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Irregolari. Storie dal manicomio di Roma

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Irregolari. Storie dal manicomio di Roma
VALERIO DI PAOLA
IRREGOLARI
STORIE DAL MANICOMIO DI ROMA
INDICE
LA COLLINA
Metodi e obiettivi
1.
6
NASCITA DI UN MANICOMIO
L’ospedale psichiatrico di Roma
1.1
LA NAVE DEI FOLLI
Genesi e funzioni del manicomio nella società moderna
1.2
1.1.1 LA ROTTA DELLA PAZZIA
10
1.1.2 IL POSTO DEI MATTI
15
PUNTI DI DOMANDA SENZA FRASE
La pazzia pensata dalla scienza
1.3
1.2.1 STAGIONE MELANCONICA
18
1.2.2 SECOLI DI SRAGIONE
20
1.2.3 UN NODO ANTROPOFENOMENOLOGICO
24
IL MANICOMIO DI ROMA
Ospizi e ospedali tra il Cinquecento e l’inizio del Novecento
1.3.1 ISTITUZIONE TOTALE
27
1.3.2 L’OSPEDALE DEI PAZZERELLI A PIAZZA COLONNA
29
1.3.3 L’OSPEDALE DEI PAZZI ALLA LUNGARA
34
1.3.4 MEDICI, PRETI E POLIZIOTTI
36
2
2.
IL TEATRO DELLA FOLLIA
Storie di manicomio
2.1
LA RECITA
Luoghi e persone del Santa Maria della Pietà
2.2
2.1.1 PALCOSCENICO
45
2.1.2 ATTORI E COMPARSE
49
2.1.3 SCENOGRAFIA
53
IL PRIMO GIORNO DI MANICOMIO
Leggi e consuetudini dei padiglioni
2.3
2.2.1 NEL PARCO
59
2.2.2 SECONDO SCIENZA
60
2.2.3 SECONDO LEGGE
64
2.2.4 ADRIANO, INFERMIERE
66
DA VICINO NESSUNO È NORMALE
Lavorare e vivere in manicomio
2.4
2.3.1 LE CHIAVI
69
2.3.2 MALAVITA
72
2.3.3 VISTO DA FUORI
75
2.3.4 IL BISONTE
77
MARCO CAVALLO
Teoria e pratica per chiudere gli ospedali psichiatrici
2.5
2.4.1 L’ANNO PIÙ VELOCE
81
2.4.2 LA VENDETTA DELLA FOLLIA
83
2.4.3 SEGNI, SINTOMI E PORTE APERTE
88
I CARBONARI
Movimenti antimanicomiali nel Santa Maria della Pietà
2.5.1 TRE TIPI DI AFASIA
94
2.5.2 PARTIGIANI BIANCHI E PARTIGIANI ROSSI
97
2.5.3 MARIA , INFERMIERA
102
2.5.4 GLI ALBERI PARLANTI
106
3
2.6
USCIRE FUORI
La fine del manicomio di Roma
2.6.1 CENTOTTANTA
110
2.6.2 LE IDENTITÀ SEPOLTE
114
2.6.3 LA FINESTRA SUL REALE
119
2.6.4 EPILOGO
123
SOMMERSI E SALVATI
Conclusione
128
BIBLIOGRAFIA
MEDICINA E PSICHIATRIA
130
SAGGISTICA GENERALE
131
MEMORIALISTICA, POESIA E ROMANZI
132
TESTI TEATRALI, FILM , DISCHI E OPERE D’ARTE
133
LEGGI E REGOLAMENTI
134
FONTI ORALI
135
4
Tu prova ad avere un mondo nel cuore
che non riesci ad esprimerlo con le parole
e la luce del giorno si divide la piazza
tra un villaggio che ride e te: lo scemo che passa
E neanche la notte ti lascian da solo
loro sognan se stessi e tu sogni di loro.
FABRIZIO DE ANDRÈ, Un matto.
5
LA COLLINA
Obiettivi e metodi
“La paura di impazzire…puoi aver paura di un tumore o di un incidente,
ma di impazzire no. Ci pensi solo quando entri qui” 1. Adriano Pallotta,
infermiere psichiatrico in pensione, sorride e accende un’altra sigaretta: siede
nell’ombra ad un basso tavolo di ferro, dietro le spalle ha migliaia di fogli gialli
e polverosi allineati sullo scaffale, quattro secoli di cartelle cliniche dal
manicomio di Roma, il Santa Maria della Pietà.
Non ci avevo pensato: ho appena iniziato a raccogliere materiale per
questa ricerca e già mi trovo coinvolto, tirato dentro dal manicomio. Premo il
pulsante rosso sul registratore e il posacenere inizia a riempirsi di mozziconi.
Affiora dalla mente qualche verso: un mondo di sogni chiusi nel cuore, un
raggio di sole che tiene lontani i matti da me. È un vecchio disco di Fabrizio
De André che racconta una passeggiata in collina: c’è un piccolo cimitero dove
i morti sono come vecchi attori che parlano dei propri costumi usati 2. C’è un
Giudice che era un nano e ha vendicato la sua minuzia con il potere di decidere
della vita degli altri: era tutore dell’ordine e della morale, il dito più lungo della
sua mano era l’indice. C’è un Blasfemo che è salito su un pulpito, forse solo
una cassetta di legno all’angolo della strada, e ha svelato che Dio ferma con la
morte quelli che spezzano le catene della propria schiavitù: il Giudice lo ha
condannato al carcere, al manicomio, a morte. C’è un Medico che voleva
guarire i ciliegi, feriti da fiori rossi ad ogni primavera: i colleghi lo hanno
deriso quando ha creduto di poter usare la scienza contro il Potere. C’è un
Matto che ha sognato tutti i sogni che gli altri non potevano fare, se volevano
1
Cfr. A. Pallotta, infermiere, Intervista I, raccolta per questa tesi presso l’ex ospedale
psichiatrico Santa Maria della Pietà, Roma, dicembre 2006.
2
Cfr. F. De Andrè, Non al denaro, non all’amore né al cielo, Produttori associati, Italia 1971;
E-L. Masters, Antologia di Spoon River, Einaudi, Torino 2000.
6
continuare a vivere insieme nella città, e per questo è arrivato in collina per
primo. Somigliano ai personaggi della storia che voglio raccontare; mi viene in
mente un’altra parola: “irregolari”.
Irregolare è chi rotola lungo il piano inclinato della propria omeostasi, il
precario equilibrio che corpo e mente inseguono tra piacere e dolore 3;
irregolare è chi rompe il compromesso imposto dal Giudice, come il Suonatore
sepolto in collina, che ha offerto la faccia al vento “Senza mai un pensiero, non
al denaro, non all’amore né al cielo”. L’irregolare, chi non riesce ad occupare il
posto assegnatogli dal Giudice, è destinato a soffrire e la follia forse, è solo la
fuga fragile e instabile dal dolore incontrato 4.
Irregolari sono anche quelli che si aggregano alle fila di un esercito,
cappellaccio in testa, giacca da cacciatore e stellette di latta. Sono i partigiani
generosi e litigiosi che fanno le imprese grandi, come chiudere un manicomio.
Adriano racconta gli scioperi degli infermieri contro la brutalità dell’ospedale
psichiatrico mente accartoccia il pacchetto di sigarette: mi chiedo come si
sopravvive alla reclusione in manicomio, cosa accade a chi lavora per anni o a
chi abita accanto ad un ospedale psichiatrico?
Il registratore si blocca, la cassetta è finita. Penso alla forma da dare a
questo lavoro, senza ridurlo solo all’apologia della lotta al manicomio. Scelgo
il tempo presente perché il Santa Maria della Pietà ha chiuso solo nel 1999,
perché ci sono decine di cliniche psichiatriche private e di manicomi giudiziari
funzionanti, perché follia ed emarginazione le incontro ogni giorno, anche se il
manicomio è finito, accanto ai semafori, sotto la metropolitana, nelle piazze
notturne della Capitale deserta. Per comprendere e raccontare tutto questo
dovrò usare un metodo irregolare ed eclettico, utilizzare filosofia della scienza,
medicina e psichiatria, letteratura e storia dell’arte, antropologia, sociologia e
storia, tanto quella dei codici e dei regolamenti, dei papi e dei governi, quanto
quella dei mille vicoli e volti della città.
3
Cfr. P. Martelli, lezioni di Nascita e logica della Clinica, tenute presso la Facoltà di Lettere
dell’Università La Sapienza, Roma 2007.
4
A. Gaston, Genealogia dell’alienazione, Feltrinelli, Milano 1998, pag. 9.
7
Dieci anni fa, poco lontano da casa mia, il manicomio era aperto: i
ragazzini scavalcavano la rete arrugginita per dimostrare di essere coraggiosi.
La fascinazione subita ha a che fare con la più congeniale e “irregolare” tra le
materie studiate, il Giornalismo d’inchiesta: ora posso provare ad intrecciare i
lunghi caffè bevuti con gli infermieri in pensione e i racconti e i silenzi del
personale del Centro Studi e Ricerche nella vecchia Direzione del manicomio,
con le lezioni ascoltate nelle aule universitarie. Curiosi, eclettici e irregolari
sono del resto gli autori dei grandi reportages, quelli che “Viaggiano in
direzione ostinata e contraria, per consegnare alla morte una goccia di
splendore, di umanità, di verità” 5. Penso alle camicie di lino e alla vecchia
Leica di Tiziano Terzani in India, alle scarpe comode di Ryszard Kapuscinski
per attraversare l’Africa, al Giappone in super 8 di Wim Wenders, a Robert
Capa sulla spiaggia in Normandia, con le spalle alla fucileria tedesca e
l’obbiettivo sull’acqua e sulla Storia. Poi riascolto la prima intervista: ora mi
sarebbero utili cose rare, la memoria di Truman Capote e un po’ della
parlantina di Edward Murrow.
Nella prima parte tratteggerò la lotta tra le idee, gli assetti e le storture
della società che hanno determinato quattro secoli di vita del manicomio; nella
seconda accosterò alla storia dell’istituzione manicomiale quelle degli uomini e
delle donne incontrati nei padiglioni e nelle strade del quartiere. Non sarà
comunque tutto quello che ho visto e sentito: gli irregolari mi hanno insegnato
molto più di quello che riuscirò a mettere in centocinquanta pagine.
5
F. De Andrè, Smisurata preghiera, in Id. Anime salve, BMG, Italia 1996.
8
1. NASCITA DI UN MANICOMIO
L’ospedale psichiatrico di Roma
9
1.1 LA NAVE DEI FOLLI 6
Genesi e funzioni del manicomio nella società moderna
Così la pazzia dell’uomo è il senno del cielo e, allontanandosi dalla ragione
mortale, l’uomo giunge al pensiero celeste che per la ragione è assurdo e
vaneggiante e sente di essere al di là del bene e del male, indifferente come il suo
Dio.
HERMAN MELVILLE, Moby Dick.
1.1.1
LA ROTTA DELLA PAZZIA
Il fiume s’allarga in un’ampia curva che nasconde l’orizzonte: il
Medioevo sta finendo. Nel cuore dell’Europa la campagna è verdissima e
punteggiata da covoni di grano, avvolta dal silenzio. All’improvviso la nave
fende la tenue nebbia sull’acqua, spezza la superficie liquida, sbanda e spruzza
la riva. Al posto dell’albero di maestra ha un pino frondoso; tra le foglie sta
appollaiato un uomo incappucciato con orecchie di gatto. Sul ponte si canta e si
banchetta: una suora e un frate si contendono una pagnotta a morsi, un
grassone dalla faccia larga grida e si sbraccia, al timone c’è un suonatore di
cornamusa; hanno appeso un pollo decapitato all’albero e tentano di colpirlo
con una mazza. In pochi istanti la nave scivola veloce sull’acqua nera, diretta
6
M. Foucault, Storia della follia nell’Età Classica, Bur, Milano 2005, pag. 11. Il libro s’apre
con lo stesso titolo nella sua versione latina, “Stultifera navis”. Il filosofo francese parla di
“mandato di controllo sociale”, individuabile nella storia stessa dell’istituzione manicomiale;
da quest’asserzione partì lo psichiatra Franco Basaglia per tentare la chiusura dei manicomi
italiani nella seconda metà del secolo scorso. Per altre argomentazioni prodotte in questo
capitolo cfr. M. Foucault, Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino 2005.
10
alla terra promessa dei matti. I sani, fuggiti nell’entroterra, attendono che
svanisca all’orizzonte per riaffacciarsi sulla riva.
Hieronimus Bosch dipinge questa nave e il suo equipaggio d’insensati
negli ultimi dieci anni del 1400 7. Di lì a poco altre tre barche approdano in una
diversa terra promessa, il cosiddetto “nuovo mondo”, scardinando cosmologia
e sapere usciti già malconci dal Medioevo. La scoperta dell’America è il punto
di svolta, un violento tornado d’idee che investe le coste del “vecchio mondo”
e ridisegna la cultura, l’economia, le scienze e il comune sentire di noi europei.
A partire dal punto di svolta possiamo concepire e conoscere ciò che ci
riguarda, noi che siamo messi tutti insieme sulla terra, mentre prima,
come scriveva Voltaire, il genere dimorava diviso e separato, sconosciuto
a se stesso 8.
Tra le idee da aggiornare, per evitare che colino a picco, c’è la
concezione di “diverso” e, tra i diversi, ci sono i matti, in buona compagnia di
barboni, mendicanti, vagabondi, malviventi e disadattati allo sbando. Diversità
e devianza dalla norma, dunque, sono spesso sinonimi: costituiscono la linea di
demarcazione tra chi partecipa a quello che Rousseau chiamerà “contratto
sociale” 9, la collaborazione consensuale tra uomini per costruire una società
ordinata, giusta e produttiva, e chi ne resta fuori. I devianti però non sono
sempre uguali: cambiano faccia come cambiano le epoche, prendono e lasciano
l’etichetta di “diverso” secondo i tempi e i luoghi, vanno e tornano seguendo i
corsi e i ricorsi della Storia. Quello che accade ai folli nel Cinquecento, essere
spediti su una nave alla deriva e più tardi finire segregati in grandi ospedali
simili a prigioni, è dunque uno dei molti impacci in cui si è incagliato
7
H. Bosch, La nave dei folli, olio su tavola, 1490 - 1500, Museo del Louvre, Parigi. Il dipinto
doveva probabilmente illustrare il coevo poema satirico Das Narrenshiff, di Sebastian Brandt,
in cui dei folli s’imbarcano per il mitico regno di Narragonien, terra promessa dei matti.
8
A. Gnisci, Mondializzare la mente, Cosmo Iannone, Isernia 2006, pag. 21.
9
Cfr. J-J. Rousseau, Discorsi e contratto sociale, Cappelli, Bologna 1969.
11
l’inarrestabile allargamento della comunità umana: accade spesso del resto che
all’inclusione si preferisca l’edificazione di un nuovo ghetto.
Il filosofo francese Michel Foucault descrive in proposito una società che
per continuare ad esistere ha bisogno di trovare periodicamente un rituale
“capro espiatorio” su cui scaricare le proprie energie anarchiche, nichiliste e
autodistruttive
10
. Per Franco Basaglia, lo psichiatra protagonista della
dissoluzione dell’istituzione manicomiale in Italia, i manicomi sono “riserve
psichiatriche”, simili a quelle in cui sopravvivono confinati i nativi americani.
La ricerca nel gruppo del capro espiatorio non può essere spiegata che
nella volontà dell’uomo di escludere ciò che gli fa paura (…), volontà
giustificata e scientificamente confermata da una psichiatria che ha
considerato l’oggetto dei suoi studi come incomprensibile 11.
Chiamare il diverso “mostro” è una scorciatoia frequentemente
imboccata in epoche passate come adesso. Il cogitare per inimicos, il pensiero
essenzialista che traccia una linea retta tra i “buoni” e i “cattivi” che tanta parte
ha oggi nel cosiddetto “scontro di civiltà” 12, è dunque un fenomeno antico, che
investe in pieno i folli d’Europa agli albori del Rinascimento. In quel tempo
sono loro, diversi dentro le mura della città, ad assediare i sani, i “normali”
ansiosi di disegnare un confine ben visibile che tenga i “cattivi” aldilà del
muro. È difficile ancora oggi del resto accogliere l’appello di Basaglia e
considerare l’espressione del folle non solo come la manifestazione meccanica
di una malattia, ma anche come un modo diverso di guardare la realtà 13; quasi
10
Cfr. M. Foucault, Storia della follia nell’Età Classica (cit.). Per Foucault quella del “capro
espiatorio” è un’identità mobile: possono incarnarla matti, lebbrosi, stranieri e chiunque ha
caratteristiche diverse da quelle del gruppo che detiene il potere locale.
11
F. Basaglia, Un problema di psichiatria istituzionale, in Id., L’utopia della realtà, a cura di
F.O. Basaglia, Einaudi, Torino 2005, pag. 44.
12
Cfr. G. Bosetti, Cattiva Maestra, Marsilio, Venezia 2005.
13
“Presenza ed espressione diventano i fondamenti dell’indagine antropofenomenologica. La
presenza si coglie nell’incontro, a cui Basaglia riconosce valore prioritario per avvicinare e
12
impossibile è poi dare retta a Ryszard Kapuscinski che consiglia di adattare
l’immaginario alla situazione contingente, modificando incessantemente il
nostro modo di considerare gli altri secondo l’esperienza 14.
In realtà in Europa le avvisaglie della burrasca giungono ben prima della
scoperta dell’America: mentre nelle piazze bruciano i roghi per gli eretici, nei
libri e sulle tele proliferano le danze macabre e le processioni d’ossessi.
Scheletri, streghe e posseduti stravolti dal furore sono protagonisti nelle
rappresentazioni artistiche: l’irrazionale, tanto fittamente intessuto alla trama
culturale del Medioevo da essere da questa incanalato e normalizzato, appare
all’improvviso fuori controllo. E di Narrenshiff, navi rumorose e piene di pazzi
come quella disegnata da Bosch, ne navigano davvero lungo le strade d’acqua
del centro e del nord Europa. Nel Quattrocento si diffonde l’uso di affidare i
folli ai marinai e ai mercanti per pochi spiccioli: spinti al di fuori delle mura
municipali, i folli iniziano a muoversi lungo le rotte fluviali del commercio. Le
navi trasportano i pazzi in luoghi a loro dedicati, come il villaggio di Gheel in
Belgio
15
, o, più spesso, li scaricano sulla prima spiaggia sufficientemente
desolata.
Chi sragiona finisce nel fiume, confine simbolico e tangibile tra la stabile
lucidità della terraferma e il semovente caos acquatico: il folle “è prigioniero in
mezzo alla più libera delle strade, incatenato all’infinito crocevia, è il
Passeggero per eccellenza, cioè il prigioniero del Passaggio”
16
. L’acqua è
elemento ambiguo, materno e insidioso ad un tempo, e secondo Foucault è
metafora potente dell’imprevedibilità di chi è d’umore volatile, se non pazzo
conoscere la modalità esistenziale di un malato. E soprattutto per dissipare il pregiudizio di
incomprensibilità che l’avvolge”. M. Colucci, P. Di Vittorio, Franco Basaglia, Mondadori,
Milano 2001, pag. 31.
14
Cfr. R. Kapuscinski, Il cinico non è adatto a questo mestiere, E/O, Roma 2000.
15
A Gheel in Belgio è venerata dal Duecento Santa Dymphna, protettrice di pazzi, epilettici e
sonnambuli. I pellegrini sono tradizionalmente accolti dagli abitanti, in attesa della guarigione
miracolosa. Questa singolare esperienza di comunità terapeutica “familiare” precorre di molti
secoli gli esperimenti antiistituzionali del Novecento.
16
M. Foucault, Storia della follia nell’Età Classica (cit.), pag. 19.
13
del tutto; già nel Medioevo del resto è superstizione diffusa l’attribuire il
carattere ombroso e lunatico degli Inglesi alla troppa umidità. I mistici
medievali poi narrano spesso lo sconvolgimento della mente come un battello
in balia dei flutti: nel 1100 Bernardo di Chiaravalle parla nelle sue preghiere di
“anima–navicella” che ha perso la bussola e naviga alla deriva nell’oceano dei
desideri e delle passioni. E come nella Bibbia c’è chi affida il piccolo Mosè
alla caritatevole corrente del Nilo, così chi spedisce i matti sul fiume ne delega
il destino ad un’entità superiore, la Provvidenza o il Fato o comunque
un’autorità che non afferisce ai diritti e ai doveri dell’uomo.
Dopo che le navi dei folli sono salpate, la nuova ricca e vincitrice
borghesia commerciale pulisce la strade della città dalla polvere, moltiplica le
sanzioni contro il vagabondaggio e l’elemosina che sono usuali compagni di
viaggio della pazzia: nel giro di pochi anni le comunità girovaghe diventano il
bersaglio di una pioggia di provvedimenti disciplinari per tutelare l’integrità
sociale
17
. Nella prima metà del Quattrocento nella sola città tedesca di
Norimberga vivono ben settandue pazzi: trentuno sono cacciati in un colpo
solo e altri ventuno, arrestati dalla polizia, saranno esiliati nel cinquantennio
successivo 18.
Nel 1504 in una città poco lontana da Norimberga, Augusta, è pubblicata
la lettera in cui il navigatore Amerigo Vespucci afferma che quello raggiunto
qualche anno prima dal collega Cristoforo Colombo è probabilmente un
Mundus Novus
19
. L’umanità scopre di aver scoperto l’America e un fiume
d’oro e ricchezze la spinge a vele spiegate verso il Rinascimento e l’Era
Moderna. Ma se, come sostengono anche Voltaire e Walter Mignolo, la rapina
ai nativi americani finanzia la Renaisance e innesca il boom economico e
17
A. S. Spinelli, Baro Romano Drom, Meltemi, Roma 2000, pag. 34.
18
Cfr. T. Kirchoff, Geschichte der Psychiatrie, Lipsia (Germania) 1912.
19
Nell’epistola Mundus Novus indirizzata a Lorenzo Pietro De’ Medici, datata 1503 e
probabilmente apocrifa, Amerigo Vespucci ipotizza che la terra raggiunta da Cristoforo
Colombo non sia l’Asia ma un continente nuovo e sconosciuto.
14
demografico che porta l’Europa fuori della recessione del Medioevo
20
, un
grosso colpo di spugna spiana la rotta al nascituro pensiero scientifico: la follia
è lavata via dalle piazze e dai vicoli della vecchia Europa.
1.1.2
IL POSTO DEI MATTI
C’è qualcosa che il mondo nuovo non riesce a cancellare: un volto
urlante e deforme che spunta dagli incubi dei sani. Bosch, come Dürer e
Bruegel, disegna l’irrazionalità grottesca, inquietante e incontrollabile “di
un’epoca storica che sembra non possa dare spazio a null’altro che al dramma e
al furore: in una parola alla follia” 21. Le porte dei manicomi si aprono quando
all’inizio del Cinquecento la parola “follia” perde le connotazioni che in
precedenza avevano riservato ai pazzi un qualche posto nella società.
La pazzia, ad esempio, cessa di essere un topos letterario dalle valenze
anche positive. È recisa la cima che lega la nave dei folli ad altre pazze
imbarcazioni: in direzioni opposte vanno la Narrenshiff e il “folle volo”
dell’Ulisse dantesco che, veleggiando follemente contro l’ordine divino,
appaga almeno la sua immane e umana sete di guardare ciò che è celato agli
occhi dalla brutalità bestiale 22. La nave dei folli è invece un vascello corsaro
allo sbando diretto verso il sinistro paese della cuccagna e, come i pirati, i suoi
occupanti sono maledetti, macchiati per sempre da una colpa che non si può
lavare 23. Più che al “legno” d’Ulisse, la nave dei folli somiglia alle barche che
incrociano in flotte negli incubi moderni: il Pequod ad esempio, la baleniera
20
Cfr. Voltaire, L’America, Sellerio, Palermo 1991; W. Mignolo, The darker side of the
Reinassance, University of Michigan Press, Michigan (USA) 2003.
21
A.A.V.V., Bruegel, Panda, Roma 1990, pag. 31.
22
Cfr. Dante, Divina Commedia, Inferno, Canto XXVI, Signorelli, Firenze 2000.
23
M. Foucault, Storia della follia nell’Età Classica (cit.), pag. 28. Nel Narrenshiff (cit.) i matti
fanno naufragio a Shlaraffenland, terra della cuccagna; Bosch li disegna come simboli dei vizi
capitali, secondo la diffusa convinzione di “colpa morale” legata alla malattia mentale.
15
sgangherata che l’insensato Achab spinge contro il colossale capodoglio Moby
Dick, coagulo caotico di forze distruttrici cieche, senza barlume di coscienza 24.
Per secoli prima dell’Umanesimo gli aruspici indovinano le sorti spiando
il volo degli uccelli e gli alchimisti dialogano con l’aldilà, cercando la pietra
filosofale; i visionari, i Tiresia e le Cassandre, ricoprono un ruolo chiave nella
società e sono trattati con rispetto e timore reverenziale. Poi rapidamente chi
vede cose che non esistono diventa semplicemente “pazzo” ed è meglio che se
ne stia più al largo possibile. Di certo a leggere la nascita dei manicomi solo
come il prodotto di una modificazione nella percezione comune della parola
“follia” si finisce per ridurre la malattia mentale ad una semplice conseguenza
dell’ambiente sociale, senza tener conto che la sofferenza di un malato
sopravvive, modificata ma inossidabile, alla distruzione dell’ospedale
psichiatrico. Guardare ai manicomi con le sole lenti delle scienze sociali è
pericoloso; tuttavia Foucault ha ragione quando afferma che il cambio di
registro del Cinquecento è un evento relativo, prodotto di una svolta sociale più
che scientifica.
La cartina di tornasole per verificare empiricamente l’affermazione del
filosofo francese è probabilmente un po’ d’antropologia culturale. È un fatto ad
esempio che la trance rituale in cui cadono i sacerdoti–medium nepalesi
somiglia al “delirio a contenuto religioso” riportato su molte cartelle cliniche,
ottimo modo per finire in un manicomio europeo nel Cinquecento e nei secoli
successivi 25. Dunque, senza entrare nel merito della valutazione di un medico
che decide secondo scienza e coscienza di curare un individuo malato in un
luogo idoneo, è abbastanza evidente che ciò che in un posto del mondo è il
dono divino di parlare con l’aldilà in un altro luogo è un buon motivo per
essere internato in un ospedale psichiatrico.
24
P. Meneghelli, Il libro malvagio, in E. Melville, Moby Dick, Newton Compton, Roma 2004,
pag. 8.
25
Cfr. F. Giannattasio, Il concetto di musica, Bulzoni, Roma 1998; V. Fiorino, Matti,
indemoniate e vagabondi, Marsilio, Venezia 2002.
16
Il manicomio nasce come un luogo di cura e d’assistenza ma, secondo
Foucault, il cambio di prospettiva del primo Cinquecento ne influenza in modo
nefasto il divenire e lo trasforma in una prigione. L’ospedale psichiatrico ha
dunque dalla nascita due fronti, l’una che cura con carità e scienza la
sofferenza, l’altra che tutela la società dai diversi e dai devianti.
Sono stati costruiti luoghi di cura dove si possa isolare il malato mentale,
delegando la psichiatria a tutelarlo nell’isolamento in modo da proteggere
e difendere la società dalla paura che continua a nutrire nei suoi confronti.
Contemporaneamente a questa azione difensiva la società chiede però
allo psichiatra la cura del malato 26.
E allora, domanda Foucault, il manicomio serve ai malati o ai sani?
26
F. Basaglia, Un problema di psichiatria istituzionale (cit.), pag. 46.
17
1.2 PUNTI DI DOMANDA SENZA FRASE
La pazzia pensata dalla scienza
Signori e Signore, oggi percorreremo uno stretto sentiero che può tuttavia
dischiuderci un’ampia prospettiva. Non aspettatevi da me alcun tentativo di
circoscrivere con definizioni queste regioni mal delimitate. Tutti sappiamo, in
modo generico e indefinito, a cosa dobbiamo pensare. È una specie di “aldilà”
del mondo luminoso, dominato da leggi inesorabili, che la scienza ha costruito
per noi.
SIGMUND FREUD, Introduzione alla psicoanalisi
1.2.1
STAGIONE MELANCONICA
Albrecht Dürer disegna la sua idea di melanconia nel 1514, la riempie
d’enigmi e la spedisce ai posteri come un messaggio in bottiglia da decifrare 27.
Una donna triste guarda qualcosa che solo lei vede, poggia il viso pesante su
una mano, sospira, ripiegate le impolverate ali d’angelo dietro la schiena. Al
suo fianco un angioletto stringe la penna ma è stanco: la donna ha smesso di
dettare e lui sta per cedere al sonno. L’astro sullo sfondo dovrebbe essere un
sole che sorge luminoso ma, dall’affilato bulino di Dürer, è uscita una luna
nera, un’eclissi balenante di malaugurio. E la sabbia nella clessidra continua a
scendere.
La Melanconia è una fotografia, mossa perché il soggetto si agita
parecchio, dei confusi pensieri che attraversano l’animo dei dotti europei nel
Cinquecento, combattuti tra il compasso nelle mani della donna angelo, il
quadrato magico le cui cifre sommate tra loro danno sempre lo stesso risultato,
27
A. Dürer, Melanconia I, xilografia, 1541, Kupferstichkabinett, Berlino.
18
la scala a sette pioli e la pietra scura abbandonata in un angolo
28
. Nei sali
d’argento di questa istantanea è cristallizzato lo scontro tra esoterismo e
scienza: la quiete dopo la battaglia separerà le credenze e le superstizioni
dall’esatto, decidendo tra l’altro cosa è “medicina” e cosa non lo è 29.
Se Dürer disegna un secolo sedotto dall’esoterismo, la Melanconia
racconta anche un male del suo autore, una disposizione d’animo che di lì a
poco diverrà roba da cartella clinica. “Dürer era un melancholicus e ci ha
lasciato nella meditabonda figura dell’incisione un’immagine suggestiva del
suo animo” 30: la donna–angelo si è persa in un labirinto mentre insegue idee
vane; nelle sue mani il compasso, strumento del lavoro pratico, è inutile.
L’immobilità cela la tempesta, la lotta contro gli incubi e l’esaltazione della
follia. I simboli che l’assediano sono abnormi, indecifrabili, fuori posto nel
tempo delle grandi scoperte geografiche che dovrebbero fugare i dubbi
dell’inconscio come un luminoso sole che sorge.
La donna soffre probabilmente di una “alterazione patologica del tono
dell’umore, nel senso di un’immotivata tristezza talvolta accompagnata da
ansia”
31
: oggi avrebbe lo spleen, il “male di vivere”, quello che porta Zeno
Cosini sul divano dello psicanalista
32
. Dürer e la sua creatura appartengono
dunque alla folta schiera di individui che, fin dall’antica Grecia, subiscono
l’influsso nefasto del piccolo e misterioso pianeta Saturno. Il “temperamento
28
B. Louis, L’esoterismo di Dürer, Luni, Milano 2003, pag. 34. La Melanconia rimanda alle
principali dottrine esoteriche, sospese tra magismo e scienza, e la sua interpretazione divide gli
studiosi. Tra i rimandi, pialla e compasso sono propri della Massoneria; la scala a sette pioli
simboleggia l’iniziazione nei riti misterici di Mitra, diffusi nella Roma imperiale; pietra,
crogiolo e bilancia sono strumenti alchemici cari a Saturno, il cui influsso provoca il
temperamento melanconico; la cifra risultante del quadrato magico è 34, numero di Giove,
pianeta che in opposizione a Saturno determina carattere solare ed attivo.
29
Cfr. J-P. Corsetti, Storia dell’esoterismo, Gremese, Roma 1992.
30
R. Wittkower, Nati sotto Saturno, Einaudi, Torino 1999, pag. 119.
31
Cfr. G. Devoto, G. Oli, lemma Melanconia in Dizionario della lingua italiana, Le Monnier,
Firenze 2001.
32
Cfr. I. Svevo, La coscienza di Zeno, Newton Compton, Roma 1997.
19
saturnino” accompagna del resto il genio fin dal Medioevo; l’artista, si sa, ha
quasi sempre un pessimo carattere, è ombroso e lunatico, incline a vedere cose
che non esistono.
Ci ha pensato la psichiatria contemporanea a sfatare il mito della geniale
follia
33
; tuttavia è probabile che oggi a un melanconico come Dürer sarebbe
diagnosticata una sindrome depressiva acuta
34
. Ma cosa c’entrano i disturbi
mentali di un artista del Cinquecento con la nascita dei manicomi? La risposta
è tra gli enigmi dell’incisione, nel percorso tortuoso del nascituro pensiero
scientifico.
1.2.2
SECOLI DI SRAGIONE
In principio c’è l’agorà, la pubblica piazza delle poleis greche, circa
venticinque secoli fa. Un frequentatore abituale dell’arena cittadina, Platone,
ammonisce chi cerca di afferrare con i sensi la bellezza e l’armonia: rischia di
farsi rapire l’anima dalla “Divina frenesia”
35
. E se per i Greci la follia è in
agguato contro chi tenta d’elevarsi dalla noia del quotidiano, i Romani non
sono da meno: secondo l’austero Seneca non esiste al mondo un ingegno
brillante senza un pizzico di pazzia
36
. Nel Medioevo l’idea che chi non è un
po’ pazzo non sbircia nell’oltremondano ha grande fortuna, grazie a Marsilio
Ficino e agli altri innumerevoli commentatori di Platone che diffondono
33
Cfr. F. Basaglia, Il mondo dell’incomprensibile schizofrenico, in Id., Scritti, Einaudi, Torino
1981. Basaglia rifiuta l’interpretazione psicopatologica dell’opera d’arte perché se l’artista è in
grado di rielaborare e mettere in forma estetica un’intuizione, il malato è capace solo
d’intuizione pura, immanente al suo mondo.
34
P. Azzone, Melanconia e tristizia, in Id. Relazione per giornata di studi “Psiche e anima”,
Ospedale Niguarda, Milano 2003, pag. 3.
35
Cfr. Platone, Fedro, Cuem, Milano 2006; F. Cioffi, G. Luppi, A. Vigorelli, E. Zanette,
Platone, in Id., Corso di filosofia, Mondadori, Milano 1997.
36
Cfr. L. A. Seneca, De tranquillitate animi, XVII, Paideia, Firenze 1972.
20
ovunque la dottrina dei furores e della divina mania 37. L’amore per la bellezza
e per la conoscenza è dunque un desiderio spasmodico che tormenta chi si
ostina a guardare “oltre”: per i neoplatonici, come la vista di un bel corpo
suscita desiderio, così la ricerca del bello provoca agitazione, sconvolgimento,
follia. La pazzia non è ancora una malattia nel senso moderno del termine: la
medicina deve vedersela ancora con la legittima ispirazione artistica o con il
rapimento sensuale dei mistici medievali, con le molte “estasi” visionarie che
costellano i curricula dei santi. Ma nel Cinquecento l’Europa compie un brusco
balzo in avanti nell’economia e una gran voglia di razionalità investe gli
intellettuali: arriva l’Umanesimo. Il “genio pazzo” perde il posto e la fanciulla
di Dürer stringe l’inutile compasso, svelata e colpevole per le sue visioni:
rimane lì a consumarsi in un angolo del quadro.
Sono forse un po’ melanconici, chi più e chi meno, gli uomini che nel
Cinquecento elaborano il metodo scientifico, ovvero quel modo limpido e
consequenziale di pensare che usiamo tuttora per avvicinarci alla verità. E
medicina e psichiatria sono di certo le figlie legittime di quel metodo. Giordano
Bruno e Galileo Galilei, nella penombra dei loro laboratori, cercano
l’impossibile sintesi tra razionale e irrazionale; come i vecchi maghi,
mescolano alchimia e chimica e confondono spesso l’astronomia con
l’astrologia, prima di pestare i piedi al Potere e finire per abiurare o sul rogo: al
loro tempo si può ancora passare per la porta aperta da Platone tra ragione e
follia. Ma i cardini già scricchiolano, le scienze si stanno rapidamente
formalizzando: la pazzia non ha più il volto ieratico di Apollo, dio greco della
bellezza, ma quello mostruoso di Kaos, nume tutelare di chi non riesce ad
organizzare il disordine e, vinto, vi si abbandona. Nel 1509, pochi anni prima
che Dürer metta mano alla sua Melanconia, Erasmo da Rotterdam immagina
Follia che tiene un comizio ai suoi fedeli e spiega che il comportamento
dell’uomo non è che una sequela ininterrotta d’assurdità, simile al balbettio di
un matto
38
. Erasmo dedica la sua opera all’amico Thomas More, alquanto
37
Cfr. M. Ficino, Lettera a Pellegrino Agli, 1457.
38
Cfr. E. da Rotterdam, Elogio della Follia, Einaudi, Torino 2005.
21
melanconico secondo la tradizione, che è uno degli ultimi a fuggire per la porta
socchiusa tra ragione e follia, dopo aver nel 1516 raccontato una magica città
che non c’è, dove tutti vivono in pace 39.
È in pieno svolgimento un processo confuso che porterà ad identificare
nella ragione il “bene” e a condannare per sempre la sragione e la follia in
quanto rappresentanti del “male” assoluto. È un’epoca bizzarra in cui
l’umanista napoletano Giambattista Della Porta deplora la superstizione
popolare e intanto scrive un trattato in cui cani parlanti enunciano teoremi di
chimica
40
. La follia si agita sotto la lente, ribelle alle classificazioni che la
ingabbieranno nei secoli successivi: Della Porta accosta osservazioni botaniche
ineccepibili alla ricetta per fare l’unguento delle streghe, ottimo per volare e di
duraturo successo, visto che lo userà qualche secolo dopo anche la protagonista
de Il Maestro e Margherita per esperimenti esoterici notturni 41.
Del resto le donne che volano e hanno rapporti abituali con il demonio
sono candidate ideali per un soggiorno in manicomio
42
: ne volano molte nel
Malleus Maleficarum, manuale per inquisitori zeppo di suggestive visioni 43. Il
famigerato “martello delle streghe”, scritto nel primo Quattrocento da
autorevoli teologi domenicani, fu ritenuto a lungo degno di fede e manifesta la
diffusa tradizione secondo cui la sragione è donna. La natura sessuofobica
dell’istituzione manicomiale è presente del resto fin dal suo esordio e
raggiungerà il parossismo quattro secoli dopo, quando nell’Ottocento esploderà
la “moda” dell’isteria, male misterioso attribuito alla “caducità” congenita delle
donne, che alla fine del secolo scompare senza lasciare traccia.
39
Cfr. T. Moro, L’Utopia, Laterza, Bari 2007.
40
Cfr. G. Della Porta, Magiae Naturalis sive de miraculis rerum naturalium, Napoli 1558.
41
A. Piedimonte, Napoli segreta, Intra Moenia, Napoli 2005, pag. 32; cfr. M. Bulgakov, Il
Maestro e Margherita, Mondadori, Milano 1991.
42
Cfr. V. Fiorino, Matti, indemoniate e vagabondi (cit.).
43
Cfr. J. Spenger, H. Kramer, Malleus Maleficarum, 1484; V. Fiorino, Matti, indemoniate e
vagabondi (cit.).
22
Tra le scienze, quella che studia il pensiero e le sue alterazioni vede la
luce nel bel mezzo di un cono d’ombra. La nuova scienza degli Umanisti
spazza i matti dalle strade e intanto ingloba frammenti di superstizioni e
credenze: in mano agli scienziati finirà per essere spesso uno strumento
spuntato e pericoloso. Ed è molto rischioso fare scienza senza possedere gli
strumenti per distinguere ciò che è vero da ciò che non lo è: Francisco Goya
racconta questo pericolo disegnando una donna addormentata che stringe il
volto tra le braccia per proteggersi dai suoi incubi mentre pipistrelli le
artigliano i capelli, civette dal becco adunco annunciano sventura e gatti
strabici dai grandi occhi la spiano dal buio
44
. Il sonno della ragione, afferma
Goya, spesso genera mostri.
Tra il Cinquecento e il Seicento, racconta Foucault, vengono edificati in
tutta Europa i grandi ospedali generali e al loro interno sorgono spazi dedicati
alla sragione. Sono istituzioni caritatevoli, per lo più d’ispirazione religiosa, in
cui il percorso terapeutico degli internati si confonde con la routine della
prigione comune. La necessità di tenere i matti in uno spazio controllabile e le
modalità di cura della follia finiscono per sovrapporsi, tanto che presto l’una
sarà ritenuta propedeutica alle altre. Le innovazioni introdotte nel tempo, come
la cartella clinica personale che consente interventi tempestivi ed efficaci,
finiscono spesso per creare drammatici paradossi: il malato, nota Basaglia
secoli dopo, reso sempre più simile ad un oggetto nel tentativo di dare un nome
al suo male, finisce per trasformarsi nel numero che identifica la sua cartella 45.
La branca della medicina che si occupa della cura dei matti negli
ospedali, per la “psichiatria manicomiale” bisognerà attendere il secolo dei
Lumi, procede fin dal debutto per conto proprio, si distacca dal corpus delle
altre discipline sanitarie e diventare pericolosamente autoreferenziale, dalle
accademie in cui si studia ai manicomi dove è applicata
46
. L’esercizio della
44
F. Goya, Il sonno della ragione genera mostri, acquaforte, 1797, Museo del Prado, Madrid.
45
Cfr. F. Basaglia, L’utopia della realtà (cit.).
46
Cfr. T. Losavio, lezioni di Psicologia Generale, tenute presso la Facoltà di Lettere
dell’Università La Sapienza, Roma 2007.
23
dottrina si traduce così nel mero contenimento forzato degli eccessi violenti dei
folli: fino alla metà del secolo scorso sono scarsamente battute le strade
alternative, come le terapie a base di musica e arte che i medici musulmani già
somministravano ai pazzi del Califfato di Cordoba, prima della reconquista
cristiana del 1492.
1.2.3
UN NODO ANTROPOFENOMENOLOGICO
Se le scienze moderne emergono dal calderone di un sabba in cui
razionale e magico ribollono e si mescolano, è inevitabile che i medici dei
pazzi prendano per sintomi di malattia alcuni comportamenti simbolici, modi
tradizionali e stereotipati di esprimere il disagio e il dolore. Nelle
classificazioni nosologiche, insieme alle patologie ascrivibili ad un danno
neurologico come l’epilessia, finiscono alcune manifestazioni della cultura
comune degenerate in ossessioni, come la possessione demoniaca. Al suo
esordio
la
scienza
medica
non
possiede
i
moderni
strumenti
antropofenomenologici che gli consentono di distinguere il sintomo del male
dal contesto culturale che influenza il comportamento sociale del malato: solo
ora, leggendo le cartelle cliniche del manicomio con la lente dell’antropologia,
è possibile sciogliere il nodo tra malattia e rappresentazione della sofferenza
attraverso l’utilizzo rituale del corpo 47.
Da questa lettura della storia della follia emerge un potenziale “conflitto
di competenze” tra psichiatri, antropologi e psicologi sociali. Nel Novecento lo
capisce Ernesto De Martino, decano degli antropologi italiani, alle prese con le
tarantolate salentine. Nel sud della Puglia le donne morse dalla tarantola
soffrono di forte anemia, hanno difficoltà ad articolare pensieri e parole e
cadono nel delirio e nel torpore. Radunate una volta l’anno in un luogo sacro,
danzano per ore in circolo seguendo un ritmo ossessivo, cadono in trance, si
47
Cfr. V. Fiorino, Matti, indemoniate e vagabondi (cit.).
24
gettano a terra con la bava alla bocca, contraggono i muscoli come colte da una
crisi epilettica. E miracolosamente guariscono. De Martino sceglie di lavorare
in équipe con uno psicologo e uno psichiatra e comprende così che alla
guarigione concorre in eguale misura l’elemento rituale, la fede nel rito, e
quello fisiologico, una bella sudata che aiuta a scacciare le tossine 48.
Purtroppo la disposizione multidisciplinare di De Martino è assente nei
manicomi, almeno fino ad epoche molto recenti, e l’etichetta di “matto”
affibbiata in ospedale secondo criteri molto poco scientifici diventa marchio
certificato, garanzia di emarginazione. Basaglia parla a proposito di “pensiero
dereistico” proprio della follia e del delirio, ma anche del sogno e del
simbolismo, come di un personale modo di interpretare la realtà prescindendo
dall’oggettività condivisa che è sistematicamente espulso dalla modernità 49. Il
risultato di questo sradicamento è una psichiatria che si limita a classificare il
folle, senza riflettere sui meccanismi che lo distaccano e lo escludono dal
mondo: “l’alterità nasce da ciò che il sapere esclude, da come taglia la
convivenza sociale imponendo etichette di normalità”
50
. Sulla porta del
manicomio finisce l’umanità perché termina la realtà.
Ci sembra che il reale, come noi lo intendiamo, sia ben lontano
dall’essere sempre sinonimo di realtà esterna, poiché per la diversa
Weltanschauung individuale esiste nell’uomo un modo diverso di viverla
e di patirla, così che, per comprenderlo, è necessario innanzi tutto
avvicinarsi alla sua umanità 51.
Ma quando la scienza, spiega Foucault, rinuncia a spiegare le diverse
modalità d’essere dell’umano e le riduce ad una sterile sequela di
classificazioni nosologiche, il luogo di cura della follia si trasforma
48
Cfr. E. De Martino, La terra del rimorso, Il Saggiatore, Milano 2002.
49
F. Basaglia, F. O. Basaglia, In tema di pensiero dereistico, in Id. Scritti (cit.), pag. 143.
50
Cfr. M. Colucci, P. Di Vittorio, Franco Basaglia (cit.).
51
F. Basaglia, F. O. Basaglia, In tema di pensiero dereistico (cit.), pag. 113.
25
inevitabilmente in qualcos’altro
52
. I matti, insensati e pericolosi, sono allora
consegnati alle carceri: diventano enigmi spaventosi, come “punti di domanda
senza frase” 53.
52
Cfr. M. Foucault, Storia della follia nell’Età Classica (cit.), pag. 52.
53
Cfr. S. Cristicchi, Ti regalerò una rosa, in Id. Dall’altra parte del cancello, Sony Bmg
Ariola, Italia 2007.
26
1.3 IL MANICOMIO DI ROMA
Ospizi e ospedali tra il Cinquecento e l’inizio del Novecento
L’esser pazzo si intende che faccia pazzie formali, come di dare e di gridare di
continuo e senza causa, buttar via robba o simili, e non di ogni poco di
perturbatione di mente, come di essere un poco scemo o di parlare alle volte allo
sproposito, perché l’ospedale deve ricevere quelli che non possono stare altrove
senza gran danno al prossimo.
Card. FRANCESCO BARBERINI, Regole Barberiniane, 1653
1.3.1
ISTITUZIONE TOTALE
Manicomi, carceri, conventi di clausura, collegi, campi di prigionia e
case di correzione sono istituzioni totali: come spugne assorbono la personalità
di chi vi entra e lasciano intorno un guscio vuoto. La società moderna, nata da
una frattura culturale apertasi tra il Quattrocento e il Cinquecento, ha bisogno
di questi luoghi per disinnescare la pericolosa carica anarchica dei “devianti
dalla norma” che, con il tempo, potrebbe far saltare l’intero sistema 54.
I primi manicomi d’Europa sorgono nei vecchi lebbrosari, abbandonati
dopo la scomparsa della malattia. Lì i pazzi diventano facile capro espiatorio
per sventure universali: il loro male, come la lebbra, la scrofola o il vaiolo nel
Medioevo, più che una malattia è un marchio diabolico, il segno inconfutabile
della “colpa”. Si trasmette così alla malattia mentale la carica simbolica del
contagio che fa la pelle dell’uomo ripugnante e spaventosa, quella che nel
Medioevo i sovrani regnanti per diritto divino guarivano con il solo tocco
54
M. Foucault, Storia della follia nell’Età Classica (cit.), pag. 51.
55
Cfr. M. Bloch, I re taumaturghi, Einaudi, Torino 2005.
55
.
27
“Colpa morale” e malattia del resto sono concetti intrecciati per gli occhi
cristiani e borghesi dell’Europa: sarà la sifilide, malattia venerea che si contrae
a causa della disinvolta vita sessuale, a raccogliere l’eredità della lebbra
nell’era moderna; è l’Aids a succedergli oggi.
Il manicomio, dunque, sarebbe un “cerchio magico” entro il quale
praticare un esorcismo: la società vi confina il male che ha espulso da sé,
ponendolo sotto chiave. In effetti, quella che Foucault ha sotto gli occhi è la
storia di un’istituzione totale che ha smarrito la sua funzione terapeutica e si è
trasformata in una macchina che tramuta gli uomini in numeri: i giorni tutti
uguali di un internato somigliano a quelli del deportato nel campo di
concentramento e l’ambiente del manicomio ricorda parecchio quello narrato
da Primo Levi.
Si immagini ora un uomo a cui, insieme alle persone amate, vengano tolti
la sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto
quanto possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno,
dimentico di dignità e discernimento, poiché accade facilmente, a chi ha
perso tutto, di perdere se stesso 56.
Visitare oggi i padiglioni di un manicomio o sfogliare qualcuna delle
cartelle cliniche conservate negli sterminati archivi è un’esperienza che non
lascia indifferenti. La sensazione avvertita, acuta, è di sdegno, di collera contro
un’ingiustizia abnorme, che non si sa bene contro chi indirizzare: forse è per
questa carica emotiva così intensa che due tra i testi che riflettono
sull’alienazione degli internati, l’uno dello psichiatra Franco Basaglia, l’altro
del suo collega Franz Fanon, sono stati libri chiave, veri e propri best sellers
del Sessantotto 57.
56
P. Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino 2003, pag. 23.
57
Cfr. F. Basaglia, L’istituzione negata, Einaudi, Torino 1968; F. Fanon, I dannati della terra,
Comunità, Torino 2000.
28
A lasciarsi trasportare tuttavia, c’è da confondere la causa con i suoi
effetti: ritenere il manicomio esclusivamente il prodotto della pressione sociale
è riduttivo quanto per un medico confondere la persona malata con la sua
cartella clinica. Se infatti è vero che nella gestione del manicomio intervengono
spesso le forze di polizia, incaricate dalla società di mantenere lo status quo, è
soprattutto il pensiero scientifico accademico che decide sempre più nel tempo
che la malattia mentale non può essere curata, per cui chi ne soffre può al
massimo essere tenuto in un inutile deposito, molto simile ad un brutto carcere.
Leggendo le cartelle cliniche ci si accorge che la stragrande maggioranza degli
internati appartiene alla classe proletaria e sottoproletaria
58
; il manicomio
sarebbe allora un luogo dove i ricchi confinano i poveri potenzialmente
pericolosi per conservare il potere su “un mondo scisso in due, in cui lo
spartiacque è indicato dai commissariati di polizia” 59.
Tuttavia è allo stesso modo vero che i primi ospedali psichiatrici nascono
all’interno di un grande e sincero programma filantropico, che vuole strappare i
malati di mente dalle mani insicure della Provvidenza per affidarli a quelle
della Scienza. Dalla visita ad un manicomio, insomma, si esce con più
domande di quando si è entrati: quello di Roma, che è stato uno dei più grandi
d’Europa, non fa eccezione.
1.3.2
L’OSPEDALE DEI PAZZERELLI A PIAZZA COLONNA
Nel 1534 i lanzichenecchi di Carlo
V
hanno smontato i bivacchi da ben
sette anni ma il loro saccheggio ha spezzato l’economia: Roma è diventata una
città di pezzenti e criminali. Su di essi regna papa Paolo
III,
al secolo
Alessandro Farnese: appena cinta la tiara ha commissionato il Giudizio
Universale a Michelangelo e dilapidato una fortuna per raddrizzare le vie e
sistemare le mille chiese della Capitale, più o meno così come le si vede oggi.
58
Cfr. V. Fiorino, Matti, indemoniate e vagabondi (cit.).
59
Cfr. F. Fanon, I dannati della terra (cit.), pag. 31.
29
Il papa Farnese è litigioso, amante dell’arte, piuttosto incline al nepotismo e
molto amato dall’aristocrazia capitolina; la città è lo specchio della sua corte: i
nobili si uccidono a vicenda negli agguati notturni mentre il popolino si
consola con il vino e con il carnevale. In quello stesso anno, oltre le Alpi,
Martin Lutero finisce di tradurre la Bibbia in tedesco e la utilizza come un
piccone contro la “fabbrica di san Pietro”, il babelico cantiere della basilica che
il pontefice e la sua corte dissoluta stanno finanziando con la vendita delle
indulgenze.
Preoccupato, Paolo
III
tenta di recuperare un po’ dell’egemonia morale
perduta: nel 1540 approva la regola della Compagnia di Gesù, che giura eterna
fedeltà e obbedienza al soglio di Pietro. Il capo del nuovo ordine, Ignazio di
Loyola, è il braccio del riscatto morale: i suoi severissimi Gesuiti in poco
tempo penetrano i gangli vitali del sistema dell’insegnamento, della
rieducazione e della predicazione e riservano grande attenzione a collegi,
carceri e manicomi. Nel 1542 Ignazio istituisce il Tribunale dell’Inquisizione;
gli fa da spalla il cardinale Gian Pietro Carafa, futuro Paolo
IV,
tanto temibile
da diventare l’oscuro “cattivo” di un bel romanzo di “fantastoria” in cui il
radicalizzarsi della nozione di “diverso” è collocato proprio in quest’epoca
tormentata
60
. Tra i luoghi che il Tribunale utilizzerà sovente per sbarazzarsi
degli eretici ci sarà il manicomio che deve ancora sorgere: nel Seicento ci
saranno tra gli “ospiti” alcuni Quaccheri, per i quali l’Inquisizione versa
regolarmente la retta 61.
In quel tempo in Piazza Colonna c’è una piccola chiesa, santa Caterina
dei Funari; oggi sopravvive stretta tra le boutique di lusso e Palazzo Chigi: i
giornalisti che gremiscono la piazza in attesa degli onorevoli sono soliti dargli
le spalle. Nel 1548 il cappellano di Santa Caterina si chiama Ferrante Ruiz ed è
amico di due collaboratori d’Ignazio di Loyola, Angelo Bruno e suo figlio
Diego; con loro fonda la Confraternitas Christifidelium Pauperum e inizia a
raccogliere caritatevolmente nel vicino convento di Santa Caterina delle
60
Cfr. L. Blissett, Q, Einaudi, Torino 2000.
61
S. Villani, Tremolanti e Papisti, Storia e Letteratura, Roma 1996, pag. 84.
30
Vergini Miserabili tutti i poveri, i pellegrini e i pazzerelli che frequentano quei
vicoli 62.
Pochi mesi dopo Paolo
III
muore. Il successore Giulio
III
esce da un
conclave tutto politico: è un restauratore, tiene alla moralità e apre in pompa
magna la Porta Santa di San Pietro, inaugurando il X Giubileo del 1550. Roma
è invasa da pellegrini bisognosi e l’Ospedale de’ pazzerelli di Ferrante lavora a
pieno regime. Il papa intanto procede sistematicamente ad allargare la base
popolare del consenso al papato: nomina Maestro della Cappella Vaticana
Pierluigi da Palestrina, che semplifica i canti polifonici rendendo finalmente
comprensibili i passaggi della messa ad un numero sterminato di fedeli, mentre
San Filippo Neri inaugura i suoi oratori, dove indottrina alla fede e alla carità i
giovani sbandati romani.
Ma il pontificato di Giulio III è breve e gli succede Paolo IV, il famigerato
Carafa: la sua tendenza ad utilizzare il carcere contro chi turba l’ordine
costituito è tale che, raccontano le cronache, alla sua morte i romani esasperati
assaltano le carceri strapiene di detenuti. Con Carafa la diversità diventa legge:
nel 1555 la bolla Cum nimis absurdus obbliga gli ebrei al confino nel Ghetto di
Roma. Nel 1563 per fortuna c’è un nuovo papa, Pio IV. Affabile e vivace, è un
astuto diplomatico; sotto di lui il ricovero di Piazza Colonna diventa
ufficialmente l’Ospedale di Santa Maria della Pietà de’ poveri pazzerelli.
Grazie a potenti protettori come Carlo Borromeo, il manicomio entra nel
circuito di grandi ospedali, collegi, carceri e case di rieducazione in cui tra il
Cinquecento e il Seicento avviene il “grande internamento”, ovvero la
sistematica esclusione dalla società civile dei devianti dalla norma, studiata da
Michel Foucault 63.
62
Cfr. A.A.V.V., L’Ospedale dei pazzi a Roma dai Papi al ‘900, Dedalo, Bari 1994; A.
Pallotta, B. Tagliacozzi, Scene da un manicomio, Magi, Roma 1998; V. Fiorino, Matti,
indemoniate e vagabondi (cit.); Materiale didattico esposto nel Museo Laboratorio della
Mente, presso l’ex Ospedale psichiatrico Santa Maria della Pietà di Roma.
63
Cfr. M. Foucault, Storia della follia nell’Età Classica (cit.).
31
In pochi anni gli internati passano da meno di quarantotto a più di
centocinquanta: i primi statuti dell’ospedale spuntano nel 1560 e definiscono i
compiti di ricovero e assistenza ai mentecatti, quelli cioè la cui mente è stata
catturata. È attivissimo lo speziale del manicomio che prepara purghe e sedativi
a base d’erbe; quello di prepararsi i medicamenti da sé dunque, è un costume
che l’ospedale porta avanti fino ad epoca recentissima, rafforzando
l’isolamento di un’istituzione completamente chiusa al mondo esterno, persino
per la quotidiana fornitura di medicinali.
Frequente e documentato nel Cinquecento è il ricorso all’esorcismo,
l’unica vera “terapia”, visto che le purghe e i salassi servono a contenere le
crisi più violente più che a curarle. Il “marchio del diavolo” pullula tra gli
internati del Santa Maria della Pietà ed “emerge la concezione che vede nella
possessione diabolica l’origine di ogni malattia della psiche” 64. Il diavolo, del
resto, è presente tanto nella mente dei medici che stilano le diagnosi di pazzia,
quanto in quelle dei pazienti: sono loro stessi spesso a riferire ai sanitari le
fatture e gli influssi malefici di cui sarebbero vittime. Nell’ospedale l’ultima
ratio per gli internati che si agitano troppo è la stanza della paglia: una cella
d’isolamento dove il pazzo furioso, incatenato, può espletare le sue funzioni
fisiologiche direttamente sul pavimento, coperto di paglia. Negli anni Sessanta
del Cinquecento è anche registrata la prima notizia d’ergoterapia, la cura
attraverso il lavoro: le donne del manicomio sono adibite alla filatura della
canapa.
Il 1562 è l’anno di nascita del medico dei pazzi: un sanitario, non più un
religioso, si occupa delle malattie comuni e delle epidemie sempre in agguato
nei locali malsani del manicomio, somministra purghe, salassi e rimedi contro
la follia. Ammissione e dimissione dei malati invece, rimangono saldamente
nelle mani dei religiosi. La vacatio legis su chi è dentro e chi è fuori del resto è
il punto nodale nella storia del manicomio: in questa zona grigia si alternano
medici, poliziotti, giudici, sacerdoti e familiari dei malati, tutti con i loro
64
V. Fiorino, Matti, indemoniate e vagabondi (cit.), pag. 182.
32
particolari interessi, in una “gestione polifonica” che rende l’Ospedale
psichiatrico un luogo in cui è molto facile entrare ma dal quale è difficilissimo
uscire 65.
Alla fine del Cinquecento Roma precipita nel caos della peste: tra
presunti untori e criminali comuni nel manicomio avviene un’escalation di
violenza, disordine e sporcizia, in un clima da Colonna Infame manzoniana 66.
L’otto febbraio del 1600, a pochi passi dal manicomio, il Tribunale
dell’Inquisizione pronuncia la condanna a morte per Giordano Bruno. Intanto,
per evitare il collasso finanziario, l’Ospedale riduce al minimo le costose
terapie del lavoro e si trasforma, definitivamente e ufficialmente, in un carcere.
Nel 1653, sotto il regno di papa Gregorio
XV,
il cardinale Alessandro
Barberini scrive le Regole Barberiniane, che caldeggiano l’uso della frusta e
delle catene. Come si legge nell’incipit di questo capitolo, secondo le Regole il
matto è chiaramente colui che infrange le regole sociali: lo spirito caritatevole
di Ruiz, che si ispirava alla biblica lavanda dei piedi e alla parabola del buon
samaritano, è definitivamente smarrito. Le Regole sono il prodotto di una
svolta concettuale, frutto dello scontro tra Roma e i movimenti protestanti.
“L’attitudine che aveva visto nei poveri, nei vagabondi e nei matti
un’immagine di Cristo”
67
tramonta e i folli diventano coloro che si sono
allontanati dalla benevolenza divina, hanno scelto il peccato e per questo
meritano ostilità e disgusto. Foucault parla a proposito della borghesia cittadina
che emargina la “devianza improduttiva”, mentre si sostituisce all’aristocrazia
nel controllo del Potere 68; inoltre all’idea che la follia sia la conseguenza del
poco lavoro e della poca preghiera non è forse estranea una certa concezione
protestante della predestinazione. Se dunque all’origine del manicomio di
Roma c’è la classica dottrina cristiana delle “opere buone”, a trasformarlo in
65
V. Fiorino, Matti, indemoniate e vagabondi (cit.), pag. 27.
66
Cfr. A. Manzoni, Storia della Colonna Infame, Bur, Milano 2002.
67
V. Fiorino, Matti, indemoniate e vagabondi (cit.), pag. 31.
68
Cfr. M. Foucault, Sorvegliare e punire (cit.).
33
istituzione totale ci pensa la Chiesa uscita dal Concilio di Trento: pragmatica,
realista e spietata. Uno stato moderno.
1.3.3
L’OSPEDALE DEI PAZZI ALLA LUNGARA
Benedetto
XIII
è eletto papa nel 1724; preferirebbe chiamarsi
“quattordicesimo” perché ritiene che il tredici porti sfortuna. È un uomo colto e
austero e vuole recidere la fitta rete d’intrallazzi che lega alti prelati, autorità
cittadine e grandi ordini religiosi e tiene molto al decoro urbano: ha appreso in
Francia le lezioni di magniloquente urbanistica impartite dal Re Sole e non
vuole essere da meno. Il grande cantiere che in pochi anni sconvolge la città
presto lambisce l’Ospedale de’ pazzerelli: la Confraternita che lo gestisce
protesta vivacemente, prova a spiegare al pontefice che il nuovo sito designato
per i folli, la zona della Lungara sulla riva destra del Tevere, è infestato dalla
malaria ed è periodicamente inghiottito dalla piena del fiume e, soprattutto, è
molto lontano dal centro della vita politica ed economica della Capitale. Serve
a poco: nel 1725, mentre si danno gli ultimi ritocchi alla scalinata
monumentale di Piazza di Spagna, sul greto del fiume s’inizia a costruire un
gigantesco ospedale.
Nel
1730
la
Confraternitas
Christifidelium
Pauperum
perde
definitivamente il controllo della follia e l’Ospedale della Lungara entra
nell’orbita del grande Ospedale generale del Santo Spirito. Il Commendatore
del Santo Spirito, scelto personalmente dal papa per amministrare l’intero
sistema sanitario dello Stato, decide di governare la follia “da lontano”: si reca
il meno possibile alla Lungara e fa costruire piccole stanze di contenzione
presso l’Ospedale generale, dove può essere ricoverato chi sragiona un po’ ma
non merita la definitiva “punizione” del manicomio.
Alla Lungara intanto gli internati sono diventati più di cinquecento: le
celle si moltiplicano e rimpiccioliscono, invadendo gli spazi comuni per l’ora
d’aria. I passanti possono deridere i furiosi che sono incatenati nelle celle al
34
pian terreno; dalle stesse sbarre filtra periodicamente l’onda di marea del
Tevere e polmoniti ed epidemie falcidiano i ricoverati. Dunque, se il Santo
Spirito diventa uno dei primi tra i moderni ospedali d’Europa e riflette una
medicina filantropica, scientifica e liberale, il manicomio, per ordine del
Commendatore, si specializza in detenzione e repressione.
Tenendo gli infermi nel primo del loro ingresso sotto una durissima
disciplina, affinché sorpresi e debilitati ancora dalla novità ed asprezza
del trattamento comprendino a poco a poco la miseria del proprio stato,
finché tratti dal desiderio di una migliore condizione giunghino a
pienamente ricuperare quel bene che avevano perduto. Sì fatti rimedi
consistono specialmente nell’angustia del sito, nella solitudine, nella
nudità, nella diminuzione del cibo e in altri corporali castighi 69.
Oggi lungo il Tevere c’è una perenne processione d’automobili,
all’ombra di un filare di platani spogli: il colossale argine umbertino ha
imbrigliato le piene del fiume e ha spazzato via il vecchio manicomio. Si può
provare ad immaginarlo, affacciandosi sulla sponda sinistra all’altezza di
Piazza dell’Oro: appare un vero e proprio “network della repressione”
70
. Ci
sono a destra le segrete di Castel Sant’Angelo, con gli eretici e i nemici
personali del papa, e il ponte dell’Angelo dove vengono decapitati i criminali
comuni; per chi si macchia di reati contro la vera fede c’è invece il rogo in
Piazza Campo de’ Fiori, di poco più a sinistra, tanto per ricordare chi comanda
alla laica comunità francese che s’è installata da quelle parti. Dopo il ponte, al
centro c’è la cupola di San Pietro. A sinistra sorge il grande manicomio e
accanto c’è la casa di correzione femminile, riservata alle fanciulle dai costumi
facili o, molto spesso, a quelle che intralciano l’asse ereditario; oggi vi ha sede
significativamente la Casa Internazionale delle Donne. Poi, sparsi ovunque per
69
A.A.V.V., L’Ospedale dei pazzi a Roma dai Papi al ‘900 (cit.), pag. 84.
70
Cfr. C. Augias, I misteri di Roma, Mondadori, Milano 2005.
35
la città, vi sono collegi, oratori, carceri, conventi: la versione papalina del
“grande internamento”71.
Una volta entrati nel “network” è difficile uscirne perché le diverse
istituzioni sono vasi comunicanti: è facile, ad esempio, finire in carcere perché
si bestemmia e si schiamazza in strada ubriachi, transitare rapidamente per il
Santo Spirito perché si ha una qualche malattia e finire definitivamente in
manicomio. La nuova moralità è del resto “l’onda lunga” del Concilio di
Trento, che ha trasformato i parroci in custodi dell’ortodossia: in
collaborazione con le forze dell’ordine questi sono attivissimi nell’individuare i
pazzi o presunti tali e nel toglierli di mezzo, promuovendo entusiasti decine di
internamenti 72.
1.3.4
MEDICI, PRETI E POLIZIOTTI
Nella seconda metà del Settecento l’ammuffito microcosmo capitolino è
scosso dalle fondamenta: liberté, egalité e fraternité irrompono nell’età
Contemporanea. All’indomani della proclamazione della Repubblica i principi
della Rivoluzione Francese entrano nei grandi manicomi parigini, Bicêtre e
Salpetrière, dove lavora un brillante “medico dei pazzi”, Philip Pinel. Pinel è
convinto che i folli, “lungi dall’essere gente colpevole e degna d’essere
punita”, meritino di più e inizia una sistematica opera di categorizzazione della
malattia mentale, sfoltendo le superstizioni a colpi d’Illuminismo. Il folle non è
più “insensato” ma “alienato”, uno che possiede un briciolo di ragione in
qualche parte della mente sconvolta, con cui il medico può cercare di costruire
una dialettica, una terapia. L’alienista sostituisce il “castiga matti” ed è
convinto che la follia non sia un marchio diabolico ma la naturale conseguenza
dei “dispiaceri” e dei “patemi d’animo” che affliggono soprattutto i poveri, il
71
Cfr. M. Foucault, Storia della follia nell’Età Classica (cit.).
72
Cfr. V. Fiorino, Matti, indemoniate e vagabondi (cit.).
36
“Terzo stato”. Pinel dunque, spezza le catene perché i matti possono guarire.
Ma come?
Con l’arte di soggiogare e di domare, per così dire, l’alienato, ponendolo
sotto la stretta dipendenza di un uomo che, per le sue qualità fisiche e
morali, sia in grado di esercitare su di lui un totale dominio e di spezzare
la catena viziosa delle sue idee 73.
La rivoluzione copernicana di Pinel investe soprattutto chi custodisce i
malati e le condizioni materiali degli internati non cambiano di molto. Il
medico va ora al centro della scena e deve “governare la follia” con il buon
esempio e il carisma personale 74. La grande novità è la “terapia morale”: se il
folle può guarire rientrando nei binari della normalità, solo momentaneamente
sconvolta, il buon esempio e l’autorità possono e debbono recuperarlo. Per il
personale del manicomio diventa importante il comportamento degli internati,
il loro attenersi alle regole del buon costume e del vivere civile e, nello Stato
Pontificio, all’ardore che i pazzi mettono nei loro sacri doveri. Molto presto la
terapia morale sfugge alle buone intenzioni del suo creatore e diventa un
boomerang che rafforza il concetto di “colpa” legato alla malattia mentale.
Quando Pinel liberò i folli dalle prigioni, restituendo loro la dignità della
malattia di cui soffrivano, non ha fatto altro che spostarli in una nuova
prigione in cui l’inferiorità morale del recluso era scientificamente sancita
e
la
reclusione
scientificamente
giustificata.
Ciò
senza
che
l’atteggiamento generale della società nei confronti del folle mutasse
minimamente 75.
73
P. Pinel, La mania, trattatati medico filosofico sull’alienazione mentale, Marsilio, Venezia
1987, pag. 55.
74
Cfr. V. Fiorino, Matti, indemoniate e vagabondi (cit.).
75
F. Basaglia, La soluzione finale, in Id. L’utopia della realtà (cit.), pag. 123.
37
A Roma l’alienismo arriva negli zaini dei soldati di Napoleone,
impegnati in un esemplare progetto di “esportazione della democrazia” con le
armi. Nel 1809 all’Ospedale della Lungara appare il primo elenco degli
internati, con tanto d’annotazioni psicopatologiche e distinzione tra curabili e
incurabili. L’anno dopo il Codice Napoleonico è esteso a tutto l’Impero e dà
alla questura il potere di trasferire un “fermato” direttamente in manicomio: tra
posti di polizia e ospedale psichiatrico si apre una “corsia preferenziale” che
funzionerà fino agli anni Settanta del secolo scorso. Con i Francesi, racconta il
marchese Onofrio del Grillo, “Roma è diventata ‘na città di cupole, gatti,
mendicanti e streghe”
76
, dove funzionari del governo d’occupazione e nobili
decaduti si spartiscono il potere con la miseria, la superstizione, i bari e i
briganti. Il nuovo Codice piomba su una quotidianità di corruzione e
connivenze e diventa lo strumento ideale per risolvere le questioni personali di
signori e signorotti: se è facile finire in guardina per ordine della “ronda”, è
altrettanto facile finire in manicomio “per punizione”.
L’esecuzione di Gioacchino Murat nel 1815 e il ritorno del papa a Roma
non fermano la nuova psichiatria manicomiale: nel 1829 l’amministrazione
dell’Ospedale della Lungara è restituita al clero ma nei fatti i medici non
mollano la gestione della follia. Nel 1850, mentre nelle piazze europee i
cittadini fanno a pezzi ciò che resta dell’Ancien Régime, l’alienista Giovanni
Gualandi diventa direttore del manicomio di Roma. È il figlio del celebre
Domenico che nel 1819 ha inventato la moderna cartella clinica prestampata: la
prima iniziativa di Giovanni è il nuovo Regolamento interno, che affida la
direzione sanitaria dell’Ospedale ad un medico direttore. È quello che sta
accadendo un po’ in tutta Europa, perchè “è di supremo interesse che in
manicomio vi sia una figura che tutto vede e che a tutto provveda (…), un
direttore il quale consideri il manicomio la propria casa e i ricoverati come una
famiglia” 77. Gualandi classifica i malati in base alla manifestazione visibile del
76
M. Monicelli, Il Marchese del Grillo, Cines, Italia 1981.
77
A. Verga, Il manicomio e la famiglia, in Id. Archivio italiano per le malattie nervose, vol.
XVI, 1879, pag. 360.
38
loro male e li divide in “tranquilli”, “sudici” e “agitati”, concentrandoli in aree
diverse dell’ospedale; dispone trattamenti che comprendono esercizio fisico ed
ergoterapia, da farsi possibilmente all’aperto e in base all’attività svolta dal
paziente quando era fuori. Introduce anche la distinzione di censo: chi può
permettersi di pagare una retta mensile è alloggiato nei nuovi locali, meno
malsani, che sorgono sulla vicina collina del Gianicolo.
La reazione del clero è furibonda: nel 1860 Gualandi è allontanato e
sostituito da Benedetto Viale Prelà, medico personale di Pio XI. Lo scontro tra
Gualandi e l’autorità ecclesiastica sarà replicato nel secolo scorso da Franco
Basaglia e dallo Stato italiano: come Basaglia, uno dei nodi che Gualandi vuole
sciogliere è quello delle ammissioni, che clero e polizia tengono e terranno
bene strette. Chi entra in manicomio dunque, lo fa ancora in base a criteri poco
scientifici. Su uno dei pesanti registri dell’ospedale, in data 6 novembre 1863,
c’è scritto che Riccardo F., sacerdote, è ammesso in manicomio con diagnosi di
“lipemania con errore dell’intelletto”; alla voce “cause” è barrata la casella
“morali”, nel rigo riservato alle note nosologiche c’è scritto “idee politiche” 78.
La restaurazione non regge alle cannonate del generale Cadorna: nel
1870 un cagnolino che traina un carretto carico di Bibbie protestanti, la
mascotte dei bersaglieri, passa per le rovine di Porta Pia e calpesta il sacro
suolo dell’Urbe. E la psichiatria italiana è travolta da un’altra nouvelle vague:
l’organicismo. Nel 1873 a Roma, al
X
Congresso Nazionale degli Scienziati,
nasce la Società Freniatrica Italiana: la scelta del nome, “freniatria” piuttosto
che psichiatria, rivela la preferenza per “un termine che non presentasse
connotazioni di carattere spiritualistico e psicologistico, che sottolineasse un
approccio materialistico” 79. È il freniatra Carlo Livi a spiegare chiaramente nel
numero introduttivo della neonata Rivista sperimentale di freniatria che le
malattie prima definite genericamente “mentali” ora sono situate senza fallo nel
cervello e, come tali, sono solo disfunzioni più o meno gravi di un sistema
78
Cfr. Museo Laboratorio della Mente, presso l’ex Ospedale psichiatrico Santa Maria della
Pietà, Roma.
79
V. Fiorino, Matti, indemoniate e vagabondi (cit.), pag. 66.
39
d’organi
80
. Classificare le patologie, individuare le lesioni cerebrali e le
alterazioni organiche, diventa più importante di sorvegliare il comportamento
morale: la psichiatria manicomiale inizia ad avvolgersi nella spirale che,
secondo Basaglia, segnerà il suo fallimento. Ora il matto è la sua malattia e,
dato che la lesione del sistema nervoso è senza ritorno, non si può curarlo.
La psichiatria innamorata di se stessa e quindi della malattia come
un’entità astratta da essa partorita, ha continuato ad elaborare le sue
interpretazioni ideologiche senza preoccuparsi di trovare una smentita o
una verifica nella realtà. Del resto se il malato dimostrava di smentire in
qualche modo l’etichettamento era sufficiente ampliare la gamma delle
classificazioni, includendo una nuova definizione, un nuovo sintomo 81.
Accanto alla freniatria il pensiero positivista produce l’antropologia
criminale, che collega l’indole e gli atti di un individuo direttamente al suo
aspetto fisico. Il nume tutelare della nuova scienza, Cesare Lombroso, è
convinto che mente e corpo siano legati da lacci indisdricabili 82. I lombrosiani
ai patemi e agli scrupoli degli alienisti preferiscono i segni, le deformazioni di
volto e corpo che denunciano inequivocabilmente l’indole criminale, la
stoltezza e la pazzia: il “marchio del diavolo” è tornato.
Il Parlamento dell’Italia unita celebra il matrimonio tra freniatria e
antropologia criminale nel 1904. La legge sugli ospedali psichiatrici vede la
luce dopo un lungo travaglio, assistita da medici parlamentari ferventi
sostenitori della freniatria e della medicina forense, come Verga, Bonfigli e
Bianchi: condanna al manicomio i “soggetti socialmente pericolosi” e chi è “di
pubblico scandalo” e chi varca la soglia dell’ospedale perde i diritti civili ed è
iscritto al casellario giudiziario, pur senza aver commesso alcun reato. Più che
80
Cfr. C. Livi, Rivista sperimentale di freniatria e di medicina legale in relazione con
l'antropologia e le scienze giuridiche e sociali, Vol I, Reggio Emilia 1875.
81
F. Basaglia, Crisi istituzionale o crisi psichiatrica?, in Id. L’utopia della realtà (cit.), pag.
117.
82
Cfr. C. Lombroso, Delitto, genio, follia, Bollati Boringhieri, Torino 2000.
40
la sanità, la nuova legge regolamenta la morale pubblica di un’Italia borghese e
bigotta, prestandosi a brutali discriminazioni di classe e di genere: come infatti
finiscono in manicomio i pazzi poveri, perché i ricchi possono permettersi le
costose cliniche private dotate di tutti i comfort, così prostitute, adultere o
semplicemente donne per qualche motivo indesiderate dalle proprie famiglie,
prendono la strada dell’ospedale psichiatrico molto più facilmente degli
omologhi maschi. Il manicomio allora diventa come la faccia nascosta della
Luna, il volto da nascondere del “contratto sociale” incrinato.
La società in cui viviamo (e di cui facciamo parte) tende a difendere il
cittadino da tutto ciò che può turbare il fragile equilibrio in cui si muove.
Ma dal momento in cui cade nella malattia mentale essa non riconosce
più alcuna responsabilità nei suoi confronti. Lo stesso cittadino per la cui
tutela si batteva perde d’un tratto ai suoi occhi ogni diritto ad essere
difeso, entrando a far parte della schiera di coloro da cui la società vuole
essere protetta 83.
Dentro, il personale è prigioniero di un paradosso che svuota di senso la
sua funzione medica: il potere e l’autorità che gli servono per mantenere il
controllo degli internati si traducono in una “presa di distanza” dal malato che
impedisce qualsiasi tentativo di cura 84. Prigioniero dei regolamenti, chi lavora
in manicomio è bloccato nell’impossibilità di provare a modificare lo status dei
pazienti perché ogni infrazione al codice interno è anche la violazione di una
legge dello Stato, un venir meno al ruolo di pubblico ufficiale che è stato
delegato a medici e infermieri dalla società.
Lo psichiatra agisce nella doppia delega di uomo di scienza e di tutore
dell’ordine. Ma i due ruoli sono in contraddizione, dato che l’uomo di
83
84
F. Basaglia, Un problema di psichiatria istituzionale (cit.), pag. 44.
Cfr. M. G. Giannichedda, Franco Basaglia e l’impresa della sua vita, in F. Basaglia,
L’utopia della realtà (cit.).
41
scienza dovrebbe curare l’uomo malato, mentre il tutore dell’ordine tende
a salvaguardare e difendere l’uomo sano 85.
Secondo la legge, un magistrato deve sottoscrivere la richiesta
d’internamento in manicomio proposta dalla questura; tuttavia la prassi della
“procedura d’urgenza” lascia ampia libertà d’agire anche ai gradi più bassi
delle forze di polizia. Per uscire dal manicomio invece, dopo che il medico ha
dichiarato la guarigione, serve il nulla osta della questura e qualcuno che
volontariamente firmi una “presa in carico” del malato, scaricando il personale
dell’ospedale da ogni responsabilità. Molti tra i “socialmente pericolosi” che
affollano il manicomio, più che malati nel cervello, sono sbandati, male inseriti
nella società, con una spiccata tendenza alla piccola delinquenza; raramente
hanno qualcuno che firmi per loro e, spesso, rimangono dentro per sempre.
Travolto da una valanga di ricoveri favoriti dalla nuova legge il già
sovraffollato ospedale della Lungara rischia di esplodere: nel 1909 s’inizia a
costruire il nuovo Ospedale psichiatrico Santa Maria della Pietà sulla collina di
Monte Mario, all’epoca molto lontana dai primi palazzi della città. Nel periodo
fascista, quando abbondano le procedure d’internamento per i dissidenti
politici, l’Ospedale assume dimensioni enormi, anche perché si allarga il
ventaglio delle patologie “da manicomio”. Il Ventennio mal tollera “malattie”
come l’inettitudine e l’omosessualità: ai regimi totalitari del Novecento si deve
un contributo fondamentale nel ridefinire il concetto di devianza. Mentre infatti
a Roma il Santa Maria della Pietà cresce a dismisura, in Germania i gerarchi
nazisti prendono i manicomi a modello istituzionale per organizzare i lager: i
primi a mettere piede nei campi di sterminio sono proprio i malati di mente,
rastrellati negli ospedali locali 86.
Con la Liberazione, l’internamento di massa resta un trend consolidato e
nel 1963 il manicomio di Roma raggiunge il suo record di presenze, 2471
85
86
F. Basaglia, La maggioranza deviante, in Id. L’utopia della realtà (cit.), pag. 201.
A.A.V.V., In memoriam, esposizione presso la Biblioteca A. Cencelli, ex Ospedale
psichiatrico Santa Maria della Pietà, Roma 2006.
42
ricoverati. Sulla collina di Monte Mario si trasferiscono in massa i familiari
delle centinaia di persone che lavorano nel manicomio: in pochi anni alle spalle
dell’Ospedale nasce un quartiere. Ben saldo sulle sue basi giuridiche, il
manicomio è diventato una macchina seriale che inghiotte migliaia di persone,
ogni anno e nella piena legalità: come afferma Alexis de Tocqueville, reduce
da un viaggio negli Stati Uniti d’America, esistono ottimi sistemi per
distruggere un uomo, restando nel pieno rispetto dei diritti umani 87.
87
A. de Tocqueville, La democrazia in America, Einaudi, Torino 2006, pag. 76.
43
2. IL TEATRO DELLA FOLLIA
Storie di manicomio
44
2.1 LA RECITA
Luoghi e persone del Santa Maria della Pietà
Tavole anatomiche da saccheggiare, corpo perfetto, corpo immortale: il corpo è
la frontiera che si può violare. Santi burocrati, sangue ed ipocriti: la vita spesso è
una discarica di sogni. Che sembra un film, dove tutto è deciso.
SAMUEL ROMANO (SUBSONICA), Corpo a corpo
2.1.1
PALCOSCENICO
Il palco del manicomio è la sorveglianza. È una grande stanza
rettangolare, intonacata a calce; c’è n’è una in ogni padiglione e vi finiscono
tutti i bracci laterali, con i dormitori e le celle di contenzione. Al posto delle
assi incatramate su cui schioccano i tacchi degli attori ci sono piccole tessere di
maiolica azzurra, come quelle delle piscine: le grandi scarpe di legno degli
internati vi scivolano silenziose, senza scalfirle. L’angolo tra pavimento e
parete è concavo, senza spigoli, così è più facile pulire con il disinfettante. Le
finestre non hanno maniglia e le due porte successive che portano al giardino
sono chiuse: serve la chiave tozza dalla testa tonda che sta appesa alla cintura
dell’infermiere. La chiave è una, le porte si aprono solo una alla volta 88.
Nella sorveglianza il tempo è circolare: non lo scandiscono i fogli del
calendario ma il ruotare dell’orologio marcatempo, che dice agli infermieri
quando è l’ora di cambiare guardia. È difficile manometterlo, perché sta chiuso
88
Cfr. Museo Laboratorio della Mente, ricostruzione di una sorveglianza, presso l’ex Ospedale
Psichiatrico Santa Maria della Pietà, Roma; A. Pallotta, B. Tagliacozzi, Scene da un
manicomio (cit.); altre notizie sono tratte dalle interviste realizzate con il personale dell’ex
manicomio di Roma per questa tesi di Laurea nel 2006-2007.
45
in un armadietto metallico. Nel padiglione ci sono chiavi, orologi e poco altro:
c’è la vacchetta, il “diario di bordo” degli infermieri, dove si segna ciò che
succede durante il turno e che, quando qualcuno sbaglia, è utilizzata dalla
Direzione per decidere le sanzioni; c’è il corno, appeso alla cintura accanto alle
chiavi, per chiamare aiuto. Ci sono le fasce di contenzione per legare i furiosi
al letto e le camicie di forza.
Gli strumenti del potere non sono poi molti. Sono però più di quelli che
maneggiano gli internati, che per Regolamento non possono detenere nulla,
salvo le centinaia di sigarette scroccate che spengono sul pavimento della
sorveglianza. Alcuni tra gli infermieri, pochi in verità, non si sono arresi al
Regolamento, manomettono l’orologio e non si fanno scrupolo nel falsificare la
vacchetta: Franco Basaglia punterà su di loro per distruggere i simboli
dell’istituzione totale 89.
Nella sorveglianza il tempo riparte sempre da zero: ogni tanto è il giorno
della terapia, più di rado c’è taglio collettivo della barba, delle unghie e dei
capelli. Le giornate si consumano in attesa di qualcosa che non accade mai.
Ho forse dormito mentre gli altri dormivano? Sto forse dormendo in
questo momento? Domani, quando mi sembrerà di svegliarmi, che dirò di
questa giornata? Che con il mio amico Estragone, in questo luogo fino al
cader della notte, ho aspettato Godot? Certamente. Ma in tutto questo
quanto ci sarà di vero? Abbiamo il tempo di invecchiare. L’aria risuona
delle nostre grida. Ma l’abitudine è una gran sordina. Anche per me c’è
un altro che mi sta a guardare, pensando. Dorme, non sa niente,
lasciamolo dormire 90.
Gli internati camminano avanti e indietro nella sorveglianza, dondolano
la testa, sonnecchiano sulle panche, s’azzuffano per un mozzicone. Sembra una
scena di Beckett, con marionette animate che se ne stanno sospese
89
Cfr. F. Basaglia, Crimini di pace, in Id. Scritti (cit.).
90
S. Beckett, Aspettando Godot, Atto I, Einaudi, Torino 2003, pag. 106-107.
46
nell’inconcludenza, incapaci di decifrare la realtà. In manicomio ognuno
interpreta un ruolo che non è suo: gli infermieri fanno i secondini, gli internati
fanno i “matti”, per come ci si aspetta di vederli muoversi e biascicare qualche
parola nei corridoi dell’ospedale. E se ad immaginare un dialogo val bene il
teatro dell’assurdo, a vedere i personaggi tutti insieme sul palco sembra di
assistere ad una farsa pirandelliana, in cui tutti indossano una maschera e non
riescono a sfuggire ad un meccanismo colossale. Ma tra le creature di
Pirandello il matto non è Vitangelo Moscarda, che ne fa di tutti i colori perché
ha scoperto che la personalità è un inganno; piuttosto è il triste Ciampa, che
tiene a bada la “corda pazza” per salvare il decoro e non grida e non sbraita
anche se ne avrebbe una gran voglia 91.
Il manicomio distribuisce ruoli convenzionali e, con coercizione e
violenza, si assicura che siano eseguiti fino in fondo al copione. Se gli internati
non si trasformano rapidamente in “buoni malati”, docili alle regole e alla
routine dell’ospedale, l’istituzione stessa rischia di crollare, perchè “Il
manicomio ha la sua ragion d’essere nel fatto che fa diventare razionale
l’irrazionale: quando uno è folle ed entra in manicomio smette di essere folle
per trasformarsi in malato” 92. E il malato, come a teatro, è un “carattere”, uno
stereotipo.
Il malato soffre della perdita della propria identità. L’istituzione e i
parametri psichiatrici gliene hanno costruita una nuova, attraverso il tipo
di rapporto oggettivante che hanno con lui stabilito e attraverso gli
stereotipi culturali con cui l’hanno circondato 93.
La sorveglianza è uno spazio di “vuoto emozionale”, ottimo per annullare
la personalità di chi ci vive. Il Regolamento annienta la poca iniziativa
91
Cfr. L. Pirandello, Uno, nessuno e centomila, Feltrinelli, Milano 2007; Id., Il berretto a
sonagli, Bur, Milano 2005.
92
F. Basaglia, Conferenze brasiliane, Centro di documentazione, Pistoia 1984, pag. 34.
93
F. Basaglia, Corpo e istituzione, in Id. L’utopia della realtà (cit.).
47
personale superstite, l’unica via di fuga possibile dalla sofferenza causata dalla
malattia: in queste condizioni l’internato finisce per identificarsi nelle regole
che ne scandiscono l’esistenza. L’inquietante ma variopinta espressione dei
folli finisce nelle divise, tutte uguali, tutte grigie: perché in manicomio non ci
sono i colori 94.
L’apatia e il disinteresse, il passeggiare lento e monotono degli internati,
sono i sintomi di un male che si è sovrapposto alla patologia che ha causato
l’internamento: nella “nevrosi istituzionale” affogano e scompaiono i sintomi
della malattia mentale. Per descriverla Basaglia cita il “restringimento”
raccontato da Primo Levi, quello che accade a qualsiasi uomo, con qualsiasi
stato mentale, quando è rinchiuso, umiliato e mortificato e alla fine “si
oggettivizza nelle leggi dell’internamento, identificandovisi”
95
. Quando non
servono più le fasce e la camicia di forza, l’istituzione ha vinto: il matto ora è
come il leone nella gabbia dello zoo che, stanco di mordere le sbarre, attende
quieto che i turisti gli gettino le noccioline. Paradossalmente la maschera del
“buon malato” è anche la prova dell’efficacia e dell’utilità sociale del
manicomio: chi la indossa, l’uomo che ha subito l’annullamento totale della
personalità, diventa uno da cui non ci si aspettano più sorprese sgradevoli.
Ci si congratula che il paziente che ci è stato affidato, perché lo si curasse
riportandolo alla sua dignità umana, non esiste più come uomo ed
andiamo rallegrandoci del suo non essere più in grado di intralciare
l’organizzazione e il buon andamento dell’istituto 96.
La personalità perduta di solito non torna indietro: all’apertura del
manicomio di Roma negli anni Ottanta del secolo scorso quelli che erano
internati da decenni non riescono a “deistituzionalizzarsi”. In ospedale
chiamano malatini quelli che si comportano bene, che aiutano nelle pulizie o
94
Cfr. A. Pallotta, infermiere, Intervista I (cit.).
95
F. Basaglia, Un problema di psichiatria istituzionale (cit.), pag. 45.
96
F. Basaglia, Un problema di psichiatria istituzionale (cit.), pag. 48.
48
fanno i kapò per l’istituzione, in cambio di qualche sigaretta o di una
passeggiata in giardino: l’abbattimento delle reti metalliche che cingono i
padiglioni segnerà per molti di loro il definitivo collasso psicologico 97.
2.1.2
ATTORI E COMPARSE
Il movimento degli attori sul palco è diretto dalle inflessibili suore
caposala. A Roma ci sono fin dal Cinquecento quelle del convento di Santa
Caterina e la loro convenzione con l’Ospedale scade solo nel 1981. Vivono nel
manicomio e di solito non escono mai; non sanno molto di medicina o di
scienze infermieristiche ma in compenso sorvegliano scrupolosamente la
condotta morale dei pazienti e fanno in modo che tutti compiano il proprio
dovere di buoni cristiani. Le monache controllano il comportamento degli
infermieri: se qualcuno infrange il Regolamento, si allontana dal padiglione o
porta un internato a fare una passeggiata nel parco, fanno rapporto alla
direzione. Il Santa Maria della Pietà è un ospedale pubblico, eppure gli
infermieri hanno delle suore come diretti superiori e il buonsenso delle
religiose, a sentire i testimoni, è piuttosto scarso. Le monache sono
istituzionalizzate due volte: in convento prima, nel manicomio poi; in pratica
sono la prosecuzione vivente dell’istituzione totale, una versione su gambe del
Regolamento
98
. Il loro senso dell’ordine e della disciplina è conforme ad
astratti criteri di “buon costume”, più che al desiderio di far marciare al meglio
un grande ospedale: fino al 1940 le infermiere assunte sono rigorosamente
nubili e chi si sposa è licenziata e, fino a tempi molto recenti, i turni degli
uomini sono organizzati in modo che non incontrino mai le colleghe al cancello
d’ingresso.
Il Godot che sulla scena tutti aspettano e che mai arriva è il medico.
Prigioniero del paradigma organicista, lo psichiatra ha fuso in una singolare
97
cfr. A. Pallotta, B. Tagliacozzi, Scene da un manicomio (cit.).
98
Cfr. A. Pallotta, infermiere, Intervista I (cit.).
49
osmosi l’uomo malato con la sua cartella clinica. Così, mentre i medici latitano
dai padiglioni, al Santa Maria della Pietà cresce uno dei maggiori laboratori
istologici d’Europa, specializzato nell’osservazione di campioni organici
prelevati dagli internati deceduti. L’attenzione di quasi tutti i medici è catturata
dal corpo, il corpo malato: alla ricerca del “seme della follia”, gli psichiatri
mettono cervelli in formalina e compilano tomi su tomi di classificazioni
nosografiche. Il legittimo proprietario del corpo malato di solito non partecipa
alla passionale relazione tra il medico e la malattia.
Per quanto ci si sforzi di considerare il malato mentale come qualsiasi
altro tipo di malato, l’incontro non può avvenire sul corpo, così come
avveniva per il malato organico (…). Presumere un corpo malato come
base d’incontro tra psichiatra e paziente impone a quest’ultimo un ruolo
oggettivo sul quale l’intera istituzione che lo tutela viene a fondarsi.
L’approccio oggettivante finisce quindi per influire sul concetto di se del
malato, il quale non può non viversi come corpo malato, esattamente nel
modo in cui è vissuto dallo psichiatra e dall’istituto 99.
Nascosto in laboratorio, trincerato dietro un microscopio, lo psichiatra
perfettamente istituzionalizzato entra nei padiglioni il meno possibile. Se c’è
un’emergenza, una ferita o una crisi violenta, gli infermieri trasportano il
malato in pronto soccorso; dell’internato lo psichiatra conosce il nome della
patologia e quello che può leggere sulla cartella clinica. L’istituzione ha
piegato il giuramento solenne, pronunciato da chi sceglie il mestiere di curare
gli altri.
Giuro di esercitare la medicina in libertà e indipendenza di giudizio e di
comportamento; di perseguire come scopi esclusivi la difesa della vita, la
tutela della salute fisica e psichica dell’uomo e il sollievo della
sofferenza, cui ispirerò con responsabilità e costante impegno scientifico,
99
F. Basaglia, Corpo e istituzione (cit.), pag. 64.
50
culturale e sociale, ogni mio atto professionale (…). Giuro di attenermi
nella mia attività ai principi etici della solidarietà umana, contro i quali,
nel rispetto della vita e della persona, non utilizzerò mai le mie
conoscenze 100.
Sono gli psichiatri, spesso loro malgrado, a stringere il nodo descritto da
Michel Foucault e a trasformare il luogo della cura in “uno spazio dove si è
accusati, giudicati e condannati”
101
. Lo psichiatra in manicomio, direbbe
Gramsci, è un “commesso del potere”, uno specialista che possiede la scienza e
la usa per disciplinare i devianti, su mandato della società
102
. Jean-Paul Sartre
lo chiamerebbe “tecnico del sapere pratico”, un appartenente alla classe
medioborghese che utilizza il sapere in modo coercitivo contro le classi
subalterne. Lo psichiatra è anche colui che applica il potere senza coglierne il
fine, il controllo sociale, perché fatalmente l’essenza del “tecnico” esclude la
dimensione umana
103
; ne è convinto Franco Basaglia che, per rifondare la
professione, tenta di riconnettere la funzione scientifica e tecnica del medico
alla sua umanità.
Se lo psichiatra istituzionalizzato è la mente dell’istituzione totale,
l’infermiere ne è il braccio. È lui che lega, immobilizza, chiude nella cella di
contenzione: lui è il secondino, quello che “si sporca le mani”. Per un internato,
l’infermiere è la manifestazione vivente della forza bruta che lo contiene;
Basaglia si rivolgerà a lui, convinto che “i medici non possono più continuare a
nutrire l’illusione di limitarsi alla loro funzione scientifica, lasciando che gli
infermieri agiscano quella di tutela” 104.
100
Dal testo moderno del Giuramento di Ippocrate, che tutti i medici devono pronunciare
nell’intraprendere la professione. Il giuramento prende il nome dal testo redatto dal grande
medico greco nel 403 a.C.
101
M. Foucault, Storia della follia nell’Età Classica (cit.), pag. 572.
102
Cfr. A. Gramsci, Quaderni dal carcere, Einaudi, Torino 2000.
103
Cfr. J-P. Sartre, Difesa dell’intellettuale, Theoria, Roma 1992.
104
F. Basaglia, Il laboratorio della libertà, in Id. L’utopia della realtà (cit.), pag. 84.
51
L’infermiere, a differenza dello psichiatra, della suora e dell’impiegato
amministrativo, vive il tempo della sorveglianza. Il suo tempo è quello
dell’orologio marcatempo, del foglio giallastro da firmare ogni quarto d’ora per
dimostrare che non ci si è allontanati dal posto di guardia: se per gli internati
nella sorveglianza non c’è nulla da fare e da vedere, non c’è nulla neanche per
l’infermiere. Di giorno siede vicino alla porta, con un occhio sempre aperto sui
malati e l’altro perso sulla parete bianca: rischia seriamente d’ammalarsi
d’istituzione. Per distinguerlo dagli internati spesso bisogna cercare i simboli
del potere: la divisa bianca, il corno e le chiavi appesi alla cintura: gli capita di
pensare, nella noia della sorveglianza, che, se solo avesse la capacità di
coalizzarsi, tutta quella gente folle potrebbe facilmente ucciderlo. Allora scruta
i segni del pericolo, il tremore diffuso, lo sguardo di un internato che si fissa su
di lui troppo a lungo, che punta
105
. La paura domina il manicomio: il
Regolamento la formalizza in norme, la trasmette all’infermiere che la passa al
malato. Lo stare in guardia negli anni uccide il buonsenso: l’infermiere spesso
si lamenterà di non aver fatto qualcosa di logico e umano perché era vietato dal
Regolamento 106.
Nel dopoguerra gli infermieri entrano in manicomio dopo pochi mesi di
corso, quasi esclusivamente teorico; la paga è decente, la richiesta è molta e la
disoccupazione anche: a chi lavora nell’ospedale psichiatrico non è richiesta la
vocazione del terapeuta. La scuola la fanno gli “anziani” e il buon senso, per
chi ce l’ha. Il manicomio è gestito dalla Provincia ed è preda dell’appetito degli
assessori che riempiono i padiglioni d’infermieri “raccomandati” del proprio
paese: per tornare a casa una volta a settimana, molti fanno turni di ventiquattro
ore consecutive e se il collega per qualche motivo non si presenta, le ore
diventano settandue. Nel padiglione gli infermieri, sotto lo sguardo inflessibile
delle suore, devono sorvegliare i malati ma anche provvedere ad ogni urgenza:
riparare una finestra rotta o una serratura e, ovviamente, tenere pulito il
pavimento.
105
Cfr. A. Pallotta, infermiere, Intervista I (cit.).
106
Cfr. A. Pallotta, B. Tagliacozzi, Scene da un manicomio (cit.).
52
Ciò che lega indissolubilmente l’istituzione al personale infermieristico è
la legge secondo cui l’infermiere ha la responsabilità giuridica dei pazienti
affidati alla sua custodia: se si allontana, se interpreta in modo elastico il
Regolamento, se non somministra un farmaco, se non lega un furioso, se
concede una passeggiata in giardino o un libro o una penna può essere citato in
giudizio dalla direzione sanitaria. Una delle cose più difficili, racconta
Basaglia, sarà convincere gli infermieri che non saranno puniti se violano il
Regolamento. Perché a vivere chiusi a chiave in una sorveglianza, spesso ci si
arrende.
2.1.3
SCENOGRAFIA
L’ospedale è sempre fuori città, in fondo alla strada. E quella strada porta
sempre solo lì. Lo dice Sergio Zavoli, mentre filma la strada che finisce contro
il cancello del manicomio di Gorizia 107. La via del manicomio è come i binari
del treno che corrono dritti nella campagna, all’improvviso si staccano dallo
scambio, corrono per un po’ paralleli a quelli dove siamo rimasti noi, poi
passano sotto un cancello e muoiono nel campo di concentramento: sola
andata.
A Roma c’è un grande slargo, un incrocio invaso dalle macchine e dallo
smog alle porte della città: s’imbocca un viale alberato in salita e
improvvisamente tutto tace, non c’è nessuno; il cancello del manicomio ne
segna la fine. E, come in un lager, chi entra in manicomio perde tutto: gli
effetti personali si lasciano all’ingresso, catalogati, registrati, impacchettati
nella carta marrone e assicurati con un doppio giro di spago. Nel deposito, la
fagotteria del Santa Maria della Pietà, sono stipati centinaia di pacchi. Uno è
stato aperto ed esposto in una vetrina del museo: ci sono scarpe da donna,
consumate e malridotte un paio, eleganti le altre, con la fibbia di metallo sul
107
Cfr. S. Zavoli, I giardini di Abele, Rai, Italia 1968.
53
velluto nero, c’è una saponetta e una bottiglia di profumo, una Bibbia, ferri da
calza e una sciarpa marrone lasciata a metà, una camicetta a righe bianche e
blu, un paio d’occhiali da vista dalla pesante montatura di bachelite marrone,
una borsetta minuscola rivestita di perline nere, un tubetto di Glicemille, “per
la bellezza delle mani e della pelle”, una foto in bianco e nero di una donna in
costume da bagno che sorride, in spiaggia
108
. Nei fagotti finivano quaderni e
penne, con cui si poteva ferire qualcuno: Alfred Rosenberg, filosofo nazista e
teorico della “soluzione finale”, sosteneva che a levare ad un uomo gli
strumenti per raccontare e raccontarsi si compie il primo passo verso il suo
annientamento.
Nel tempo immobile della malattia mentale che non si può guarire le
routine sono battute insensate che si ripetono. La terapia applicata ai pazienti
nei padiglioni è contenitiva, una “tregua” dalle visioni e dai deliri. Per
l’istituzione invece, la terapia di massa è lo strumento per livellare le patologie
degli internati e le diverse personalità che vi si nascondono dietro. Lo shock è
da sempre la cura per la mente: nella Grecia antica Ippocrate prescrive docce
gelate ai frenetici e ad Epidauro c’è un tempietto buio in cui i matti sono
terrorizzati da grida e rumori; a Sumatra gli stregoni fanno inalare ai folli fumo
acre; il padre di Charles, Erasmo Darwin, studia gli effetti delle vertigini, della
nausea e del vomito sui deboli di mente.
Nel 1917 Wagner von Juaregg con lo shock si guadagna un premio
Nobel: lo psichiatra austriaco nota che la demenza paralitica progressiva, la
forma di pazzia che colpisce i malati terminali di sifilide, quasi sparisce in chi
si ammala di malaria. Non capisce perché, ma funziona; la sua scoperta e
quella del collega Donald Ross, che ha capito che le zanzare trasmettono il
virus all’uomo, forniscono anche materiale ad un bel romanzo contemporaneo
109
. In pochi anni le zanzare anofele allevate in piccole gabbie di tulle ronzano
nei manicomi di tutto il mondo: basta appoggiare la gabbia direttamente sulla
108
Cfr. Museo Laboratorio della Mente, presso l’ex Ospedale psichiatrico Santa Maria della
Pietà, Roma.
109
Cfr. A. Gosh, Cromosoma Calcutta, Einaudi, Torino 1996.
54
pelle del “soggetto da malarizzare”, registrare una quindicina d’attacchi
febbrili violenti e poi curare la malaria. Le controindicazioni, problemi al
cuore, ai reni e al fegato, sono meno preoccupanti dei risultati ottenibili. Al
Santa Maria della Pietà sono migliaia le zanzare allevate fino al 1944, quando
la penicillina soppianta la piretoterapia malarica nella lotta contro la sifilide.
Nel 1933 è la volta dell’insulinoterapia, che consiste nel provocare il
coma iniettando al malato una forte dose d’insulina. Quando compaiono le
contrazioni epilettiche, l’addetto al coma sveglia il paziente facendogli
ingurgitare una grande quantità di zucchero. Anche questa terapia, pur priva di
solide basi scientifiche, calma temporaneamente i deliri più violenti. Però i
pazienti ingrassano di decine di chili in pochi giorni.
Irrompere tra i primi stadi inzuppati di consapevolezza…l’odore della
lana fresca…mi fanno tornare ogni giorno, giorno dopo giorno, dal nulla.
La nausea, il sapore del sangue in bocca, la lingua è scorticata. Il dolore
nebbioso nella testa…molto poco è chiaro in retrospettiva, tranne il
dolore di emergere dallo shock ogni giorno 110.
Questo è quanto ricorda dell’insulinoterapia un paziente dell’Ospedale
psichiatrico di Trenton, negli Stati Uniti, che divide la stanza con John Nash, il
matematico da Nobel che trascorre buona parte della vita entrando e uscendo
dai manicomi. La conseguenza più comune del coma è la perdita della
memoria a breve termine, ma può capitare che qualcuno si morda
violentemente la lingua o si agiti, tanto da spezzarsi le ossa. Capita che la
temperatura durante il coma salga parecchio e allora i medici spargono
ghiaccio su tutto il corpo. E accade che qualcuno non si svegli più.
Dopo pochi anni l’insulina è sostituita da un farmaco che scatena
convulsioni, il Cardiazol. È molto più controllabile dell’insulina e più facile da
applicare: anche se mancano studi sugli effetti di una terapia che si protrae per
anni, viene somministrato su larghissima scala fino ad epoca recente. Non
110
S. Nasar, Il genio dei numeri, Bur, Milano 2002, pag. 274.
55
arriva mai una spiegazione scientifica soddisfacente sul perché lo shock diradi i
sintomi della follia: l’ipotesi è che le convulsioni siano clinicamente
antagoniste dei sintomi da delirio schizofrenico. Ma più che altro basta la
constatazione empirica che dopo lo shock i matti “stanno buoni”, almeno per
un po’.
Nel 1938 appare in scena il nuovo protagonista del manicomio. Pulito,
asettico, veloce: elettroshock. La prima macchina è utilizzata proprio sugli
internati del manicomio di Roma: l’ha costruita lo psichiatra Ugo Cerletti, dopo
aver osservato attentamente gli operai del mattatoio capitolino di Testaccio.
Qui si usa stordire i maiali stringendogli la testa in una grossa pinza che manda
scariche elettriche: le bestie stramazzano a terra, scosse da un violento attacco
epilettico. Dopo qualche minuto, se non vengono macellate, si alzano in piedi.
La macchina diventa piccola, maneggevole e sicura, perché si può controllare
con precisione la durata e l’intensità della scarica. Gli infermieri imparano
come applicare gli elettrodi alle tempie bagnate, ad inserire il paradenti e a
sistemare i pazienti in modo che non si spezzino le ossa quando la scarica
elettrica li solleva dal letto.
“Lo dissi fin dalla prima volta che presentavo l’elettroshock che mi
auguravo che questo metodo, aggressivo e violento, venisse al più presto
abbandonato per metodi meno drastici e sarò il primo a rallegrarmi quando non
sarà più applicato” 111, scrive Ugo Cerletti: in appena due anni la sua macchina
è un successo mondiale. Applicare gli elettrodi è semplice, economico ed
efficace: l’istituzione ha trovato lo strumento perfetto, impersonale, stabile, non
umano. Le piccole ustioni tonde ai lati degli occhi diventano un marchio, come
i numeri blu sui polsi dei deportati: c’è chi se la cava con un gran mal di testa e
chi perde la memoria. Tutti perdono la voglia di parlare e interagire, diventano
mansueti, muti, facili da tenere d’occhio. Un’applicazione, come la chiamano
sbrigativamente nei padiglioni, non si nega a nessuna cartella clinica.
111
U. Cerletti, L’elettroshock, in Id. Rivista sperimentale di freniatria, 1940, 209-310.
56
E venne infine il giorno stabilito per l’elettroshock: un venerdì. Un
infermiere la mattina presto aveva iniziato la lettura dei nomi dei
predestinati che dovevano restare a digiuno. Il prescelto doveva
immediatamente presentarsi alla porta della sorveglianza (…). Mi
guardavo intorno. Gli altri ricoverati erano silenziosi e aspettavano il loro
turno con grande compostezza e serenità. Nel mezzo del salone c’era lei,
la Macchina. Poggiata su un carrello, era grande ed era smaltata di
bianco. Diversi cavi per la corrente si dipartivano da essa. Aveva alcune
manopole e levette, numerosi quadranti illuminati con luci verdi. Sono
state queste luci, che spiccavano nella semioscurità della corsia e le
conferivano un aspetto sinistro, spettrale, a impressionarmi di più e a
farmi venire l’impulso di fuggire via. Ma molte mani sbucate dal buio mi
hanno subito afferrato 112.
Nella vetrina di un museo, oggi l’elettroshock è una macchina inerte e
inoffensiva. Una valigetta bruna, qualche manopola e la scritta Convulsor in
corsivo argentato: sembra una vecchia radio a valvole, o un frigorifero da
campeggio, di quelli “anni cinquanta”
113
. Magari, ad attaccarlo alla presa
elettrica, funziona ancora.
È tutto qui l’elettroshock: nulla di spettacolare. No, niente campi di
sterminio,
niente
forni
crematori
o
tizzoni
accesi
alle
palle,
semplicemente dei gesti meccanici. È un po’ come la camera a gas o la
sedia elettrica, una pillola che si scioglie in pochi secondi, una leva che fa
passare la corrente, niente pubblico, niente urla, niente folle oceaniche,
nessuna gloria o infamia né per il boia né per il condannato. Tutto qui.
Ma il risveglio…è uscire da una tomba come dei fantasmi. È come se si
fosse morti e risospinti in un mondo stupido e coglione. Si brancola nel
112
A. Pallotta, B. Tagliacozzi, Storia di Alberto, paziente, in Id. Scene da un manicomio (cit.),
pag. 176-178.
113
Cfr. Cfr. Museo Laboratorio della Mente, presso l’ex Ospedale psichiatrico Santa Maria
della Pietà, Roma.
57
buio, non ci sono colori, non c’è ricordo, non c’è specchio, non c’è
nemmeno il nulla; è il niente 114.
I più fortunati tra gli internati fanno l’ergoterapia, la “cura del lavoro”.
Al Santa Maria della Pietà ci sono ettari di terra da coltivare e grandi laboratori
artigianali e il volume di produzione è quello di una grande azienda: la
calzoleria sforna più di milleottocento scarpe all’anno, per lo più gli zoccoli
scuri dalla spessa suola in legno che portano gli internati, mentre la tipografia
rifornisce di moduli prestampati tutti gli uffici pubblici della Capitale. Nei
campi si coltiva il grano e la canapa e c’è anche una grande vigna: nelle stalle
polli, maiali e mucche assicurano i pasti per gli internati e tutto il personale. Se
il lavoro è terapia, non c’è stipendio in denaro: lucidare il pavimento della
corsia al posto di un infermiere vale dieci sigarette; è già molto, del resto,
uscire dalla sorveglianza per qualche ora al giorno. L’ergoterapia che doveva
servire come paterna rieducazione diventa
così
ulteriore strumento
d’esclusione: con il lavoro degli internati il manicomio diventa completamente
autosufficiente e si allontana ancora di più dal mondo esterno, alla deriva con il
suo carico di vite.
114
N. Fanizzi, Lasciateci stare, Sensibili alle foglie, Dogliani (CN), 2004, pag. 45-46.
58
2.2 IL PRIMO GIORNO DI MANICOMIO
Leggi e consuetudini dei padiglioni
Quando si vuole proteggere con le leggi il morale della Nazione non è bene che
queste lo demoralizzino sistematicamente. Non è bene, compatrioti miei, voi che
conoscete tutti i crimini commessi nel vostro nome, che non ne facciate parola
con nessuno, nemmeno con l’anima vostra, per timore di dovervi giudicare.
JEAN-PAUL SARTRE, introduzione a I dannati della terra.
2.2.1
NEL PARCO
Buio in sala. La polvere luccica nel fumo davanti al proiettore. Appare
un’aquila bianca: il cinegiornale del quindici dicembre 1949 apre sul
manicomio di Roma, il Santa Maria della Pietà. Davanti alla facciata della
Direzione in bianco e nero ci sono i pazienti schierati che sorridono alla
cinepresa nelle divise pulite; attorno al tavolo i bambini infilano scatole piccole
in scatole più grandi. La voce tonante dello speaker descrive la città dei matti
agli spettatori della Settimana Incom: infermiere con la cuffietta inamidata
sorridono, panoramica sugli uomini sdentati, zoom sulla riproduzione della
Pietà di Michelangelo che troneggia all’ingresso. La pellicola traballa, macchie
bianche sfocate s’allargano, dissolvenza 115.
Tra i padiglioni dalle finestre cieche oggi fanno jogging, i bambini sono
sulle altalene e le coppiette si baciano sulle panchine più nascoste: il
manicomio è diventato un parco. Ci sono gli ambulatori dell’Asl e quello del
veterinario, la biblioteca e gli uffici del Municipio, gli operai si arrampicano
sulle facciate cadenti che diventeranno aule universitarie e i ragazzi del centro
115
Istituto Luce, Settimana Incom 00377, Archivio Luce, Roma 15 dicembre 1949.
59
sociale fanno sottoscrizioni per non essere sgomberati, trincerati nella vecchia
lavanderia. Il cancello è sempre aperto: la facciata della Direzione ha ripreso
colore, bianco e ocra, ed è stata restaurata la grande iscrizione in alto
“Manicomio della Provincia”. Il piazzale è un groviglio d’auto parcheggiate,
spazzato da raffiche di clacson: l’autista dell’autobus impreca contro i motorini
che schizzano a centinaia verso la via Trionfale, in mezzo alla strada un
energumeno con le braccia abbronzate coperte di tatuaggi vende una montagna
di noci, in bilico sulla sua derelitta Ape Piaggio.
Basta superare la chiesetta rotonda al centro del parco e scavalcare il
padiglione XXII, il Bisonte. Era quello dei cronici, il più grande del manicomio:
lo chiamavano anche “fossa dei serpenti” perché se ne usciva solo da morti 116.
Lì il bosco s’infittisce e s’intravede il carcere minorile di Casal del Marmo, un
monolite grigio che naufraga nella campagna: non c’è quasi mai nessuno. Il
piccolo padiglione dei contagiosi, i malati di Tbc, cade a pezzi in un angolo; a
terra tra il muschio e l’erba alta si scorge appena un reticolo di mattoni, la
topografia di un labirinto. Sui mattoni erano infilati i pali che tenevano insieme
la rete di filo di ferro delle sorveglianze esterne: ci si può sedere sul confine ed
immaginare di essere dentro.
2.2.2
SECONDO SCIENZA
L’aspetto dei padiglioni del Santa Maria della Pietà è lo stesso d’altri
grandi edifici di Roma Capitale: i palazzi umbertini a tre o quattro piani hanno
stucchi ingombranti ma sobri e frontoni classicheggianti dagli spioventi ottusi.
Come lungo i viali diritti della “piccola Parigi”, la capitale mancata Torino, gli
edifici romani di pubblica utilità sono consacrati al senso pratico: le caserme
del quartiere Prati, i mercati generali lungo la via Ostiense, il mattatoio e la
dogana fluviale del Testaccio e, ovviamente, i grandi ospedali. Ma prima, e per
116
Cfr. A. Pallotta, infermiere, Intervista I (cit.); cfr. A. Pallotta, B. Tagliacozzi, Scene da un
manicomio (cit.).
60
secoli, il modello classico d’ospedale era stato il grande nosocomio dei
Cavalieri nell’isola di Malta: un immenso stanzone circondato da un ballatoio
da cui i medici si affacciano sui pazienti ammucchiati in basso. A Roma gli
somiglia l’antico ospedale del Santo Spirito lungo il Tevere, mentre il grande
manicomio monoblocco della Lungara è oggi scomparso.
Da questi ospedali difficilmente si esce vivi. Il killer è la sepsi, “la
malattia sistemica dovuta all’attivazione del sistema immunitario in seguito
alla presenza di batteri nel sangue” 117, che uccide i malati avvolti in lenzuola e
bende sporche, quelli in letti troppo vicini, quelli che i medici toccano con le
mani. Nel 1841 il giovane medico Ignaz Semmelweis all’ospedale di Vienna
nota che quasi tutte le donne incinte visitate dagli studenti di medicina
muoiono di sepsi; ipotizza che qualcosa d’invisibile transiti per le mani dei
ragazzi quando passano dal tavolo anatomico della Facoltà al corpo vivo delle
gestanti e propone una misura drastica: lavarsi le mani. Viene licenziato
118
.
Ignaz guarda morire di sepsi un amico che si è tagliato mentre esamina un
cadavere e scrupolosamente mette tutto nero su bianco, ma nessuno tra i medici
che contano in Europa lo prende sul serio; qualche anno dopo muore in
manicomio, dopo essersi infettato durante un’autopsia piantandosi un bisturi
nel braccio, molti anni prima che lavarsi le mani in ospedale diventi scontato.
Dove non arriva la Ragione arriva la Guerra: se i cannoni di Napoleone
promuovono i chirurghi da barbieri a cattedratici, le grandi battaglie del primo
Novecento palesano la necessità dell’igiene
119
. Più che i mortai, sono le
epidemie a falcidiare i reggimenti: qualcuno pensa allora che in un ospedale
diviso in piccoli padiglioni è più facile isolare i focolai d’infezione. Nascono i
grandi ospedali a padiglioni, il Niguarda a Milano, a Roma l’Umberto I, il San
117
Lemma Sepsi in Wikipedia Free Enciclopedia, http://it.wikipedia.org/wiki/Sepsi, World
Wide Web 2007.
118
Cfr. L-F. Celine, Il dottor Semmelweis, Adelphi, Milano 2006. Con questo testo,
originariamente una tesi di Laurea, Celine ottiene nel 1924 il titolo di Dottore in Medicina.
119
Cfr. P. Martelli, lezioni di Nascita e logica della Clinica (cit.).
61
Camillo che si sarebbe dovuto chiamare Ospedale Littorio e il Santa Maria
della Pietà.
Vittorio Emanuele
III
di Savoia inaugura il nuovo manicomio della
Capitale il 31 maggio del 1914: cespugli sempreverdi, pini e fontane rocaille
nascondono le reti di filo di ferro che cingono i padiglioni; solo il XVIII, quello
dei criminali, è circondato da mura
120
. Una strada larga orlata di lampioni
liberty porta dal cancello alla Direzione e altri sette chilometri di spirali
asfaltate collegano tra loro la chiesa, la cucina, la lavanderia, le officine e i
laboratori per l’ergoterapia: i padiglioni pari, a destra, sono per gli uomini e
quelli dispari, a sinistra, sono femminili.
I padiglioni in manicomio sono più di una profilassi standard: la via che
porta il paziente psichiatrico dal cancello al suo edificio racconta lo status quo
della psichiatria dell’epoca, una scienza pericolosamente incagliata nella
ricerca infruttuosa della causa efficiente della follia. Il luogo del Santa Maria
maggiormente magnificato dalle cronache del tempo è il gabinetto scientifico,
dove macchine da orefice tagliano i cervelli dei malati deceduti in fette sottili,
da scrutare con potenti microscopi 121. Nel gabinetto si almanacca tutto ciò che
si vede dell’alienazione mentale e si riempiono cartelle di classificazioni
sempre più minute. Ma una nosologia così dettagliata è forse solo una nervosa
“cerniera tra il concreto e l’astratto”, un escamotage per connettere l’evidenza
della sofferenza con l’ineffabilità della causa
122
. E allora, come tentacoli del
gabinetto, i padiglioni prendono il nome dal comportamento degli ospiti
anziché dalla terapia che vi è praticata: sudici, agitati, pericolosi, tranquilli,
suicidi e così via, secondo la tassonomia aggiornata quotidianamente dallo
psichiatra–architetto.
120
Cfr. A.A.V.V., L’Ospedale dei pazzi a Roma dai Papi al ‘900 (cit.).
121
Cfr. Museo Laboratorio della Mente, presso l’ex Ospedale psichiatrico Santa Maria della
Pietà, Roma.
122
A. Gaston, Genealogia dell’alienazione (cit.), pag. 37.
62
La clinica psichiatrica poggia su due defecti intimamente collegati: in
primo luogo l’aleatorietà nosologica che rende inattendibili e vaghi i
confini del campo di indagine e di intervento e incerti i caratteri del suo
stesso oggetto; in secondo luogo la mancanza di una concreta patologia,
cioè di una scienza che possa stabilire attendibili relazioni tramite le quali
collegare esplicativamente alcuni aspetti nucleari del nosos a sedibus et
causis di riferimento 123.
Chi ha un problema nella mente, spiega lo psichiatra Alberto Gaston,
spesso modifica nel corso della propria esistenza il modo di manifestarlo: così
capita che un bambino con un ritardo dell’apprendimento sia trasferito
dall’orfanotrofio al padiglione dei bambini mentecatti, poi traslochi
adolescente tra gli agitati che mostrano varie forme di delirio e concluda il
proprio cursus honorum tra i cronici tranquilli della “fossa dei serpenti”
124
.
L’architettura del manicomio riflette una psichiatria annodata alla descrizione
della follia più che alla sua spiegazione e cura. È un nodo che si scioglierà
tagliandolo, ma molti decenni più avanti.
Noi diciamo “spiegazione” ma dovremmo dire “descrizione” per
designare ciò che ci distingue dai più antichi gradi di conoscenza e di
scienza. Descriviamo meglio ma spieghiamo tanto poco quanto i nostri
progenitori. Abbiamo perfezionato l’immagine del divenire ma non
siamo andati oltre l’immagine. Causa ed effetto: tale dualismo non
esisterà mai; in verità davanti a noi sta una continuità di cui noi isoliamo
qualche brano
123
124
125
.
A. Gaston, Genealogia dell’alienazione (cit.), pag. 77.
Cfr. Psichiatria Democratica, Bambini in manicomio, Bulzoni, Roma 1975; E. Sartori,
Bambini dentro, UNI Service, Trento 2006.
125
F. Nietzsche, La gaia scienza, Barbera, Siena 2007, pag. 112.
63
2.2.3
SECONDO LEGGE
Se i padiglioni raccontano la scienza immobile, la legge che ne regola la
vita è un tumultuoso compromesso: sul tavolo dell’Italia unita da poco giocano
il Palazzo, le amministrazioni locali e i potentati secolari; la gestione della
devianza è la posta di una partita tra medici, magistrati e preti
126
. E se la
delega della Sanità pubblica alle Province passa quasi inosservata, la nuova
legge sui manicomi scontenta tutti i giocatori. Tutta la partita si gioca nell’aula
parlamentare: la maggior parte degli Italiani all’inizio del Novecento è afflitta
da carestie, epidemie, briganti e analfabetismo e più che del destino dei matti,
si occupa della nuova iniqua tassa sul macinato.
È la Sinistra con simpatie monarchiche del ministro degli Interni
Agostino Depretis ad iniziare il travaglio trentennale che partorirà la legge
unica sui manicomi: già nella bozza del 15 marzo 1881 il manicomio è un
posto dove “le persone pericolose per sé e per gli altri” stanno sotto chiave 127.
La natura dell’istituzione è dunque chiara; incerto è l’esito del braccio di ferro
tra burocrati e medici per l’ultima parola sulla gestione della salute: solo nel
1887 Luigi Pagliani, medico, diverrà capo della Direzione generale della
Sanità Pubblica nel ministero degli Interni.
Nel frattempo gli internati in Italia sono diventati diecimila, il doppio di
cento anni prima. Bisogna chiudere la partita e il capo del Governo Giovanni
Giolitti usa un suo classico asso nella manica: un testo di legge smilzo che
accontenta tutti, pieno di zone d’ombra da chiarire con un Regolamento ancora
tutto da scrivere. Dal 1904 dunque “devono essere custodite e curate nei
manicomi le persone affette per qualunque causa da alienazione mentale,
quando siano pericolose per sé e per gli altri o riescano di pubblico scandalo e
126
Cfr. A. Iaria, T. Losavio, P. Martelli, Lineamenti storici sulle politiche dell’assistenza
psichiatrica dall’unità d’Italia alla chiusura dei manicomi, per concessione degli autori, Roma
2007.
127
Cfr. A. De Pretis, Disegno di legge sui manicomi e sugli alienati, Camera dei Deputati della
Repubblica Italiana, Roma 1881.
64
non siano o non possano essere convenientemente custodite e curate fuorché
nei manicomi” 128: per il Governo la nuova legge è un successo che garantisce
la personalità dei malati di mente, per la Società Freniatrica Italiana è
un’umiliazione che consegna le chiavi dei padiglioni alle forze dell’ordine. Il
magistrato ora è l’arbitro dell’ammissione e della dimissione dei pazienti e il
concetto di cura e riabilitazione è spazzato via: il medico ha solo quindici
giorni per decidere tra dimissione e ricovero definitivo. Nel 1926 arriva anche
l’obbligo d’iscrizione dei nuovi ricoverati al casellario giudiziario nazionale e
la perdita del diritto di voto: l’internato è a tutti gli effetti detenuto in carcere;
quando poi dopo la guerra la legge 158 del 1952 solleva parecchi reati lievi
dall’iscrizione perpetua al casellario, il manicomio resta roba da pregiudicati.
La legge Giolitti arriva proprio mentre in Inghilterra qualche manicomio
si trasforma in clinica open door, in cui si sperimentano uscite controllate in
collaborazione con le famiglie dei malati. In Italia la porta è chiusa da una
legge che punisce severamente chi autorizza uscite “facili”: un medico che
volesse dimettere un paziente deve certificarne la “guarigione clinica” e
assicurare la “non pericolosità futura”. Ovvero deve guardare in una palla di
vetro
129
. Rimane solo la possibilità di dimissione su firma di un familiare,
sempre che sia disposto ad accollarsi la responsabilità penale di una persona
giudicata “pericolosa per sé e per gli altri”. Quelli che non hanno nessuno, in
molti transitano dall’orfanotrofio al manicomio, semplicemente non escono
più.
La stessa legge che finalmente chiama medici gli psichiatri, consegna
loro uno strumento spuntato e fatalmente li spinge ancora di più sulla strada
della descrizione della malattia in luogo della spiegazione: “La realtà della
reclusione per motivi d’ordine pubblico era occultata e giustificata
dall’ideologia asettica e astratta dell’organicismo dominante, al riconoscimento
del loro ruolo gli psichiatri dovevano recedere dall’atteggiamento rivendicativo
128
Legge n. 36, Disposizioni sui manicomi e gli alienati. Custodia e cura degli alienati, 22
febbraio 1904.
129
Cfr. A. Pallotta, infermiere, Intervista I (cit.).
65
e sostituirlo con quello della responsabilità, mostrando tutta la loro efficacia
nel controllo della società” 130.
Quando poi volteggiano aquile e avvoltoi littori la situazione peggiora:
nel 1922 lo psichiatra e senatore Luigi Bianchi, firmatario della legge Giolitti,
spara a zero sui criteri d’ammissione in manicomio, troppo poco fascisti: “La
legge imperniata sul criterio di pubblica sicurezza – afferma – contribuisce
all’aumento dei folli e alla degenerazione della razza”
131
. L’inquietante
marmaglia di “degenerati e fiacchi” liberamente a spasso per le strade
dell’Impero richiede una soluzione radicale: tutti dentro. Ma, in altre faccende
affaccendato, lo stato fascista dimentica di semplificare l’ingresso in
manicomio e consegna intatta al dopoguerra la legge Giolitti. La società
italiana intanto è in fuga solitaria mentre la sua classe politica si attarda al
buffet della colazione: quella del manicomio è una delle tante bombe innescate
dal boom economico che scoppieranno alla fine degli anni Sessanta. Intanto a
Roma il Santa Maria della Pietà, la città dei matti, è diventato per molti una
fucina di tenebrose leggende metropolitane. Per altri invece, è solo un posto
dove lavorare.
2.2.4 ADRIANO, INFERMIERE
Aspetta il filobus quarantasette. La piazza è deserta perché è l’alba e fa
freddo: 15 gennaio 1957
132
. Esce dalla città, si arrampica sulla collina di
Monte Mario, attraversa la campagna bagnata, centinaia di case in costruzione
spuntano come funghi. Adriano sa che al capolinea c’è il manicomio, ma non
130
A. Iaria, T. Losavio, P. Martelli, Lineamenti storici sulle politiche dell’assistenza
psichiatrica dall’unità d’Italia alla chiusura dei manicomi (cit.), pag. 6.
131
Cfr. L. Bianchi, Intervento nella tornata del 9 giugno 1922, in Id. Atti parlamentari, vol. 3,
Senato della Repubblica Italiana, Roma 1922, pag. 2404.
132
Cfr. A. Pallotta, infermiere, Intervista II, raccolta per questa tesi presso l’ex ospedale
psichiatrico Santa Maria della Pietà, Roma, dicembre 2006.
66
c’è mai stato. In magazzino gli danno pantaloni bianchi troppo larghi, gli
annodano dietro la schiena i lacci della cappa, un camicione di cotone ruvido:
“È come al militare - dicono - come ti sta va bene”.
Un anno prima a quell’ora Adriano sta andando in tipografia: gli piace
soprattutto fare le locandine dei film. Guadagna bene e il padrone si fida
perché Adriano ha iniziato a tredici anni e ora ne ha ventiquattro ed è molto
abile. Ma la medicina è un’antica passione che gli fa leggere tutti i libri che
riesce a trovare. La follia gli si presenta vestita da vecchio amico: “Sono
disoccupato - dice - e mia sorella, quella che lavora alla Provincia, vuole che
faccia il corso da infermiere psichiatrico che sta iniziando”. Adriano molla
l’inchiostro e per un anno frequenta il Policnico universitario, impara
l’anatomia, la fisiologia e le grandi categorie patologiche dell’alienazione.
Impara anche un lungo elenco di cose proibite e di procedure poco
comprensibili, spiegate in ogni dettaglio: il paziente non può sedersi lì perché è
vicino alla porta, fallo sedere sulla panca in fondo alla stanza, se ha sete metti
l’acqua in un bicchiere di plastica e non lasciarlo solo con il bicchiere, mettilo
in fila con gli altri e contali prima di uscire in giardino, prima del pranzo, prima
di andare a letto. Adriano manda tutto a memoria e aspetta l’esame finale;
pensa che, se sta attento, quello potrà anche sedersi vicino alla porta e non
accadrà nulla. Il corso non prevede il vedere un matto da vicino.
È ancora l’alba quando Adriano sistema in testa il cappellino tozzo e
bianco e segue un infermiere verso il padiglione
XVIII.
“Attento – gli dice
quello – che qui c’è gente al quarto omicidio”. Entrano attraverso due porte
serrate e prima di aprire quella più interna, l’infermiere chiude la prima dietro
le spalle di Adriano. Il padiglione giudiziario è un deposito usato dagli
psichiatri forensi che non vogliono arrivare fino ad Aversa o a Castiglione
delle Stiviere, dove sono i grandi manicomi criminali: gli “ospiti” sottoposti a
perizia sono quasi tutti assassini. Le stanzette hanno una piccola finestra a tre
metri da terra bloccata da una tavola di legno; per far entrare un po’ di luce c’è
una manovella che pende nel corridoio, fuori della porta chiusa a chiave. Dopo
qualche giorno di soggiorno chi è giudicato sano di mente torna a Regina
67
Coeli, il gabbio della Capitale: molti fingono perché in manicomio si sta un po’
meglio e gli psichiatri leggono attentamente i rapporti quotidiani degli
infermieri.
Alle due di pomeriggio il turno finisce e il sole è pallido, grigiastro.
Adriano torna a casa a piedi anche se da Monte Mario a Borgo Pio sono più di
due ore di cammino. Era entrato in ospedale, è uscito dal carcere.
68
2.3 DA VICINO NESSUNO E’ NORMALE
Lavorare e vivere in manicomio
“Io sono pazzo e anche tu sei pazza”, disse il Gatto. “Come fai a dire che sono
pazza?”, domandò Alice. “Devi esserlo – rispose quello – altrimenti non saresti
arrivata fin qui”
LEWIS CARROLL, Alice nel Paese delle meraviglie
2.3.1
LE CHIAVI
“Impara la diagnosi di ognuno, guarda come ti guardano, osserva gli
occhi, che quando cambiano sta per succedere qualche cosa”: Mario è il decano
del padiglione
XVIII
e ricorda il Regolamento a memoria; Adriano lo ascolta
attentamente mentre per quel primo mese fa solo il turno della mattina, perché i
“nuovi” hanno troppo da imparare per fare la notte
133
. Guido invece, un altro
“anziano”, gli dice di non giudicare mai una persona dalla cartella clinica.
Adriano gli confessa che la sua passione per la medicina sta vacillando:
“Potevi annà ar Colosseo, co’ li leoni – sbotta Guido – qui famo tutto tranne la
medicina, hai mai visto ‘na siringa qui dentro?”.
Sotto la cappa Adriano ha una frangia di stoffa: vi sono attaccati la
forbice per tagliare le bende, il corno d’ottone, quattro squilli per un paziente
scappato, e una lunga chiave a cilindro. La chiave apre le porte interne del
padiglione e le finestre, ma non le grate di ferro che fanno il sole a scacchi
nelle sorveglianze; quella che apre la porta d’ingresso l’ha solo il portiere.
L’infermiere portiere non può entrare nelle corsie e trascorre il turno
133
Cfr. A. Pallotta, infermiere, Intervista II (cit.); A. Pallotta, B. Tagliacozzi, Scene da un
manicomio (cit.).
69
nell’androne, tra la prima e la seconda porta, deve verificare l’identità di chi
bussa prima di aprire e non può far uscire i colleghi assegnati al padiglione
neanche se sono amici, neanche se stanno male. Nelle prime pagine del
Regolamento del Santa Maria della Pietà le norme relative alle porte precedono
le indicazioni sulle profilassi igieniche e sanitarie e la parola “chiave” ricorre
più di dieci volte.
Il gabinetto non deve mai essere lasciato solo; quando la suora si
allontana deve essere chiuso a tre giri (…), la porta della scaletta che va
sui tetti deve essere chiusa a tre giri, la porta che sta alla fine della
scaletta è chiusa e la chiave deve essere tenuta dallo stagnaro (…), il
personale addetto alla porta ha la chiave comune e ha la chiave speciale
per la porta esterna, tale chiave deve essere fissare con una catenella e
tenuta al fianco. La chiave è consegnata al mattino all’infermiere
incaricato che prima di lasciare il servizio si assicurerà che le porte del
padiglione siano chiuse bene 134.
Dopo le chiavi, il Regolamento passa in rassegna le sanzioni disciplinari
per chi non rispetta le regole: si parte con l’ammonizione, poi le multe e le
trattenute sullo stipendio, infine il licenziamento e la denuncia al tribunale
penale per negligenza o “Incitamento all’insubordinazione collettiva” 135.
134
Provincia di Roma, Ospedale Santa Maria della Pietà, norme generali per il personale di
sorveglianza, tipografia ospedale Santa Maria della Pietà, Roma 1935, pag. 4.
135
“Il salariato che viene meno ai propri doveri incorre nelle seguenti sanzioni: a) il richiamo
verbale o scritto, b) la multa, c) la censura, d) la riduzione del salario, e) la sospensione dal
servizio con riduzione del salario, f) la revoca, g) la destituzione. (…) La sospensione viene
comminata per gravi negligenze o irregolarità che abbiano prodotto conseguenze dannose e che
abbiano origine in un proposito deliberato (…), per alterchi con vie di fatto nell’istituto e per
qualsiasi atto di insubordinazione e per rifiuto di ottemperanza agli ordini di servizio. (…) La
destituzione viene comminata per gravi atti di insubordinazione contro l’amministrazione o i
superiori commessi pubblicamente (…), per incitamento alla insubordinazione collettiva”,
Provincia di Roma, Regolamento organico per gli infermieri addetti agli istituti psichiatrici,
art. 80, Tipografia ospedale Santa Maria della Pietà, Roma 1965, pag. 25.
70
Per un mese si lavora in corsia, un dormitorio con venti letti schierati
contro le pareti, per un mese si fa il portiere e il mese successivo si fa il jolly,
aiutando volta per volta i colleghi in difficoltà; nella sorveglianza invece si sta
sempre in due. Il ruolo d’ogni infermiere è scritto all’inizio del turno sulla
vacchetta, un registro lungo e stretto rivestito di pelle marrone, sotto la formula
“Prendo in consegna dal collega smontante numero tot pazienti”. Il proprio
nome vergato lì sotto significa la responsabilità di quelli: se qualcuno si fa
male bisogna spiegare perché non si era al proprio posto ed è necessario
dimostrare di aver seguito il Regolamento alla lettera. Accorrere in un'altra
corsia dove un collega è sopraffatto da un paziente in crisi violenta non è una
giustificazione accettata.
Le righe della vacchetta scandiscono la giornata come le orazioni in un
convento di clausura e avvicinano carcerieri e carcerati: in bella calligrafia c’è
elencato tutto ciò che esce ed entra nel padiglione, le pillole e le lenzuola, gli
elettricisti e gli imbianchini, il cibo e le bevande, i pazienti nuovi e quelli
deceduti. Vi è descritto lo stato di salute dei ricoverati, c’è l’elenco di quelli
sottoposti a contenzione ed elettroshock e i medici la utilizzano per aggiornare
le diagnosi. Vi sono anche le osservazioni sul comportamento disciplinare
degli infermieri, sui ritardi e sugli atti d’insubordinazione, autografate dalla
suora capo sala, che ogni anno giungono in direzione, dove si aggiorna lo stato
di servizio e si decidono promozioni e aumenti di stipendio, ammonizioni e
punizioni. Ecco perché il documento più ufficiale del manicomio è quello che
le mani abili degli “anziani” falsificano più spesso. Sulla vacchetta c’è anche lo
stato di salute del personale: Adriano capisce allora il senso di un bizzarro
passaggio del Regolamento, che impone agli infermieri di essere curati sempre
nell’infermeria del manicomio 136.
136
“Il salariato che si accusa ammalato e risulta di non poter prestare servizio per malattia può
essere sottoposto ad osservazione nell’infermeria dell’istituto. (…) Il salariato colpito da
infortunio che ritenga lo stesso accaduto in servizio sarà ricoverato nell’infermeria
dell’istituto”, Provincia di Roma. Regolamento per gli infermieri addetti agli istituti
psichiatrici (cit.), Art. 57.
71
Quando i pazienti escono dal padiglione per fare l’ergoterapia gli
infermieri li segnano sulla vacchetta: vanno nel campo accanto al manicomio,
sono una trentina, e per tutto il giorno lavorano sotto gli occhi annoiati di due
infermieri armati di un corno d’ottone, maneggiano pialle, vanghe, zappe e
falci anche se sono “pericolosi per sé e per gli altri”. La domenica però non
possono uscire a passeggiare nel parco perché potrebbero ferirsi.
2.3.2
MALAVITA
Al padiglione dei criminali molti ci vanno apposta perché con una
diagnosi d’infermità mentale si fanno meno anni di carcere. Quelli con gli
avvocati migliori imparano presto a “fare i matti”: c’è chi passa buona parte
della sua vita a pensione in manicomio anche se è sano di mente, come il
sicario della banda della Magliana Marcello Colafigli che per venti anni entra
137
ed esce dai padiglioni, prima di essere abbattuto a revolverate
. Adriano ha
fatto amicizia con un malavitoso abbastanza celebre anche se tutti dicono “che
quello fa finta”: è il primo lì dentro che sembra normale
138
. Così quando,
mentre chiacchierano fitto in un angolo della sorveglianza, quello gli chiede di
recapitare un biglietto a piazza Risorgimento, davanti al negozio di
motociclette, Adriano ci pensa un po’. Gli offre cinquantamila lire, lo stipendio
di un mese. Dice di no e quello gli stringe la mano: “Bravo, ora ti stimo di
più”. Quindici anni dopo Adriano scoprirà l’infermiere che lo ha fatto al posto
suo.
Dopo un mese arriva il primo turno di notte. Il collega “anziano” prende
due sedie e le mette una di fronte all’altra davanti all’ingresso della corsia, per
andare in corridoio bisogna scavalcarle: “E se m’addormo – dice – per nessuna
ragione devi entrare da solo”. Poi mostra ad Adriano l’orologio marcatempo
137
138
Cfr. G. Flamini, La banda della Magliana, Kaos, Milano 2002.
Cfr. A. Pallotta, infermiere, Intervista III, raccolta per questa tesi presso l’ex ospedale
psichiatrico Santa Maria della Pietà, Roma, febbraio 2007.; cfr. Id., Intervista II (cit.).
72
sul muro del corridoio e la finestrella aperta nello sportello d’acciaio dietro cui
gira il disco di carta da firmare ogni quarto d’ora: per non lasciare incustodita
la corsia è sufficiente la firma di uno solo. È una cosa molto seria, dice, perché
se succede qualcosa la Direzione inoltra il disco al tribunale e chi si è
addormentato passa un guaio. Ma Adriano di dormire non ha proprio voglia:
più che la corsia guarda le lancette sul suo polso e nella prima mezz’ora arriva
due volte in anticipo a scrivere pal, “Pallotta”, nella finestrella. E quando tocca
al collega, ma lo vede sprofondare nella sedia e socchiudere gli occhi, Adriano
si agita un po’: “’Nun te preoccupà – biascica quello – domani ci penso io”.
La mattina gli “anziani”, mentre fanno il lavoretto, non vogliono
novellini tra i piedi. Solo dopo un altro mese Adriano si sente chiamare:
“Ragazzì, vieni che sei pronto”. Gli mostrano come aprire con lo spadino il
lucchetto che serra lo sportello dell’orologio, dopo aver infilato una forcella di
saggina che solleva appena il foglio: così, quando lo sportello si apre, la
lametta inserita nella giuntura va a vuoto, il foglio non viene tagliato, si
mettono tutte le firme che si vuole e la suora non sgama nulla. La saggina è
fondamentale perché non si flette e sopravvive discreta nella tasca della cappa
senza spezzarsi: nessuno sa chi ha inventato quel metodo, insegnato da sempre
alla scuola segreta degli infermieri. Quando negli anni Sessanta arrivano le
scope di plastica, Adriano e gli altri dovranno nascondere le vecchie nello
scantinato.
Qualche giorno dopo Adriano si sente chiamare da un gruppetto di
“anziani” attorno al letto di un paziente che si sbraccia: prende una fascia e il
quadrello, un grosso ago da tappezziere, e lega. “Bravo – gli dicono – ora sei
un infermiere”: sa mettere le fasce di contenzione, sa manomettere l’orologio,
sa che la buchetta è l’armadio in cui gli infermieri tengono il proprio coltello e
la forchetta che i pazienti non devono mai usare, che il rastrello è lo
spazzolone per il pavimento, che il disco di carta dell’orologio si chiama zona,
che un paziente in toppa è uno che dà di matto. Non ha mai fatto un’iniezione.
In teoria è il medico psichiatra primario del padiglione a disporre la
contenzione di un paziente; nella pratica il medico di solito firma sulla
73
vacchetta accanto ai nomi dei contenuti quando controlla i registri, un paio di
volte la settimana. Spesso è la suora capo sala a decidere e, se accade qualcosa,
è necessario dimostrare alla Direzione perché non si sono messe le fasce; così
la contenzione è soprattutto preventiva, conseguenza di uno sguardo storto o di
un dondolare insistente. Non è difficile assicurare mani e piedi alle traverse di
ferro del letto e Adriano impara presto, ma di prendersi la responsabilità di
decidere quando farlo si rifiuterà fino alla pensione.
Capita che una suora capo sala, magari insultata da un paziente, ordini le
fasce per punizione; c’è chi prova ad opporsi, ma si sa che i biglietti delatori
arrivano in Direzione per direttissima: le suore, impara Adriano, contano più
del direttore. C’è anche chi tra gli infermieri grida che le farà arrivare alla
chiesa senza toccare terra a forza di calci, ma insulti e minacce scivolano via
dalle tonache: le suore dirigono l’ufficio ispettivo e orchestrano più
d’ottocentocinquanta infermieri, spostati nei padiglioni secondo le simpatie e le
mazzette ricevute. Ce ne sono più di cento: ogni padiglione ne ha due, la capo
sala e la sua vice, che vivono in stanzette tra la prima e la seconda porta;
lavorano sette giorni alla settimana, si allontanano solo per mangiare nel
refettorio e per la Messa e ci alcune che per tutta la vita non escono dal
manicomio.
Nel padiglione di suor Antonietta non volano neanche le mosche: ogni
mattina alle undici passa in rassegna lo sgabuzzino e verifica che gli stracci per
il pavimento siano stati lavati e strizzati e che siano stesi senza che i lembi si
tocchino. Sono le sette e nella corsia vuota si lava il pavimento e si sistemano i
letti: il collega “anziano” ci mette tanto zelo che, quando alle undici Adriano
vede comparire Antonietta sulla soglia, hanno appena finito. La suora
s’inginocchia a terra per assicurarsi che i letti siano perfettamente allineati e
che le coperte pendano verso terra in ugual misura. “Rifare!”, grida, irrompe
tra i letti e getta coperte e cuscini in mezzo alla stanza. Gli infermieri non si
scompongono: sanno che nella corsia accanto il collega pupillo d’Antonietta ha
già passato l’esame e quando questa s’allontana disfano meticolosamente tutti i
suoi letti.
74
2.3.3
VISTO DA FUORI
Dante ha otto anni e non ha mai visto un matto, ma quando nel 1962
arriva a Roma da Orvieto capisce subito che Monte Mario significa manicomio
139
. Nel quartiere stanno appena iniziando a costruire e i prezzi degli
appartamenti sono ancora abbordabili: ci sono solo un pugno di palazzi lungo
la via Trionfale, raccolti attorno alla chiesa di piazza Guadalupe, e due strade,
una per l’ospedale San Filippo Neri, l’altra per il Santa Maria della Pietà; il
resto è una grande vallata verde che arriva fino al quartiere Balduina, l’inizio
della città. Le strade intasate, i viadotti, i palazzi irti d’antenne l’uno contro
l’altro arriveranno negli anni Settanta, con l’apertura del grande policlinico
Gemelli: ora il piccolo bar di fronte al manicomio è una stazione di posta dove
si fermano i Romani in gita per prendere l’ultimo caffé 140.
I genitori dei compagni di Dante lavorano tutti in manicomio: cuochi,
portantini, elettricisti, giardinieri, custodi, stallieri, idraulici, contadini,
infermieri sono una piccola città inghiottita ogni giorno dalla rete di filo di
ferro. Dante gioca con Maurizio, mentre sua madre spalma la marmellata sul
pane e sbadiglia perché quella notte con la paziente in toppa non ha chiuso
occhio; Maurizio e Dante giocano a rincorrersi, uno fa il matto, l’altro
l’acchiappa e gli fa la cravatta, stringendogli il collo tra l’avambraccio e il
bicipite. Gli infermieri che se la vedono ogni giorno con quei mostri invisibili
sono dei coraggiosi, dei guerrieri e, quando a tavola i grandi parlano lugubri
dei padiglioni più pesanti dove nessuno vuole andare, i bambini ascoltano
attenti.
Con la scuola media finalmente Dante può uscire dal cortile di casa:
attraversa la via Trionfale, che ha una corsia sola e non somiglia ancora ad
un’autostrada, e gioca a pallone sulla terra di nessuno polverosa tra la scuola e
139
Cfr. D. Rofena, Intervista I, raccolta per questa tesi presso il quartiere Monte Mario, Roma,
aprile 2007.
140
Cfr. S. Metelli, barista, Intervista I, raccolta per questa tesi presso il quartiere Monte Mario,
Roma, dicembre 2006.
75
il manicomio. Oltre la rete vede uomini senza denti che barcollano tra gli
alberi, alcuni siedono immobili su una panchina per ore: con quei camicioni
grigi e il berretto nero calcato sulle teste pelate gli sembrano tutti vecchi,
vecchissimi.
Le terre e i campi del manicomio tra i padiglioni, il carcere di Casal del
Marmo e l’ospedale San Filippo Neri sono già in buona parte abbandonati:
l’ergoterapia, costosa e poco redditizia, è in ribasso in tutta Europa e le ortiche
si stanno prendendo i campi. Il vecchio Piccoli, guardiano dell’ultima
vaccheria attiva del Santa Maria della Pietà, porta Dante ad assaggiare il latte
fresco: in fondo al viale alberato, dietro la porta socchiusa del casale arancione,
trova qualcosa uscito dritto da uno dei suoi incubi di bambino: due file di letti
contrapposti e una schiera di fantasmi che strisciano lentamente nell’ombra. I
malatini della vaccheria sloggiano poco dopo, quando in un torrido pomeriggio
d’estate il casale va a fuoco: le fiamme altissime già lambiscono il San Filippo
Neri e quando arriva il camion dei pompieri i bambini del quartiere sono già
seduti da ore sull’aia per godersi lo spettacolo. I campi incolti diventano
pascolo, qualche pastore guida le pecore nel casale diroccato e annerito dal
fumo e costruisce le baracche di lamiera aggrappate al fosso lungo i padiglioni
che ancora sono lì: la mattina i pastori vengono sulla via Trionfale per vendere
la ricotta fresca.
Dante entra in manicomio il primo maggio 1965. Per la festa il cancello è
aperto e il bambino passeggia con i genitori sul piazzale fino al grande edificio
della Direzione: vede gli uomini e le donne con il camicione grigio che siedono
davanti ai piatti, gli infermieri che saltano freneticamente da una tavolata
all’altra e lunghissimi, meravigliosi treni che attraversano il piazzale e
spariscono nel bosco, convogli di vagoni di metallo scintillante che traboccano
di biancheria sporca.
Il primo maggio, festa dei lavoratori, i romani impacchettano fave,
pecorino e fiaschi di vino e si trasferiscono sui prati fuori le mura: in
manicomio ad organizzare la festa più “rossa” dell’anno ci pensano le suore.
La stesura della lista dei fortunati che potranno uscire dai padiglioni, circa un
76
quinto del totale, è laboriosa e porta via molti dei giorni precedenti la
ricorrenza: quando finalmente la mattina i malati escono sui prati sembra di
assistere ad una manovra militare
141
. I generali neri, le suore, marciano
impettiti davanti ad un drappello sparuto di svogliati ufficiali bianchi, gli
infermieri, e dietro la truppa in grigio ordinata in file serrate marcia
all’unisono. Ci si accampa rigidamente divisi per sesso e per padiglione: quelli
del
XVI,
malati di Tbc, lontani da tutti mentre i fortunati del
XX,
i “lavoratori”,
riescono da dove sono addirittura a scorgere le donne. Ma capita anche che, per
far quadrare i conti a rubabandiera, i reggimenti si mescolino e per qualche ora
il primo maggio diventi una giornata normale, senza chiavi e reti di ferro.
2.3.4
IL BISONTE
Adriano ha detto che si licenzia perché non vuole fare il secondino
142
.
Con gli altri “nuovi” fa i “rimpiazzi”, copre i colleghi assenti per malattia: una
suora un po’ anziana gli si affeziona e lo fa trasferire nel suo padiglione, dove
si fa anche qualche iniezione. Al padiglione XXII, il più grande del manicomio,
ci sono trecentoventi pazienti cronici: Adriano resterà al bisonte dieci anni.
Una folla d’anziani dementi ed epilettici vive stretta tra le otto corsie e le
tre sorveglianze, quasi tutti sono ricoverati da più di vent’anni; per pulire gli
infermieri li fanno sedere sui tavoli da pranzo e ordinano: “Su i piedi!”. A
pranzo ogni infermiere deve assicurarsi che ognuno dei venti pazienti
affidatigli mangi: molti devono essere imboccati e quando si finisce di
raccogliere i cucchiai di stagno sporchi con impressa la scritta “Rubato al
manicomio” è già ora di prepararsi per la cena. A frequentare il bisonte ci si
ammala facilmente di “sindrome da istituzionalizzazione”: si diventa come il
Regolamento, fatalisti, rassegnati e un po’ matti. C’è un medico che prima di
141
Cfr. A. Pallotta, L’armata Brancaleone nel manicomio, in Id. Aneddoti simpatici dal
manicomio, per concessione dell’autore, Roma 2007.
142
Cfr. A. Pallotta, infermiere, Intervista II (cit.).
77
entrare tocca tutti gli alberi del viale con la mano destra: del resto, dicono gli
infermieri “anziani”, “in manicomio so’ matti pure gli alberi”.
Giovanni ha novant’anni e l’arteriosclerosi galoppante: ogni giorno
chiede di essere liberato perché una donna lo aspetta fuori del cancello: chi
dice che tanto alla sua età non riuscirebbe a soddisfarla, viene morso. Poco
male, non ha neanche un dente 143. Una notte Giovanni svanisce: lo cercano nei
letti degli altri pazienti, impossibile che sia uscito dalla porta chiusa a chiave.
Qualcuno soffia nel corno e un minuto dopo tutti i pazienti del bisonte
marciano svegli nei corridoi gridando “Giovanni, Giovanni!” C’è anche chi
abbozza un “Giovà, vieni fuori che Maria ti aspetta!”, ma il vecchietto non
salta fuori. Ed è in momenti così che il manicomio inizia a pensare al posto
degli uomini: sospese le ricerche, gli infermieri si convincono che Giovanni,
magrolino com’è, è sgaiattolato attraverso le sbarre della finestra e per
dimostrare la loro teoria si affannano a farci passare un collega particolarmente
minuto. Giovanni intanto ronfa beatamente poco lontano, sommerso da una
montagna di lenzuola sporche nel carrello della lavanderia.
A lavorare in manicomio s’impara e in cambio si cede un po’ d’umanità
all’istituzione: se ne accorge a sue spese il sindaco di un piccolo paese vicino
Roma quando, dopo aver approvato e firmato secondo la legge il certificato
medico che attesta la follia di un suo concittadino per il quale la famiglia ha
richiesto l’internamento, s’offre d’accompagnarlo al Santa Maria della Pietà
con la sua automobile 144. Mentre lo psichiatra dell’accettazione visita il nuovo
arrivato, il sindaco fa due passi in corridoio. Sorriso di circostanza e procedura
inflessibile, due energumeni in bianco lo afferrano per le braccia: “Vieni con
noi da bravo, un bagnetto e poi a letto e domani ti sentirai meglio”. “Ma io
sono il sindaco!”, obietta il poverino. Come da Regolamento, gli infermieri
allargano il sorriso e stringono la presa: “Si, certo, e io sono il direttore del
manicomio”. I concittadini lo salvano sul bordo della vasca da bagno.
143
Cfr. A. Pallotta, Un giovane novantenne, in Id. Aneddoti simpatici dal manicomio, (cit.).
144
Cfr. A. Pallotta, infermiere, Intervista III (cit.).
78
Ogni settimana di mattina presto Adriano riceve la lista, raduna i pazienti
e li conduce al padiglione dell’elettroshock
145
. Il dottore bagna le tempie con
acqua salata, appoggia gli elettrodi e preme il bottone. “Lo potrebbe fa’ pure
‘no scopino”, pensa Adriano, ma c’è sempre il rischio che il paziente abbia un
attacco cardiaco e la direzione aprirebbe sicuramente un’inchiesta: meglio
allora che lo faccia il medico. Adriano mette il paziente sul letto, quello di
solito si agita ma non può legarlo, si frantumerebbe le ossa quando la scarica
elettrica lo attraversa. Quando il medico preme il bottone il paziente perde
immediatamente conoscenza e salta; lo tengono per le mani e i piedi perché
non cada giù dal letto: le convulsioni arrivano immediatamente, bisogna tenere
e mollare, assecondare i movimenti a scatti, metterlo su un fianco perché non
soffochi, aprirgli la bocca e afferrare la lingua prima che si strozzi. Tre ore
dopo il paziente si sveglia intorpidito e torna barcollando in padiglione
abbracciato ad Adriano. Sicuramente per qualche giorno avrà difficoltà a
ricordare: c’è chi non sa neanche di essere in manicomio, chi dice di volare e
passeggia per la sorveglianza ad un palmo da terra e chi grida perché vede il
suo braccio abbandonato sul pavimento dall’altra parte della stanza. Adriano
ogni volta che finisce un ciclo di quindici applicazioni si sente un po’ peggio,
come se qualcuna gliela avessero fatta a lui: si sforza di capire il criterio con
cui viene prescritto l’elettroshock, terapia o punizione, ma gli sfugge sempre.
Al bisonte sarebbe impossibile sopravvivere per gli infermieri senza
l’aiuto dei malatini: Sergio è uno di quelli che in manicomio c’è praticamente
nato ed è talmente zelante e veloce nel lavoro che lo hanno soprannominato
littorina, come il treno veloce
146
. Quando la mattina gli imbianchini del
manicomio entrano nello sgabuzzino dove tengono vernici e pennelli, lo
trovano già pronto, con il serbatoio della calce caricato sulle spalle come uno
zaino e l’erogatore della vernice stretto in pugno. Ma sono appena le sette,
l’ora del caffé, e per toglierselo dai piedi lo mandano avanti. Littorina bussa
furiosamente al padiglione XXII bardato come un astronauta: “Famme entrà, ho
145
Cfr. A. Pallotta, infermiere, Intervista I (cit.).
146
Cfr. A. Pallotta, Littorina, in Id. Aneddoti simpatici dal manicomio (cit.).
79
da imbiancare tutta la sorveglianza!” Il portiere, vedendolo solo, fa segno di no
e quello minaccioso brandisce l’erogatore della vernice. Infermieri e ricoverati
si accalcano alle finestre, nessuno ha il coraggio di uscire ma tutti vogliono
vedere Littorina furibondo che dipinge il manicomio: gli alberi davanti al
bisonte rimarranno per parecchi anni bianchi splendenti.
Anche bombolo è cresciuto in manicomio: stava al padiglione VIII, quello
dei bambini, le infermiere se lo ricordano tutte e ora che è grande ha il
privilegio di uscire da solo dal bisonte per andare a far loro visita 147. Bombolo
è diventato un ragazzone alto e forte e le aiuta a pulire le finestre più alte; in
cambio quelle gli portano qualche dolcetto da casa, visto che è tanto goloso.
Qualcuna ogni tanto riesce anche a convincere la suora e se lo porta a casa: è
un babysitter perfetto. È il primo internato a varcare il cancello, per ora è
l’unico.
147
Cfr. A. Pallotta, infermiere, Intervista I (cit.).
80
2.4 MARCO CAVALLO
Teoria e pratica per chiudere gli ospedali psichiatrici
Considerando l’apertura alare e la frequenza del battito delle ali rapportata al
peso, è scientificamente provato che un coleottero non può volare. Vola perché
non lo sa.
Targa presso la Facoltà d’Ingegneria aeronautica, Cambridge
2.4.1
L’ANNO PIÙ VELOCE
Ogni anno a dicembre la prestigiosa rivista sportiva France Fotball
assegna il Pallone d’oro al calciatore che ha maggiormente brillato per talento,
personalità e carisma. Bobby Charlton è il capitano della nazionale del Regno
Unito, educato, serio, non prende un cartellino giallo da mesi, capelli biondi
rigidamente scolpiti alla tedesca e petto da statua greca: ha il premio in tasca. E
invece i seriosi giornalisti francesi danno il trofeo a Gorge Best, il “quinto
Beatles”, quello che il Manchester United non voleva perché troppo magro, che
ubriaco fa a botte con i poliziotti nei locali della swingin’ London, che dopo
aver segnato sei goal contro il Northampton esce dallo stadio e attraversa il
quartiere di corsa tra i fans in delirio. Porta i capelli lunghi e somiglia un po’ a
Che Guevara, è nato in un sobborgo di Belfast e, se non avesse inventato il
calcio moderno come dice Pelè, forse si sarebbe arruolato nell’Ira. France
Fotball non ha mai fatto nulla del genere: è il 1968 148.
Il Sessantotto in manicomio inizia il 18 marzo, quando il ministro della
Sanità, il socialista Luigi Mariotti, porta in Parlamento la legge numero 431
148
Cfr. G. Best, C. Roy, The Best, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2007.
81
sulle “Provvidenze per l’assistenza psichiatrica”
149
. A destra la chiamano
“legge straccio” e il principio che equipara gli ospedali psichiatrici a quelli
generali suscita l’unanime levata di scudi 150. Con la nuova legge gli infermieri
aumentano ad uno ogni tre posti letto, arrivano gli assistenti sociali in numero
di uno ogni cento pazienti e nascono i
CIM,
i centri di igiene mentale,
ambulatori sparsi su tutto il territorio nazionale in cui psichiatri, psicologi e
infermieri specializzati lavorano per prevenire il ricovero in manicomio.
L’articolo quattro della legge Mariotti contempla poi la possibilità di essere
ricoverati in ospedale psichiatrico per propria volontà: se il ricovero è
volontario, lo è anche la dimissione e solo chi è stato internato in modo coatto,
in flagranza di reato ad esempio, deve attendere l’autorizzazione del magistrato
per uscire. La chiave della rivoluzione è affidata ai medici che ora possono
decidere di trasformare un ricovero originariamente forzato in un soggiorno
volontario.
Al Santa Maria della Pietà l’infermiere Adriano si sente chiedere “Che
me lo fai fa un giretto?” 151 Cautamente ora può aprire la porta del padiglione a
quelli che si comportano meglio, che da mesi o da anni non danno segno di
pericolosità: se decidono di non tornare non sono più evasi ma liberi cittadini
che s’allontanano da un ospedale comune sotto la propria responsabilità. Senza
nessun tentativo di riabilitazione per la stragrande maggioranza dei pazienti
non cambia nulla: non sono in grado di uscire da soli e quindi non si può
trasformarli in “volontari”. Comunque al padiglione XXII gli ospiti scendono da
trecentoventi a centosessanta e con meno affollamento il manicomio è già un
po’ più umano. E la legge Mariotti, pur innovativa, ha già il fiato corto.
149
150
Cfr. Legge n. 431, Provvidenze per l’assistenza psichiatrica, 18 marzo 1968.
Cfr. A. Iaria, T. Losavio, P. Martelli, Lineamenti storici sulle politiche dell’assistenza
psichiatrica dall’unità d’Italia alla chiusura dei manicomi (cit.).
151
Cfr. A. Pallotta, infermiere, Intervista I (cit.).
82
2.4.2
LA VENDETTA DELLA FOLLIA
I cavalli irrompono nel deserto alcalino partoriti da una nuvola, elefanti
dalle gambe sottili come trampoli portano in groppa obelischi e cattedrali dalle
cui bifore ammiccano donne nude, il povero sant’Antonio può opporre solo un
timido crocefisso, stretto tra le dita ossute: così Salvador Dalì annuncia al
mondo che la follia è tornata
152
. Più che tornata, gli fanno eco dalle
avanguardie del Novecento, non se n’è mai andata, si era solo nascosta tra le
pieghe rassicuranti dell’Illuminismo.
Ridurre l’immaginazione in schiavitù fosse anche a costo di ciò che viene
chiamato sommariamente felicità è sottrarsi a quel tanto di giustizia
suprema che possiamo trovare in fondo a noi stessi. (…) Ognuno sa che i
pazzi devono il loro internamento ad un certo numero d’azioni
legalmente reprensibili e che, in mancanza di queste azioni, la loro libertà
non può essere messa in causa. Che essi siano vittime della loro
immaginazione sono pronto a concederlo. Ma il profondo distacco che
dimostrano per la nostra critica e per i castighi diversi che vengono loro
inflitti,
lascia
supporre
che
attingano
un
grande
conforto
dall’immaginazione, che apprezzino abbastanza il loro delirio per
sopportare che sia valido solo per loro. E in effetti le allucinazioni, le
illusioni eccetera, sono una fonte non trascurabile di godimenti 153.
L’oggettività scientifica non seduce più i filosofi, torna l’appeal del
misterioso medievale, del contorto, dell’inspiegabile e mentre sette e società
segrete dilagano in tutto l’Occidente e sul palco di Beckett, Jonesco e
Pirandello va in scena il balbettio dei folli come metafora dell’umanità che ha
perso di nuovo la bussola, la pazzia diventa programmatica per molti tra i
neonati movimenti artistici. Alla soglia del Novecento già il Grido di Edvard
152
S. Dalì, La tentazione di sant’Antonio, Olio su tela, 1946, Museo Reale di Belle Arti,
Bruxelles.
153
A. Breton, I manifesti del Surrealismo, Einaudi, Milano 2003, pag. 34.
83
Munch aveva ammonito i contemporanei: chi cerca il senso della vita troverà
delirio, orrore, follia
154
. Prima del furore normalizzatore fascista i Futuristi
fanno il gesto inconsulto e il riso sgangherato connotati “dell’uomo nuovo” 155,
mentre il dannunziano Andrea Sperelli e gli altri dandy decadenti rispolverano
la melanconia per fuggire dallo spleen e dalla banalità quotidiana
156
: il tappo
sul vaso di Pandora è saltato di colpo e l’atto d’accusa contro le “istituzioni
totali” non si fa attendere. Lo verga Antonin Artaud, forse il massimo teorico
del teatro e del suo riflesso, ovvero l’apparente normalità della vita 157, prima di
morire d’overdose da psicofarmaci, dopo infiniti ricoveri e cinquantuno
elettroshock.
Signori [direttori di manicomio], le leggi e il costume vi concedono il
diritto di valutare lo spirito umano. Questa giurisdizione sovrana e
indiscutibile voi l’esercitate a vostra discrezione. Lasciate che ne ridiamo.
(…) Per ogni cento classificazioni, le più vaghe delle quali sono ancore le
sole ad essere utilizzabili, quanti nobili tentativi sono stati compiuti per
accostare il mondo cerebrale in cui vivono i vostri prigionieri? 158
Il ritorno della follia non seduce solo gli intellettuali borderline: il “salto”
nell’irrazionale si rivela uno strumento utile per superare certi impacci secolari
d’origine illuminista e i modelli basati sulle scienze del caos si affacciano
addirittura nei laboratori. Negli anni Venti la fisica quantistica, secondo la
quale gli elettroni non viaggiano in orbite ordinate attorno al nucleo, ma si
muovono lungo traiettorie sparse, mette in discussione tutta la nostra visione
154
E. Munch, Il grido, olio, tempera e pastello su tela, 1893, Galleria Nazionale, Oslo.
155
Cfr. F-T. Marinetti, Manifesto del Futurismo, in G. Contini, La letteratura dell’Italia unita,
Sansoni, Milano 1997; S. Cigliana, Le stagioni della critica militante, Onyx, Roma 2006.
156
Cfr. G. D’Annunzio, Il piacere, Mondadori, Milano 2002.
157
Cfr. A. Artaud, Il teatro e il suo doppio, Einaudi, Milano 2005.
158
A. Artaud, Lettera ai direttori di manicomio, in Id. Lettere del grande monarca, Edizioni
l’Obliquo, Brescia 2004, pag. 34.
84
dell’universo e include l’indeterminazione tra le qualità fondamentali della
natura 159.
Qualche anno dopo due guerre mondiali spalancano del tutto la porta
della follia sul mondo: davanti all’ecatombe restano solo i mondi d’utopia e,
novello Tommaso Moro
160
perdute, folli e invisibili
161
, Calvino porta per mano i lettori nelle sue città
, Burroughs dialoga con la propria macchina da
scrivere trasformata in scarafaggio e con gli altri della beat generation elegge il
“discorso schizofrenico” a unica forma ancora possibile di comunicazione
162
.
Intanto il nuovo media dominante, il cinema, introduce nella vita di ogni
spettatore la possibilità concreta e a buon mercato dell’esperienza del sogno,
dell’illusione e del delirio 163. L’irrazionalità diviene principio organizzatore di
molte relazioni umane, in primis quella tra gli individui e i mezzi di
comunicazione di massa: dismessa la fiducia nelle “Meravigliose sorti
progressive” 164, dilaga la sfiducia verso i “persuasori occulti” 165; c’è anche chi
soffia sul fuoco della paranoia e riesce a scatenare grazie alla radio una vera e
propria crisi d’isteria collettiva, facendo passare per vera un’invasione di
marziani fasulli 166.
Se è in questa sede difficile passare in rassegna i diversi contributi della
follia alla cultura del Novecento, è giocoforza impossibile enumerare tutti i
159
S. Hawking, G. Fraser, E. Lillestol, I. Sellevag, Nel mistero dell’universo, Istituto
Geografico De Agostini, Novara 1996, pag. 32; cfr. W. Heisenberg, Indeterminazione e realtà,
Guida, Napoli 2002.
160
Cfr. T. Moro (Thomas More), L’utopia (cit.).
161
Cfr. I. Calvino, Le città invisibili, Mondadori, Milano 2000.
162
Cfr. W. Burroughs, Pasto nudo, Adelphi, Milano 2006.
163
C. Metz, Cinema e psicanalisi, Marsilio, Venezia 2002, pag. 87; A. Bazin, Che cosa è il
cinema?, Garzanti, Milano 2000, pag. 43.
164
Cfr. G. Leopardi, La ginestra, in M. Dell’Aquila, Poesia e letteratura, vol. III, Signorelli,
Roma 1971.
165
166
Cfr. P. Vance, I persuasori occulti, Einaudi, Torino 2005.
Cfr. G. Placereani, L. Giuliani, My name is Orson Welles, media, forme, linguaggi, Il
Castoro, Milano 2007.
85
passi che la psichiatria compie verso lo smantellamento dell’ospedale
psichiatrico: basti dire che si tratta di una crisi profonda del metodo d’indagine
scientifica, contemporanea al crollo del modello della gestione della devianza
basato sulla reclusione, non più sostenibile per ragioni etiche, demografiche ed
economiche.
Di certo uno dei primi passi lo compie Carl Gustaf Jung, il quale, stanco
di almanaccare classificazioni patologiche che servono a poco o nulla, nota che
i sintomi della follia “Appaiono tutt’altro che immotivati e senza senso e che
anche le cose più assurde sono simboli di pensieri comprensibili che abitano
tutti i cuori umani”
167
. Ci pensa lo psichiatra tedesco Karl Jaspers a
trasformare in pratica clinica l’intuizione dello psicoanalista svizzero:
continuando a “ricondurre il singolo al singolo”, dice, si naufraga in un oceano
d’elementi particolari e non si avvista il senso che la manifestazione visibile
della follia suggerisce; guardando invece all’intero processo della follia, al suo
divenire, tutti i sintomi acquistano valore significante
168
. Sono idee simili a
picconi, buoni per demolire il manicomio immobile e impersonale, perché ora
non basta più “Guardare per comprendere, bisogna vivere un po’ della propria
storia assieme alla storia dell’altro e allora ci si accorge che al di là
dell’apparente disordine della follia esiste un mondo con un altro ordine, un
ordine di coerenza 169”.
Quando poi i filosofi esistenzialisti del “Maggio francese”, Sartre e
Foucault in testa, rileggono le pagine in cui Edmund Husserl ordina ad ogni
uomo di riprendersi il proprio corpo perché è l’unica “reale realtà” che ha,
infischiandosene delle etichette di normalità, la psichiatria diventa uno dei temi
caldi del Sessantotto e “Abbattiamo i manicomi!” diventa un gettonato slogan
167
A. Gaston, Genealogia dell’alienazione (cit.), pag. 34; cfr. C.G. Jung, Psicologia della
Dementia Precox, in Id. Opere, Bollati Boringhieri, Milano 1971.
168
Cfr. K. Jaspers, Psicopatologia generale, Il Pensiero scientifico, Roma 2000.
169
A. Gaston, Genealogia dell’alienazione (cit.), pag. 42.
86
di piazza
170
. Il pensiero filosofico esistenzialista del resto non poteva che
scontrarsi frontalmente con la realtà repressiva del manicomio. Nel 1972 lo
psichiatra Franco Basaglia chiede a Jean-Paul Sartre che cos’è la psichiatria,
parafrasando uno dei titoli di maggior successo del filosofo francese
171
, e la
risposta non lascia spazio a dubbi: il medico non può nascondere le sue
responsabilità umane sotto la divisa da “tecnico del sapere pratico”, la società
deve imparare a comprendere la follia entro se stessa, non più devianza ma
faccia multiforme della realtà.
L’uomo che vede, che cura, non ha alcun rapporto con il tecnico teorico.
Finché non avrà rinunciato a questo tipo d’istituzione sarà costretto a
continuare ad applicarla; sarà medico di un ospedale psichiatrico e gli si
dirà: ciò che si deve fare, si deve fare, sta scritto. (…) Tutto ciò che noi
diciamo sarà necessario spiegarlo alle masse perché capiscano: anch’esse
sono abituate a pensare che un pazzo è un pazzo, la classe dominante ha
dato loro la sua ideologia 172.
Nel 1961 lo psichiatra e filosofo martinicano Franz Fanon vuole parlare
di ciò che accadrà all’Africa quando i coloni europei salperanno e non sa
ancora che il suo libro sarà uno dei maggiori successi editoriali del decennio:
scrive che la decolonizzazione che vuole cambiare l’ordine universale, quello
da sempre stabilito per le cose, non può che essere un “programma di disordine
assoluto”
173
. Fanon non parla di manicomi, ma la sua carriera nei padiglioni,
prima in Francia poi in Africa, lo aiuta ad appuntire il suo pensiero: sarà
“disordine assoluto”, lotta, fallimento e successo anche la difficile e necessaria
“decolonizzazione” dei manicomi italiani.
170
Cfr. J-P. Sartre, L’essere e il nulla, Net, Milano 2000; cfr. M. Foucault, Sorvegliare e
punire (cit.); cfr. E. Husserl, Meditazioni cartesiane, Bompiani, Milano 1994.
171
Cfr. J-P Sartre, Che cos’è la letteratura?, Net, Milano 2004.
172
J-P Sartre, Crimini di pace, conversazione con Jean-Paul Sartre, in F. Basaglia, L’utopia
della realtà (cit.), pag. 237.
173
Cfr. F. Fanon, I dannati della terra (cit.).
87
Questa violenza irrefrenabile che si scatena nei liberati non è un’assurda
tempesta né il risorgere d’istinti selvaggi e nemmeno effetto del
risentimento: è l’uomo stesso che si ricompone. (…) Colui al quale non si
è mai cessato di dire che non capiva altro che il linguaggio della forza,
decide di esprimersi con la forza. Di fatto da sempre gli è stato
annunciato il cammino che doveva essere il suo se voleva liberarsi 174.
2.4.3
SEGNI, SINTOMI E PORTE APERTE
La critica antideologica del Sessantotto suggerisce alla psichiatria un
nuovo punto di vista: quello che prima era solo il sintomo di una malattia, ora
diventa anche il segno di un modo altro di relazionarsi con la realtà che, se
pure non è accettato dal sentire comune, non merita comunque l’aggettivo
“patologico”. Da questo nuovo punto d’osservazione si vede il paziente ma
anche il medico, ovvero fino ad adesso “colui per mezzo del quale il sistema
gestisce la salute mentale dei suoi membri” 175.
Se, come ammonisce il principio d’indeterminazione, è impossibile
conoscere contemporaneamente dove si trova una particella e qual’è la sua
velocità, almeno quanto è impossibile fotografare nitidamente sia la macchina
in corsa che il panorama immobile dietro di quella 176, così il medico che cerca
nel linguaggio del malato solo le evidenze della malattia non può cogliere il
senso di quella relazione altra con la realtà messa in atto da un suo prossimo.
Di più, la condotta del terapeuta “perturba” il campo osservato, cioè
contribuisce ad acuire la gravità delle manifestazioni visibili del folle, perché si
pone in rapporto conflittuale e non dialettico con esse e spesso ne diventa
addirittura la causa efficiente: se il medico “inquisitore” non considera la
174
F. Fanon, I dannati della terra (cit.), pag. 103.
175
A. Gaston, Genealogia dell’alienazione (cit.), pag. 54.
176
Cfr. C. Altavilla, Fisica e filosofia in Werner Heisenberg, Guida, Napoli 2006.
88
necessità del malato di “difendersi da un interrogatorio ostile”
177
, la prassi
psichiatrica si trasforma giocoforza in un modello di violenza ed esclusione.
Che cos’è se non esclusione e violenza quella che spinge i membri
cosiddetti sani di una famiglia a convogliare sul più debole l’aggressività
accumulata? Che cos’è se non violenza la forza che spinge una società ad
escludere gli elementi che non stanno al suo gioco? Che cos’è se non
esclusione e violenza la base su cui poggiano le istituzioni le cui regole
sono stabilite allo scopo di distruggere ciò che resta di personale nel
singolo, a salvaguardia del buon andamento dell’organizzazione
generale? 178
All’improvviso il re è nudo: la clinica psichiatrica da troppo tempo
prescrive al medico di porsi come “soggettività pura” che riduce il malato a
“corpo” privo d’oggettività e quindi “oggetto”, non umano, e poi lo assolve
con l’alibi della “necessità della cura” e della “inguaribilità della malattia
mentale” 179.
L’editore Einaudi è molto sensibile ai venti che agitano gli intellettuali e
proprio nel 1968 decide di mettere nero su bianco le istanze della psichiatria in
subbuglio: appare in libreria L’istituzione negata, poi ristampato da Baldini e
Castoldi, in cui si racconta la messa in pratica delle nuove teorie tentata dallo
psichiatra Franco Basaglia e dalla sua equipe nel manicomio di Gorizia 180. In
quegli anni molti leggono molto, soprattutto tra i giovani, e il buon lancio
editoriale del libro assicura successo e diffusione, mentre Basaglia e gli uomini
del suo staff danno ottima copertura alle proprie iniziative coinvolgendo
cineasti e intellettuali in vista: il rinnovamento della psichiatria diventa una
delle richieste dei “Sessantottini” e dalle aule universitarie e dalle piazze il
177
Cfr. M. Colucci, P. Di Vittorio, Franco Basaglia (cit.).
178
F. Basaglia, Crisi istituzionale o crisi psichiatrica? (cit.), pag. 121.
179
Cfr. F. Basaglia, La soluzione finale (cit.).
180
Cfr. F. Basaglia, L’istituzione negata (cit.).
89
tema si trasferisce, con molti ritardi in verità, nell’aula del Parlamento
181
.
Dalla strada per Gorizia non si torna indietro perché il libro porta in sé gli
elementi che annichiliscono l’idea stessa di manicomio: “Oltre il libro –
afferma il curatore del volume per conto di Einaudi – non può esserci che la
routine o l’assalto agli edifici pubblici” 182.
Per cambiare Gorizia, spiega Basaglia, servono sette cose: psicofarmaci
di moderna generazione che sostituiscano la contenzione e consentano di
distinguere i danni della malattia da quelli fatti dall’istituzionalizzazione,
rieducazione teorica e umana del personale, istituzionalizzato quanto i degenti,
recupero di rapporti quotidiani umani ed economici con l’esterno, abbattimento
di reti e grate e sbarre, aperture delle porte almeno per quanto possibile
secondo legge, creazione di un “ospedale di giorno” aperto a chi ne ha bisogno
e secondo la sua volontà, gestione degli spazi secondo le regole di una
“comunità terapeutica”
183
. Il personale deve fare proprio un concetto
filosofico, l’epochè, ovvero la “sospensione del giudizio”: dopo aver così
“messo tra parentesi” la malattia mentale può “Vedere il malato di mente come
un prodotto storico e sociale della razionalità moderna”
184
, può mettere da
parte la ricerca della causa della follia per dedicarsi all’espressione, al segno
attraverso cui il cosiddetto “pazzo” veicola la sua relazione con il mondo. In
una psichiatria così fenomenologicamente impostata il sano e il folle sono dello
stesso mondo, solo che l’alienato vi partecipa secondo percezioni e
comportamenti originali: di conseguenza la differenza non può più generare
181
Oltre al già citato giornalista televisivo Sergio Zavoli, molti cineasti si recano nei padiglioni
aperti per girare film e documentari e introducono nelle loro opere temi basagliani: cfr. S.
Zavoli, I giardini di Abele (cit.); S. Agosti, M. Bellocchio, S. Petraglia, S. Rulli, Matti da
slegare Italia, 1975; S. Agosti, La seconda ombra, 11 Marzo cinematografica, Italia 2000;
M.T. Giordana, La meglio gioventù, Rai Cinema, Italia 2003.
182
G. Bollati, Lettera a Franco Basaglia, in L. Mangoni, Pensare i libri, la casa editrice
Einaudi dagli anni trenta agli anni sessanta, Bollati Boringhieri, Torino 1999, pag. 143.
183
Cfr. M. Colucci, P. Di Vittorio, Franco Basaglia (cit.).
184
M. Colucci, P. Di Vittorio, Franco Basaglia (cit.), pag. 90.
90
“esclusione”, dato che è semplicemente “funzione” di un certo modo personale
di essere al mondo 185.
Nella comunità terapeutica il personale non cura ma “si prende cura”:
deve ripercorrere l’intricata trama di pregiudizi intessuta alla vita
dell’internato, “non attribuire tutto il [suo] comportamento, i suoi atti, le sue
parole alla malattia mentale e prendersi cura di quella esistenza e di quella
sofferenza così come si presentano e si dispongono nel loro essere nel mondo e
nel mondo di quella relazione di cura”
186
. Non più detenzione e contenzione
quindi, ma neanche rieducazione e “terapia morale”; non ergoterapia, lavoro
non riconosciuto come tale e quindi non pagato, come avviene attualmente in
molte comunità di recupero per tossicodipendenti, né “intrattenimento”, ovvero
l’occupare in attività frustranti, stupide e improduttive persone ritenute prive
del bisogno umano di dare un senso al proprio tempo
187
. La comunità
terapeutica è un luogo tenuto insieme dalle sue stesse tensioni perchè
nell’assemblea comune personale e pazienti hanno eguale diritto di parola e di
voto riguardo le questioni gestionali: Basaglia sta puntando proprio su
quell’aggressività fisiologica “nell’individuo che si ricompone come uomo”
per disseppellire gli uomini sepolti dall’istituzionalizzazione.
Fu scelto come sede proprio il reparto definito prima come “reparto
agitati”. I partecipanti furono scelti tra quelli che nel primo periodo di
assestamento si erano dimostrati i meno adattabili e quindi dotati ancora
di una buona dose di aggressività su cui si sarebbe potuto puntare. Essi
godono di completa libertà di movimento all’interno dell’ospedale 188.
185
Cfr. U. Galimberti, Psichiatria e fenomenologia, Feltrinelli, Milano 2006.
186
T. Losavio, La fine del manicomio: un’occasione mancata?, per concessione dell’autore,
Roma 2007, pag. 1.
187
Cfr. M. Giannichedda, Franco Basaglia e l’impresa della sua vita (cit.).
188
F. Basaglia, La comunità terapeutica come base di un servizio psichiatrico, in Id. Scritti,
Einaudi, Torino 1981, pag. 146.
91
Aprire la porta del manicomio significa riversare il problema della
devianza sulla società che ha escogitato l’ospedale psichiatrico appositamente
per escluderla dal proprio orizzonte. Se è vero, come afferma in un suo
rapporto la World Bank, che una società che si sviluppa lasciando indietro il
proprio capitale sociale, che ostacola la coesione tra gli individui e limita i
diritti di cittadinanza e lo scambio di comunicazioni è condannata a veder
aumentare dentro di sé i malati di mente, significa che il problema della follia
deve essere affrontato a partire dal territorio, nelle sue scansioni più locali e
minute 189.
Il manicomio è un moloch colossale, anacronistico e lontano dalla vita
reale e quotidiana, somiglia alla torre d’acciaio di Brasil, l’edificio orwelliano
dove i dissidenti sono rieducati al comune sentire, e fatalmente serve a poco o
nulla
190
: ora la porta aperta introduce gli ex ospiti direttamente in un mondo
che deve, o dovrebbe, cambiare per accoglierli. I
CIM
non bastano di certo:
senza un profondo mutamento dell’atteggiamento di tutta la società nei
confronti del malato di mente possono finire addirittura per riproporre su scala
mutata i meccanismi dell’esclusione e della violenza, spalleggiati da un
network di cliniche private che offrono a pagamento il “servizio completo” del
vecchio manicomio: fasce, sbarre e tante pillole.
Messo via il Regolamento, senza più la responsabilità giuridica che
inchioda alla quotidiana ripetizione acritica di gesti per conto dell’istituzione
che “pensa per tutti”, la bomba della nuova psichiatria rischia di esplodere
proprio tra le mani di chi lavora in manicomio e non sempre è pronto a
maneggiarla. Medici e infermieri devono ora agire secondo coscienza, oltre che
secondo scienza, e addirittura collaborare sullo stesso piano con i folli: l’utopia
che si fa realtà è un percorso minato, decennale e ad oggi non concluso. E
tuttavia la porta del manicomio si è ormai aperta e non si può più chiudere: c’è
passato al galoppo Marco Cavallo, grande, luccicante e tutto di carta pesta
189
T. Losavio, La fine del manicomio: un’occasione mancata? (cit.).
190
Cfr. T. Gilliam, Brasil, Twenty Century Fox, Usa 1985; cfr. G. Orwell, 1984, Mondadori,
Milano 1989.
92
azzurra, costruito dai pazienti e dagli infermieri del manicomio di Gorizia, e se
ne va in giro per la città sbalordendo i passanti, l’ultima domenica del marzo
1973.
93
2.5 I CARBONARI
Movimenti antimanicomiali nel Santa Maria della Pietà
Appena entrata, un’internata le sussurrò: “Non piangere, non ridere, non cantare,
qui tutto è pazzia. Ogni mossa, ogni parola viene controllata, anche la cosa più
umana e naturale: verrai interrogata ma non sarai creduta”.
GIOVANNA DEL GIUDICE, Il manoscritto di Augusta F.
2.5.1
TRE TIPI DI AFASIA
In manicomio è meglio parlare poco perché tutto quello che dici potrà
essere usato contro di te. E con il tempo ci si ammala di triplice afasia. I
membri del personale non parlano tra loro: la ferrea catena di comando li
vincola all’obbedienza al proprio superiore e non c’è spazio per l’iniziativa
personale, anche quando è dettata dal buon senso ed è nell’esclusivo interesse
del malato
191
. Il Regolamento è molto chiaro in proposito: chi agisce al di
fuori delle norme è colpevole fino a quando non riesce a dimostrare la propria
innocenza, esattamente il contrario di quanto vige correntemente in un’aula di
tribunale. Capita poi spesso che molti medici, per privilegio e vizio di casta,
non siano disposti a condividere con il resto del personale quanto sono in grado
di decifrare della malattia e che gli infermieri, la cui formazione è spesso
lacunosa, non ne sappiano abbastanza per andare oltre l’applicare delle fasce di
contenzione. Per quelli tra questi che sanno leggere una cartella clinica la
191
Il personale neoassunto in manicomio al momento dell’ingresso in servizio deve “Prestare
sotto pena di decadenza solenne promessa di fedeltà ai propri doveri di diligenza e di
segretezza”, Provincia di Roma. Regolamento per gli infermieri addetti agli istituti psichiatrici
(cit.) Art. 6, pag. 6.
94
strada è comunque è in salita: quando Adriano vuole saperne di più sui suoi
pazienti è costretto a comprarsi dalla suora di guardia l’accesso all’archivio
sanitario, perchè è assolutamente vietato agli infermieri
192
. Il manicomio
dunque contraddice un principio fondante della clinica moderna, basata
sull’evidenza delle prove raccolte anziché sull’applicazione dei protocolli
standard, ovvero la trasmissione e la condivisione di tutte le informazioni utili
al progresso della diagnosi e della cura 193.
I membri del personale poi non parlano con i pazienti perchè la paura
reciproca congela il dialogo nei pochi gesti fissati dal copione: dare e ingerire
la pillola, passeggiare avanti e indietro e guardare chi cammina di sottecchi,
mendicare e concedere una sigaretta, come se una sola parola fuori posto possa
incrinare il soffitto e far crollare il padiglione.
Infine non parla l’intera popolazione del manicomio, la sana e la folle,
con quelli che stanno aldiquà del cancello: il Santa Maria della Pietà basta a se
stesso, persino i farmaci sono preparati nella farmacia interna, e a chi resta
fuori i “matti” non interessano perché fanno confusione, sono sporchi e
soprattutto fanno paura. “Entrare in manicomio? – chiede Silvana, che gestisce
un negozio di scarpe a pochi passi dall’ospedale – e che ci andavo a fare?”: si
può vivere sessantaquattro anni a Monte Mario anche senza covare nessuna
curiosità per quello che c’è oltre la rete di filo di ferro 194.
Ma se è vero che “il mezzo è il messaggio”, ovvero che il senso di un
discorso non è il significato delle singole parole che leggiamo sul vocabolario
ma dipende dall’architettura della frase e soprattutto dal media che scegliamo
per pronunciarla, significa che chi parla e agisce in manicomio non può essere
considerato intrinsecamente “cattivo” per quello che dice e che fa 195. È dunque
192
Cfr. A. Pallotta, infermiere, Intervista I (cit.).
193
Cfr. D. Sackett, La medicina basata sulle evidenze, a cura di M. Bobbio, Centro scientifico,
Milano 2003.
194
S. Certelli, negoziante, Intervista I, raccolta per questa tesi presso il quartiere Monte Mario,
Roma, gennaio 2007.
195
Cfr. M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Net, Milano 2002.
95
l’istituzione totale il mezzo di quel messaggio, è il manicomio che dà forma a
parole e gesti di uomini e donne, che parla e agisce attraverso di loro,
agitandoli come marionette sul palcoscenico della follia, alcuni con la divisa
bianca da infermiere, altri con quella grigia del matto.
Dopo Gorizia è però evidente che dalla Sindrome da istituzionalizzazione
si può guarire e mentre gli internati si vedono restituita la propria personalità, i
membri del personale sono chiamati ad esercitare la propria all’interno della
comunità terapeutica. In sostanza gli è restituito il libero arbitrio e la loro
opinione diventa improvvisamente importante; devono imparare a mediare e ad
esercitare il buon senso, una cosa che per quanto la si cerchi non si trova nel
Regolamento.
Come reagisce a tutto questo chi lavora da anni in un luogo che legittima
l’agire istituzionale e anzi lo impone come l’unico possibile? E cosa accade
alla gente di un quartiere che fino ad allora al massimo ha usato il manicomio
come spauracchio buono per far andare i bambini a letto presto, con la sua folla
di fantasmi urlanti e “uomini neri”, quando improvvisamente il cancello inizia
ad aprirsi? Quella che si trovano a fare non è tanto una scelta più o meno
umanitaria, quanto una vera e propria “strategia di sopravvivenza: c’è chi si
tappa orecchie, occhi e bocca ed edifica attorno al manicomio un fortilizio che
impiegherà anni a crollare e chi cerca un modo più o meno originale per curare
la propria personale afasia.
Tra le conseguenze della legge Mariotti c’è l’aumento del personale
infermieristico: in realtà al Santa Maria della Pietà la cifra di un infermiere
ogni tre pazienti è raggiunta solo “a completamento del turno”, cioè quando, in
linea puramente teorica, i tre sanitari che nella pratica si alternano sulle
ventiquattro ore lavorano tutti assieme per tutto il giorno. Ma se il rapporto
reale tra infermieri e pazienti e di uno dei primi per ogni nove tra i secondi, è
anche vero che sono assunti in poco tempo parecchi giovani, formatisi nel
clima politico e culturale di quegli anni burrascosi. Insieme a quelli tra gli
“anziani” che hanno sviluppato buoni anticorpi all’istituzionalizzazione, tra
questi “nuovi” c’è chi intraprende una battaglia frontale contro la Direzione,
96
fatta di scioperi, aperti boicottaggi e imboscate reciproche. Ce ne sono parecchi
che, pur senza buscare neanche un biglietto di richiamo disciplinare, compiono
quotidianamente piccoli e grandi sabotaggi e mostrano agli internati e ai
colleghi il nuovo volto possibile dei padiglioni: lentamente la storia del Santa
Maria della Pietà cessa di essere la biografia di un edificio e diventa quella di
uomini e donne di manicomio.
2.5.2
PARTIGIANI BIANCHI E PARTIGIANI ROSSI
Annamaria entra in manicomio il 20 settembre del 1975 196. Come molte
tra le nuove assunte, il lavoro da infermiera psichiatrica non la entusiasma e
l’allarma la prospettiva di doversi fingere dura, inaccessibile ai pazienti e
inflessibile, quale non è nella vita d’ogni giorno, ma si tratta pur sempre di un
lavoro stabile e per di più ben pagato. È assegnata al padiglione I, proprio
subito dopo il cancello e accanto alla rete di filo di ferro: lì c’è l’accettazione e
le nuove pazienti arrivano continuamente, soprattutto di notte; spesso giungono
barcollando, in mezzo a due poliziotti che le tengono strette per le braccia. In
due prendono in consegna la “nuova” e la spogliano completamente, mentre
un’infermiera scrive sul registro la lista dettagliata dei suoi effetti personali,
l’altra li avvolge nella carta da pacchi e assicura il fagotto con due giri di
spago, poi le rasano i capelli a zero e le fanno il bagno. Moltissime tra quelle
che arrivano ogni notte sono prostitute e mendicanti che vivono in strada e il
bagno lava via pidocchi e piattole: sarebbe comunque inutile presentarsi pulite
e ben vestite perchè la doccia, recita il Regolamento, è obbligatoria per tutte.
La mattina seguente quando il medico primario del padiglione entra in
corsia trova la nuova paziente già pronta nel suo grembiule a quadretti: la
fantasia è la stessa della divisa grigia degli uomini, il colore è rosa pallido. Il
medico fa la sua visita e apre la cartella clinica della nuova ricoverata,
196
Cfr. A. Faccenda, infermiera, Intervista I, raccolta per questa tesi presso l’ex ospedale
psichiatrico Santa Maria della Pietà, Roma, gennaio 2007.
97
indicando la patologia riscontrata e il padiglione di destinazione. Annamaria ha
venti anni quando inizia a lavorare e c’è una cosa che la colpisce: la divisa
delle ricoverate non comprende le mutande
197
. “Sono pericolose” dicono le
colleghe: il perché però non lo spiegano. E non spiegano neanche perché
quando il medico arriva a visitare la “nuova” e decide se deve essere ricoverata
o dimessa, questa è già stata privata da ore di tutti i suoi averi e dei capelli e
possiede solo un grembiule a quadretti, senza mutande. Fino a che dura la
notte, di lei le infermiere non sanno neanche il nome.
Arrivano gravi malate di mente, ma anche donne anziane, magari
vecchiette che soffrono del morbo d’Alhzeimer che si sono perse, donne
giovani che spesso hanno semplicemente bevuto molto: a parte qualche
“vecchia conoscenza” che già conosce la procedura d’ospedalizzazione, tutte si
oppongono con forza, soprattutto al bagno obbligatorio. Praticamente nessuna
si spoglia da sola ed entra nella doccia: quando bestemmie, unghiate e morsi si
fanno pericolosi Annamaria prende una traversa, una striscia di cotone pesante
larga quanto mezzo lenzuolo, la lancia sulla bocca della paziente, la torce
dietro la nuca e stringe. La traversa è stata bagnata all’inizio del turno e la
donna riesce a respirare attraverso il tessuto: se continua ad agitarsi Annamaria
stringe un po’, mentre la sua collega taglia i capelli con il rasoio elettrico.
Quando la paziente diventa cianotica significa che sta per perdere i sensi e
Annamaria deve allentare un po’ e magari dare un paio schiaffi sulle guance
per riattivare la circolazione del sangue: è una procedura, non è difficile, è
come una danza.
Invece fare una cravatta a qualcuno senza strozzarlo è quasi un’arte ed è
impossibile farla ad una persona troppo alta e troppo grossa: per questo di
197
Le pazienti ricevono in dotazione sommaria biancheria intima in occasione del ciclo
mestruale: “La biancheria deve essere fissata con un giro di fascia di velo e alla fine del
periodo tali fascette devono essere tolte e non lasciate in possesso delle ricoverate; Le suore
segneranno nelle storie delle malate la date delle regole e la loro durata”, Provincia di Roma,
Ospedale Santa Maria della Pietà, norme generali per il personale di sorveglianza (cit.), pag.
42.
98
infermieri gracili al Santa Maria se ne vedono pochissimi. Solo gli
psicofarmaci di nuova generazione, veloci ed efficaci, sostituiscono la
contenzione manuale della crisi violenta ma, spiega Annamaria, arriveranno
solo qualche anno più tardi. E intanto moltissimi tra i candidati al manicomio
sono diventati energumeni imponenti dopo anni di confusione mentale e di
dieta altrettanto confusa: Annamaria, con alcune della donne alte come colonne
che si presentano al padiglione, usa una traversa per non farsi ammazzare.
Se poi non bastano cravatte e traverse c’è il letto di contenzione: le
pazienti legate mani e piedi alla struttura di metallo del letto gridano per ore,
digrignano i denti e si contorcono fino a slogarsi i muscoli e infine, esauste, si
addormentano. È il dottore che deve ordinare le fasce di contenzione, ma di
notte in accettazione ci sono solo infermiere e l’unico medico di guardia per
tutto l’ospedale è nella sua stanzetta, nell’edificio della Direzione. Ad
Annamaria non piace legare e così lo sveglia quasi ogni notte per segnalargli
una ricoverata in crisi: quello di solito ci mette un po’ ad alzare la cornetta del
telefono e risponde sempre allo stesso modo. “Dottò – sbotta lei – se non viene
qua subito lei a vederla e lo scrive sulla vacchetta io non lego nessuno”. E
capita spesso che mentre il dottore attraversa imprecando il parco avvolto
dall’oscurità, Annamaria riceve un paio di pugni dalla nuova arrivata.
Mentre Annamaria senza farsi notare troppo dalla suora capo sala e dalla
Direzione compie i suoi piccoli sabotaggi notturni all’istituzione, Claudio è già
considerato da molti una “testa calda”. Ha iniziato a lavorare al Santa Maria
della Pietà nel 1969, quando l’entusiasmo per la nuova legge si era tramutato in
ansia per il reperimento del nuovo personale necessario ed erano stati
organizzati in fretta corsi per infermieri direttamente nel manicomio. Quando
fa il corso da infermiere Claudio ha già trenta anni; è nato a Monte Mario e da
sempre frequenta la sezione del Partito Comunista, proprio a due passi dalla
chiesa di piazza Guadalupe
198
. La sezione si sta impegnando già da qualche
tempo perché al nuovo corso siano ammessi i giovani disoccupati del quartiere
198
Cfr. C. Rossi, infermiere, Intervista I, raccolta per questa tesi presso il quartiere Monte,
Roma, febbraio 2007.
99
che altrimenti sarebbero costretti a cercare lavoro altrove. È dura: tutti a Monte
Mario identificano l’amministrazione del personale con la destra, rappresentata
dalla sezione del Movimento Sociale, a cento metri da quella del PCI
199
. In più
alla Provincia, da cui dipende il manicomio, la Sanità è saldamente nelle mani
degli assessori democristiani, quasi tutti nativi di piccoli paesi della campagna
laziale. “Tu nun zappà più – si dice al bar mimando l’assessore che si rivolge
al proprio concittadino – che ti faccio assumere io al manicomio!” Questa
politica di raccomandazioni va avanti per anni, tanto che molti tra gli infermieri
“paesani” arriveranno a lavorare per tre turni consecutivi senza interruzioni,
per poter tornare a casa due giorni interi e non dover necessariamente trovare
un alloggio a Roma.
Sono gli infermieri “anziani”, che da tempo coltivano ottimi rapporti con
la sezione del PCI, a caldeggiare le nuove assunzioni: i comunisti del resto sono
tra i pochi che li hanno sostenuti nelle precedenti battaglie sindacali, tanto che
tra il personale del manicomio il numero delle iscrizioni alla CGIL è aumentato
di molto. Claudio e gli altri entrano: la formazione dei neoassunti consiste in
sei mesi di “stage” nei padiglioni. Dalla Direzione nel frattempo è arrivato un
ordine perentorio: i “compagni” devono essere assegnati ai padiglioni più
difficili. Claudio finisce al
XIV,
quello degli agitati. Dopo poche ore di lavoro,
durante la cena un paziente si strozza, la testa si gonfia, diventa rosso: Claudio
lo rovescia a terra, fa la manovra antisoffocamento che gli hanno insegnato al
corso ma quello è già morto. I colleghi stendono il cadavere sul letto per
lavarlo mentre arriva l’ambulanza dall’obitorio. Claudio torna a casa e decide
di mollare. Qualche giorno dopo è previsto uno sciopero dei portantini: pur non
avendo avuto nessun addestramento e percependo uno stipendio più basso, i
portantini spesso fanno iniezioni e medicazioni, lavano e vestono i pazienti per
sopperire alle carenze di personale infermieristico. E Claudio non vuole
mancare.
199
Cfr. D. Rofena, Intervista I (cit.).
100
Con la legge Mariotti molti padiglioni cambiano aspetto, alcuni pazienti
sono spostati da un edificio all’altro e si attenua la rigida divisione per
patologie. Nel padiglione
I
dell’ala femminile arriva così una trentina di
pazienti fisse che passano la loro giornata in una piccola sorveglianza attigua
alla corsia nella quale vengono fatti i ricoveri. Sono tutte depresse croniche,
sottoposte a cicli d’elettroshock. La suora non vuole che passeggino per il
corridoio perché sporcano: così la porta della sorveglianza resta sempre chiusa
a chiave. Allora Annamaria prende le forbici da sotto la cappa e rompe la
serratura; quando la suora arriva le trova che passeggiano per tutto il
padiglione. “Sorella – spiega candidamente Annamaria – è stata quella lì,
quella che sente le voci, le hanno detto di rompere la porta!” La paziente
nell’angolo sorride e annuisce. La cosa che Annamaria eviterebbe volentieri è
la perquisizione prima di dormire, prevista dal Regolamento. Eppure è
necessaria perchè dai grembiuli delle pazienti spuntano accendini e sigarette in
quantità: nessuno sa come siano entrati, l’omertà del padiglione è
impenetrabile. Ciononostante quasi ogni notte dalla corsia arriva odore di
fumo.
Claudio con il tempo si abitua al padiglione degli agitati: si rifiuta di
legare i suoi pazienti e questo gli costa molti biglietti di richiamo. Non se ne
preoccupa molto perché ha stretto ottimi rapporti con i sindacalisti della CGIL e
si sente al sicuro: su tremila dipendenti quasi duemilaquattrocento, dicono, si
stanno iscrivendo al sindacato. Inoltre suor Vincenza, l’anziana capo sala
abruzzese, lo preferisce ai vecchi infermieri, “perché quelli se rubbavano
tutto”. Non legando i pazienti, guadagna la loro stima: quando torna al lavoro
dopo due giorni a casa per malattia Ricetto, un malatino che lavora in
tipografia, gli assesta un bel pugno in faccia, Claudio gli era mancato.
Una delle mobilitazioni più grandi di quegli anni è quella contro
l’elettroshock: quasi nessuno tra gli infermieri vuole proseguire la terapia,
l’adesione allo sciopero è molto alta e il sindacato riesce anche ad invitare il
leader del Partito Radicale Marco Pannella che passa qualche ora incatenato in
un padiglione. Nonostante tutto le applicazioni vanno avanti fino al 1977. Due
101
volte alla settimana il medico e la macchina vengono in manicomio da una
clinica privata e gli infermieri portano i pazienti designati dal primario: “A
volte je pijava la toppa – ricorda Claudio – e bisognava legarli agli alberi
davanti al padiglione”.
Lo sciopero in manicomio è sempre bianco, come le divise degli
infermieri. I membri del personale prendono accordi, magari quando
s’incontrano al capolinea dell’autobus che porta dal manicomio a Piazza
Risorgimento, si scambiano le chiavi e guadagnano entrambi mezz’ora di
libertà, anche se il Regolamento ordinerebbe di passersele tra la prima e la
seconda porta del padiglione. Il giorno dello sciopero chi deve “attaccare” non
si presenta: chi resta dentro dopo settandue ore consecutive di lavoro può
scrivere sulla vacchetta che non è più in grado di prestare servizio per
sopraggiunta stanchezza e lascia così decadere la responsabilità giuridica verso
i pazienti. Intanto chi sta fuori assiste le famiglie dei colleghi, va a fare la
spesa, porta a chi è rimasto dentro il cibo, il giornale, le sigarette. Si va avanti
così fino a che la Direzione o gli infermieri cedono. Ogni volta è necessario
convincere i cuochi del manicomio a lavorare gratis, altrimenti la Provincia
precetta i marmittoni delle caserme vicine e “i giornali delli fasci – spiega
Claudio – ponno scrivere che abbandoniamo i pazienti”.
2.5.3 MARIA, INFERMIERA
Un grande orologio contro il muro, un armadietto chiuso a chiave con
dentro le fasce e i quadrelli, le sedie da regista che si smontano e si lavano
quando si sporcano: la scenografia è minimalista ed è sufficiente il bianco e
nero. L’infermiera Maria sta preparando le posate per il pranzo: sono trenta
cucchiai di stagno, perché coltelli e forchette sono vietati
200
. Una donna si
dondola, potrebbe cadere e battere la testa e Maria la lega alla sedia con una
200
Cfr. M. Morena, infermiera, Intervista I, Aprile 2007; cfr. Id., Intervista III, Marzo 2007,
raccolte per questa tesi presso l’ex ospedale psichiatrico Santa Maria della Pietà, Roma.
102
traversa, poi torna a riempire di polpette i piatti di plastica dura e le fa a
pezzettini; la donna continua a dondolarsi pericolosamente, Maria allora
prende un’altra traversa e assicura le gambe della sedia al termosifone, poi
mette i piatti sul tavolo di formica al centro della stanza. Non è necessario
registrare la contenzione giornaliera sulla vacchetta: dieci tra le trenta
ricoverate devono essere imboccate e le infermiere sono solo tre.
Maria ha ventiquattro anni quando si trasferisce a Monte Mario per
sposarsi. Nel suo paese in Abruzzo si è occupata spesso delle vedove anziane e
sole e come da piccola non aveva paura di seguire le donne in nero alle veglie
funebri per leggere ad alta voce le preghiere alle moribonde, così a Roma non
ha paura di andare a trovare nei padiglioni le nuove amiche infermiere. Nel
1973 la Provincia organizza un corso da infermiere psichiatrico: Maria lo
frequenta per un anno senza fare neanche un’assenza e si diploma con trenta, il
massimo. È la prima volta che il corso comprende oltre alla fisiologia e alla
patologia anche il comportamento da tenere verso i malati di mente; lo seguono
anche parecchi “anziani” che devono per legge aggiornare il loro diploma da
infermieri generici. Maria è una delle poche che fanno richiesta di un tirocinio
pratico durante il corso ed è assegnata al padiglione
XIII,
dove riesce a farsi
voler bene anche dal primario, il dottor Citterio, che è noto nell’ospedale per la
severità verso gli infermieri.
Nel 1975, terminato il congedo per maternità, inizia a lavorare al
padiglione II, il neurologico, l’unico del manicomio che ha un nome, quello
della regina filantropa Elena. Grazie al tirocinio conosce già quasi tutti i suoi
nuovi pazienti che non sono i classici “matti” ma persone che hanno subito
lesioni al sistema nervoso, traumi o a malformazioni genetiche: pensa che il
clima sia differente da quello degli altri padiglioni ma presto si accorge che
anche qui le infermiere fanno più che altro le secondine. In una sola settimana
litiga con quasi tutte le colleghe e con le suore, nonostante mandi giù con
pazienza gli atti di “nonnismo”. Lei è giovane e quindi le toccano i lavori più
pesanti e le “anziane” sembrano non essersi accorte della legge Mariotti:
l’importante, dicono, è attenersi scrupolosamente al Regolamento, che enumera
103
dettagliatamente le diverse fasi della pulizia di tavoli, sedie e pavimenti,
mentre relega in qualche generica paginetta in fondo il comportamento da
tenere con i pazienti 201.
Al padiglione
II
non c’è traccia del clima cameratesco dell’ala maschile:
gli uomini da quelle parti si vedono solo quando più pazienti si agitano allo
stesso momento e occorrono numerose braccia per domarle e somministrare la
tripletta, un’iniezione di Fargan, Largazil e Sereneze che assicura parecchie
ore di sonno senza sogni. È allora che Maria nota che più si affannano intorno
ad una ricoverata più quella dà in escandescenze e allora prova a calmarle
parlando, magari facendosi aiutare da una delle pazienti più tranquille.
“Vattene, non venirmi vicino, che a te non ti voglio menare!”, le grida un
giorno Maria, una paziente con il suo stesso nome, mentre si dibatte tra due
colleghe dopo aver strappato il velo alla suora. Forse, pensa, non voleva
picchiare lei né le altre infermiere, voleva aggredire l’istituzione: significa che
il metodo del dialogo funziona. Le colleghe, quasi tutte vicine ai
cinquantacinque anni e quindi alla pensione, la ritengono una mina vagante:
Maria passa da un padiglione all’altro, prima l’XI, poi il
VII
e infine il
XXI,
il
bisonte dell’ala femminile, dove molte tra le pazienti non sono in grado di
camminare e mangiare da sole.
Il giorno del bagno mensile le pazienti in fila davanti alla doccia si
somigliano tutte: le infermiere le insaponano e le passano rapidamente sotto il
getto d’acqua, gli asciugamani sono pochi e per asciugarle utilizzano le
traverse di cotone ruvido. Quando una volta al mese Maria si siede in corridoio
con le forbici è diverso: ricci, frangette, cotonature, ognuna sceglie liberamente
il taglio che più le piace, quello più alla moda. Sotto i bigodini ci sono pianiste
201
“Per la pulizia delle porte, delle finestre, delle panche, dei tavoli, delle sedie si deve usare
acqua tiepida e sapone con uno straccio. Le parti lavate dopo che siano bene asciugate debbono
essere ripassate con uno straccio imbevuto di olio di lino. Si ponga attenzione ai piedi dei letti.
Non si debbono smontare porte e finestre, perchè tale operazione danneggia la resistenza dei
cardini”, Provincia di Roma. Regolamento per gli infermieri addetti agli istituti psichiatrici
(cit.), pag. 15.
104
che parlano di musica, professoresse che ricordano gli alunni, negozianti che
discutono di prezzi e clienti: poi rimettono il grembiule e le scarpe “Con i lacci
cortissimi e solo per l’ultimo occhiello” e tornano ad essere pazienti
dell’ospedale psichiatrico 202.
Sono poche quelle che ricevono visite e il parlatorio è gestito dalle suore.
I parenti devono richiedere un’apposita tessera e possono affacciarsi sulla porta
del padiglione a chiedere notizie della loro congiunta: se la suora ritiene che la
busta ricevuta sottobanco è abbastanza pesante, concede l’udienza. Tanto,
racconta Maria, tra i parenti in visita c’è al massimo chi porta un vestito o
qualche spicciolo per un cono, per quando d’estate il carretto del gelataio fa il
giro del parco: la chiave l’hanno gettata via tutti.
I figli crescono velocemente e i maglioni diventano presto troppo stretti:
Maria li disfa, raccoglie la lana in grossi gomitoli, prende qualche ferro da
calza e porta tutto in ospedale: è il 1978. La capo sala, suor Evelina, è molto
preoccupata e continua a ripetere che non ha intenzione di prendersi
responsabilità: tuttavia le pazienti sedute in cerchio nella stanza delle lenzuola
sporche sferruzzano attente e nessuna sembra voler infilzare la vicina. C’è chi
sa cucire e chi impara alla svelta, chi ha dimenticato come si fa e imita le altre;
alcune fanno strisce troppo larghe, altre strette, c’è chi salta i punti o li fa
troppo lenti: tutte finiscono quando finisce il gomitolo. Una malatina unisce le
strisce multicolori con l’uncinetto in una coperta che regalano a Maria: è
talmente grande che oggi sul suo letto sta piegata in tre. Il primo laboratorio di
sartoria del manicomio è un successo: con gli orli, rammendi e ricami le sarte
guadagnano qualche soldo e, quando qualche anno più tardi entrano in
ospedale i primi volontari per lavorare con i pazienti, le troveranno in piena
attività.
Le colleghe non sono d’accordo ma Maria insiste a voler far uscire le
pazienti più tranquille. D’accordo con il primario e con la suora appone la sua
firma su un foglio e si prende la responsabilità della gita: d’estate le porta al
202
Provincia di Roma, Ospedale Santa Maria della Pietà, norme generali per il personale di
sorveglianza (cit.), pag. 33.
105
mare oppure a casa per il compleanno dei figli e quelle vogliono truccarsi e
fermarsi al bar e comprare le caramelle per i bambini. Con Annamaria arrivano
fino all’incrocio con via Trionfale e quella le si stringe al braccio: “Quante
macchina, ma dove stavano?” Annamaria è entrata in manicomio a venti anni e
ora ne ha più di cinquanta: quando arriva a casa si siede a tavola e guarda a
lungo la forchetta e il coltello: “Posso toccarli?”
2.5.4
GLI ALBERI PARLANTI
Sandro ha undici anni, ha terminato la scuola nel 1975 e ora lavora nel
bar dei genitori: ogni mattina ha davanti un piccolo mare di teste ondeggianti,
medici e infermieri del Santa Maria della Pietà che si spintonano per
guadagnare il bancone e avere il loro cappuccino
203
. Spesso dall’ospedale
telefonano e Sandro percorre i cento metri tra il bar e il manicomio con il
vassoio in bilico sulle mani. Il portiere legge il giornale nella garitta, indica
distratto qualche padiglione e il bambino non può confessargli che ha paura dei
malati che gli urlano contro da dietro le reti: la prima volta che è entrato in un
padiglione un uomo nudo gli è corso incontro e i due infermieri che lo
inseguivano hanno quasi rovesciato tutti i caffé. Sandro si affaccia appena nella
sorveglianza, molla il vassoio e scappa via.
All’inizio degli anni Settanta, anche se Franco Basaglia sta affrontando il
processo per l’omicidio compiuto da un suo paziente in permesso, molti
manicomi d’Italia si stanno aprendo
204
: il Santa Maria della Pietà sembra
stregato, immobile, e per molta gente del quartiere è ancora un castello oscuro
da cui giungono solo urla e lamenti. Tra gli alberi più nascosti del parco però
sta accadendo qualcosa: alcuni infermieri s’incontrano in segreto e discutono
animatamente, già li chiamano “carbonari”
205
. Cinque lavorano al padiglione
203
Cfr. S. Metelli, barista, Intervista I (cit.).
204
Cfr. M. Colucci, P. Di Vittorio, Franco Basaglia (cit.).
205
Cfr. A. Pallotta, infermiere, Intervista III (cit.).
106
XVI,
che con la fine della Tbc ha ricevuto pazienti in esubero un po’ da tutti gli
altri edifici ed è l’unico che ospita uomini e donne, separati da un solaio e da
una robusta porta chiusa a chiave; Adriano è con loro e intanto è diventato un
“anziano”. Gli altri “carbonari” sono giovanissimi e lavorano al
XXII:
tra loro
c’è Claudio e tutti gli altri del PCI.
Quelli del
XXII
hanno chiesto inutilmente al primario di aprire
parzialmente il padiglione e all’ennesimo rifiuto decidono di compiere un atto
di forza: nel luglio del 1975 “sequestrano” quindici pazienti, occupano un
padiglione abbandonato, il
XXV,
e cercano di mettere in piedi una comunità
terapeutica sul modello di Gorizia 206. Non c’è il primario responsabile, non c’è
la vacchetta, né la capo sala: la Direzione non sa come gestire la delicata novità
e gli occupanti fanno in tempo ad allestire un refettorio comune per pazienti e
personale, ad abolire le divise grigie e le fasce di contenzione e ad organizzare
le prime assemblee; decidono anche che uno di loro sarà sempre libero per
accompagnare i pazienti fuori del cancello e che non porterà la cappa, cosicché
la gente di Monte Mario non potrà distinguerlo dai matti
207
. Un giovane
psichiatra appena arrivato dall’ospedale Gemelli, il dottor Gandiglio, diventa il
nuovo primario ma, dopo appena qualche mese, un paziente in toppa uccide un
compagno, prima che gli infermieri riescano ad intervenire. Il primario
spaventato, si fa da parte; gli occupanti rischiano il licenziamento e anni di
carcere.
La Direzione chiede una relazione al dottor Marà, che già nel 1974 aveva
creato nel padiglione
XX
il primo “gruppo di discussione”, una rudimentale
assemblea comune sul modello di Gorizia
208
. Fatalmente la sua relazione
rivela un atto più politico che sanitario: più della metà degli operatori del
XXV
206
Cfr. A. Pallotta, B. Tagliacozzi, Scene da un manicomio, (cit.).
207
Cfr. C. Rossi, infermiere, Intervista I (cit.); A.A.V.V., Quattordici Infermieri, Marsilio,
Venezia 1977.
208
Cfr. M. Marà, Le idee, i vissuti, i tentativi, le prassi antiistituzionali nell’ospedale
psichiatrico Santa Maria della Pietà dal 1968 al 1981, in Id. A.A.V.V., L’ospedale
psichiatrico di Roma dal manicomio provinciale alla chiusura, Dedalo, Bari 1994.
107
sono
impreparati
all’attività
di
riabilitazione
psichiatrica.
La
fine
dell’occupazione rischia di mettere “radicali” contro “moderati”, a tutto
vantaggio di chi di cambiamenti non vuole sentir parlare: poco dopo tuttavia
proprio Marà organizza lo sciopero dei malati che lavorano nella lavanderia e
che, come ai tempi della “terapia morale”, sono pagati mille misere Lire al
giorno. Dopo quattro giorni le lenzuola scarseggiano in tutti i padiglioni e gli
scioperanti ricevono abiti e guanti adatti alle condizioni di lavoro e, soprattutto,
uno stipendio di sessantamila Lire mensili: è la prima volta che medici
infermieri e ricoverati scioperano insieme.
Quando Adriano prova ad avvicinare qualcuno dei medici per parlargli di
ciò che ha letto nei libri di Basaglia la risposta è sempre la stessa: “Alcuni
psichiatri stanno impazzendo” 209. Un giorno però lo avvicina il dottor Pariante,
che ha da poco assunto la direzione di mezzo ospedale, diviso a metà dalla
legge Mariotti per l’eccessivo affollamento: viene dall’ospedale di Volterra,
uno di quelli parzialmente aperti dai “basagliani”, e chiede ad Adriano se è
possibile partire proprio dal
XVI.
Lui, spiega, non può fare nulla perché ha
contro quasi tutti i medici dell’istituto, ma garantisce appoggio alle iniziative
degli infermieri
del
XVI
210
. Dopo quattro mesi di focose assemblee tutti gli infermieri
appongono la loro firma sotto quattro proposte: apertura della porta
principale del padiglione, abolizione delle sorveglianze, unificazione di uomini
e donne, attività riabilitative che accompagnino i pazienti verso la dimissione.
Sotto gli alberi, Claudio offre la solidarietà del sindacato e braccia capaci ma
Adriano rifiuta, ha paura che la riforma del manicomio diventi “qualcosa di
sinistra”, allontanando chi vota altrove. Fa bene: poco dopo convince ad
aiutarlo persino Salvatore, un infermiere che porta il fascio littorio appuntato
sulla cappa. Purtroppo quando i partiti politici di sinistra qualche anno dopo
209
Cfr. A. Pallotta, infermiere, Intervista II (cit.).
210
E’ lo stesso Basaglia a puntare sul potenziale degli infermieri: “Nella lotta per la difesa del
proprio posto di lavoro da parte del corpo infermieristico non è ancora apparsa la complicità
dell’infermiere con l’internato (che appartiene alla stessa sua classe), per liberarsi della
sudditanza dal potere medico”, F. Basaglia, L’utopia della realtà (cit.), pag. 247.
108
porteranno in Parlamento la riforma della psichiatria, l’unità degli infermieri
sarà irrimediabilmente incrinata: Adriano e Salvatore non si parleranno mai
più.
L’anziano primario del padiglione XVI rifiuta il documento e viene quasi
alle mani con gli infermieri: qualche giorno dopo partecipa ad un convegno di
psichiatri e prende parola contro la condotta inqualificabile di molto personale
infermieristico. C’è anche Pariante: il direttore legge il documento degli
infermieri e conclude dicendo che alcuni medici, dopo quaranta anni di lavoro,
non hanno ancora capito con chi hanno a che fare ogni giorno. Al XVI arriva un
nuovo giovane primario, la dottoressa Varraso: pazienti e infermieri abbattono
le reti della sorveglianza esterna, qualcuno corre fuori e compra forchette e
coltelli per tutti; Adriano prova inutilmente ad imparare dai pazienti come si
pulisce la mela con il cucchiaio 211.
Nei primi giorni gli infermieri vanno e vengono per le scale anche senza
motivo per spingere uomini e donne ad incontrarsi, ma quelli esitano ad
attraversare la porta anche se ora è aperta. Ogni volta che Adriano si affaccia di
sopra Enrichetta gli grida “Profanatore!”: sono quaranta anni che non vede un
uomo e passa tutte le notti accanto alla finestra armata di uno straccio per
scacciare gli spiriti maligni. Trasformare il manicomio si rivela più difficile del
previsto e senza le fasce e con la porta aperta il lavoro degli infermieri è
massacrante ma, con il tempo e anche grazie agli studenti della Facoltà di
Psicologia che accorrono come volontari, molti pazienti migliorano e possono
essere finalmente dimessi. Nel 1976 il padiglione
XVI
e poi anche il
XIX
diventano ufficialmente “zona ospiti” e da tutti gli altri edifici cominciano ad
affluire pazienti dimessi: vivranno lì finché non saranno in grado di tornare
nella città dei sani.
211
Forchetta e coltello sono tra i simboli più forti dell’apertura e la loro comparsa ricorre in
numerose narrazioni sui manicomi: cfr. C. Piraino, I quaderni di Lia Traverso, rappresentato
presso il Teatro Vascello, (testo inedito), Roma 2006; cfr. A. Celestini, La pecora nera,
Einaudi, Torino 2006.
109
2.6 USCIRE FUORI
La fine del manicomio di Roma
Per noi la strada sarà una fabbrica di emozioni. La piazza una fabbrica di
predestinazione. L’amore una fabbrica di bellezza. La penna una fabbrica di
ricchezza. Le impronte digitali una fabbrica di vita. Le cartoline una fabbrica di
romanticismo. Le lettere una fabbrica di musica. Le idee una fabbrica di luce. I
sogni una fabbrica di gioia.
GUIDO GRAFFEO, Una finestra sul reale.
(dimesso dal Santa Maria della Pietà il 3 gennaio 1980)
2.6.1
CENTOTTANTA
“Come un esercito di zombie vagavano sbandati per il quartiere, tutti ne
avevamo paura” 212: all’improvviso all’inizio degli anni Ottanta molti uomini e
donne del manicomio di Roma si ritrovano per strada. C’è chi non esce da più
di venti anni, chi ha trascorso mesi legato ad un letto, chi sente voci, chi ha
l’identità devastata dalla detenzione e dai farmaci. Monte Mario è sotto shock:
la pesante zuccheriera d’acciaio che troneggia sul bancone vola dalle mani di
un’ex ricoverata sulla testa della barista, una donna entra nel negozio di scarpe,
ne indossa un paio ed esce senza pagare, qualcun altro sfonda una vetrina a
pugni e poi sviene nel bar, schizzando sangue ovunque 213.
Qualche anno prima, il 13 maggio del 1978, i partiti della sinistra hanno
portato in aula la legge numero 180, la “legge Basaglia”: bisogna battere sul
tempo chi sta raccogliendo le firme per un referendum abrogativo della vecchia
212
S. Metelli, barista, Intervista I (cit.).
213
S. Certelli, negoziante, Intervista I (cit.).
110
legge Giolitti e salvare i manicomi dal caos 214. I parlamentari sono distratti, tre
giorni prima il cadavere dello statista democristiano Aldo Moro è stato
rinvenuto nel bagagliaio di una Renault rossa, parcheggiata tra le sede del suo
partito e quella del
PCI
215
: la legge viene approvata praticamente senza
dibattito. Quando torna la calma piovono sull’aula ben tredici disegni di legge
restauratori: la Basaglia resiste e finisce nella colossale Legge 883, istitutiva
del Servizio Sanitario Nazionale 216. Intanto lo psichiatria che ha dato il nome
alla nuova norma denuncia il rischio che “La comunità terapeutica si mantenga
nei limiti di una contestazione all’interno del sistema psichiatrico e politico
senza intaccarne i valori”: Cassandra purtroppo è sempre buon profeta 217.
La 180 inquadra medici ed infermieri psichiatrici negli ospedali generali
e ordina la chiusura di tutti i manicomi, elimina il ricovero coatto per
pericolosità sociale e autorizza il paziente a chiederne la revoca, dispone la
creazione di Dipartimenti di salute mentale territoriali, i
DSM,
di Centri di
diagnosi e cura con al massimo quindici posti letto, di case famiglia, comunità
e residenze protette. Soldi e volontà mancano da subito: ci vorranno sei anni
perché il Ministero della sanità disponga lo smantellamento dei manicomi,
dodici per una legge che finanzi le case famiglia, diciotto per la chiusura
definitiva del Santa Maria della Pietà
218
. Nel frattempo le porte dei padiglioni
si sono aperte e nessuno ha insegnato alla gente di Monte Mario come si
accoglie la follia.
214
Cfr. Legge n. 180, Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori, 13 maggio
1978.
215
Cfr. A. Giovagnoli, Il caso Moro, Il Mulino, Bologna 2005.
216
Cfr. Legge n. 833, Istituzione del Servizio sanitario nazionale, 28 dicembre 1978.
217
F. Basaglia, Le istituzioni della violenza, in Id. L’utopia della realtà (cit.), pag. 157. Negli
ultimi anni della sua vita Basaglia denuncia spesso i rischi d’involuzione della riforma, con il
ritorno di meccanismi tipicamente manicomiali in numerosi CIM locali.
218
Cfr. Progetto obbiettivo Tutela della salute mentale 94 – 96, Ministero della sanità, 7 aprile
1984; cfr. Legge n. 724, Misure di razionalizzazione della finanza pubblica, 23 dicembre 1994.
111
Un malato che può venire dimesso e si trova rifiutato dalla famiglia, dal
posto di lavoro, dagli amici, da una realtà che lo respinge violentemente
come uomo di troppo, che cosa può fare se non uccidersi o uccidere
chiunque abbia per lui la faccia della violenza di cui è oggetto? 219
Alcuni primari usano la nuova legge per dimostrare che la chiusura del
manicomio è una pazzia: “Capitava che uno grave chiedesse di uscire –
racconta l’infermiera Maria – il dottore prendeva la cartella clinica, scriveva ‘Il
paziente si dimette’ e quello era fuori, solo”
220
. I più fortunati finiscono in
commissariato dopo qualche ora, ci sono donne che tornano incinte e altri che
non tornano affatto: “Prendevano un autobus, si perdevano, finivano sotto un
ponte o all’obitorio” spiega l’infermiere Claudio e, anche quando alcuni
infermieri protestano e dipingono di rosso le porte dei padiglioni, la diaspora
dei folli non si arresta 221. C’è anche chi per boicottare l’applicazione della 180
s’introduce di notte nell’edificio della Direzione e dà fuoco ai registri ma, più
che dagli attentati, l’entusiasmo del personale “basagliano” è sepolto dalla
valanga di fonogrammi che segnalano alla polizia allontanamenti e sparizioni,
favoriti dalle dimissioni selvagge e dall’allentamento della sorveglianza. “La
cosa più difficile – ricorda Maria – era convincere noi stessi che il manicomio
non serviva più”: è l’alba quando l’infermiera cammina nel parco e intravede
un’ombra tremolante nel buio, Sergio, paziente dimesso e sparito la sera prima
dal padiglione XVI degli “ospiti”, si è impiccato 222.
La maggior parte dei pazienti fortunatamente si limita a vagare per il
quartiere, pronta a tornare oltre il cancello ad ogni segno di pericolo. Parecchi
hanno finalmente ottenuto la pensione d’invalidità e finiscono per lasciarne
buona parte ai negozianti meno onesti: c’è chi torna dal tabaccaio con una pila
elettrica per la sua radiolina nuova e l’ha pagata diecimila Lire. Mentre il
219
F. Basaglia, Il problema dell’incidente, in Id. L’utopia della realtà (cit.), pag. 164.
220
Cfr. M. Morena, infermiera, Intervista II (cit.).
221
Cfr. C. Rossi, infermiere, Intervista I (cit.).
222
Cfr. M. Morena, infermiera, Intervista III (cit.).
112
pugile, un ragazzone muscoloso che gira seminudo anche in pieno inverno,
osserva assorto per ore le vetrine del tabaccaio ignaro delle vecchiette
terrorizzate assediate dentro, qualcun’altro s’è installato tra gli anziani
avventori del bar, fa l’urlo di Tarzan in cambio di una birra e ordina cognac a
ripetizione: il barista coglie la strizzatina d’occhio dell’infermiere e corregge
con acqua 223. Franco il vigile ogni mattina percorre tutte le strade del quartiere,
poi chiede un gettone, telefona ai vigili urbani e fa l’elenco delle macchine in
sosta vietata. Un autista dell’autobus gli ha regalato un vecchio cappello da
controllore e, con il suo vestitaccio nero, Franco da lontano sembra proprio un
vigile vero: si mette all’incrocio sulla via Trionfale che porta al manicomio e
dirige il traffico con gesti marziali, qualcuno inchioda e lo tamponano in dieci.
L’infermiere Adriano lo vede correre a perdifiato verso il cancello: “Aprime,
aprime!”; lo insegue una torma d’automobilisti inferociti 224.
Con un po’ di ritardo, nel sonnolento quartiere popolare di Monte Mario
arrivano anche i movimenti di piazza: il primo aprile del 1977 venti giovani
con molte bandiere rosse prendono possesso del casale diroccato e delle terre
abbandonate del manicomio
225
. Paolo ha trentacinque anni e con la sua barba
incolta è uno dei più vecchi del gruppo: spiega ai giornalisti accorsi che i
giovani di destra gli urlano spesso “Andatevene a zappà!” e loro li stanno
prendendo alla lettera. C’è chi riesuma i braccianti del Quarantacinque, la lotta
contro il latifondo e Portella delle Ginestre ma, messe da parte le suggestioni
hippie, resta la terra da strappare ad anni d’erbacce. Si fa avanti l’associazione
dei genitori di ragazzi affetti da handicap che abitano nella zona e la nuova
cooperativa agricola include da subito alcuni lavoranti con problemi psichici.
Per gli ex pazienti del manicomio si presenta così l’occasione di intraprendere
un percorso di recupero, doppiando Stato e Regione in ritardo nel finanziare la
180. C’è chi lavora per un po’ tra i campi e si prepara in questo modo a tornare
223
Cfr. A. Pallotta, infermiere, Intervista III (cit.); cfr. S. Metelli, barista, Intervista I (cit.).
224
Cfr. A. Pallotta, infermiere, Intervista II (cit.).
225
Cfr. P. Ramundo, agricoltore, Intervista I, raccolta presso l’azienda agricola Co.Bra.Gor nel
quartiere Monte Mario, Roma aprile 2007.
113
in città e non si tratta di nuovo d’ergoterapia: sani e meno sani percepiscono lo
stesso stipendio.
2.6.2
LE IDENTITÀ SEPOLTE
All’inizio del 1980 il Ministero della sanità incarica Franco Basaglia di
supervisionare l’applicazione della legge 180 nella regione Lazio: c’è da
chiudere uno dei più grandi manicomi d’Europa, il Santa Maria della Pietà 226.
Il piccolo teatro nell’edificio della Direzione non è sufficiente perchè tutti
vogliono sentirlo parlare, i “carbonari” e gli entusiasti, gli scettici e i nemici
dichiarati: lo psichiatra sa che non sarà semplice, che a Roma molti padiglioni
sono ancora chiusi, per nulla scalfiti dalla riforma, che metà dei medici e degli
infermieri ritengono che vada bene così.
Il 29 agosto Basaglia muore. “Strano er destino – ironizzano tristemente
gli infermieri al bar – una vita pe’ i matti e poi te ne vai sul più bello” 227: un
protagonista lascia la scena prima del tempo proprio mentre buona parte
dell’opinione pubblica italiana relega in soffitta il Sessantotto, archiviando il
manicomio tra i molti problemi irrisolti. Intanto centinaia tra gli internati che
non hanno la fortuna di appartenere ad uno dei padiglioni parzialmente aperti
restano in attesa, passeggiano per le sorveglianze come giocattoli caricati a
molla.
Nel 1980 con Basaglia è arrivato a Roma anche Tommaso Losavio: va a
dirigere il DSM della circoscrizione XIX che ha il manicomio proprio al centro e
inizia subito a lavorare per la chiusura, coalizzando amici e nemici. Il suo
primo vero giorno di manicomio è nel 1972, quando da giovane psichiatra di
guardia notturna al manicomio di Rieti spinge la porta del padiglione e questa
si apre dolcemente, senza rumore: gli infermieri hanno rinunciato ad incastrare
il solito sassolino tra i cardini, ora si fidano di lui. A Rieti nasce così un
226
Cfr. A. Pallotta, B. Tagliacozzi, Scene da un manicomio (cit.).
227
Cfr. C. Rossi, infermiere, Intervista I (cit.).
114
abbozzo di comunità terapeutica, prima che la Direzione assegni tutti
all’insulinoterapia, cancellando gli sforzi con un tratto di penna 228. Il dottore è
furioso quando riceve la telefonata di Basaglia che lo invita a raggiungerlo: si
trasferisce a Gorizia e, dopo qualche anno, giunge a Roma. È subito evidente
che non si limiterà a gestire i padiglioni “ospiti”, passati nel frattempo sotto il
controllo del
DSM:
“Ogni volta che il vecchio direttore mancava – spiega
l’infermiere Adriano – Losavio lo sostituiva per legge e approfittava per
chiudere un padiglione ” 229.
Dal 31 dicembre del 1980 l’ospedale psichiatrico di Roma non accetta
più nuovi pazienti e chi esce volontariamente ha sei mesi per ripensarci.
“Attenti a non costruire un castello dorato”, ammonisce un arguto psichiatra in
visita ai padiglioni “ospiti”; Adriano sul momento non lo prende molto sul
serio ma poi vede le dimissioni volontarie calare vertiginosamente: molti non
vogliono mollare quei padiglioni dove sono al sicuro dalla violenza
dell’istituzione, quanto da quella della città dei sani
230
. Intanto chi vuole
smantellare il manicomio sta entrando in rotta di collisione con i sindacati, gli
stessi che hanno consentito il successo delle prime sgangherate ma eroiche
agitazioni: impegnata nella strenua difesa dei posti di lavoro, la
paradossalmente una forza reazionaria e il
DSM
CGIL
diventa
ottiene un accordo sulla
chiusura solo nel 1994 231.
Si va avanti lo stesso: nel 1981 nel vicino quartiere di Primavalle apre la
prima comunità terapeutica, diretta dal dottor Massimo Marà. I parenti degli ex
internati non possono venire, perché questi tentino di entrare finalmente nel
228
Cfr. T. Losavio, psichiatra Testimonianza I, registrata durante la visita al Museo
Laboratorio della Mente, presso l’ex Ospedale psichiatrico Santa Maria della Pietà, Roma,
maggio 2006.
229
Cfr. A. Pallotta, infermiere, Intervista I (cit.).
230
Cfr. A. Pallotta, infermiere, Intervista III (cit.).
231
Cfr. T. Losavio, psichiatra, Testimonianza II, raccolta presso l’abitazione dell’intervistato,
Roma, Luglio 2007.
115
quartiere e cerchino nuovi amici, “non imposti dalla storia ma scelti dall’Io”:
funziona e i pazienti migliorano vistosamente 232.
Intanto al padiglione che era stato dei bambini, l’IIX, nasce grazie
all’impulso del dottor Paolo Algranati la comunità terapeutica Peter Pan: il
laboratorio diventa molto presto una fucina per artisti ottimi e veri come, tra i
molti, Giovanni Fenu, da non leggersi con la lente deformante e relativa della
terapia ma con quella oggettiva e gratificante della critica d’arte. Nel 1985 il
DSM
della circoscrizione
XIX
è, secondo il Ministero della sanità, uno dei soli
undici funzionanti in tutta Italia: l’anno dopo il padiglione
XXII,
il bisonte,
chiude per sempre e al Santa Maria della Pietà arrivano volti nuovi che, per la
prima volta, non appartengono a psichiatri, né a infermieri, né a suore 233.
Fiammetta ha già venticinque anni quando, dopo aver soddisfatto i
genitori che la volevano laureata in Legge, s’iscrive finalmente alla Facoltà di
Psicologia di Roma
234
. Nel 1977 chiede una tesi diversa dal solito e il
professore le propone di censire i pazienti del manicomio e individuare quelli
adatti ad un esperimento di “psichiatria di settore”, ovvero ad essere assistiti in
piccoli ambulatori che allora sono poco più di un’ipotesi. Fiammetta lavora già
con i consigli di fabbrica della circoscrizione V, il quartiere San Lorenzo, dove
con gli ultimi spiccioli del piano Marshall sono stati costruiti un gruppo di
mutuo aiuto e un centro sociale per gli anziani. Tra le tante cartelle cliniche
appartenenti a gente del suo quartiere trova anche quella di bombolo, il
malatino del bisonte: i fratelli l’hanno portato in manicomio quando da
bambino ha iniziato a dare di matto, dopo che le bombe degli Alleati sono
piovute sullo scalo ferroviario di San Lorenzo. Quando Fiammetta entra per la
prima volta in padiglione inizia a far caldo, il sole dietro le sbarre disegna
lunghe strisce nere sugli otto letti: le donne sono coperte da lenzuoli come
232
M. Marà, Le idee, i vissuti, i tentativi, le prassi antiistituzionali nell’ospedale psichiatrico
Santa Maria della Pietà dal 1968 al 1981 (cit.), pag. 212.
233
234
Cfr. A. Pallotta, B. Tagliacozzi, Scene da un manicomio (cit.).
Cfr. F. Pesce, psicologa, Intervista I, raccolta presso il centro diurno di assistenza
psichiatrica di via Ventura, Roma, Ottobre 2006.
116
sudari, sedute con le braccia protese in avanti. “Sono legate”, spiega il medico
che l’accompagna.
In realtà, spiega Ilario, psicologo, in quegli anni la Facoltà di Psicologia
sta muovendo i suoi primi passi e di manicomio si parla poco o nulla 235. Così i
giovani volontari come lui, che mentre studiano si recano in ospedale per fare
un po’ di pratica, possono solo improvvisare. Tra le molte cooperative formate
da pazienti, medici, infermieri, psicologi e studenti parecchie falliscono: alcune
invece sopravvivono e crescono e oggi assicurano un lavoro a molti che, come
valida alternativa alla detenzione in manicomio, accudiscono con perizia ai
giardini del Comune di Roma o cucinano per i bambini degli asili e delle
scuole elementari. Nei primi anni Ottanta tra i progetti della cooperativa Il
Punto c’è un laboratorio di scrittura creativa: Ilario e parecchi altri riesumano
un progetto della dottoressa Anna Berni, Le voci, un giornale di padiglione
scritto dai pazienti che lo vivono ogni giorno.
Una delle infermiere ci sveglia alle sei. Accende le luci e dice alzatevi.
(…) Poi verso le sette e un quarto si scende: c’è chi sta seduta e chi
cammina. Le infermiere danno le medicine per bocca, fanno le iniezioni
mentre altre fanno i bagni ed asciugano le teste con il fon. Quando
asciugano, usano le traverse di tela dura. Intanto arrivano le otto e trenta.
Si mettono le tovaglie, si prendono le tazze e i cucchiai. Arriva l’orzo con
il latte in busta ghiacciata (a volte il latte c’è caldo). Le infermiere si
arrabbiano se mentre loro passano il cibo qualcuna sta vicino al carrello.
Dopo si pigliano le medicine per bocca e si alloggia nella sala aspettando
l’ora di pranzo. Alle ore dodici e trenta si pranza e all’una passano le
medicine. All’una e mezzo si va a riposare e alle tre ci si alza e si sta di
nuovo in sala aspettando che arrivi l’ora di cena. Alle cinque e trenta si
cena, alle sei si danno le medicine e alle sei e trenta si va al letto. 236
235
Cfr. I. Volpi, psicologo, Intervista I, raccolta presso la sede della cooperativa sociale
integrata Il Grande Carro, Roma, Maggio 2007.
236
Anonimo, Menage della vita nell’ospedale S.M. della Pietà, in Le Voci, n. 8.
117
“Che fino hanno fatto gli internati? Per quale motivo sono stati esclusi
dalla storia?” Lo chiede lo psichiatra Agostino Pirella, collaboratore di
Basaglia: Anna Berni gli risponde che scrivere è un ottimo modo per riportare
alla luce quelle identità sepolte dall’istituzione
237
. La partecipazione al
laboratorio è volontaria e il grosso del lavoro d’Ilario consiste nel convincere i
pazienti a venire e, soprattutto, a restare: insieme si leggono le cose scritte nella
solitudine, poi uno che sa battere a macchina mette tutto insieme e c’è chi,
come Alberto Paolini e Nicola Fanizzi, rivela un formidabile talento
238
.
Diventa necessario portare fuori tutto questo: il giornalista Tommaso Di
Francesco, Anna Berni e la cooperativa editrice de Il Manifesto curano la
pubblicazione di Una finestra sul reale, la prima antologia di componimenti
degli internati in manicomio; anche se il lucro ricavato dal venduto è poco più
che simbolico, le recensioni entusiaste piovono 239.
Nel frattempo Fiammetta è riuscita ad organizzare i soggiorni estivi per i
pazienti, mescolandoli agli anziani del centro sociale di San Lorenzo. Sulla
sabbia di Civitavecchia bombolo saltella come un grillo, arrossendo alla vista
di tutte quelle donne “colle mutande”. Enrico, un vecchio dal nobile naso
aquilino, siede accanto a Fiammetta: una lunga teoria di vagoni merci sferraglia
accanto alla spiaggia. Enrico inizia a parlare, antiquato ed elegante,
snocciolando il significato di sigle e abbreviazioni tracciate a gesso sui vagoni:
da cinquantadue anni non parla con nessuno. Era ferroviere quando, ubriaco
dopo una delusione d’amore, s’è messo a lanciare bottiglie contro i passanti ed
è stato portato in manicomio: “Come sta il re?”, domanda a Fiammetta.
237
Cfr. A. Berni, Entrare fuori, in Id., L’ospedale psichiatrico di Roma dal manicomio
provinciale alla chiusura (cit.).
238
Opere di ex ricoverati del Santa Maria della Pietà sono edite da Sensibili alle foglie, casa
editrice che raccoglie la “letteratura delle istituzioni totali”, dalle carceri ai manicomi: cfr. N.
Fanizzi, Lasciateci stare, Sensibili alle foglie, Dogliani (Cn), 2004; Id., Vorrei essere uomo tra
gli uomini, Sensibili alle foglie, Dogliani (Cn), 2007.
239
Cfr. A.A.V.V. Una finestra sul reale, antologia di testi poetici del Laboratorio di scrittura
del Santa Maria della Pietà, a cura di A. Berni, Cooperativa editrice Il Manifesto, Roma 1985.
118
2.6.3
LA FINESTRA SUL REALE
“Pareva che fossimo inattesi, seppur ampiamente annunciati. Era una
forma d’opposizione passiva verso qualsiasi cambiamento, all’unica spinta
vitale in una struttura concettuale e fisica che andava sfaldandosi” 240: chi inizia
a lavorare in manicomio negli anni Ottanta si rende ben presto conto che il
Santa Maria della Pietà potrebbe non chiudere mai. Se c’è chi tra gli infermieri
“anziani” partecipa entusiasta ai laboratori organizzati dai volontari e impara
insieme ai pazienti ad intrecciare il giunco, molti continuano a lavorare
attenendosi al vecchio Regolamento, come se nulla fosse accaduto 241.
“Di che vi lamentate – dice un giovane psicologo ad Adriano, infermiere
– ora che non si lega avete meno roba da fare”; inutile spiegare che senza fasce
di contenzione il lavoro è più che raddoppiato: l’infermiere e il medico senza
più la divisa del secondino devono mettere in gioco la propria umanità, per cui
non percepiscono alcun bonus nello stipendio
242
. Gli psicofarmaci moderni
che hanno consentito di limitare la contenzione non bastano: oltre la rete di filo
di ferro la città non ha intenzione di accogliere gli ex matti ora “guariti” e, anzi,
“Se l’ospedale non attua un’azione di difesa della libertà, della cui perdita il
malato già soffre, il farmaco, dandogli un limite più vasto di coscienza,
aumenterà in lui la convinzione di essere definitivamente perduto”
243
. A
dispetto del sincero entusiasmo degli operatori sta accadendo quanto
profetizzato dal Basaglia, il manicomio da carcere si sta trasformando in
“parcheggio” perpetuo, un campo neutro dove abbandonare cose inerti, che non
servono: “Se il malato diventa oggetto d’affettuosa cura ma il rapporto si gioca
240
S. Benedetti, Il progetto CEE, le quattro stagioni della riabilitazione, in Id., L’ospedale
psichiatrico di Roma dal manicomio provinciale alla chiusura (cit.), pag. 251.
241
Cfr. M. Morena, infermiera, Intervista III (cit.).
242
Cfr. A. Pallotta, infermiere, Intervista III (cit.).
243
F. Basaglia, La distruzione dell’ospedale psichiatrico, in Id. L’utopia della realtà (cit.), pag.
21.
119
tra generosità e riconoscenza e non tra dovere e diritto, egli sprofonderà
ugualmente in una sorta d’annientamento totale” 244.
Intanto, mentre i fondi per l’applicazione della 180 sono invisibili, i tagli
di bilancio all’ospedale che deve chiudere si vedono benissimo. Una notte del
1985 una paziente che ha tentato più volte il suicidio e che è solita strapparsi i
capelli a ciocche e aggredire le infermiere, perde copiosamente sangue dal
naso. Il personale scarseggia e nell’ambulatorio la macchina per fare le
radiografie è fuori uso da anni, così l’infermiera Annamaria la conduce da sola
all’ospedale San Filippo Neri. Rimane sbalordita quando le consegnano il
lungo chiodo arrugginito che, in un inevitabile momento di distrazione di
qualche infermiere, la paziente si è infilata nel naso 245.
Sulle prime mosse sono tutti d’accordo: i pazienti devono riappropriarsi
della realtà, dopo aver posseduto per anni solo l’aria viziata delle sorveglianze.
Nei padiglioni “ospiti” è assegnata ad ognuno una stanzetta, da arredare
secondo il proprio gusto: persone che fino ad allora avevano indossato i pochi
vestiti posseduti uno sull’altro e trasportato con se le proprie cose in buste di
plastica, non avendo un posto dove custodirle, ora possono scegliere il colore
delle pareti e collezionare centinaia di piccoli tesori
246
. Ancora una volta la
cosa più difficile è convincere il personale del manicomio che si può fare:
l’elettricista dell’ospedale rimane sbalordito quando un paziente domanda una
presa elettrica in più, perché ha messo il letto accanto alla finestra e lì non può
attaccare il lume per leggere; la dietista si rifiuta di autorizzare le pazienti a
cucinare da sé perché è troppo pericoloso, anche quando Fiammetta, psicologa,
le spiega che i “matti” non sono così “scemi” da bollire la pasta nell’acido
muriatico 247.
244
Cfr. M. Giannichedda, Franco Basaglia e l’impresa della sua vita (cit.), pag. 22.
245
Cfr. A. Faccenda, infermiera, Intervista I (cit.).
246
La raccolta compulsiva di oggetti di poco conto si osserva in quasi tutti i pazienti, privati
per anni della proprietà privata: cfr. A. Pallotta, infermiere, Intervista III (cit.).
247
Cfr. F. Pesce, psicologa, Intervista I (cit.).
120
Se le pareti interne dell’ospedale psichiatrico si stanno lentamente
sgretolando, le mura maestre restano ben solide e per la gente di Monte Mario
quegli zombie che si aggirano per il quartiere sono gli stessi matti di sempre:
semplicemente il manicomio si è spostato fuori
248
. C’è chi tra gli operatori
persegue la piena realizzazione delle teorie basagliane e rivendica la libertà di
esprimere liberamente la propria follia: laboratori d’arte, di scrittura e teatro
restituiscono ai folli la parola negata, attori e musicisti si esibiscono nel parco
del Santa Maria della Pietà e invitano i sani a visitare un luogo che non è più
solo “gabbia di matti”. C’è anche chi, più pragmatico, è disposto ad accettare
qualcuna delle regole della società che s’è dimostrata ancora ostile alla
devianza, in primis quella che obbliga i contraenti il “contratto sociale” ad
essere parte produttiva del gruppo
249
: in cambio s’ottiene la piena e reale
partecipazione al mondo, attraverso la dignità del lavoro e la sicurezza della
casa.
Il
progetto
CEE
per la riabilitazione, deistituzionalizzazione
e
riapprendimento lavorativo dei lungodegenti psichiatrici, inizia nel 1982 grazie
ai soldi della Comunità Europea e ai locali messi a disposizione dall’opera pia
Don Calabria: nei capannoni e nelle officine sessanta pazienti, scelti come
suggeriva Basaglia tra quelli giudicati gravi, cronici e irrecuperabili, imparano
a lavorare guidati da fabbri, falegnami, sarti e tappezzieri professionisti. E se è
vero che “La lotta diretta e ristretta al sintomo equivale a schierare l’esercito
per fermare il vento”, così facendo si sondano aree della coscienza non scalfite
dalla sofferenza e l’energia vitale prende un sentiero sensato, un itinerario da
percorrere per sopravvivere una volta fuori, con un lavoro e uno stipendio 250.
“Ma quale psicanalisi, ma quale relazione, la vera psichiatria è pala,
mazza e piccone”, sta scritto sulla copertina di un quaderno, il diario
dell’occupazione di un immobile sfitto nel centro di Roma tentata da pazienti e
248
Cfr. T. Losavio, psichiatra, Testimonianza II (cit.).
249
Cfr. J-J. Rousseau, Discorsi e contratto sociale (cit.).
250
S. Benedetti, Il progetto CEE, le quattro stagioni della riabilitazione (cit.), pag. 252.
121
personale del Santa Maria della Pietà
251
. Il sette aprile del 1985 i ricoverati in
manicomio sono ancora più di mille e diminuiscono solo grazie ai decessi;
ottanta sono stati dimessi, ma vivono nei padiglioni “ospiti” perché non hanno
un posto dove andare: proprio la sopravvivenza di quei “padiglioni a metà” sta
minando la credibilità della legge 180 e l’intero impianto teorico basagliano
rischia di svaporare, perchè il manicomio sta affermando il suo naturale e
necessario sopravvivere.
Così, quando al
DSM
arriva la notizia che proprio dietro il Colosseo c’è
un appartamento libero di proprietà della Municipalità di Roma, Tommaso
Losavio si traveste da ingegnere del Comune e insieme a qualche infermiere
con un elmetto giallo in testa abbatte i mattoni che ostruiscono l’ingresso: Pina,
Luciana, Claudia e Luisella attendono al bar e in un paio d’ore la casa è pronta
per loro. Ai telegrammi del presidente dell’Unità Sanitaria Locale che
minacciano denuncie e provvedimenti disciplinari il direttore del DSM risponde
con un invito a visitare l’appartamento, per vedere come si realizza la 180 a
costo zero. Intanto una delle famiglie del palazzo invia alle nuove inquiline un
mazzo di fiori con un biglietto di benvenuto; gli altri vicini di casa si sono già
accomodati nel salotto, bevono il tè e chiacchierano con le signore
sgranocchiando
pasticcini.
Mentre
gli
infermieri
lavorano
a
turno
nell’appartamento, gratuitamente e fuori l’orario di servizio, persone che hanno
letto la storia sul giornale si presentano con un mobile, qualche pentola, una
poltrona: lontano dal manicomio, quei “matti” sono tornati semplicemente
gente di Roma. Nella buca delle lettere arriva anche una cartolina con il visto
della censura e il timbro postale di un carcere di massima sicurezza.
La segregazione in carcere e quella in manicomio scandiscono lo stesso
ritmo di distruzione del desiderio, del futuro possibile oggi. Noi tutti che
popoliamo queste gabbie conosciamo il gusto della libertà. Più di coloro
251
T. Losavio, Una casa per non vivere in manicomio, storia dell’occupazione di via Baccina,
in Id. L’ospedale Santa Maria della Pietà dal manicomio provinciale alla chiusura (cit.), pag.
218.
122
che si accontentano della libertà che gli viene concessa. La assaporiamo
con piacere da quando abbiamo iniziato a violare i muri e le sbarre
invisibili che ci hanno costruito dentro. Non conosco i vostri nomi e
questa cartolina è un po’ come una bottiglia lanciata in mare e dovrà
superare parecchie burrasche per raggiungervi. Vi arriverà? Non lo so,
ma se leggerete so che apprezzerete la mia solidarietà di prigioniero 252.
Qualche mese più tardi l’atto di forza delle ricoverate e del personale del
manicomio è giudicato legittimo: occupazioni più o meno tumultuose
d’immobili pubblici sfitti si susseguono, finalmente molti vanno via dai
padiglioni e prendono un posto nel reale. E per gli appartamenti dalle mura in
cattivo stato non c’è problema: c’è littorina, l’imbianchino del padiglione XXII,
quello che ha dipinto tutti gli alberi di bianco.
2.6.4
EPILOGO
Maria s’ammala a metà del 1979: lascia il suo posto d’infermiera
psichiatrica proprio mentre il Parlamento pronuncia la condanna a morte del
manicomio
253
. Guarita, torna a lavoro il sei gennaio del 1981, quando è stata
misteriosamente abolita la festa dell’Epifania, e trova molte cose nuove: non
lavora più in padiglione per motivi di salute e collabora con le anziane colleghe
dell’amministrazione, che da sole gestiscono l’intera elefantiaca burocrazia del
manicomio. Un’infermiera in Direzione non è solo un rincalzo: molti pazienti
da qualche mese lavorano nell’amministrazione, in pratica l’ospedale lo stanno
chiudendo loro, e serve qualcuno che conosca i padiglioni, insieme alle
impiegate che in tanti anni di manicomio poche volte hanno visto un “matto”
252
T. Losavio, Una casa per non vivere in manicomio, storia dell’occupazione di via Baccina
(cit.), pag. 220.
253
Cfr. M. Morena, infermiera, Intervista III (cit.).
123
da vicino. È difficile: un giorno una macchina per scrivere vola in corridoio e
Maria rimedia qualche punto di sutura.
Dopo qualche anno, l’infermiera rimane l’unica “sana” in un ufficio di
“matti”, che però funziona benissimo: c’è chi sistema da solo tutti i turni del
personale, incastra ferie, permessi e straordinari e non sbaglia mai, c’è chi
chiama il noleggio e prenota il pulmino per il soggiorno estivo, chi bersaglia di
raccomandate il Ministero per ottenere sussidi e pensioni d’invalidità. Cartelle
cliniche da rintracciare, colossali matricolari, volumi e volumi fitti di statistiche
da inviare ogni settimana alla Provincia per assicurarsi la fornitura di medicine,
cibo, lenzuola: giorno dopo giorno, anno dopo anno, Maria traccia sulla carta
migliaia di cifre, sempre più piccole, sempre più rade. È un castello di sabbia
intaccato dalla marea che sale: i numeri scorrono via dal manicomio come
granelli di sabbia verso il mare, ognuno con un differente destino.
Quando nel 1959 Adriano diventa un infermiere del padiglione
XXII,
Francesco vive al bisonte già da qualche anno 254. Schizofrenico per la cartella
clinica, Francesco ha un delirio sistematico, inscalfibile: Stalin lo aspetta sulla
Piazza Rossa. Ogni giorno illustra agli infermieri i dettagli del suo viaggio: gli
servono almeno dieci camere d’aria per arrivare a Mosca in bicicletta, ma
molte più scarpe se decide di andarci a piedi. Fugge spessissimo: un giorno
d’inverno, con la neve che arriva alle caviglie, gli infermieri lo trovano a
cinque chilometri dal manicomio. Sorride e si complimenta con gli inseguitori:
“Amici, voi avete il dovere di prendermi, io ho il diritto di scappare”. Quando
negli anni Ottanta va ad abitare nel padiglione “ospiti”, ogni infermiere che
prende servizio si accerta che non abbia infilato la porta aperta in direzione
Mosca. E invece il delirio svanisce.
Qualche psichiatra s’interessa al suo caso perché la scomparsa di un
sintomo così forte e duraturo è più unica che rara: la vecchia cartella clinica di
Francesco racconta la storia di un muratore, stimato dal capomastro anche se
milita nel
254
PCI,
che per mantenere la famiglia all’alba, prima di andare in
Cfr. A. Pallotta, infermiere, Intervista II.
124
cantiere, pulisce le scale dei palazzi. Un giorno per caso scopre la moglie con
un altro uomo: uno schiaffo a lei, un pugno all’amante e uno spintone al
Carabiniere accorso alle urla. Quando si calma, Francesco è già in manicomio.
Più di quaranta anni dopo i suoi due figli lo portano a fare la prima passeggiata
fuori: erano bambini all’epoca dei fatti e quasi non lo conoscono. È vano
chiedere perchè sia finito tra gli schizofrenici, dove le mura imbiancate a calce
gli hanno regalato un delirio di cui non aveva mai sofferto prima. Francesco
vivrà nella città dei sani per più di dieci anni, educato, gentilissimo, sempre
pronto a prendersi un caffé con i suoi vecchi infermieri: non andrà mai a
Mosca.
Il quattordici giugno del 1972 una ragazza giovane e molto bella è
condotta in manicomio dall’ambulanza della neuro del Policlinico Umberto I:
“Anna Nicolescu – c’è scritto sulla cartella clinica – Sindrome Paranoide,
nazionalità rumena”
255
. È spaventata, non ricorda nulla; consegna alla
fagotteria una valigia elegante, il suo vestito da sera rosso e una lunga stola di
piume di struzzo. “Per il tipo di disturbo sarebbe dovuta uscire dopo pochi mesi
- spiega la dottoressa Antonietta Di Cesare al giornalista della RAI che a metà
degli anni Ottanta ricostruisce la vicenda - e invece è rimasta in manicomio
fino alla fine”: seduta accanto, Anna sorride alla telecamera sotto una cascata
di capelli bianchi. Per anni ha raccontato agli infermieri di essere una ballerina
che lavora negli studi televisivi di Roma, a via Teulada, e guadagna
cinquantamila Lire al giorno; dice di aver partorito due gemelli che le sono
stati portati via e che non ha mai potuto vedere: nessuno le crede. Un giorno
che la porta del manicomio è aperta già da qualche mese, i medici la incontrano
mentre chiede l’elemosina, a pochi passi dal manicomio; il direttore del
DSM
s’infuria ma poi scopre che Anna non riceve la pensione d’invalidità perchè
qualcosa non va nei documenti. Registrata all’anagrafe di Bucarest, Anna si è
sposata in una piccola parrocchia vicino Udine con Luigi: i parenti dell’uomo
255
Cfr. C. Imbimbo, La donna che visse due volte, Rai, Italia 1984.
125
la ricordano bene. Ma, dicono, è morta da anni: Anna che sorride alla
telecamera è un fantasma.
Dalla sua cartella clinica allora spuntano lettere ingiallite, mai uscite
dall’ospedale: Anna minaccia di “dire tutto”, parla di un albergo, di un
omicidio, di morfina somministratale a forza. “Probabilmente – ipotizza la
dottoressa Di Cesare – per anni abbiamo ritenuto delirio la verità”. Forse Anna
ha preso il posto di una connazionale deceduta per entrare clandestinamente in
Italia, forse è davvero una ballerina, forse è finita in qualche “giro” troppo
grande per lei e nessuno ha voluto proteggerla: intanto per lei tra realtà e
fantasia non c’è più differenza perché, protetta dal suo stesso carcere, si è
ritirata dalla Storia. Sorride alla telecamera, si volta verso la dottoressa e le
chiede: “Quant’è che sono qui, due mesi?”. Sopravvivrà di poco alla chiusura
del manicomio.
“Giorno dopo giorno, disperatamente cercavamo di portare fuori chi era
dentro e dentro chi era fuori”
256
; Tommaso Losavio passeggia nel parco del
Santa Maria della Pietà, pensa al compito appena affidatogli, la chiusura
definitiva del manicomio, e rimugina le parole di Franco Basaglia
257
.
Primavera del 1993: cinquecento persone restano intrappolate nei padiglioni.
Sono il “residuo manicomiale”, quelli che fuori non hanno nessuno, i più gravi
e cronici, quelli che, entrati bambini, sono diventati vecchi nelle sorveglianze:
la legge 180 sulla chiusura degli ospedali psichiatrici sta per compiere sedici
anni. I manifesti del pittore Ennio Calabria tappezzano la città, pubblicizzano il
concerto rock del cantante Ron nel parco del manicomio, lo schermo gigante
per le partite di calcio, lo spettacolo comico di Serena Dandini: tutto per
convincere quelli di fuori ad entrare e scoprire che quella storia del manicomio
non è finita e, soprattutto, li riguarda. Anche Nino, ricoverato da decenni,
passeggia nel parco: “La fai facile tu – dice al direttore del DSM – ma non puoi
sapere quanto sia difficile per noi entrare fuori”.
256
F. Basaglia, Conferenze brasiliane (cit.), pag. 14.
257
Cfr. T. Losavio, Entrare fuori, uscire dentro: la chiusura del Santa Maria della Pietà,
un’occasione mancata per la città di Roma, per concessione dell’autore, Roma 2007, pag. 1.
126
Gli anni passano, l’infermiera Maria è rimasta sola nel grande edificio
della Direzione: sono bui i lunghi corridoi lastricati di marmo, le stanze, le
scrivanie, le macchine per scrivere, i cassetti, i timbri con scritto “Manicomio
della Provincia”, le cartelle cliniche ingiallite allineate sugli scaffali. Prende il
registro, sfoglia le pagine di carta leggera, scrive con una penna rossa. “Due
aprile 1999; ricoverati: Zero”. Nino attraversa il cancello: la città lo ha
condannato, oggi legge e medicina lo giudicano guarito, assolto. Torna fuori,
lascia il luogo della reclusione, che per anni l’ha protetto dalla follia dei sani.
La storia del Santa Maria della Pietà non finisce con la sua fine: continua, agli
angoli delle nostre strade.
127
SOMMERSI E SALVATI
Conclusione
Dante era bambino: spiava i matti da dietro la rete, seduti sulle panchine
tutto il giorno a masticare l’aria senza i denti
258
. Adesso fa il tecnico di
radiologia al Policlinico Gemelli: fa una lastra ad un uomo, quasi cieco per una
neoplasia trascurata. Sulla vecchia cartella clinica c’è il timbro del Santa Maria
della Pietà: cinque pagine di carta ingiallita, vergate a mano in elegante
corsivo, come un antico libro. Cinque pagine per quaranta anni d’internamento:
nello spazio per la diagnosi c’è scritto “epilessia”. L’uomo sorride a Dante,
senza parlare.
La memoria, scrive Primo Levi, è uno strumento meraviglioso ma
fallace: vi affogano molti ricordi, per sfuggire ai sensi di colpa o per
dimenticare le colpe subite
259
. Nell’istituzione totale solo chi ha la stoffa del
martire o del santo sfugge alla “zona grigia”: il contorno dei cattivi e dei buoni
svanisce nella sorveglianza, matti e infermieri fumano sigarette pescate dallo
stesso pacchetto. Ognuno, spiega Levi, è disperatamente solo: deboli, inetti,
votati alla selezione, sono sommersi. Si salvano i funzionari, i secondini, le
guardie notturne, gli spioni delle baracche, delle latrine, delle docce: chi resiste
all’onda s’ammala d’istituzione. Quando il cancello si apre non c’è vera felicità
per chi si sente colpevole per quanto gli è accaduto.
C’è una macchina nella Colonia penale che scrive la sentenza sui
condannati: gli imputati non possono difendersi e non assistono al pronunciarsi
del giudice, tanto leggeranno la propria colpa sulla pelle, e gli ufficiali sono
troppo innamorati della macchina per badare a ciò che scrive
260
. Ad un
viaggiatore la macchina sembra assurda, ridicola: poi incrocia lo sguardo di un
258
Cfr. D. Rofena, Intervista I (cit.).
259
Cfr. P. Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 2007.
260
Cfr. F. Kafka, La colonia penale, in Id. La metamorfosi, Garzanti, Milano 2005.
128
condannato, sembra chiedergli come può approvare un simile procedimento.
Oggi la macchina del manicomio in disuso arrugginisce: rinfoderati megafoni e
striscioni, l’opinione pubblica s’occupa d’altro e ciclicamente la tentazione del
manicomio, magari piccolo o con un altro nome, si affaccia nelle aule
parlamentari. Intanto l’assistenza sanitaria “su misura” della 180 va in deficit di
risorse umane e materiali e diventa una bella utopia, mentre il welfare
contemporaneo trasforma i vecchi pazienti negli utenti paganti di un servizio
commerciale 261.
Ma è accaduto, quindi può accadere. Sta scritto all’ingresso del Museo
della Mente che, con il Centro Studi e Ricerche, l’archivio e il personale
dell’ex manicomio, difende la memoria dalla corrosione: “E’ avvenuto, quindi
può accadere di nuovo, questo è il nocciolo di quanto abbiamo da dire, occorre
quindi affinare i nostri sensi, diffidare degli incantatori che dicono belle parole,
non sostenute da buone ragioni” 262.
Abbiamo dimostrato che si può assistere la persona folle in un altro
modo, e la testimonianza è fondamentale. Noi, nella nostra debolezza, in
questa minoranza che siamo, non possiamo vincere perché è il Potere che
vince sempre. Noi possiamo al massimo convincere 263.
Ho fatto la mia parte, ho raccontato il manicomio per quanto potevo. Ma
c’è qualcosa, uno sguardo incrociato per caso che mi chiede come posso
approvare questo procedimento. Ho iniziato con i versi di Fabrizio De André
sui matti e il Potere, sugli uomini come pedine in un grande gioco di ruoli. Ora
non riesco a levarmene un altro dalla mente: “Per quanto voi vi crediate assolti,
siete per sempre coinvolti” 264.
261
Cfr. T. Losavio, La fine del manicomio: un’occasione mancata? (cit.).
262
P. Levi, I sommersi e i salvati (cit.), pag. 76.
263
Cfr. F. Basaglia, Conferenze brasiliane (cit.), pag. 32.
264
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FONTI ORALI
BENEDETTI SAVERIO psicologo, responsabile del progetto CEE per il riapprendimento
lavorativo dei lungodegenti psichiatrici presso l’Ospedale Santa Maria della
Pietà di Roma negli anni Ottanta. Attualmente lavora presso i Servizi Sociali
del municipio XIX di Roma.
CERTELLI SILVANA negoziante, è proprietaria di un esercizio commerciale prossimo
all’ospedale psichiatrico Santa Maria della Pietà e abita nel quartiere Monte
Mario di Roma dagli anni Cinquanta.
135
CIANFROCCA FRANCA bibliotecaria, responsabile della biblioteca storica e scientifica
A. Cencelli, presso il Centro Studi e Ricerche dell’ex ospedale psichiatrico
Santa Maria della Pietà di Roma.
FACCENDA ANNAMARIA
infermiera psichiatrica, ha prestato servizio presso il
padiglione I dell’ospedale psichiatrico Santa Maria della Pietà di Roma dagli
anni Settanta. Attualmente lavora presso il Centro di salute mentale dell’ex
manicomio.
FANIZZI NICOLA poeta e scrittore, è stato internato nell’ospedale psichiatrico Santa
Maria della Pietà di Roma per numerosi anni.
LOSAVIO TOMMASO psichiatra, ha diretto il DSM della circoscrizione XIX di Roma,
seguendo la chiusura dell’ospedale psichiatrico Santa Maria della Pietà negli
anni Ottanta e Novanta. Attualmente è docente presso il Dipartimento di
Antropologia dell’Università La Sapienza di Roma.
MARTELLI POMPEO
psichiatra, direttore del Centro Studi e Ricerche e del Museo
della Mente presso l’ex ospedale psichiatrico Santa Maria della Pietà di Roma;
è docente presso il Dipartimento di Antropologia dell’Università La Sapienza di
Roma.
METELLI SANDRO
barista, lavora dagli anni Settanta presso il bar prossimo
all’ospedale psichiatrico Santa Maria della Pietà di Roma.
MORENA MARIA infermiera psichiatrica, ha prestato servizio in numerosi padiglioni
del manicomio di Roma dagli anni Settanta, promuovendo l’attuazione di
laboratori e attività di recupero e reinserimento dei ricoverati. Attualmente
lavora presso l’amministrazione e l’archivio dell’ex ospedale psichiatrico Santa
Maria della Pietà di Roma.
PALLOTTA ADRIANO
infermiere psichiatrico, ha prestato servizio in numerosi
padiglioni dagli anni Cinquanta, promuovendo il superamento e la chiusura del
manicomio di Roma. Attualmente in pensione, si occupa delle visite guidate al
Museo della Mente, presso l’ex ospedale psichiatrico Santa Maria della Pietà di
Roma.
PAOLINI MARCO
poeta e pittore, è stato internato nell’ospedale psichiatrico Santa
Maria della Pietà di Roma per numerosi anni.
PESCE FIAMMETTA psicologa, ha lavorato nel manicomio di Roma negli anni Ottanta,
organizzando attività di reinserimento e soggiorni estivi per i ricoverati.
Attualmente lavora presso il Centro diurno di via Ventura in Roma.
136
RAMUNDO PAOLO
agricoltore, ha partecipato all’occupazione delle terre incolte di
proprietà del manicomio di Roma negli anni Settanta. Attualmente dirige la
cooperativa agricola Co.Bra.Gor presso il quartiere Monte Mario in Roma.
ROFENA DANTE
tecnico di radiologia, residente nelle vicinanze del manicomio di
Roma dagli anni Sessanta, ha avuto modo di visitarlo più volte da bambino.
Attualmente lavora presso il Policlinico A. Gemelli e ha come pazienti alcuni
ex ricoverati del Santa Maria della Pietà di Roma.
ROSSI CLAUDIO infermiere psichiatrico, sindacalista della CGIL, ha prestato servizio
in numerosi padiglioni del manicomio di Roma dagli anni Sessanta e ha
partecipato a molte iniziative antiistituzionali.
VALENTINO NICOLA
responsabile della casa editrice Sensibili alle foglie, cura la
pubblicazione di scritti e testimonianze provenienti da istituzioni totali quali
manicomi, carceri, case di cura, conventi, collegi.
VOLPI ILARIO psicologo, ha partecipato come volontario al laboratorio di scrittura per
i ricoverati dell’ospedale psichiatrico Santa Maria della Pietà di Roma negli
anni Ottanta. Attualmente dirige la cooperativa sociale Il grande carro a Roma.
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