv. 4-16, riprende
l’esortazione ai vv. 17,22,23,24,25,26,28,29,30,31 per conclude con 5:1,2 pp.: «Siate dunque imitatori di Dio
come figli suoi diletti; camminando nell’amore». Affinché questa esortazione sia vissuta l’apostolo presenta nel
nostro testo l’esempio di Gesù.
1 Timoteo 2:6
«Il quale diede se stesso quale prezzo di riscatto per tutti».
Gesù aveva detto in Matteo 20:28; Marco 10:34:
«dounai ten psuchen aoutou lutron anti
pollon
dà
la vita
sua
riscatto al posto di molti».
Come abbiamo già detto, la preposizione greca anti (al posto di), nel greco della koiné è impiegato anche
col significato di: in favore di, corrisponde alla preposizione uper. Gesù ha dato la sua vita quale riscatto, mezzo
di riscatto, liberazione in favore di molti. Ciò sembra confermato dal modo di scrivere di Paolo.
L’apostolo riprende il pensiero di Gesù sostituendo la preposizione anti con uper:
«o
dous eauton antilutron uper
panton
il quale diede se stesso riscatto a favore di tutti».
Joachin Jeremias osserva: «Si vede come, parola per parola, 1 Timoteo 2:6 sia l’esatto equivalente
grecizzato di Marco, che invece è semitico».126
Coloro che vedono nella morte di Gesù un riscatto pagato al posto degli uomini, morte data in
sostituzione a quella dell’umanità, sostengono che la parola antilutron in questo testo dice la stessa cosa del
lutron anti del Vangelo. Ne risulta che uper, nella frase di Paolo, esprime il significato della parola antilutron e
prende - in virtù del contesto - tutto il valore della sostituzione con significato di anti. Il Cristo si è dato come
riscatto in favore di tutti gli uomini e in cambio, al posto di tutto ciò che essi avrebbero dovuto dare per acquistare la loro liberazione.127
Chi non condivide questa spiegazione sostiene che la parola antilutron «rinforza il significato di lutron,
riscatto, e non indica lo scambio di questo riscatto con le persone liberate. La relazione con gli interessati si
esprime, come d’ordinario, con uper».128
Antilutron è una parola rara in greco, assente nei LXX, compare unicamente nel nostro testo. Il dizionario
dà come unico significato: riscatto. Può essere tradotta come lutron, mezzo di liberazione, riscatto, prezzo di
riscatto.
L’idea che precede e segue la dichiarazione di Paolo esprime la volontà di Dio di salvare gli uomini. A
questo fine Gesù è stato dato in favore di tutti come antilutron, prezzo, cioè “mezzo” di liberazione.
Lettera agli Ebrei
La lettera agli Ebrei è stata scritta a credenti che da tempo avevano accettato Cristo Gesù come salvatore,
ma non vedendo compiersi il Regno di Dio sentivano sempre più la nostalgia del fasto della liturgia giudaica che
avevano abbandonato. In questa lettera la salvezza viene presentata nel quadro religioso.
La persona di Gesù, splendore della gloria di Dio e impronta della Sua essenza (Ebrei 1:3), quale Figlio
di Dio, umiliato nell’incarnazione, è ora superiore agli angeli, a Mosè e quale sommo sacerdote è superiore a
quelli dell’antico patto. È ora alla presenza del Padre avendo offerto se stesso come sacrificio perfetto stabilendo
una nuova alleanza-testamento, avendo aperto la via per fare accedere i fedeli al trono della grazia. Ai credenti
che vivono nella difficoltà, l’autore della lettera, invita alla perseveranza, proponendo esempi di fede, elencando
una lunga lista di personaggi storici. «Corriamo con perseveranza la gara che ci è proposta, fissando lo sguardo
su Gesù, colui che crea la fede e la rende perfetta» 12:2.
In considerazione che il rituale israelitico costituisce la parte centrale della lettera (vedere i capitoli 8-10),
facciamo alcune precisazioni.
126
127
128
JEREMIAS Joachin, Teologia del N.T., ed. Paideia, Brescia 1972, p. 336.
P.A. Médébielle, o.c., col. 185.
F. Prat, o.c., p. 206.
La pazzia di Dio
146
LA SALVEZZA NEL NUOVO TESTAMENTO
Un’offerta di farina, un’oblazione di olio o di vino o l’offerta delle primizie sono considerate nella
rivelazione biblica “sacrifici”. Il sacrificio della lode, l’olocausto, il sacrificio di ringraziamento o dell’alleanza e
comunione, pur essendo cruenti, non sono per questo né violenti, né hanno un valore punitivo. La messa a morte
della vittima è un aspetto del rito sacrificale mediante il quale l’offerente e l’officiante possono utilizzare il
sangue che è il simbolo della vita.
Anche nella lettera agli Ebrei il sangue non sembra in relazione con la punizione, bensì esso esprime il
corpo, la persona, la vita di Cristo (9:22; 10:10; 9:14). Il sacrificio cruento di Gesù è l’espressione della sua
preghiera e della sua supplica al Padre (5:7). Il credente offre a Dio il sacrificio della lode (13:15) e l’Eterno si
compiace nel sacrificio della beneficenza e della generosità espressi dai fedeli (13:16).
Il “sacrificio” nel messaggio biblico è un atto simbolico mediante il quale l’Israelita esprime la sua
volontà di accedere a Dio e di avere comunione con Lui. Ciò che ha valore nel rito non è la materialità
dell’offerta: la morte, il sangue, non sono loro che aprono l’accesso a Dio, ma tutto il rituale dovrebbe
esprimere, se non è compiuto con legalismo, i sentimenti del cuore del credente.
Anche il sacrificio per il peccato e di espiazione non sono una invenzione dell’uomo per raggiungere Dio.
Essi sono una rivelazione dell’Eterno il quale, chiedendo di compiere questo rito, fa esprimere il suo desiderio di
perdono e di grazia e l’uomo manifesta la sua fede nelle promesse e la sua obbedienza.
Tutto ciò che Gesù ha realizzato fa parte della rivelazione di Dio, il quale nel passato aveva parlato
mediante i profeti e che ora nel Cristo si manifesta come uomo (1:1,2), rendendo palese per mezzo di lui
l’accesso al trono della sua grazia (4:16).
Gesù incarnandosi non è venuto a offrire sacrifici, ma a fare la volontà del Padre (10:5 e segg.). Questa
volontà nella lettera agli Ebrei, come del resto in tutto il testo biblico, non è un’azione che si deve compiere per
controbilanciare e annullare il male compiuto, ma esprime il desiderio di Dio che gli uomini giungano alla
gloria, e a questo fine perviene Gesù pur partecipando, come tutti gli uomini, al sangue e alla carne (2:14)
realizzando la perfezione (2:10) anche nella profonda sofferenza (5:7) che lo porta alla morte vincendo però
mediante questa il diavolo (2:14).
A seguito del sacrificio della sua carne (10:20) e mediante la risurrezione Gesù perviene alla sua gloria e
compare davanti al Padre, come l’uomo compiuto, per noi (9:24).
Nel medesimo modo che il sommo sacerdote si presentava nel luogo santissimo con il sangue della
vittima per compiere l’opera di purificazione di tutto il popolo affinché questo fosse di nuovo perfettamente unito al suo Dio, così ora, nel santuario celeste, Gesù, quale sommo sacerdote, capo e rappresentante della futura
umanità glorificata, in comunione perfetta con il Padre, presenta il proprio sangue (2:14), cioè la propria vita
risuscitata che purifica coloro che riconoscono e credono nella buona e santa volontà di Dio. Scrive F. Varonne:
«Lontano quindi dal definire il sacrificio di Gesù come un atto di morte, il vero linguaggio sacrificale lo
definisce come la dignità dell’uomo capace di intraprendere, d’osare la grande traversata umana fino a
raggiungere Dio... È la risurrezione, la perfezione della vita umana presso Dio, che definisce il significato di
sacrificio e di sacerdozio. Ecco perché, mediante espressioni linguistiche differenti, che non ci dovrebbero
ingannare, “sangue” e risurrezione, “sommo sacerdote” e risurrezione si riferiscono alla stessa realtà... che
salva... Il “sangue” che salva non è quello della morte, ma quello della risurrezione.
Nessuna duplicità nel N.T. tra il linguaggio sacrificale e quello della risurrezione. Invocare il sangue di
Gesù (Romani 3:25) o la risurrezione del risorto (Romani 10:9) è affermare con linguaggi diversi delle realtà
perfettamente identiche: la totalità della vita di Gesù pervenuta, mediante la sua pratica di verità, fino alla morte,
alla pienezza della risurrezione… La lettera agli Ebrei parla un linguaggio sacrificale che non è per nulla quello
della “soddisfazione”, ma quello della “rivelazione”».129
Le parole di Gesù sulla croce: «Padre, nelle tue mani rimetto il mio spirito», la lettera agli Ebrei le
esprime con il linguaggio sacrificale. Gesù mediante il proprio sangue, cioè morte e risurrezione, ha inaugurato
una strada che fa uscire l’umanità dall’impotenza della carne e della morte per condurla alla vita perfetta.
«Le sofferenze e la morte non sono mai presentate come il contenuto del sacrificio. La designazione ne è
molto chiara: Gesù ha offerto a Dio “preghiere e supplicazioni” 5:7, ha offerto il suo “sangue” 9:14, ha offerto il
“suo corpo” 10:10. Il contenuto del sacrificio è Gesù stesso, con tutta la sua vita di ubbidienza, di fiducia in Dio.
Per quanto riguarda le sofferenze quindi, esse non fanno parte del contenuto del sacrificio, quale controparte per
il peccato; esse sono, per esseri di carne, il passaggio obbligato della vita; possono essere causa di caduta o
opportunità per manifestare l’ubbidienza per arrivare alla perfezione.
La lettera ignora anche la sostituzione: la simbologia dell’epistola non fa di Gesù un sacerdote che si
sostituisce al popolo impotente, ma lo presenta come un rappresentante, un precursore, una guida, che apre una
via nella quale vi coinvolge coloro che lo seguono. “Per noi” non significa: “al posto dei colpevoli impotenti a
pagare”, ma “in nostro favore e alla nostra testa, per liberarci dal nostro vicolo cieco insuperabile… Il dio che
esige espiazione mediante il sangue, il dio “contabile e non perdonatore” è totalmente assente dall’epistola agli
Ebrei. Né mai vi compare il meccanismo proprio della soddisfazione, nella sua forma dura: penale, o mitigata:
129
F. Varonne, o.c., pp. 126,127,130.
La pazzia di Dio
147
CAPITOLO VI
morale. Mai il Cristo si sostituisce ai peccatori impotenti, o è presentato come colui che, nei confronti di Dio,
agisce mediante la sua opera compensatrice, per ottenere in risposta un verdetto favorevole sull’insieme
dell’umanità... Per contro Dio è in un movimento di rivelazione. L’epistola non esita a dire che è Dio il vero
Salvatore e Gesù è il suo mediatore, il suo rivelatore. Non si salvano gli uomini contro Dio, contro la sua collera
regale, o contro la sua esigenza formale di espiazione. No, si è salvati dalla “volontà” di Dio che presiede a tutta
l’opera della rivelazione, che suscita nel suo Figlio Gesù una parola definitiva, una rivelazione per salvare gli
uomini, per farli uscire dalla loro ignoranza e dal loro smarrimento.- Cristo non è protezione contro Dio: è il
precursore che Dio stesso dona alla nostra fede, per rivelare mediante lui che la via è aperta».130
Dobbiamo, però, dire subito, come abbiamo già fatto alla fine del capitolo precedente, e in seguito
riprenderemo questo pensiero, che la croce non è messa in relazione con il sacrificio per il peccato, anche se la
prima dichiarazione della lettera presenti Gesù come colui che si è posto a sedere alla destra del Padre dopo aver
fatto la purificazione dei peccati (Ebrei 1:3); nulla di quanto veniva fatto nel giorno dello yom kippur e niente
era in relazione con un rito religioso. Gesù al Calvario ha subito una ingiustizia penale, un crimine. È solo
successivamente a quanto è avvenuto nel venerdì santo che si è parlato di sacrificio. Nessuno ha preso il sangue
di Gesù per compiere qualsivoglia rito, ma la morte di Gesù, è stata vista nell’ottica religiosa di fedeltà al Padre
e il suo sangue della vita offerta a Dio.
La croce che ha abbassato Gesù è stata causa di una indescrivibile sofferenza. Da questa tragedia Dio ha
fatto scaturire il bene supremo per l’uomo. Dando al Figlio una corona eterna di gloria e onore (Ebrei 9:9),
diventato il realizzatore della nostra salvezza (Ebrei 2:10; 12:2), ha generato in noi il pentimento e il bisogno
del perdono.131
Con lo scopo di vincere il diavolo che detiene il potere della morte, Gesù è entrato nel nostro mondo con
la sua carne e con il suo sangue (Ebrei 2:14; vedere Apocalisse 12:7-12; 1 Giovanni 3:8). Gesù ha vinto il
peccato, che è il dardo della morte (1 Corinzi 15:56) morendo nella fedeltà al Padre, ha vinto la morte, che non
aveva più il potere di trattenerlo, perché era senza peccato, mediante la risurrezione (Atti 2:24). Il Padre ha
risuscitato il Figlio che non poteva rimanere nella tomba, perché alle porte di Gerusalemme l’universo ha visto il
nemico vinto.
Prendendo la nostra natura, Gesù ha cambiato a seguito della caduta di Adamo, il destino dell’umanità.
Gesù diventando simile a noi, è diventato un sommo sacerdote, nostro rappresentante presso il Padre,
rappresentante del Padre presso di noi, per espiare i nostri peccati (Ebrei 2:17). Espiare non nel senso punitivo
o/e regolare qualcosa presso Dio, ma compiere la sua opera di purificazione in favore degli uomini, presso i
quali viene in soccorso (Ebrei 2:18) – pensiero che Giovanni esprime nella sua prima lettera 2:2.132
In Israele la legge cerimoniale che prescriveva i riti, perdeva di valore, come i riti stessi se essi venivano
fatti formalmente. Non realizzavano nessuna perfezione (Ebrei 9:9,10) la quale si poteva raggiungere mediante
una comunione concreta con l’Eterno. Anche i sacrifici erano insufficienti a questo se essi non esprimevano un
attitudine del cuore (Salmo 51:18,19). L’autore della lettera agli Ebrei attribuisce a Gesù le parole del Salmo
40:7-9: «Non hai voluto né sacrificio né offerta, ma mi hai preparato un corpo; non hai gradito né olocausti né
sacrifici per il peccato. Allora ho detto: “Ecco io vengo per fare o Dio la tua volontà”» 10:5-7. Questa volontà di
Dio, non è quella di vedere Gesù sacrificato, come pensa E. Menegoz,133 ma è espressa in forma generale nella
legge (Matteo 6:10), ed espressa in circostanze particolari (Matteo 18:14). Gesù è venuto per vivere la fedeltà
della creature al Padre. Questa fedeltà l’ha vissuta fino alla morte.
La morte di Gesù non riproduce il rituale israelitico e non può essere messa in parallelo con i sacrifici.
Rituale Israelitico134
Golgota
L’agnello era condotto nel santuario.
Chi conduceva l’agnello al santuario era sì
triste per il peccato commesso, ma aveva
anche il senso della consapevolezza della
grazia di Dio.
L’agnello per il peccato era ucciso
Nessuno accompagna Gesù nel santuario.
Gesù viene condotto al Golgota nella
violenza e pensiamo che non si avesse la
consapevolezza della grazia di Dio, ma il
senso del suo abbandono.
Non c’è nessuno che vede in Gesù l’agnello
130
Idem, pp. 132,133,134,135,136.
Quando si vuole giustificare la morte di Gesù sul piano giuridico legale si arriva a scrivere quanto altri hanno detto e Jean Samuel
Javet commenta nella sua opera, nella quale dopo aver spiegato che il sangue non aveva una virtù intrinseca, magica per fare l’espiazione,
aggiunge: «Il sangue conveniva all’espiazione in virtù d’una decisione divina. Dio si presenta come un Dio che vuole perdonare i peccati e
che dichiara che il mezzo che Gli piace scegliere per quest’opera, è il sangue d’una vittima (Levitico 17:11). Istituisce questo mezzo
d’espiazione, e dichiara che mediante questo si accontenta. La virtù del sangue secondo le Scritture riposa dunque esclusivamente sul buon
piacere di Dio, che ha ben voluto stabilire un simile mezzo d’espiazione…» JAVET Jean Samuel, Dieu nous Parla, Commentaire de l’Épître
aux Hebreux, éd. Delachaux et Niestlé, Neuchâtel-Paris 1945, pp. 95,96.
132
Vedere il capitolo che segue, Gesù nostro avvocato.
133
MENEGOZ Eugène, La Théologie de l’Épître aux Hebreux, éd. Fischabacher, Paris 1894, p. 102.
134
In questo contesto ci chiediamo se possono essere condivise le parole di J.S. Javet: «”Ma Gesù è venuto” v. 11! Dopo l’ombra
appare la realtà; dopo l’immagine, la cosa rappresentata; dopo l’imperfezione, la perfezione; dopo l’insufficienza, la pienezza!. Si tratta qui
del compimento della profezia contenuta nell’antica alleanza» o.c., p. 94.
131
La pazzia di Dio
148
LA SALVEZZA NEL NUOVO TESTAMENTO
dall’offerente.
Nel giorno dello yom kippur
sacrificato dal sommo sacerdote.
veniva
Chi offriva imponeva la sua mano sul capo
della vittima.
Sull’agnello si confessavano i propri peccati.
sacrificale e lo uccide.
I sacerdoti hanno voluto la sua morte, ma
non per fini teologici, non credevano che
Gesù fosse inviato dal Padre.
Nessuno impone la propria mano sul capo di
Gesù.
Nessuno confessa i propri peccati a Gesù
crocifisso.
Gesù esprime fiducia nei confronti di Dio,
ma attorno a lui c’era angoscia e sgomento.
Al Golgota si eseguito un crimine.
Con il sacrificio si esprime adorazione e fede
nei confronti dell’Eterno.
Con l’agnello si celebrava un rito di
adorazione.
L’autore della lettera agli Ebrei pone la morte di Gesù nell’ottica sacrificale, ma non del sacrificio per il
peccato, né del giorno della purificazione e non potendo fare un parallelismo con il giorno dell’inaugurazione
del patto e della consacrazione dei sacerdoti, fa del sangue fuoriuscito dal corpo di Gesù l’elemento per
richiamare la cerimonia del patto che Dio fece con Israele al tempo di Mosè, sebbene nulla del sangue di Gesù
sia stato sparso sul popolo e anche se per l’antico patto non è stato necessario la morte del promulgatore.
Ma come il sacerdozio di Gesù non è dell’ordine di Aaronne, ma di quello di Melchisedec, così la nuova
alleanza, o meglio il nuovo testamento è inaugurato con la morte di Gesù. Le condizioni sono diverse, il
parallelismo è assente con quello stipulato al tempi di Mosè,135 ma il risultato avuto con la morte di Gesù è
superiore a quello che veniva fatto in Israele mediante gli animali perché:
In Israele
Al Golgota
Un animale veniva offerto.
Il sommo sacerdote attraversava il velo per
entrare nel luogo santissimo.
Il sommo sacerdote entrava nel luogo
santissimo una volta all’anno.
Nel venerdì santo il velo, che divideva il
luogo santo dal santissimo, si è strappato
dall’alto al basso.
Solo il sommo sacerdote, rappresentante del
popolo, poteva entrare nel luogo santissimo.
Il Figlio di Dio muore.
Gesù ha fatto la stessa cosa mediante il suo
corpo.
Gesù ha preso dimora nel luogo santissimo.
Si è seduto alla destra del Padre.
Gesù ha realizzato questo mediante il suo
corpo inaugurando una nuova via per fare
accostare l’uomo al trono della grazia.
In Gesù Cristo i credenti sono alla presenza
del Padre.
I credenti non hanno nulla da invidiare ai fedeli dell’antico patto. Il loro modo di credere e di essere è di
gran lunga superiore.
Riteniamo giustificate le parole di F. Varonne: «Il sacrificio è sul piano rituale un atto simbolico
mediante il quale il popolo può accedere a Dio per trovare nella comunione con Lui la sua propria pienezza.
Accesso, comunione e pienezza sono i punti fondamentali di questa definizione. Tutto il percorso si svolge nel
rito e nel simbolo: non è la materializzazione delle offerte, né del sangue e la morte che aprono l’accesso a Dio,
ma bensì la verità interiore e personale della pratica nel rito espresso dal suo simbolismo».136
Ebrei 9:15
«Per questa ragione egli è mediatore di un nuovo patto, affinché avvenuta la sua
morte per la redenzione delle trasgressioni commesse sotto il primo patto, i
chiamati ricevono l’eterna eredità promessa».
Chi sostiene la posizione giuridica della morte di Gesù, afferma che numerosi sono i passi che la presenta
in questa prospettiva. Guardando questi passi da vicino, il loro numero si assottiglia e crediamo che scompaiono.
Questa dichiarazione di Ebrei 9:15 riteniamo che sia una di queste. La morte di Gesù ha un valore retroattivo. I
peccati di ieri vengono perdonati oggi. Darle un valore giuridico può sembrare giustificato. Ma, è proprio in
questa prospettiva che si debba comprendere questa dichiarazione?
F. Varonne commenta: «Una sola volta l’autore sembra sostenere la teoria compensatoria d’una morte
che paga per la trasgressione: “la sua morte era intervenuta per il riscatto delle trasgressioni” 9:15. In effetti, in
135
Precisiamo il pensiero con il pastore J.S. Javet: «Così il gioco di parole (“alleanza - testamento”) sarebbe stata impossibile sotto
l’antica alleanza, non solamente in virtù di una impossibilità linguistica, ma anche in virtù d’una impossibilità teologica: l’antica alleanza non
poteva allora essere considerata come un testamento» o.c., p.99.
136
F. Varonne, o.c., p. 118.
La pazzia di Dio
149
CAPITOLO VI
questo contesto, l’autore sta giocando con un termine greco che significa sia “alleanza” sia “testamento”,137 ed è
l’elemento giuridico di questo riferimento che mette l’accento sulla morte: “Là dove c’è un testamento, è
necessario che sia constatata la morte del testatore. Un testamento non diventa valido che nel caso di decesso;
non c’è effetto fino a quando il testatore è in vita” 9:16,17. A causa di questo accostamento giuridico, atto a
stabilire l’apparizione di un ordine nuovo, la morte prende qui un valore in sé. Pertanto altrove essa non è che
una tappa in un processo che non sfocia al di là d’essa, una attraversata per andare verso la vita.
È per questo che le sofferenze e la morte non sono mai presentate come il contenuto del sacrificio. La
designazione è molto chiara: Gesù ha offerto a Dio “preghiere e supplicazioni” (5:7), ha offerto “il suo sangue”
(9:14), ha offerto “il suo corpo” (10:10). Il contenuto del sacrificio, è dunque Gesù stesso, con tutta la sua vita
d’ubbidienza, di fiducia in Dio. Quanto alle sofferenze, esse non sono il contenuto del sacrificio, il controvalore
del peccato; esse sono, per degli esseri di carne, il passaggio obbligato della vita…
L’epistola ignora anche la sostituzione: il simbolismo dell’epistola fa di Gesù un sacerdote, ma lo
scivolamento del rituale all’esistenziale fa di questo sacerdote non più un attore sacrale sostituendosi al popolo
impotente, ma un precursore, una guida che apre una via e vi entrano coloro che lo seguono. “Per noi” non
significa: “al posto del colpevole impotente a pagare”, ma “in nostro favore e alla nostra testa, per liberarci del
nostro impedimento insuperabile».138
Che il sangue di Gesù purifichi i peccati commessi sotto il primo patto ciò non è in virtù di un atto
giuridico, di una espiazione vicaria, ma è dato dal fatto che la vittoria di Cristo è la vittoria di Dio sul male, sul
peccato, in Gesù c’è la vittoria dell’umanità. Questa vittoria di Dio realizza quello che da sempre ha espresso,
insegnato: offrire il suo perdono. In conformità a come si sviluppa la lettera agli Ebrei, dopo avere presentato la
superiorità di Gesù sugli angeli, su Mosè, sul sacerdozio di Aaronne, sul valore del sangue dei sacrifici,
sull’opera che il Signore svolge nel santuario celeste rispetto a quanto veniva fatto in quello terreno, è da
chiedersi se l’autore di questa epistola volendo presentare la superiorità del sacrificio di Gesù sui quelli di ieri,
non voglia dire che il Suo sacrificio è così importante e superiore rispetto a quelli del passato che è il Suo a
esprimere perdono ai peccati confessati sotto l’antico patto. Come abbiamo fatto notare il contesto non presenta
la croce come sacrificio per il peccato, di espiazione, ma in contrapposizione e con coraggio viene ribaltato il
crimine commesso nei confronti del Signore presentandolo come sacrificio di un nuovo testamento-patto e di un
nuovo sacerdozio. Come Dio s’impegnava a proteggere, guidare il suo popolo e Israele accettava questa guida,
protezione, grazia; così con la nuova alleanza c’è una eredità più specifica, vivere alla presenza del Dio della
gloria. Il sacrificio dell’alleanza non aveva un valore penale, punitivo, ma sigillava l’accordo, l’accettazione che
l’Eterno fosse il Dio del popolo, e ora della Chiesa.139 Come abbiamo già avuto modo di osservare non c’è un
solo parallelismo tra il sacrificio della croce e quello espresso dal cerimoniale del santuario israelitico e nel
sacrificio per il patto. L’accostamento tra queste due realtà, non è nei gesti (nessuno confessa a Gesù sulla croce
i propri peccati e nessuno pensava ad una azione di grazia da parte dell’Eterno, nessuno pone le proprie mani
sulla persona di Gesù, non c’è il testatore che muore in occasione del patto tra Yahvé ed Israele), ma nel risultato
finale, Gesù esprime il suo legame, la sua relazione profonda con il Padre, come l’ebreo faceva con il rituale
sacrificale.
Ebrei 9:22
«Secondo la legge, quasi ogni cosa è purificata col sangue; e senza spargimento di
sangue non c’è remissione».
Abbiamo già avuto modo di considerare l’espressione “quasi ogni cosa è purificata col sangue”. Alla
regola generale che la purificazione avveniva per mezzo del sangue (Levitico 17:11), vi erano anche altri
elementi purificatori come l’acqua e il fuoco prescritti in Esodo 19:10; Levitico 15:5 e seg. 16:26; 22:6;
Numeri 31:22-24. Anche in caso di peccato, se l’offerente era troppo povero, la purificazione avveniva con
elementi distinti dal sangue, come mediante l’offerta della farina (Levitico 5:11-13). Questi elementi e altri
possono essere visti come delle eccezioni alla regola generale la quale stabiliva che: «Senza spargimento di
sangue non c’è remissione» Ebrei 9:22. Cioè la purificazione non è possibile senza il sacrificio. In quest’ottica
la morte di Gesù viene presentata come il mezzo mediante il quale avviene la purificazione.
Questa dichiarazione delle lettera agli Ebrei non vuole tanto affermare che il sangue di Gesù abbia in sé
una qualità purificatrice, ma piuttosto presentarlo come mezzo di purificazione in quanto l’uomo, di fronte alla
croce, si pente e accetta l’amore di Dio e la sua volontà di perdonarlo e risponde, mediante la fede, con
ubbidienza alla Sua Parola. La purificazione attraverso il sangue di Gesù è sempre la conseguenza della risposta
del credente all’offerta di grazia da parte di Dio. Quindi senza lo spargimento del sangue del Signore l’uomo
137
138
139
Vedi nota n. 69.
Idem, pp. 132,133.
«Dio è il popolo sono attivi, Dio s’impegna a benedire e il popolo a ubbidire» J.S. Javet, o.c., p. 99.
La pazzia di Dio
150
LA SALVEZZA NEL NUOVO TESTAMENTO
avrebbe potuto vantare dei pretesti per non accettare la grazia di Dio. Il sangue, la vita di Gesù, purifica perché
suscita il senso di colpa e il bisogno del perdono.
Per conseguenza possiamo concludere che, se l’uomo si fosse profondamente pentito e avesse accettato
Dio mediante un’altra prova del suo amore, prova meno tragica del Golgota, Dio lo avrebbe purificato. Questa
necessità dello spargimento di sangue non è da mettersi in relazione con l’esigenza di Dio, ma con la cecità,
l’insensibilità dell’uomo. È come dire: siccome l’uomo si ravvede solamente con la morte di Gesù, senza il suo
sacrificio non c’è ravvedimento.
Ebrei 9:26 sp.,28
«Ma ora, una volta sola, alla fine dei secoli, è stato manifestato, per annullare il
peccato col suo sacrificio… Così anche Cristo, dopo essere stato offerto una volta
sola, per portare i peccati di molti, apparirà una seconda volta, senza peccato, a
quelli che l’aspettano per la loro salvezza».
Il sacrificio unico di Cristo (apax - una volta sola), è messo in contrapposizione ai molti sacrifici. Esso si
è realizzato nel compimento dei secoli, cioè alla fine di una serie di epoche di preparazione. Gesù ha annullato,
vinto il peccato, perché è stato fedele al Padre, mantenendo con lui un relazione d’amore, sia nella vita prima del
battesimo, sia dopo il battesimo, sia quando le folle lo seguivano, ma anche quando era rimasto solo sulla croce,
come un maledetto, ma anche in quella situazione aveva fiducia nel Padre continuando ad amarlo. Ha vinto il
peccato, Satana, dimostrando che l’uomo può amare l’Eterno per «nulla», anche quando non solo è toccato nella
pelle, ma anche quando gli si toglie la vita (Giobbe 1:9; 2:4). L’uomo ha peccato all’origine non come risultato
di una sua struttura genetica, ma perché ha scelto, ha creduto alla voce seduttrice dell’Avversario.
La conseguenza di questa vittoria personale del Cristo ha comportato l’annullamento, l’abolizione del
peccato, cioè la vittoria sulla ribellione dell’uomo. L’uomo che riflette su Dio che viene a incontrarlo in questo
mondo, riflette sul Suo amore, su ciò che ha subito per liberarlo dall’equivoco nel quale viveva nei confronti del
Padre, non può continuare a mantenersi autonomo da lui. Del resto non si può continuare a percorrere una strada
diversa da quella che l’Eterno propone, quando il cuore è stato toccato dalla sua grazia e trova piacere in Lui.
Non è possibile continuare a peccare e contemplare Gesù sulla croce, la conseguenza sarebbe terribile: «Di quale
maggiore castigo stimate che sarà giudicato degno colui che avrà calpestato il figlio di Dio e avrà tenuto per
profano il sangue del patto col quale è stato santificato e avrà oltraggiato lo Spirito della grazia?» 10:29.
Il sacrificio di Gesù è unico perché la vita è quella realtà che può essere data una sola volta e la sua
offerta è quindi irripetibile e ciò che Gesù ha dimostrato una volta non ha bisogno di essere ripetuto.
Il fine immediato del suo sacrificio è espresso nelle parole: «per portare i peccati di molti». Il verbo
anapherein è tradotto in diversi modi: «Levare i peccati» (Diodati), «togliere» ed (Paoline; Salani, annotata da
G. Ricciotti), «prendere sopra di sé» (Il N.T. - La Buona Novella, N.T. interconfessionale). Nel N.T. questo
verbo è tradotto con “condurre sopra” Matteo 17:1; “portare su” Luca 24:15, altre volte “offrire sull’altare”
(Ebrei 7:25; 13:15); “portare” (1 Pietro 2:24). “Portare” è il senso che riveste in Isaia 53:12: «Egli ha portato i
peccati di molti» e nell’epistola di 1 Pietro 2:24: «Egli, ... ha portato ... i nostri peccati nel suo corpo».
Essendo i peccati degli atti morali, come tali non possono essere trasferiti da una persona all’altra, come
può avvenire per un pacco o un altro oggetto. Gesù ha portato i nostri peccati, come abbiamo più volte ripetuto,
non nel senso materiale del termine: da noi a lui, ma in un senso morale, psicologico, consequenziale. A causa
dei nostri peccati ha subito le conseguenze: limitazione della sua natura, sofferenza, violenza, morte. Si è fatto
psicologicamente carico delle nostre infermità per liberarcene. Ha tolto i nostri peccati da noi, perché di fronte
al suo amore ci siamo pentiti, siamo stati perdonati e, quindi, purificati. Le versioni che abbiamo citato sopra
crediamo che diano correttamente il senso del “portare”.
Gesù «apparirà una seconda volta senza peccato». Stando al contesto, l’espressione non significa che
apparirà puro da ogni macchia di peccato, poiché in questa condizione era di già quando è vissuto tra di noi, ma
che quando verrà non avrà come missione quella di portare ancora i nostri peccati, come la prima volta, di
compiere, cioè, un’opera in favore dell’umanità in rivolta a Dio, cosa che ha già fatto una volta per tutte. Egli
verrà per dare la salvezza solo a quelli che lo aspettano.
Prima di concludere questa sezione sulla lettera agli Ebrei vogliamo presentare la non sostenibilità del
sacrificio penale di Gesù mediante due insegnamenti di questa lettera: la risurrezione di Gesù, la necessità del
credente a guardare il Signore.
La risurrezione è presentata all’inizio della lettera (Ebrei 1:3), è ricordata con l’essere generato del Figlio
da parte del Padre (Ebrei 1:5, Salmo 2:7; vedere Atti 13:33,34), e mediante la quale diventa primogenito e viene
adorato dagli esseri celesti (1:6).
F. Varonne scrive a tale proposito: «Per una lettera la cui reputazione è stata fatta totalmente in relazione
alla riparazione sanguinante dell’espiazione dolorosa, questo ribaltamento di prospettiva può essere
La pazzia di Dio
151
CAPITOLO VI
stupefacente. Pertanto questo passo sulla risurrezione, da quando non si legge più il testo con gli apriori religiosi
delle teorie della soddisfazione, appare in tutte le pagine della lettera».140
Possiamo pensare, specialmente a seguito della lettura della lettera agli Ebrei, che senza la risurrezione di
Gesù, la sua morte non avrebbe salvato nessuno. Dopo che Gesù è salito al cielo e si è posto alla destra del
Padre, è sommo sacerdote e opera in favore degli uomini compiendo la purificazione dei loro peccati (1
Giovanni 2:2), e mediante una comunione con lui realizza la purificazione delle coscienze (Ebrei 9:24), porta
l’uomo ad avvicinarsi al trono della grazia (Ebrei 4.!6), in attesa di giungere alla perfezione che si concretizzerà
in occasione della risurrezione (10:14).141
Nell’Eden Eva accetta la voce dell’avversario dopo aver ammirato l’albero della conoscenza del bene e
del male ne prende il frutto (Genesi 3:6,7), è ancora mediante lo sguardo che il peccare continua (2 Pietro 2:14).
La guarigione avviene, però, anche mediante il guardare il serpente di rame nel deserto del Sinai (Numeri 21:8).
Ebrei 12:2 ci invita ad avere «gli occhi su di lui, il Signore» risorto. Il rimanere fedeli a questo vedere, come
Paolo alla sua visione (Atti 26:19), si ricostituisce l’immagine di Dio nell’uomo. «Noi tutti contemplando a viso
scoperto, come in uno specchio, la gloria del Signore, siamo trasformati nella stessa immagine di lui, di gloria in
gloria, secondo che opera il Signore, che è Spirito» 2 Corinzi 3:18.
LETTERE CATTOLICHE
1 Pietro 2:22-25
«(22) Egli che non commise peccato, e nella cui bocca non fu trovata alcuna frode;
(23) che, oltraggiato, non rendeva gli oltraggi; che soffrendo non minacciava, ma si
rimetteva nelle mani di Colui che giudica giustamente; (24) egli che ha portato egli
stesso i nostri peccati nel suo corpo sul legno, affinché morti al peccato, vivessimo
per la giustizia, e mediante le cui lividure siete stati sanati. (25) Poiché eravate
erranti come pecore; ma ora siete tornati al Pastore e Vescovo delle anime vostre».
Con questo brano, Pietro, riporta liberamente delle espressioni di Isaia.
Isaia 53
v. 9 «Non aveva commesso violenza né v’era
stata frode nella sua bocca»
v.12 s.p. «Ha dato se stesso alla morte, ed è
stato annoverato fra i trasgressori, perché
egli ha portato i peccati di molti»
v. 5 «Per le sue lividure noi abbiamo avuto
guarigione»
v. 6 «Noi tutti eravamo erranti come pecore,
ognuno di noi seguiva la sua propria via».
1 Pietro 2
v. 22 «Egli non commise peccato, e nella cui
bocca non fu trovata alcuna frode»
v. 24 p.p. «Egli ha portato egli stesso i
nostri peccati nel suo corpo, sul
legno»
v. 24 s.p. «Mediante le cui lividure siete stati
sanati»
v. 25 «Poiché eravamo erranti come
pecore; ma ora siete tornati al
Pastore...».
Il testo del profeta Isaia è stato da noi preso in considerazione nel capitolo precedente.
Roland de Pury scrive: «Non si tratta di sapere cosa Gesù ha fatto per lasciarci un esempio, ma per
renderci capaci di seguirlo. È il senso espiatorio della sua sofferenza…. L’abbandono di Gesù sulla croce non
indica la distanza con la quale si trovava, lui, da suo Padre, ma la distanza che i nostri peccati ci avevano messi
dal Dio santo… Sono le nostre menzogne, le nostre vanità, le nostre concupiscenze, le nostre idolatrie, che
l’hanno fatto salire sulla croce e che lo precipitano nella morte e nell’inferno - e invece di scuotersi tutto questo
e di sbarazzarsene per raggiungere suo Padre, invece di rigettare su di noi gli sbaglio con i quali lo schiacciamo,
ha tutto preso sulle sue spalle e ha portato tutta questa turpitudine nel suo corpo, per spazzarlo via lontano da
noi, per portarlo con sé nella morte e nell’inferno. Questa spada con la quale l’abbiamo trafitto, l’ha conservata
in sé e le nostre mani sono restate vuote. Ed ecco: il trionfo del nostro peccato ci ha privato del nostro peccato.
Tutto quello con il quale abbiamo schiacciato il nostro Signore è ora disceso nella tomba con lui; non rimane più
la benché minima traccia. Noi siamo miracolosamente spogliati di tutti gli strumenti della nostra vittoria. Di
modo che la sua morte che appariva essere la morte della giustizia di Dio, il colpo di grazia dato al Regno, è in
realtà la morte delle nostre iniquità, il colpo di grazia dato al principe di questo mondo… Sulla croce, siamo noi
che moriamo, che cessiamo di esistere per tutte queste cose che ci facevano morire e che cominciamo a esistere
per quelle che ci fanno vivere. Affinché noi viviamo per la giustizia, per questa giustizia alla quale si rimetteva
totalmente e per la quale noi siamo ora, in lui, giudicati e giustificati, condannati e perdonati, morti e viventi.
Mediante la sua morte voi vivete perché essa è quella di tutto ciò che ci faceva morire. Mediante le sue ferite
siamo guariti, poiché esse sono le ferite che Dio fa a tutto ciò che ci rendeva ammalati.
140
141
Idem, p. 125.
Gesù è stato portato alla perfezione mediante la risurrezione Ebrei 2:10; 5:9; 7:28).
La pazzia di Dio
152
LA SALVEZZA NEL NUOVO TESTAMENTO
È questo il cuore eternamente palpitante della buona novella. È il mistero incredibile di un Dio il cui
amore va fino a portare lui stesso il crimine dei suoi nemici per strappare ogni odio dal loro cuore, e fino a
rendersi solidale del loro male per liberarli».142
VANGELO DI GIOVANNI
Giovanni 1:29
«Ecco l’agnello di Dio che toglie i peccati del mondo».
Questa dichiarazione del vangelo è un’affermazione di Giovanni Battista, inviato da Dio ad «addirizzare
la via del Signore» Giovanni 1:23; Isaia 40:3.
Nello spazio di pochi versetti, per due volte l’evangelista ci ricorda la dichiarazione del precursore, suo
primo maestro (vv. 29,36). Il Battista non aveva avuto modo di conoscere il cugino Gesù (Giovanni 1:33) e
questa sua dichiarazione è la conseguenza della manifestazione di Dio in occasione del battesimo. Lo Spirito
Santo scende in forma di colomba e il Padre presenta il Messia quale suo «diletto Figlio» nel quale si compiace
(Matteo 1:11 e parall.).
Queste parole del Battista sono state comprese in tre modi:
- l’agnello del sacrificio espiatorio che muore al posto dell’uomo;
- la tradizione orientale vede in questo agnello il servo dell’Eterno di Isaia 53, soprattutto nei vv. 10-12;
- la tradizione latina generalmente vede in questo agnello quello della pasqua.
Non ci deve essere contraddizione tra agnello e servo, se si considera che in aramaico si può utilizzare la
parola talia per indicare entrambe le espressioni.143
Giovanni, l’evangelista, alla fine del I secolo, a sacrificio compiuto, userà in greco la parola agnello.
Le prime due spiegazioni, però, sollevano una reale perplessità a causa della visione del Regno che il
Battista annunciava. Il precursore non presentava un Messia sofferente o vittima espiatoria. Il Signore, per lui,
sarebbe venuto nella forza del suo giudizio con il ventilabro in mano per pulire interamente la sua aia (Matteo
3:12). È questa sua profonda convinzione di un Messia vittorioso sul male che sarà per lui motivo di perplessità
quando in prigione non vede il Cristo intervenire con forza per mettere, tra l’altro, fine all’ingiustizia, anche da
lui subita, e al dilagare del male. Ci è difficile accettare che Giovanni avesse annunciato, dopo il battesimo di
Gesù la sua morte sofferente o espiatoria-punitiva senza capire il senso delle parole da lui pronunciate. Sebbene i
profeti non sempre abbiano afferrato la pienezza della rivelazione avuta (1 Pietro 1:11,12), non hanno
comunque travisato il senso di quanto annunciato.
Si spiega comunque male ed è poco sostenibile che il precursore annunci il Messia e la sua opera con
termini trionfali, pensiero condiviso da tutti coloro che lo attendevano, e nello stesso tempo annunci il Servo
sofferente o l’agnello sacrificale.
Pur tenendo conto di queste osservazioni, pensiamo però che il Battista identificasse Gesù con il Servo
dell’Eterno.
Oscar Cullmann a proposito della dichiarazione di Gesù: «Il Figlio dell’uomo non è venuto per essere
servito, ma per servire e per dare la vita sua come prezzo di riscatto per molti» Marco 10:45, dice: «Si tratta qui
del tema principale dei canti del Servitore, e l’allusione a Isaia 53:5 è manifesto. È come se Gesù dicesse: «Il
Figlio dell’uomo è venuto per compiere la missione del Servo dell’Eterno». A partire da quale momento Gesù ha
acquisito la certezza che egli avrebbe dovuto compiere la missione del Servo dell’Eterno? Il passo chiave è
quello che è riportato in Marco 1:11, la voce celeste udita da Gesù al momento del suo battesimo nel Giordano.
Bisogna sottolineare in effetti che le parole: “Tu sei il mio diletto Figlio; in te mi sono compiaciuto” devono
essere comprese come una citazione di Isaia 42:1».144
Isaia introduce il primo dei suoi canti sul Servo, con queste parole: «Ecco il mio Servo, io lo sosterrò: il
mio Spirito è su di lui, egli insegnerà la giustizia alle nazioni...». Il Battista stesso attingeva da Isaia la visione
della propria missione (Giovanni 1:23; Isaia 40:3) e, vedendo su chi scese lo Spirito Santo, riconobbe in lui il
Servo dell’Eterno annunciato dallo stesso profeta, e che egli indica pubblicamente quale «Figlio di Dio» v. 34, o
«eletto di Dio», come ha il manoscritto sinaitico.
Gesù stesso fa della discesa dello Spirito Santo su di sé la realizzazione della parola profetica,
annunciandone la missione (Luca 4:18; Isaia 61:1 e seg.).
142
PURY Roland de, Pierres vivantes, 2a ed., éd. Delachaux & Niestlé S.A., Neuchâtel, s.d., pp. 78-80.
BOISMARD M.E., Le Christ-Agneau, Rédempteur des hommes, in Lumière et Vie, n. 35, 7, 1958, p. 191; vedere BRNEY C.F. JEREMIAS J.; cit. da CULLMANN Oscar, Christologie du Nouveau Testament, éd. Delachaux et Nieslé, Neuchâtel 1968, p. 64. JEREMIAS
J., amnos, in Grande Lessico del N.T., vol. I, ed. Paideia, Brescia 1965, col. 919.
144
O. Cullmann, o.c., p. 60.
143
La pazzia di Dio
153
CAPITOLO VI
La tradizione orientale è corretta nel vedere nell’agnello di Dio il Servo dell’Eterno, ma crediamo però
che realizzi quanto annunciato nel primo canto (Isaia 42:1-4), piuttosto che nell’ultimo (Isaia 52:13-53:12).
Come comprendere allora le parole: «Toglie i peccati del mondo»? J. de la Potterie presenta una
spiegazione che ci sembra rifletta l’insieme del testo biblico. «Questo testo di Isaia 42:1-8, a cui si riferisce il
Battista, non dice che il Servo toglierà il peccato del mondo, ma contiene formule che nel contesto del
giudaesimo fanno certamente pensare alla purificazione dei peccati. La missione del Servo è espressa con
mispat, che è ripetuto tre volte e non designa soltanto il diritto, il giudizio, ma anche la vera fede, la legge
morale che deve seguire. Il Servo reca, anzitutto, una conoscenza: “Le isole sono nell’attesa del suo
insegnamento” v. 4, per questo Egli è chiamato “la luce delle nazioni” v. 6. Secondo la tradizione profetica e
sapienzale, la “conoscenza” di Dio implica che si riconosca e si compia la legge divina. La conoscenza della
legge e della sapienza divina sono il grande mezzo per lottare contro il peccato».145
Il Servo dell’Eterno che è stato unto «insegna la giustizia alle nazioni... non verrà meno, non s’abbatterà
finché abbia stabilito la giustizia sulla terra» Isaia 42:1,4.
Già la Parola di Dio rivelata era considerata una forza trasformatrice. «Ho riposto la tua parola nel mio
cuore per non peccare contro di te» Salmo 119:11. Ecclesiastico 24:22: «Coloro che fanno le mie opere non
peccheranno». Il libro di Enoch dice: «Allora agli eletti sarà data la sapienza ed essi vivranno tutti e non
peccheranno più, né per dimenticanza, né per superbia» 5:8. Un testo della Regola della comunità di Qumran
dice: «Allora Dio per la sua verità purificherà tutte le opere dell’uomo e affinerà per se stesso il corpo
dell’uomo... per purificarlo, con lo spirito di santità, da tutti gli atti di empietà: e spargerà su di lui lo spirito di
verità come un’acqua lustrale, per lavarlo da tutte le abominazioni menzognere... per dare ai giusti l’intelligenza
della conoscenza dell’Altissimo e insegnare ai perfetti la sapienza dei figli del cielo... Non vi è più iniquità».146
Ai tempi del Battista il trionfo finale della giustizia, del diritto, della verità era «la vittoria sul peccato,
che il giudaesimo aspettava ardentemente»147 come risultato della venuta del Messia.
«Per sapere come Giovanni intendesse l’espressione “togliere il peccato del mondo” non siamo costretti a
congetture. La prima epistola ci fornisce un testo parallelo dei più interessanti, di cui si può facilmente precisare
la sfumatura: “Egli (Cristo) è apparso per togliere i peccati... chiunque abita in lui non pecca” 3:5,6. “Per questo
comparve il figlio di Dio: per distruggere le opere del diavolo. Ognuno che è nato da Dio non conosce il
peccato, perché il suo seme resta in lui, e non può peccare, perché è nato da Dio” vv. 8,9. Questi testi non fanno
che riprendere e prolungare il tema della purificazione del peccato per mezzo della verità... Colui che rimane nel
Cristo non pecca: ecco la vittoria del Cristo sul peccato. Essa consiste in questo: Cristo dà all’uomo che gli resta
unito il potere di non peccare più.
Qual è questo mezzo dato ai figli di Dio? In 1 Giovanni 3:4-9 si indica un triplice principio di
impeccabilità: anzitutto, al v. 6, il fatto che il cristiano dimora nel Cristo, e questo rimane ancora vago; al v. 9
aggiunge che il cristiano non pecca e non può peccare, perché è nato da Dio e il seme di Dio dimora in lui. Che
cosa bisogna intendere per il seme di Dio? Come avevano ben visto Clemente di Alessandria e Agostino: la
Parola di Dio. Questa immagine del seme, per designare la Parola, era familiare alla tradizione giudaica; e la si
trova anche nella parabola del seminatore dei sinottici. La parola accettata per fede, è ciò per cui si nasce alla
vita divina: «Per mezzo del vangelo io vi ho generati» 1 Corinzi 4:15; «(voi) siete stati generati da un germe non
corruttibile, ma incorruttibile, la Parola divina vivente ed eterna» 1 Pietro 1:23. «Egli ha voluto generarci con
una parola di verità» Giacomo 1:18. Fedele a questa tradizione così ferma, anche Giovanni mostra che si nasce
da Dio per la fede nella parola: «Chiunque crede che Gesù è il Cristo, è nato da Dio» 1 Giovanni 5:1. «Tutto ciò
che è nato da Dio vince il mondo. E questa è la vittoria che ha trionfato del mondo: la vostra fede» 5:4. Si
comprende allora il testo di 3:9: «Chiunque è nato da Dio non commette peccato, perché il suo seme dimora in
lui»: ciò, per cui il cristiano è nato da Dio, è la parola di verità accettata nella fede; questa parola continua a
restare presente nel credente durante la sua vita cristiana; resta attiva, come un principio di purificazione e di
santificazione (cfr. 1 Pietro 2:2); e per questo, per l’azione di questa parola e per la docilità del credente verso di
essa, il peccato è vinto progressivamente e diventa perfino impossibile, nella misura della fedeltà del credente
alla parola interiore… Vedere 1 Giovanni 2:14, Giovanni 8:31,32.
Si vede l’esatto parallelo tra 1 Giovanni 3:4-8 e Giovanni 8:31-47. L’espressione «togliere i peccati»
nell’epistola ha per equivalente nel vangelo «liberare (dalla schiavitù di Satana)». In ambedue i casi la
liberazione è operata da Cristo. Con quale mezzo? Non si fa qui menzione della sua opera espiatoria, ma della
sua verità: la verità che libera, la parola di Cristo che penetra in noi (Giovanni 8:32,37). Questo è espresso
nell’epistola sotto questa forma: il seme di Dio rimane in noi e ci impedisce di peccare (3:8).
Pertanto, così appare il senso esatto che Giovanni nella sua epistola dà alla frase “togliere i peccati”. Si
tratta di una purificazione per mezzo della verità. Ora questa medesima frase era quella messa in bocca al
Battista in Giovanni 1:29. Essa deve avere anche qui il medesimo senso. Il Cristo è «l’Agnello di Dio che toglie
i peccati del mondo», perché toglie i peccati portando agli uomini la sua parola, il suo insegnamento, la sua
145
146
147
POTTERIE S.J. de la, Ecco l’Agnello di Dio, in Bibbia e Oriente, n. 8, 1959, p. 164.
1QS 4,20-23; cit. idem, pp. 164,165.
Idem, p. 185.
La pazzia di Dio
154
LA SALVEZZA NEL NUOVO TESTAMENTO
verità: così dà loro il mezzo per sfuggire all’attacco del male. La luce di Cristo è una vittoria sulle tenebre. Agli
uomini, perché realizzino essi stessi questa vittoria, si chiede soltanto di rimanere nel Cristo, ossia nella sua
parola, per meglio conoscere la verità e meglio vivere di essa: allora saranno veramente liberi dal Cristo».148
Alla luce di questa spiegazione che riflette il quadro profetico di Isaia e il battesimo di Gesù, possiamo
aggiungere a completamento quella della passione, suggerita dalla parola agnello, il cui sangue ci purifica (1
Giovanni 1:7). La passione di Gesù non è presentata, però, nella prospettiva del sacrificio espiatorio e ancor
meno vicario.
Nel giorno del suo battesimo Gesù ha intrapreso la strada della passione come ricorda la preghiera
apostolica di Atti 4:27. Anche in 1 Giovanni 5:6 si unisce il battesimo alla passione: «Questi è colui che è
venuto con l’acqua (del battesimo) e con il sangue (del sacrificio)».
Sono senz’altro questi elementi che hanno suggerito alla Chiesa dei primi secoli il passaggio dal Servo
profeta di Isaia 42 al Servo sofferente di Isaia 53.
Quale “Agnello di Dio” ci vuole presentare Giovanni?
J. Delorme scrive: «Qualunque siano gli antecedenti giudaici di questa frase e la portata che essa ha
potuto rivestire nei messaggio del Battista, nel IV vangelo, non si può pensare che all’agnello pasquale».149
Notker Fùglister afferma: «Nella letteratura patristica il paragone fra Cristo e l’agnello pasquale è tanto
frequente, che le singole citazioni sono superflue».150
Sebbene «al tardo giudaesimo sia ignota l’immagine del redentore presentato come agnello»151, come
vedremo più avanti, l’insegnamento rabbinico presentava però il sangue dell’agnello pasquale come il mezzo col
quale l’Eterno aveva operato la liberazione d’Israele dall’Egitto, anche se il testo biblico non dice nulla in questo
senso. Il precursore, sebbene la sua predicazione, come abbiamo detto, richiamasse il popolo al ravvedimento in
modo energico, nell’indicare il Salvatore del mondo, presenta la sua azione liberatrice nella mitezza dell’agnello.
I due testi del profeta Isaia che presentano l’unzione del Servo dell’Eterno, descrivono la sua opera
compiuta nella dolcezza.
Isaia 42:2,3 dice: «Egli non griderà, non alzerà la voce, non la farà udire per le strade. Non spezzerà la
canna rotta e non spegnerà il lucignolo fumante». Il testo che Gesù leggerà nella sinagoga di Nazaret dice:
«L’Eterno mi ha unto per recare la buona novella agli umili, m’ha inviato per fasciare quelli che hanno il cuore
rotto, per proclamare la libertà a quelli che sono in cattività, l’apertura delle carceri ai prigionieri, per proclamare
l’anno di grazia dell’Eterno, e il giorno di vendetta del nostro Dio: per consolare tutti quelli che fanno cordoglio,
per mettere, per dare a quelli che fanno cordoglio in Sion, un diadema in luogo di cenere, l’olio della gioia al
posto del duolo, il manto della lode al posto di uno spirito abbattuto, onde possano essere chiamati terebinti di
giustizia, la piantagione dell’Eterno da servire alla sua gloria» 61:1-3.
Sebbene Giovanni dalla prigione non venga liberato da Gesù, come senz’altro speravano i suoi discepoli,
vede però realizzata l’opera annunciata da Isaia in colui che aveva presentato come “l’agnello di Dio...”,
traendone motivo di consolazione e di perseveranza.
Mosè aveva annunciato che Israele avrebbe avuto un profeta come lui e il popolo lo avrebbe dovuto
ascoltare (Deuteronomio 18:15). Di Mosè le Scritture dicono: «Era un uomo molto mansueto, più d’ogni altro
uomo sulla faccia della terra» Numeri 12:3.
Questi elementi hanno fatto annunciare al Battista che, come il sangue = vita dell’agnello pasquale aveva
protetto Israele, preservandolo per la sua liberazione dall’Egitto, così la vita = sangue, la persona,
l’insegnamento, l’opera di questo Servo, figlio, agnello di Dio, avrebbe tolto il peccato dal mondo, liberando gli
uomini dalla loro schiavitù. L’agnello di Dio nella sua mansuetudine, mitezza, apparente debolezza e senza
mezzi d’offesa, avrebbe vinto l’arroganza e la presunzione dell’umanità e del nemico del popolo di Dio.
Nella letteratura apocalittica ebraica, la figura dell’agnello (e dell’ariete), è una figura del capo d’Israele
che guida il gregge di Dio. Nelle descrizioni del libro etiopico di Enoch e nel Testamento dei Dodici Patriarchi,
Mosè è raffigurato dal simbolo di una pecora (probaton), mentre Davide è rappresentato all’inizio da un agnello
(aren) e dopo che l’Eterno lo ha eletto re d’Israele da un ariete (xrios). La figura messianica che si erge nello
sfondo della lotta maccabaica è rappresentata come un agnello (amnos) che combatte e vince gli animali
selvatici che raffigurano a loro volta le potenze nemiche d’Israele.152
Per Giovanni Battista, come per l’ambiente nel quale viveva, l’agnello e, particolarmente l’agnello
pasquale, più che rievocare il pensiero del sacrificio, richiamava alla mente la liberazione.
148
149
150
151
152
Idem, pp. 165-167.
DELORME J., La cena et la Pasque dans le N.T., in Lumière et Vie, n. 31, 1965, p. 32.
N. Fùglister, o.c., p. 53.
J. Jeremias, o.c., col. 917.
N. Fùglister, o.c., p. 58.
La pazzia di Dio
155
CAPITOLO VI
La tradizione insegnava che era nel mese di Nisan e nella notte di Pasqua che si sarebbe manifestato il
Messia, salvatore di Israele e del mondo. Si legge nel Talmud: «Israele fu liberato in Nisan, è in Nisan che sarà
riscattato».153
Il Midrashim, Mekhiltha su Esodo 12:42 diceva: «In questa notte (di Pasqua) essi sono stati salvati e in
essa saranno salvati».154
Per questo motivo una parte del rituale pasquale aveva un senso messianico e una portata escatologica. In
ogni sera pasquale era attesa la liberazione messianica. Gerolamo scriveva: «È una tradizione dei giudei, che il
Messia verrà a mezzanotte».155
Il Targum palestinese di Esodo 12:42 parlando della notte scelta da Dio per liberare Israele dice che nel
libro delle memorie ci sono quattro notti: nella prima si rivelò la Parola del Signore sopra il mondo per crearlo;
nella seconda la Parola del Signore si rivelò ad Abramo (Genesi 15:16); nella terza la Parola del Signore si
rivelò sopra l’Egitto a mezzanotte nella quale la sua destra colpì i primogeniti egiziani e protesse i primogeniti
degli Israeliti: «Nella quarta notte il mondo arriverà alla sua fine: verranno distrutti i vincoli dell’empietà... e
verrà il re Messia... questa è la notte di Pasqua da osservarsi davanti al Signore e da celebrarsi da parte di tutti gli
Israeliti per tutte le generazioni».156
L’apostolo Paolo in un modo formale dice: «La nostra pasqua, cioè Cristo, è stata immolata» 1 Corinzi
5:7, e allude all’Esodo in numerosi altri brani. Giovanni nel suo vangelo ha cura di precisare la morte salvifica
di Gesù nel quadro pasquale. Il tema dell’esodo, della liberazione dall’Egitto, terra di peccato (Esodo 5:1;
Giosuè 24:11; Ezechiele 16:26; 20:7 e seg. 23:3), è figura della liberazione dal peccato. Il conduttore Mosè è
sostituito dal liberatore Gesù (Giovanni 1:17; 3:14,15) che suggella la nuova economia con il suo proprio
sangue. Stabilisce la Cena a ricordo di questo avvenimento del passato e ad anticipazione della piena
realizzazione della libertà futura (Luca 22:15; 1 Corinzi 11:26).
Le Déaut Roget fa notare che a Giovanni «l’Esodo serve come substrato per scrivere il suo vangelo che
ne è il compendio, e nello stesso tempo per descrivere l’economia sacramentale che deve prolungare l’azione di
Gesù fino alla fine dei tempi.
È quasi certo, in effetti, che Giovanni abbia messo l’opera redentrice di Gesù in relazione esplicita con il
ciclo dell’Esodo: gli autori (che hanno studiato questa tema) differiscono solamente per determinare fin dove
questo parallelismo è stato condotto. La tradizione dell’Esodo sarebbe come il cantus firmus confidato al pedale
in una corale per organo, mentre i maniel si abbandonano a molteplici variazioni sul tema fondamentale».157
«Passando da questo mondo a suo Padre (13:1, allusione certa alla nuova Pasqua = passaggio) Gesù,
come un nuovo Mosè, si mette alla testa del nuovo popolo di Dio. La menzione delle diverse Pasque giudaiche
durante il ministero di Gesù (2:13-23;6:4;11:5;12:1;13:1): possono essere una indicazione a considerare Gesù
come il vero agnello pasquale, cosa che sarà detta abbastanza esplicitamente in Giovanni 19:36 e 1:29. Sembra
anche che l’evangelista abbia pensato, redigendo il suo racconto della Passione (18:28), alla celebrazione
simultanea della Pasqua giudaica e alla immolazione degli agnelli in particolare. Gesù muore nel momento
stesso in cui comincia nel tempio l’ecatombe delle vittime. Perché il vangelo segnala che Pilato abbandona Gesù
ai Giudei «il giorno della preparazione della Pasqua, circa alla 6a ora»? Giovanni 19:14. La tradizione fissava
153
R.H. 11, COHEN A., Le Talmud, Paris 1958, p. 4198. cit. da AYACHE Charly, La Pasque Israelite type de la redemption en Christ,
mémoire par la licence en theologie, Seminaire Adventiste de Collonges, 1978, p. 55.
154
Midrashim, Mekhiltha su Exodus 12:42; cit., idem, p. 56.
155
Jerome, Commentaire sur l’Evangile de Methieu, IV, MIGNE, P.L., XXIV, Paris 1866, p. 192; cit. idem, p. 58.
156
N. Fùglister, o.c., p. 239.
157
Il miracolo di Cana (Giovanni 2:6) corrisponde al cambiamento dell’acqua del Nilo (Esodo 4:9) e di quelle contenute nelle urne di
pietra (Esodo 7:19): e questi miracoli rivelano la gloria di Dio, agli Ebrei da una parte (Esodo 4:31), ai discepoli di Gesù dall’altra (Giovanni
2:11). L’intrattenimento con Nicodemo (cap. 3) si controbilancia con il passaggio del mar Rosso (Esodo 14:19-15:21): i due avvenimenti si
situano di notte, simbolo della notte della morte. L’episodio del pozzo di Giacobbe (cap. 4) avrebbe per sfondo quello di Elim, con le sue
dodici sorgenti e le sue settanta palme (Esodo 15:17), in cui la tradizione giudaica vede figurate le 12 tribù: sarebbe allora un simbolo
dell’unità cultuale di Israele e si comprenderebbe allora meglio le parole del Cristo sul vero culto in spirito e verità (Giovanni 4:24).
La guarigione dell’infermo a Betania (cap. 5) sarebbe una variante sull’Esodo 15:26: «Io sono l’Eterno che ti guarisco», testo già
utilizzato nell’insegnamento della guarigione del figlio del funzionario regale (4:43-53). Il miracolo della moltiplicazione dei pani (cap. 6) è
in relazione manifesta con quello della manna (Esodo 16). Il fatto che dopo la moltiplicazione dei pani la folla abbia voluto fare Gesù re
(6:15), mostra che si vedeva nella ripetizione del prodigio della manna la prova di una missione divina. La domanda dei Giudei (nella
sinagoga di Capernaum) rivela la stessa credenza (6:30-34). Il cap. 7 corrisponde a Esodo 17. Notare nei due episodi l’opposizione dei
Giudei che volevano mettere a morte Mosè e Gesù.
L’accostamento più chiaro si trova tra l’episodio di Esodo 17:5 e seg.: (l’acqua che scaturisce dalla roccia) e la promessa dell’acqua
viva fatta da Gesù: «Se alcuno ha sete, venga a me e beva. Chi crede in me, come ha detto la Scrittura, fiumi di acqua viva sgorgheranno dal
suo seno» 7:37,38. Sahin mette insieme l’episodio della donna adultera con l’idolatria d’Israele e il vitello d’oro, facendo notare che l’autore
del quarto vangelo, saltando da Esodo 17 a 32, non segue la storia in tutti i suoi dettagli, ma si ferma agli episodi più significativi. Lo sfondo
delle dichiarazioni di Gesù sul buon pastore (cap. 10) sarebbe Numeri 27:16 e seg.: «L’Eterno... costituirà su questa adunanza un uomo che
esca davanti a loro ed entri davanti a loro, e li faccia uscire e li faccia entrare, affinché la adunanza dell’Eterno non sia come un gregge senza
pastore».
Le dichiarazioni frequenti di Gesù incominciate con: «Io sono» (6:35;8:12;10:9;10:11-14;11:25;14:6;15:1,5) ricordano la
rivelazione del nome divino in Esodo 3:14: «L’Io sono mi manda a voi...». Gesù afferma che è Dio, il Dio del nuovo esodo. Isaia il profeta
aveva annunciato questo esodo futuro (41:4,13,17;43:3)». DÈAUT Roger Le, La nuit pascale - Essai sur le signification de la Pasque Juive
du Targum d’Exode XII,42, Rome 1983, pp. 324,330.
La pazzia di Dio
156
LA SALVEZZA NEL NUOVO TESTAMENTO
alla 6a ora l’inizio della festa, l’ora prevista per bruciare tutto il pane fermentato, rimpiazzandolo con gli azzimi
pasquali. Giovanni potrebbe suggerire qui che Gesù, come il vero agnello pasquale, è anche il vero pane
“azzimo”, altro elemento importante del pasto pasquale. Forse anche la menzione dell’entrata di Gesù in
Gerusalemme il 10 di Nisan (Giovanni 12:12) è da mettere in relazione con Esodo 12:3 che fissa per questa data
la designazione dell’agnello che sarebbe stato sacrificato.
Ci si accorda a mettere in relazione Giovanni 19:36: «“Niun osso d’esso sarà fiaccato” con la
prescrizione di Esodo 12:46 concernente l’agnello pasquale».158
La cronologia che colloca il sacrificio della pasqua “tra le due sere” richiama un’altra corrispondenza
tipologica che fino a ora è rimasta inosservata. Dai rabbini questa prescrizione fu intesa nel senso che la pasqua
doveva essere immolata verso sera. In conformità a ciò, ai tempi di Gesù gli agnelli erano immolati e offerti nel
tempio di Gerusalemme fra le due e le quattro (il venerdì pomeriggio questo avveniva un’ora prima). Ora è
interessante che interi Targum a Esodo 12:6 rendono l’ebraico «fra le due sere» con «tra i soli»; questa
determinazione di tempo coincide straordinariamente con la morte di Gesù in croce: anche Gesù morì «tra i due
soli». Infatti, le narrazioni sinottiche della passione mettono in risalto il fatto che alla morte di Gesù «dall’ora
sesta fino all’ora nona (cioè dalle dodici alle tre del pomeriggio) scese una tenebra su tutta la terra» Marco
15:33 e par.), «perché il sole era scomparso» Luca 23:45a».159
Questo insegnamento della morte di Gesù nella prospettiva dell’agnello pasquale è ripreso anche
dall’apostolo Pietro nella sua prima lettera in un brano che, secondo diversi teologi cattolici, faceva parte di una
omelia che veniva pronunciata in occasione del battesimo dei catecumeni, insegnando così anche il significato
del sacrificio di Cristo Gesù. L’apostolo scrive: «Sapendo che non con cose corruttibili, con argento o con oro,
siete stati riscattati dal vano modo di vivere trasmessovi dai padri, ma col prezioso sangue di Cristo, come
d’agnello senza difetto né macchia» 1 Pietro 1:18,19.
Il Cristo rappresentato da un “agnello senza difetto né macchia” è evidentemente una trasposizione
dell’A.T. che presenta l’agnello pasquale. M.E. Boismard fa le seguenti considerazioni: «La doppia
qualificazione: “senza difetto e macchia” corrisponde a “senza tara” di Esodo 12:5. Aggiungiamovi la menzione
del sangue (Esodo 12:7) e la prescrizione di “cingere i fianchi” 1:3 confr. Esodo 12:11. Ma più ancora, il tema
dell’agnello pasquale è suggerito da tutto il contesto che sviluppa, da 1:13 a 2:10, una tipologia battesimale
dell’Esodo molto minuziosa. L’insieme dei cristiani liberati dal sangue dell’agnello possono offrire a Dio dei
sacrifici spirituali (2:5, confr. Esodo 3:18; 5:1-3; 1:31); è chiamato a formare il nuovo popolo dell’Alleanza
(2:9; Esodo 19:6) protetto dalla legge di santità del Decalogo (1:16; confr. Levitico 19:2, 1 Pietro 1:22; confr.
Levitico 19:18) la cui caratteristica essenziale è l’obbedienza alla Parola di Dio (1:2,14,22; confr. Esodo
19:5,6,8; 24:7,8). È, dunque, essenzialmente nella prospettiva di questa tipologia battesimale dell’Esodo che
bisogna interpretare la nostra redenzione mediante il sangue del Cristo. Il Cristo è il nuovo agnello pasquale grazie al quale gli uomini sono stati riscattati da una schiavitù di cui quella dell’Egitto era il tipo e la
prefigurazione».160
È nella prospettiva dell’Esodo che il significato di riscatto si presenta in termini non equivocabili.
«Il verbo greco, come i due verbi ebraici al quale corrispondono nella traduzione dei LXX, significa
propriamente: riscattare per mezzo del riscatto. È correntemente impiegato nel testo legislativo del Pentateuco
per indicare il riscatto dei prigionieri o degli schiavi. Ma, nella tradizione biblica, il tema aveva ricevuto una
spiegazione molto specifica: il riscatto d’Israele dalla cattività. Nel cantico... di Mosè, cantato dopo che ebbe
passato il mar Rosso con gli Israeliti, è affermato esplicitamente: «Tu hai condotto con la tua benignità il popolo
che hai riscattato, l’hai guidato con forza verso la sua santa dimora... Per la forza del tuo braccio diventeranno
muti come una pietra, finché il tuo popolo o Eterno, sia passato, finché sia passato il popolo che ti sei
acquistato» Esodo 15:13,16; Deuteronomio 7:6-8.
Anche in Isaia il verbo ga’al, ha lo stesso significato, riguarda sempre il riscatto d’Israele esiliato in
Babilonia; questa liberazione d’altronde è vista come un rinnovamento del prodigio dell’esodo (vedere Isaia
43:1-3; 1 Pietro 1:15). E ancora più avanti Dio, per bocca del profeta, afferma: «Voi siete stati venduti per nulla,
e sarete riscattati senza denaro» Isaia 52:3… L’omelia battesimale (di 1 Pietro) sembra rifarsi a questo testo
quando dice: «Non con cose corruttibili, con argento o con oro, siete stati riscattati...» 1:18. Egli trasforma
tuttavia il senso del testo. In Isaia il profeta voleva dire che Dio non aveva bisogno di un riscatto per liberare il
158
Pesabim 74b; cit, N. Fùglister, o.c., p. 89.
N. Fùglister propone una pagina interessante. «La legislazione rabbinica relativa alla preparazione della pasqua richiama ancora due
particolarità, che fino ad ora non sono state prese in considerazione da parte dei commentatori, sebbene fossero già presenti sia agli apostoli
sia alle loro comunità giudeo-cristiane: per impedire che avanzi il sangue, di cui all’uomo è proibito il consumo, una prescrizione impone che
all’agnello immolato “si apra il cuore” e se ne faccia sgorgare il sangue»;158 questo ricorda immediatamente Gesù crocifisso che, secondo la
cronologia di Giovanni, morì alla medesima ora degli agnelli pasquali, e il cui fianco venne poi ugualmente aperto, così che ne sgorgarono
sangue ed acqua (Giovanni 19:34)… Segue subito (v. 36) l’allusione a Esodo 12:46, che paragona Gesù all’agnello pasquale. Forse anche la
particolare menzione dell’issopo (v. 29) è un richiamo a Esodo 12:22… Inoltre «l’agnello è arrostito in forma di croce. Uno spiedo infatti è
fissato dalla parte inferiore fino alla testa, e un secondo attraversa le spalle, e a esso si fissano le zampe (anteriori)». Giustino, Dialog. cum
Tryphone Jud. 40,3, in MIGNE, P.L., 5, 561; cit. Idem.
159
N. Fùglister, o.c., pp. 69,70.
160
M.È. Boismard, o.c., p. 92.
La pazzia di Dio
157
CAPITOLO VI
suo popolo: lo farà mediante la sola forza del suo braccio, come gli era avvenuto per l’uscita dall’Egitto.
Nell’omelia, al contrario, la liberazione dei credenti si è effettuata per mezzo del sangue dell’agnello».161
Per Pietro gli uomini vivevano nell’ignoranza di Dio, erano quindi nel peccato e di conseguenza
adoravano gli idoli di questo mondo. Ciò che ha permesso a loro la liberazione da questa situazione è il braccio
steso dell’Eterno manifestato nel sangue versato da Cristo Gesù. Questa liberazione, questo riscatto ha permesso
alle persone che hanno capito la volontà di Dio, di passare «dalle tenebre alla... meravigliosa luce” per essere
“una generazione eletta, un regale sacerdozio» 1 Pietro 2:9.
Come abbiamo detto, l’insegnamento di Pietro fa riferimento al sangue dell’agnello pasquale quale
mezzo di liberazione. Sebbene il racconto dell’Esodo e quello biblico in genere non dicano nulla a tale
proposito, e anche se il sangue è stato il mezzo utilizzato per proteggere gli Ebrei dall’angelo sterminatore che
colpiva a morte i primogeniti, l’affermazione di Pietro si appoggia sull’insegnamento della tradizione rabbinica
che del resto non è in contrasto con la Parola di Dio. Così anche se il sacrificio pasquale non era un vero e
proprio sacrificio espiatorio, il suo sangue aveva però sempre un valore espiatorio-purificatorio, di salvezza
perché esso è il grande mezzo offerto da Dio per manifestare la remissione dei peccati: «Vi ho ordinato di porlo
(il sangue) sull’altare per fare l’espiazione» Levitico 17:11.
«Si legge per esempio nella Mekhilta su Esodo 12:6: “Quando il tempo fu venuto per realizzare il
giuramento, che il Santo, benedetto in eterno, aveva giurato ad Abramo, di riscattare i suoi figli... diede a loro
due comandamenti, il sangue della Pasqua e il sangue della circoncisione, che dovevano praticare per essere
riscattati”. Si legge pure nella Pirqe Abbat: “A causa del sangue dell’Alleanza, della circoncisione e a causa del
sangue della Pasqua io vi ho liberato dall’Egitto”. In questi due testi il sangue della Pasqua non è altro che il
sangue dell’agnello con il quale gli Ebrei avevano segnato le loro porte».162
In tutta la Sacra Scrittura il riscatto, messo in relazione con la salvezza, più che qualcosa dato in pegno
per alcunché, indica l’azione liberatrice compiuta dall’Eterno.
Per Giovanni è «l’agnello che toglie i peccati del mondo», per Pietro è l’agnello pasquale che cambia la
mente degli uomini. La liberazione dal peccato è l’abbandono del “vano modo di vivere ereditato dai padri».
Nell’A.T., ricorda Boismard, la “vanità” o il “niente”, cosa che non ha valore, è messa in relazione con gli idoli
pagani (Deuteronomio 32:21; Geremia 8:13; 2:5).
Giovanni in Apocalisse completa la presentazione dell’«agnello di Dio che toglie i peccati del mondo».
«Il titolo cristologico di arnio (agnello) è tipico dell’Apocalisse di Giovanni».163
Per 28 volte Gesù viene indicato con questa immagine.
Se il Servo dell’Eterno indica chi attivamente realizza la volontà di Dio, la parola “agnello” può far
pensare alla passività della vittima che subisce, per togliere il peccato. Giovanni nell’ultimo scritto posto nella
Bibbia, presenta sì l’agnello che è stato immolato ma nella forza del «leone della tribù di Giuda, il rampollo di
Davide che ha vinto» Apocalisse 5:5.
L’agnello-leone dell’Apocalisse viene presentato da Giovanni ancora nel contesto dell’Esodo, il cui
avvenimento rimane il tema dominante.
All’inizio dell’Apocalisse Dio viene presentato come «Colui che è, che era e che viene» 1:4,8; 4:8.
Questa espressione sviluppa il nome dell’Eterno con il quale si era presentato a Mosè nel pruno ardente (Esodo
3:4). Come per Israele in Egitto, i salvati dell’ultima generazione non subiranno le piaghe finali che colpiranno
il mondo. Liberati, essi «cantano il cantico di Mosè e il cantico dell’Agnello» Apocalisse 15:3, «l’Hille della
liberazione dal peccato»164, così come nella cena di Pasqua gli Ebrei cantavano la liberazione operata
dall’Eterno. Coloro che escono dalla grande tribolazione per porsi davanti al trono «hanno lavato le loro vesti e
le hanno imbiancate nel sangue dell’agnello» Apocalisse 7:14, sono stati cioè purificati da loro peccato che è
stato tolto a seguito del loro fondersi con la vita di Cristo.
Gli esseri celesti davanti all’agnello, che è l’artefice della liberazione, gli “cantano un cantico nuovo” e
gli dicono: «Sei stato immolato e hai comprato a Dio, col tuo sangue, gente d’ogni tribù, lingua e popolo e
nazione, e ne hai fatto per il tuo Dio un regno e dei sacerdoti» Apocalisse 5:9,10. Si avrà allora il compimento di
quanto l’Eterno aveva promesso a Israele (Esodo 19:5,6).
Possiamo concludere con le parole di de la Potterie: «Gesù, agnello di Dio, toglie il peccato in due modi
diversi. Anzitutto purificando gli uomini con la sua parola, con la sua verità (Giovanni 8:31-47; 1 Giovanni 3:39); in seguito con il suo sangue (1 Giovanni 1:7)».165
Questo secondo modo di togliere i peccati non è il risultato giuridico di quanto avvenuto al Golgota, ma
quale offerta della sua vita che desidera viverla unita alla nostra. Gesù toglie i peccati dal mondo, liberandoci e
161
162
163
164
165
Idem, pp. 93,94.
N. Fùglister, o.c., p. 96.
Idem, p. 53.
Le Deaut Roger, o.c., p. 335.
J. de la Potterie, o.c., p. 169.
La pazzia di Dio
158
LA SALVEZZA NEL NUOVO TESTAMENTO
facendo di noi dei re e dei sacerdoti che offrono a Dio il loro culto mediante sacrifici spirituali che esprimono la
personale consacrazione.
Giovanni 3:14,15
«E come Mosè innalzò il serpente del deserto, così bisogna che il Figlio dell’uomo
sia innalzato, affinché chiunque crede in lui abbia vita eterna».
Dopo sei mesi di vita pubblica di Gesù e in occasione del suo primo viaggio a Gerusalemme per la
Pasqua, il dottore della legge Nicodemo si presenta a lui, di notte. Gli confessa di riconoscere nel giovane
Maestro un inviato da Dio e Gesù gli risponde che senza la nuova nascita di acqua e di spirito egli non può
entrare nel Regno di Dio. Questa verità della nuova nascita era presente anche nell’insegnamento dei profeti
(Ezechiele 11:19,20) e, quindi, Nicodemo già la conosceva. Ma conoscerla e forse anche insegnarla non
significa averla sperimentata. Il dottore delle legge chiede, quindi, a Gesù come è possibile nascere realmente di
nuovo, dopo una vita vissuta con certe inclinazioni, con un temperamento particolare, con una personalità
formatasi nel corso degli anni. Come è possibile questa nuova rigenerazione per una persona già avanti nell’età?
Gesù spiega che è lo Spirito di Dio a compiere questo e che egli stesso è sceso dal cielo per proporsi alle persone
come oggetto di fede e rendere così disponibile il cuore dell’uomo alla trasformazione che lo Spirito Santo
opererà.
Per far meglio comprendere questa verità e come essa si possa rendere reale, Gesù ricorda un episodio
della storia d’Israele verificatosi dopo l’uscita dall’Egitto. «Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così
bisogna che il Figlio dell’uomo sia innalzato, affinché chiunque crede in lui abbia vita eterna».
La missione di Gesù è quella di ridare l’eternità. Per arrivare a questo risultato due fatti sono richiesti:
uno, oggettivo, punto di riferimento per tutti, proposto da Gesù: la sua elevazione; l’altro, soggettivo, richiesto
all’individuo: la fede. Per rendere comprensibile questo suo insegnamento, Gesù prende l’episodio dell’A.T. che
unisce l’elevazione e la fede. Non possiamo spingere il parallelismo tra Gesù ed il serpente fino alle estreme
conseguenze. Il serpente rappresenta il male vinto e Gesù in croce non è il male vinto, ma colui che lo vince.
A proposito dell’elevazione: «I Padri sono unanimi nel vedere in queste parole una profezia velata della
passione»,166 e tutti i commentatori antichi hanno sempre inteso Gesù annunciare qui misteriosamente la sua
morte sulla croce».167
Il primo ad avere compreso le parole di Gesù in questo senso è stato lo stesso Nicodemo, che durante il
ministero di Gesù lo ha seguito da lontano, ma nel giorno della tragedia del Golgota lo confessa pubblicamente.
Dopo che Giuseppe d’Arimatea ha chiesto il suo corpo al governatore Pilato, il dottore della legge si è
presentato al sepolcro con una mistura di mirra e aloe (Giovanni 19:39).
Gesù esprime la necessità di questa elevazione con la parola “bisogna”, dei. Quale è la ragione di questa
necessità? Perché questo dei, bisogna? Il Médébielle dice: «Il nostro Signore non lo spiega».168
Ma Gesù aggiunge: “Affinché chiunque crede nella sua elevazione sia salvato”. Questo “bisogna” è la
gloriosa necessità che ha origine nella misericordia eterna del Padre, il quale ha visto in questo avvenimento
l’ultima possibilità per raggiungere l’uomo. È l’ultimo tentativo, il supremo, che Dio compie affinché l’uomo
possa acquistare fiducia in Lui. L’elevazione è una necessità, un bisogno, un obbligo, non perché Dio possa essere disposto a salvare l’uomo, ma affinché l’uomo si possa rendere disponibile alla sua grazia. Il serpente di
rame e la croce esprimono la volontà di Dio di salvare, ma è la fede nelle promesse di Dio che permette la
guarigione fisica e spirituale. Ciò che viene esposto sui due pali sono dei mezzi che Dio utilizza per ricondurre le
menti delle persone a Sé.
A conclusione della lettera ai Galati l’apostolo Paolo scriveva: «Ma quanto a me, non sia mai che mi glori
d’altro che della croce del Signore nostro Gesù Cristo, mediante la quale il mondo, per me, è stato crocifisso, ed
io sono stato crocifisso per il mondo» 6:14.
Il profeta Zaccaria aveva detto: «Essi riguarderanno a colui che essi hanno trafitto» 12:10; Giovanni
19:37. Con l’immagine del serpente innalzato Gesù non solamente presenta il compimento di quanto annunciato
da Zaccaria, ma riassume quanto Isaia 2:2 aveva detto del monte di Gerusalemme: «Avverrà, negli ultimi giorni,
che il monte della casa dell’Eterno si ergerà sulla vetta dei monti, e sarà elevato al di sopra dei colli: e tutte le
nazioni affluiranno ad esso». Ciò avverrà perché «in quel giorno, verso la radice di Isai (padre di Davide, di cui
il Messia avrebbe dovuto dare splendore al trono), issata come vessillo dei popoli, si volgeranno premurose le
nazioni, e il luogo del suo riposo sarà glorioso… Egli alzerà un vessillo verso le nazioni, raccoglierà gli esuli
d’Israele e radunerà i discepoli di Giuda dai quattro canti della terra» Isaia 11:10,11.
166
167
168
P.A. Médébielle, o.c., col. 210.
MIEGGE Giovanni, Pagine scelte del vangelo di Giovanni, Roma, facoltà teologica Valdese, ciclostilato, p. 93.
P.A. Médébielle, o.c., col. 211.
La pazzia di Dio
159
CAPITOLO VI
Giovanni 10:17,18
«Per questo mi ama il Padre: perché io depongo la mia vita, per ripigliarla poi.
Nessuno me la toglie, ma la depongo da me. Io ho potestà di deporla e ho potestà di
ripigliarla. Quest’ordine ho ricevuto dal Padre mio».
Con queste parole Gesù ribadisce diverse volte che lui, di sua propria volontà, offre la sua vita. Nessuno
gliela toglie, non certo il Padre per vedere soddisfatta la sua giustizia, secondo la teoria della sostituzione penale.
Non gliela toglie neppure Satana; quale scambio per rilasciare coloro che sono sotto il suo dominio. Così non
gliela tolgono gli uomini per fare un sacrificio di riparazione, espiatorio. È lui da Padrone che la dona e si mette
nella condizione di essere vulnerabile ai colpi mortali.
Per quanto riguarda la dichiarazione: «Io depongo la mia vita per ripigliarla poi. Io ho podestà di deporla
e ho podestà di riprendermela», essa ricorda quanto Gesù stesso aveva detto in Gerusalemme: «Disfate questo
tempio, e in tre giorni lo farò risorgere» Giovanni 2:19. L. Bonnet commenta: «Queste parole il Signore, le
pronuncia nel sentimento della sua unità di essenza con Dio; altrimenti esse ci sarebbero incomprensibili e,
inoltre, si troverebbero in contraddizione con la dottrina costante del N.T. che è Dio che ha risuscitato Gesù dai
morti (Atti 2:22; 3:15; 4:10; Romani 6:4)».169 Proprio in considerazione del fatto che a diverse riprese il N.T.
afferma che Gesù sia stato resuscitato dal Padre, riteniamo che il verbo «ho potestà di riprenderla», possa avere
il significato di “diritto”: «ho il diritto di riprenderla». Infatti con la risurrezione Gesù ha beneficiato del diritto
di riprendere la sua vita perché la morte subita era ingiusta (vedere Atti 2:24).
Giovanni 11:49-51
«E uno di loro, Caifa, che era sommo sacerdote di quell’anno, disse loro: “Voi non
capite nulla, e non riflettete come vi torni conto che un uomo solo muoia per il
popolo, e non perisca tutta la nazione”. Or egli non disse questo di suo; ma siccome
era sommo sacerdote di quell’anno, profetò che Gesù doveva morire per la
nazione».
Con la risurrezione di Lazzaro Gesù firma la propria condanna, facendo esplodere l’odio del Sinedrio nei
suoi confronti.
Ancora una volta, soteriologicamente parlando, la morte di Gesù è presentata non in sostituzione a quella
del popolo, ma a suo beneficio. Del resto il popolo stesso, quarant’anni dopo, perirà in occasione della
distruzione di Gerusalemme, proprio ad opera di quei romani dei quali il sommo sacerdote voleva ingraziarsi i
favori. Gesù muore in favore (uper) del popolo, e non solo d’Israele, ma di tutti coloro che di fronte alla sua
morte vedono colui che dall’eternità è venuto a incontrarli.
«Giovanni, quando cita le parole di Caifa: “Voi… non vi rendete conto che è più vantaggioso per voi che
muoia un solo uomo per il popolo e non perisca tutta intera la nazione”, non esita a dire che Caifa ha
profetizzato a modo suo “che Gesù stava per morire per la nazione, e non per la nazione soltanto, ma anche per
radunare insieme nell’unità i figli dispersi di Dio”. Giovanni 11:50-52). Così facendo egli non è vittima delle
proprie parole, ma è consapevole del cambiamento radicale di senso fra il proposito di Caifa e la realtà del
mistero. La correzione universale ch’egli apporta alla riflessione di Caifa lo mostra già chiaramente.
Quest’ultimo ritiene preferibile abbandonare Gesù alla vendetta dei romani, che saranno così calmati da questa
esecuzione isolata. Egli eviterà così delle sevizie contro tutto il popolo. Per lui Gesù sarà, quindi, il capro
espiatorio del popolo, a beneficio d’una riconciliazione (provvisoria) con i romani. Ma Giovanni, attingendo al
centro della sua fede, legge in questa frase crudele, per metafora e metonimia, un annuncio della realtà più
misteriosa che ci sia. Lungi dall’identificare Dio con i romani poliziotti e vendicatori, egli legge nella passione la
realizzazione del disegno della salvezza e dell’unità di tutti i figli di Dio».170
Conclusione
La morte sulla croce è la vittoria di Dio che si è fatto interamente uomo. Caino, geloso di Abele suo
fratello, gli toglie la vita; Colui che non si vergogna di chiamarci fratelli pur essendo il Creatore dell’universo,
perché ama, offre la propria eternità. Che la morte sia la vittoria sul male (Colossesi 2:15) e non il pagamento, il
saldo del debito dell’umanità, è attestato dalla risurrezione del Cristo.
169
170
L. Bonnet, o.c., vol. II, Evangile de Jean, Lausanne 1885, p. 167.
SESBOÜÉ Bernard, Gesù Cristo, l’unico mediatore, vol. 1, ed. Paoline, Cinisello Balsamo 1991, pp. 72,73.
La pazzia di Dio
160
LA SALVEZZA NEL NUOVO TESTAMENTO
«La risurrezione del Signore non è un lusso soprannaturale offerto all’ammirazione degli eletti, né una
semplice ricompensa accordata ai suoi meriti, neppure un sostegno della nostra fede e il pegno della nostra
speranza; essa è un complemento essenziale e una parte integrante della redenzione stessa».171
La morte e la risurrezione di Gesù sono un tutto indivisibile. Per questo motivo l’apostolo Paolo scrive:
Gesù «fu offerto a motivo dei nostri peccati e fu risuscitato in vista della nostra giustificazione» Romani 4:25
versione Nuovo Testamento, la buona novella. Questo versetto da altri è tradotto: «Il quale è stato dato a cagione
(dia) delle nostre offese, ed è risuscitato a cagione (dia) della nostra giustizia» ad es.: versione Luzzi, per
mantenere il parallelismo delle due proposizioni dia. Queste due traduzioni diverse, sebbene entrambe
grammaticalmente corrette, presentano due diverse posizioni teologiche. Se il dia con l’accusativo viene tradotto
nelle due proposizioni nello stesso modo “a cagione di” l’interpretazione che ne segue è, secondo il commento
di F. Godet: «Come i nostri peccati hanno moralmente causato la morte del Cristo, così la nostra giustizia (che
deriva da questa morte) ha moralmente causato la sua risurrezione. La nostra condanna lo aveva ucciso; la nostra
giustificazione lo ha risuscitato».172 Riassumendo il pensiero di questo teologo ed esegeta, possiamo dire: la
risurrezione di Gesù è la prova che il suo sacrificio espiatorio ha soddisfatto la divinità e che il mondo ha
ottenuto il perdono. Gesù con la morte aveva pagato il debito e, quindi, non ha più motivo di restare nella
prigione della tomba. «Se la sua morte è il pagamento del nostro debito, la risurrezione ne è la quietanza».173
Non condividiamo questa posizione per quanto abbiamo già detto sul significato del riscatto e perché
vediamo nella risurrezione di Gesù la continuazione del suo ministero a favore della nostra salvezza. La traduzione che abbiamo dato: Gesù è risuscitato «in vista della nostra giustificazione» è grammaticalmente corretta
come anche riporta il Grande lessico del N.T., vol. II, voce dia, col. 919,922, e aggiunge: «Se Cristo non è
resuscitato, vana è la nostra fede; voi siete ancora nei vostri peccati. Anche quelli che dormono in Cristo, sono
dunque periti» 1 Corinzi 15:17,18. Il teologo G. Spicq afferma: «Senza la risurrezione non c’è né redenzione né
salvezza eterna… Redenzione e risurrezione sono intrinsecamente legate... Non si insisterebbe a sufficienza
su questa dottrina così centrale della teologia paolina».174
La nostra salvezza dipende dalla vita, dalla morte e dalla risurrezione di Cristo Gesù. In altre parole se
Cristo non vivesse e, quindi non fosse risorto, non potrebbe operare in nostro favore (vedi capitolo seguente).
Mediante la sua vita e la sua morte Gesù ha vissuto la realtà dell’uomo fedele rappresentando l’umanità che ama
il Padre. Noi siamo salvati grazie alla sua risurrezione mediante la quale vive in noi, rendendoci giusti. Cristo è
morto per noi e la sua morte ci fa morire con lui. La sua morte segna la nostra morte al peccato e ci lega, ci
fonde nella sua risurrezione.
Mentre l’uomo muore a causa del peccato, Gesù è morto al peccato una volta per sempre (Romani 6:10).
Il credente sperimenta nella sua vita personale ciò che è avvenuto nella storia al Golgota. Mediante il battesimo,
che lo seppellisce nelle acque, testimonia della sua morte al peccato (Romani 8:2,11). Il vecchio uomo
assoggettato al peccato viene così crocifisso con il Cristo «affinché il corpo del peccato fosse annullato» Romani
6:6; cioè, perché la sua natura decaduta non serva più al peccato. Per questo motivo il peccato non regnerà più
sul credente (Romani 6:14), perché «quelli che sono di Cristo hanno crocifisso la carne con le sue passioni e le
sue concupiscenze» Galati 5:24. Coloro che al battesimo sono morti con Cristo sono «affrancati dal peccato»
Romani 6:7.
La salvezza dell’uomo è una rigenerazione, è un trapianto. L’uomo a causa del peccato tende verso la
morte, la salvezza lo orienta verso la vita.
Crediamo che l’insegnamento di Paolo sul nuovo vivere del credente risenta dell’insegnamento della sera
finale che Gesù trascorre con i suoi discepoli. In occasione dell’ultima Cena, Gesù, riprendendo i concetti di un
discorso già fatto nella sinagoga di Capernaum, ribadisce che la partecipazione dei credenti alla sua persona
deve essere concreta. Le parole: «Se non mangiate la mia carne e non bevete il mio sangue non avete la vita
eterna» Giovanni 6:53, devono essere prese in senso spirituale (Giovanni 6:63); esse sono riproposte nel
cenacolo con l’offerta di Gesù del pane e del vino, simboli del suo corpo e del suo sangue. Come questi alimenti
assimilati vengono a far parte del corpo, così Dio che nell’eternità «sarà tutto in tutti» 1 Corinzi 15:28 anticipa il
futuro nel presente mediante Cristo Gesù. In questo prendere il pane e il vino c’è la partecipazione del credente
alla vita che viene da Dio. Uscito dalla camera alta, attraversando i campi, Gesù invita i credenti ad essere uniti a
lui come il tralcio lo è alla vite, nutrendosi così della sua preziosa linfa (Giovanni 15:1 e seg.). L’unione del
tralcio con la vite non deve essere apparente; l’innesto deve essere tale da portare frutto. Il Padre lavora la vigna
affinché il frutto sia abbondante. Questa identificazione di Gesù con la sua Chiesa il Maestro l’aveva già
presentata qualche giorno prima: tutto ciò che voi «avrete fatto ad uno di questi miei minimi fratelli, l’avete fatto
a me» Matteo 25:40 confr. Atti 26:14; Apocalisse 17:14.
«Noi che siamo molti, siamo un solo corpo in Cristo, e, individualmente, siamo membra l’uno dell’altro»
Romani 12:5. «Siccome il corpo è uno ed ha molte membra, e tutte le membra del corpo, benché siano molte,
171
F. Prat, o.c., vol. II, p. 258.
F. Godet, o.c., pp. 426,427.
173
Idem, p. 427.
174
SPICQ G., La Sainte Bible, éd. Pirot Clamar, XI, 2, p. 281; cit. da LYONNET Stanislao, Conception Paulinienne de la resurrection,
in Lumière et Vie, n. 7, 1958, p. 56.
172
La pazzia di Dio
161
CAPITOLO VI
formano un unico corpo, così è ancora di Cristo» 1 Corinzi 12:12. «Voi siete il corpo di Cristo, e membra
d’esso, ciascuno per parte sua» 1 Corinzi 12:27. «Noi siamo membra del suo corpo» Efesi 5:30. «Il corpo di lui
è la Chiesa» Colossesi 1:24.
Con il primo Adamo l’umanità ha ereditato, a causa del peccato, la natura corrotta e va verso la morte.
Per questo, in Adamo, l’umanità per natura è senza vita, è un fiore tagliato dal suo stelo. In Cristo Gesù, secondo
Adamo, prende forma una nuova umanità. Il peccato è stato vinto da una persona in carne, simile a carne di
peccato. La morte di Gesù al peccato ha permesso che il corpo umano venisse trasformato in corpo spirituale (1
Corinzi 15:44), glorificato alla risurrezione e ora presente in Cristo Gesù accanto al Padre (Colossesi 3:1-3;
Efesi 2:6).
«In una maniera tutta sua, san Paolo ha sottolineato l’imprescindibilità della partecipazione profonda e
totale del credente ai misteri redentori di Gesù coniando ex novo dei verbi composti con la preposizione greca
sun “con”; vincolando il credente alla morte - alla risurrezione - alla gloria di Gesù. La vita cristiana è presentata
così sotto il segno della sofferenza e morte redentrice di Gesù, come personale partecipazione alla redenzione da
lui operata per tutti, ma non in loro vece. Ogni credente è redento dal Cristo nella misura in cui egli rivive concretamente i singoli momenti redentori, cioè la vita stessa di Gesù. Gli scritti paolini, come è noto, sono
singolarmente ricchi a questo proposito. Rileviamo qui solamente qualche testo più relazione al nostro tema.
Per godere della redenzione il cristiano deve essere concorporeo (sunsoma) di Gesù (Romani 8:8),
connaturato (sunfutos) alla morte di Gesù (Romani 6:5), deve consoffrire (sunpasxomen), insieme con Gesù
(Romani 8:17), essere crocifisso (sunestaurothe), insieme con Gesù (Romani 6.6; Galati 2:19), morire con Gesù
(apethanomen sun... Romani 6:7), essere consepolto (sunvetafemen) insieme con Gesù (Romani 6:6)».175
Partendo da questa unione con la persona di Cristo Gesù, da parte di tutti i credenti, Paolo fa un ulteriore
passo: per 164 volte esprime con una sua formula: “in Cristo” la relazione intima e profonda del credente con il
Signore. Con questa espressione l’apostolo più che unire il credente alla persona di Gesù, lo identifica con lui. In
Cristo Gesù il credente partecipa alla sua vita, alla sua gloria, al suo trono, alla sua divinità. «Poiché in lui
(Gesù) abita corporalmente la pienezza della Deità, e voi vi trovate associati in lui alla sua pienezza» Colossesi
2:9,10. Pietro da parte sua esprime lo stesso insegnamento in questi termini: «Egli ci ha largito le sue preziose e
grandissime promesse onde per loro mezzo voi foste fatti partecipi della natura divina dopo essere fuggiti dalla
corruzione che è nel mondo» 2 Pietro 1:4.
Come abbiamo detto lo scopo della creazione è: «Dio tutto in tutti» 1 Corinzi 15:28. Questa realtà futura
viene presentata dalla Parola di Dio nell’insegnamento del santuario. La tenda di convegno, il tempio, oltre ad
esprimere la volontà di Dio di salvare l’uomo, era il segno della sua presenza in mezzo al popolo (Esodo 25:8).
Sull’arca del patto Yahvè manifestava la sua gloria.
In Cristo Gesù noi abbiamo l’Eterno che pone la sua tenda accanto a quella degli uomini per partecipare
alla loro vita (Giovanni 1:14 trad. lett.). Gesù vero tempio di Dio (Giovanni 2:19) è la manifestazione visibile
del Dio invisibile (Giovanni 14:9).
Il credente, risorto in Cristo Gesù mediante il battesimo, vive in Cristo alla presenza del Padre (Colossesi
3:1-3). Su questa terra, lui stesso e con l’insieme dei credenti è, e costituisce, il tempio dello Spirito Santo (1
Corinzi 3:16, 6:19; Efesi 2:20,22; 1 Pietro 2:4,5). E il Signore in lui trova il suo riposo e la sua gloria.
L’umanità e tutto ciò che esiste è stata creata «in lui (Cristo Gesù)... per mezzo di lui e in vista di lui»
Colossesi 1:16. L’umanità trova nel figlio dell’uomo, nell’umanità di Cristo Gesù non solamente il suo
liberatore, ma il “crogiolo” dove il «Dio Salvatore» Tito 3:4 «ha rifuso la sua opera di argilla per far riemergere
la sua nuova creatura». 176
L’uomo, quale creatura di Dio, doveva essere sulla terra il suo rappresentante e fatto a sua somiglianza,
ne doveva riflettere l’immagine (Genesi 1:26). G. Biffi fa queste osservazioni:
1. Gesù è il capo dell’umanità perché tutte le cose che esistono, compresi gli esseri umani, hanno la loro origine
in lui (1 Corinzi 8:6).
2. Gesù è il capo dell’umanità perché l’uomo è stato modellato su di lui. «Il Figlio dell’uomo non ha avuto un
volto, un cuore, un corpo, perché doveva essere come noi, ma noi abbiamo un volto, un cuore, un corpo per
essere come lui. Lui è l’archetipo donde l’umanità fu tratta e tutto ciò che di umano c’è in noi è una copia di
lui, che resta l’espressione più alta, anzi totale dell’unità» (Colossesi 1:16).
3. Gesù è lo scopo finale della creazione; essa è stata fatta in vista di lui (Colossesi 1:16). Di conseguenza Gesù,
incarnandosi, continua ad essere il capo sano di un organismo (corpo) ammalato. Non respinge i dolori, quali
conseguenze del corpo umano, non interrompe neppure la sua intimità con gli uomini che, dopo il peccato, è
diventata intimità di dolore”, perché così facendo «si fa principio di risanamento per tutti… Abbiamo così
l’esatta misura della sconfitta di Satana. Il peccato che ha deturpato tutto il genere umano, non ha potuto
contaminare la sua ultima e vera radice, che non è Adamo, ma Cristo. Il figlio di Dio, soffrendo per
l’anomalia di un corpo che con la colpa tenta di estraniarsi da lui, e accettando con tale sofferenza di non
175
176
L. Sabourin, o.c., pp. 332,333.
Vedere P. Benoit in L. Sabourin, o.c., p. 400.
La pazzia di Dio
162
LA SALVEZZA NEL NUOVO TESTAMENTO
estraniare la sua innocenza dalla nostra stirpe di peccatori, si rimodella un corpo a lui conforme, che è
appunto l’umanità redenta, cioè la Chiesa».177
177
G. Biffi, o.c., pp. 64-67.
La pazzia di Dio
163
Capitolo VII
IL MINISTERO SACERDOTALE E REGALE DI GESÙ
E IL MINISTERO REGALE DI GESÙ DURANTE IL MILLENNIO
L’apostolo Paolo scrive di Gesù: «Fu offerto a motivo dei nostri peccati e fu risuscitato in vista della
nostra giustificazione» Romani 4:25.
L’opera della salvezza compiuta da Gesù, iniziatasi con il peccato dell’uomo, manifestata mediante la sua
incarnazione e la sua vita, non si conclude sulla croce. Gesù deve ancora operare affinché la sua giustizia sia
vissuta in noi, la sua santità sia manifestata nelle nostre persone, e noi, come suoi fratelli, possiamo pervenire
alla sua gloria (1 Corinzi 1:30).
L’opera della redenzione si realizza in tre fasi.
La prima, cominciata con l’incarnazione, si è conclusa sul Calvario.
La seconda si realizza mediante l’opera sacerdotale che Cristo Gesù svolge nel santuario celeste e si
concluderà con il suo ritorno.
La terza terminerà quando si farà ogni cosa nuova, dopo il regno millenario di Gesù e il giudizio
universale.
Noi considereremo in questa sezione le ultime due fasi.
A conclusione di ognuna di queste tre fasi troviamo le parole «é compiuto» Giovanni 19:30; Apocalisse
21:6, «é fatto» Apocalisse 16:17.
L’inizio del ministero che Gesù compie nel santuario celeste è stato manifestato sulla terra dalla discesa
dello Spirito Santo alla Pentecoste.
A seguito della sua ascensione Gesù si è posto «a sedere per sempre» Ebrei 10:12, «alla destra della
Maestà nei luoghi altissimi» Ebrei 1:3; (8:1; 12:2, vedere Marco 16:19; Luca 22:69; Atti 2:34; Romani 8:34;
Efesi 1:20; Colossesi 3:1; 1 Pietro 3:22); «per comparire ora al cospetto di Dio per noi» Ebrei 9:24, finché il
Padre non abbia fatto dei sui nemici lo sgabello dei suoi piedi (Ebrei 1:13; Atti 2:35). Essere messo alla destra o
essere seduto alla destra di qualcuno significa, secondo la concezione di un tempo anche recente, essere rivestito
di potere e dell’autorità di colui del quale si è alla destra. Il Gesù della storia, nella sua umanità, è investito ora
dell’onnipotenza divina. «Ogni potestà mi è stata data in cielo e sulla terra» Matteo 28:18, disse Gesù in
occasione della sua ascensione.
Nel santuario celeste non c’è, come in quello terreno, un luogo santo e uno più santo, il santissimo. Il
luogo dove Gesù esercita il suo ministero, alla destra del Padre non può essere che santissimo. La lettera agli
Ebrei che varie volte menziona il santuario celeste, non vede in esso un luogo santo e uno santissimo. Quando li
menziona li mette in relazione con il santuario terreno (9:2,3). L’espressione che viene usata nella lettera agli
Ebrei è ton hagion al singolare 8:2; 9:8 e ta hagia al plurale 9:12,24,25. Ton hagion genitivo plurale 10.19,
letteralmente significa i luoghi santi e si riferisce al santuario in generale. La stessa cosa è per la versione dei
LXX: 142 volte su 170 l’espressione ta hagia si riferisce al tabernacolo o tempio in senso generale.
Nel santuario israelitico il luogo santo e il luogo santissimo permettevano di esprimere il doppio
ministero sacerdotale: quello quotidiano, nel luogo santo; quello annuale, di giudizio e di purificazione, nel
luogo santissimo. Gesù, nel compiere il suo ministero, stando accanto al Padre, non si sposta da un luogo
all’altro, come avveniva per il sacerdote israelita. Il suo ministero consiste nel soccorrere i fedeli (1 Giovanni
2:1), nel rappresentarli davanti al Padre (Romani 8:34) e nel testimoniare della loro fedeltà (Atti 7:56). A questo
ministero, che nel santuario terreno era svolto nel luogo santo, Gesù aggiunge quello del giudizio preliminare
che veniva compiuto in occasione della purificazione del tempio e del popolo e si svolgeva nel luogo santissimo.
Sul suo trono Gesù non è un osservatore passivo di ciò che avviene sulla terra. Egli sta compiendo la sua
opera fino a quando «i suoi nemici siano ridotti ad essere lo sgabello dei suoi piedi» Ebrei 10:13. Nel cielo Gesù
è all’opera per realizzare quanto ha fatto vedere a Giovanni sull’isola di Patmos: il trionfo dei fedeli, anche se
ora, come ai tempi dell’apostolo, essi sembrano abbandonati agli eventi. Il libro dell’Apocalisse ha come scopo
di dare la certezza che il piano della salvezza avrà il suo compimento e che l’ultima parola sul problema del male
nel mondo e nell’universo appartiene all’Eterno. Il ministero che Gesù svolge nel cielo lo porta ad essere
costantemente presente nella Chiesa. Giovanni dice che lo vide camminare in mezzo ai candelabri d’oro simbolo
della Chiesa (Apocalisse 1:13). Gesù stesso disse prima di lasciare gli apostoli: «Io sono con voi tutti i giorni,
sino alla fine dell’età presente» Matteo 28:20. Questa sua promessa significa che, malgrado gli apparenti suoi
silenzi e le difficoltà che i credenti incontrano, egli dirige la Chiesa verso il glorioso fine ultimo. Gesù conosce
le calamità che colpiranno la terra (Apocalisse 6) e, sebbene la Chiesa dovrà subire gli attacchi dei regni di
questo mondo, non sarà vinta (Apocalisse 17:14). Egli veglia finché tutti coloro che dovranno essere salvati vengano suggellati (Apocalisse 7:1-8) e protetti dalle ultime piaghe che colpiranno l’umanità prima del suo ritorno
glorioso, perché i fedeli hanno rifiutato il marchio della bestia e non ne hanno adorato l’immagine (Apocalisse
16). Ancora Gesù che nel tempo della fine, prima che suoni l’ultima tromba, con la quale si compie il mistero di
CAPITOLO VII
Dio, interverrà in modo provvidenziale per suscitare un movimento profetico incaricato di annunciare al mondo
intero l’ultimo messaggio l’evangelo eterno in tutta la sua veridicità (Apocalisse 10:11; 14:6-12).
Il ministero di Gesù nel santuario celeste volge l’attenzione dei credenti dalla croce all’opera che egli
compie nel presente a loro beneficio invitandoli a guardare con fiducia al Regno di Dio che viene.
Vogliamo ora considerare Gesù nella sua posizione di unico mediatore, di avvocato o nostro soccorritore,
di intercessore o di colui che si presenta al Padre per noi e nel giudizio preliminare.
GESÙ MEDIATORE
L’apostolo Paolo nella sua prima lettera a Timoteo dice: «Poiché v’è un solo Dio ed anche un solo
mediatore fra Dio e gli uomini, Cristo Gesù uomo» 2:5.
Gesù è l’unico mediatore. Questa espressione richiama alla nostra mente colui che si pone tra due persone
e cerca di far sì che queste si accordino e vengano alla conclusione di un affare. Il mediatore cerca di far capire a
ognuna delle due parti le esigenze dell’altra, affinché le proprie vengano eventualmente sfumate, sminuite. Nelle
varie religioni il mediatore è colui che, avvicinando il fedele alla divinità, opera affinché la divinità guardi con
occhio benigno e tollerante il fedele.
La parola greca mesites deriva dalla parola mesos e indica colui che sta in mezzo, che è in posizione
centrale, intermediario, mediatore, arbitro, arbitro di pace nelle cause civili, intercessore, conciliatore,
l’intermediario che stabilisce un rapporto non ancora esistente. 1
Nel testo greco dei LXX la parola mesistes la si trova unicamente nella contestazione che fa Giobbe
davanti ai suoi amici i quali volevano sostenere che Dio lo puniva a causa delle sue iniquità nascoste. Giobbe,
rivendicando la sua integrità davanti a Dio, chiede l’intervento di un arbitro, di un mediatore, uno che si metta in
mezzo e che stabilisca l’eventuale grado della sua responsabilità per il male che subisce (Giobbe 9:33).2
Non crediamo che sia questo il senso di Gesù quale mediatore. Gesù non ha il compito di provare che le
disgrazie che ci colpiscono sono volute da un Dio che ci vuole punire e non ha neppure il compito di chiedere al
Padre dei favori per noi.
1
MOZZATO Davide, La Priere d’Intercession Dans La Bible, Schéma de fonctionnement appliqué à 1 Tim. 2:1-7, Collonges sous
Salève 1999, tesi di fine studi al Seminario Avventista du Salève, osserva nella nota n. 359: «Giobbe 9:33 (LXX); Galati 3 :19,20 ; Ebrei
8 :6; 9:15; 12:24. “Ignorato dal greco classico e derivato da mesoς, il sostantivo mesithς è comunemente usato nell’epoca ellenistica,
soprattutto nelle scritture letterarie; è meno frequente nei papiri e raro nelle iscrizioni. Si dice di qualcuno che si tiene e cammina nel mezzo,
tra due persone o due gruppi, il contesto indica il motivo del suo posto o del suo intervento. (…) Così questo termine vago d’intermediario
può designare dei personaggi molto differenti, ma più sovente e più spesso ha un significato giuridico.
1.
Il suo unico impiego nella LXXX è quello di arbitro nei litigi (Giobbe 9 :33), che è l’accezione più frequente nei papiri: il krithς
mesithς. In un registro giuridico del III secolo, si relazione che i partiti avversari “accusandosi reciprocamente compariranno fra
dieci giorni. Gli abbiamo dato per arbitro Dorion”. (…)
2.
Se l’intermediario interviene nella transazione commerciale a titolo di negoziatore o mediatore in affari è più sovente menzionato
come pacificatore; s’impegna a riconciliare degli avversari. La Souda definisce mesithς: o eirhnopoioς. È mediatoreconciliatore presso (Somn. I, 142). Anche il suo ruolo più frequente è quello di far firmare un trattato di pace tra due nazioni
nemiche. Il console Q. Marcius Filippo domanda ai Rodiani che interpongano tra i re Antioci e Tolemaici che si battono, touς
Rwdiouς mesitaς apodeixai.
3.
Il mesithς gioca anche il ruolo di testimone nel senso giuridico e diventa sinonimo di martuς. In occasione di un matrimonio tra
un soldato e una vedova, l’inventario dei beni parafernali si fa davanti a andrwn icanwn mesitwn, che sono apti a riconoscere
l’esistenza di un debito,essendo presenti in occasione di una restituzione di una somma di denaro.
4.
Enfine, il mesithς è un garante e diviene sinonimo di egguoς. È colui che conserva i giuramenti, i depositi, i contratti: Medea
ripudiata da Giasone, si rifugia a Tebe presso Ercole, il quale essendo il garante del patto concluso (touton gar mesithn gegonta
twn omologinw) precedentemente. L’amica di Oreste di Pliade è messa sotto la protezione e la garanzia della divinità ; riceve da
questo capo un carattere immutabile: Qeon de twn proς allhlouς paqwn mesithς labonteς wς ef enoς skafou tou biou
sunepleusa. È Filone il primo a dare a mesithς una accezione religiosa, attribuendo la qualità di mediatore-conciliatore agli
angeli, e a Mosé (oia mesithς kai diallakthς) facendo delle preghiere e delle supplicazioni domandando il perdono degli sbagli”
confr. C. Spicq, Notes de Lexicographie Néo-Testamentaire, Tome II, Gottingen, Vandenhoeck - Ruprecht, 1978, pp. 549-552.
Confr. Anche: OEPKE, “mesitheς“, TDNT, Vol. IV, pp. 598-624; R. EARLE, Words Reavings in The New Testament, Vol. 1,
Grand Rapids, Baker Book, 1986, pp. 386-387. Il termine ebraico con la quale la LXX traduce mesitheς, est: “xky verbo: hifil
participio maschile singolare 1) provare, decidere, giudicare, rimproverare, riprovare, correggere 1a) (Hifil) 1a1) decidere,
giudicare 1a2) aggiudicare, designare 1a3) mostrare la verità, provare 1a4) convincere, condannare 1a5) riprovare, rimproverare
1a6) correggere, castigare 1b), (Hof'al) essere castigato 1c) (Nifal) ragionare, farsi una ragione assieme 1d) (Hitp) argomentare,
discutere. Louis SEGOND traduce: giustificare, fare giustizia, destinare, pronunciare, condannare, avere cura, riprendere,
castigare, biasimare, rimostranza, arbitro; 59”. Strong’s Abridged BDB, Bible Works.
2
Giobbe soffrendo ingiustamente e pur difendendo la sua integrità chiede che ci sia tra lui e Dio un arbitro, un mediatore. Non sapeva
ciò che verrà scritto nel prologo che tra lui e Dio c’era un terzo personaggio: l’Avversario, Satana. Giobbe non conosceva tutta la storia, la
capirà dopo e quindi poteva aveva anche una nozione non corretta di Dio. Il Patriarca in rivolta contro l’Eterno, pur rispettandolo e
amandolo, non lo comprende, lo considera ingiusto, indifferente alla sua sofferenza, desidera che tra lui e Dio ci sia un Mediatore. E di lui In
un’altra momento dirà: Io so che il mio vendicatore vive! (19:25).
Anche Dio aveva bisogno, di qualcuno che lo potesse rappresentare, che potesse dimostrare la sua vera natura, che togliesse ogni
malinteso nei suoi confronti e il giorno venne che il Mediatore disse: «Chi ha veduto me, ha veduto il padre» Giovanni 14:9.
La pazzia di Dio
164
IL MINISTERO SACERDOTALE E REGALE DI GESÙ
La figura dell’A.T. che funge da mediatore, anche se non gli è mai stata attribuita la parola mesites, è
Mosè. Dio chiama questo uomo per liberare Israele (Esodo 3), adempiendo così le promesse fatte ai padri. Mosè
si presenta come l’inviato del Dio dei padri: Yahvé… Anche Aaronne svolge la funzione di mediatore tra Mosè
e il suo popolo e faraone (Esodo 4:16)… «Mediatore secondo l’A.T. è dunque chi è incaricato di parlare per gli
altri».3 Mosè svolge la funzione di mediatore in occasione della promulgazione della legge: egli rappresenta il
popolo che riceve i decreti dell’Eterno (Esodo 19:3 e seg.; 20:18 e seg.; 24:1 e seg.; Deuteronomio 5:5,23). Si
pone tra Yahvé e il popolo, ricevendo la direttive dell’Eterno e trasmettendole al popolo. Ciò che Dio dice a
Mosè, egli lo deve affidare al popolo (Esodo 35:1-4; Levitico 1:1; 4:1; 5:14; 6:1). Il popolo d’altronde accetta
che l’Eterno gli parli tramite Mosè. Quando il popolo riconosce il proprio sbaglio, invita Mosè a presentarsi a
suo nome, la sua preghiera esprime la preghiera di tutto Israele (Esodo 20:19; Numeri 21:7; Deuteronomio
5:24; 18:16).
Il sommo sacerdote e i sacerdoti svolgono la funzione di mediatori; erano coloro che si ponevano fra Dio
e il popolo, e fra il popolo e Dio; erano i rappresentanti di Dio presso il popolo e rappresentavano il popolo
presso Dio.
Una altra figura di mediatore, anche se non è indicata con questa espressione tecnica, è il Servo
dell’Eterno (Isaia 42:1-4; 49:1-6; 50:4-9; 52:13-53:12), grazie al quale l’umanità ritorna a Dio.
Gesù «quale unico mediatore» è il solo che possa pienamente rappresentare Dio agli uomini e gli uomini
a Dio. In lui «abita la pienezza delle deità» Colossesi 2:9 che si limita nel tempo e nello spazio affinché coloro
che vivono nel tempo possano entrare nell’eternità. A seguito della sua incarnazione abbiamo già in Lui
l’umanità che partecipa alla «natura divina» 2 Pietro 1:4. In Cristo Gesù abbiamo, se possiamo usare questa
espressione, il volto dell’Eterno (Emanuele - Dio con noi) rivolto verso gli uomini e a loro accessibile; ma
abbiamo anche il volto dell’uomo - perché egli è il Figlio dell’uomo - rivolto verso il Dio d’amore.
Gesù è mediatore non nel senso che avvicina Dio agli uomini, ma perché in lui l’Eterno si incontra con
l’uomo, l’uomo si incontra con Dio. Gesù è mediatore perché grazie a lui l’umanità non può più dubitare che
Dio l’ama.
Ciò che Paolo dice di Gesù quale “unico” legame d’unione tra Dio e gli uomini corrisponde alle
dichiarazioni di Gesù: «Io e il Padre siamo uno» Giovanni 10:30; «Chi ha visto me, ha visto il Padre» Giovanni
14:19 e a quanto lo stesso apostolo afferma: «La vita vostra è nascosta con Cristo in Dio» Colossesi 3:3.
Ribadiamo ancora il concetto che la mediazione di Gesù non consiste nell’abbassare le esigenze di Dio e
nell’aumentare le prestazioni dell’uomo, ma nell’essere l’unico rappresentante di Dio e dell’uomo quale
conseguenza della sua natura e della sua incarnazione che conserverà per l’eternità.
GESÙ AVVOCATO
Nel presentare l’opera sacerdotale che Cristo Gesù svolge in cielo per noi gli si attribuisce sovente un
ruolo essenzialmente tecnico giuridico. Si usa spesso la parola “avvocato” secondo la traduzione che
generalmente si dà del testo greco e che si trova unicamente in 1 Giovanni 2:1.
Questa espressione avvocato richiama istintivamente alla nostra mente l’immagine di un Gesù che, seduto
alla destra di Dio, sul trono della gloria o in piedi davanti al Padre, debba difendere e patrocinare i nostri
interessi nei confronti dell’Onnipotente. Questo nostro avvocato, mediate la sua arringa, difesa, dovrebbe
inclinare nuovamente il cuore del Padre verso il figlio uomo peccatore, affinché gli accordi ancora grazia e
perdono a seguito del sacrificio da lui compiuto sulla croce.
Anche se si deve pensare che non ci sia questa conflittualità tra il Padre e il nostro avvocato Gesù, che
cerca di difenderci coprendo i nostri peccati agli occhi di Dio con la sua giustizia, concetto giuridico che con
grosse difficoltà viene spiegato e difficilmente reso comprensibile, rimane sempre l’immagine di un Gesù che ci
dovrebbe difendere da un accusatore.
Chi è questo accusatore? Forse Satana. Ma lui, ci dice il testo biblico, è stato relegato sulla terra perché
scacciato dal cielo a seguito della morte e risurrezione di Gesù. «Ora avviene il giudizio di questo mondo; ora
sarà cacciato fuori il principe di questo mondo; ed io (Gesù) quando sarò innalzato dalla terra, trarrò tutti a me»
Giovanni 12:31,32. «E ci fu battaglia in cielo: Michele ed i suoi angeli combatterono col dragone e il dragone e i
suoi angeli combatterono, ma non vinsero, ed il luogo loro non fu più trovato in cielo. E il gran dragone, il
serpente antico, che è chiamato Diavolo e Satana, il seduttore di tutto il mondo, fu gettato giù; fu gettato sulla
terra, e con lui furono gettati gli angeli suoi. E io udii una gran voce che nel cielo diceva: «Ora è venuta la
salvezza e la potenza ed il regno dell’Iddio nostro, e la potestà del suo Cristo, perché è stato gettato giù
l’accusatore dei nostri fratelli, che li accusava dinanzi all’Iddio nostro giorno e notte. Ma essi l’hanno vinto a
cagione del sangue dell’Agnello e a cagione della parola della loro testimonianza; e non hanno amato la loro
3
OEPKE A., mesistes, in Grande Lessico del N.T., vol. VII, ed. Paideia, Brescia 1974, col. 129.
La pazzia di Dio
165
CAPITOLO VII
vita, anzi l’hanno esposta alla morte. Perciò rallegratevi, o cieli, e voi che abitate in essi. Guai a voi, o terra, o
mare! Perché il diavolo è disceso a voi con gran furore, sapendo di non avere che breve tempo» Apocalisse
12:7-12.
L’avversario è stato vinto dagli eletti. Essi non hanno bisogno di essere difesi. Lo hanno vinto. Se dalla
terra l’avversario volesse ancora far salire verso il cielo una qualsiasi delle sua accuse, dopo la crocifissione di
Gesù chi gli presterebbe ancora fede? Chi potrebbe ancora pensare che forse ha ragione? Gesù dice di lui, e lo
ha anche dimostrato: Il «diavolo... è stato omicida fin dal principio e non si è attenuto alla verità, perché non c’é
verità in lui. Quando parla il falso, parla del suo, perché è bugiardo e padre della menzogna» Giovanni 8:44.
Satana non ha più credibilità in cielo. In cielo Gesù non ha più avversari: «Ogni potestà mi è stata data in cielo, e
sulla terra» Matteo 28:18, ed è a lui che spetta il compito di giudicare, come dichiara Paolo davanti ai filosofi di
Atene (Atti 17:15).
Qualcuno può pensare che forse sia la legge di Dio che, in un modo impersonale, senza voce, dice che
siamo peccatori; in questo caso chi potrebbe dimostrare il contrario?
Per l’apostolo Paolo l’uomo non ha bisogno di un avvocato (avvocato difensore), infatti scrive: «Chi
accuserà gli eletti di Dio? Iddio (stesso) è colui che li giustifica (cioè li dichiara, rende giusti)» Romani 8:33.
Con il battesimo, che nella comunione con il Signore quotidianamente viene rinnovato, il nostro chirografo, cioè
la nostra dichiarazione personale di trasgressori delle prescrizioni di Dio, è stato annullato, tolto di mezzo,
inchiodato alla croce, cancellato, perché, resi viventi da Cristo Gesù; tutti i nostri falli dunque sono stati
perdonati (Colossesi 2:14,13).
Che cosa significa, allora, che Gesù in cielo è il nostro avvocato, difensore, come riportano altre
traduzioni?
Il termine che Giovanni utilizza, paracletos, è caratteristico della sua penna. Nel N.T. lo si trova
solamente nei suoi scritti. Questa parola Giovanni la utilizza nel riportare il discorso di commiato che Gesù
tenne nella camera alta prima del suo arresto e della sua passione nel Getsemani. Per quattro volte Gesù usa
l’espressione paracletos - Giovanni 14:16, 26; 15:26; 16:7 -, intendendo lo Spirito Santo che avrebbe inviato il
Padre e che sarebbe sempre stato con i suoi discepoli e la Chiesa.
In Giovanni 14:16 Gesù dice: «Egli (il Padre) vi darà un “allon paracleton” (altro consolatore),
attribuendo a se stesso la prima posizione di paracletos. Colui che sarebbe venuto, lo Spirito Santo, sarebbe
stato uno che avrebbe svolto la funzione che Gesù stesso ha compiuto nei confronti dei suoi discepoli.
La parola paracletos nel greco profano, fin dal IV secolo a.C., indica un qualcuno, una persona chiamata
in aiuto, un soccorritore. Sebbene il Behm riconosce che paracletos ha significato di avvocato, patrocinatore,
intercessore, colui che parla per qualcuno davanti a qualcuno, precisa però che: «Non è possibile documentare
che paracletos sia diventato, come il corrispondente termine latino advocatos, espressione giuridica tecnica per
indicare l’assistente o il difensore di un accusato che svolgesse tale attività a livello professionale, e fosse così
sinonimo di sundicos (difensore, avvocato, assistente in giudizio) o sunecoros (difensore, avvocato,
procuratore)».4 Siamo noi che abbiamo aggiunto quanto messo tra parentesi.
Il greco ha quindi due termini specifici per indicare l’avvocato in senso giuridico.
La parola paracletos è presente nel mondo ebraico con diversi significati. Nella versione greca dei LXX
non viene menzionata; Aquila e Teodozione, in Giobbe 16:2, traducono menahamim con paracletoi =
consolatori; nel lessico religioso ebraico i rabbini utilizzano questa parola con significato di intercessore; Filone
utilizza questa espressione per indicare le persone che svolgono una attività giuridica, che prendono la parola
davanti alle autorità in favore di accusati.
I Padri greci considerarono paracletos come attributo di Cristo Gesù secondo 1 Giovanni 2:1, e gli
diedero il significato di intercessione. Clemente Alessandrino lo vide come avvocato. Origene ed Eusebio come
intercessore. Però molti Padri greci compresero il paracletos dei vangeli come consolatore.
Molti Padri latini videro nel paracletos l’avvocato in senso tecnico. La Vulgata traduce questa parola
con paracletus nel vangelo di Giovanni e advocatus nella lettera. Nella traduzione siropalestinese del vangelo
abbiamo mnhms = consolatore. La versione siriaca di 1 Giovanni 2:1 parafrasa il termine dicendo: «Colui che
prega per noi».
A proposito del significato di consolatore, J. Behm scrive: «Una sola cosa è certa: il significato di
consolatore che molti traducono, tra cui Wyclif e Lutero, hanno dato per scontato che il vangelo di Giovanni non
coglie il senso di paracletos in nessuno dei passi del N.T.; né Gesù, né lo Spirito vengono descritti come
consolatori»5
La parola paracletos deriva dal verbo para-calao che significa: chiamo a me, chiamo, mando a chiamare,
chiamo in aiuto. Da cui paracletos indica colui che è chiamato, colui che viene ad aiutare, il soccorritore; e
solamente come conseguenza di questo atto si può forse parlare di difensore, avvocato.
4
5
BEHM J., paracletos, in Grande Lessico del N.T., vol. IX, ed. Paideia, Brescia 1974, col. 687,678, 679.
Idem, col. 687, 688.
La pazzia di Dio
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IL MINISTERO SACERDOTALE E REGALE DI GESÙ
Colui che Gesù avrebbe mandato e che sarebbe venuto, sarebbe stato per gli apostoli «un altro sostegno,
sempre alla loro portata, sempre pronto a venire in loro aiuto al primo appello, nella lotta contro il mondo. Da
questo significato fondamentale derivano le applicazioni seguenti: colui che sostiene nei momenti di debolezza;
che consola nella difficoltà della vita, nella sofferenza; in una parola, è lui che, nelle condizioni più diverse,
rimpiazza l’amato Maestro che presto li avrebbe lasciati».6
Quindi per Gesù il paracletos sarebbe stato una persona che lo avrebbe sostituito nella sua posizione di
paracletos nei confronti dei suoi discepoli. «È dunque falso vedere qui, nel vangelo di Giovanni, una differenza
di intuizione con la I epistola (1 Giovanni 2:1)».7
Giovanni nella prima lettera, che scrive prima del vangelo, definisce Gesù accanto al Padre come
paracletos, il cui significato è quello che viene capito leggendo il vangelo, cioè: colui che viene chiamato in
aiuto, soccorritore.
La traduzione “avvocato” in 1 Giovanni 2:1 crediamo che sia più la conseguenza di una concezione
teologica-giuridica che adatta la Bibbia a degli schemi mentali preconcetti, piuttosto che una traduzione esplicativa del termine.8 Fino a quando si vede Dio che pronuncia il verdetto di salvezza come conseguenza della difesa
che Gesù opera, abbiamo sempre in cielo un Padre in posizione di opposizione nei confronti degli uomini. Ma se
vedessimo il Padre come Colui che ama i peccatori e dona il suo Figlio affinché, comprendendo il suo amore si
possano ravvedere, allora la posizione di Gesù in cielo viene vista nel suo vero significato di paracletos. È vero
che il soccorritore svolge anche la funzione di difensore, avvocato, ma quest’ultima espressione, per noi
ambigua, arricchisce il testo di una tensione giuridica sviante. Non vogliamo per questo sminuire la realtà del
giudizio che si compie e si compirà, ma piuttosto sottolineare che il concetto di avvocato porta il credente a pensare ad una azione che Gesù compie nei confronti del Padre invece che nei riguardi degli uomini, al fine di
sostenerli ed aiutarli a causa della situazione nella quale si sono venuti a trovare.9
Giovanni, più che presentarci ciò che avviene nella corte celeste: giudice, pubblico ministero, avvocato
difensore, realtà poco recepibile e portatrice di perplessità per tutte le sue implicazioni mal spiegate, ci presenta
ciò che il cielo è disposto a fare nei nostri confronti: soccorrerci, aiutarci. Più noi comprendiamo questa realtà,
più la nostra fiducia nel Dio d’amore cresce, e più abbiamo gioia nello scoprirci figli di Dio.
L’apostolo Giovanni scrive: «Figlioletti miei, io vi scrivo queste cose affinché non pecchiate; e se alcuno
ha peccato, noi abbiamo un paracletos presso il Padre, cioè Gesù Cristo, il giusto; ed egli è la propiziazione per i
nostri peccati, e non solamente per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo» I lettera 2:1.
Con ciò riteniamo che Giovanni volesse dire: «Vi scrivo affinché non pecchiate, ma se qualcuno si è
lasciato vincere dal dubbio, dalla tentazione, dal male, ebbene non si scoraggi e non abbia paura se il Padre lo
potrà perdonare, perché accanto al Padre (che ci ama e ci ama fin dall’eternità) abbiamo Gesù, il paracletos, che
possiamo chiamare in nostro soccorso; lui è il giusto (termine che lo caratterizza come colui che è santo, senza
macchia, il solo membro dell’umanità che è senza peccato) il quale, venendoci accanto, ci rende puri perché è la
nostra propiziazione, cioè il nostro purificatore. In altre parole, fino a quando crediamo che Gesù è accanto al
Padre, anche se abbiamo peccato, noi possiamo avere fiducia che, se lo chiamiamo in nostro aiuto, il Salvatore ci
soccorrerà e ci guarirà dal nostro peccato».
Il pensiero di Giovanni è espresso dall’apostolo Paolo con le parole: «Io posso ogni cosa in Colui che mi
fortifica» Filippesi 4:13.
Se noi siamo nella posizione dell’apostolo Pietro che, credendo alle parole del Maestro, ha cominciato a
camminare sulle acque, ma poi, guardandosi attorno, ha visto che il vento soffiava, le onde erano alte, il pericolo
era grande ed avendo cessato di guardare a Colui che è salito sulla croce e poi si è posto a sedere alla destra del
Padre, ha cominciato ad affondare, ed ha gridato: Signore salvami!, la mano soccorritrice, liberatrice di Gesù
come ha afferrato quella dell’apostolo, afferrerà anche la nostra facendoci camminare sulle acque.
6
GODET Frédéric, Commentaire sur l’Évangile de saint Jean, vol. III, Nechâtel 1885, pp. 396,397.
Idem.
8
Una riprova di questa affermazione l’abbiamo nell’opera di KNIGHT George R., My gripe with God - A Study in Divine Justice and
the Problem of the Cross, Review and Herald P.A., Washington D.C., 1990, p.
Il collega D. Mozzato, o.c., nota n. 234, osserva a tale proposito: «è interessante notare come la maggioranza delle Bibbie che
abbiamo consultato traducato “avvocato” la parola paracletois di 1 Giocanni 2:1: Vedere James Version (1611-1769); American Standard
Version (1911); New American Standard Bible (1977); New American Standard Bible (1995); Revised Standard Version (1952); New
Revised Standard Version (1989); New King James Version (1982); The Webster Bible (1833); Revised Webster Update (1995); Young
Literal Translation (1862-1898); Vulgate ; Louis Segond (1910); Darby (1885) ; Nouvelle Edition Genève (1979); R-V Actualizada (1989);
Reina-Valera (1909); La Biblia de Las Americas (1986); La Nuova Diodati (1991); La Sacra Bibbia Nuova Riveduta (1994) . Il y en a quand
même certaines qui traduisent différemment: The Darby Bible (1884-1890) “atrono”; la Bible in Basic English (1949-64) “a friend and
helper”; Einheitsubersetzung (1980) “beistand”; NVB San Paolo Edizione (1995) «intercessore». Ci sembra che la traduzione avocato non
sia la più appropriata perché il contesto non è giuridico ma riguarda la purificazione cultuale (confr. 1 Giovanni 1:5-10 ; 2:2). E per questo
che preferiamo la traduzione intercessore». Per D. Mozzato il significato di intercessore non è quello tradizionale.
9
Crediamo che anche i padri della Chiesa d’Oriente e d’Occidente davanti alle parole di Giovanni, più che il significato di quello che
l’apostolo volesse dare, lo hanno interpretato alla luce dei propri schemi. Nella Chiesa dei primi secoli c’era una contrapposizione tra il Dio
dell’A.T. e il Dio del N.T. Il pensiero di mediare Dio ha caratterizzato la storia della religioni e purtroppo anche del cristianesimo. Il culto ai
morti, nella persona dei santi e delle vergini né è una riprova che ha origine lontane.
7
La pazzia di Dio
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CAPITOLO VII
GESÙ INTERCESSORE
Due passi del N.T. presentano nella lingua italiana il ministero di Cristo Gesù nel cielo con l’espressione
intercessione: Romani 8:34; Ebrei 7:25.
La parola intercessione presenta alla nostra mente l’azione che qualcuno compie nei confronti di
un’autorità superiore al fine di ottenere da questa qualcosa a favore di un altro.
Il mondo pagano era ricco di dei e semidei che invocavano gli dèi superiori a favore dei loro protetti. Nel
cristianesimo cattolico romano l’ufficio di intercessione è svolto nei confronti del Dio potente, ma non
favorevole alle sue creature terrene, da Gesù, soprattutto dalla Vergine e da una miriadi di santi, martiri e
campioni della fede. Per contro, nel mondo protestante ed evangelico l’opera di rabbonire un Dio che è più
disponibile a giudicare, punire e condannare, è realizzata dalla sola persona di Cristo Gesù. Nella sostanza il
mondo cristiano, come quello pagano, è unanime nel riconoscere la necessità che qualcuno compia un’opera nei
confronti del Padre affinché Egli riversi la sua grazia sui peccatori. Questo modo di concepire il piano della
salvezza e l’opera che Cristo Gesù compie nel cielo sul trono della grazia, presenta una incomprensibile tensione
tra il Padre che «ha tanto amato il mondo che ha dato il suo unigenito Figlio, affinché chiunque creda in lui non
perisca, ma abbia la vita eterna» Giovanni 3:16, e Cristo Gesù che in un modo o nell’altro supplica o deve
intercedere il Padre affinché guardi con occhio benigno, tollerante, coloro che è venuto a salvare.
Durante il suo ministero terreno, Gesù dichiara di perdonare i peccati al paralitico (Marco 2:5) senza
supplicare il Padre e perdona la donna accusata di adulterio (Giovanni 8:11) senza ancora intercedere presso il
cielo. Perdonare, opera specifica di Dio, come diranno i farisei e i dottori della legge che accusavano Gesù di
bestemmia (Marco 2:7), corrisponde a salvare, opera attribuita a Dio solo. Si spiega male quindi come Gesù,
salito al cielo, dopo aver vinto il nemico di Dio e nostro, dichiarando di avere ogni potestà in cielo e in terra ed
in ogni luogo (Matteo 28:18) debba intercedere presso il Padre, cosa che non faceva sulla terra, per ottenere
qualcosa a favore degli uomini come essendo mancante di potere, quando è anche Dio stesso che dichiara giusti
i peccatori (Romani 8:33).
Gesù nella camera alta, dopo aver detto che lo Spirito Santo sarebbe venuto a loro (Giovanni 14-16),
dichiara: «In quel giorno chiederete nel mio nome; e non vi dico che io pregherò il Padre per voi; poiché il Padre
stesso vi ama, perché mi avete amato ed avete creduto che sono proceduto da Dio» Giovanni 16:26,27. Coloro
che hanno accettato l’evangelo entrano in un rapporto intimo e filiale con Dio perché amano il Salvatore. Questo
rapporto di amore e di fiducia tra l’anima umana e Dio, realizzata dall’azione dello Spirito Santo, non ha
bisogno di nessuna intercessione da parte di Gesù, perché la sua opera di riconciliazione dell’uomo con Dio e di
redenzione, liberazione dal peccato, è già stata compiuta come conseguenza della sua morte.
In Apocalisse 13:8 leggiamo: «Tutti gli abitanti della terra i cui nomi non sono scritti fin dalla fondazione
del mondo nel libro della vita dell’Agnello che è stato immolato» adoreranno la bestia la cui ferita mortale è
stata sanata. Come fare a cambiare d’avviso il Padre mediante un’attuale intercessione di Gesù se il Padre nella
preconoscenza ha visto in anticipo coloro che avrebbero liberamente accettato la salvezza in Cristo Gesù e i loro
nomi sono già stati scritti nel libro della vita?
Il termine greco che viene tradotto per intercessione è: entugXaino il cui significato primo, secondo
Erodoto e Sofocle, è: incontrare qualcuno o qualcosa, imbattersi in, raggiungere, presentarsi a, andare da; poi:
conversare, avere un abboccamento con; ed infine: intercedere, supplicare, pregare.
Nel N.T. troviamo due volte questo verbo entugXaino. In Atti 25:24, Festo dice al re Agrippa e a coloro
che erano presenti: «Voi vedete quest’uomo (Paolo), a proposito del quale tutta la moltitudine dei Giudei
enetuXon = si è presentata, in Gerusalemme e qui, gridando che non deve vivere più oltre». Nella lettera ai
Romani 11:2, Paolo scrive. «(Elia) entugXanei = si presentò a, s’incontrò con Dio con una lagnanza contro
Israele». In entrambi i passi viene spiegato il motivo dell’incontro: a) chiedere che Paolo sia messo a morte, e b)
la lagnanza di Elia nei confronti del popolo. Ma, nei due passi che parlano di Gesù quale entugXaino, si ha come
motivazione uper auton = per loro, a favore loro; uper emon = per noi, a favore nostro. Che cosa Gesù compie
per noi o a nostro favore, il testo non lo dice e quindi e crediamo si debba trovare nella persona stessa di Gesù
Cristo il significato di questo incontro (entugXaino).
A riguardo del ministero di Gesù nella lettera agli Ebrei 7:25 leggiamo: «Ond’è che (Gesù) può anche
salvare appieno quelli che per mezzo di lui si accostano a Dio, vivendo egli sempre per entugXanein incontrarsi,
presentarsi per loro». Se Gesù deve intercedere10, supplicare il Padre, far quindi dipendere la salvezza degli
10
«Gesù ha inaugurato e rivelato, una volta per tutte, e ora non cessa di attirarci: è precedendoci che intercede per noi. L’intercessione
di Gesù non è dunque una sostituzione continua. Non bisogna che Gesù presenti regolarmente i suoi meriti passati davanti a un Dio incline
all’amnesia o alle collere periodiche. È come precursore e guida che agendo su noi, e perseguendo per noi la sua opera di rivelazione, che
Gesù “intercede” per noi. Vedendolo con gli occhi della fede, “apparire ora per noi davanti alla faccia di Dio” che gli uomini possono uscire
dal loro immobilismo e prendere la stessa strada, diventare “coloro che si avvicinano a Dio” e non cessare più di farlo e di viverlo, al seguito
di Cristo.
Infine, la salvezza non la si realizza per imputazione dei meriti del Cristo. Il credente non è mai invitato a mettere i suoi peccati sotto
la coperta di un pagamento compiuto dal Cristo. Nessuna astuzia giuridica: è in una prospettiva e una assicurazione nuova che il credente
La pazzia di Dio
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IL MINISTERO SACERDOTALE E REGALE DI GESÙ
uomini dall’esito di questa sua richiesta, allora Gesù non può salvare appieno; lui stesso è condizionato, è
dipendente da uno a lui superiore. Che cosa fa “per loro” Gesù nel cielo? Gesù, a seguito del suo abbassamento
che lo ha innalzato all’esaltazione suprema, alla destra di Dio, nella sua posizione di uomo Dio, è diventato
garante di un patto più eccellente (v. 22) che ha portato il Padre a potere realizzare un rapporto migliore con gli
uomini. Questa nuova alleanza è migliore perché dà all’uomo la certezza dell’amore di Dio al quale ci si può
avvicinare come figli riconciliati. È migliore perché in Gesù l’umanità può avere la certezza, la dimostrazione
della misericordia di Dio e della volontà del Padre che desidera avere con sé i suoi figli. È migliore perché
dimostra come le promesse di Dio si compiono e non sono parole. È migliore perché, per purificare il cuore
dell’uomo Dio offre il proprio sangue, cioè la Sua vita, l’eternità. Gesù che si presenta al Padre, Gesù che
s’incontra con Dio è la garanzia per gli uomini di questa alleanza migliore. La salvezza finale dei credenti è
garantita non dalla supplica, dall’intercessione di Gesù nei confronti del Padre, ma dalla sua stessa persona, dal
suo incontrarsi con Lui per noi. La sua persona, il suo incontro con il Padre è il segno della sua vittoria sul
peccato, sulla morte, sulla nostra ribellione, ed è garanzia della nostra salvezza. Come il sommo sacerdote
quando entrava nel tempio portava sul pettorale le 12 pietre preziose che avevano inciso i nomi delle tribù
d’Israele (Esodo 25), e presentava così l’intero popolo davanti al trono della grazia, ora Gesù, il vero sommo
sacerdote che ha attraversato i cieli ed è entrato nel vero tabernacolo che non è stato costruito da mano d’uomo
(Ebrei 9:24), ora, davanti al Padre, nella sua persona, nel suo essere figlio dell’uomo, presenta il popolo dei
credenti, l’umanità salvata, la quale, seguendo il suo pastore (Giovanni 10:11,27,28) si può accostare all’eterno
trono della grazia con piena fiducia (Ebrei 4:16), senza più paura di Dio. Poiché questo sentimento di paura è
nato nel cuore dell’uomo a causa del peccato (Genesi 3:10).
L’altro passo biblico che presenta l’intercessione di Gesù per i credenti è in Romani 8:34. Nel contesto di
questo brano l’apostolo Paolo vuole rassicurare i credenti della certezza della loro salvezza e della gloria a loro
riservata (Romani 8:29,30). Non hanno nulla da dubitare. «Che diremo dunque a queste cose?» v. 31pp; cioè
all’insieme dei gioielli gloriosi della grazia di Dio che Paolo ha menzionato nei versetti 28-30, che dimostrano
che Dio è interamente a favore degli uomini. Chi oserà essere contro di noi malgrado la potente protezione del
Padre, dal quale abbiamo grazia? «Se Dio è con noi chi sarà contro di noi? Colui che non ha risparmiato il suo
proprio Figlio, ma l’ha dato per tutti noi, come non ci donerà Egli anche tutte le cose con lui?» v. 31sp, 32.
Paolo fa allusione all’offerta di Isacco da parte del padre Abrahamo (Genesi 22:12). Isacco era ciò che il
patriarca aveva di più caro al mondo, suo figlio, colui che rappresentava la realizzazione della promessa
dell’Eterno e nel quale confluivano le promesse future. In lui il suo cuore gioiva, si rallegrava. Offrendo Isacco,
Abrahamo non avrebbe avuto più nulla da offrire a Dio. Da questa immagine, Paolo presenta l’offerta che il
Padre eterno fa agli uomini. Dopo averci dato Gesù, che cosa Dio ha tenuto ancora per Sé? Ci ha dato tutto!
Avendoci offerto ogni cosa nel suo Figlio che è stato sacrificato, ciò che ancora riceveremo - se possiamo dire
che il Padre ci possa dare ancora qualcosa d’altro - ce lo offrirà in un modo completamente gratuito, perché ciò
che ci darà è già racchiuso in ciò che ci ha già offerto: Gesù. «Chi accuserà gli eletti di Dio? Iddio è quel che li
giustifica» v. 33. Se il Padre nella Sua giustizia e santità può dichiarare, e non arbitrariamente, giusti i credenti,
chi allora li potrà accusare per chiedere la condanna? Nessuno, afferma Paolo. «Chi sarà quel che li condanni;
Cristo Gesù è quel che è morto; e, più di questo, è risuscitato; ed è alla destra di Dio; ed anche entugXanei per
noi» v. 34. Non c’é nessun giudice che possa condannare gli eletti, perché colui al quale il Padre ha rimesso il
giudizio, Cristo Gesù (Atti 17:15), è a loro favore. È impossibile avere una risposta negativa, di condanna, dopo
la quadruplice opera realizzata da Gesù: È morto; è resuscitato; è salito alla destra del Padre; ed entugXanei per
noi. Una condanna finale sarebbe in contrasto con tutto questo. Gesù è morto, cioè ha espiato=purificato dai
peccati tutti coloro che hanno creduto nel Padre tramite la sua dimostrazione di amore. Gesù è resuscitato,
vincendo così la morte, per aggiungere un’ulteriore garanzia di salvezza, dando al peccatore di vincere sul
peccato. Se la morte di Cristo è il segno del seppellimento dell’uomo peccatore, la sua risurrezione è la garanzia
della nostra nuova e futura vita vissuta in Dio (Romani 6). Inoltre Gesù si è posto, salendo in cielo, alla destra
del Padre. Innalzando il Figlio nella sua gloria, Dio suggella tutta la sua opera di redenzione; pone cioè, nelle
sue mani il governo del mondo (del quale Gesù aveva detto: «Ogni potestà mi è stata data in cielo ed in terra ed
in ogni luogo» Matteo 28:18) e la direzione degli avvenimenti della nostra vita. Ma non solo questo. L’unigenito
Figlio, tornando «nel seno del Padre» Giovanni 1:18; 17:1-5, non vi torna come prima dell’incarnazione, ma vi
torna come Dio fatto uomo. Nella sua persona umana tutta l’umanità salvata ha la garanzia della gloria divina
che le sarà a suo tempo manifestata e che le era stata promessa. Questa umanità salvata viene ristabilita nella sua
originale vocazione (Genesi 1:27) di figlia di Dio (Efesi 4:8-10; Ebrei 2:10-13; Giovanni 17:22,23) e viene
introdotta da Gesù nel cuore della Trinità. L’ascensione di Gesù è per la Chiesa la più gloriosa delle promesse
che le viene fatta a garanzia della sua gloria: Gesù figlio dell’uomo, primizia dell’umanità che ascende al Padre
(1 Corinzi 15:20), è la garanzia che tutta quanta la Chiesa salirà nel regno della gloria. Questa garanzia ci viene
offerta dal fatto che Gesù (entugXanei =) incontra, si presenta al Padre, per noi, quale nostro rappresentante. È
ciò che dice Ebrei 9:24: «Poiché Cristo Gesù non è entrato in un santuario fatto con mano, figura dal vero; ma
esperimenta lui stesso la realtà della salvezza. Il “sangue” di Gesù ottiene per il credente una “liberazione” reale, percepita e zampillante in
una pratica nuova: “la sua coscienza è purificata dalle opere morte” – è l’esistenza umana, tale che si realizza nella paura della morte – “per
servire il Dio vivente” (9:14) come Gesù l’ha servito mediante l’obbedienza di tutta la sua vita. È per l’attrazione del precursore che l’uomo
esce dal suo immobilismo, per “avanzare con piena assicurazione verso il trono della grazia” 4:6)». VARONNE François, Ce Dieu censé
aimer la souffrance, ed. Cerf, Paris1986, pp. 133,134.
La pazzia di Dio
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CAPITOLO VII
nel cielo stesso, per comparire ora, al cospetto di Dio, per noi». La Chiesa che crede nell’opera di Cristo Gesù, si
deve sentire, mediante la fede, già nel Regno di Dio, cittadina del cielo (Colossesi 2:20), pur dovendo ancora
sostenere sulla terra una temporanea battaglia dalla quale non può che uscire vincitrice. Infatti Paolo,
continuando le sue domande e risposte, scrive: «Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Sarà la tribolazione, o la
distretta, o la persecuzione, o la fame, o la nudità, o il pericolo, o la spada? Come è scritto: “Per amor di te noi
siamo tutto il giorno messi a morte”, noi siamo più che vincitori, in virtù di colui che ci ha amati. Poiché io sono
persuaso che né morte, né vita, né angeli, né principati, né cose presenti, né cose future, né potestà, né altezza,
né profondità, né alcun’altra creatura potranno separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro
Signore» vv. 35-39. Crediamo che ogni commento sminuisca la forza, la potenza, la certezza che il testo ci vuol
dare della nostra vittoria.
Gesù (entugXanei) “intercede per noi” non nel senso che supplica il Padre o ha un qualsiasi
atteggiamento tendente a far volgere benignamente il Suo volto verso di noi. Gesù non prega mai il Padre per
questo motivo, perché il Padre stesso ci ama (Giovanni 16:26) e ci amava anche quando noi crocefiggevamo suo
Figlio (Romani 5:8).11 “EntugXanei per noi”: cioè si presenta al Padre, s’incontra con Lui per noi, dandoci così
la certezza che domani noi stessi di persona saremo lì con lui sul suo trono (Apocalisse 3:21).12
Questo ministero celeste di Gesù Cristo, Paolo lo esprime con altre parole quando, scrivendo ai
Colossesi, dice: «Se dunque voi siete stati risuscitati con Cristo, cercate le cose di sopra dove Cristo è seduto alla
destra di Dio. Abbiate l’animo alle cose di sopra, non a quelle che sono sulla terra; poiché voi moriste, e la vita
vostra è nascosta con Cristo in Dio. Quando Cristo, la vita nostra, sarà manifestato, allora anche voi sarete con
lui manifestati in gloria» 3:1-4; confr. Efesi 2:6.
Riteniamo utile riportare delle riflessioni del collega G. Vassallo nella sua tesi di teologia.
La presenza di Gesù in cielo, alla destra di Dio, è già sinonimo di garanzia che il credente è accettato dal
Padre. L’essere alla destra del Padre è anche una testimonianza del Signore nei confronti degli angeli. Gesù
aveva insegnato: «Chiunque mi avrà riconosciuto davanti agli uomini, anche il Figlio dell’uomo riconoscerà lui
davanti agli angeli di Dio… E davanti al Padre mio che è nei cieli» Luca 12:8; Matteo 10:32; vedere Apocalisse
3:5.
La lettera agli Ebrei afferma che gli angeli sono ministri che opera in favore degli uomini e l’Apocalisse
dice che sono nostri compagni di servizio (22:8,9). Non essendo però onniscienti, mediante l’opera del Cristo
nel santuario celeste, essi conoscono ciò che devono compiere in favore dei credenti, riconoscendo che Dio è
giusto quando risponde alla loro fede e agiscono per portare ai credenti le grazie del Signore o comunicare
all’uomo la parola dell’Eterno (Daniele /:16,23; 8:16; 9:21,22; Luca 1:19,26; 2:10,21; 22:43; Matteo 28:5;
Atti 10:4; Apocalisse 1:1). È un angelo che, svolgendo il suo ministero nel santuario celeste, purifica le labbra
impure di Isaia (6:5,7), dopo che lui ha riconosciuto il suo peccato. Sono loro che sostengono i figli di Dio nella
loro distretta (Genesi 16:7; 1 Re 19:5; Daniele 6:22; Atti 12:7) e li rendono capaci nel compiere la loro missione
11
D. Mozzato, a conclusione della prima sezione della sua tesi, parlando delle figure dell’A.T. (Abrahamo, Mosé e i profeti che hanno
dialogato con Dio in favore del popolo e di altri, scrive: «L’intercessore non prende mai la gloria derivante dalla sua azione, ma Dio è sempre
glorificato come risultato della sua intercessione. Lo scopo dell’intercessione è quello di portare gli uomini a servire Dio. Tutte le preghiere
d’intercessione che noi abbiamo analizzato sono diverse nella loro forma ed espressione, ma l’oggetto finale è sempre quello di collegare il
popolo al vero Dio. L’intercessione non cancella la colpa del popolo, essa chiede una risposta di ubbidienza, alla conversione».
12
D. Mozzato conclude la sua tesi commentando il testo di Paolo della 1 Timoteo 2:1-8.
La preghiera pagana, l’intercessione, era uno sforzo che tendeva a cambiare l’atteggiamento di Dio nei confronti dell’uomo, la divinità
doveva essere intenerita, era recalcitrante, ostile e quindi doveva cambiare atteggiamento. Ma non è in questo senso che i credenti devono
intercedere presso il Padre. Nel rapporto uomo-Dio, Dio uomo, è l’uomo che deve cambiare non Dio. La volontà di Dio è chiaramente
espressa nel versetto 4: «Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati». In questo contesto intercedere significa impegnarsi, identificarsi per il
progetto di Dio, partecipare all’azione del Mediatore, affinché la volontà del Padre si compia. La preghiera dovrebbe quindi aiutare il
credente a rendersi utile, capace nell’aiutare il suo prossimo ad indicare la strada della salvezza e realizzare così il progetto di Dio. È per
questo motivo che Paolo fu «costituito banditore ed apostolo» v. 7. Questa missione non è solo quella dell’apostolo, ma è di ogni credente, v.
8. Di conseguenza, se nella intercessione pagana l’uomo desiderava cambiare l’atteggiamento di Dio nei confronti dell’uomo, nella
intercessione cristiana il credente desidera far cambiare il comportamento dell’uomo di fronte alla grazia di Dio.
Questo modo di comprendere la Parola di Dio fa parte dell’insegnamento di Paolo. In Romani 8:26 lo Spirito Santo intercede per
noi e al v. 27 leggiamo: «lo Spirito Santo, secondo Dio, intercede in favore dei santi», cioè lo Spirito Santo intercede, opera nei confronti
dell’uomo, secondo la volontà di Dio. La funzione dello Spirito Santo non è quella di cambiare l’atteggiamento di Dio nei confronti
dell’uomo, perché nei versetti 31-34 Paolo presenta il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo che intercedono, cioè operano per cambiare
l’atteggiamento dell’uomo. Già Paolo aveva scritto in Filippesi 2:13 che era Dio a suscitare nell’uomo il volere e il fare.
Nel libro del profeta Zaccaria a seguito delle accuse dell’avversario nei confronti del sommo sacerdote Giosué i cui abiti erano
sporchi, l’Angelo dell’Eterno non agisce per far cambiare l’atteggiamento di Dio di fronte alle accuse del nemico, ma è l’Eterno che dice:
«Ti sgridi l’Eterno, o Satana!». Si ha così che il Mediatore non si colloca tra il Dio severo nei confronti dell’uomo e l’uomo, povero e
indifeso, è accusato da Satana, ma è tra Dio e l’uomo contro Satana. Il quadro non è quello del Dio offeso che il Mediatore deve addolcire,
supplicare, abbonire, ma è quello del Dio d’Amore che vede l’uomo nella sua miseria e agisce contro Satana. Possiamo dire: Dio, e il
Mediatore operano uniti contro Satana in difesa dell’uomo.
Quando Dio decise che il suo popolo uscisse dall’Egitto, chiamò Mosè, affinché operasse con lui per liberare il suo popolo, e
l’Eterno cessasse di soffrire a causa della schiavitù d’Israele.
Mosè è l’intercessore di Dio, non per chiedere all’Eterno di compiere qualche opera straordinaria per Israele, ma affinché operando
nei confronti di faraone, realizzi il suo desiderio di lasciare andare libero il suo popolo oppresso.
Per l’Apostolo l’intercessione è una preghiera in azione. Con l’intercessione chiediamo a Dio la forza, la saggezza e l’amore
necessario per poter intervenire in favore dei bisogni spirituali, materiali degli altri e nostri…
La pazzia di Dio
170
IL MINISTERO SACERDOTALE E REGALE DI GESÙ
(Isaia 6.8), ed esprimono i giudizi di Dio (2 Samuele 24:16). Sono gli angeli, nella visione del sacerdote Giosuè,
che aveva gli abiti sporchi davanti all’Eterno, a cambiargli i vestiti, che nel linguaggio figurato significa
rivestirlo della grazia giustificatrice e santificatrice di Dio (Zaccaria 3:4,5) per fare di lui e dei credenti
giustificati dei sacerdoti consacrati all’Eterno (Zaccaria 3:5; vedere Esodo 29:36-38 per il significato della tiara
che ha la lamina d’oro). Gli angeli sono quindi degli strumenti di Dio affinché gli uomini diventino dei Suoi
sacerdoti (Apocalisse 1:5). 13
GESÙ E IL GIUDIZIO PRELIMINARE
Il giorno dello yom-kippur in Israele era giorno di giudizio.
Tra le feste israelitiche quella della purificazione o dello yom-kippur era particolarmente importante. «La
festa dei Kippurim è la pietra di volta del sistema levitico… La Mishna diceva che in quel giorno... i sacerdoti e i
fedeli ricevevano la piena assoluzione “di tutte le loro iniquità, di tutte le loro trasgressioni e di tutti i loro
peccati”.».14
I peccati commessi dall’israelita durante l’anno venivano perdonati dopo la loro confessione e il
sacrificio che veniva offerto era il segno con il quale si manifestava di accettare la grazia di Dio. Il peccato era sì
perdonato a seguito del rito, ma l’israelita che accettava questo perdono doveva continuare a vivere nella grazia
di Dio («Chi avrà perseverato sino alla fine sarà salvato» Matteo 24:13). Il peccato sebbene perdonato, era
lasciato come in sospeso fino al giorno dell’espiazione. In quell’occasione sarebbe stato allontanato
definitivamente, annullato e distrutto per sempre. Se nell’attesa del giudizio l’israelita si fosse definitivamente
allontanato da Dio, cioè avesse abbandonato la sua grazia e rifiutato il suo perdono, il peccato o i peccati che
precedentemente erano stati confessati e perdonati gli erano nuovamente attribuiti. Se invece si manteneva
fedele, la trasgressione nel giorno dell’espiazione veniva definitivamente cancellata. Il profeta Ezechiele
scriveva: «Se l’empio si ritrae da tutti i peccati commessi, se osserva tutte le mie leggi e pratica l’equità e la
giustizia, egli certamente vivrà, non morrà. Nessuna delle sue trasgressioni che ha commesse sarà più ricordata
contro di lui; per la giustizia che pratica, egli vivrà… Se il giusto si ritrae dalla sua giustizia e commette
l’iniquità e imita tutte le abominazioni che l’empio fa, vivrà egli? Nessuno dei suoi atti di giustizia sarà
ricordato; per la prevaricazione di cui s’è reso colpevole e per il peccato che ha commesso, per tutto questo
morrà» 18:21,22,24.
Nel giorno dello yom-kippur avveniva la verifica. Era giorno di giudizio, di umiliazione. Il tabernacolo,
simbolo della presenza di Dio, era stato profanato dai peccati di Israele e doveva essere purificato assieme al
popolo. Il sangue veniva utilizzato «per ungere i corni dell’altare (Levitico 4:25-30; Esodo 29:12; Ezechiele
43:20; Levitico 4:7,18; 16:18), e in questo consiste il rito di espiazione vero e proprio: la forza vitale del sangue
con cui si unge l’altare lo riconsacra, cioè lo ricarica di forza; il peccato infatti,... sconsacra e profana altare e
santuario e quindi ne distrugge la forza. I riti di espiazione sono in pratica una riconsacrazione, una regeneratio
e un rinnovamento dell’altare».15 La stessa funzione del sangue è per la purificazione del santuario nel suo
insieme, quando il sangue veniva portato nel luogo santissimo.
«In quel giorno si farà l’espiazione per il santuario a motivo delle impurità dei figlioli d’Israele... In quel
giorno si farà l’espiazione per voi, alfine di purificarvi; voi sarete purificati da tutti i vostri peccati... È per voi un
sabato di riposo solenne, e voi umilierete le anime vostre... Ogni persona che non si umilierà in quel giorno, sarà
sterminata di fra il suo popolo» Levitico 16:16,17,20,31; 23:29. «Queste parole danno l’idea dell’eccezionale
importanza che i Giudei attribuivano a questo giorno, questo sabato dei sabati (shabbath shabbathon), che essi
hanno spesso, e a ragione, chiamato “Giorno di Giudizio” (Yom Hadin). Era, infatti, un giorno di vaglio, di
separazione. Ognuno doveva fare un serio esame di coscienza, umiliarsi, pentirsi e pregare con fervore. I nove
giorni precedenti erano consacrati a questa preparazione. L’indifferenza determinava la “recisione”, cioè una
vera e propria proscrizione, una separazione dalla tribù e dalla nazione».16
Il Talmud di Gerusalemme diceva che in occasione di questa festa «tutti gli esseri della terra passano
davanti all’Eterno come il gregge passa davanti al pastore e il giudizio è pronunciato nel momento del grande
perdono».
La parte centrale della cerimonia riguardava i due capri. Tratti a sorte, uno veniva offerto all’Eterno per
la purificazione e l’altro, destinato ad Azazel, condotto nel deserto, vi veniva abbandonato.
Chi era Azazel? Questo nome lo si trova solamente in Levitico 16. Sebbene «le versioni antiche, pur non
essendo uniformi, hanno tradotto Azazel senza considerarlo come nome proprio, oggi, studi sulle religioni hittita
13
VASSALLO Giampiero, Le Ministère des Anges dans et depuis le Sanctuaire Céleste, Mémoire présenté envue de l’obtention du
piplome d’ètudes superieurs en theologie, Collonges sous Salève 1996, pp. 27-41.
14
Mischa Yoma 8,8; cit. da P.A. Médébielle, L’Expiation dans l’A.T. et le N.T., Rome 1924, pp. 102,103.
15
FÉGLISTAR Notker, Il valore salvifico della Pasqua, ed. Paideia, Brescia 1976, pp. 93,94.
16
GERBER Charles, Dal tempo all’eternità, ed. A.d.V., Firenze, pp. 258,259.
La pazzia di Dio
171
CAPITOLO VII
e assiro-babilonese e sui testi ugarittici invitano a vedere in Azazel il nome proprio di un demone che la
credenza popolare degli antichi Ebrei riteneva abitasse nel deserto, dimora delle potenze malefiche, spazio
nemico dell’abitato e in continua antitesi con esso, luogo sterile e infecondo».17
«Azazel, messo in opposizione con Yahvé, è un termine che designa logicamente l’autore di ogni male, la
causa prima di ogni desolazione, la fonte alla quale devono ritornare, in ultima analisi, come conseguenza che
risale alla propria causa, tutti gli effetti dei suoi abominevoli fatti».18
Azazel, se nella Bibbia viene menzionato solamente nel nostro testo in esame, nella letteratura ebraica
però viene indicato diverse volte. Nel libro di Enoc insegna agli uomini l’opposto della Parola di Dio. Non ci
sarà per lui salvezza perché ha insegnato l’ingiustizia.
La versione siriaca ed il Targum indicano Azazel come Satana. Nell’Apocalisse di Abramo è presentato
come l’angelo decaduto. Nella letteratura cristiana Ireneo lo definisce come Satana, Origene lo presenta come
l’angelo decaduto.
Il capro dell’Eterno era offerto «come sacrificio per i peccati» del popolo (Levitico 16:9), il suo sangue,
portato nel luogo santissimo, per sette volte era asperso sul propiziatorio, avvolto dalla nuvola del profumo che
bruciava nel turibolo d’oro. Uscendo, il sommo sacerdote provvedeva a mettere anche il sangue sull’altare degli
olocausti dove erano state immolate le vittime sulle quali erano state imposte le mani e si erano confessati i
peccati commessi. Tutto questo era fatto «a motivo delle impurità dei figlioli d’Israele» Levitico 16:16. L’altare
così purificato veniva consacrato per l’anno che seguiva e la tenda purificata continuava a essere la dimora
dell’Eterno.
Il sommo sacerdote uscendo dal santuario, con sulla fronte la lamina d’oro: “Santo all’Eterno”, portava le
«iniquità dei figlioli d’Israele» Esodo 28:38, per farne l’espiazione, la purificazione. Giunto davanti al capro per
Azazel, poneva ambedue le mani sul suo capo, confessava sopra di lui tutte le iniquità del popolo
trasmettendogliele (Levitico 16:21). Fa giustamente notare Gustav-Friederic Œhler: «Il sommo sacerdote
Aaronne confessava i peccati del popolo, mentre imponeva le mani al becco di Azazel; ma era questa una
dichiarazione piuttosto che una confessione; con questo si voleva dire che i peccati passati erano ora perdonati e
distrutti; gli si diceva addio, se ne prendeva congedo, li si inviavano al cattivo spirito il cui dominio è senza
comunione alcuna con le dimore del popolo santo».19
«Poi per mano di un uomo incaricato di questo (il capro per Azazel), lo manderà nel deserto. E quel capro
porterà su di sé tutte le loro iniquità in terra solitaria, e sarà lasciato andare nel deserto» Levitico 16:22, dove i
peccati confessati e precedentemente perdonati dovevano perire. «Il popolo comprendeva a meraviglia il ruolo
simbolico del becco emissario. Secondo la Mishna, si costruiva per la circostanza (quando il culto era celebrato
in Gerusalemme) un ponte sopra il Cedron, per sottrarre l’animale all’inopportunità della plebaglia che gli
andava a tirare i peli e ad accelerare la sua marcia gridando: «Vai dunque, esci, porta i nostri peccati».
L’emissario era condotto fino a Souq, a dodici miglia da Gerusalemme. Dieci tende erano poste, lungo il
cammino, a regolare distanza l’una dall’altra e lì il messaggero poteva, malgrado la legge del digiuno, mangiare
e bere per ristorare le forze e assicurare la sua missione fino al lontano posto designato. La strada portava a un
precipizio nel quale egli spingeva l’animale, che si lacerava sulle punte delle rocce ancora prima di arrivare in
fondo. Il Levitico non esigeva però che l’animale fosse messo a morte: era sufficiente che fosse scacciato
lontano nel deserto: era la traduzione sensibile del pensiero del Salmo 103:12: «Quanto è lontano il levante dal
ponente, tanto ha Egli allontanato da noi le nostre trasgressioni».20
Ciò che Israele compiva con le azioni, Giovanni ce lo descrive nell’Apocalisse. Il becco abbandonato nel
deserto raffigurava Satana relegato solo in questo mondo reso inabitabile ed inabitato durante il millennio,
periodo nel quale la Chiesa ha preso temporaneamente dimora in cielo. Sulla terra deserta, ridotta alla
desolazione a causa del male in essa compiuto, l’avversario attende la morte e il tempo della sua distruzione
(Apocalisse 20).
In conclusione, nel giorno dell’espiazione il peccatore sceglieva il suo capro e si identificava col
personaggio al quale veniva presentato. Scegliendo il capro per Yahvé, confermava di non aver mutato idea e
che il suo pentimento e la sua conversione erano reali. Così egli, già perdonato in precedenza, otteneva ora la
purificazione. Il peccatore, messo in queste nuove condizioni, era in un certo senso suggellato: il suo nome
rimaneva nel libro della vita. Mentre per il peccatore impenitente il capro per Azazel indicava il suo destino.
G. Vassallo21 ricorda che il giudizio preliminare offre al credente la dimensione cosmica delle
conseguenze del peccato e di conseguenza del piano della salvezza realizzato sulla terra, mediante la croce e in
cielo mediante il ministero sacerdotale di Cristo che svolge davanti a Dio e agli angeli. Questo ministero
compiuto alla presenza e con la partecipazione degli esseri celesti è attestato dalle figure angeliche che erano
17
18
19
20
21
MORALDI Luigi, La Sacra Bibbia, t. I, ed. Marietti, Torino 1964, p. 282.
C. Gerber, o.c., p. 259.
ŒHLER Gustav-Friederic, Théologie de l’A.T., t. II, Paris 1876, p. 89.
Vedere Yoma 6,5; cit. da P.A. Médébielle, o.c., pp. 99,100.
G. Vassallo, o.c., pp. 43-60.
La pazzia di Dio
172
IL MINISTERO SACERDOTALE E REGALE DI GESÙ
riportate sui teli del santuario, dai due cherubini d’oro fuso con il propiziatorio del luogo santissimo e da quanto
il profeta Daniele dice in forma esplicita (7:9-11).
Gesù è morto affinché la legge, la volontà di Dio, quale espressione della sua grazia, sia compiuta
dall’uomo. «L’agnello di Dio che toglie i peccati del mondo» Giovanni 1:29, «ha condannato il peccato nella
carne, affinché il comandamento della legge fosse adempiuto in noi, che camminiamo non secondo la carne, ma
secondo lo spirito» Romani 8:3,4. «Il sangue di Gesù, ci purifica da ogni peccato… Se confessiamo i nostri
peccati, Egli è fedele e giusto da rimetterci i peccati e purificarci da ogni iniquità» 1 Giovanni 1:7,9. Un
credente perdonato e santificato è ubbidiente, come il Cristo alla Parola e alla legge di Dio. Chi pensa di
giustificare il proprio peccato nel nome della propria debolezza, il Signore risponde presentando il suo sacrificio
e dicendo. «La mia grazia ti basta».
La santificazione, cioè la giustizia per grazia espressa mediante la fede nel Signore, diviene lo stile di vita
del credente (Ebrei 12:14) e, perché Dio è santo, il credente deve pur esserlo (Levitico 19:2; 1 Pietro1:16).
La legge di Dio nell’arca del patto e il propiziatorio che la copriva, esprimevano l’unità della giustizia (la
legge) e della grazia (il propiziatorio). Questo principio di unità era espresso anche dalle parole di Davide
quando invoca l’Eterno: «Nella tua grazia fammi intendere la tua legge - fammi dono, grazia - della tua legge»
Salmo 119:29 (Diodati, ed. Paoline).
I cherubini che guardano l’arca sotto di loro esprimono l’interesse che hanno per la realtà della grazia e
della giustizia. Manifestano anche il bisogno di comprendere come il perdono possa rigenerare gli uomini ed
esprimere la giustizia di Dio. Come l’umanità possa convivere con gli esseri celesti nell’eternità e vivere alla
presenza di Dio per sempre. È quanto il profeta Isaia aveva annunciato dell’opera del servo dell’Eterno: «Il mio
servo il giusto, renderà giusti molti» Isaia 53:11.
Il giudizio che comporta la purificazione attesta la divisione dell’universo in due gruppi: Gesù e i suoi
angeli da una parte, Satana e i suoi seguaci dall’altra. Il Signore deve purificare l’universo dal male nel quale
vivrà anche l’umanità che ha subito questa trasformazione.
Le ali con le quali i cherubini coprono il coperchio e l’arca, manifestano, nell’ottica ebraica, il senso della
protezione, del rifugio (Ruth 2:12; Salmo 17:8; 36:7; 57:1; 61:4; Matteo 23:37) e della guarigione (Malachia
4:2), ma esprimo anche la loro funzione di guardiani della legge (Atti 7:53) e la loro protezione del trono di Dio.
Sebbene alla croce l’Avversario, pur manifestando la propria natura, viene vinto dal Signore della gloria,
non è però annientato affinché lo scorrere del tempo metta ancor più in risalto il contrasto tra il principe della
luce e quello delle tenebre.22 In questo tempo e in particolare in quello del giudizio, nel tempo della fine,
quando «la conoscenza aumenterà» Daniele 12:4, un altro errore deve essere smascherato. La cristianità nel
nome della grazia, della giustificazione per fede ha giustificato la non osservanza della legge o di qualche
comandamento. Ma annullare la legge «è perpetuare la trasgressione e porre il mondo sotto il dominio,
l’autorità di Satana».23
Dio perdonando il peccato deve purificare anche il peccatore dal peccato. Il Signore deve manifestare nel
credente giustificato «la sua giustizia nel tempo presente» Romani 3:26. Il risultato della sua grazia
(propiziatorio) si manifesta nella sua giustizia simboleggiata dalla legge nell’arca.
Concludiamo con le parole di M.L. Andreasen: «Gli angeli sono passati attraverso una triste esperienze a
causa del peccato. Hanno visto perdersi milioni di loro compagni. Hanno visto il Cristo morire sulla croce.
Hanno conosciuto il dolore del Padre a causa del peccato. Non si dovrebbero allora interessare dell’accesso alla
vita eterna di milioni di peccatori riscattati? Non dovrebbero avere l’assicurazione che accettare gli uomini in
cielo non significa ammettere il peccato? Parliamo nel modo degli uomini. (Con il giudizio preliminare)
crediamo che Dio risponda. Come gli angeli sono presenti quanto la sorte dei giusti si decide, così nello stesso
modo i santi parteciperanno al giudizio dei non salvati. Ciò costituirà una garanzia per il loro futuro. Nessuna
domanda sorgerà più nella mente di qualcuno. Dio ha vegliato».24
Ribadiamo: «Dio non accoglierà milioni di essere umani nella felicità celeste, accordando loro il
privilegio della vita eterna, senza spiegare e fare partecipare gli angeli ai Suoi piani»25, come del resto «non fa
nulla, senza rivelare il suo segreto ai suoi servi, i profeti» Amos 3:7.
Il giudizio preliminare precede il ritorno di Gesù
Da un esame attento del testo sacro possiamo dire, come vedremo nei dettagli, che il giudizio di Dio
passa attraverso tre fasi: quella in corso, detta preliminare, nella quale si decide la sorte di ogni persona; il
22
WHITE Ellen, Jèsus Christ, ed. S.d.T., Dammarie les Lys 1991, p. 766.
Idem, p. 767.
24
ANDREASEN Milian Lauritz, The Sanctuary Service, ed. Review and Herald, Washington D.C., 2a ed., 1969, p. 330; cit. G.
Vassallo, o.c., p. 60.
25
G. Vassallo, o.c., p. 60
23
La pazzia di Dio
173
CAPITOLO VII
giudizio degli empi da parte della Chiesa durante il millennio, ed infine, prima del ristabilimento di ogni cosa,
l’esecuzione di questo giudizio che è il giudizio universale.
Il profeta Daniele, in un testo esplicito, ci descrive il giudizio preliminare: «Io continuai a guardare fino
al momento in cui furono collocati dei troni, e un vegliardo si sedette. La sua veste era bianca come la neve, e i
capelli del suo capo erano come lana pura; fiamme di fuoco erano il suo trono e le sue ruote erano fuoco ardente.
Un fiume di fuoco sgorgava e scendeva dalla sua presenza; mille migliaia lo servivano, e diecimila miriadi gli
stavano davanti. Il giudizio si tenne, e i libri furono aperti. Allora io guardai a motivo delle parole orgogliose
che il corno proferiva; guardai, finché la bestia non fu uccisa, e il suo corpo distrutto, gettato nel fuoco per
essere arso. Quanto alle altre bestie, il dominio fu loro tolto; ma fu loro concesso un prolungamento di vita per
un tempo determinato. Io guardavo nelle visioni notturne, ed ecco venire sulle nuvole del cielo uno simile a un
figlio d’uomo; egli giunse fino al vegliardo, e fu fatto accostare a lui. E gli furono dati dominio, gloria e regno,
perché tutti i popoli, tutte le nazioni e lingue lo servissero; e il suo dominio è un dominio eterno che non passerà,
e il suo regno, un regno che non sarà distrutto» Daniele 7:9-14.
Leggendo questo brano non si può non concludere che questo giudizio si compie mentre sulla terra la
storia è in corso. L’abate Augustin Crampon commenta: «Spesso altrove è il Messia che giudica, ma qui si tratta
non del giudizio ultimo, ma di un giudizio invisibile, anteriore e preliminare a quello, e nel quale il Padre
sottometterà a suo Figlio i suoi nemici».26
A presiedere questo giudizio è il Padre, che Daniele presenta come l’antico dei giorni e, secondo il
linguaggio del tempo, nella sua santità perfetta: barba bianca; nella sua maestà: capelli bianchi come neve; nella
sua trascendenza: seduto sul trono fiammeggiante, come già Ezechiele 1:4-14 lo aveva presentato. Sui troni per
questo giudizio si siedono gli esseri celesti. Questo giudizio preliminare, distinto dal giudizio ultimo, non è stato
completamente dimenticato dalla cristianità. A causa della credenza che l’anima è immortale, questo giudizio
preliminare, che la rivelazione colloca prima del ritorno di Gesù, ha subito una metamorfosi che lo ha reso
irriconoscibile: è diventato il giudizio che avviene subito dopo la morte.
Il testo di Daniele 7 colloca questo giudizio in un tempo particolare della storia. Il profeta vede sorgere
quattro bestie feroci che rappresentano le quattro monarchie universali che entrano in relazione diretta con il
Popolo di Dio: ebraico prima, cristiano poi (Babilonia, Medo-Persia, Grecia, Roma). Tale modo di comprendere
questa pagina profetica risale ai rabbini che hanno preceduto l’incarnazione di Dio, ed è stato condiviso dai
padri della Chiesa, insegnato nel Medio Evo e nei secoli successivi. A Norimberga, prima città del XVI secolo
che accettò la fede protestante, nel 1607, Léonard Kern, per ornare le due porte monumentali del Municipio,
scolpi Nabuccodonosor seduto accanto al leone con le ali d’aquila, simbolo di Babilonia, come già l’avevano
descritta Geremia 59:19,22 ed Ezechiele 17:3; Ciro vicino all’orso, simbolo dell’impero Medo-Persiano (che
Daniele 5:28 aveva annunciato come il successore di Babilonia); Alessandro il Grande accanto al leopardo
greco (come l’aveva indicato Daniele 8:4,21); Giulio Cesare a fianco della bestia romana con le dieci corna. La
quarta bestia rappresenta l’Impero romano e nessun studioso del testo sacro è riuscito a provare il contrario.27
«Le dieci corna, spiega l’abate Crampon, sono dieci re (parola che ha significato di regno). Esse indicano
la moltitudine degli Stati ai quali darà nascita la dissoluzione dell’impero romano». In mezzo a questi stati che si
sono venuti a formare dalle invasioni barbariche, Daniele presenta il sorgere di un altro regno rappresentato da
«un piccolo corno» v. 8, ma che «appariva (per la sua influenza) maggiore delle altre corna» v. 29 e per natura
era «diverso» dai precedenti (v. 24). Esso compirà un’opera diabolica: «proferirà parole contro l’Altissimo,
ridurrà allo stremo i santi dell’Altissimo, e penserà di mutare i tempi e la legge, i santi saranno dati nelle sue
mani per un tempo, dei tempi e la metà di un tempo» v. 25. Scrive l’abate Jules Fabre d’Envieu: «Questo piccolo
corno rappresenta un re e, per conseguenza, una monarchia che s’innalza nel mezzo dei dieci Stati
contemporanei e simultaneamente scaturiti dallo stesso grande impero… E aggiunge: Noi siamo così indotti a
vedere nel piccolo corno del capitolo 7, che s’innalza nel mezzo della quarta bestia e ultima monarchia, il
personaggio o il potere designato da s. Paolo come “l’uomo del peccato, il figlio della perdizione, l’empio” 2
Tessalonicesi 2:1-10. E ancora: Il piccolo corno è chiamato qui, v. 11, bestia, perché questo corno manifesterà,
26
CRAMPON Augustin, La Sainte Bible, t. V, Daniel, Paris 1900, p. 688. La nuova edizione, anche se porta il nome di Crampon, non
ha più le sue note originali.
27
Scrive a tale proposito l’abate Fabre d’Envieu Jules de nel 1890: «Da oltre un centinaio di anni i razionalisti (con tutti i loro
virtuosismi) si cimentano a dimostrare che l’ultimo impero, rappresentato dalle gambe di ferro e i piedi d’argilla (descritto in Daniele 2) così
come la quarta bestia (di Daniele 7), non è l’impero romano. Per escludere questo impero dalla serie indicata da Daniele e ritrovare quattro
imperi, essi hanno cercato di dividere ciascuno dei tre primi imperi. Ma, malgrado tutti i loro sforzi, questa esegesi di combinazioni artificiali
non li ha condotti che a un impatto, ed essi non hanno finito che con il refutarsi a vicenda... Insomma, i nuovi esegeti non sono potuti
pervenire a plasmare la profezia a loro piacere, e si sono sfracellati contro un testo implacabile che li sfida. (Dopo aver citato i Padri della
Chiesa e aver fatto riferimento ai commentatori cattolici del Medio Evo), Nella prefazione del suo commentario su Daniele, Lutero dice che
egli si appoggia sull’autorità di tutti i dottori che lo hanno preceduto», e aggiunge: «Il primo regno è quello degli Assiri o Babilonesi, il
secondo quello dei Medi o dei Persiani, il terzo quello di Alessandro il grande e dei Greci, il quarto quello dei Romani. Su questa spiegazione
e opinione, tutti sono d’accordo, e la storia e i fatti lo stabiliscono assolutamente». (Dopo aver citato i riformatori, i commentatori moderni
egli dice ancora). «Ci sarebbe impossibile dare qui il catalogo degli inglesi che hanno mantenuto la interpretazione comune; ci è sufficiente
nominare il celebre Isacco Newton e il dr. Pusey. Questa interpretazione si raccomanda, per la sua evidenza intrinseca e noi abbiamo il
diritto, dopo lo studio che abbiamo fatto dei testi, di considerare questo risultato come solidamente dimostrato» FABRE d’ENVIEU Jules, Le
livre du prophète Daniel, t. II, I parte, Paris 1890, pp. 637,638,649.
La pazzia di Dio
174
IL MINISTERO SACERDOTALE E REGALE DI GESÙ
riassumerà qui, la bestia stessa di cui esso possiede tutto il veleno: la cattiveria del potere pagano e anti-Dio
arriva al suo paradosso in questo corno; ed è in questo corno che la bestia è definitivamente uccisa».28
Il profeta Daniele passa dal vedere il piccolo corno all’osservare i lavori dell’assise celeste (v. 9) e a
guardare nuovamente il piccolo corno a causa delle parole orgogliose che proferisce (v. 11). «La ripetizione
della parola «io guardai» (v. 11) e dell’espressione «fino a che» indica che questo stato di cose si prolunga per
un certo tempo. Questa coesistenza del tribunale e della quarta bestia è un particolare che non bisogna
trascurare. Si vede che i fatti qui annunciati non sono assolutamente successivi, ma che essi si sviluppano
simultaneamente».29
Questo giudizio preliminare si svolge:
- nei confronti del piccolo corno: Daniele 7:11,26, vedere Apocalisse 17:2; 19:2; 22:12;
- in favore della Chiesa. A seguito di questa assise i santi riceveranno il Regno: Daniele 7:22,27; 12:2; vedere
Apocalisse 11:18; 22:12, perché la «sposa si è preparata» Apocalisse 19:7,8.
Questo giudizio non viene svolto alla presenza dei giudicati, perché essi vivono sulla terra o sono sepolti
nelle tombe. Si prendono in esame le loro persone in base a quanto è scritto nei libri celesti.
Questa azione di giudizio preliminare e di inchiesta da parte di Dio Padre, nei confronti della Chiesa,
prima dell’unione di Cristo con la sua sposa (Apocalisse 19:7) è presentata anche in una parabola che il Signore
ha raccontato: l’invito alle nozze (Matteo 22:1-14). Dopo che la sala del festino fu ripiena dei commensali che
avevano risposto all’invito, il re entrò per vedere quelli che erano a tavola e notò tra di loro un uomo che non era
vestito con l’abito delle nozze. E gli disse: «Amico, come sei entrato qua senza aver un abito da nozze?» Ma
questi non rispose nulla. Allora il re disse ai servitori: «Legatelo mani e piedi e gettatelo nelle tenebre di fuori:
ivi sarà il pianto e lo stridore dei denti». Gli invitati erano coloro che avevano accettato l’invito al banchetto, il
re è il padre dello sposo. Il matrimonio rappresentata l’unione di Cristo con la Chiesa. L’abito che, secondo il
costume orientale, veniva donato da colui che ospitava e veniva indossato da chi compariva alla presenza del re
corrisponde a ciò che scriveva il profeta Isaia 61:10: «Io mi rallegrerò grandemente nell’Eterno, l’anima mia festeggia nel mio Dio: poich’Egli mi ha rivestito delle vesti della salvezza, mi ha avvolto nel manto della giustizia,
come uno sposo che si adorna di un diadema, come una sposa che si para dei suoi gioielli». Alla Chiesa di
Laodicea, la Chiesa del tempo del giudizio dei popoli, il Signore dice: «Io ti consiglio di comprare da me delle
vesti bianche affinché tu ti vesta e non apparisca la vergogna della tua nudità» Apocalisse 3:17,18. A tutti è
chiesto di fare l’esperienza del figlio prodigo che, tornato verso il padre, dopo che questi lo ha baciato e
ribaciato, sente che viene detto a suo favore: «Presto, portate qua la veste più bella e rivestitelo» Luca 15:22.
«L’abito delle nozze è dunque la giustizia interna, la santificazione che si ottiene col pentimento e la fede nel
Signore»30
Il Re prima delle nozze, prima che suo Figlio venga per dare la salvezza a coloro che lo hanno amato
(Ebrei 9:28), entra nella sala del convito per vedere se gli invitati sono tutti quanti veramente pentiti del male
commesso. Se hanno riposto interamente la loro fiducia in lui, separandosi dal male; in una parola: se hanno
l’abito della salvezza quale grazia del dono di Dio e gioiscono della pace con Lui. Colui che in apparenza ha
accettato l’invito, ma non ha fatto l’esperienza della nuova nascita, avrà il suo nome cancellato dal libro della
vita e sarà gettato di fuori dove subirà il giudizio.
Parlando di quanto si svolge in cielo, il profeta scrive: «Il giudizio fu fatto in favore dei santi
dell’Altissimo» Daniele 7:22.31
In questo giudizio che precede l’avvento, non dobbiamo immaginare da una parte il pubblico ministero,
(l’avversario sceso definitivamente sulla terra dopo la morte e risurrezione di Gesù non ha più accesso al cielo, e
neppure la sua voce può trarre alcune attenzione e credibilità), e l’avvocato difensore, dall’altra parte, nelle vesti
di Gesù, quadro di un tribunale odierno. Di fatto questo giudizio non serve a Dio che conosce ogni cosa «ancora
prima che avvenga» Apocalisse 13:8. Tramite questo giudizio l’Eterno rende comprensibile alle menti celesti il
suo operato e la natura delle scelte che le persone hanno fatto, al di là delle apparenze. Gesù quale
28
Idem, p. 672.
Gaussen Louis scriveva: «Tutti i Padri della Chiesa hanno detto che la IV bestia è l’Impero romano. Le dieci corna della bestia e le
dieci dita della statua sono la divisione dell’Impero romano in dieci regni. Tutti i Padri hanno detto che l’Anticristo non si sarebbe rivelato
nell’Impero romano che dopo la divisione di questo Impero. Tutti credevano che sarebbe stato un re teologo che regnasse a Roma. Tutti
hanno detto che l’Anticristo durerà fino al ritorno di Cristo Gesù sulle nuvole del cielo. Questo accordo è bello ed eloquente. Bisogna
ammirarlo nella sua pienezza e ammirarlo anche nella sua cattolicità. Nella pienezza: sono tutti questi tratti; nella cattolicità: sono tutti i Padri
della Chiesa; sono i Greci, sono i Latini; sono i vescovi e sono i dottori; quelli d’Egitto e quelli della Gallia; quelli di Gerusalemme e quelli
di Cartagine; quelli dell’Arabia e quelli di Roma; quelli che hanno visto i discepoli di s. Giovanni e quelli che hanno sentito suonare la
tromba dei Goti» GAUSSEN Louis, Daniele le prophète, t. III, Paris 1849, pp. 149,150. Nel suo discorso di apertura dell’anno accademico
1843 all’Università di Ginevra, Gaussen diceva. «Vi parlo di un dogma prezioso e sacro per i nostri padri, ma troppo negletto e spesso pure
sconosciuto nelle nostre chiese, benché Dio ci abbia dato, per apprezzarne il valore, molte ragioni nuove che i nostri padri non avevano... Io
potrei mostrarvi che questa dottrina, continuamente professata nella Chiesa di Dio da più di 1200 anni, non fu considerata... solo nei tempi di
rilassamento» GAUSSEN Louis, L’Antichrist ou le souverain Pontificat dévoilé dans l’Ecriture, èd. Dammarie-les-Lys 1947, pp. 8,9.
29
La Bible Annotéé, Ancien Testament - Les prophètes, vol. II, Daniel, Paris, Neuchâtel, Genéve, p. 289.
30
L. Bonnet, o.c., t. I, p. 174
31
La Sacra Bibbia, ed. Salani.
La pazzia di Dio
175
CAPITOLO VII
rappresentante dei salvati e che occupa in un certo senso il posto per loro in cielo, spiega, dimostra come il suo
Spirito è una realtà nella vita del credente e come essi sono diventati un tralcio nella vite.
Inizio del giudizio preliminare in cielo
Il capitolo 7 di Daniele pone il giudizio prima che il Regno sia dato al popolo di Dio e dopo la
supremazia millenaria del piccolo corno «un tempo, dei tempi e la metà di un tempo» v. 25 e Apocalisse 12:14;
«quarantadue mesi» Apocalisse 13:5; «1260 giorni» Apocalisse 12:6, che corrispondono a 1260 anni per il
principio biblico secondo il quale, nel linguaggio simbolico profetico, un giorno corrisponderebbe a un anno
(Ezechiele 4:6). «I tempi di cui parla Daniele sono degli anni, ma degli anni profetici, composti da 360 giorni
profetici di cui ognuno rappresenta un anno… Per conservare l’armonia delle figure in questa visione della
notte, bisognava, poiché ognuno dei quattro imperi è rappresentato da una bestia, che la loro durata lo fosse
anche con la vita di un animale… Era utile alla Chiesa di Dio non conoscere troppo in anticipo la data precisa di
questi tristi avvenimenti. Senza questa precauzione, la lunghezza dei tempi l’avrebbero esposta o ad
addormentarsi, o a scoraggiarsi».32
Questo lungo periodo scade alla fine del XVIII secolo dopo la Rivoluzione Francese.
Il profeta Daniele dopo aver vista l’empia opera di un potere secolare che si oppone a Cristo Gesù, ode la
formulazione di una domanda: «Fino a quando (dureranno) la visione mostrata, il continuo tolto di mezzo e
l’iniquità che devasta, il santuario abbandonato e l’esercito calpestato sotto i piedi?». A questa richiesta segue
una sola risposta: «Fino a duemilatrecento sere e mattine».33 Ancora oggi dopo più di duecento anni sono valide
le parole di J.P. Chéseaux de Loys, scritte nel 1777: «Io oso dire che tutti gli sforzi che gli interpreti hanno fatto
fino a questo momento per applicare alle persecuzioni di Antioco l’oracolo delle 2300 sere e mattine non hanno
portato a nulla».34
Già Ezechiele 4:4-7, anch’egli profeta dell’esilio, nel presentare le sue profezie, non con un discorso, ma
mediante azioni simboliche, formulava l’equivalenza di un giorno profetico uguale a un anno.
Il teologo Jacques Doukhan, di origine ebraica, ricorda: «La tradizione giudaica è d’altronde unanime nel
confermare questa interpretazione che è attestata molto presto, dal secondo secolo avanti Cristo, fino agli scritti
di Qumran».35
Questo modo di capire il testo biblico è stato condiviso dai rabbini anche nei secoli successivi. Scrive il
maestro A. Vaucher: «Diverse pagine non sarebbero sufficienti per menzionare tutti gli autori protestanti che si
sono occupati dei 2300 giorni, intesi come altrettanti anni… E anche tra i cattolici ce n’è un buon numero».36
Il 457 a.C. è l’anno in cui il re persiano Artaserse promulga il decreto per la ricostruzione civile di
Gerusalemme e quindi dello stato di giuda, e inizia, con Esdra, quale secondo Mosè, il nuovo esodo. La
promulgazione di questo decreto era stato profetizzato da Daniele (9:25). Se aggiungiamo 2300 anni al 457 a.C.
arriviamo nel 1844 d.C.37
Fine del giudizio preliminare, investitura di Gesù quale Re
32
L. Gaussen, o.c., t. III, pp. 74,78,79.
Daniele 8:13,14.
34
CHÉSEAUX Jean Philippe de LOYS, Remarques sur Daniel, Lousanne 1777, p. 11.
Oggi generalmente si vuole spiegare l’espressione “sere e mattine” per indicare il sacrificio della sera e della mattina, corrispondenti
di conseguenza a 1150 giorni. Ma, «non esiste alcun rapporto esegetico per computare 2300 sere e mattine separatamente, al fine di arrivare a
1150 giorni interi. La sequenza di una sera e di una mattina come espressione di giorno intero appare per la prima volta nel racconto della
creazione delle Genesi 1. Il suo linguaggio si riflette qui in Daniele 8:14,26. G.F. Keil ha fatto notare giustamente che «un lettore ebreo non
avrebbe potuto comprendere il periodo di tempo 2300 sere e mattine (come essendo)... 2300 mezze giornate o 1150 giorni interi, poiché sera
e mattina alla creazione costituiscono non la metà, ma il giorno intero... Noi dobbiamo per conseguenza prendere le parole per quello che
sono, cioè comprenderle come 2300 giorni interi». Quando gli ebrei cercano di indicare il giorno e la notte separatamente, essi menzionano
due volte il numero, dicendo per esempio: “quaranta giorni e quaranta notti” Genesi 7:4,12; Esodo 24:18; 1 Re 19:8; o «tre giorni e tre notti»
Giona 1:17; Matteo 12:40. Anche in questo caso, tuttavia, 40 giorni e 40 notti non indicano 20 giorni interi… La sequenza “sere e mattine”
nella quale la sera precede la mattina non può neppure indicare i sacrifici tamid (cioè parte del servizio quotidiano). In effetti questi sono
sempre indicati con la sequenza inversa (il mattino precede la sera): si tratta di “offerte presentate al mattino e alla sera” Esodo 29:39;
Numeri 28:4; 2 Re 11:15; 1 Cronache 16:40; 23:30; 2 Cronache 2:4; 13:11; 31:3; Ezechiele 3:3. È una regola che non subisce nessuna
eccezione nell’A.T. Nel periodo post-biblico si continua a utilizzare la sequenza: «mattina e sera» a proposito dei sacrifici del tamid (1 Esdra
5:50). Così l’espressione “sera e mattina” non rimanda ai sacrifici tamid, ma a una misura di tempo» HASEL Gerard F., La petite corne, les
saints et le sanctuaire en Daniel 8, in AA.VV., Prophetie et eschatologie, vol. I, Collonges sous Salève 1982, p. 219. In questo senso hanno
compreso le antiche versioni dei LXX, Teodozione, Vulgata e Diodati, le quali aggiungono dopo 2300 l’espressione giorno.
35
J. Doukhan, o.c., p. 85. Confr. T.B., Nazir 32b, Yoma 54a; Midrash Rabbah, Eikah Pq 34, ecc. Confr. Exhortation, Document de
Dames, MS A, 1:4-11; Confr. A. Dupont-Sommer, Les Ecrits esséniens découverts prés de la mer Morte, 1968, p. 137.
36
VAUCHER Alfred Félix, Les prophéties Apocalyptiques, Collonges-sous-Saléve 1972, pp. 10,11.
37
Prima di questa data del secolo scorso «è contemporaneamente interessante e significativo notare che più di sessanta interpreti
dall’inizio del XIX secolo, di ben quattro continenti e di dodici diversi paesi - comprendendo anche un cattolico romano della corte suprema
di giustizia, José de Rozas di Città del Messico - hanno considerato gli anni 1843, 1844 e 1847, come la fine di questo periodo profetico»37 e
quasi tutti hanno pubblicato il loro punto di vista prima del 1836.
33
La pazzia di Dio
176
IL MINISTERO SACERDOTALE E REGALE DI GESÙ
Quando il giudizio preliminare avrà termine, si compirà la visione di Daniele: «Io guardavo, nelle visioni
notturne, ed ecco venire sulle nuvole del cielo uno simile a un figlio dell’uomo; egli giunse fino al vegliardo e fu
fatto accostare a lui. E gli furono dati dominio, gloria e regno, perché tutti i popoli, tutte le nazioni e lingue lo
servissero; il suo dominio è un dominio eterno che non passerà e il suo regno, un regno che non sarà distrutto»
7:13,14.
Il giudizio pronunciato dal tribunale celeste avrà come effetto di dare il dominio, la gloria e il regno al
Figlio dell’uomo e ai suoi santi i quali entreranno nel regno da loro atteso.
Il Figlio dell’uomo si accosta al Padre, all’Altissimo «sulle nuvole» (lett. “con le nuvole”). Questo corteo
di nubi, nell’A.T., è il privilegio esclusivo di Dio (Salmo 18:10-19; 97:2-4; 50:3; Isaia 14:14; 19:1; Nahum
1:3, ecc.). Questa prerogativa di Dio è il segno che il Figlio dell’uomo, il Gesù di Nazaret, ha la natura
dell’Eterno. «All’epoca di Gesù i Giudei sapevano molto bene che, nel linguaggio simbolico della Bibbia, il
corteo delle nuvole era il privilegio esclusivo di Dio (Matteo 24:30; 26:64; Marco 13:26; Atti 7:58; Apocalisse
1:7), Caiafa non poteva credere che il Figlio dell’uomo fosse colui che era in balie della sua autorità. È a causa
di questo suo considerarsi Dio che Gesù viene condannato. I rabbini del resto mantengono la tradizione che
attribuisce al Messia questo passo di Daniele; essi hanno indicato il Messia con «Quello delle nuvole», «della
nuvola». Jacchiades dice: «Il Figlio dell’uomo che viene sulle nuvole è il Messia, nostra giustizia (Geremia
23:6), che verrà in presenza di Dio».38
A seguito di questa investitura celeste, Giovanni nell’Apocalisse 11:17,18, in un brano chiaramente
escatologico, scrive: «E si fecero grandi voci nel cielo, che dicevano. “Il regno del mondo è venuto ad essere del
Signore nostro e del Suo Cristo; ed egli regnerà nei secoli dei secoli. Noi ti ringraziamo, o Signore Iddio
onnipotente che sei e che eri, perché hai preso in mano il Tuo gran potere, ed hai assunto il Regno”».
Daniele al capitolo 2 del suo libro presenta la realizzazione del Regno messianico «che non sarà mai
distrutto e non passerà sotto la dominazione di un altro popolo; (e) sussisterà in perpetuo» v. 44. Al capitolo 7
descrive l’investitura di questo Re (vv. 13,14); nel capitolo 8 presenta la purificazione dei sudditi del suo regno,
mediante la purificazione del santuario (v. 14). Nel capitolo 12 mostra il Re, Micael, che viene a raccogliere i
suoi eletti che, giacenti nelle tombe o viventi, parteciperanno alla sua gloria (v. 2). La sua venuta sarà preceduta
da un tempo di distretta che non ha avuto confronti in tutta la storia (12:1; Marco 13:19). L’umanità che ha
rifiutato l’appello della grazia annunciata dai messaggi di Apocalisse 14:6-12 ed Apocalisse 18:1-4, subirà le
ultime piaghe, descritte in Apocalisse 16, come avvenne al paese d’Egitto prima della liberazione dell’antico
Israele. Queste piaghe colpiranno gli uomini e sconvolgeranno la terra (Apocalisse 6:12-17; 16:3,4,18-21) e
quel tempo sarà terribile (Gioele 2:31; Sofonia 1:15) per coloro che non hanno amato il Signore della gloria
(Apocalisse 6:13-17; Matteo 24:30,31). In quel giorno, dice l’apostolo Paolo, il Signore stesso, con potente
grido, con voce d’arcangelo e con la tromba di Dio, scenderà dal cielo, e i morti in Cristo risusciteranno per
primi; poi i credenti, che saranno rimasti vivi verranno insieme con loro (i morti credenti risuscitati) rapiti sulle
nuvole ad incontrare il Signore nell’aria; e così saranno sempre col Signore (1 Tessalonicesi 4:16,17). Gesù
stesso aveva promesso, nell’ultima sera che fu con i suoi discepoli: «Nella casa del Padre mio ci sono molte
dimore, io vado a prepararvi un luogo, e quando vi avrò preparato il luogo, tornerò e v’accoglierò presso di me,
affinché dove sono io siate anche voi» Giovanni 14:2,3.
IL MINISTERO REGALE DI GESÙ DURANTE IL MILLENNIO
Gesù ritornando ha raccolto tutti coloro che dovranno ereditare la nuova terra. Essi sono i viventi che lo
hanno atteso e i morti che sono risuscitati alla prima risurrezione (1 Tessalonicesi 4:16; Apocalisse 20:5). La sua
apparizione gloriosa, è stata per coloro che lo hanno rifiutato come un fuoco divorante. Non potendo rimanere in
piedi davanti a colui che è stato disposto a rinunciare alla sua eternità pur di salvarli, hanno gridato «ai monti ed
alle rocce: “Cadeteci addosso”» Apocalisse 6:16. Il fuoco dell’amore eterno di Dio è elemento purificatore per
gli uni, distruttore per gli altri. Chi ha fatto corpo unico con il male, subirà la sua stessa sorte. Apocalisse 19
conclude presentando un quadro raccapricciante: «Tutti gli uccelli si satolleranno delle loro carni» v. 21 (vedere
38
J. Fabre d’Envieu, o.c., t. II, p. 596.
Questa investitura del Regno non può essere messa in relazione con l’incarnazione di Gesù, né con la sua ascensione, ma solamente
con la fine del giudizio. William Shea fa notare: «A questo riguardo, si fa sovente riferimento alla dichiarazione di Gesù, fatta poco prima
della sua ascensione: “Ogni potestà mi è stata data in cielo e sulla terra” Matteo 28:18. Ma Gesù non utilizza qui il suo titolo di Figlio
dell’uomo, e altrove la parola “potere” (exousia) non si accompagna alla stessa terminologia politica di “dominazione” (kratos, kuriotes) e
“Regno” (basileia). Se l’intenzione di Gesù era di affermare che quanto detto in Daniele 7:13,14 si era compiuto, egli avrebbe dovuto
ricorrere a una circonlocuzione abbastanza oscura. Egli sarebbe stato più chiaro se avesse detto per esempio: “Il dominio, la gloria ed il regno
mi sono stati dati; tutti i popoli e tutte le nazioni di ogni lingua mi adorano, e questo dominio è un dominio eterno, e questo regno non sarà
mai distrutto”. Quali che siano gli altri poteri che Gesù ha ricevuto per se stesso al momento della sua ascensione, non è per nulla evidente visto l’assenza di ogni legame lexicografico di identità - che abbia voluto pretendere che Daniele 7:13,14 si fosse compiuto per lui. Se
l’avesse preteso sarebbe stato nell’errore, poiché tutti i popoli, le nazioni e gli uomini di ogni lingua non lo hanno servito e non lo servono
neppure nei nostri giorni. E dato che nessun autore del N.T. può essere invocato per interpretare questo testo fuori dal suo contesto, ogni
tentativo in tal senso è ingiustificato» SHEA William, Le Jugement en Daniel 7, in AA.VV., Prophetie et eschatologie, vol. I, Collonges sous
Salève 1982, pp. 178,179.
La pazzia di Dio
177
CAPITOLO VII
Matteo 24:28). Si può pensare che questa carne è di quell’umanità che si apprestava a combattere contro
l’Eterno nell’ultima “battaglia del gran giorno dell’Iddio Onnipotente”» Apocalisse 16:14.
La sposa che si è preparata per incontrare il suo Sposo, è stata portata in cielo. Sulla terra regna la morte.
Nel testo giovanneo di Apocalisse 20 non c’è nulla che faccia pensare a una terra restaurata durante il millennio.
Anzi essa è descritta come in uno stato di inabitabilità; Satana è gettato nell’“abisso” v. 3. Questa espressione
ricorda quella di Genesi 1:2 dove si parla dell’“abisso” primordiale della terra prima della settimana creativa.
L’abate P. Beda Rigaux giustamente fa notare: «Il regno di mille anni non è un regno terreno ma un
regno celeste».39
Le tombe dei non salvati sono rimaste chiuse; si apriranno dopo il millennio, in occasione della seconda
risurrezione (Apocalisse 20:5). Solamente gli esecutori materiali della morte del Signore risusciteranno per
vederlo ritornare nella sua gloria (Apocalisse 1:7), come Gesù aveva loro promesso (Matteo 26:64). Tutti quelli
che erano vivi al momento della parusia, ma che non hanno amato la sua venuta, quando Gesù è ritornato sono
morti alla sua presenza.
Satana, l’artefice di questo regno di morte, contemplerà, durante il millennio, l’opera delle sue seduzioni:
un mondo inabitato e reso inabitabile dalle ultime calamità. Il principe di questo mondo non potrà lasciare questa
terra, non potrà accedere ad altri mondi, non potrà sedurre nessuno (Apocalisse 20:2,3).
Durante questo periodo di tempo, Gesù, quale Re, si sederà a giudicare le nazioni (Atti 17:15) e i suoi
sudditi che regneranno con lui (Apocalisse 20:6) si siederanno su dei troni per «giudicare» v. 4. Gesù, infatti,
aveva detto ai suoi discepoli: «E io dispongo che vi sia dato un regno, come il Padre mio ha disposto che sia
dato a me, affinché mangiate e beviate alla mia tavola nel mio regno, e sediate sui troni, giudicando le dodici
tribù d’Israele» Luca 22:29,30. Questo giudizio sulle tribù d’Israele, Paolo lo estende a tutta l’umanità e agli
esseri celesti. Scrive infatti in 1 Corinzi 6:2,3pp: «Non sapete voi che i santi giudicheranno il mondo?... Non
sapete voi che giudicheremo gli angeli?» Questa regalità degli eletti e di Cristo Gesù è una regalità di giudizio.
«Presso gli antichi regnare è giudicare, e giudicare è regnare».40 L’ufficio di giudicare era in Israele
intimamente legato alla funzione del re (1 Re 3:16 e seg.; 2 Samuele 14:4; 15:2).
Durante il millennio ai salvati è data la possibilità di constatare il giusto giudizio di Dio compiuto durante
la fase preliminare e per non avere alcun dubbio e riserva nei Suoi confronti. Si comprenderà allora perché gli
uni sono salvati e quale invece sia stato per gli altri il grado di responsabilità personale nel rifiutare l’eternità. In
questa fase del giudizio, come dice Paolo, i credenti giudicheranno gli angeli decaduti, cioè coloro che hanno
accettato la voce dell’avversario. Ancora una volta siamo confrontati con un insegnamento che, se anche supera
la nostra capacità di comprensione e di esposizione, ci aiuta a capire che il piano della salvezza che Dio ha
messo in atto per l’umanità, ha la sua ripercussione nell’universo intero. Quando questa fase del ministero regale
di Cristo Gesù sarà ultimata, allora la nuova Gerusalemme, con tutti i figli di Dio, scenderà dal cielo per
assistere al giudizio universale e per ereditare una terra restaurata.
FINE DEL MINISTERO REGALE DI GESÙ: «DIO TUTTO IN TUTTI»
Dopo il regno millennario di Gesù, la discesa della nuova Gerusalemme sulla terra coinciderà con la
risurrezione degli empi (Apocalisse 20:5). Allora si terrà il giudizio universale (Apocalisse 20:11-15). «Poiché
tutti compariremo davanti al tribunale di Dio» Romani 14:10. Tutti saranno giudicati «secondo le loro opere»
Apocalisse 20:12,13. «Il principio del giudizio “secondo le opere” sussiste anche con la salvezza per grazia;
poiché le opere, che comprendono la vita intera, i sentimenti del cuore come le azioni esteriori, dimostrano la
rigenerazione e la santificazione mediante la quale l’anima deve passare per avere la vita eterna».41
Del resto, parlando della sposa che si era preparata a incontrare lo Sposo, il suo Signore, Giovanni aveva
scritto: «Le è stato dato di vestirsi di lino fino, risplendente e puro; poiché il lino fino sono le opere giuste dei
santi» Apocalisse 19:8. Il giudizio non si baserà su una «predestinazione cieca. Tutti i morti sono giudicati
secondo le loro opere, ed essi sono responsabili di tutto ciò che hanno fatto o omesso di fare. Nessuna possibilità
di discolparsi incriminando le circostanze, la sfortuna, la cattiveria degli altri, la corruzione della società. Gli atti
esprimono esattamente i frutti di ogni vita. “E ognuno fu giudicato”» 20:13, viene precisato. Anche quando si
tratta di opere fatte con altri, la responsabilità personale di ciascuno è in causa. Il giudizio si svolge davanti a
Dio e davanti all’umanità, poiché ognuno è responsabile davanti a Dio e davanti a tutti».42
I risultati di questo giudizio sono:
- vita eterna;
39
RIGAUX BEDA P. O.F.M., L’Antichrist et l’opposition au Royaume Messianique dans l’Ancien et le Nouveau Testament, Paris
1932, p. 337.
40
F. Godet, o.c., p. 361.
41
L. Bonnet, o.c., t. IV, l’Apocalypse, p. 438.
42
BRÜTSCH Charles, La clarté de l’Apocalypse, 5a ed., Labor et Fides, Genéve 1966, pp. 342,343.
La pazzia di Dio
178
IL MINISTERO SACERDOTALE E REGALE DI GESÙ
- morte, distruzione eterna (Apocalisse 20:15; 21:8; 2 Tessalonicesi 1:9). Del male e dei peccatori non sarà
lasciato «né radice né ramo» Malachia 4:1; essi non esisteranno più. Lo stesso Satana sarà distrutto e annientato
per sempre (Ezechiele 20:18).
Il giudizio sarà riconosciuto da tutti come santo, giusto e buono. La saggezza, la giustizia e la bontà di
Dio non saranno più rimessi in discussione da nessuno. Il carattere di Dio sarà puro da ogni sospetto in tutto
l’universo.
Dopo la sentenza, prima dell’ultimo tentativo dei non salvati di distruggere la presenza di Dio su questa
terra (Apocalisse 20:7-9) si compiranno le parole: «Come io vivo, dice il Signore, ogni ginocchio di piegherà
davanti a me, ed ogni lingua darà gloria a Dio» Romani 14:11, «Nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio nei
cieli, sulla terra e sotto la terra, ed ogni lingua confessi che Gesù Cristo è il Signore, alla gloria di Dio Padre»
Filippesi 2:10,11.
Dopo che l’ultimo nemico, la morte, sarà distrutto (1 Corinzi 15:26), Gesù, al quale il Padre aveva tutto
sottoposto, si sottoporrà lui stesso al Padre «affinché Dio sia tutto in tutti» 1 Corinzi 15:28. Il Salvatore rientra
nella posizione che aveva in precedenza, prima che si manifestasse il male, quando Dio comunicava
direttamente con tutti. Egli cessa di essere il mediatore della sovranità di Dio nei confronti delle creature. A
causa del male Dio si manifestava mediante Cristo Gesù, ora, a seguito dell’opera redentiva sulla terra e
sacerdotale nel cielo, l’umanità salvata è stata ricondotta alla casa del Padre. Dio può finalmente vivere, abitare
in loro, rivelarsi e agire per loro. Dio sarà glorificato completamente negli eletti come lo è stato completamente
nel suo Figlio. Gli eletti sono pervenuti alla «statura perfetta di Cristo» Efesi 4:13. «Dio sarà tutto in tutti, non
solamente nel senso di essere tutto per loro, ma nel senso che il Dio vivente pensa, vuole ed agisce mediante
loro. Essi sono, come lo era Gesù su questa terra, i suoi agenti contemporaneamente liberi e sottomessi, i
depositari della Sua santità, i portatori del Suo amore, gli interpreti della Sua saggezza nello spazio senza limiti
degli innumerevoli mondi dell’universo. È riempiendo di Sé questa umanità di salvati e glorificati che Dio
tramite loro riempie ogni cosa. Ogni membro di questa società glorificata non ha più nulla in sé che non sia
penetrato da Dio, così come il cristallo è tutto penetrato di luce. Il fine della storia e lo scopo dell’esistenza
umana è la formazione di una società di esseri intelligenti e liberi, condotti da Cristo a una perfetta comunione
con Dio, e resi da questi capaci di esercitare, come fece Cristo stesso, un’attività inalterabilmente santa e
benefica».43
Giovanni in Apocalisse 22:1,2 ci apre la finestra sull’eternità e ci presenta la nuova terra con i tratti
dell’Eden perduto, e aggiunge: «Non ci sarà più alcuna cosa maledetta; e in essa sarà il trono di Dio e
dell’Agnello; i suoi servitori Gli serviranno ed essi vedranno la Sua faccia e avranno in fronte il Suo nome» vv.
3,4.
ll nostro pianeta, che è stato il teatro della lotta millenaria tra il bene e il male, il luogo dove l’Eterno ha
dimostrato il suo essere “amore” 1 Giovanni 4:8, diventerà, esprimendoci con un linguaggio umano ricco di
antropomorfismo, la sede del governo di Dio, il luogo della sua dimora, il centro dell’universo. Là dove l’Eterno
ha sparso la Sua vita, le Sue creature «di sabato in sabato» Isaia 66:23 verranno davanti a Lui per vivere della
Sua eternità. Il piano della salvezza, che durante i secoli è stato per gli angeli stessi oggetto di studio (1 Pietro
1:12), nell’eternità sarà contemplato nel Figlio dell’uomo che porterà i segni dell’Agnello di Dio che è stato
immolato. Mediante il suo trionfo sul male, Cristo Gesù in quel giorno farà delle due creazioni, celeste e
terrestre, un solo popolo (Colossesi 1:20; Efesi 1:10). «Gli uni (gli angeli) per i quali nulla ha mai alterato lo
splendore, pubblicano, con voce sonora, la fedeltà dell’Altissimo che corona magnificamente l’umile e
perseverante sottomissione alla sua volontà; gli altri (l’umanità, con un tono di voce più grave e con accenti più
contenuti, come conviene a esseri il cui canto è nato tra le lacrime) glorificano la sua grazia che cancella
l’infedeltà e perdona la rivolta; quelli mostrano a noi, uomini, nel loro esempio, la scala luminosa sulla quale si
sono potuti elevare fino a Dio senza mai uscire dal bene, raggiungere la perfezione, non senza la prova, ma
senza la caduta, realizzare il progresso nel seno dell’innocenza, glorificando così la santità e la veracità di questo
Dio che non permette che il peccato possa mai essere considerato come necessario o anche come utile in sé; e
dall’altro lato, noi uomini risponderemo a loro mostrando, con umiltà profonda, i sui abissi del peccato dove noi
eravamo precipitati, ma da dove la mano di Dio ci ha ritirati mediante prodigi senza uguali; glorificando così ai
loro occhi questa grazia ”che sovrabbonda là dove il peccato abbonda” Romani 5:20 e che, cambiando il male in
bene, compie il miracolo dei miracoli. Del resto dei due popoli che ne formano uno, si eleverà allora, su toni
diversi, questo inno comune, ultima parola della storia degli esseri liberi, di cui il canto degli angeli e le lodi dei
pastori nella notte di Natale fu il preludio: Gloria a Dio e all’Agnello che è seduto sul trono, Alleluia!».44
43
44
F. Godet, o.c., pp. 364-373.
GODET Frédéric, ètudes Bibliques, t. I, 4a ed., Neuchâtel 1889, pp. 34,35.
La pazzia di Dio
179
CAPITOLO VII
La pazzia di Dio
180
CONCLUSIONE
Alla domanda: Perché Gesù è morto? La risposta che i cristiani danno è: “Per noi”, “Per salvarci”.
Quando poi si chiede perché Gesù morendo ci ha salvati, o perché Gesù ha dovuto morire per salvarci, allora le
risposte diventano più complesse. I teologi per spiegare hanno proposto diverse teorie che con delle varianti
hanno, comunque, una matrice comune: con la morte di Gesù, Dio e la legge sono stati soddisfatti e, quindi,
l’Eterno ci può perdonare anche perché Gesù ha subito la punizione che avremmo dovuto avere noi.
Chi sostiene questo insegnamento, che la croce del Signore abbia un valore giuridico e legale, sostiene
che non sia sufficiente il credere che Gesù abbia subito la morte per fare ravvedere gli uomini, dimostrando la
fedeltà e l’amore di Gesù al Padre fino alle estreme conseguenze, quelle che a Giobbe furono evitate.
Nel pensare diversamente dalla maggioranza si è messi in guardia di creare un sistema il cui concetto di
giustizia sia quello del nostro tempo e che quindi non si debbano spiegare le Scritture partendo dai nostri
parametri, ma calarci nella realtà del tempo.
Pensiamo di non aver presentato il pensiero biblico partendo dalla cultura occidentale del XX secolo, del
resto la giustizia di ieri e di oggi ha sempre una matrice comune e la letteratura del passato, anche al di fuori del
testo biblico, è ancora oggi motivo di riflessione per la profondità dei valori di giustizia. Non crediamo neppure
di aver adattato il testo biblico ai nostri parametri, ma ci siamo sforzati di cogliere il senso delle parole e di
quanto scaturisce dal testo stesso, per quello che la Sacra Scrittura voglia dire, non tenendo conto delle nostre
tradizioni, dei pensieri comuni, dei concetti storici e facendo violenza anche a noi stessi, che per educazione e
per opportunismo ci è istintivo pensare in chiave di sostituzione vicaria e giustizia punitiva dell’altro al posto del
colpevole.
Crediamo di avere spiegato a sufficienza il significato delle espressioni che Gesù ha portato su di sé il
nostro peccato (Isaia 53:4,11,12, Ebrei 9:28; 1 Pietro 2:24) e in che modo possiamo essere giustificati dalla
grazia del Signore a seguito della morte di Gesù e in che modo Gesù è stato «fatto peccato per noi» 2 Corinzi
5:21, e quanto viene detto dell’opera del Servo dell’Eterno (Isaia 53).
Nella prospettiva che abbiamo presentato, non crediamo di aver messo al centro la nostra persona, anche
se abbiamo parlato dell’importanza del pentimento e del ravvedimento che la croce compie nei confronti di
coloro che scoprono il messaggio della salvezza. Riteniamo anche che molti di coloro che non hanno avuto la
possibilità di ascoltare e conoscere la Parola di Dio può essere salvato non per un merito-diritto acquisito dal
Signore con la Sua morte espiatoria e che possa distribuire come espressione della Sua grazia, ma perché la croce
di Cristo Gesù è sempre la dimostrazione, nel tempo e nell’eternità, della sua vittoria sul peccato e della volontà
di Dio di salvare, perché Dio è amore e offre la vita ha coloro che la vogliono e se non hanno potuto camminare
alla luce della Sua rivelazione espressa da Gesù, hanno comunque permesso allo Spirito Santo di compiere la
Sua opera nei loro cuori.
L’amore di Dio non è in contrapposizione alla Sua giustizia, che vuole la condanna, la morte del
peccatore, ma il Suo amore è espressione di giustizia, perché la fonte è sempre la stessa e nell’Eterno non ci sono
due facce.
Facciamo fatica a comprendere che Gesù abbia dovuto morire affinché l’uomo di fronte alla legge
trasgredita – legge che Dio ha dato per il bene delle sue creature - non consideri la grazia a buon mercato e che la
legge non possa essere violata impunemente. La croce è il segno del suo perdono nel rispetto della legge.
Crediamo che sia naturale che il credente non consideri più la legge nell’ottica restrittiva, di colui che ha paura
dell’Eterno, ma la veda come l’espressione della Sua grazia, come espressione di libertà. È proprio nel nome di
questa legge, che non si può accettare che l’innocente sia punito al posto del colpevole.
Gesù è morto perché ha vissuto la legge del Padre, ha vissuto il Suo ideale di Figlio di Dio, ha creduto in
quello che insegnava; è morto come tanti altri che l’avevano preceduto, è morto perché venendo a vivere nel
nostro mondo, che non è più quello del Regno di Dio, è venuto come Figlio dell’uomo e, pur potendo sempre
sottrarsi alla morte, perché era l’Emmanuele “Dio con noi”, non ha espresso questa sua natura e fino alla fine
nella tragedia della lotta tra il bene e il male, ha voluto essere “uomo” e come tale soggetto ai limiti di questa
realtà in un mondo di ingiustizia e di violenza. La lotta tra il bene e il male va oltre al quadro geografico che il
vangelo ci presenta e in questa lotta l’umanità ha espresso le conseguenze di avere come signoria,
coscientemente o meno, il principe di questo mondo, l’Avversario.
Riteniamo che qualsiasi spiegazione giuridica si possa dare alla croce, comprese anche quelle che non
vedono nella sostituzione una penalità subita da Gesù, debba coerentemente affermare che l’uomo in tutto questo
è stato uno strumento per uno scopo, una necessità impostagli da un qualcosa, da Qualcuno, al quale non si è
potuto sottrarre e che sopprimendo il Signore ha realizzato un programma stabilito prima. Una ragione dello
Stato-Universo l’ha imposta. In questa prospettiva l’uomo, l’umanità non è, quindi, responsabile.
È nel non condividere questo pensiero di una morte di Gesù sostitutiva, penale e giuridica che la croce
continua a essere il segno della pazzia di Dio nell’amare le sue creature.
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