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nutrire le menti
giornalino scolastico dell’Istituto d’Istruzione Superiore “Giuseppe BONFANTINI” Sedi di Novara, Romagnano Sesia e Solcio di Lesa ANNO 6 n. 1 DICEMBRE 2014 EDITORIALE NUTRIRE LE MENTI Se c’è un compito da cui non può esimersi un insegnante è proprio – – – – – – – – – – – quello di cercare di “nutrire le menti” dei propri studenti, di coloro che, anche se non sempre volontariamente, si mettono nelle nostre mani per crescere proprio come dei semi che vengono piantati, attentamente curati, ripetutamente annaffiati fin nei loro più reconditi emisferi cerebrali. Pare quindi importante “riempire”, “coltivare” quindi “nutrire” entrambi gli emisferi: quello sinistro logico-verbale e quello destro della creatività. L’importanza della cultura è innegabile. Sul web spopola il filmato che racconta la singolare iniziativa del prof. Farrer, un anziano insegnante canadese in pensione, appassionato della sua professione, speranzoso nel futuro ed estremamente fiducioso dei suoi studenti. La passione, la fiducia e la cultura sono gli ingredienti semplici ma fondamentali della storia di Bruce Farrer. Il prof., insegnante di Lingua e Letteratura, ha assegnato, ai tempi del liceo, ai suoi studenti, un tema molto particolare: scrivere una lettera a loro stessi da adulti. I suoi alunni si sono dunque tutti cimentati nello sforzo d’immaginarsi più grandi di 20 anni, rivolgendosi, in forma epistolare, riflessioni, confessioni e speranze. Queste giovani vite sono quindi cresciute, maturate… hanno magari costruito una famiglia dimenticando, forse, quel singolare compito ricevuto e svolto per il prof. Farrer. Altri ne hanno conservato il ricordo dei pensieri suscitati sui banchi di scuola, grazie a quel compito. Tutti però, trascorsi esattamente vent’anni dallo svolgimento del componimento, sono stati raggiunti da quella stessa lettera che si erano scritti tanto tempo prima. Ad inviare ciascuna missiva è stato proprio il tenace insegnante, convinto del valore profondo che quegli scritti adolescenziali potessero avere per gli adulti di oggi. Così, l’ormai ex professor Farrer ogni anno rintraccia puntualmente i suoi studenti e le sue studentesse per consegnare loro quelle lettere da lui gelosamente conservate. I destinatari ricevono quegli scritti come veri e propri doni, memoria di quel che un tempo erano e si auguravano di diventare. Forse l’obiettivo del prof. Farrer era quello di offrire un’opportunità ai futuri adulti di aprire le loro menti, forse confermando ciò che Albert Einstein diceva: “La mente è come un paracadute. Funziona solo se si apre” ma facendo anche pensare che se non si nutre la mente non si arriva in alto e il paracadute non serve! prof. G. – LA NOSTRA STORIA a cura della prof.ssa Giuseppina Calloni (Sede di Romagnano Sesia) Giuseppe Bonfantini nasce a Novara il 17 agosto 1877, frequenta il Liceo Classico a Novara e poi a Torino, quindi si iscrive alla facoltà di Matematica e Fisica al Politecnico di Torino dove si laurea nel 1899; diventa assistente universitario del prof. Giuseppe Peano. Si iscrive nel 1895 al Partito Socialista, collabora con la rivista “Lavoratore”. Nel 1901 ottiene la cattedra di Matematica presso l’Istituto Tecnico “Mossotti” di Novara. Si sposa nel 1902 con Maria Ferrari dalla quale ha cinque figli, Vera, Mario il letterato, Sergio il pittore, Corrado l’antifascista capo partigiano, e Cino medico pediatra. Il 26 giugno 1910 viene eletto Consigliere Comunale, diventa amministratore dell’Istituto Brera e membro della Commissione per la revisione dei conti dell’Ospedale Maggiore della Carità. Viene rieletto nel 1913 diventando prima assessore, poi vicesindaco. Nel 1915 è eletto Sindaco di Novara: la sua amministrazione risulta onesta e operosa, infatti la città subisce interventi nel campo dell’igiene, dell’istruzione, dei servizi pubblici resi municipalizzati. Viene quindi rieletto nel 1920, ricopre la carica fino al giugno del 1922 quando, essendo lui socialista, gli squadristi di De Vecchi occupano il municipio; il giorno seguente il Prefetto lo fa deporre e sostituire da un commissario. Negli anni successivi vi sono i tentativi del regime di togliergli la cattedra al “Mossotti”, nel 1929 viene trasferito a Cagliari, nell’agosto 1930 a Pistoia e subito dopo a Pavia. Negli anni della Repubblica di Salò si ritira dall’insegnamento, viene continuamente minacciato, ma lui partecipa comunque alla lotta antifascista. Uno dei suoi figli, Cino, finisce nel ‘44 nel lager nazista di Dortmund. Dopo la Liberazione diventa Provveditore agli Studi per la provincia di Novara. Candidato nelle liste del PSI viene eletto Presidente della Provincia di Novara; è candidato nel 1953 al senato nel Movimento di Unità Popolare che ha collaborato a fondare con Ferruccio Parri e Piero Calamandrei. Il suo impegno per il mondo della scuola è tenace: alla sua opera si devono la creazione dei servizi mensa, l’impulso alle scuole serali, la distribuzione gratuita di refezione calda, libri e quaderni gratis per molti bambini, borse di studio, l’ampliamento di edifici scolastici, la promozione di scuole di musica e canto. Per la popolazione più povera di Novara fa costruire case popolari con cento alloggi, allestisce spacci municipali di latte, verdura, frutta e carne. Nel 1952 nasce con sette iscritti l’Istituto Tecnico Agrario Provinciale nella cascina “Berta” di via Crimea a Novara, voluto da Giuseppe Bonfantini convinto che un’agricoltura senza istruzione sia destinata a morire, ma soprattutto certo che “chi non ha studiato non può difendersi, non ha parole da opporre a chi lo sfrutta”. Molti anni prima di don Milani, Giuseppe Bonfantini crede fermamente nella necessità di educare ed istruire i poveri, i deboli della società, consapevole che l’unico modo per avvicinare la povera gente alla cultura sia offrire l’opportunità di frequentare una scuola tecnica seria senza gravi costi. Nel 1955 Giuseppe Bonfantini muore a Novara. Nel 1959 l’Istituto diventa statale e nel 1960, il Collegio dei professori, con il Preside Prof. Mora, lo intitola al prof. Giuseppe Bonfantini. 2 – PER RIFLETTERE di Giulia Miglio (3^D – Sede di Novara) Noi giovani siamo complicati, tutto ciò che ci riguarda è complicato, per noi tutto è difficile (o almeno così ci appare), a partire dalle cose che sarebbero più semplici fino a quelle molto più complesse… dentro di noi c’è un cosmo, a tratti tumultuoso, a tratti calmo, a tratti vuoto; siamo allo stesso tempo pieni e vuoti, soli e invasi, felici e spaventati. La mia generazione, nuova, così diversa da quella che ci ha preceduto ma allo stesso tempo così uguale a tutte quelle nei secoli, deve trovare un posto nel mondo, un posto che dobbiamo crearci, tra la baraccopoli che è la nostra società, che si regge su strutture cadenti, comandata da individui vuoti e poco credibili, sostenuta da due tipi di persone: una parte che si sfibra i muscoli per tenerla in piedi, l’altra parte che cerca di abbattere la prima in tutti i modi. Osservando come uno spettatore esterno si riescono a delimitare in modo preciso tutti i piccoli mondi che ci attraversano, tanti quanti siamo noi (o forse più) e tutti strettamente collegati, basta però turbare l’equilibrio di uno dei piccoli mondi, che formano il cosmo di uno qualsiasi di noi, per innescare una reazione a catena che non si può sapere come finirà con precisione. Ripartiamo dal passato, quanto sono diversi i giovani di oggi da quelli che lo sono stati 20 o 30 anni fa? Beh siamo uguali e opposti allo stesso tempo. Negli anni Ottanta (ma anche prima) i giovani sono sempre stati come noi, entusiasti della nuova vita che li aspettava, non erano più bambini, erano cresciuti ed erano pronti a cercare il loro posto nel mondo, che agli occhi di chi sta per entrarci davvero sembra sempre un disastro e si spera di poterlo cambiare e ricostruire, si vedono tutte le ingiustizie e le cose sbagliate e non le si accetta in modo passivo, si vuole davvero fare qualcosa. L’entusiasmo e la paura si alternano, si mescolano, lottano feroci per potersi liberare l’uno dell’altra. Qui nasce un conflitto tra chi è giovane e chi lo è stato, i primi lottano perché sono pieni di entusiasmo ma poveri di esperienza, credono di poter fare qualcosa e lo vogliono dimostrare proponendosi alla società come adulti (che ormai sentono più simili a loro rispetto ai bambini); gli altri invece pieni di esperienze, perlopiù deludenti, e senza più entusiasmo, probabilmente smorzato dalle numerose sconfitte, o abbattuto dalla rassegnazione di non aver visto i cambiamenti sperati nonostante gli sforzi resi, cercano di trattenere l’esagerata smania dei ragazzi anche solo per evitare che si facciano del male, essendo loro come puledri galoppanti su un terreno scosceso, cercando di salvaguardarli delle inevitabili ferite, che molto probabilmente si sono provocati anche loro nel passato. Questo vale per TUTTE le generazioni che si sono susseguite e credo anche per quelle future. Le famiglie che stanno crescendo noi giovani sono varie, nessuna famiglia è uguale all’altra. Ce ne sono alcune in cui si parla, di tutto e per qualunque cosa, ci si racconta e ci si può aprire, altre in cui ancora non si parla davvero ma nelle quali ci si deve nascondere dietro una maschera per essere accettati come nel passato (nelle famiglie dei nostri nonni era così). Le famiglie oggi lasciano molta più libertà per certi versi a noi giovani (a vote persino troppa) ma 3 – hanno anche molta più paura per la sicurezza e per la strada sbagliata che potremmo percorrere, e di strade sbagliate ce n’è ad ogni incrocio: la droga viene venduta davanti alla scuola, giochi che insegnano ai bambini la violenza come dire che nel mondo non ce ne sia già a sufficienza, comunicazioni che avvengono via internet con chiunque si voglia nel mondo… il vero problema però non è tanto quello dell’esistenza di queste tentazioni, sbagli e occasioni mal sfruttate, ma il fatto che come ci sono genitori che si preoccupano davvero che i figli non facciano cose di cui si potrebbero pentire, altri non fanno nulla e rimangono impassibili o si fanno prevaricare da figli cresciuti in modo sbagliato. Drogarsi ad esempio è un segno di evidente fragilità. Chiunque decida di aver bisogno di un aiuto di questo tipo, per divertirsi, per andare avanti, per provare nuove sensazioni o qualunque altra scusa possa usare, è una persona debole, con qualche mancanza e qualche problema. Ma perché i giovani oggi sono così fragili? Non tutti per fortuna, se no a quest’ora il mondo potrebbe dichiararsi finito, ma una grande parte dei giovani d’oggi decide di bere fino a stare male, drogarsi, eclissare i sentimenti… forse perché si ha paura del futuro e di ciò che ci aspetta: tutti i giorni davanti agli occhi vediamo, anche solo indirettamente, tragedie di ogni tipo: guerre, povertà, omicidi efferati e insensati, ladri al posto dei governanti… questo spaventa ma se si guarda al passato la situazione in questo senso non è mai cambiata. Oggi però noi abbiamo opportunità in più che però non sappiamo sfruttare: avremmo la possibilità di comunicare con persone dall’altro lato del mondo in meno di un secondo, potremmo imparare cose nuove e interessanti, digitando due parole su una tastiera e dando l’Invio, o più semplicemente potremmo anche parlare con i nostri genitori di tutto imparando e crescendo… forse sono occasioni troppo grandi che non riusciamo a capire a fondo pertanto perdiamo tempo a guardare banalità e a scrivere idiozie sui social incorrendo a volte in rischi enormi, ci nascondiamo dietro a uno schermo e annulliamo completamente le vere relazioni. Forse è proprio nella parola relazioni la chiave di tutto, relazioni che non esistono più davvero, i valori che ormai sono consunti, sbiaditi, ignorati, considerati come superati, scomodi. Chi ormai è più legato all’amicizia, quella vera, all’onestà, all’amore? Che valore si dà a un bacio, a un sorriso, alle parole? I giovani di oggi si dicono “Ti amo” con la stessa facilità con cui si stringono le mani agli sconosciuti, si baciano e nemmeno si conoscono (se si limitano a quello). Non c’è rispetto, né per se stessi né per gli altri. È vero che con il cambiamento che è avvenuto negli anni passati il sesso non è più un vero tabù, però ha perso tutto il suo valore e la sua importanza, è diventata una sorta di azione meccanica, priva di vero sentimento. Come possono pretendere le ragazze di oggi di trovare il principe azzurro se non si comportano da principesse? E i ragazzi come possono aspettarsi che le ragazze siano serie se loro sono i primi a non esserlo? Anche l’amicizia è un valore corroso, si definisce amico chiunque e si volta la faccia alle stesse persone con la stesa semplicità e la stessa disattenzione e lo stesso disinteresse. La religione e il legame con essa è un altro valore che si sta perdendo, i giovani non ritengono più importante credere in qualcosa, sarà per sfiducia, per l’abitudine di ritenere la scienza la spiegazione di tutto o per semplice mancanza di voglia di cambiare. Diverso ancora è il comportamento rispetto alla politica, quello rispetto al passato non è cambiato molto in realtà, come del resto i politici. C’è chi la segue in modo esasperato, chi si disinteressa in modo completo, chi è interessato ma non ne fa una ragione di vita e chi invece è completamente anarchico. Tutto questo però è sempre accompagnato da quel moto di entusiasmo e inesperienza dei giovani che caratterizzano tutto ciò che fanno e che li riguarda. Come tutti gli altri individui nel mondo i giovani sono diversi, esistono tanti aspetti della gioventù quanti giovani esistono, tutto ciò che viene detto su di noi è vero e falso contemporaneamente, proprio per questo. 4 – PER RIFLETTERE dall’Africa sin dietro ad una cattedra del Bonfa Premessa - C’è chi sceglie di imparare a vivere seguendo un esempio vicino e chi lo fa spostandosi per il mondo, vicino alla miseria e alla povertà materiale, per “leggere la vita” da un’angolazione diversa. Un prof. racconta la sua esperienza nelle baraccopoli africane, al lavoro con bambini, giovani, adulti e anziani, al ritorno a casa nel nord Italia. Un muzungu (uomo bianco, ndr) inesperto per le strade del mondo che torna a imparare ogni giorno dal suo mestiere nella terra d’origine. La notte del nord è fredda, la nebbia avvolge un giovane neofita di ritorno dall’Africa che, tra decine di volti bianchi, riesce quasi a sentirsi a disagio. È così che ricomincia la vita di sempre, quella che un “grassottellone” come il sottoscritto, avverte come una delle tante magliette di taglia sbagliata acquistate troppo di fretta e che, indossate, ti fanno proprio sembrare un insaccato di tutto rispetto… mi sento già stretto qui! Qualche ora e ci si trova dietro a una cattedra, in una scuola ai piedi del Monte Rosa, a riprendere le lezioni quotidiane, in preda alla furia di fine quadrimestre, tra verifiche, registri e scrutini. Ma chissà perché, porto con me un sorriso incredibile e speciale donato da gente che non avrebbe all’apparenza neppure una briciola di motivazione per sentirsi felice. Chissà perché la mia valigia è così piena della loro speranza, dei loro insegnamenti meravigliosi, o semplicemente: piena di loro! Un giorno per volta, un passo dopo l’altro, mi sembra di aver fatto tanta strada e nello stesso tempo di essere nuovamente fermo qui, a casa mia. Eppure questa è stata l’Africa, questa è la vita che scorre tra i rivoli maleodoranti dello slum, questo è un grande insegnamento, alla faccia di chi ancora crede nel triste e lugubre “continente nero”. La povertà, la miseria, l’umanità ridotta nel lezzo della spazzatura e delle fogne a cielo aperto, è innegabile. La sofferenza si avverte come brividi sulla pelle pelosa, color maiale, del muzungu. Le decine di disagi e le grandi tragedie di ciascuno degli abitanti della baraccopoli, stringono il cuore e inumidiscono copiosamente gli occhi increduli. Ma questa parte nell’ombelico del mondo è tutta un tripudio di colori: la terra è di un rosso vivo, il cielo ha una profondità azzurra intensa che si confonde con le acque del lago popolato da temibili ippopotami, sembra quasi voglia piombarti sulla testa, quasi piegato a volerti abbracciare. 5 – I tramonti si dipingono di amaranto mentre la grande palla rossa, cala dietro i bananeti in fiore. E la notte è di un nero pesto mentre le stelle si contano una ad una e sono di un giallo luminoso che irradia il cielo. Forse piace pensare che sia Dio che, come lo splendido cielo d’Africa, stringe a sé teneramente questa sofferenza, questi malati, questo disagio e questa miseria senza ritegno. Ed io alzo gli occhi al cielo, ai piedi delle Alpi, e mi sento di ricominciare a correre (goffo come sono ma va bene lo stesso!) perché come disse Madre Teresa “fate che chiunque venga a voi se ne vada sentendosi meglio e più felice”. Anche qui, nella mia terra natìa, ringrazio Dio come facevano le Sisters (le religiose che operano nello slum di Nairobi, ndr) nei loro splendidi e ritmati canti. Lo ringrazio per ogni alba, per i coloratissimi fiori di Ibiscus davanti alla scuola nel compound delle suore, per il riposo all’ombra del sicomoro, per il fruscio degli alberi di banano, per i frutti offerti, per il mais raccolto tra i sassi, per Fides, Labam e David (gli operatori sociali dello slum, ndr), per il sorriso strabico del piccolo Tony, per le puzzette a tradimento del birbante Obama, per l’abbraccio di Mitchel, per gli intrecci di vite come fili di un tessuto pregiato, per gli occhi e gli sguardi indelebili degli angeli ospiti delle Sorelle della Carità, perché semplicemente respiro, perché ancora mi arrabbio con i miei studenti pelandroni e mi scontro nella mia realtà lavorativa e famigliare quotidiana. Mi convinco che Dio non è David Copperfield e non fa magie straordinarie per dimostrare che “lui può!”. È un Dio che ho conosciuto meglio saltando tra una pozza e l’altra nello slum, fermando il sangue infetto di un bimbo feritosi giocando, è il Dio degli ultimi, quello che sta accanto all’ultimo della fila, che lo coccola o lo tiene in braccio quando è stanco e sfiduciato, nel silenzio struggente apparentemente di assenza. Sembrerò ebete ma oltre al viso abbronzato, porto un sorriso stampato nel cuore nonostante la rabbia per ciò che ho visto, vissuto e curato come ho potuto. Poi magari prenderò in mano forchetta e coltello e stasera mi abbufferò a cena, laverò il bucato che proprio sporco non è, non raccoglierò i semi di mais tra la ghiaia in cascina come facevo tra i sassi della baraccopoli per garantire un piatto di cibo in più… anzi togliamo il magari… Ma non mi rassegno, non voglio abituarmi, voglio cambiare e prendere parte di questo cambiamento passo dopo passo… in fondo, Qualcuno, mi avrà voluto in Africa per qualche motivo no!?!? Mi piace concludere con una citazione di Coelho: “avremmo davvero bisogno di essere stranieri a noi stessi cosicché la luce nascosta nella nostra anima illumini ciò che esiste intorno a noi”. E allora al lavoro, passo dopo passo. prof. G. 6 – CANTIERE FORESTALE PRÀ CATINAT 2013 a cura degli ex studenti della 5^A Francesca, Enrico, Stefano, Nicolò, Roberto (Sede di Novara) È passato più di un anno e i partecipanti di uno speciale “Cantiere Forestale” sono oramai matricole universitarie, neo immessi nel mondo del lavoro o in cerca di un’occupazione. Tra ottobre e novembre 2013, in Val Chisone, in provincia di Torino, presso il Centro di Educazione Ambientale di Prà Catinat, nel Comune di Fenestrelle, è stato realizzato un cantiere forestale dimostrativo con l’obiettivo di divulgare al grande pubblico e agli operatori del settore, il ruolo dell'operatore professionale forestale nella gestione del patrimonio boschivo. Il cantiere è stato realizzato dall'Istituto per le Piante da Legno e l'Ambiente (I.P.L.A. S.p.A.), su incarico del Settore Foreste, nell’ambito del progetto europeo denominato InFORMA che vedeva capofila la Regione Piemonte e aveva l’obiettivo di attivare iniziative di cooperazione per la formazione forestale professionale nello spazio alpino transfrontaliero francoitaliano. Il cantiere dimostrativo ha previsto un percorso guidato fra le principali operazioni forestali, realizzate con il contributo degli Istruttori forestali del Piemonte. Gli studenti delle classi 5^A e 5^D della Sede di Novara erano presenti e al Bonfa resta questo breve e simpatico scritto, a memoria di quelle giornate. In verità appunti presi alla veloce, per ricordare successivamente in un possibile articolo (questo!) quanto vissuto… ma il tempo è stato tiranno e i nostri neo periti sono straimpegnati ora anche se, con piacere, ricordano questa esperienza targata “Piemonte”! Pronti, attenti e sveglia! Visita al bosco adiacente l’albergo dove soggiorniamo. È un’area SIC (sito di interesse comunale) per assistere a differenti operazioni forestali. Ci accompagna Aldo: l’istruttore! Nel bosco sono state create per noi sette zone dimostrative: 1) stazione teleferica // cosa succede qui? Impariamo ad utilizzare una teleferica con stazione motrice mobile, dotata di verricello motorizzato per la rimozione di tronchi. La linea impiegata è una linea indipendente con stazione di partenza rappresentata da un autotreno con gru ed un verricello dotato di motore diesel per spostamenti su terreni anche orizzontali. Scopriamo che esistono vari tipi di linee impiegabili con i verricelli non motorizzati fino a 2000 metri di distanza, dotate di una, due, tre funi con funzione portante, traente e per spostamento gravitazionale. 7 – 2) sicurezza nei cantieri forestali // anche qui matematica?! Qualcuno ci parla del teorema del parallelogramma delle forze per deviare o spostare tronchi impiegando il meno sforzo possibile e senza l’utilizzo di macchinari a motore, maggiore è l’angolo di rinvio e minore sarà la forza applicata sul verricello (con angoli superiori a 120° non si parlerà più di rinvio ma di deviazione!), minore è l’angolo maggiore sarà la forza applicata sul verricello. Questo sistema trova un’utilità per spostamenti in aree dove i mezzi non arrivano. 3) stazione abbattimento // qui si fa sul serio!!! In questo settore possiamo vedere le varie attrezzature e i metodi per l’abbattimento di un albero. Non è roba per tutti questo mestiere, cominciamo a capire che qui c’è passione, impegno e competenza! La tecnica di abbattimento impiegata è la tecnica a ventaglio contrapposto (con l’effettuazione del taglio di contrafforte, taglio di direzione e taglio di abbattimento), per effettuare questa pratica bisogna avere delle specifiche abilitazioni rilasciate dopo la partecipazioni a specifici corsi didattici (da F1 a F4 per le diverse situazioni di complessità del taglio). Noi tutti ancora a quota F ZERO! 4) stazione salita sugli alberi // ci proviamo?! Durante il percorso ci fermiamo ad osservare la tecnica di tree climbing per posizionare dispositivi di ritenuta delle funi per l’esbosco. Che roba spettacolare!!! Per questa tecnica vengono impiegati particolari ramponi con punte laterali per massimizzare la stabilità e imbragature e funi di sicurezza. 5) stazione sicurezza personale // torniamo vicino all’albergo e osserviamo i DPI (dispositivi per la protezione individuale) quali caschi, giubbotti, pantaloni, guanti e scarponi antinfortunistici. Ma oltre ai DPI parliamo di benzine alchilate, particolari carburanti meno tossici e poco deperibili che inquinano meno rispetto agli altri. Wow qui si impara!!! 6) stazione Progetto InFORMA // ed ecco un progetto per l’unificazione delle pratiche boschive nell’arco europeo che ha la finalità di abbattere le frontiere tra gli Stati europei per effettuare l’unificazione e la standardizzazione dei diversi corsi di formazione e delle pratiche boschive. Bella cosa! Prospettive nella Comunità Europea decisamente interessanti! 7) stazione verricello // ed ecco il nostro “amico” trattore munito di verricello per lo spostamento di tronchi, impiegato per radunare i tronchi in un solo punto e prepararli al trasporto, può essere impiegato anche in presenza di forti pendenze e con un minimo di due operatori (uno per attivare il mezzo e l’altro per agganciare i tronchi). E anche se oggi abbiamo imparato ad “abbattere” noi continuiamo, come diceva il vecchio Einstein, a piantare semi perché non sapremo mai quali cresceranno… forse lo faranno tutti!!! 8 – L’OPINANGOLO GIOVANI E ITALIANI... a cura degli ex studenti della 5^C di “Penna Capitale” (Sede di Novara) L’ITALIA NON È UNA SCELTA “Dove fuggi? Anche nelle terre straniere ti perseguiranno la perfidia degli uomini e i dolori e la morte: qui cadrai forse, e niuno avrà compassione di te; e tu senti pure nel tuo misero petto il piacere di essere compianto”, scriveva Ugo Foscolo ne “La lettera da Ventimiglia”. Così Jacopo Ortis raggiunta Ventimiglia volge lo sguardo ad oriente e comprende che il suo destino è indissolubilmente legato all’Italia e da essa non può scappare. Alla domanda “Siamo italiani?” non si può rispondere di no. Nasciamo, cresciamo e di solito passiamo l’interezza della nostra vita in questo Paese, semplicemente l’Italia rappresenta le nostre radici. La famiglia, la nostra nazione natale, non sono cose che scegliamo, fanno parte del nostro essere fin dall’infanzia, potremmo amarla per il resto della nostra vita combattere fino a immolarci per essa o odiarla a tal punto da decidere di abbandonarla, ma in qualsiasi caso rimarrà per sempre nel nostro cuore nel bene o nel male, segnandoci per tutta la vita. È un concetto importante da ricordare, da ciò verranno influenzate tutte le nostre scelte future per quanto potremmo illuderci che ciò non sia vero. Un italiano può fuggire dal suo Paese, trovare un lavoro e la felicità all’estero, ma non potrà mai dimenticare i meravigliosi squarci sui paesaggi e le città che costellano la penisola, i cenoni natalizi con tutti i parenti e il calore e l’accoglienza dei suoi concittadini. D’altronde un albero non può vivere senza radici, perciò prima di considerarci europei al 100% dobbiamo guardare alle nostre origini e cercare di preservarle e magari, invece di scappare, cercare per una volta di lottare e scendere in piazza per il Paese che ci ha visto nascere e maturare perché l’Italia per crescere ha bisogno del nostro aiuto e non della nostra fuga. di Matteo Tosin TUTTI A CASA!!! La fiducia nelle istituzioni? Oggi è come avventurarsi in una trappola per topi con la convinzione e la pretesa di non rimanerne prigionieri. D’altra parte è impensabile riporre speranza in chi non l’ha mai avuta e in una classe politica che recita quotidianamente una farsa. Ma questa diffidenza ha basi ben fondate derivanti da quello che è stato e dalla paura che possa protendersi nel futuro, arrivando a prosciugare qualsiasi rimasuglio di sentimento benevolo, oltre che i portafogli della gente. Non esiste giustizia e onestà e ciò che vale per qualcuno, da altri viene disprezzato; le istituzioni dovrebbero garantire il diritto di avere dei diritti, ma sono latitanti. Il politico non rappresenta gli ideali del popolo, ma esalta le caratteristiche peggiori della razza umana, l’avidità, la crudeltà e la perfidia. Ai giovani non resta che gridare: TUTTI A CASA!!! di Valentina Bongiorno 9 – L’OPINANGOLO SENTIMENTI E PENSIERI a cura degli ex studenti della 5^C di “Penna Capitale” (Sede di Novara) Rabbia insaziabile verso il prossimo; ecco il problema principale della società contemporanea. Causata da sistemi incapaci di soddisfare le nostre aspettative per il futuro e per il presente. Sistemi quali il governo a capo di un paese troppo sottomesso per ribellarsi. La pressione quotidiana che ci costringe a vivere mese per mese oltre cui non c’è un domani e ci priva di sogni di un futuro a lungo termine. È un sentimento che si insidia dentro di noi e ci fa vedere nel prossimo il colpevole di tutto ciò inconsciamente. “È facile arrabbiarsi” diceva Aristotele, “ma arrabbiarsi con la persona giusta e al momento giusto non è nelle possibilità di tutti”. Ed è questa inettitudine che ci offusca la mente. Ma siamo davvero cambiati dalle società passate? O semplicemente sono cambiati gli ostacoli? Si sono fatti molti progressi dai sistemi schiavisti, ma tracce del passato sono rimaste senza che ce ne rendessimo conto e vivono in ciò che ostacola l’amore. “Il perdono libera l’anima e cancella la paura.” Questa è una delle frasi più celebri dell’uomo definito da tutti il padre della lotta all’apartheid, Nelson Mandela, il quale, dopo anni di sofferenza e di battaglie, ha ridato i diritti agli afro-americani e del quale ci è stata riportata la notizia della sua morte il 5 dicembre 2013 all’età di 95 anni. Tra le tante battaglie condotte da questo eroe, emerge la più ardua: la scelta del perdono che a noi, ancora oggi, risulta incomprensibile. Sorge dunque spontaneo chiedersi: siamo ancora disposti a perdonare? Vivendo in un secolo controverso come il nostro, in cui i vizi sono paragonati alle virtù, tutto ciò che si fa o si dice viene reputato scontato e dovuto e si preferisce basarsi su come una persona si presenta esteriormente piuttosto che concentrarsi su quali sono i suoi interessi e gli obiettivi che si è prefissato nella vita. Ora, con l’istinto di sopravvivenza che si è sviluppato nell’uomo e che non gli permette quindi di mostrarsi debole davanti al prossimo, l’unica arma tagliente a sua disposizione rimane la vendetta, ma cosa c’è di più potente del perdono? Basti pensare che Gandhi, con la stessa tenacia di Mandela, ha portato all’indipendenza un’intera nazione usando il perdono e la non violenza e tanti altri come loro hanno vinto, con questo ferreo ideale, grandi battaglie. Centinaia di guerre potevano essere evitate nella storia se, al posto di coltelli e di fucili veniva introdotta come arma di difesa quella del perdono; senza contare che la mancanza di questo valore, per tanti indispensabile, innesca una sorta di circolo vizioso bastato sull’odio e il rancore. Risulta sempre e comunque doveroso ricordare che non tutto può essere perdonato poiché certe cose a cui assistiamo o che subiamo durante la nostra vita non hanno neanche una spiegazione logica e ci segnano talmente tanto che, di conseguenza, non meritano di cadere nell’oblio e di essere in seguito condonate. di Elena Sigalone di Sara Barbaglia 10 – LETTI E ASCOLTATI DA NOI, RECENSITI PER VOI TRA GEISHE E INCENDI un romanzo dalla terra del Sol Levante e una curiosità musicale MEMORIE DI UNA GEISHA la rievocazione di un mondo che sta scomparendo Non amo molto questo genere di romanzi, ma devo ammettere che questo libro è davvero coinvolgente ed appassionante, lo consiglio a chi ha fame di nuove storie da conoscere. Scritto da Arthur Golden nel 1997, dopo una decina di anni di ricerche e documentazioni, ed ambientato nel Giappone del '900, parla del significato che si cela dietro la parola "geisha", ovvero un'artista ed intrattenitrice giapponese, le cui abilità sono la danza, la musica e il canto. Gli occidentali sono sempre stati attratti da queste misteriose figure e con questo romanzo Golden ha dato risposta a tante domande. A raccontarci di come è divenuta geisha è la voce di Sayuri, una donna condotta fin da piccola ad apprendere questa arte e portata a diventare la geisha più famosa e ricercata. Bellissimo libro, lungo ma appagante! Non resta che consigliarlo a tutti e se qualcuno di voi l'avesse letto non esiti a dire la sua! di Linda Schianta (Sede di Romagnano Sesia) SMOKE ON THE WATER la storia curiosa di una canzone famosa Tutti noi conosciamo la famosissima canzone “Smoke on the water “dei Deep Purple, ma forse non tutti conoscono la storia che c'è dietro questa canzone. Il titolo, “Smoke on the water” ovvero fumo sull'acqua, deriva da un fatto realmente accaduto a Montreux sul lago di Ginevra nel 1971, quando il gruppo era impegnato a registrare un album utilizzando uno studio mobile prestatogli dai Rolling Stones. Una sera, nel casinò dall'altra parte del lago vi era un concerto di Frank Zappa e, durante un assolo, un tizio del pubblico lanciò un petardo sulle tende e queste presero subito fuoco. Le fiamme si levarono così alte in cielo che era possibile vederle proiettate sulla superficie del lago dall'albergo dove alloggiavano i Deep Purple. Guardando quello spettacolo il bassista Roger Glover ebbe l'idea di scriverci una canzone chiamandola appunto “Smoke on the water” che, nonostante un testo piuttosto banale, musicalmente divenne la canzone simbolo del rock duro, con un giro di chitarra unico. Il brano apparve nel 1972 con l’album “Machine Head” ma solo nell’estate del ‘73 fu pubblicato come singolo in tutto il mondo. E fu un successo straordinario. In realtà nessuno lo avrebbe immaginato, perché la canzone era legata a un ricordo e forse era fin troppo semplice. Sono stati gli ascoltatori a decidere che diventasse così importante. E ancora oggi quando sul palco si sentono quegli accordi, il pubblico esplode. di Giovanni Ivo Lazzari (Sede di Romagnano Sesia) 11 – LETTI E ASCOLTATI DA NOI, RECENSITI PER VOI TRAPPOLE E PREDE… l’avvincente romanzo di Nesbø IL CACCIATORE DI TESTE ø In quello che è uno dei suoi ultimi libri editi in Italia, lo scrittore Norvegese Jo Nesbø presenta un thriller ricco di azione e colpi di scena, con ritmi concitati e un tipo di scrittura che dà al lettore l’impressione di guardare un film e di essere coinvolto in prima persona all’ interno della storia. Questo romanzo si differenzia dagli altri scritti dell’autore sia per il fatto di essere una storia a sé stante, slegata dalla famosa serie, che ha per protagonista il detective Harry Hole, sia per essere una storia focalizzata più sull’ azione e sugli aspetti psicologici dei personaggi che sull’ indagine criminale vera e propria. Il romanzo vede come protagonista principale Roger Brown, un uomo molto sicuro di sé e delle sue capacità, che conduce una doppia vita; di giorno infatti egli è un “cacciatore di teste” ovvero una persona che si occupa di scoprire dei talenti che dovranno occupare posizioni di prestigio in grandi aziende, mentre di notte è un ladro di opere d’ arte; la lucrosa attività gli permette di mantenere il suo dispendioso stile di vita e la costosa galleria d’ arte della moglie, che il protagonista sostiene economicamente per cercare di ripulire la sua coscienza da un torto fattole. La vita di Roger sembra procedere con tranquillità tra alti e bassi fino a quando un giorno incontra per un colloquio di lavoro colui che si può definire la sua nemesi, il giovane Klaus Grieve. Egli infatti, descritto dall’autore inizialmente come una sorta di “superuomo”, si rivelerà ancora più bravo di Roger nel capire le persone e nel nascondere i suoi veri scopi, facendo cadere il protagonista in una trappola abilmente costruita e arrivando a farlo dubitare persino di sé stesso. Così il cacciatore si trasforma in preda, viene catapultato attraverso situazioni difficili e rocambolesche, fino a sembrare spacciato, senza alcuna via di fuga. Inaspettatamente l’autore, con un finale magistralmente costruito, ricco di colpi di scena, fa comprendere al lettore quanto Roger sia stato abile a ribaltare la situazione a suo favore, sconfiggendo il suo nemico. In conclusione questo romanzo merita davvero una lettura approfondita, è molto coinvolgente sin dalle prime pagine, mai pesante e prolisso con uno stile di scrittura adatto anche ai lettori non accaniti. Nesbø si consacra definitivamente come uno dei migliori scrittori gialli contemporanei. di Ivan Bernardi 12 – LETTI E ASCOLTATI DA NOI, RECENSITI PER VOI LETTURA MOZZAFIATO un romanzo grezzo, sporco e cattivo COLLA In Corea, uno dei sobborghi più squallidi e degradati di Edimburgo (Scozia), quattro ragazzi Andrew, Terry, Billy e Carl crescono, condividendo le prime esperienze sessuali, le prime sbronze, le prime risse allo stadio e la sperimentazione di droghe di ogni tipo. Superata la fase più turbolenta dell'adolescenza, i quattro iniziano a perdersi di vista e ognuno seguirà un suo percorso. Carl diventerà un dj famoso e vivrà le sue esperienze di notte. Terry continuerà ad essere un adolescente, che cerca di compiacersi attraverso i frequenti rapporti sessuali, mentre le insicurezze e il vuoto quotidiano sono annegate dall'alcool. Andrew sarà la vittima di tutto il disagio delle strade. Billy diventerà un pugile famoso e rispettato, nonostante tutto continuerà a sentirsi etichettato come uno del sobborgo Corea. Arrivati al capodanno del nuovo secolo e in occasione di una ricorrenza, si ritrovano ormai quarantenni e consumati dalla vita a celebrare ancora una volta la loro amicizia. Un amicizia, che li lega con la colla. Se state cercando un romanzo, che ha come trama la classiche storia di amicizia tra adolescenti dominata da una patina di romanticismo e buoni sentimenti, questo non è il libro che fa per voi. L'amicizia o la colla è il tema fondamentale del romanzo: lega i quattro protagonisti e non è per nulla perfetta: in questa storia le cose non vanno sempre per il verso giusto, anzi è proprio l'opposto. Qui si parla di un tipo di amicizia che lascia segni permanenti sulla pelle e nell'anima, quell'amicizia che, anche se non è curata come dovrebbe essere, continua a durare nel tempo, nonostante tutto il resto sembri destinato a finire. Essa è come una tettoia delle fermate degli autobus, dove solo poche persone possono stare sotto per proteggersi dalla pioggia, dalla pioggia della vita. Ma per i ragazzi del Corea riuscire a non bagnarsi è quasi impossibile. Il putrido sobborgo di Edimburgo non può far altro che assalirli e farli cedere sotto il suo enorme peso di palazzoni grigi, pub fetidi e strade invase dalla droga e da ogni sorta di tentazione. È difficile per i ragazzi dei quartieri come quello di Corea realizzare dei sogni. Il linguaggio di Welsh è crudo e privo di censure, scelta azzeccatissima in quanto, in caso contrario, tutto il romanzo avrebbe perso il suo coinvolgimento e avrebbe creato una dissonanza con i protagonisti. Perciò la lettura è scorrevole e alla portata di tutti; ma è consigliato soprattutto a coloro che abbiano visto o intendano vedere il film del 1996 Trainspotting diretto da Denny Boyle, in quanto indurrebbe al confronto tra il romanzo e il film. Un romanzo grezzo, sporco e cattivo in grado, però, allo stesso tempo di trasmettere una limpidezza d'animo sorprendente. di Francesco Fabrini 13 – RACCONTI | PUBBLICAZIONI | CONCORSI MANI di Francesco Fabrini (ex 5^B – Sede di Novara) Michele Mirra continuava a sbuffare durante quel caldo pomeriggio di Luglio. L'estate aveva avvolto nel torpore il piccolo paese rurale di Val Notturna, dove una manciata di povere anime era solita andare a funghi nel periodo autunnale, curare il proprio orto e organizzare tombolate nei periodi festivi per smuovere la monotonia della vita. Ora le zanzare e l'afa erano impietose aggredivano i poveri abitanti, che, per sopportare tali sofferenze, si recavano presso il fiume Iaio, mettendo a bagno i piedi o pescando seduti all'ombra degli alti alberi della valle. Michele Mirra, pur essendo nato e cresciuto a Val Notturna, non si era mai voluto inserire nella piccola comunità, amava e godeva della sua indipendenza, anche i legami più semplici lo spaventavano. Da qualche anno era finalmente entrato nell'età della pensione, dopo una lunga e dura vita da contadino fra i frutteti e i campi di cereali, gli unici posti in cui il vecchio si trovava a suo agio. Talvolta ritorna per riflettere, per ricordare... La vita di Michele era stata dura fin dall'infanzia. La madre, Claudia Guerra, morì durante le complicazioni dovute al parto, mentre il padre, Giuseppe Mirra,ammalato da tempo, morì quando il piccolo Michele aveva compiuto da poco tempo undici anni. Dopo la morte prematura dei genitori, venne dato in affidamento ad Eraldo, lo zio paterno, che, al contrario del realismo e del forte legame con la terra del padre, era un sognatore e viveva di scrittura, prediligendo i romanzi romantici. Questa era la ragione di frequenti litigi fra i due uomini, che, se non fosse stato per la consanguineità, non avevano nulla in comune. Eraldo solo dopo la tragica morte del fratello si responsabilizzò, cercò di far sì che il piccolo Mirra non vivesse una giovinezza triste; per distrarlo, lo zio raccontava storie fantastiche, in cui il protagonista era sempre Michele in veste di eroe in continuo viaggio per il mondo con lo scopo di aiutare le persone bisognose. Nonostante i tentativi di Eraldo, la voce del padre gli giungeva dai campi dove egli si spaccava la schiena ogni giorno. Giuseppe Mirra, quando tornava a casa dopo una dura giornata di lavoro trascorsa tra i campi, prendeva il piccolo Michele tra le braccia abbronzate dal lavoro e se lo metteva sulle ginocchia scompigliandogli bruscamente i capelli con quelle sgraziate mani, rovinate dalla campagna. Mentre lo accarezzava con un impensabile affettuosità iniziava a parlargli con un tono calmo e roco. «Michè, le vedi queste mani? Ti sembrano quelle di un uomo che si è dato da fare o ti sembrano vuote e senza segni di fatica come quelle di un minchione? - disse quelle parole, alludendo al fratello Eraldo - Le cicatrici e i calli che vedi rappresentano il prezzo da pagare per poter dare da mangiare a te e tua madre, giorno dopo giorno. Queste sono le mani di uomo Michè, non te lo dimenticare mai». Michele non lo dimenticò. Aveva capito che nulla era più importante del lavoro per un uomo e lui avrebbe dovuto seguire fedelmente il percorso del padre; lavorò per tutta la vita, cercando di far diventare le sue mani come quelle di Giuseppe Mirra. Quando tornava a casa stremato, dopo le 10 ore di lavoro, Michele si sedeva sulla tazza del gabinetto e si osservava le mani e un profondo ghigno appariva tra le sottili e screpolate labbra corrose dal vento e dal sole. «Se mio padre fosse ancora vivo ora sarebbe orgoglioso di me, per lui sarebbe un onore stringere delle mani simili alle sue, colme di fatica e valore! Fiere di appartenere a un uomo vero!» . Solo dopo averle osannate, come fosse una sorta di rito, le passava sotto il getto freddo dell'acqua e le lavava accuratamente con il sapone. Michele non smetteva mai di lavorare; né le feste né i malanni erano motivi validi per starsene seduti in panciolle a far nulla, bisognava solo a stringere i denti e chiedere aiuto allo spirito lavoratore del padre che sicuramente lo proteggeva dall'alto. Queste doti facevano di lui un uomo rispettabile e rispettato, ma a nessun abitante del paese importava realmente di conoscere la sua vita o di bere con lui un bicchiere di vino dopo la messa della domenica. Sembrava essere coperto da una sorta di mantello carico di negatività, capace di far allontanare qualsiasi persona; le poche che riuscivano a condividere con lui dei momenti, dopo un po' si allontanavano. Durante la sua lunga vita, 14 – Michele ebbe solamente tre storie d'amore che, però, si conclusero nel giro di pochi mesi. Tutte e tre le donne, pur avendo un differente temperamento, in seguito alla relazione con l'uomo rude, avevano sviluppato un aspetto comune che le univa. La prima, Maria Ferrai, ragazza dal vigore e allegria, sembrava spenta; tutti i sogni erano scomparsi, spenti come un fuoco lasciato in balia del vento che preannuncia la tempesta. Da quando le mani di quell'uomo avevano toccato la sua pelle candida, tutte le attività che la donna compieva quotidianamente con grande gioia, le sembravano ora inutili; nulla sembrava più veramente importante. Lo stesso accadde anche per le altre due donne. Sembrava che ogni loro sogno, ogni loro passione,ogni loro attitudine alla vita venisse prosciugata dalla loro anima. Ma, come si dice il tempo rimargina anche le ferite più gravi, infatti le sue amanti riacquistarono la loro serenità quanto e più di prima, mentre lui appariva indifferente ad ogni occasione di gioia. Nulla riusciva a legarlo, ad interessarlo; era cresciuto solo e si sentiva tale anche in compagnia di altre persone. Era consapevole che la morte se lo sarebbe portato via in un giorno di sole, proprio quando nessuno se ne sarebbe accorto, mentre tutti lavoravano ai loro piccoli terreni o pranzavano spensierati con le famiglie. Ora più che mai sperava che la sua fine fosse vicina, dato che la pensione gli aveva tolto l'unica ragione di vita. Sperimentò vari passatempi, ma nulla aveva realmente smosso il suo interesse; la sua vita era stata creata in funzione della fatica nei campi e ora non aveva più motivi per andare avanti. L'accecante sole di Luglio era perfettamente incorniciato da un bel cielo terso e l'aria torrida creava dei piccoli turbini di sabbia che andavano a morire ai lati delle strade. Michele era seduto su un ceppo di pioppo e continuava a sbuffare; davanti a lui, nel piccolo parchetto del paese, un gruppo di bambini giocava col pallone e si divertiva come non mai. Il vecchio uomo provava invidia guardando quella giovinezza che lui non aveva mai avuto e che ora sembrava mancargli più di qualsiasi altra cosa, persino più del padre e più del suo lavoro. Improvvisamente il vento si alzò talmente forte che il pallone in tela volava senza seguire le direzioni di quei calci, dati dai piccoli con prodigioso impeto; dopo qualche minuto le madri si avvicinarono e li portarono via. Solamente un bimbo rimase al centro del campo: era il più piccolo del gruppo, così minuto che Michele non si era accorto di lui durante la partita. Il giovane aveva una folta chioma nera scompigliata dal vento, le braccia esili e abbronzate e un viso triste e malinconico; a Michele sembrò di ricordare qualcuno. Il vecchio si alzò cautamente dal ceppo e si incamminò verso la piccola figura che continuava a rimanere al centro del campo, ormai abbandonato da tutti i suoi coetanei. Non sapeva nemmeno lui perché avesse deciso di andargli incontro, non era nella sua indole cercare un dialogo e i bambini non gli erano mai stati particolarmente simpatici. Le nuove generazione sembravano troppo diverse, per loro l'unica cosa importante era giocare e fare i capricci, comportamenti assolutamente inaccettabili per la sua mentalità. Cercando di non spaventarlo, Mirra poggiò delicatamente le dita sulle esili spalle del bimbo; il corpo sembrava non avere consistenza sotto le dure dita del vecchio. «Ciao ragazzino, dì un po', perché sei rimasto qui da solo? Tutti i tuoi compagni sono tornati nelle loro case per la merenda e ci sarà sicuramente anche nella tua, non startene qui in balia del vento come le foglie! Quello posso farlo io, ché ormai sono vecchio e ho vissuto la mia vita. Forza, corri a casa o ti ammalerai!». Il ragazzino guardò negli occhi il vecchio e, con una voce che sembrava non avere età, iniziò a parlare in un linguaggio che Mirra non si aspettava assolutamente di sentire da un bambino di circa dieci anni. «Io non ho più una madre, se n'è andata via insieme al mio povero papà. Nessuno mi viene a prendere quando arriva forte il vento e a casa non v'è alcuna merenda ad aspettarmi. Sono solo». Mirra rimase turbato dalle parole che uscivano da quelle piccole labbra e indietreggiò, cercando di trovare le parole giuste, era la prima volta che cercava di consolare una persona, questa volta si trattava addirittura di un bimbo! «Non dire così, giovanotto! Sono sicuro che hai molti amici con cui condividere le giornate, d'altronde erano qui fino a un momento fa! Torna da loro, vedrai che verrà servita anche a te un pezzo di torta per merenda». «Io vorrei tanto andare a casa loro, giocare, far merenda, sognare e far progetti per il nostro futuro. Molti hanno già delle idee fantastiche; c'è chi dice che farà il medico e scoprirà i rimedi per malattie incurabili, chi è sicuro che poserà i piedi sul suolo lunare e chi farà in modo che tutti gli abitanti di questo pianeta non soffriranno più la fame e la miseria. Capisci? Loro hanno tutto questo, io non ho nulla, ho solo questo desiderio: poter condividere con loro i miei sogni». 15 – Il vento aveva smesso di fischiare tra gli alti alberi del piccolo parco e il sole continuava a splendere alto nel cielo dove stormi di passeri volavano pigramente. «Non dire questo giovanotto! Sei ancora piccolo, vedrai che troverai anche tu una strada da percorrere, ne sono sicuro!». Il viso del ragazzino si fece cupo, la tristezza lasciò spazio alla rabbia, le mani si strinsero in dei pugni e le esili e piccole gambe iniziarono a tremare senza controllo. Mirra si pentì di essersi avvicinato a lui, avrebbe dovuto starsene a casa come sempre, lontano da tutto e tutti. «La mia strada da percorrere è già stata scritta, nulla può essere cambiato ormai. È troppo tardi e tu lo sai». L'uomo iniziò a sentirsi male. Tutti i suoni della natura, che fino a qualche istante prima erano nitidi e gioviali, ora sembravano provenire da chilometri di distanza e annunciare qualcosa di infausto. La luce sembrava accecarlo; voleva scappare via da quel posto, da quel bimbo, ma le gambe sembravano essere di calcestruzzo e non riusciva a sollevarle da terra. «Quanto pagheresti per ritornare alla mia età? Quanto daresti per ricominciare la tua vita e viverla a pieno, coltivando i tuoi sogni, le tue passioni? Daresti tutto per aver al tuo fianco una persona che ti ami alla follia, ora lo so. Perché non sei stato capace di farlo? Perché non hai avuto il coraggio di vivere?». Mirra faceva fatica a respirare, ma trovò la forza per rispondere un'ultima volta: «Mi pento di tutto, ma so che questa non è altro che un'allucinazione che preannuncia la mia fine. È troppo tardi ora, hai ragione tu. Le mani di cui andavo tanto fiero non hanno alcun valore, sono state solo l'emblema della mia sofferenza. Solo sacrifici. Padre perdonami per quello che sto dicendo, ma le tue parole mi hanno condizionato fin troppo, impedendomi così di dedicarmi a ciò che volevo veramente essere. Ho vissuto, sperando di non deluderti, ho coltivato ciò che tu hai sempre fatto con amore ma in fondo non erano le mie aspirazioni, non appartenevano alla mia indole. Ora finalmente vorrei viaggiare e compiere le avventure che zio Eraldo mi raccontava prima di andare a dormire; vorrei esser su una mongolfiera in compagnia della mia amata per vedere tutto il mondo dall'alto, e allontanarmi sempre di più dalla terra. Come ho potuto cancellare i miei sogni?». Michele Mirra si accasciò ai piedi del ragazzino. I grilli e le cicale continuarono il loro concerto pomeridiano, come per celebrare la caduta di quel pover'uomo. Michele aprì gli occhi lentamente, facendo filtrare con cautela i raggi solari che sembravano scaldargli anche l'anima. Accanto al letto si erano riuniti quasi tutti gli abitanti del paese che non facevano altro che parlargli, sperando che il povero vecchio si riprendesse. Persino i ragazzini erano stretti alle loro madri in attesa di un risveglio. L'uomo non aveva la forza per parlare, ma pianse di gioia nel vedere accanto a sé tutte quelle persone, pianse per la gioia e il battito del cuore sembrava accelerato e rinvigorito… Riaprì gli occhi, sorrise e tutti gli risposero con tanti sorrisi e si abbracciarono con grande sentimento. Dopo qualche minuto entrò nella stanza un medico alto, dal volto giovanile, che invitò tutti ad uscire per far riposare il signor Mirra. L'infarto, che lo aveva colpito durante quella torrida giornata d'estate, non aveva spento la fiamma vitale. Al suo risveglio Mirra vide accanto al letto il giovane che lo aveva fatto morire e rinascere nello stesso giorno; il ragazzino guardava dolcemente l'uomo e sorrise con la grazia di un piccolo angelo. Si avvicinò e toccò delicatamente le vecchie mani dell'uomo: «Queste mani sono quelle di un uomo pronto a sognare, pronto a sperare di nuovo nel futuro. Sono le mani di un uomo che ha faticato tanto, troppo, ed ora è giusto che trovino riposo. Fammi rinascere dentro di te un'altra volta, fammi rivivere quello che non ho potuto vivere. Non far morire il giovane che è rinato dentro te». Il ragazzino strinse di nuovo le mani al vecchio e svanì improvvisamente dalla camera, nonostante l'uomo continuasse a sentirlo. Dopo un paio di mesi dall'incidente, Michele Mirra era alla fiera del paese circondato da tutti gli abitanti di Val Notturna. Accanto a lui vi era di nuovo Maria Ferrai. Le sue mani erano intrecciate a quelle dell'uomo che tempo fa le aveva spento ogni entusiasmo, mentre ora non riusciva più a staccarsi da lui. Ora il futuro non sembrava inutile e privo di senso, non era più solo. Tutto appariva nuovo e ricco di significati inimmaginabili. Guardandosi le mani Mirra non trovava più segni di fatica, la pelle sembra esser stata levigata lentamente con delle pietre magiche e nulla nel suo animo desiderava far sì che quelle mani tornassero a somigliare a quelle del padre. «Ricordo ancora con piacere immenso le tue parole, babbo caro, ma ora che il futuro e i sogni sono rientrati nella mia vita voglio aspettare ancora molti anni prima di abbracciare di nuovo te e la mamma. Siate felici della mia rinascita, i miei sogni sarebbero stati apprezzati anche da voi, ne sono certo». 16 – IL BONFA NEL MONDO /1 di Leonardo Lepenne (ex studente corso C) Premessa - Capelli ricci, lunghi fino alle spalle. Volto sbarbato, sorriso sornione, modalità furbizia sempre attiva. Era questo il Leo di qualche anno fa tra i banchi di scuola, “disperato e disgraziato”, di quegli alunni “intelligenti ma che non si applicano!”. Quante volte si è sentito rimproverare la sua “non voglia” di studiare, quante volte ha incassato il colpo reagendo solo in un secondo tempo, magari con una sua marachella sbeffeggiante! Eppure, scrivendo queste poche righe, ricordo di lui il rispetto con cui si è sempre rivolto nei confronti di un giovane prof., mai maleducato anche se qualche volta nervosamente assente anche al rimprovero, indifferente agli stimoli dei colleghi… E un giorno, dopo diversi insuccessi scolastici e un abbandono prematuro della scuola, trovo una mail. Apro e con sorpresa ritrovo le sue parole ma soprattutto leggo la provenienza di quel messaggio: Sidney! Mi piace leggere la vita “dopo il Bonfa” di chi ho avuto il piacere di incontrare lungo il mio sentiero professionale ma soprattutto umano. E allora domando, mi informo, stimo chi fin dall’emisfero australe a migliaia di chilometri dalla terra degli aironi mi scrive e, semplicemente, leggo e, ancora una volta, imparo! CURIOSITÀ AUSTRALIANE L’Australia ha una specifica festività riconosciuta per una corsa di cavalli: la Melbourne Cup. Nel 1838, in Australia è stato dichiarato illegale fare il bagno in spiagge pubbliche durante il giorno. La legge è stata applicata fino al 1902. L’Australia è la madre della Grande barriera corallina, la barriera corallina più lunga del mondo, che si estende per oltre 2.012,5 km. Si dice che un tipico australiano, nell’arco della sua vita, può prevedere di consumare 10 tonnellate di verdura, 8 tonnellate di frutta, mezza tonnellata di formaggio, 165.000 uova, 92 pecore, 17 bovini da carne e 406 pagnotte di pane. Nel 1954, un uomo di nome Bob Hawke è entrato nel Guinness dei primati per aver ingurgitato quasi un litro e mezzo di birra (2,5 pinte inglesi) in soli 11 secondi. Nel 1983, lo stesso Bob Hawke è diventato primo ministro d’Australia. Nel 1967, il primo ministro Harold Holt andò a nuotare a Cheviot Beach e nessuno lo rivide più. L’evento è ricordato come “il bagno che non ebbe bisogno di asciugamano” (e potrebbe aver fatto prendere in considerazione ai legislatori – anche solo per un secondo – la possibilità di ripristinare la vecchia legge contro il nuoto nelle spiagge). Nonostante le miniere australiane producano circa il 15% del PIL del Paese, solo lo 0,02% del territorio australiano è occupata dalle miniere (in realtà, è maggiore il territorio australiano occupato dai pub). L’Australia ha più di 150 milioni di pecore – un numero circa 7,5 volte superiore alla sua popolazione umana. La popolazione dell’Australia è così poco densa che mentre in altri Paesi di solito si calcola quante persone vivono in un chilometro quadrato, in Australia si calcola di quanti chilometri quadrati dispone una persona. In Australia non importa dove ci si trovi: non si è mai a più di 1.000 km di distanza da una spiaggia. 17 – “Prof. G., se mi dice che mi “pubblica” sul giornalino scolastico del Bonfa mi fa sentire importante, dai!!! Mi prometta solo che poi mette giù bene quanto leggerà, io ora “apro la mente” e semplicemente… scrivo! La mia storia bonfantiniana è iniziata quando all’orientamento alle scuole medie ho scelto di fare l’Istituto Agrario: il mitico Bonfa. Una scelta ponderata dal mio amore per gli animali e la natura. Ho sempre pensato fosse pensavo fosse la scelta giusta per me, ed era cosi! Dagli Open Day e da altre occasioni simili, ho subito pensato fosse una scuola mitica e sopratutto bellissima, addirittura gigantesca! Con il senno di poi penso che in quella scuola ho passato gli anni più belli della mia vita, sarà scontato ma è così! Sono felice anche perché durante gli anni sono sempre stato etichettato come “mela marcia” o “pecora nera” di turno insieme ai miei compagni di sventura Diego e Fioru! Le si ricorderà bene!!! E poi le gite pazzesche, fighissime trascorse insieme, organizzata da proff. che non dimentico che mi hanno insegnato tanto (anche se non sempre ho dimostrato riconoscenza nei loro confronti) ma qualcuno (tra cui lei!) mi ha anche tirato le orecchie molte volte e, ricordo bene, anche una calcolatrice addosso!!! Sa, ora che sono un po’ maturato e cresciuto, posso dire di avere avuto degli insegnanti speciali, dal primo all’ultimo, dalla “regina della luce” prof.ssa Fierro che mi metteva un 2 al giorno, alla speciale prof.ssa Barsuglia! Prof., io mi sono sentito a casa per 4 anni e, anche se alla fine non è andata benissimo, sono felicissimo di aver fatto questa scelta. Visto il mio passato da “studente brigante” non ho mai ottenuto un diploma (ma ora lo rimpiango molto!). Dopo essere “cresciuto un po’ di testa” ho deciso di cambiare. Cambiare radicalmente. Ho scelto l'Australia come meta per “risorgere”. La terra delle opportunità! Non la posso mettere a confronto con l’Italia perché la cosa sarebbe del tutto banale: gente diversa, culture diverse ma sopratutto vita, quotidianità diversa. Ora faccio il cameriere, prendo quasi 1000 $ a settimana (e sono un bel po’ di soldi!). La natura qua è spettacolare, incontaminata, paesaggi immensi, meravigliosi e straordinari! Attualmente non posso far altro che consigliare un’esperienza di questo genere anche se comporta un netto distacco dai propri affetti, dalla propria terra e dalla routine che a volte va proprio stretta. In Australia sto bene, anche economicamente non posso nascondere di star bene. Qui, le immense fattorie del Paese (le farm) offrono opportunità straordinarie e se avessi completato gli studi avrei avuto un’occasione speciale in più, una paga ancora più alta tra gli 800 $ e i 1500 $ a settimana. È un’occasione rara, un modo per imparare a “farsi le ossa” da soli lontano da tutto, a contatto con una natura sconosciuta ma insieme ad altre migliaia di giovani di diverse nazionalità che come me sono “in fase di ricerca”! Quindi, scritto questo, caro prof. sono felicissimo di essere qui e di quello che sono diventato… ho ancora tanta strada davanti ma sono sereno! Un grazie va anche al “mio” Bonfa perché è stato parte integrante della mia vita. Non potevo chiedere di meglio!” 18 – IL RISCHIO DI NON CONOSCERE L’INGLESE secondo il Web Il visto vacanza-lavoro permette di rimanere in Australia per 12 mesi, e può essere rinnovato per altri 12 se il titolare accetta di trascorrerne almeno 3 nel cosiddetto “outback”, lavorando nelle aziende agricole, nelle miniere e nel settore delle costruzioni. Costa circa 300 euro ed ha una serie di vincoli che, di fatto, gli impediscono di essere il trampolino di lancio per una carriera a tempo indeterminato down under. Tra questi, l’impossibilità di essere (legalmente) impiegati per più di 6 mesi dallo stesso datore di lavoro e la flessibilità sulla conoscenza dell’inglese, che per altri tipi di visto è necessaria: entrare in Australia senza conoscere l’inglese non è un vantaggio ma, al contrario, rischia di amplificare la delusione, perché una lingua si perfeziona, non si impara lavorando. È anche per questo che molti giovani finiscono col ritrovare all’altro capo del mondo alcune delle situazioni che li avevano spinti a lasciare il Bel Paese: periodi di prova non pagati (che tuttavia capitano sempre più di rado), precariato, lavoro in nero, compensi anche significativamente inferiori al salario minimo nazionale, che è di 16,37 dollari l’ora (con bar e ristoranti che arrivano a pagare anche appena 120 dollari al giorno a chi vi entra la mattina per uscirne a mezzanotte) e via dicendo. Tante volte è la vaga promessa di un’assunzione a dare a questi ragazzi la forza di continuare. In altri casi è la paura di confessare la delusione di un sogno infranto, ma per qualcuno resta forte la speranza che, prima o poi, l’occasione giusta arriverà. Qualche volta la tanto agognata occasione arriva davvero, ma più per coincidenze che per altri motivi. i problemi visti dal punto di vista di Leonardo che in Australia ora ci vive i problemi che si potrebbero incontrare in Australia secondo un qualunque sito Web UNA SOLUZIONE SERIA ED ONESTA SI TROVA secondo Leo Dal punto di vista di uno che ci vive da qualche mese. La parte dei visti è tutta vera! Quello che c'è scritto dopo assolutamente no, per lo meno per me! La gente del posto è molto amichevole anche se non sai la lingua ti ripete le cose venti volte, ma ci sono comunque scuole di inglese per perfezionarlo anche a basso costo. Io ho fatto così, l’inglese l’ho studiato al Bonfa e approfondito e perfezionato qui! Ho cambiato 6 posti di lavoro e di soldi in nero neanche una traccia!!! La paga è sempre stata all’altezza del costo della vita qui e poi… ho visto giovani andare a casa dopo tre settimane, vero! Ma sono tornati in Italia non perché il “sogno australiano” si è spezzato ma perche la nostalgia di casa e della mamma è stata più forte di ogni cosa! Ovviamente il visto non ti permette di stare qui a vita, ma se sei fortunato e ti dai da fare con costanza e serietà, puoi trovare datori di lavoro che si “affidano” in qualche modo alla tua esperienza e ti applicano uno “sponsor” cioè ti legano a quel lavoro per due anni facendoti così concedere un visto permanente per rimanere in Australia. La metà della popolazione Australiana è composta da backpackers ovvero gente che arriva, come me, da altri Paesi ed è difficile che qualcuno tra loro ti dica che il viaggio in Australia è stato uno sbaglio! Certo che non puoi venire qui e stare a casa ad aspettare che qualcosa arrivi, devi girare posti, mettere in campo le tue risorse insomma metterti in gioco e conoscere più gente possibile. Se ce l'ho fatta io, ce la possono fare tutti! 19 – IL BONFA NEL MONDO /2 la storia di Alessandro, Simone e Andrea (ex bonfantiniani) Scrivere di loro non è così semplice, non per qualche ignoto problema ma perché non è volontà di tutti raccontarsi e raccontare le proprie scelte e le proprie esperienze di vita... ma quando un ex insegnante insiste all’esasperazione, li intercetta per i corridoi della scuola quando, provvisti di regolare pass, salutano tutti i colleghi di ritorno dal loro viaggio, e poi non contento apre una chat su facebook proseguendo l’intervista coatta, sbagliando anche uno dei componenti inseriti! Ebbene, con le buone tutto si ottiene e uno dei “tre dell’Est” risponde! Lo fa nel suo stile apparentemente improvvisato e svogliato ma in verità lo fa perché in fondo alla sua scuola qualcosina vuol lasciare. Alessandro risponde, Andrea non obietta e si defila, Simone deve ancora essere inserito nella chat dallo sbadato prof. che ancora deve scusarsi con un omonimo preso a caso dalla rete e interpellato a forza (!). Ma chi sono questi tre ragazzi?! Sono tre coraggiosi giovani che dopo qualche anno al Bonfa scelgono un Paese non troppo lontano ma in una zona d’Europa non propriamente riconosciuta come “sede di lavoro all’estero”: la Romania. Alessandro e Simone concludono il loro percorso di studi regolarmente, Andrea sceglie/subisce “uno e più approfondimenti” ma sogna il lavoro, il banco della scuola gli sta stretto, ama, come i compagni d’avventura, la campagna, il lavoro nel verde e il silenzio della terra. Sono tre ragazzi a cui non fa paura aver le mani sporche di terra. Ragazzi che già da tempo sanno cosa significa “donare sudore alla terra”. Ragazzi che del lavoro non hanno paura, ma forse ne hanno di non riuscire a trovare un impiego! E così i tre giovani ormai ex bonfantiniani decidono di partire, per diversi motivi a loro dire. In primo luogo la ricerca di un lavoro: l’Italia purtroppo “sta stretta” a tutti e tre. L’opportunità di poter lavorare all’estero pare affascinare tutti e tre. La possibilità di poter imparare una lingua, conoscere persone in una realtà sociale diversissima da quella italiana. L’occasione di poter lavorare attivamente in una delle aziende risicole più grandi d’Europa, con circa 5.000 ettari di terreni immersi nella sterminata campagna dell’Est. 20 – Destinazione Romania! Alessandro ammette quanto l’esperienza di lavoro all’estero sia stata per tutti e tre un’ottima opportunità che “ti cambia, ti rimane dentro, ti regala una nuova immagine di vita”. Non è facile, e forse non c’è neppure desiderio di raccontare quanto vissuto, piuttosto, nelle poche parole che scrive Alessandro emerge davvero qualcosa di nuovo rispetto alla “vita da studente”. Andrea ha un volto più sorridente nonostante sia segnato dalla fatica e dalle difficoltà di ragazzi appena ventenni (o quasi!) che hanno affrontato i problemi con la lingua locale, con gli usi e i costumi del posto… “provate voi a partire senza sapere neppure una parola di romeno e trovarvi a lavorare con solo tre colleghi che vi capiscono!”. Negli otto mesi trascorsi in terra rumena, l’Italia non manca così particolarmente. Prevale il rancore per la mancanza di opportunità della propria terra natia: “non mi è mai passato per la testa di rientrare in anticipo” dice Alessandro “forse un pochino di nostalgia l’ho provata, lo ammetto, ma esclusivamente della cucina italiana!!! E poi la vita sociale nelle campagne dell’Est non è così ricca anzi forse non esiste proprio. In otto mesi ho visto la città forse tre o quattro volte!”. Ed ora il volto non più sbarbato di Andrea e gli occhi degli altri ragazzi fanno trasparire il desiderio di tornare in una terra così sconosciuta, seppur piena di difficoltà. Il periodo che trascorreranno in Italia sarà di qualche mese soltanto ma manca il lavoro che tra le risaie dell’Est non mancava di certo, manca la grande azienda, manca la terra, manca anche quel riso seminato e fatto crescere passo per passo fino al raccolto… mancano gli incontri speciali e manca tutto ciò che si è “imparato” lavorando in questi mesi. C’è del coraggio in queste tre vite ma ancor più c’è un esempio di tre bravi ragazzi che del lavoro, anche quello faticoso e lontano, non hanno paura… semplicemente c’è una forza chi li muove e li rende felici: si chiama PASSIONE! 21 – Noi del bonfa... Di CLAUDIA PAVAN (ex corso b) UNA VITA OLTRE IL BONFA: VoLEVO fare la “pastoressa” e ora VIVO DI NATURA! un “vecchio” articolo tratto da uno degli ultimi numeri del Bonfa (datato 2013) che offre uno spunto di riflessione su un approccio al mondo “post diploma”; dai monti della Valle d’Aosta Claudia Pavan, ex studentessa diplomata nell’a.s 2009/2010 nel corso B della Sede, racconta la sua scelta di “montagnina” mantenendo le radici bonfantiniane M i è stato chiesto di raccontare la mia storia e di come l’esperienza bonfantiniana possa averla influenzata. Ed eccola. Partiamo dagli arbori, quando ero una pischella e all’asilo le maestre ci dicevano di disegnare cosa volevamo fare da grandi. I miei compagni erano dei gran sognatori. Le femminucce disegnavano sé stesse in abiti regali, vicino a castelli e cavalli: “Voglio fare la principessa”, squittivano sorridenti e sognanti. I maschietti si sbizzarrivano tra acchiappafantasmi, supereroi, militari e qualche modesto meccanico. Io invece ero la disperazione della maestra: dividevo sempre il foglio in due parti con una riga perché ero sicura di non essere certa del mio futuro; o meglio, non sapevo quale delle due opzioni scegliere. La prima era la ruspista. Si, avete letto bene, la ruspista! Sognavo di guidare quei giganteschi caterpillar gialli e spostare tonnellate di terra di qua e di là. La seconda era la pastoressa, così definivo il femminile di pastore. Mi raffiguravo in camicia a quadri sopra al mio bel trattore con annesso rimorchio carico di balle di fieno e, al seguito, una mandria di bestie. La maestra ogni tanto riprovava l’esperimento, sperando che un giorno avrei disegnato anch’io una povera principessa illusa. E invece no. Niente da fare. 22 – A quattordici anni avevo le idee ancora molto chiare, le stesse di dieci anni prima: stavo per iniziare la mia avventura bonfantiniana. Cinque anni splendidi, dei quali conservo un ottimo ricordo. L’ultimo giorno della quinta coincideva con il primo della mia nuova vita, quella che premeditavo da qualche tempo. Una decisione un po’ folle, lo riconosco, ma che rifarei. Una scelta inizialmente poco appoggiata, soprattutto dai miei genitori, che hanno però dovuto rassegnarsi ed accettarla. Sono scappata dalla pianura lombarda e mi sono trasferita in Valle d’Aosta, nella nostra casetta delle vacanze. La pianura sarà anche piena di virtù e comodità ma non era il mio habitat naturale tutto quel piattume, quel caos e quella nebbia. L’estate della maturità mi è servita da rodaggio: ho trovato un lavoretto e ho iniziato a capire cosa significava vivere da sola. Fare da mangiare, lavare, stirare, ma soprattutto pagare le spese e le bollette. Non è tutto rose e fiori emanciparsi dai genitori, ve lo assicuro. Per fortuna sono sempre stata molto intraprendente e la svolta non è stata poi così drastica. L’estate stava volgendo al termine e dovevo capire cosa fare del mio futuro; continuare gli studi o cercare lavoro nel mio settore? Beh, non ci crederete ma la risposta l’ho avuta dalla mia nonna: 90 anni di donna, un italiano ostentato da un dialetto veneto marcato e curiosità da vendere. Eh già, è quello il segreto della vita: essere curiosi. Un giorno mi chiese come fosse possibile che dai vulcani uscisse “roba liquida”, così l’ha definì. Così ho cercato di spiegarle un po’ di geologia. Mi guardava come se parlassi un’altra lingua. Allora ho deciso di semplificare il tutto: “Vedi nonna, la Terra è come una grande arancia: la buccia è la crosta terrestre, mentre la polpa è il magma, quella sostanza liquida che esce dai vulcani; se fai un buco nella buccia dell’arancia, esce il succo”. E lei: “Ma mi no faso mìa busi ne ‘e ranse; mi le magno” (= ma io non faccio mica i buchi nelle arance; io le mangio). Dopo vari tentativi sono riuscita a spiegarmi e lei, tutta contenta, è corsa a spiegare alle sue amiche che la Terra era un’arancia. Potrei citare altri mille divertenti episodi ma credo di aver reso l’idea di come ciò che per noi è scontato, per chi è nato 90 anni fa non lo è affatto. Mia nonna ha frequentato solo la prima e la seconda elementare; sa a malapena scrivere, con una marea di errori ortografici, ma appena c’è qualcosa che non capisce, chiede spiegazioni, legge, si informa. Si incuriosisce e vuole capire a tutti i costi. Io la invidio per questa sua innata spinta alla conoscenza. Un giorno mi chiese: “E dèso che te ghè finìo ‘a scòa, cosa fài?” (= e ora che hai finito la scuola cosa pensi di fare?). Così le ho spiegato che ero indecisa sul da farsi: “Riconosco di avere parecchia memoria, soprattutto per le cose che mi interessano, e quindi di poter ottenere i migliori risultati scolastici con il minimo dello sforzo; d’altro canto però, sono consapevole del fatto che studiare non fa per me, che non ne ho voglia”. La sua risposta è stata secca e determinante: “Io avrei voluto studiare ma non ho potuto, a 8 anni mia mamma mi ha mandata a lavorare in una fabbrica di sigari; tu che puoi, non sprecare quest’occasione. Te ne pentiresti”. 23 – Beh, in 90 anni ne metti da parte di saggezza. E cosi’ l’ho ascoltata. La decisione di continuare gli studi era ormai presa, ora rimaneva da scegliere il “cosa” studiare. Di mais, riso e grano non ne volevo più sapere, anche perché a 1400 metri di quota, coltivare cereali non è l’ideale. Cosa c’è in montagna? Cosa può essere utile imparare a conoscere laddove mi sono trasferita? Piante. Erbe, arbusti e alberi. Di ogni genere e specie. E poi, animali selvatici: caprioli, cervi, camosci, stambecchi, cinghiali. Ebbene si. La scelta non poteva che vertere sul corso di Scienze Forestali ed Ambientali, nella Facoltà di Agraria, a Torino. È iniziata così anche la mia avventura universitaria. In settimana a Torino per seguire le lezioni e il fine settimana a casa, lavorando come cameriera in un ristorante, giusto per potersi pagare le spese. D’estate però non si può rinunciare alla tradizione di passare un mesetto in alpeggio. È da quando ho 12 anni che, ogni estate, attendo questo momento. Quando alla commissione di maturità ho presentato la mia tesina intitolata “L’alpeggio” ho destato un po’ di perplessità. D’altronde l’alpeggio è uno stile di vita, una passione più che una professione. A maggio si sale a piedi fino alle baite, a 1800 metri per poi spostarsi a 2300 metri a fine luglio, quando ormai la neve si è sciolta è i pascoli sono verdi. Quattro mesi di duro lavoro, immersi nel silenzio delle montagne. Sveglia alle 4:00, si accende il fuoco, ci si veste , si calzano gli stivali, secchio e sgabello e si va in stalla. L’elettricità non arriva lassù quindi si munge a mano, al solo chiarore dell’alba o di un frontalino quando il sole tarda a sorgere. La mungitura è un momento magico lassù, scaldato dal calore delle bestie e scandito dal ritmo del latte che schizza nei secchi. Le stalle sono piccole, basse, anguste e si finisce per mungere con la schiena poggiata ai fianchi della vacca accanto; si può sentire il suo battito, il calore che emana e, se è gravida, perfino i movimenti del vitellino. Ogni qualvolta il secchio si riempie, si corre a svuotarlo nella cantina, nel grande paiolo. Finita la mungitura si torna in baita per una tazza di caffè latte per poi rimettersi subito all’opera; la giornata è solo all’inizio. Sono da poco passate le 5:00 e il sole inizia ad illuminare le cime. È il turno delle capre: sono un po’ più bisbetiche e non si lasciano mungere tanto facilmente, ma con un po’ di pazienza si ottiene tutto. Il latte di capra viene poi posto in un altro paiolo più piccolo. Smessi i panni da mungitrice è già ora di cambiarsi e indossare quelli di casaro. Il fuoco arde ormai a dovere e ci si può apporre sopra il paiolo del latte. Per fare della buona toma e della buona fontina, serve una mano esperta. Bisogna fare attenzione alla temperatura del latte e alla quantità di caglio. Non è stato semplice apprendere tutti i segreti per ottenere una buona forma. 24 – Ci sono voluti mesi ed una buona dose di tentativi falliti! Dal latte di capra si ottengono invece delle squisite formaggelle. Sono quasi le 9:00 ed è ora di portare al pascolo la mandria. Oh come sono felici quando ti vedono entrare in stalla e sentono gridare il loro nome davanti alla porta spalancata! Quelle bestie sono davvero intelligenti. Pochi immaginano l’obbedienza e la fedeltà di questi animali. Ognuna ha il suo nome e ne risponde se chiamata. Quando al mattino ancora sonnecchiano e faticano ad alzarsi per esser munte, non c’è pacca o punzecchiamento che le convinca. Basta dire a gran voce il nome giusto e stai pur certo che solo lei si alzerà. Certo non è semplice imparare a distinguere 50 vacche ma basta osservarle bene e si scoprirà che ognuna di loro non ha solo colori, pezzature e corna diverse, ma anche un carattere diverso. Così si parte al pascolo, accompagnata da Moretto, il cane pastore. Anche pascolare è un’arte; bisogna iniziare dal basso, dove la neve è già sciolta e l’erba è già verde, per poi pian piano risalire, durante la stagione, fino ai pascoli più alti. Da fine agosto inizia a nevicare e quindi si deve nuovamente scendere. La mandria è ubbidiente e il cane pastore compie il suo lavoro in modo eccellente, perciò non c’è bisogno nemmeno di fili e paletti. Nel frattempo si mettono fuori anche le capre. Queste non solo sono disubbidienti ma sono pure dispettose! Appena la porta della stalla si apre schizzano fuori alla velocità della luce e dopo pochi minuti le vedi lassù in cresta che ti sfidano ad andare a riprenderle. Maledette. Verso le 14:00 si comincia a tornare verso le baite con la mandria; le mucche tornano in stalla, ognuna al proprio posto. Si girano le forme di toma che stanno angora sgocciolando il siero e poi si mettono le gambe sotto il tavolo. Polenta, formaggio, pane, salame e un buon bicchiere di vino. Quattro chiacchiere, un caffè ed è già ora della seconda mungitura. I secchi colmi di latte e coperti di schiuma viaggiano dalla stalla alla cantina. Intanto c’è da andare a recuperare quelle bestiacce: le capre. Tendi l’orecchio e le senti; le senti sempre. Ma non le vedi mai. Una bella dose di santa pazienza, tanta voglia di camminare e un frontalino in tasca, che non si sa mai. Attacchi su dritto il costone seguendo il rumore delle campane. Passi la pietraia ed eccole lassù. Sono sempre più in alto di te. Meno male c’è Moretto, il cane pastore, ma se le capre lo vedono si fiondano giù, dall’altra parte del costone. Lui lo sa, quindi se ne sta quatto quatto al mio passo fino all’ordine: “Moretto, feit ou tzir!” (= Moretto, fai il giro!). Allora corre svelto fino alla cresta, scollina sull’altro versante e subito dopo riappare, preceduto dal gregge che corre all’impazzata. Guardi giù e ti rendi conto che l’alpeggio è diventato piccolo-piccolo; hai ancora tutta la discesa da fare, ma ora il gregge non ha scampo e si può controllare. Prima di scendere si approfitta sempre dell’ottima visuale per assicurarsi che anche il gregge di pecore non si sia allontanato troppo. Loro se ne stanno sempre a zonzo, non 25 – tornano mai alle baite. Ed è bello, a fine estate, ritrovarsi una ventina di agnellini nuovi. Tornata alla base, si viene accolti dal profumo del latte: dalla seconda mungitura si otterranno altrettante forme di buon formaggio. Le capre filano in stalla e noi in baita per la merenda: servono forze quassù! Prima di cena si portano ancora un momento fuori le vacche; all’imbrunire tutti dentro e finalmente è ora di cena. Una minestra calda è quello che ci vuole. Che atmosfera la sera quassù. Una candela tremolante che illumina i volti stanchi, il silenzio rotto da frasi in patois che echeggiano nella stanza e gli occhi di Moretto che reclamano un pezzetto di pane. La stanchezza poi rapisce tutti velocemente e ci si addormenta in fretta con lo scoppiettio del fuoco. Ecco, tutto questo è l’alpeggio. Un’esperienza che consiglio a tutti, per provare cosa significa “vivere di natura”, senza macchina, cellulari, computer, televisione, ma nemmeno elettricità. Per mettere alla prova se stessi, non solo al lavoro fisico ma spesso ai silenzi che la montagna offre, nei quali non si può far altro che riflettere, pensare, immaginare. Azioni che, nella frenesia del mondo contemporaneo, pochi hanno il tempo di compiere. E ora? – direte. Che te ne fai di una laurea in Scienze Forestali ed Ambientali? Beh me lo sono chiesta anche io. Purtroppo al giorno d’oggi, molti giovani sono laureati, il solo diploma non conta più molto. Quindi per essere competitivi nel mondo del lavoro è quasi indispensabile avere una laurea. Perciò iniziamo col conquistarlo questo pezzo di carta! Tornerà sicuramente utile! Cosa vorrò fare da grande in realtà non lo so ancora. Ho delle idee, dei sogni, delle piccole ambizioni, ma nulla di sicuro. Abito praticamente dentro un parco regionale (il Parco Regionale del Mont Avic – venite a visitarlo, è un piccolo paradiso!) e sarebbe l’ideale trovare un posticino come guardaparco. Ma la selezione è tosta. Ciò non toglie il fatto che bisogna provare! A fallire si fa sempre tempo, dice qualcuno! Le alternative sono tante, così come le idee che mi frullano nella testa; vedere gestiti i boschi della mia valle ad esempio, creando una piccola azienda forestale; o, perché no, avviare una piccola attività vivaistico-forestale, raccogliendo in loco i semi dai boschi migliori, da utilizzare nei rimboschimenti futuri; e poi un sacco di attività secondarie, poco redditizie (quanto meno all’inizio), ma che secondo me hanno delle grandi prospettive, se ben studiate, come ad esempio rivalutare i piccoli frutti e le varietà antiche di montagna, coltivando mirtilli, lamponi, ribes, ma anche mele, pere, ciliegie e susine selvatiche; ricavare prodotti di nicchia ma squisiti, utilizzando ciò che offre il bosco, cosa che ho imparato a fare ormai da qualche anno grazie ai consigli del mio vecchio e dei montanari di quassù: dalle pigne di pino cembro si ottiene ad esempio uno sciroppo ottimo per la tosse che, con l’aggiunta di un po’ di grappa, diventa un delizioso liquore; così come, aggiungendo del semplice alcool, si ottengono prelibati liquori al ginepro, al mirtillo, al lampone, all’achillea, alla genziana e soprattutto al genepì; i pascoli alpini regalano spezie (timo, cumino e ginepro), e prodotti per infusi e tisane (genziana, malva, achillea). Si raccoglie inoltre l’arnica - un fiore giallo che guarisce le contusioni - e l’iperico, il cui olio guarisce vesciche e scottature. Insomma, il bosco e la montagna in generale, offrono un’enormità di risorse; bisogna solo scoprirle, conoscerle, saperle sfruttare senza abusarne, gestirle in modo sostenibile e trarne il meglio. Ecco questa è la mia storia, per ora; o meglio, mi auguro sia la prefazione di un bel libro ancora tutto da scrivere e sfogliare e soprattutto a lieto fine! Il resto delle pagine sta a noi scriverle. Nel migliore dei modi... 26 – SVAGO BONFANTINIANO a cura del prof. Daniele Pescio ORIZZONTALI 1-Lo è l’equazione x 12 2 x 2 2 x 3 13-La città piemontese con l’isola di San Giulio. 14-Il primo presidente della Repubblica eletto secondo il dettato della Costituzione. 15-C’è quello termodinamico. 16-Meridione. 17-L’inglese Vai! 18-A strisce. 21-Si occupa del passato. 24-L’habitat degli aerei 25-Gli estremi di Torino. 26-L’estensione dei siti internet dedicati all’educazione. 27-Fe per la Chimica. 28-Il cane a sei zampe. 29-Ha perso qualche elettrone. 31-Bambinaia. 33-Sigla della provincia di Milano. 34-Fastidioso. 36-Come in inglese. 37-Asso inglese. 39-Il San del Carso. 41-C’è anche quella fallimentare. 42-Il livello giapponese delle arti marziali. 43-Una è la Sportage. VERTICALI 2-Negazione inglese. 3-Il più grande nemico dei cavalieri. 4-È stato battuto da Achille. 5-Secondo la filosofia cinese è la forza fondamentale che scorre attraverso tutta la materia dell’Universo. 6-1 nella divisione tra 9 e 4. 7-Ministero dell’Istruzione. 8-Lo si consulta per trovare la pagina. 9-Il Sodio sulla tavola periodica degli elementi. 10-Dura, aspra. 11-Il Duncan professionista nella NBA (iniziali). 12-Area destinata al raccoglimento dei prodotti da essiccare. 15-Può essere di due equazioni in due incognite. 18-Ci si va per imparare. 19-Il Ribeiro Santos calciatore. 20-Servo della gleba dell’antica Sparta. 22-Un tipo di acqua. 23-Lingua propria e particolare di una comunità. 27-Party. 30-Termine inglese con cui viene definito chi ha una certa predisposizione per la scienza e la tecnologia. 32-Il continente con l’India. 35-Lo stagno inglese. 38-Il famoso Ettore regista (iniziali). 40-Tutto bene. 27 – la bacOca una sorta di bacheca che raccoglie tutte le stranezze e le frasi da ricordare che rendono più allegre le lezioni e le “avventure” scolastiche è possibile segnalarle a [email protected] solo un bonfantiniano può È , ma soprattutto bestialità simili “Un vitello ha un’età media di 3 ANNI” “Il catasto è GIO METRICO” “Il terreno ha speciali proprietà CONCIMATIVE” “In sala mungitura si effettuano 3 MUNTE al giorno, no scusi, ho sbagliato 2 MONTE… no prof. non lo so!” “Tra le malattie del mais c’è la TEMIBILE SIFILIDE” “In Pianura Padana piovono 30.000 mm/anno!!!” “I vitelli scolo strati sono senza COLESTEROLO!” “Dalle visure VISURATE E MISURATE risulta che…” “L’imprenditore INVESTISCE…” “La stanza di sotto è ABITATA A GARAGE!” “Nella stalla ci sono le MADRI INCINTE” “L’azienda è OCCORPATA” “La stalla può essere a stabulazione fissa o a stabulazione FLUIDA” “La mietitrebbia viene DEPOSTA nel ricovero Macchine e Attrezzi IN LEGNO CHIUSO SU 4 LATI” “Prof. io vorrei seguire la mia amica in Università ed andare a IL Bocconi” “L’AQUA è un LICCUIDO da USIARE e… occhio all’ETICETTA” “Il mais lo accumulo nel SECCATOIO” “Ci alimentiamo grazie al DEMAGNO” “Io prof. questa materia non la capisco: mi SUICIDIO!” “Ma prof. … OVV’IAMENTE scherzavo!” Sai che Arleen è finita in ospedale per avvelenamento? Si sarà morsicata la lingua! Due angeli seduti su una nuvoletta. CHERUBINO: “Come mai sei qui?” SERAFINO: “Una granata durante la seconda guerra mondiale. E tu perché sei qui?” CHERUBINO: “Be! Stavamo andando al mare, ci siamo fermati in Autogrill per una pausa poi mia moglie mi ha detto: se mi fai guidare sei proprio un angelo!” redazione de “Il Bonfa” – hanno collaborato a questo numero prof.ssa Giuseppina Calloni, prof. Daniele Pescio, prof. Guido Rossi, prof.ssa Angela Panigoni ed ex alunni/e 5^C (Sede di Novara), prof.ssa Anna Maria Papadopoli ed ex alunni 5^B (Sede di Novara), Giulia Miglio, Claudia Pavan, Ivan Bernardi, Francesco Fabrini, Matteo Tosin, Sara Barbaglia, Valentina Bongiorno, Giovanni Ivo Lazzari, Linda Schianta, ex alunni/e 5^A (Sede di Novara), Leonardo Lepenne, Alessandro Minio, Andrea Avvignano, Simone Pollastro, fonti bibliografiche e internet citate negli articoli di riferimento, sorrisi, consigli e critiche pertinenti e costruttive. E speriamo di non aver dimenticato nessuno! STAMPATO IN PROPRIO – Vignale (Novara), 28 quattrodicembreduemilaquattordici