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Avvertenza sulla trascrizione La trascrizione del testo è fedele all'originale. Pertanto, anche le differenze ortografiche dell'edizione originale non sono da ritenere errori di battitura. Correzioni di palesi errori di stampa sono segnalati in nota. I rari interventi di rettifica sono indicati con parentesi quadre. Ho operato solo qualche modifica, senza sconvolgere la scrittura settecentesca: nell'alleggerire l'uso delle virgole; nella iniziale minuscola in luogo della maiuscola dei nomi comuni e degli aggettivi; nell'accentazione di alcune parole (ad esempio, "o", "sa", "fa", "sta", "su", "qui"), adeguandola all'ortografia attuale. F. d. C. Prefazione di Francesco di Ciaccia La medicina alternativa e popolare ebbe un esponente di gran prestigio in Bonafede Vitali, che ha pubblicato le sue opere come "Anonimo". Lo illustra con la consueta perizia Giorgio Cosmacini, introducendone un prezioso scritto e togliendolo dall'anonimato dei libri giacenti nei pur benemeriti scaffali antichi delle biblioteche. Il Vitali è un validissimo medico, che però ha scelto la metodologia popolare di approccio con il pubblico: quella del "medico di piazza", detto spregiativamente saltimbanco. A chi è avvezzo alla storia del cristianesimo viene da paragonarlo, per la metodologia della comunicazione, al "giullare" d'Assisi: Francesco "a volte raccattava da terra un pezzo di legno, lo posava sul braccio sinistro, prendeva nella destra un altro bastoncino, ve lo posava sopra a modo dell'archetto di una viola o d'altro strumento, facendo gesti appropriati, e così accompagnava, cantandole in francese, le lodi di Dio" (Specchio di perfezione, 93). Era una forma innovativa di predicazione. E la nuova forma di omelia sulla natività di Cristo fu la "messa in scena" di Greccio: il "presepe vivente". Il paragone non è forzato. Di fatto, i medici "pratici", che salivano sui banchi in piazza per comunicare con il pubblico anche mediante qualche espediente teatrale, facevano "spettacolo". Ma il problema delle scelte metodologiche pone quello della libertà individuale. È la prima riflessione del Vitali: il quale si rivela anche un buon filosofo. Egli ripropone la dottrina "umanistica" di Epitteto: il mondo è come una 'rappresentazione teatrale; ad ognuno la vita assegna un ruolo, un ruolo che si fonda sulle attitudini ed inclinazioni personali. È sufficiente che ciascuno segua ciò cui si sente chiamato, per mettere a frutto i propri talenti a beneficio di sé e dei propri simili. È notevole, nei primi anni del Settecento, una simile concezione di libertà, dopo tanti secoli in cui le vocazioni degli individui erano imprigionate entro rigidi schemi di ordine sociale e morale. Anche la scelta professionale del Vitali poggia sulla filosofia di Epitteto. Per Epitteto, come per il "medico pratico" Vitali, il valore del sapere teoretico è secondario, rispetto al sapere pratico. Tuttavia né la libertà individuale né il consenso popolare, sia pure su larga scala, fondano a livello etico la validità dei comportamenti umani: "non basta che la Comune del Volgo" giudichi onorata e lecita un'azione. Occorre che l'attività sia buona "intrinsecamente", perché possa definirsi tale, "non essendo possibile mai, che il giudicarsi bene d'una cosa in sé mala la possi cangiar veramente dal suo essere, e farla-buona". E chiara l'impostazione filosofica di matrice classica, a partire dal pensiero socratico-platonico, sostenuta poi da tutto il filone razionalista dell'età moderna. L'Autore si prefigge dunque di dimostrare la bontà intrinseca della professione del medico di piazza. La pratica è il criterio propriamente adeguato della medicina. La specificità teoretica del medico saltimbanco sta proprio nella concezione che egli ha della "pratica". Non si può disconoscere che la scienza medica abbia tenuto sempre d'occhio il riferimento all'esperienza: senza il riscontro fattuale sugli effetti reali, le indicazioni astratte non servono. Su questa linea si erano mossi i medici che avevano ottenuto i migliori risultati e acquisito i maggiori successi. Lo abbiamo riscontrato, per riferirci ad un'opera edita da questa stessa Editrice, presentando il libro di Giovan Pietro Aduno sulla peste. Ma il saltimbanco osteggia ogni ingerenza dell'apporto teorico, che pur era tenuto sempre in conto dai medici ufficiali, anche se orientati più alla pratica che alla teoria. Egli vuole che il "raziocinio" - così recita - stia lontano dalla medicina. Il pensiero teorico ha in sé un rischio, ineludibile: porta a "trascurare le osservazioni dell'Esperienza", sicché la medicina "razionale" è più dannosa che vantaggiosa per i "corpi nostri infermi". La condanna della medicina che insegue teorizzazioni astratte è quanto mai inequivocabile. Portando in causa le più "disparate" teorie mediche, spesso in contraddizione tra loro, il teorico della "pratica" ha buon gioco. E intende dimostrare come la teoria sia pura "opinione", cioè credenza fondata solo sul pensato del tutto soggettivo, e che sia quindi "fantasia", come la denomina. L'autentica professione medica è invece quella che si attiene alla nuda e pura "esperienza" dei mali: constata di volta in volta le manifestazioni morbose, e prescrive i medicamenti che, di volta in volta, di fatto sono stati accertati utili. L'esperienza assurge a supremo, anzi ad unico, criterio di validità, in campo medico. Altri aspetti della prassi del medico di piazza concernono l'ambito morale. Esercitare la professione in pubblico è indecoroso? Al contrario. Garantisce correttezza ed onestà. Il Vitali ha inteso rivendicare la bontà della sua professione di "saltimbanco". Ma nella sua difesa ha sollevato anche molti problemi relativi all'esercizio della medicina e ha offerto diverse indicazioni utili a livello generale. Una di queste, solo alla quale qui voglio accennare, è l'inopportunità di troppi farmaci. Bastano pochi, sicuri e validi! Con risparmio anche degli infermi, precisa il nostro "Anonimo". Anche oggi il problema è stato più volte sollevato. Introduzione di Giorgio Cosmacini «Colui che per le piazze spaccia unguenti o altre medicine, cava i denti e anche fa giuochi dí mano»: spacciatore, cavadenti, giocoliere. «Coloro insomma che laddove la gente più si aduna, salgono sopra banchi, panche o palchi per dispensare farmaci di varia natura, specifici contro determinate malattie, antidoti contro veleni, per cavar denti, compiere piccole operazioni chirurgiche»: mezzochirurghi, mezzospeziali, ancora cavadenti, salimbanchi (o montimbanchi). Così il seicentesco Vocabolario degli Accademici della Crusca (Venezia 1612, 1623, 1691) definisce, facendo d'ogni erba un fascio, coloro che, sul mercato della salute, prestano larga parte delle cure richieste da un'altrettanto larga utenza popolare. La definizione è neutra; però la voce, in tal modo definita, ha un'accezione svalutativa, negativa: «ciarlatano». La storia della parola fa derivare «ciarlatano» dall'incrocio lessicale tra «ciarla» e «cerretano». «Ciarlare», ci informa nell'Ercolano (Firenze 1590) Benedetto Varchi, dicesi di «coloro i quali favellano non per aver che favellare, ma per non aver che fare, dicendo senza saper che dirsi e insomma cose inutili o vane, cioè senza sugo o sostanza alcuna». «Cerretano», ci informa nella Descrittione di tutta Italia (Bologna 1550) il geografo Leonardo Alberti, deriva da «Cereto, castello di nuovo nome et molto pieno di popolo», sito tra gli «asperi et alti monti» del Ducato di Spoleto: «da qui sono nominati li cerretani, quali discorrono per tutta Italia simulando santità con diversi modi e sotto diversi colori per trarne denari». Simulatori, giramondo, gabbamondo, e chi più ne ha più ne metta. Ma gli uomini dai molti imbrogli erano anche gli uomini dai molti miracoli, gli empirici che praticavano toccamenti e toccasana, impomatavano e crocesegnavano, cavavano denti e dolori, acconciavano ossa rotte o slogate, vendevano rimedi in qualche modo lenitivi o di null'altro carichi che di benefica suggestione, tanto da giustificare il detto che talora «arrivano le medicine degli empirici che non giunge Galeno con la dottrina». Empirici, altro nome. All'empiria, all'esperienza osservativa e operativa di prima mano, vera e sola madre del conoscere, si richiamavano quanti, nell'esercizio dell'arte della cura e della guarigione, stigmatizzavano la vanità del sapere «rationale», libresco, opponendogli la proficuità del leggere il «libro della natura» e del fare «chirurgico», con le mani (da chèir, mano, ed èrgon, lavoro), proprio delle donne delle erbe, delle comari, degli unguentari, dei cavadenti, dei conciaossa, dei manipolatori e venditori di empiastri ed elisir. Dalla dottrina non si cava nulla, diceva nel 1571 Leonardo Fioravanti, un empirico bolognese seguace di Paracelso, cultore dell'Experienz del maestro-mago transalpino: «Non vi fidate della scienza, ma si bene dell'esperienza». Il Leonardo da Bologna riteneva di avere un autorevole aggancio in Leonardo da Vinci (anch'egli «orno sanza lettere»): «La scienza è discepola della sperienza». «Questa ruvida empiria, sorta dall'arrischiato provando e riprovando dei diseredati», ha scritto al riguardo Luigi Firpo in una sua bella pagina, «finì per imporre il proprio metodo alla scienza ufficiale»1. Mettiamola così: come in ogni altro mestiere del mondo, c'erano anche qui i buoni e i cattivi. Non c'erano, finanche, i poveri falsi e "cattivi", meritevoli d'essere reietti o messi in ceppi, e i poveri veri e "buoni", meritevoli invece di misericordia e di elemosine? Così, nel mestiere del curare e del guarire, c'erano gli empirici della peggior specie, truffaldini e perciò costretti a vagabondare, e c'erano gli empirici della specie migliore, imbonitori, curatori alla buona, guaritori per noméa, guaritori talvolta nei fatti. Nella varia moltitudine di coloro che, coniugando con spregiudicatezza medicina e teatro, salivano sopra banchi o palchi nelle pubbliche piazze per farsi pubblicità a buon prezzo e richiamare gente con le arti della commedia — recitando, musicando, incantando, mangiando fuoco, ammaestrando animali e così via — c'erano salimbanchi o saltimbanchi che assumevano la "maschera del Dottore" per coprire trucchi e malefatte, ma c'erano anche «montaimbanchi da bene», come diceva Fioravanti di sé, che dispensavano autentici benefici e agivano in perfetta buona fede. Buonafede Vitali — in extenso, all'anagrafe del comune di Busseto dove nacque il 13 luglio 1686, Buonafede Bonaventura Ignazio Vitali, figlio di Giuseppe e di Maria Carpi — fu un «saglimbanco» e un «publico operatore empirico», come egli si autodefinì, del tutto sui generis e svettante sulla massa dei suoi pari. Le sue vicende di vita, sulla traccia della breve biografia 2 (Ferrara 1779) scritta dal di lui nipote, Buonafede Vitali junior, e sulla scia del profilo che ne abbozzò Carlo Gol-doni nei Mémoires (tradotti a Venezia nel 1788), possono essere rievocate nel modo che segue: Sortito da natura ingegno precoce, in età di anni 12 disputò di filosofia nello studio di Parma. Due anni dopo, essendo il padre castellano di Montechiarugolo, al confine tra i Ducati parmense ed estense, prese parte come tamburino portaordini alla difesa di questa Rocca, nel tentativo d'impedire l'accesso agli armati imperiali di cui era supremo condottiero Eugenio di Savoia — Eugen von Savoy maresciallo dell'Impero. Dolutosi il gran maresciallo con il duca di Parma, la prodezza e la fedeltà del bravo castellano furono premiate con la rimozine di questi dalla carica. I due Vitali, padre e figlio, passarono allora al servizio di Venezia: sotto le insegne di San Marco li ritroviamo nel 1705 a Crema, l'uno capitano e l'altro alfiere nello stesso reggimento, impegnati ambedue in uno scontro d'onore, l'uno in veste di duellante, l'altro di assistente. Nel duello il giovane fu ferito leggermente a un braccio; «ma non andavano a sangue di Buonafede né la naturale fierezza del genitore, né il mestiere della milizia, e per[ciò], abbandonato questo e separatosi da quello, volse i suoi pensieri al sacerdozio; del che passato a consigliarsi in Busseto collo zio Antonio [arciprete], e non ottenutone ciò che desiderava, si volse di fermo allo studio della medicina e della chimica nelle quali fu addottorato in Parma. Scelta dunque, tra le due vesti nere, quella di chi curava il corpo (ma un po' anche l'anima), dopo aver preso la laurea in «fisica e filosofia» che faceva di lui un medico de jure, divenne de facto anche chirurgo, per l'esattezza «chirurgo maggiore», in un reggimento che conobbe il battesimo del fuoco nella battaglia di Cassano vinta dal Vendóme sugli imperiali (nel 1705, durante la guerra di successione spagnola). Nella stessa veste fu anche all'assedio di Torino (che vide immolarsi nel 1706 Pietro Micca), dove fu ferito di baionetta a un fianco, restando mezzo morto sul terreno. Guarito e congedato dall'esercito, fu a Roma a rassodare le sue conoscenze chimiche e mediche, indi a Canterbury, compiendo un triennio di studio in quella università, e a Londra, dove fu spettatore di una pestilenza «popolare e mortifera», cioè epidemica e ad alto tasso di letalità, che descrisse, cercando di spiegarne le cause, in un Breve trattato della peste e sua origine (Londra, 1710). Dai 24 ai 28 anni viaggiò in continuazione: da Londra a Parigi, poi nelle Fiandre, nei Paesi Bassi, in Germania, Danimarca, Polonia, Livonia, Curlandia, Pietroburgo, Stoccolma. Da qui passò in Lapponia, speditovi dal re di Svezia a scrutare e saggiare le vene argentifere del sottosuolo. Il sovrano svedese pensava che il Vitali, ottimo chimico a suo avviso detentore del segreto di estrarre dalle miniere la maggior quantità di argento possibile, potesse essergli utile nello sfruttamento del patrimonio minerario di quell'impervia regione. Questo segreto del Vitali era la vera "pietra filosofale", in grado di trarre i metalli nobili dai minerali ignobili: tutt'altra cosa dal lapis philosophorum «che si faceva secondo gli antichi» e che, nel Settecento, era ormai scaduto al basso rango di una "ubbìa» per gonzi, di una «gabbarìa» da ciarlatani. I risultati non dovettero essere pari alle attese. Da Stoccolma passò ad Amsterdam: con la Svezia e la Danimarca, l'Olanda era il paese in cui le istituzioni erano più aperte ad accogliere, sviluppare, potenziare gli apporti metodologici e teorici della rivoluzione scientifica nel campo delle scienze medico-naturali, tra cui, al primo posto, quella scienza eretica che era allora la chimica. Uppsala, Copenaghen, Leida erano università più libere di altre più antiche, e avevano maggiori possibilità di alleggerire il peso della tradizione galenica, contribuendo alla crescita di nuovi rami sull'albero del sapere. A Leida il Vitali conobbe certamente Hermann Boerhaave, il policattedratico — in clinica, anatomia, botanica e chimica — salutato quale totius Europae praeceptor. Dall'Olanda, via mare, passò in Portogallo. A Lisbona, esperto com'era in ricerche sull'«oro chimico», fu fatto consulente della Zecca. Con il suo «fornello filosofico» doveva saggiare la qualità dei metalli pregiati, argentiferi e auriferi, di provenienza brasiliana e garantire la massima resa, traendone la maggior quantità di «sostanza pura» ed evitando frodi e contraffazioni. Le sue «operazioni metalliche» erano finalizzate al conio delle «lisbonine», monete forti del mercato finanziario. Forse anche qui i risultati non dovettero essere adeguati alle aspettative del committente. Il Vitali riprese il mare e, dopo brevi soste a Siviglia, Barcellona, Perpignano, Aigues Mortes e Marsiglia, giunse a Genova. Fu la città ligure a registrare per prima la sua comparsa in scena con il nome dei "senza nome": l'Anonimo. Come tale «si espose allora in quella città al pubblico, per rispondere improvvisamente ad ogni questione e a discorrere e disputare a lungo sopra ogni propostagli materia». Questo, in pratica, fu il suo esordio quale salimbanco onorevole; ma l'identità era ben lungi dall'essere definita. Da Genova si inoltrò nell'entroterra pedemontano (piemontese) a fare oggetto di studio le sorgenti di acque minerali della zona. Le sorgenti minerali erano come le miniere: grandi laboratori spontanei della natura, utilizzabili dall'uomo a proprio beneficio. Il fatto che le acque sgorgassero dalle viscere della terra, talune traendo da questa il calore degli inferi, caricava di significato sotterraneo e segreto la pratica del termalísmo e dava agli studi del naturalista e del chimico l'aura prometeica di chi strappava faville dal fuoco della sapienza divina e penetrava nei più reconditi arcani posti in grembo alla natura. Di tale periodo eroico resta, del Vitali, il Trattato delle acque bollenti di Acqui nel Monferrato (Acqui 1714). Poi da Genova si imbarcò per Livorno, quindi per Civitavecchia, donde si portò nuovamente a Roma. Qui curò e guarì da una ferita trasformatasi in piaga la bellissima e famosa Faustina Zappi Maratti, poetessa arcade con il nome di Aglaura Cidonia, sfregiata in volto dalla mano del duca Cesarini da lei respinto e deriso. Scrisse il Vitali: «Così io fece in Roma l'anno 1715 alla virtuosissima Faustina Zappi, che fu sfrisata dal duca Cesarino, e mal curata, ch'era orrore a vederla. D'ordine di Clemente XI [Giovanni Francesco Albani], suo padrino, io gli riaprii la ferita e la sanai». Il successo che gliene venne non bastò a trattenerlo. Roma era una città gonfia di medici e la Sapienza una università tronfia di dottori saputi. Portatosi a Napoli, grande emporio tra Settentrione e Mezzogiorno, percorse in lungo e in largo quel reame, incrementando la sua attività di guaritore itinerante e la sua fama di curante efficace. Nei sei mesi trascorsi nelle terre meridionali guadagnò 24 mila ducati, una fortuna; ma «ne partì con pochi carlini, poiché sprecava ogni suo profitto». Quest'uomo dotto, anzi onnisapiente, che però mostrava di tenere le propria dottrina in assai minor conto della propria arte empirica, che lucrava molti denari che però gli sfuggivano dalle mani bucate, che metteva continuamente in gioco la stabilitas di uomo "estravagante", riprese a vagare come un gabbiano di mare, migratore senza pace né posa. Dopo un fugace ritorno a Roma, si condusse in altre città dello Stato pontificio finché, giunto a Rimini, si imbarcò per Venezia: dalla città caput mundi alla città "ombelico del mondo". Nessun centro di civile convivenza e di vitale importanza era troppo grande per lui. In questo torno di tempo fu a Parma, sua patria, «ascritto al Collegio de' medici» e a Milano, nel 1717, «aggregato a quell'illustre Collegio di medicina»; e nel 1719, a Bologna, fu «acclamato dottore e maestro anche nell'arte chimica». Tra le due date, due eventi importanti: l'uno intimo, il matrimonio con la vicentina Erminia Arsiero, e l'altro pubblico, la pubblicazione presso i fratelli Merli della Lettera scritta dall'Anonimo a difesa dell'«esercizio del Saglimbanco», con l'aggiunta di una Raccolta di varij ma sicuri secreti esposti per alfabeto «in sostentamento d'esser l'Arte del Saglimbanco onorata a chi giustamente l'esercita ed utile a chi d'essa si prevale» (Verona, 1718). Il Vitali ritornò a Roma nel 1722 ad assistere il padre morente e farsi carico della madre vedova. Durante il nuovo soggiorno romano una sua cura guarì da inveterato singhiozzo papa Innocenzo XII (Michelangelo Corti), che era affetto da un cronico male dovuto a eccessiva pinguedine e torpidi umori, riuscendo là dove avevano fallito l'archiatra Giambattista Nuccarini e alcuni dottori della Sapienza chiamati a consulto. Da Roma si recò di nuovo nel Meridione, questa volta a Palermo, dove pronunziò un acclamato Discorso accademico sopra il problema che nel sangue non vi sia acido (Palermo, 1724). Il senato cittadino lo premiò con la nomina a «lettore pubblico di chimica e filosofia sperimentale», nonché «direttore di un nobile laboratorio». Per essere abilitato a dirigerlo dovette, secondo le leggi vigenti nel reame, riaddottorarsi in "filosofia e medicina": a Catania, il 17 giugno 1724. Nel suo «gabinetto chimico" mise a punto «facoltà, uso e dose de' dodici arcani, che si rinchiudono nella cassetta medica dispensata dall'Anonimo in Palermo». Tra crogiuoli e lambicchi egli "preparava" i suoi dodici "trovati chimici" salvifici come i dodici apostoli coadiutori del Salvatore — e li metteva in vendita confezionati in cassette farmaceutiche, con allegate indicazioni, posologia e istruzioni per l'uso. Ma anche la Sicilia gli andava stretta. Era appena partito dalla Conca d'oro quando, «pochi giorni dopo, gli pervenne in mano la nuova del terribile tremuoto di Palermo, pel quale cadde in rovina la casa stessa ch'egli abitò, e andarono a perdimento i mobili ed i cavalli che vi aveva lasciato da vendersi, non meno che i loro custodi. Balestrato altresì da fortuna di mare, prese terra a Civitavecchia, ove fatte le occorrenti provvigioni, ripigliò il viaggio, approdò alla Spezia, e di là per la via di Pontremoli si [ri]condusse a Parma». Nemo propheta in patria. Osteggiato da intrighi di corte, nonostante il favore del duca e del primo ministro conte Anviti, nel 1726 lasciò la sovrintendenza delle miniere parmensi che gli erano state affidate e accettò l'offerta dei Veneziani di sovrintendere alle miniere di Schio, nel Vicentino, prossime al luogo dove s'era accasato con l'Erminia. Qui il suo ingegno minerario si alimentò anche di curiosità prescientifica per il mondo dei fossili; infatti «durante gli scavi trovò uomini, cavalli e altri animali impietriti, pesci e conche marine». Gran curioso e studioso della natura, il 10 marzo 1728, poco più che quarantenne, fu còlto da apoplessia, dovuta al suo «pingue e pletorico temperamento»; «co' soccorsi dell'arte», peraltro, «si ristabilì in poco tempo». Ottenuta licenza dai Veneziani, si recò in Toscana, dove dal granduca Gian Gastone, ultimo di Casa Medici, venne «onorato e presentato di grosso smeraldo e di bel diamante» e dove dal Collegio medico fiorentino fu salutato, con patente del 16 settembre 1730, "maestro di sapienza". Da Firenze si recò a Lucca, Pisa, Livorno, donde navigò nuovamente alla volta di Genova, teatro tre lustri prima dei suoi esordi come Anonimo "saglimbanco". Nella città di San Giorgio ricuperò immediatamente la popolarità di prima, risanando con grande perizia dal "mal della pietra" (calcolosi vescica-le) il doge Balbi. Poi, a Torino, nel 1731, cullò per qualche tempo l'idea di passare in Francia. Optò invece per Milano, dove rimase tre anni. Il triennio milanese fu un periodo centrale, per almeno tre motivi: nel 1732 ripubblicò, presso Giovanni Richino Malatesta, la lettera «scritta dall'Anonimo pubblico operatore empirico», che venne ad acquistare massima risonanza; nel 1733 incontrò il Goldoni, che ne ebbe, scolpita nella mente, duratura "memoria"; nel 1734 diede alle stampe, dedicata alla principessa Maria Archinti Trivulzio, l'opera sua scientificamente più accreditata, una dotta «dissertazione medico-fisica» sulle valtellinesi Terme del Masino, «nella quale si tratta della natura e proprietà delle acque termali suddette». La centralità del triennio milanese nella biografia del Vitali vuole che a questo punto si dia spazio a una breve pausa, animata dalla parola goldoniana e atta a far sì che il lettore sosti nel correr dietro all'Anonimo per terra e per mare, attraverso l'Italia e l'Europa. Scrive il Goldoni all'inizio del capitolo XXVIII dei suoi Mémoires: «Al principio della Quaresima [del 1733] arrivò in questa città [di Milano] un ciarlatano di specie rarissima». Per definire meglio tale rarità, prosegue: Quest'uomo singolare a nessuna scienza era estraneo; aveva un'ambizione sfrenata di far valere le sue conoscenze in tutta la loro estensione, e poiché nella parola era più valente che nello scritto, lasciato il posto che occupava con onore, prese il partito di montare sul palco per arringare il pubblico. Non essendo abbastanza ricco per appagarsi della semplice gloria, traeva partito dal suo ingegno vendendo i suoi medicamenti. Ciò equivaleva a fare il mestiere di ciarlatano. Era un mestiere, sottintende il Goldoni, generalmente squalificante per chi lo esercitava, basato com'era sullo spaccio di rimedi buoni a tutto, cioè a nulla. «Ma», obietta al riguardo, «i suoi rimedi specifici erano buoni» perdavvero, «e con la sua scienza e la sua eloquenza aveva meritatamente ottenuto una fama e una condizione poco comuni». Il goldoniano interessamento al personaggio, interprete del ciarlatano ideale, esulava dai meriti del curatore per appuntarsi su quelli del teatrante impresario: «Dovunque si mostrava in pubblico a Milano, [...] aveva la soddisfazione di vedere tutto pieno di gente a piedi e di gente in carrozza; ma poiché i dotti erano quelli che comperavano meno, bisognava rifornire il palco di certe attrazioni per intrattenere gl'ignoranti; e il nuovo Ippocrate spacciava i suoi medicamenti e prodigava la sua oratoria circondato dalle quattro maschere [Pantaleone, Arlecchino, Brighella e il Dottor Balanzone] della Commedia italiana». Il sapiente dosaggio delle sue arti — arte comica e arte medica — dava luogo a un prodotto molto apprezzato dal pubblico e autorizzava il Goldoni ad aggiungere che il salimbanco in questione «merita[va] forse di essere ricordato negli annali del secolo. Il suo nome vero era Bonafede Vitali, parmense, ma si faceva chiamare l'Anonimo»3. Riprendiamo il filo biografico. Dopo i tre anni passati a Milano, il Vitali si stabilì per qualche tempo nelle Valli bergamasche e bresciane per via di certe imprese minerarie nelle quali investì tempo e denaro. I pur cospicui proventi di salimbanco evidentemente non bastavano al suo stile di vita. In Val Camonica ebbe socio nello sfruttamento di alcune cave il conte Federici, che poi però abbandonò unitamente all'impresa e alle valli prealpine. Dalla terraferma della Serenissima fece ritorno alla città di mare, Venezia, di cui prediligeva il clima e la vita intensa. Nella città dei granti attori e dei "gran signori" alternava l'attività di «onorato saglimbanco», vista con sospetto dai medici collegiati e dai "gran dottori" di Padova, con l'attività, dagli stessi medici e dottori vista con dispetto, di emerito consulente di signori e di nobili, di ambasciatori e di bey. Un agà dei giannizzeri lo consultò per i postumi di un colpo d'alabarda veneziana che lo aveva privato della vista e il principe di Elboeuf fu da lui risanato da una «pericolosa malattia emorroidale». Lasciò poi anche Venezia per Trieste, allettato dal miraggio di fortune ancora maggiori nelle terre dell'Impero. A Gorizia, nel 1740, fu colto dalla notizia della morte dell'Imperatore Carlo VI e dell'ascesa al trono d'Austria di Maria Teresa. «L'Anonimo non pensò più a mandare ad effetto il suo proposito», nella ragionevole presunzione che i mutamenti istituzionali in atto potessero ripercuotersi in modo non favorevole alla sua libera professione, che taluni consideravano abusiva. «Ritornò a Trieste, nel seguente anno passò in Udine ed a Trevigi, e finalmente a Verona dove fu accolto» sono parole del suo biografo e nipote «quasi che un semi-deo». Due anni dopo, nel febbraio 1743, «fu dalla sessione dell'Ospedale de' SS. Jacopo e Lazzaro eletto protomedico di Verona». Scrive in proposito il Goldoni: Fu chiamato a Verona in occasione di una malattia epidemica che faceva strage fra quanti ne erano colpiti. Il suo arrivo in quella città fu salutato come l'apparizione di Esculapio in Grecia. Ottenne guarigioni generali con delle mele appiole e del vino di Cipro. Per riconoscenza gli fu dato il titolo di medico primario di Verona. Un salimbanco fatto protomedico: come dire un ciarlatano fatto primario. A fronte di qualche bell'esempio di primario cialtrone, l'evento non dovette fare scandalo. Gli anni di Verona, gli ultimi della sua vita movimentata, furono densi di opere e di riconoscimenti. Nel 1743 egli pubblicò una lunga Lettera e risposta del dottor Buonafede Vitali, protomedico in Verona, che tratta delle malattie contagiose: la lettera, tradotta in latino e inserita nel giornale di Norimberga, gli procurò encomi e l'attenzione del re di Prussia Federico II, l'illuminato sovrano filosofo, che gli offrì una cattedra nell'Università di Halle con l'appannaggio di 5.000 fiorini l'anno (più 1.000 ungari per le spese di trasferta). Era sul punto di accettare quando, colpito da una polmonite galoppante, improvvisamente morì il 2 ottobre 1745, a cinquantanove anni compiuti. Aveva da poco terminato di scrivere una pregiata memoria su Li bagni del Caldiero, esaminati dal dottor Buonafede Vitali, protomedico in Verona e patrizio bussetano, opera che fu pubblicata postuma l'anno dopo, in Venezia. Chiosa la biografia laudativa il nipote: «Gli furono fatte pompose esequie nella chiesa dei SS. Apostoli in Verona, ove fu sepolto, in mezzo al compianto universale». Conclude l'agiografo: «Così terminò il corso di sua vita, questo famoso ed irrequieto bussetano. Mezzana ebbe la statura, nobile la presenza, leonina la faccia, vivace il colorito, assai pingue il corpo. Fu larghissimo spenditore dell'innumerevoli suoi guadagni, ed inclinò a giovare ad ognuno. Era immensa la sua erudizione; piacevole e faceto il suo conversare. Eloquentissimo dicitore, dipingeva con le parole ogni suo concetto, benché fosse poi scorrettissimo scrittore. La sua eloquenza spesso vinceva anche i suoi contrarii». A prova che Buonafede Vitali, nell'esercizio dell'anonima arte sua, tenne in gran conto la spettacolarizzazione cerimoniale della sua eloquenza dal palco e delle sue vendite al pubblico, sta l'impegno con cui si dedicò egli stesso, in prima persona, all'arte dello spettacolo, scrivendo i testi per i teatranti che gli facevano "compagnia" — una vera compagnia di teatro — nelle sue esibizioni. Sua è La bella negromantessa, «commedia (in prosa) brieve, onesta e piacevole, composta e data in luce dall'Anonimo E...] in Bologna, per il Longhi, nel 1735». La scelta di Bologna quale sede editoriale non fu casuale. Ha scritto lo storico del teatro italiano Luigi Rasi, traendo spunto dall'Histoire du Thétitre Italien (Parigi 1728) di Luigi Andrea Riccoboni: «La città di Bologna, che è il centro delle scienze [...], ci ha sempre fornito un gran numero di scienziati, e soprattutto di Dottori, che avean le cattedre pubbliche di quella Università. Essi vestivan la toga e in iscuola e per via; e saggiamente si pensò di fare del Dottore bolognese un altro vecchio che potesse figurare al fianco di Pantalone». Nacque così la maschera del Dottor Balanzone, «un eterno cicalone», che condiva il proprio dire con molte ciarle e le proprie ciarle con molte parole incomprensibili. «Non è fuori del possibile», conclude il Rasi, «che sia preso questo carattere dal vero» 4. Questo "vero" appariva manifesto nella figura di molti dottori — nel Seicento irrisi da Molière, del Sette cento burlati dal Goldoni — che con la sterile dottrina, con l'eloquio pomposo e inafferrabile, con la sicumera diagnostica pari solo all'inefficacia terapeutica, incarnavano una crisi della medicina "ufficiale" così profonda e diffusa da valorizzare per contrasto la figura "alternativa" di quei curanti e guaritori che vantavano la loro pratica empirica e che l'esercitavano come una "andata verso il popolo" ben più accetta di una scienza saccente e distante e più produttiva, o non meno improduttiva, di risultati in qualche modo benefici. Proprio per differenziarsi in modo netto dai bolognesi e padovani "gran dottori", l'Anonimo, che pur possedeva pari dottrina e pari titoli, preferì alla cattedra il palco. Le sue arringhe e le rappresentazioni dei suoi allegri compari facevano da viatico alla vendita dei suoi «preparati sicuri». Tra questi c'erano le «pillole ermetiche», la «cera cattolica», un «cerotto salutare» o «pezza stomacale», un «alessifarmaco» antiveleni, un «balsamo anodino minerale», un «olio glaciale di fuliggine, dato alla luce in Verona». Gli ingredienti di quest'ultimo erano: fuliggine cristallina e vino bianco dolce portati a bollitura e filtrati; indi si univa miele ottimo e zucchero eletto. Al riguardo i Serenissimi Sopraprocuratori e Provveditori alla Sanità di Venezia, vista l'«habilità, sufficienza e peritia» dimostrate dall'Anonimo «in ciò che aspetta alla Medicina e all'Operatione chimica», avevano concesso a lui fin dal 1717-1718 la «libera facoltà di potere tanto in questa Città, quanto in ogni altro luoco di questo Serenissimo dominio, manipulare e vendere tutti li suoi medicamenti chimici». E sempre al riguardo i Rettori della Sanità di Verona attestavano che nella loro città il Vitali, al quale era stata concessa licenza di libero esercizio, aveva «compiuto li desideri delli valenti huomini di qualsivoglia condicione [...] particolarmente con l'esperimentata prova degli ottimi medicinali da lui manipolati e dispensati, [aventi il] preggio nel sanare le più ardue infermitati»5. Anche dal seno della stessa medicina "ufficiale", pur sospettosa e dispettosa, non mancavano i riconoscimenti. Nel suo spoglio e commento della «corrispondenza di un medico del '700», professore nell'Università di Padova quale fu Antonio Vallisnieri, Bruno Brunelli ha rintracciato un «montimbanco» molto attivo nel Padovano intorno al 1718, che nobilitava il mestiere con «pulito e limato discorso» per distinguersi così facendo «da' cerretani». La differenza tra ciarlatani e salimbanchi "da bene" era che «quella professione [era] infame, questa civile» e che «quelli [erano] baroni, questi nobili». Ma la vera differenza non era quella interna al mondo della ciarlataneria; era piuttosto quella tra quest'ultima e la cialtroneria allignante quale folta zizzania tra le file dei medici. Scrivendo al Vallisnieri, il collega dottor Magna-vini affermava che i ciarlatani erano meno furfanti dei medici, perché quelli «parlano, gridano, si sfiatano che si comprino i loro cerotti, i loro elettuari, ma finalmente non obbligano, ma lasciano in libertà chi vuole e chi non vuole»; il medico invece «scrive, comanda, vuole medicine, unguenti, acque, elettuari, sciroppi, polveri, e mille altre cose [...] da rubar denari a chi gli cava il cappello e con riverenza quanto più fa spendere» 6. A confronto dei "semplici" semi d'oliva tritati, proposti dall'Anonimo ai «pietranti» (portatori di calcoli urinari), il Vallisnieri negli stessi casi prescriveva «polveri di millepiedi, emulsioni di semi di mellone, di viole rosse, di alchechengi e, per cibo, brodi di gamberi bolliti e spremuti nel brodo di pollo, una gelatina formata con raspatura di corno di cervo e infuso di vipere»7: una medicina ricca per i ricchi, a confronto della quale la medicina dell'Anonimo era un'arte povera per i poveri. Quella medicina per abbienti celava la propria impotenza a giovare, nascondendola tra latinismi e grecismi. Ha lasciato scritto il filosofo Nicolas de Malebranche nella sua Recherche de la verité (pubblicata nel 16741675): Se i medici citano passi greci e latini servendosi di termini nuovi e fuori del comune, per quelli che li ascoltano si tratta di grandi uomini. Si dà loro diritto di vita e di morte, si crede loro come ad oracoli [...]. È addirittura necessario che i medici di vaglia, per farsi una fama e ottenere obbedienza, parlino qualche volta una lingua che i loro pazienti non capiscono 8. Il ricettario terapeutico dell'Anonimo era una fonte alla quale ogni curante poteva attingere liberamente per il trattamento di questa o quella affezione, afflizione, questione di salute o di benessere. Per le «buganze o gelature» c'era «l'olio di cera»; per i «capelli a fargli biondi, lo spirito di mele unito all'acqua sua per 15 o 20 giorni con la testa al sole»; per le «scotature da fuoco, l'olio sambucino e chiara d'ovi battuti assieme», per «stagnar il sangue dal naso, la terra dolce di vitriolo tirata per le narici»; per il «dolor de' denti, il decoto di nicoziana [tabacco] e radici o seme di giusquiasmo fatto in aceto e applicato caldo»; per «emmendare il fiato puzzolente, la zedoaria masticata, infusa prima nello spirito di rosmarino dopo l'uso dell'oximel scillitico»; «venendo però alla bocca per denti guasti, questi si levino, per piaghe si medichino, e vedrassi la sanitade». Era questa medicina spicciola dell'operatore empirico, manipolatore di medicamenti e di parti corporee — medicatore, giustaossa, cavadenti, guaritore a suo modo — quella che può trovare consensi anche oggi. L'operatore empirico poteva però anche, se oculista, curare le «cattarate degl'occhi» con un impacco di «sterco di fanciullo maschio che ancor si cibi di solo latte»; se comare, far «moltiplicare il latte» con la «polvere de' lombrichi seccata in forno e data nelle minestre»; se barbiere o cerusico, usare per i «calli de' piedi il tartaro d'orina, cioè quel sale che si ritrova attaccato agli orinali mal custodíti», unito a «verderame, pece greca e cera» in un «ceroto d'applicarsi con tutta sicurezza». Certamente questa medicina non può trovare consensi oggigiorno; ma almeno, a paragone con le prescrizioni ridondanti non meno cervellotiche ed eclettiche, della medicina "ufficiale", ciascuno di questi preparati era offerto a prezzo conveniente, accessibile ai più. Con in più un altro vantaggio. L'arte di curare e guarire era dall'Anonimo concepita e praticata come arte gioconda e gioiosa. Questo suo modello aveva certo imitatori di basso rango e sfruttatori ambigui: ad esempio, un tal Faustini detto il Lombardo, da un palco drizzato in occasione di questa o quella festa liturgica, spacciava i propri medicamenti intrattenendo il pubblico con lo «sparare diversi razzi» quasi «ad uso di orchestra»; e un tale Natta, venditore di «cataplasmi ed empiastri», dall'alto di un trespolo «versava pasticche da tre pissidi» e recitando amenità sotto forma di giaculatorie «conciliava una fede fatua con le sue fiale» 9. Ma l'arte dell'Anonimo aveva, a sua volta, un modello d'alto rango, tanto autorevole quanto insospettabile, dal Vitale utilizzato in modo forse inconscio. Ricordiamoci dei suoi giovanili viaggi d'istruzione e del suo passaggio per Amsterdam. S'è detto di Hermann Boerhaave, il professore di Leida che irraggiava in Europa i bagliori del preilluminismo medico-scientifico. Il Goldoni lo cita nel capitolo XXXI (parte seconda) dei suoi Mémoires dicendo di lui che «conosceva altrettanto bene le malattie dello spirito che quelle del corpo». «Dissimulai il nome di Boerrhave [sic!] sotto quello di Bainer», scrive a proposito della propria commedia Il medico olandese, rappresentata con grande successo a Milano nel 1756. E aggiunge: al «savio olandese», maestro di tutti i maestri, «si scriveva dalla Cina al signor Boerrhave, in Europa». Ebbene, questo pozzo di sapienza e saggezza insegnava ai suoi colleghi e discepoli: «Due cose si richiedono al Medico: 1. che sia ben istruito nella scienza medica; 2. che abbia quella prontezza di genio onde possa esercitare la sua scienza a vantaggio dei malati. Infatti non è sufficiente che il Medico sappia tutto ciò che gli compete; egli deve soprattutto possedere la predetta facoltà, ut exerceat medicinam jucundam»'°. «Per esercitare una medicina gioconda»: non la medicina "ufficiale" compassata e distante, complicata e saccente, ma l'arte empirica dell'Anonimo salimbanco si esprimeva, a modo suo, in forma giocosa e gioconda, affabulatoria e affabile. Su queste basi di corrispondenza simpatetica, oggi diremmo di empatìa, si costruiva il buon rapporto di cura, tra curante e paziente, premessa irrinunciabile di ogni possibile guarigione e comunque del «palliare, ove il guarir non ha luogo», cioè dí ogni umana consolazione o speranza. L'elaborazione teoretica ed etica che l'Anonimo fa della propria professione non si mostra consapevole del debito nei confronti del «medico e filosofo olandese» ricordato dal Goldoni e da lui conosciuto. Il Vitali è molto più occupato, preoccupato, di dimostrare «non inferire Macchia di disonore alcuno l'esercizio del Saglimbanco a chi lo porta con Decoro e Fedeltà». La sua difesa è volta su due fronti: da un lato verso quei «cantaimbanchi che più presto mangiaguadagní puon dimandarsi che altramente», contro í quali aveva in questi termini già tuonato il canonico Tomaso Garzoni nel discorso CIV della sua Piazza universale di tutte le professioni del mondo, e nobili et ignobili (Venezia, 1585); dall'altro lato è volta, soprattutto, verso la medicina assisa in cattedra o nei collegi e verso i «di Lei professori», come egli scrive. «Onori, e ben grandi», scrive l'Anonimo, «si devono alla Medicina». Tra i «di Lei professori» egli inserisce, provocatoriamente, coloro che a buon diritto ritiene «doversi annoverare come li veri Saglimbanchi», di gran lunga migliori dei vari medici «rationalí» e «dogmatici» anche perché l'arte del salimbanco, per il fatto di «essere esercitata alla presenza d'un pubblico, non può se non essere piena di sicurezza e di fedeltà, e perciò d'onore e di merito». Egli incalza: i medici accademici o collegiati «ponno a loro beneplacito o per malizia o per ignoranza operare, non temendo del loro privato fallire pubblico lo scorno», mentre una «profession così publica ed arte così esposta» come quella del salimbanco «è onoratissima in sé» anche perché i suoi cultori «con pochissimi medicamenti guariscono, come perché facili e pronti, ed anche di poca spesa». Medicina dei ricchi, s'è detto, contro medicina dei poveri. La medicina dei professori «è un'arte di mettere in pompa la medicina» e «nello stesso tempo è una forma di far dar fondo alle facoltà più pingui»; l'arte del «publico operatore empirico» è invece, già sappiamo, un'arte che porta le cure in mezzo al popolo e le rende da questo fruibili. Quanto al corteo teatrale «de' personaggi buffoneschi» che i salimbanchi «si portano su palchi», ciò è dovuto alla necessità di introdurre «il divertimento per allettare i popoli»: «dal vedergli svogliati dell'utile», gli empirici onesti «gli proposero il dilettevole» onde «fargli gustar'il bene della medicina circondato dal dolce dello spasso». Non in una scienza distaccata dall'uomo, ma in un'arte per l'uomo e in un artigianato con essa integrato sta, per l'Anonimo, il «secreto» della «vera arte di medicare», il nocciolo della «sola e sicura medicina». La Lettera scritta dall'Anonimo, edita nel 1718 a Verona in prima edizione, è posteriore di appena quattro anni alla De morbis artificum diatriba del medico Bernardino Ramazzini, edita nel 1714 a Padova in seconda edizione. Quanto ai tempi e ai luoghi, l'accostamento non è dunque arbitrario. Non lo è nemmeno, a nostro avviso, per talune motivazioni e finalità dei due autori. Ciò non deve stupire. È vero che Ramazzini fu un "gran dottore" di Padova, medicofisico universitario, curante di sovrani e di principi (sua l'orazione accademica De princiPum valetudine tuenda del 1710), estensore delle sue opere in latino, la lingua dei dotti; ed è altrettanto vero che il Vitali fu tutt'altro: un curante alternativo che preferì, come detto, il palco nella pubblica piazza alla cattedra nell'aula riservata dell'ateneo e che si espresse, con la parola e per iscritto, in volgare, la lingua del volgo. Ma l'uno e l'altro fecero del popolo rispettivamente l'oggetto e il destinatario delle loro attenzioni, il primo descrivendo per primo le malattie della gens popularis correlate al lavoro, il secondo offrendo alla "gente del popolo" medicamenti e rimedi a buon mercato. Nel primo Settecento, cioè nel protrarsi di quella congiuntura storica che è stata definita «crisi della coscienza europea» 11, comprendente l'anzidetta crisi della medicina "ufficiale", c'era un medico "novatore" che assumeva posizioni critiche e anticonformiste. «Vi è un certo tipo di professori che predispongono lunghe cure per malattie altrimenti di breve durata e guaribili spontaneamente». Per essi vale il principio «che non trascorra giorno senza un appunto, senza cioè la ricetta di qualche nuovo rimedio». La loro «allegria d'animo» dipende dal fatto che essi «ritornano a casa loro ben provvisti di denaro. Io da parte mia», conclude questa sferzante tirata il medico "novatore", «noto che mai i medici stanno tanto male più di quando nessuno sta male» ". L'anticonformista autore di una tale critica, evocante Molière e Goldoni, non era un teatrante come costoro, né un medico anonimo. Era invece un uomo d'Arcadia con il binomio accademico di Licoro Langiano, un medico aulico con tanto di nome e cognome: Bernardino Ramazzini, appunto. A scrivere quelle frasi non fu il suo quasi coevo Anonimo interprete d'avanspettacolo, "operatore" come medico "publico", cioè "popolare", nelle piazze delle stesse città dove Ramazzini esercitava la sua professione. Non fu Buonafede Vitali a scriverle; ma questi avrebbe potuto ben essere quello scrittore, lui con la sua maschera goldoniana e la sua prosa satirica, stigmatizzante la professione medica ufficiale a vantaggio della propria. LETTERA SCRITTA dall' ANONIMO PUBLICO OPERATORE EMPIRICO All'Illustriss. Sig. il Sig. N. N. IN CUI SI PROVA Non inferire Macchia di disonore alcuno l'esercizio del SAGLIMBANCO A chi lo porta con Decoro, e Fedeltà IN VERONA <Per li Fratelli Mani 1718. Con lic. de' Super. Illustriss. Sig. Sig. mio Colendiss. Alle replicate istanze fattemi da V. S. Illustriss. acciò abbandoni l'uso della professione che esercito, sì come comprendo la parzialità e la stima che ha per me, così conosco l'inganno in cui ella con i più vive, giudicando capace quest'arte ad inferire macchia disonorata, in tempo i che essa non è né sarà mai così, se forsi non volesse credersi essere l'onore un'opinione che[,] nascendo nella fantasia degli uomini[,] venga da essi a loro capriccio attribuito a ciò che più loro aggrada e non più tosto un merito della virtù, addattabile solo a quello che realmente e non sofisticamente è virtuoso. Per questo ho presa la risoluzione di disingannarla, facendole vedere ad evidenza essere onorata questa proffessione in sé, purché onoratamente si eserciti. Non attribuisca questo ad ostinato puntiglio d'ostentare ciò che non è giusto o vero, posciaché troppo male può difendersi il falso, e poi ella vedrà che in tanto scrivo, in quanto la verità m'obliga a farlo, ed il genio di vederla un dì disingannata. Ponderi, rifletta e si sovvenga che lascio margine capace a bella posta acciò[,] avendo ella o chi sia d'altro qualche cosa in opposto, scriva, e risponderò, e ciò non mai per altercare, ma per vieppiù dilucidarne il vero. Posciaché potrei scansar quest'impegno e dir io che[,] s'egli è vero il sentimento d'Epitteto 2 accordato da tant'altri essere il mondo un teatro diviso in atteggiatori e spettatori d'azion scenica, o sia questa tragica o eroica o comica o mista, essere altresì vero 3[,] sì come è legge del Supremo Autore di questa rappresentazione a sua libera volontà stabilita, che ognuno rivesti diverso il personaggio e questo esequisca, così è sufficiente l'ubbidire ad occhio chiuso e far quello a cui ognun di noi è elletto, purché si faccia con esattezza e pontualità tale, che di quella parte che si rappresenta sen porti l'onore ed il vanto. Ma tutto questo si ponga in non cale, perché verrebbe a disputarsi la libertà dell'elezione della vita, in cui non voglio per conto alcuno introdurmi, avendo con che provar bastantemente il mio assunto. Ed in effetti che sia così, come a V. S. Illustriss. dico, cioè essere onoratissima questa proffessione, si prova e dal primato che essa tiene nella medicina, e dall'esercitarsi in pubblico a prò4 d'ognuno, e dal dispensarsi da essa medicamenti sicuri. Cose tutte, che a provare m'accingo. Per essere veramente lecita ed onorata in sé una proffessione od un costume, non basta che la commune del volgo così la giudichi. Ma bisogna che intrinsicamente e dalla prima origine sia tale, non essendo possibile mai che il giudicarsi bene d'una cosa in sé mala la si possi cangiar veramente dal suo essere, e farla buona. Questa è prerogativa del medico, che non sa coprire coll'onorevole suo manto le deformi rozzezze dell'ignominia. Non possono mai li vizi[,] quantunque infrascati di bizzarri epiteti[,] trasvertirsi da virtù, di modo che sia virtuoso ed onorato quello che intrinsecamente è vizioso e vile. Ma se ella s è così delle cose giudicate indebitamente onorate, perché non dovrà il simile nelle giudicate indebitamente disonorate? Al testimonio di Trogo historico 6 sappiamo che li popoli dell'Etiopia pensavano infame quella moglie che alla morte del marito anch'essa volontariamente non si gettava al rogo destinato alle sue ceneri. Gl'indiani sotto Dario vantavano per indegno quell'erede, quel parente, quel figlio che de' morti loro non faccesse sepoltura il ventre col mangiarseli cotti in sontuoso banchetto. Li sciti giuravano per disonorato quel famigliare o ministro del re il quale non si cavava un occhio o non si stropiava all'inguercire o allo storpiare del loro sovrano. Ma perché il contradire a tali costumi è bene, tendendo questi ad una volontaria e indegna carnificina di se stessi, perciò non fu mai intrinsecamente disonorato (quantunque giudicato così) chi a questi vigorosamente s'oppose. Vorrei adunque si conoscesse per istabilito tale principio, che la comune opinione fondata sul suposto non può far essere buono un intrinsecamente male né male un intrinsecamente buono, che da qui verrebbesi a deddurre che anche quest'arte, abbenché giudicata dalla comune per abbietta e per vile, perché giudicata sul -apposto e perché intrinsecamente non è tale, mai né per nissun conto può esserla. Come mai sarà giudicata con supposto per vile quest'arte[,] mi dirà V. S. Illustriss.[,] se abbiam tant'evvidenze d'esserne essa tale? Con supposto si giudica ciò che pienamente non si conosce. Qui si veggono (dice lei) li vizi e le imposture a milliaia. Onde non con supposto ma con evvidenza si giudica. Primo[,] nelle millantarie, vantando quasi tutti li saglinbanco d'aver servite Corone, ricavate da Prencipi o da gran dottori li segreti che dispensano, aver medicate armate, salvate città, ricuperate dall'incursione de' mali le provincie e i regni. Nelle sperienze, facendo comparir per vero ciò che è falsissimo, come a dire [per le] morsicature di vipere beveroni di veleni, arsenici, risigalli 7, rospi ed altri semplici o composti' guazzabugli, facendo ancor ad arte gettarsi da un parziale' qualche acqua sotto nome di potentissimo veleno, e così ingannar il popolo. Tagli, ferite, abbenché grandi in apparenza, pur finalmente di pura pelle, e scottature di pompa che si fingono sanate in poco tempo, essendo falsissimo che le prime sì presto guariscano e che le seconde veramente abbruggino. Ne' medicamenti, spacciando per arcani potentissimi un po' d'olio impecciato, quattro radiche impastate col mele, un po' di catapuzia 10 e quattr'altre robbazze da strapazzo. Ne' prezii, sostentando con fasto oggi la robba loro ad un scudo, dimani o l'altro per meno, con palese inganno della borsa de' primi, che corrivi dello speso maledicono la bricconeria dell'artefice. Nelle pubblicità ostentando quadri con dipinti uomini mezzo morti risuscitati, mali incurabili guariti, cose in somma né da credersi fatte né da immaginarsi fattibili. Compagnie da postriboli, non da esporsi alla presenza d'un publico onorato, altre cose che per non innoltrarmi le taccio. Tutto questo è pur vero? Non è già supposto? Come dunque chi giudicherà per vile un mestiere, ove tante ribbalderie si commettono[,] giudicherà per supposto? Ha d'altro V. S. Illustriss. da suggerirmi? Ho inteso il tutto, e dico che ha ragione di lamentarsi, che con giustizia si duole; e che sono poche le voci che alza, le invettive che espone. Ma né men per questo mi muove punto dall'intrapreso, posciaché riprovando ella le triste azioni degli artefici, non vien perciò punto ad annerire l'arte. I difetti delli artefici (così scrive una dotta penna del secolo scorso) non è di ragione che siano di pregiudizio all'arte, né dee credersi essere qualità di natura quello che è vizio di mal'uso. Non ha cosa nel mondo sì innocente, che rea non sia se possono renderla colpevole le colpe di chi a mal'uso la trasporta. È che reos sceleris societas non facit (Leg. nel Cod.) ". Creda a me ed all'esperienza che l'aprova, che quella terra medesima che è capace di produrre antora 12, vincitossico, erbe, fiori, arbori, pietre, metalli purissimi e perfettissimi, basta anche a generare aconiti, cicute, napelli 13, arsenici'`' ed altri velenati escrementi, e ciò non ratione terra' sed ratione seminis 15. Entri un poco in un campo di biada, e sia bella e scielta quanto esser si voglia, non sarà mai che non ci sia framischiata qualche erba selvatica, oglio o zizania. Ma e 16 chi si prendesse la pena d'andarne raccogliendo un fascio e radunatele assieme ne volesse far mostra al pubblico col dire essere tutto il campo pieno di quella cattiva semenza, non sarebb'egli un solennissimo mentitore ed infamatore di quel seminato, mentre palesando solo le spicche infette non facesse niuna rimembranza del grano che vi lasciò? Se fra i teologi io dassi di piglio a un Lutero, ad un Calvino ed a tant'altri e[,] posti in publico li loro falsi dogmi ed ingiusta riforma, dicessi che tutti i teologi sono così e che per causa di questi la teologia è male, non sarei io un sacrilego mentitore? Se fra filosofi tirassi in campo un Epicuro, fra comici un Aristofane, fra i giuristi il fatto scorticare dal suo re, fra cortiggiani il condannato alla morte del fumo, fra soldati il poltrone o il ribelle, fra notai il falsario, fra i mercanti l'usuraio, fra i medici l'omicida, fra cavaglieri l'indegno, fra i principi l'usurpatore, fra monarchi il tirranno, e[,] declamate le loro sceleragindi argomentassi simili tutti gl'altri perché dello stess'ordine; o meriterei titolo d'iniquo o al meno al meno taccia di stolto. Eh via, che siccome non vale[:] Aliqui iuristx, theologi, politici sunt athei et sine conscientia, ergo omnes, così non deve valere: Ali-qui circulatores sunt mali, ergo omnes 17 , tanto più che io non intendo d'aver a provarle che li proffessori sieno medicinali. Per il suo color dorato i latini lo chiamavano volgarmente aurzPigmentum (orpimento), "oro pigmento". Il termine dotto era arsenicum o arrenicum (da apaeviKóv o appevuo:Sv). buoni; ma che l'arte in sé è onorata e che quand'uno l'esercita bene è onorato all'eguale di chi che sia d'altro virtuoso ed " onorato artefice. Sarebbe un farla da Mesenzio di cui scrive il Poeta: Mortua quin etiam iungebat corpora vivis se volessimo inverminire con la corruttela de' pessimi l'onorate azzioni de' costumati proffessori. Peccata igitur suos teneant auctores2° (Cod. Leg.) e noi passiamo a vedere come sia unita alla medicina quest'arte ed anzi come con quest'arte si esercitò la prima medicina, per assegnarle quell'onorevole grado che giustamente le si conviene[,] usurpatole solo da un falso supposto del volgo che ha volsuto indebitamente attribuire all'arte i difetti degli artefici falsi ed indegni. Risciedeva ancora nella sua prima ignoranza il mondo, tempo segnato da Seneca in cui c'perunt homines admirari, inde philosophari21; allora quando fra le infelicità de' mortali di fame, fatiche, stagioni, intemperie e disturbi furono conosciute per offensive e distruttive per l'uman genere ancor le malattie. Erano queste, al riferirci d'Erodoto 22, divise in due classi dall'antica superstizione[:] altre interne, e giudicate venute da' Dei, altre esterne, e conosciute derivate dagli uomini[;] per queste, e non per quelle E,] pensarono il remedio[,] argomentando che[,] sì come per man d'uomo venivano fatte, così per essi potersi sanare. Posero a tal fine sotto lo scrutinio dell'esperienza di versi remedi che[,] proposti loro o dall'evento o dall'imitazione de' bruti, conobbero valere ai tumori, alle piaghe, alle ferite, estendendosi poi anche da lì a non molto a cercar que' remedi che per le malatie interne servivano; e tale in effetto ne sortì ad essi l'evento, che di molti si viddero assai fortunatamente cogliere nel segno. Da qui ne nacque che Esculapio 23 e tant'altri, come che attenti alla pratica di sì neccessaria cognizione, furono chi con distinti encomii lodati, chi sino per deità (abenché bugiarde) venerati. Fastosi de' ritrovati arcani e desiderosi di propalare a publica utilità li tesori della salute, a ristorarne i viventi da' languori de' morbi. Correvano in ogni parte a soggetarli, aprendo a d'ogni chi che sia l'adito alla sanitade. Portavano que' loro specifici quasi in trionfo, e coronati di giusto applauso godevano nelle publiche dismostrazioni de' popoli il contento di vedersi fabbri dell'altrui bene. E tal'opra, che ad altro non aspirava che al publico vantaggio? e tal'azione, che altro fine non conosceva che l'utile dell'universo, in che grado di stima pensa lei che fosse a que' primi popoli, quali, per essere meno lontani dal secolo innocente, erano più vicini alla gratitudine? Ne abbiamo testimonio verace nelle notizie che pur in molti scrittori ci son rimaste, che erano desiderati con ansia, ricercati con sollecitudine, ricevuti con fasto e custoditi con applauso, decente al merito loro e alla nobil arte che sì felicemente principiarono. Questi furono i principi da' quali a poco a poco conobbe gl'avanzamenti suoi la medicina, fino che[,] dato per legge che dovesse ognuno dare in scritto a certi tempii su le tabelle il modo con cui da qualche infirmità sanavasi, si stabilì da reiterati esperimenti l'esperienza, che vera maestra delle cose tutte[.] Fullo" anche ad Hippocrate, che formò dalle dette cognitioni ne' tempii raccolte la dottissima serie de' suoi impareggiabili aforismi. Si mantenne appo degl'arabi ed egizi longo tempo in concetto ben grande, giacché solo a sacri di prole 25 in prole si palesavano le cognizioni pratiche a tal'arte necessaria, cosa che non osservarono i greci, posciaché da' scritti del mentovato Hippocrate e di altri susseguenti cominciandosi a voler unire al pratico tutto sicuro il raziocinio tutto incerto, si divisero le scuole in varie opinioni, e disputandosi il perché si perdette il come. Oh strana miseria della nostra fantasia allucinata, voler più tosto correre dietro ad un Menecrate, perché coll'ampulloso epiteto di Giove, Menecrates Iupiter, che ad un empirico, perché col nudo ma degno titolo di Verdadietro: Empiricus Verax26. Oh trasporto della nostra ambizione! voler più tosto affidarsi dell'opinione, che nulla di certo scuopre, di quel che sia della pratica, che il tutto per evidente dimostra. Questa, Illustriss. Sig., fu la pietra ove inciampò e si distorse dal camin retto la medicina, questa la remora che la fermò al meglio del correre, posciaché [,] perdendosi l'intelletto umano in ricerca del raziocinio[,] trascurò le osservazioni della esperienza: e che in fatti la razionale più di danno che di vantaggio apporti a' corpi nostri infermi, oltre il detto di S. Paolo: Mete ne quis decipiet vos per philosophiam, avrei mille argomenti a favor mio, ma pure fra gli altri questo solo mi ellego ". Evvi ragione che possi far credere verità, ove si ritrovano tante disparità d'opinioni? A che ci conduce la razionale, fuorché trattar di farci conoscere la causa de' mali per deddurre poscia da tal cognizione le vere indicazioni per la cura? Questo è un dillungarsi dalla vera medicina, non è un incontrarla. Posciaché se tante sono le opinioni quanti sono gli uomini, e se vari fra di loro sono li sentimenti de' capi di questa razionale, a qual d'essi si doverà il titolo di verace? Corre Galeno inmitator del Peripato 28 a stabilir i principii della medicina su la base delle quattro qualità elementali[,] sforzandosi di persuaderci esservi in noi quattro umori, sangue, bile, pituita e flema, da' quali, o soli o diversamente combinati[,] conosche l'origine delle malattie, per questo a chi li colagoghi[,] a chi li flemmagoghi, idragoghi e melan[col]agoghi propone 29, diversificando li gradi di calore, d'umido, di secco e di frigido anche a medicamenti, con la regola del che" vuole che si proceda a suo modo. Paracelso" lo niega ed esso seco tutti li suoi seguaci, che vantando per principii d'ogni ente il mercurio, il solfo ed il sale, prettendono che da questi[,] esaltati, esuberanti o dislegati o troppo uniti, ne nascano le malattie, e rifiutando il contraria contrariis curantur di Galeno fa credere che salia evincenda sint salibus. Quanti assurdi anche da questa setta ne siano venuti, lo sanno que' poveri infermi, che[,] astretti a soffrire violenze ne' loro mali[,] hanno provata più disgrazia nel medicarsi che nello star com'erano infermi. Correggitore di questi errori[,] Elmontio 32 conduce da un error grande ad un altro peggiore; posciaché[,] pretendendo contro l'esperienza d'annullar li purganti e la flebotomia e volendo co' soli irradianti il suo immaginato arkeo stabbilire la salute, non s'accorge che le reiterate prove indicarono ad Hippocrate[,] vero e reale empirico[,] che ne' mali tutti abbisogna vel superflua demere vel deficientia addere", sì che col suo ragionare distrugge anch'egli, non corrobora la medicina. Che più? e Silvio 34 a suo modo la vuole, ed il Vilis 35 a suo capriccio la sente. Vol questi[,] alla sola fermentazione attenendosi[,] prettendere un moto fermentatizio nel sangue, in tempo che le vere prove empiriche tutte all'opposto fanno conoscere, cioè non potersi fermentar licore che si move, del che io più difusamente altrove. Quegli a' sali irritanti, pungenti ascrivendo tutte le cause de' mali, ammette gl'acidi fino nelle ultime nutrizioni, fino ne' sughi nervei, cosa tutt'opposta all'esperienza. Li cartesiani un sistema, li takeniani un altro, li democritici 36 uno di più, oltre tant'altri, e tutti diametralmente opposti, che recano non che ammirazione, ma compatimento, anzi (vo' dir più, e dirò il vero) rabbia e veleno a chi si prende la pazienza di perdere il tempo ad esaminargli tutti. E da questo diverso filosofar di principi, che ne nasce? Che dirruti li veri principi dell'empirica che stanno fondati su la sola esperienza, si perde la vera e legitima cognizione di sanar li mali. E pure si sente esclamar ognora che ratio stat pro experientia . Oh Dio! e può sentirsi di peggio? Ratio stat pro experientia? E che ragion potiam dar noi de' mali se non v'è la cognitione a parte ante? Concludianla adunque senza diffondersi d'avvantaggio, che la sola storia del male con la buona pratica del remedio, che vuol dire in buon linguaggio la sola buona e regolata empirica, è la vera, la sola e la sicura medicina, a cui dobbiamo confidare la salute nostra e di cui dobbiamo servirci nelle indisposizioni che ci travagliano. Ora questa è per appunto l'arte che scegue il saglinbanco, esercitare publicamente un'assodata empirica e prevalersi di medicamenti repplicatissime volte conosciuti a prò d'ogn'uno, vendendogli a prezzi decenti ed innalterabili ed usandogli alla guarigione d'indisposizioni stranissime con utile del prossimo e con gloria della proffessione. Così volesse Iddio, che non ci fossero tanti e tanti che[,] isporcando con le loro ignoranze e ribalderie il lustro a quest'arte, non la facessero comparire per quella che intrinsecamente non è. Che così non avrei io occasione d'attediare V. S. Illustrissima con questi rozzi miei sensi e provarle ciò che da per essa conoscerebbe. Ma non interrompiamo il filo, e mi risponda, se le piace. Come non può chiamar arte onorata e civile quella che con tanta sicurezza attende a medicare le indisposizioni più ardue de' viventi? Essa ha per fine la sanitade, tesoro senza del quale ben si sa che nulla vagliono né gli onori né le ricchezze né le dignitadi né qual si sia d'altra quantunque legittima e virtuosa sadisfazione, bene escluso il quale da noi non so qual'altro possasi sostituire a farci felici e contenti. L'ogetto poscia è il corpo umano, [il] quale quanto supera le altre creature nel merito, tanto innalza questa nel grado; con la differenza che vie più esalta ed onora la mia arte, che invece di perdersi questa in dispute vane se gli umori sieno essi che[,] scomposti ed alterati[,] sieno causa de' morbi o pure escrementi che[,] imboccandosi ne' vasi di diverse figure, alterino le parti impresse, o gli acidi della scuola takeniana, che[,] posti in ogni luogo e vestiti d'ogni carattere[,] gli fanno fare da Protteo " nel cangiamento delle forme facendogli esser causa d'ogni indisposizione, o finalmente qualche altro duelecch o archeo o cardimelecch irritato, o altri fantastici perché non mai debitamente spiegati, perché non mai debitamente intesi; in vece, dissi, di perdersi in queste o simili vane dispute, esamina la storia del male, e riccorrendo subito al medicamento che da reiterati esperimenti si è fatto conoscere per sicuro, questo adopera, e con questo si guarisce. Ma avanti che più oltre mi estenda mi pare di leggergle in fronte ciò che rumina nella mente, cioè d'aver letto in vari luoghi che l'empirica è scuola incerta e pericolosa, e che non possi aver quel merito che da me le viene in questa mia attribuito. E perciò conosco necessario anche di questo disingannarla. Sappia dunque in primo luogo che altro è esperimento, altro è esperienza[:] di quello esclamò Hippocrate nel primo aforismo[:] Experimentum periculosum, e di questa è noto l'addagio che experientia est rerum magistra 39; se per empirica viene inteso di quell'arte di medicare che s'azarda all'esperimento, veramente niuno si inganna a chiamarla arte fallace e pericolosa. Ma se la vera empirica non è questa, anzi è affare de' razionali il dedurre co' loro argomenti la possibilità della forza d'un remedio non mai più praticato, cosa a che li reali empirici mai né mai si estendono, ma appoggiati su la sola esperienza operano non perché così pensino, ma perché così fanno. Dunque? Non è questa la empirica, lo ripeto, non è questa. Ma è quella vera e leggitima arte che non si serve dell'esperimento ma dell'esperienza, non de' medicamenti alla rinfusa ma di esperimentatissimi, e con cognitione storica de' mali a' quali giustamente gli adopra, dal che comprende V. S. Illustriss. che chi dice che l'empirica è scuola incerta e pericolosa, o lo dice per ignoranza, o per malizia, per ignoranza non bene distinguendo quanto io dissi, cioè l'esperimento dalla esperienza, che val a dire l'operar alla rinfusa dall'operar con cognizione[;] altri poscia per pura malizia, non volendo confessare ciò che pur malgrado loro convien che giurino, che il medico (e sia di qualsisia setta o scuola esser si voglia) in tanto è tale, in quanto alli ammalati soccorre, non in quanto discorre, ed in tanto ciò effetua, in quanto l'esperienza o ad esso o ad altri suoi precessori palesò la verità del fatto che vuol dire, in quanto la vera empirica somministra loro il lume neccessario a tali cognizioni. Vanno cercandosi questi sprezzatori dell'empirica nuovi titoli, sicuri che se l'Omnia nova placent40, così essi come innovatori saranno per essere acclamati e posti in istima, e pure vedesi che questo è un conculcare quella medesima scuola di dove appresero la vera arte di medicare, ed è un cercarsi concetto da una palese arte di ingannare, quale è quella del raziocinio, come ho provato di sopra. Confessinsi adunque oramai per erronee quelle anticipazioni di genio nelle quali si è indotta contro quest'arte, non per altro, che per correre alla buona coi più, e sovvengasi che Qui statuit aliquid parte inaudita altera zEquum licet statuerit, haud 'quus fuir". Sentimento di Seneca il tragico nella sua Medea. Ma molto deve fare per essa, affine di non giudicar male di ciò che pienamente non conosce. Il giudicare senza udir le discolpe dell'accusato, egli è quel tanto e abbominevol estremo della crudeltà di Caligola, quando a' condannati da lui al supplizio toglieva la voce da potersi gridare innocenti[;] eccone lo storicoH His in quos animadverti iubebat os inserta spongia includi ne vocis emittenda haberent facultatem. Né convienmisi dire troppa la gran bestia è il popolo, ed ove questi giudica, bisogna tutti così rissolvere che sembra temerità, non fortezza voltargli contro la faccia ed il petto, quasi che non si ricordassimo del famoso detto di Plutarco, Argumentum pessimi turba est 43 . Eh via! cicali, romoreggi e se anche il vole scoppi il volgo, e faccia ognuno intanto per virtuosamente operare, per giustamente giudicare di quest'arte quel che Demostene per intrepidamente orare, piantato sopra d'una punta d'uno scoglio, a i cui fianchi il mare bollente cozzava, strillava ciò non ostante, e portava a giusto fine la sua perorazione[.] Il simile lo dovrebbe far ognuno che ha cima di cervello, e non giudicar alla cieca co' più perché i più così giudicano, che meriteranno sentir Seneca ad esclamare, Turpe est non ire, sed ferri", cosa che ad altro meglio non può applicarsi, quanto per appunto a chi si lascia trasportare da ciò che credono li più, solo perché così li più credono. Fra le pecore sole vi è questo costume[,] Che ciò che fa la prima, e l'altre fanno Addossandosi a lei s'ella s'arresta Semplici e chete e lo perché non sanno'''. Lo che conosciuto[,] conchíudasi che d'ogni qualsisia cosa[,] avanti stabilirne il giudizio, convien ponderarne nella mente gli argomenti che obbligano a pensarne male, poiché succederà facilmente d'inganarsi. Chi può esser giudice di più intiera fede che l'occhio, il quale intervenendo presenzialmente al tutto con le lunghe mani de' suoi sguardi, tocca e palpa le cose; ond'è che ne' più severi giudizi egli fa intierissima fede, perché in fatti l'occhio solo è testimonio di veduta? E pure tallora succede che[,] se non è scortato dalla ragione[,] inciampa anch'egli da cieco e giudica ingannato e depone il falso. Pensa imbratato il sol nell'orizonte: tremulanti ed instabili d'un continuo movimento le stelle fisse. Giudica lo sterminato corpo del sole non esser in grandezza di mole maggior d'uno in due palmi. Giura che nello scoccarsi del fulmine il lampo che ne ferrisce gli occhi sia il primo ad uscire dalla nuvola che [non] il tuono che ne giunge agli orecchi; che il remo mezo immerso nell'acqua sia spezzato o torto, non si accorgendo che Mendacium visui obiicitur, et est contra conscientiam veritatis, come la discorre Tertuliano 46. Eh? che mendacium visui obiicitur anche a V. S. Illustriss., che a prima vista avendomi veduto sopra publiche tavole ad esercitar questa professione, misurandomi da ciò [che] gli dettò l'impression della prima apparenza, non solo non mi stima; ma[,] come gli apparve nella fantasia guasta e preocupata dall'opinione comune, contra conscientiam veritatis mi ha per vile, mi sprezza, mi vilipende. Ma se l'occhio (direm così) s'inganna al vedersi da esso nelle acque il remo, causa del piegarsi con la refazione 47 da lungi alla linea perpendicolare la spezie visiva, che da un mezzo trasparente e denso trapassa ed entra in un più raro; pure la ragione, che ha per ufficio di scoprire le fallacie del senso e per debito d'emmendarne gli errori, non afferma per vero ciò che l'ogetto ingannatore e l'occhio ingannato l'appresenta per vero. Non altrimenti nel fatto di che parliamo dovrebbe farsi da chi che sia, che vede un vero operatore su publiche tavole non giudicare contra conscientiam veritatis, ma ponderare, riflettere l'esercizio che fa la vera arte della medicina, così convenirsi a' di lei professori, e fra questi doversi annoverare li veri saglinbanchi come quelli de' quali abbastanza s'è parlato per l'esercizio che tengono nella mera medicina empirica[.] Dunque? Lascio a V. S. la conclusione e passo al secondo de' punti che mi propone: potersi esercitare questa parte della medicina sulle publiche tavole, dal che ella inferisce disprezzo anzi che stima all'arte. Concedasi (mi par che ella mi dica) ,] concedasi che l'empirica ristretta in questi limiti di cognizione storica de' mali e notizia esperimentata de' remedi sia una strada meno fallace della medicina, ed in cui più si debbano confidare gl'infermi, perché da essa per via più breve senza l'ambage de' soffismi si viene al riscontro del vero medicamento; con tutto ciò mi sembra che[,] se il vero esercitator di quest'arte che è il saglimbanco non s'esponesse su publiche piazze alla licenziosa censura de popoli, ma l'esercitasse privatanente come fan la loro li razionali, li dogmatici e che so io d'altri, verrebbe ad accrescergli il lustro togliendogli quella pubblicità che l'avvilisce e disonora. Al che rispondo che giusto le cose, quanto più al publico s'espongono è segno che l'espositor delle medesme" non teme di sé, e da questo ricavo che anzi per l'appunto quest'arte per essere esercitata alla presenza d'un publico non può se non essere piena dí sicurezza e fedeltà e per ciò d'onore e di merito. Ben sa V. S. Illustrissima[,] ben lo sa ognuno che un publico operatore senza scusa o coperta d'altri vi dispensa un remedio da applicarsi a vostro beneplacito a que' mali che egli vi nota e dice; e se non giova, non v'ha scampo incolpando chi 'l fabbricò. Come e c. " Non v'ha niun che lo difenda, come di tant'altri che[,] particolarmente o privatamente esercitandosi, ponno a loro beneplacito o per malizia o per ignoranza operare, non temendo del loro privato fallire publico lo scorno. Ove qui ha tanti nemici giurati della di lui fama, della di lui fortuna[,] quanti sono que' professori che temono il Venient Romani adripient regnum nostrum et gentes 50. Parla in somma in un publico ed è inteso da ogni genere di letterati, esponendo ogni sua cosa sicuro di trarne onore, perché affidato della propria ingenuità 5' e delle replicate esperienze. Questo è quello che da sé solo rinnova a nostri dì il coraggio di Druso, uno di que' Romani del secolo buono, che[,] ricchiesto un esperto architetto affinché gli dissegnasse un palaggio da fabbricarsi sul Monte Palatino, perché il sito era signoreggiato da palaggi superiori, vennegli questo tutto da per sé a esibirgli d'operar con sì bel modo d'ingegno, che non potessero li vicini che sovrastavano gettar uno sguardo a vedergli in casa. Onde per questo si meritò la famosa e veramente grande risposta di Druso riferita dallo storico. Tu vero (inquit) si quid in te artis est, ita dispone domum meam, ut quidquid agam ab omnibus perspici possit". Ora dicami, non ella è così, quale io ho detto: non esservi persona che più dell'operator di quest'arte imiti il nominato Druso e il suo nobil costume ut quidquid agam ab omnibus perspici possit? Si perspici potest la qualità della sua portata, l'ingenuità del suo procedere, l'onorevolezza del suo agire. Perspici potest l'attenzione con cui serve nel medesimo tempo ed a' popoli co' re-medi sicuri ed al suo onore con proposizioni limitate. Perspici potest la virtù con la qual vi serve, le raggioni che stan per lui, l'autorità de' scrittori che cita, la cognizione di quella medicina che in quest'arte è neccessaria. Perspici potest l'attività di que' segreti che vi dispensa l'esperienza che tutto dì avete sotto gli occhi dell'esser atto a sanar tanti mali. In somma per dir tutto in uno: omne quidquid agit ab omnibus perspici potest. E profession così publica, ed arte così esposta potrà essere intaccata né pur per pensiero da macchia disonorata? Eh via! convien oramai che ella creda a tante prove del merito di sì degn'arte, e che concordi anche per questo, perché publicamente s'esercita, che ella è onoratissima in sé e che per conseguenza chi giustamente in essa si espone merita tutti gli onori e le glorie. Aggiungasi che[,] sì come non vi è bene maggior in questo mondo della sanitade, così non v'è a chi più dobbiamo aver obbligo, quanto a chi per conservarcela invigili o per ricuperarcela s'affattichi. Li medicamenti sono quei mezzi per li quali un ben sì grande o si conserva, o si ricupera, e li medici son essi che colle loro vigilie ed osservazioni ci fanno esser felici col possesso d'un tanto bene. Ma perché in varie forme e diversamente questi s'esercitano per ottenere quest'intento, chi conducendoci per l'intricato sentiero delle opinioni e del raziocinio, chi volendoci strascinar per a strada del dogma perché calcata dai più, giurata e stretta a tal'Ordine, qual non si pretterisce punto perché non lice scostarsi a verbis magistri53; chi con arcani o per meglio dire delirii chimici inventati oggi né mai esperimentati né muniti d'altra autorità che di quello che nasce nell'opinione di chi l'inventa. In somma chi con un apparato sontuoso di dispendiosissimi medicamenti e chi con pochi ma sicuri rimedi perché avvalorati da notissime esperienze. E per questo mi permetta che corri anche questa lancia per farle veder gli utili che ricavano da quest'arte gli'infermi, sì perché con pochi medicamenti guariscono, come perché facili e pronti, ed anche di poca spesa si ritrovano. Mi sovviene l'eroico rimprovero che fe' Ciro ad Astiage" in occasione che fu da questi invitato ad una mensa tremante sotto il peso d'infinite vivande, paragonandolo egli quell'inutile prodigalità con la parsimonia persiana: Voi (disse) Astiage, e noi coll'uso de' cibi tendiamo allo stesso termine di trarci con essi la fame, ma ove noi contenti di poca carne e pane in breve tempo ci siamo, Voi perduto per sì vasto circuito di vivande appena dopo molte ore di fatica ci giongete. Così appunto lo stesso ne medicamenti campeggia[:] a che prò tanta varietà, tante squisitezze e nel correggere (anzi nel soggettar) co' zuccari le facoltà de' semplici e nel depredare li paesi più lontani per trasportar a noi medicine prezziose perché rare, stimate perché d'insuperabile prezzo? Questa è un'arte di mettere in pompa la medicina, ma nello stesso tempo è una forma di far dar fondo alle facoltà più pingui; cosa che è superflua e dannosa e che merita di far sentir di nuovo Plinio che esclama[:] Arabia atque India in medio testimatur vicerique parvo medicina a Rubro Mari impetratur, cum remedia vera pauperrimus quisque canit". Non è forsi vero che ne sylva quidem horridiorque natura facies medicinis caret (idem) senza che cerchiamo remedi che[,] nati lontano dal nostro clima[,] non ponno fors'anche ben adattarsi alle nostre complessioni? Oltre il considerare che la distanza o li può far aver adulterati perché non intieramente conosciuti, o almeno alterati sì per le mutazioni de' siti, come per il longo tempo che vi si frapone ad avergli. Benedetta adunque la mia proffessione, ché[,] prendendo di misura il detto di S. Giov. Damasceno Medicamina tibi pauca paranda sunt quorum vires et usus pluries sis expertus"[J non si estende che all'uso di pochi non exotici ma validi e sicuri remedi e[,] su quelli esercitandosi, quegli stessi con poca spesa propone e con molta utilitade adopera. Si sovvengono li veri e legittimi proffessori di questa del dettato del loro antesignano Hippocrate: Oportet medico adiuvare naturam, et superflua demere et deficentia addere", e per questo co' loro balsami potentissimi a corroborar la natura, sanano le ferite senza il maledetto abuso delle taste e de sedagni", guariscono le languidezze, li vomiti e le ostruzioni, etc., perché conoscono nascer questo da un moto impedito alle parti nervose per mancanza della ellasticità de' spiriti, il che non è correre a cause d'acidi sognati o di figure non mai debitamente intese o di archei non mai a bastanza spiegati; ma appoggio di vera esperienza, che val a dire d'occulata osservazione de' moti del corpo nostro, della storia de' mali e della virtù de remedi, e per questo ritorno ad esclamare che essendo li più utili al mondo infermo, perché publici ad ogn'uno, comodi per la poca quantità de' remedi, per la sicurezza de' medesimi e per la poca spesa che con essi si fa, devono altresì sopra d'ogn'altri essere e lodati, ed onorati. Così fosse intesa da ognuno tal verità, che così non adoperarebbonsi tanti e sì vari rimedi ad un sol male, dal che viene che molti[,] annoiati dal più usar medicamenti, o inveiscono contro la bell'arte della medicina con mille imprecazioni, giacché si ritrovano peggiorati[,] allorché si medicarono con la tanta varietà de' remedi, di quello che prima di medicarsi. Incontrano li miseri in essi la qualità del bagno di Diogene, che per il di lui sucidume l'obbligò ad esclamare[:] Qui hic lavantur ubi deinde lavantur? e fanno a guisa di certe navi che[,] esponendosi alla vela per incaminarsi al loro retto viaggio, appena uscite dal porto sono sorprese da una contraria e ostinata fortuna di vento, al quale[,] per non si rendere pienamente, tenendosi sempre incontro co 'l bordo, stanno su le mosse. Corrono, volano, ma tutto questo è un riandare la medesima strada, in un giorno di tal fortuna avranno fatte delle miglia, Dio sa quante; ma il piloto, che pur in questa faticosa riandata fe' stancar i nocchieri, fe' por in opera quanti ordegni ha la nave, dar le mosse reiterate a quante vele stendono le braccia, per cogliere o tagliare il vento, conterralle forse per avanzo del loro viaggio? Ed oh! dice Seneca, di cui è il pensiero che non multum navigavit sed multum iactatus est. Così per appunto è chi[,] usando in una infirmità re-medi contro indicanti, conviene che la natura più combatta contro la forza opposta di questi, che contro il male. Oh Dio! poco vento che spiri secondo, empie un par di vele, e di poppa soffiando spinge senz'altra fatica del nocchiero la nave, così medicamento poco, ma atto al male, porta in breve alla salute, senza che debba troppo penarsi, e questo da chi con più sicurezza si può ottenere, quanto da chi[,] salendo su publiche tavole ad esercitare con giustizia questa proffessione[,] altro non aspetta che la dispensa di remedio sicuro che gli fabbrichi il concetto colle operazioni e glielo confermi e multiplichi coll'evidenza? In qual si sia altra forma che s'eserciti la medicina, fuor che con questa publica mostra, si può sempre temere più di quel che da questa, appunto perché le altre non sono tanto publiche ed esposte. Io per me stimerò molto più Milon Crotonense, che con le nerborute sue braccia si levò in collo vegente tutto il teatro pieno di spettatori e portò nella sua nicchia la propria statua di pesantissimo marmo fattagli scolpire in onor suo ed in memoria della propria gagliardia, di quel che io possa stimar Seiano, a cui consecrato da Tiberio il ristabilito teatro di Pompeo, si fe' salir a forza di canapi, d'argani e di taglia un gran fusto di marmo che lo rappresentava al vivo. Veniva questo portato a tanta altezza di gloria dalla ruota della sua fortuna; e la virtù che l'imprimeva il moto era il braccio di Tiberio, ove il Crotonense tutto da per sé [fece], ed aquistonne il merito, e vi si collocò con fasto di gloriosa memoria. Così[,] Illustrissimo Signore[,] chi saglie coll'aiuto altrui viene portato a braccia e poco fatica; il bello è di portar se stesso senza assistenza altrui. Questo è l'ascendere che fa il saglinbanco, che da per sé convien che si porti, anzi che si porti passando per mezzo d'una folla d'oppositori che gli contrastano il posto, e giaché non ponno avvilir le vere ed onorate di lui operazioni, conculcano il mezzo[,] avviliscono l'arte caricandola d'obbrobri, affinché non ne riluca il merito, non ne risplenda la gloria. Che se poi volesse tacciare la pubblicità di quest'arte a causa de' personaggi buffoneschi che si portano su palchi, quasi che fosse unito il sodo e meritevole della medicina col tutto ridicolo del divvertimento, risponderò che la corruttella del secolo è in colpa di questo, ed ove principiò a mancare il buon gusto negli uditori, introdussero gli operatori il divvertimento per alletare i popoli, e dal vedergli svogliati dell'utile gli proposero il dilettevole. S'aumentò a poco a poco a grado tale faccenda, che divenne costume quello che fu semplice arte di fargli gustar il bene della medicina, circondato dal dolce dello spasso. Ma perché il costume è un violento maestro di scuola: Usus efficacissimus omnium rerum magister (Liv.), fermò a poco a poco il piede della sua autorità e stabilì per legge quello che tale non era. Non dobbiamo dunque istupirsi se fermò cosa tale, posciacché lo vediamo forzar tutti i riti e tutte le legi della natura, e volgere le più assodate volontà alla sola riflessione, tale è il costume. Onde conviene concluderla con Seneca: Consuetudinis magna vis est. Da qui ne viene che al giorno d'oggi si conosce obbligato un proffessore di quest'arte a seguitar il costume de' vecchi, non avendo niun di noi più la forza bastante d'introdurre costume nuovo. Oltre a che cosa hanno da far li personaggi col capo? Altra cosa è egli, altra essi, altro sono li medicamenti e chi li dispensa, altro è lo spasso e chi lo dà. Eh! che non sono per niun conto unite queste due azzioni fra loro sì diverse. Era l'imperatore Severo col suo fiorentissimo esercito in procinto di far fra pochi dì un'aspra battaglia con inimico egualmente potente. Ma per suo infortunio aggravato da tormentosa podagra che stabilitaglisi più ne' piedi che altrove gl'impediva a non potersi egli mostrare all'esercito. Si cominciò per questo fra soldati un ammuttinamento ed una mezza sedizione nel campo. Al primo avviso che ne riseppe l'imperatore, eccolo sulle altrui spalle, gli altrui piedi in mezzo all'esercito, con un volto da quel severo che egli era[,] attorniato da centurioni e tribuni, minaccia, e paventa, atterrisce ogn'uno, sicché gettatosegli ai piedi tutto l'esercito chiedente a gran voci perdono. Censitis tandem, esclamò, caput imperare non pedes. Anche qui[,] Illustriss. Sign.: caput imperat non pedes. Non sono li personaggi che soministrino il concetto a gli arcani che si dispensano in quest'arte, né con la loro abilità né co' loro gesti né col loro numero, perché questi sunt pedes. Il padrone è il capo, che con l'autorità delle sperienze, con la forza del dire, coll'ingenuità delle sue azioni deve far conoscere quanta abbilità abbiano li suoi remedi in combattere e debbelar i mali, perché caput imperat et non pedes. Anche li dipintori della Grecia, dice Plutarco, allorché avvevano da rappresentarvi la vera effigie d'un uomo[,] ve ne dipingevano con gran studio la testa: Nec de ceteris membris magnopere curabant. Dovrebbe ognuno conoscere la neccesità di far il simile[,] anche nel caso nostro far stima del capo, diriger l'attenzioni a chi serve al comun bene con esperti segreti: et de ceteris membris magnopere non curare. Che così si conoscerebbe la neccesità di soffrir il costume degli operatori di portar esso seco li personaggi come totalmente disgiunti dalle operazioni del capo, con questo però che essi non si rimescolino con loro, degradando al decoro dell'arte col vestir l'abito vile e buffonesco maggiormente, che caput imperat, non pedes. Toccai (a mio credere) quanto basti li due primi punti, restami venire alla prova del terzo, cioè della dispensa de' medicamenti sicuri che si fabricano in quest'arte, per farle pienamente conoscere le sue prerogative. Ma poiché il molto che potrei dire potrebbe dar nel naso a qualche Zoilo non potendo a meno di non saettar la malizia di quelli che a medicamenti ordinatissimi o al meno ben mediocri attribuiscono gloriosi e fastosi titoli di Panacee, di restaurativi di vita e d'Ercoli vitali, balsami universali e di altri di simile portata, per questo mi ristringerò quanto sia possibile, e per farle conoscere che la vera empirica non è altro che pura esperienza, userò in favor mio, in difesa d'essa in quest'ultimo punto la sola esperienza, acciò che la esperienza stessa con la esperienza si difenda, armi propriissi[m]e e sicure che riusciranno utili all'arte, perché la faran conoscere vie più per onorata e degna, giaché arcani così preziosi adopera e possiede, ed utilissime tanto a V. S. Illustriss. quanto a chi che sia altro che leggerà questo picciolo trattato, potendosi prevalere di ciò che con fedeltà quest'arte palesa. Egli è però vero che lo scrivere segreti al giorno d'oggi è molto difficile per diverse cause, sì perché: Nil dictum quod prius non fuerit dictum. Vole anche perché una pasta cotanto maneggiata, e a cui non ponno aggiungere cose nuove li più celebri sugetti de' nostri dì, non dovrebbe essere strapazzata da me, che tra i veri proffessori dell'arte empirica sono il minimo ed il più inesperto. Pure mi dia V. S. Illustrissn me la dia il mondo tutto, che ambisco di dare anch'io caparra ad ognuno, se non di quel molto che dovrei sapere, almeno di quel tutto che voglio operare a prò del prossimo mio e della mia proffessione. Mi sta troppo a petto ciò che disse di sé Diogene alloraché faticava tutta Corinto per assodarsi ad una vigorosa difesa contro le armi di Filippo il Macedone che gli aveva intimata aspra guerra. Ansavano li cittadini tutti portando alle mura chi pietre, chi travi ed armi di varia forma[,] sì per offendere l'inimico, come [per] difendere se stessi. Quando esso vegendosi vecchio inabile e mal prattico d'ubbidire a tali fonzioni, si mise tutto solo a rottolare su e giù da picciol erta la sua sdruscita botte, per lo che quanti passavano l'interrogavano a che ciò facesse, ed ei a tutti così rispondeva. Voluto etiam ego dolum meum, ne ut solus otiosus ferriari videar inter tot laborantes". Così voglio far anch'io, rottolare la mia botte, che se viene da tal moto a mandar da sé qualche buon odore, ciò sarà del genio di servir ad ognuno, fin dove si estende il mio debole. Anche lo specchio esposto a' raggi del sole mandante riverbero di luce col moto intus et extra, è appo gli academici simbolo e figura degli uomini virtuosi, significando con questo che non basta aver in sé la luce e godersela; ma conviene tramandarla all'altrui lume. Conosco anch'io che vani sono li sudori di chi impallidendosi su le carte, non vuole poi esercitar ciò che apprese, e che la mente, che dalle virtuose fatiche de' scrittori raccoglie a guisa d'ape spiritose cognizioni, se non le riduce al pratico gitta le fatiche al vento. Sono giovevoli le scienze, ma però solo quando alle operazioni si riducono, essendo più che vero ciò che lo Stoico ci insegna, consistere una parte della virtù nella dottrina, ma l'altra nell'esercizio. Sicché concludiamola, spero, che mi sia lecito ubbidire al mio genio spezialmente, che serve al sostenimento di quell'assunto a che difender ho io detto: d'esser l'arte del saglimbanco onorata ed utile, purché con onore e fedeltade si eserciti. Rimetto adunque all'altra parte V. S. Illustrissl] ove vedrà per alfabeto esposti vari ma sicuri segreti, accioché coll'esperienza, siccome con le antedette ragioni[,] sia doppiamente palese l'onore ed il merito di sì bell'arte. Raccolta di varii ma sicuri Secreti esposti per alfabeto Aborto proibire a chi n'è solita per debolezza di Reni o d'altro Polve di radica di tormentilla 1 onz. 2 una, di radica di bistorta 3 mez'onza, veri grani di kermes due drame 5, canella 6 due drame, zuccaro sciolto in acqua di cottogni quanto basta, si cuocia il tutto assieme e si riduchi a guisa di conserva, da prendere un cucchiaro per mattina, ed in tanto si aplichi alle reni il seguente ceroto. 4 1 Erba delle Rosacee (Potentilla erecta o Potentilla tormentilla). Latino medioevale tormentilla, da tormentum (tormento): forse perché la sua radice polverizzata serviva per lenire vari dolori e il "tormento" del mal di denti (Pianagiani, II, 1443). Il rizoma ricco di tannino è usato come astringente e antidiarroico nella medicina popolare. La polverizzazione dei vegetali era l'operazione più importante di divisione dei prodotti naturali. Dopo l'essiccazione a temperatura da 25° a 40-45° e dopo la frantumazione, il prodotto veniva setacciato per separare la polvere più fine man mano che si formava. In tal modo era possibile la preparazione di farmaci composti, dosati con molta precisione. 2 Onza (latino uncia), variante morfologica provenzale e poi spagnola di oncia: unità di peso che è 1/12 di un intero. 3 Erba delle Poligonacee (Polygonum bistorta), detta anche serpentina o serpentaria. Dal composto latino bis (due volte) e torta (piegata), per la forma a due curve del suo rizoma. Il rizoma è usato in medicina come astringente. 4 Chermes (variante morfologica, kermes), minerale composto (ossisolfuro di antimonio), dall'aspetto di polvere rosso cupo (da cui chèrmisi o crèmisi). Dall'arabo qírmiz (coccinella), a sua volta dal sanscrito krmis (verme), poiché la sostanza colorante rossa, in cui consiste il principale composto che va sotto questo nome, si ottiene da una coccinella (Coccus o anche da vermi (Ricettario fiorentino, I, 39). In medicina era usato per le sue proprietà emetiche, espettoranti e diaforetiche. 5 Dramma, dragma o dracma (da Spooqui, affine a 8payptA e 3petwa, manata, manipolo), come misura di peso equivale all'ottava parte dell'oncia. 6 Variante antica di cannella (diminutivo di canna, perché la corteccia, essiccandosi, sí accartoccia a forma di cannuccia): droga costituita dalla corteccia di rami di diverse piante, con proprietà antisettiche. Incenso, mastice, ladano 7, mez'on. per sorte, pietra emattite 8, coagulo di lepre, Balsamo del Perù 9 dra. una per sorta, resina di pino quanto basta a legar il tutto in forma di ceroto, da aplicarsene una parte, secondo il bisogno. Aneurisma per rafrenarlo, che non si augumenti Si distilino tre parti di calcina, ed una parte di rasura di piombo primo tenuti in vaso di vetro al fimo equino per 25 o 30 dì, e l'acqua, che distilerà si aplichi di volta in volta con pezze inzupate al sito più vicino all'arteria dilatata: avvertasi che quest'acqua scioglie le nate per grosse che siino, usandola come pezze duplicate sopra il male, così all'ernie carnose, ed umorali, a sciri, ed a cancri principianti per risolverlo o frenarli. 7 Mastice o mastica (latino mastiche -es da gocatixi, resina del lentisco), resina del lentisco o lentischio (Pistacia lentiscus) delle Anacardiacee. Di largo uso in farmacopea, serviva anche ad aromatizzare il vino. Làdano o làbdano, làudano (latino ladanus o ladanum da 2u5cSavov), pianta del genere del cinto; in farmacologia, sostanza resinosa profumata. 8 In mineralogia, sequiossido di ferro, così detto per il suo color sangue (latino llematites da atilatítrig, sanguigno). 9 Uno dei balsami naturali: soluzioni o emulsioni di resine e di essenze trattate con oli essenziali contenenti acido benzoico e cinnamico. Il balsamo del Perù è il Myroxylon Pereirx, albero delle Leguminose. La sua resina è usata in medicina come revulsivo, e anche nelle ulcerazioni e contro la scabbia. Il nome deriva dal luogo in cui cresce: non solo tuttavia in Perù, ma in genere nell'America centrale. 10 Natta, in medicina, cisti sebacea, ascesso, afta, o altre vescichette purulenti (latino natta, nacta, natha, nasda, nasta, cosa addensata e compressa). 11 Sciro (latino scirros —i da ccippog, cosa dura e callosa; scirro, variante morfologica antica, come schiro e sirro) in medicina è un "tumore duro senza dolore e pesante, che si forma e cresce lentamente nelle differenti parti sdel corpo, tanto interne quanto esterne" (Dizionario di sanità, III, 61). E di colore cinerino o plumbeo. Angina o sia scaranzia 12 Portando al colo un laccio di seta cremesi, con cui sia stata apesa una vipera, vi assicura, così la testa d'una vipera secata, e faccendo empiastro con cascia 13 estrata di fresco, polvere di nido di rondine, e sterco di cane che mangi ossa, replicato ogni 2 o 3 ore la [sera], riccorrendo però all'uso de vomitori se ci sono le indicazioni, e della cavata del sangue, se naschino da troppa quantità del mede[s]mo. Racordo anche per gran specifico il seguente gargarismo. Si faci suco da tutto il pomo granato e depuratolo se n'adoperi un cucchiaro per volta con qualche decotto digestivo, o d'uva passa, o di dattili, o di fichi, o di liquirizia, o di malva per 6 o 8 volte il dì in circa, e vederassi grande effetto. Apoplesia Successo l'accidente apopletico in chi ne sia, se gli aprino i denti e si gli ponghi in bocca del sal marino decrepitato, ed espurga le viscosità del capo, e dà tempo di venir all'uso degli emetici 14 ed altri appropriati elementi, e costa per esperienza che ponendo un sacchetino stretto e longo, pieno di sale decrepitato caldo al sofribile intorno al collo dell'infermo, lo difende da nuovi acidenti, non resto anche di ricordar per gran speci fico dopo li debiti vomitivi il Balsamo della Mecca 15 in dose di 12 in 20 goccie per un mese o più, o in pillola con qualche polvere cefalica 16, o in brodo appropriato, sciolto col rosso dell'uovo. 12 Variante regionale di squinanzia e sinonimo di angina (dal latino angere, stringere) e di difterite: infiammazione del cavo orale e della faringe che provoca senso di costrizione alla gola. 13 Termine popolare per "acacia". Pianta utile, ín farmacopea, per il tannino che contiene. 14 Farmaci atti a provocare il vomito (da egerucóg, vomitivo). Asma o sia strettezza di petto La tintura di belgioino 17 e spermaceti 18 fatta con lo spirito etereo di trementina 19 è un mirabile specifico, dopo l'uso dell'osime120 di nicotiana 21, quando però si intenda d'asma umorale, cioè umida. 15 Detto anche giudaico, è la pianta (Amyris opobalsamum) che produce un liquido grigiastro, dall'odore del rosmarino. La liturgia cattolica ne fa uso mescolato con l'olio per il crisma. Vomitivo equivale a emetico. 16 Nel tardo latino cephalicus da tcwakticóg, relativo alla testa (da xeTech, testa). Questa polvere "buona per la testa" consta già in Pietro Ispano, nome con cui è noto Pietro di Giuliano (Lisbona, ca. 1220 - Viterbo, 1277), scienziato e archiatra pontificio, che fu papa Giovanni XXI. Famoso il suo trattato di medicina popolare, Thesaurus pauperum, che indicava le cure per ogni malattia: ebbe volgarizzamenti durante l'Umanesimo. 1' Antic. bengiuì, poi anche belgiuino, benzoino, belzuino, la pianta (Stirax benzoin) da cui si ricava questo balsamo, usato in medicina come espettorante. In arabo lubén giàwî, incenso di Giava, perché così era chiamata Sumatra. 18 Sostanza oleosa, densa, biancastra, brillante, cristallina che si trova nelle parti molli del cranio del maschio delle balene (dal composto anépp,a, seme, e icécog, balena). 19 Nome collettivo delle resine liquide degli alberi delle Conifere e delle Terebintinacee (latino terebenthina da TEpOlvOog). 20 Nel testo, osimel, ovvero ossimele (o ossimiele, antíc., con diverse varianti), bevanda medicinale costituita da miele in soluzione acetica (latino oximel -mellis, o oximeli -litis da oVweit..t-Xutog, comp. da gúg, aceto, e tat, miele). 21 Francesismo (nicotiane) della denominazione originaria della nicotina (nicoziana), detta anche "olio volatile del tabacco". La nicoziana (o nicotina, necoziana, nicosiana) è il nome di varie piante delle Solacee, tra le cui specie si registra la Nicotina tabacum, pianta del tabacco. Artritide o siano dolori arterici Si estingua la calcina viva nell'orina del paziente, si coli il licore e si aplichi più volte alla parte ofesa con stoppe. Atrofia e tabe22 Dopo legeri vomitivi, né mai purganti, si viene all'uso di emulsioni con la noce d'India e amandole 23, con esse lo spirito di formiche in dose di 12 in 20 goccie, e se la tabe è particolare, si aplichi il detto spirito alla parte ofesa con il balsamo di sapone 24, e tutto ciò intendasi dell'atrofia che non viene da scioglimento. Aciaro intenerire come stagno Limatura di piombo onc. 6, sale armoniaco 25 onc. 4, aceto una libra e mezza 26[,] si ponghi il tutto in un sagiolo 27 in fimo equino per dieci dì, e si farà un'acqua latesina 28, in cui se smorzerai varie volte il ferro rovente si farà tenerissimo. 22 Atrofia è il deperimento organico per mancanza di nutrizione (da a-, privativo, e Tpogill, nutrimento). Tabe (latino tabes, putrefazione, da tabeo, mi struggo) è più in generale la dissoluzione o consumazione corporale per malattia cronica. 23 Mandorla, detta amandola dal basso latino amandola. La noce d'India è la noce di cocco. 24 Balsamo tratto dalla Sapindus saponaria. 25 Variante antica di ammoniaco. Il sale ammoniaco è il cloruro di ammonio. Ne era ricco il territorio dell'oracolo di Giove Ammone, in Libia, da cui il vocabolo (antowtax69). 26 Libbra o libra, misura di peso equivalente a poco più di 300 grammi. 27 Saggiuolo (o saggiolo, antic. sagiuolo, nel testo "sagiolo"), in questo caso è una provetta di vetro resistente al fuoco. 28 Lattimo, composizione vetrosa di color bianco latte (da cui il nome) ottenuta addizionando biossido di stagno e di piombo. Acciaro indurire di gran tempra Scioltasi in acqua comune il sale armeniaco filtrato con la calce viva s. a., ed in essa si temperi. Con l'occasione che si tratta dell'acciaro mi viene in concio di dir qualche cosa della fastosa neve di Marte 29 [,] medicamento di gran nome, ma di poca o niuna riuscita, ella è un fior di regolo 30 d'antimonio fatto senza sali, che triturato sottilmente si sublima nelli aludeli a guisa de fiori di nitro 31. Vien vantata per un gran deostruente e corroborante. Ma non rispondono i fatti alle promesse. Vera tintura di Marte Paleso la seguente, quantunque sia scritta dal Zuelfer né così facilmente intesa, e ciò a motivo della sua impareggiabil virtù e prerogativa in tutti que' mali ove abbisognino li Marziali 32, cioè nelle ostruzioni, hidropisia, cachessia 33, mancanze di mestrui, emorroidi viziate, hipocondria, flati 34 scorbuto, etc. 29 Farmaco a base di biossido di antimonio. 30 Fiore, in chimica, sostanza ottenuta per sublimazione. Regolo, in metallografia, indicava la massa purissima di metalli. Nella letteratura farmacologia consta in particolare per l'antimonio (Tramater, sub voce; Imperato, I, 2,25). 31 Aludelo, ispanismo per alludella, vaso di terracotta usato per la sublimazione di alcuni minerali (spagnolo aludel dall'arabo al- 'utàl, apparato chimico per sublimare). Nitro, termine in disuso, è il nitrato (latino nitrum da vírpov, soda). 32 In chimica farmaceutica e in medicina, composto e medicamento a base prevalentemente di ferro o di suoi derivati (Vallisneri, III, 508). 33 " Cachessia (da icaxgía, cattiva costituzione fisica, comp. da xcocóg, cattivo, e gtg, disposizione fisica, Isidoro, 4, 7, 27), stato di gravissimo deperimento organico progressivo, riconoscibile "dalla mancanza di colorito nelle parti carnose, particolarmente dal pallore del viso, dalla perdita delle forze, dalla inabilità tanto per le funzioni naturali, che per le volontarie, dalla bassezza delle braccia e delle gambe, da una languidezza universale" (Dizionario di sanità, I, 83). 34 Gas che si forma nell'apparato digerente e che viene espulso dalla bocca o dal retto. Dal latino flatus (soffio). Il "flato trattenuto" dà origine "a ben quattro mali", secondo il Regimen sanitatis, cap. 4: "colica, vertigine, timpaníte e spasmo acuto". Si prenda di vera terra 35 fogliata di tartaro rettificata con lo spirito di vino onc. 4, ruggine di ferro fatto all'aria onc. 3, si macina in porfido tutto assieme per 6 o 8 ore continove 36, né si perdoni a fattica, poi si espone all'aria difesa dal sole e dalle piogge sopra lamine o piatti di vetro o marmo per 2 o 3 dì, e vedrassi una ellevazione a guisa di funghetti rubicondissimi, si levino con diligenza ponendoli in saggioletto con spirito di vino o spirito di tartaro solubile a farne tintura, la dose è goccie 25 in 20, ed opera mirabilmente. Bozio 37 o sia tumor della gola L’aplicazione della radica della brionia 38 fresca e rafano silvestre 39 pestati con l'assongia 40 e applicati per 15 dì al calar della luna, ed in tanto usar intieramente le rotule di Gio. del Vico 41 ad bozium. 35 Anticamente, in medicina, sostanza minerale polverulenta dotata di proprietà medicamentose (Mattioli, 728). 36 Termine antico e letterario, nel senso di ininterrotto. 37 Il termine non mi risulta usato da altri. I vocaboli simili sono bozzo, nel senso di protuberanza, e bozza, in disuso, usato nel dialetto toscano nel significato di bubbone, tumore (Vallisneri, III, 378). 38 Rampicante delle Cucurbitacee (Bryonia dioica, da [Spixovía, deriv. da (3pixo, faccio germogliare, per le tante ramificazioni), detta anche vite alba, vitalba, barbone. Le radici contengono un glucoside con proprietà fortemente purgative (Plinio, 23, 13). È chiamata anche fescera, zucca marina, zucca selvatica (Tommaseo, sub voce). 39 O ràffano, pianta delle Crocifere (latino raphanus da pewavo;). Se silvestre è detta laudra. 40 Latinismo per sognia o sugna e varianti (latino axungia, originariamente grasso da ruote, comp. da axis, asse del carro, e tema di ungere). 41 In realtà Giovanni da Vigo, archiatra di Giulio II e autore della Pratica de arte chirurgica (Cosmacini, 229). Buganze 42 o gelature L’olio di cera è rimedio prestantissimo, così la decozione delle foglie grosse del selano applicata calda. 43 Bianchetto mobilissimo per conservar le carni bianche e morbide Si battino con bacchettine a mazzo le chiare d'uovi, a fine di ridurli in spumma, la quale si distenda su tavole monde a seccare, si macini, ad essa si unischi per onc. 1 una drama di borace minerale abbruggiato 44, allume zuccherino e zuccaro candito drame due per sorta; e si adoperi fregandola su le carni come l'uso. Bianchetto sopra rame Giaché si è indicata la forma sicura d'un bianchetto innocentissimo per le donne[,] ora a sadisfazione de mettallurgi espongo il seguente. Si prenda tartaro di Bologna, salnitro ed arsenico cristallino parti eguali, si macini e si unischi il tutto, e fatto rosso nel fuoco un crogiolo de più grandi a cucciaro, a cucciaro ci si getti entro la detta mistura, lavorando a fuoco scoperto e sopra vento, e con cucciaro lon go per scansar li fumi avelenati dell'arsenico, terminata la detonazione d'uno si getti l'altro, e così si facci fino alla fine, si levi dal foco colandolo sopra qualche marmo, e si lasci all'umido per 2 o 3 giorni, e si farà come unguento mole, che è privo affatto di venefico, sen ongino di quello le lamine di rame sottili e depurato con alume, sale e urina s. a. e si faci strato sopra strato con argento laminato od abbruggiato, ad ogni libra di rame tre in 4 onc. d'argento, o più se piace, e fondasi il tutto prima con foco legero per un'ora e più, poi gagliardo al bisogno, ed avverassi un rame tanto bianco, quanto più dir non si può, estensibile al martello, e sonoro, di cui sen può servir anche per piatti, non essendoci timor dell'arsenico, come che nella dettonazione si fissò. 42 Voce dialettale del nord d'Italia (anche bugansa), per indicare í geloni, forse da "buchi", per i segni che lasciano i geloni (Panzini, IV, 91). 45 Voce antica per sedano (latino classico selinon, e, volgare, selinum da aíltvov, termine diffuso dall'Esarcato di Ravenna). 44 Sale sodico dell'acido tetraborico (latino medioevale borax -acis dall'arabo btiraq e dal persiano btirah). In medicina costituisce un lieve disinfettante. L'allume, poi, in medicina ha proprietà astringenti. Calcoli discacciare Polvere di scarpioni 45 seccati nel sol lione, e presa in dose di grani 2 fino a 6 rompe con tutta sicurezza ogni sorte di calcoli, e caso che ci fosse infiamazione si antimettano qualch'oncie d'olio d'amandole dolci o di semi di melone. Cali di piedi Tartaro d'orina (cioè quel sale, che si ritrova attaccato agli orinali mal custoditi), verderame, pece greca, e cera mole parti eguali, si faci ceroto d'applicarsi con tutta sicurezza. 45 Variante per "scorpione". Specifico, come olio o come polvere, per le vie urinarie (Bencivenni, 7, 55). Capopurgio 46 per tutte le ottusità, flussioni e dolori di testa Radica d'ireos onc.1, radica d'eleboro nero onc. mezza, sandali citrini drame 2, si unischi il tutto in polve sottilissima e si usi per purgar la testa tirandone in poca quantità per il naso a forma di tabacco. Capelli per fargli nascere Mosche, api e vespe, parte eguali si cuocino nell'olio di nocelle o di rossi d'uovi, si coli e si aggioghi di storace liquido 47 ad libitum, e si usi lungamente. Capelli a fargli biondi Spirito di mele unito all'acqua sua usato per 15 o 20 giorni con la testa al sole. Capelli a fargli neri Tintura di ferro fatta con aceto, usata per umettarne, è sicurissima, il simile la polvere di folie di fichi cotta in unguento con olio di nociole, lo stesso il succo di bacelli d'orobo freschi 48. 46 Termine antico (dal latino medioevale, comp. da caput, capo, e purgare): medicamento contro i dolori di testa. In polvere o in balsamo, era inspirato dal naso (Tommaseo, sub voce). 47 Storace o stirace (latino storax o styrax -cis da atúp4), arbusto resinoso (Styrax officinalis) e relativa resina, usata in medicina contro la scabbia e i pidocchi. Lo stesso vale per l'arbusto e relativa resina del liquidambra (Liquidambar orientalis), al quale sembra riferirsi l'Autore. 48 Oròbo o òrobo (latino tardo orobus da ópo(3og, ervo), pianta delle Leguminose. È così detto l'ervo "nelle spezierie" (Mattioli, 274). Capelli che cadono Pelle delle vipere abbruggiate ed unite all'olio di nocelle selvatiche, e fattane onzione serve mirabilmente. Cancri aperti Quantunque si lega in Hippocrate: Cancri curati citius pareunt, non curati vero diutius perdurant pure la esperienza m'ha fatto veder a sanare molti. L'arte prima consiste in purgar il corpo ed il sangue, il corpo coll'estrato d'eleboro magistrale 50, che in questi casi val sopra di tutti; el sangue co' dilluenti e vulnerari, ed in tanto esternamente si aplichi la magnesia arsenicale fino che sii estirpata tutta la quantità del morbo, e sopra il ceroto di minio, in ultimo il balsamo di solfo del Rolando 51, e sopra lo stesso ceroto, col mercurio diaforetico vero52 è più sicura la guariggione. 49, Cancrene e sfacello 53 Il più potente e sicuro rimedio è il butiro 54 liquido d'antimonio, col quale si tocca tutto l'ofeso, e sopra ci si aplica un empiastro di farina d'orobo replicandolo al bisogno. 49 "I cancri curati si manifestano più velocemente, i cancri non curati perdurano più a lungo". 50 Termine desueto per "galenico". 51 Forse, un preparato che risale a Rolando di Parma, chirurgo operante a Bologna nel sec. XIII. 52 I farmaci a base di mercurio erano sudoriferi (Cestoni, 132): prescritti per espellere dalla cute il veleno pestilenziale (Muratori, III, 176). Diaforetico vuol dire sudorifero (agg. di diaforesi, da Stacpópriatg, comp. da Sta, attraverso, e Opco, conduco). 53 Sfacelo o sfacelo in medicina è la necrosi di tessuti comunicanti con l'esterno. 54 Così anche detto il butirro o burro (latino medioevale butirum da floínupov, comp. da Paín, bue, e tvp6;, formaggio). Carboni o sien antraci Si gira atomo d'essi con una penna intinta nel detto butirro d'antimonio e sopra si aplica il ceroto di minio cotto a nerezza, e così si cavano dal fondo con facilità 55. Carnosità del meato urinario La polvere sottilissima di sabina 56 atortigliata alla candela di cera, la di cui sommità sii di ceroto di minio, si replichi finché è disseccata la carnosità, ed in ultimo si aplichi il solo ceroto. Cascate d'alto Ho sperimentato più volte con successo felice il balsamo di copayue 57 in dose di 30 o più gorcie in suco di granci pestati vivi, e vin bianco replicato di 8 in 8 ore, 2 o 3 volte, e ciò con felicissimo fine. 55 Si tratta dell'antrace che chiamiamo cutanea: "un insieme di foruncoli che si produce nel medesimo momento sulla stessa superficie" (Valnet-Duraffourd-Lapraz, 355). 56 Anche savena o savina (latino sabina), arbusto delle Cupressacee (Iuniperus sabina). Le foglie o i rami erano usati in polvere (Erbolario volgare, I, 132). 57 Così scritto nel testo (in realtà copaive o copaibe, copaiba, coppaiba), per assonanza al caribico copau, con cui si designa la pianta (copallera) delle Leguminose Cesalpinioidee. Il suo balsamo era usato come antisettico urinario. Cattarate degl'occhi Si prenda lo sterco di fanciullo maschio che ancor si cibi di solo late, e raccolto in debita quantità si distilli cenere, e l'acqua che n'esce si adoperi aplicandola all'occhio, e vedransene operazioni singolari, parlo delle cattarate ancor principianti[,] non restando però di purgare il corpo ed usar gli altri cefalici incisivi. Dolori colici Prendi pepe bianco polverizato onc. una e mezza, folie di ruta polverizata mezz'onza, sal gemma drame cinque, teriaca 58 onc. 4, si facci eletovario 59, e si usi in dose di denari uno in dui al bisogno. Altro simpatico 60 La pelle interiore del ventricolo del galletto giovane, lavata in vino generoso e caldo è rimedio sicuro. Così anche la polve dell'intestino del lupo presa in vi no, vale il simile anche l'intestino detto, legato sul ventre, lo stesso fa un certo ossetto del piede destro della lepra preso in polve. 58 La più nota delle medicine composte. Gli ingredienti, molto variabili e complicati, erano in linea di massima i seguenti: carne di vipera, oppio, liquirizia, genziana, pepe, zafferano, pino, zenzero, cassia, camomilla, anice, cardamomo, acacia, peperoncino, resine e gomme vegetali e varie sostanze minerali (Penso, 404). La teriaca o triaca risale ai greci (Ori piocieíb da cui il latino theriaca), per le cui ricette divenne famoso il cretese Andromaco, vissuto a Roma al tempo di Nerone. 59 Variante antica per elettuario (tardo latino electuarium, miscela medicamentosa). Preparato farmaceutico costituito di polveri, sali, vegetali e altri ingredienti mescolati con sciroppo, miele o resine liquide. Era usato per molte malattie, specie riguardanti l'apparato digerente (Bencivenni, 5, 68). 60 Sostanza pulverulenta che si riteneva assorbisse gli effluvi delle malattie. Il termine risale alla tradizione alchemica. Carie d'ossi in ogni parte Lo spirito di canfora legitimamente preparato, così la polve di trementina ottimamente cotta sono due sicuri remedi da appropriarsi secondo i casi. Contusioni Si aplichi più presto che sia possibile la radica di brionia pestata, ed è rimedio sicuro avvalorato da mille esperienze ed anche dall'autoritade d'Elmontio. Diarea, disenteria e flussi menstruali La terra dolce di vitriolo in dose d'un denaro 61 presa con estratto di tormentilla o zuccaro rosato replicata 3 o 4 volte il dì. Altro sicurissimo si è raccogliere li cottogni allor che sono ancor inmaturi assai né hanno succo alcuno, fargli seccare (e seccano come se fossero di legno) i limarne al bisogno mezza drama e prenderla con vino o brodo replicandola due volte il dì; avvertendo però che sii primo preparato il corpo per scansar quelli accidenti che potessero succedere alla sopressione indebita. La radica d'ipequaquana è sopra tutti 62. 61 Come unità di peso, 1/24 di oncia. 62 Ipecacuana (ant. ipecoacana, ipococaana), pianta delle Rubiacee di origine brasiliana. Le sue proprietà vomitive sono state apprezzate a lungo (festoni, 374). Dolor de denti Decoto di nicoziana e radica o seme di insquiamo 63 fatto in aceto e applicato caldo. Altri infiniti cen sono, e tutti sperimentatissimi in questo caso, ma per non eccedere in noiosa longezza a questo solo m'attengo. Nettar de Denti Cremor di tartaro 64 onc. una[,] alume abbrugiata dram. due[,] scorze di lumache abbruggiate onc. 6, rad[ica] d'ireos, coralli bianchi prep[arati] a 65. mezz'oncia, garofoli n. 12 incirca[,] si facci polvere per usar ne casi più ardui, avertasi che li incarna a meraviglia, ed è rimedio sicurissimo. Diabete o sia flusso d'orina Opio torrefatto tanto, che non sia più capace di far dormire, fatto in polve si unisce con egual porzione d'ocrea di Marte 66, la dose grani 5 in 6 per sorte[,] 3 o 4 volte il dì in brodo di tormentilla. 63 Giusquiamo (latino tardo iusquiamus o hyoschyamus, da uomeúcqlog, fava porcina, comp. da vg-még, porco, e icùaptcq, fava), pianta erbacea delle Solanacee. In medicina si usa come antispasmodico, sedativo e analgesico: da ricorrervi "con parsimonia" (Tramater, sub voce). " Cremore (estratto di una sostanza) di tartaro, nome comune del tartaro acido di potassio. Si forma nelle grume delle botti. In medicina, ad uso interno, serve come lieve lassativo. 65 Abbreviazione di "ana" (da avec, in senso distributivo): parità di dosi per più componenti indicati nella ricetta. 66 Ocra (ant. òcrea, raro òcria), una delle tante varietà terrose, unita a differenti minerali. Quella di Marte è ferrosa (Tramater, sub voce "Marte"). Non posso trascurare in questo caso di dar notizia ad ognuno delle due vere e legitime tinture di coralo, diverse nelle operazioni, secondo diverse sono le manipolazioni d'esse. La prima coroborante di tutte le parti del corpo e confortativi in sommo di tutti gli spiriti ne casi più ardui, e di diabete e di flussi, e di qual sia d'altro simile. La seconda incisiva in tutte le viscidità che siino fino nell'ultime nutrizioni, e per apoplesie e vertigini, e scorbuto, e effetti ipocondriaci disperati, e mancanze di mestrui e flussi albi, e casi simili l'arte di fabricarle si è di prepararsi il mestruo, che è il solo spirito di tartaro solubile[,] fatto all'uso zuelferiano, e rettificato, se con questo si digerirà il corallo crudo qual è lo scioglie, e ne cava il solfo qual potrà ridotto in estratto cavarsi con altro qual si sia spirito a proprio beneplacito, o lasciarla nel detto spirito. La seconda è di calcinar il corallo nelle fornaci de vetrari e lasciarcelo per 2 o 3 giorni, che così da bianco, che si fa nel fuoco, ritorna rubicondissimo e spongioso[,] si trituri ed a poco a poco ci si infonda lo spirito sopra segnato, e si caverà perfettissima e odorifera tintura senza passarla in altro liquore. Già che del corallo si discorre[,] mi resta da palesare una esperienza fatta e rifatta da me di ridurlo tutto qual è in acqua rubicondissima senza l'unione del mestruo, ed è di far in acqua un po' più fluida il mercurio d'antimonio cavato dal regolo marziale, quale vien descritto dal Becchero 67; e distillata più volte, e sempre senza unione di cosa alcuna, dett'acqua, posta in debita quantità su coralli gli scioglie in acqua rubiconda, e gli scioglie in tutto il suo peso, e l'acqua di mercurio sta sul fondo del vaso, e si può separare con cautella d'imbutto, essendo la dett'acqua sempre la stessa, e sempre capace a scioglier nuovi coralli, se quest'acqua poi di coralli possi servir nella medicina lo lascio sperimentar ad altri curiosi, desideroso io di tentar qualch'altro esperimento di maggior importanza. 67 Italianizzazione di Johann Joachim Becher (Spira, 1635 - Londra, 1682), professore di medicina a Magonza, Monaco ed Haarlem. Si rifece a Paracelso per la dottrina sulla costituzione della materia. Dei suoi scritti rammento le Theses chimici. Diamanti nuvolosi chiarificare Si sepellischi il diamante nella polve di carbon di frassino in duoi crogioli legati, e a fuoco di secondo grado si mantenghi per due ore, si leva dal fuoco, si lascia rafredare[,] poi si cava e si polisca. All'Emicrania simpatico Lo sterco di pavone maschio con canfora applicato alle tempia è sicurissimo. Epilepsia o sia mal caducco de fanciulli Cinabbro 68 nativo mezz'onzia, coralli rossi scrup. 2 69, zafrano scrup. 1, si facci in polvere, la dose è un denaro nell'accessione mescolato con polpa di pomo cotto. La sopra segnata tintura di corallo dopo li debiti universali è sicurissima. 68 Cinabro (latino cinnabaris da Ktvvetflapt, tintura rossa), in mineralogia è il solfuro di mercurio. Quello puro, o nativo, è rosso vermiglio. 69 Scrupolo (latino scrupulus e varianti, sassolino, da scruptus, sasso), come misura di peso è 1/24 di oncia (come il denaro). Così ad ogni età dopo l'uso de debiti vomitori purganti e diaforetici si adoperi per specifico la secondina 70 di cavalla, adattata a sessi, si polverizi dopo averla fatta debitamente seccare e si dia in 9 prese a luna calante, ed è remedio certo. Erisipelle 71 o fuoco sacro Una pezza di lino inzuppata in sangue di lepre stancata in longa caccia da cani, ed ucciso verso la fine di giugno o principio di luglio, si conserva per applicarla a lochi ofesi bagnandola primo d'usarla in acqua di fonte, e sana immediatamente. Altro per difendersi dalle Eresipelle Un nodo della pianta maestra del sambuco di quattro rami portato adosso vien depredicato per sicurissimo. Febbri pestilenziali Cristallo minerale prep. onc. mezza[,] canfora drama una[,] se ne facci polvere e si divida in 4 parti da prendersene una ogni sei ore in brodo di scordion 72 o simile. 70 L'insieme degli annessi fetali espulsi al termine del parto. 71 Erisipela (o eresipela e varianti; antic. erisipele, latino tardo erysipelas, infiammazione della pelle). 72 Scordio o scòrdeo, scordeon (latino scordium da axópStov), teucrio, erba aglio (Teucrium scordium), astringente e conservante: tra l'altro si usava per impedire la putrefazione dei cadaveri. La putrefazione dei cadaveri era ritenuta una delle possibili cause di peste (Arluno, 8). Febbri intermittenti col freddo Fiori di centaurea minore 73, alume crudo, cocole di cipresso una drama per sorte, opio torrefatto, otto grani[,] si unisce il tutto assieme e se ne fanno 4 parti eguali, dandone una nell'accesso della febbre, e ponendosi in letto, così replicando l'altre se il bisogno porterà, avvertasi però di non usarla mai se non dopo purgato il corpo, ed ognuno si accerti che è rimedio approvatissimo. Ferite de' nervi La polvere de lombrichi seccati applicata, sana presto senza pericolo. Fiato puzzolente emmendare Masticata la zedoaria infusa primo nello spirito di rosmarino dopo l'uso dell'oximel scilitico è sicurissimo, quando il difetto venghi dallo stomaco venendo poi dalla bocca per denti guasti, si levino, per piaghe si medichino, e vedrasi la sanitade. Unguento da Fuoco Olio sambucino 74 e chiara d'ovi battuti assieme, e fattone unguento è precioso a tal'effetto. 73 Pianta delle Genzianacee (Centaurium umbellatum), è detta biondella perché usata per schiarire i capelli (Mattioli, I, 407), ma anche "erba delle febbri" (Tommaseo, sub voce). Così chiamata (latino centaurea da icevtaúpetov), perché la usò il centauro Chitone per curare una sua ferita. 74 O sambuchino, olio ricavato dal sambuco, usato tra l'altro contro i dolori nevritici (Bencivenni, 7, 54). Altro per scotature di polvere, solfo e cose simili Calce sfiorata da per sé in luoco umido, si unischi con acqua di fior di sambuco facendone finimento da applicarsi alla parte offesa più presto che si può è di tutta esperienza, vero rimedio per l'armate e per abbruggiati da mine scoppiate, e simili. Alla Gonorea rimedio approvatissimo Cremor di tartaro mezz'oncia[,] occhi di granci veri preparati, osso di seppia prepar. dram. una per sorte, canfora e diagridio 75 due danari per cadauno, si facci del tutto polvere e si unischi e si separi in sei prese o al più otto secondo le forze dell'amalato[;] da prendersene una per mattina, e dopo queste il balsamo di copajue per 10 o 15 dì in dose di 8 o 15 goccie in emulsione di seme di canape, amandole e papaveri bianchi (l'ipequaquana). A dolori della Gotta Si distillino le cervella di vitello per cenere, e l'acqua che n'esce si applichi al loco doloroso tepida, e acquieta meravigliosamente il dolore. Così vale anche a dolori delle dislocature delle contusioni de nervi, e altre parti dolorose. Per smagrire un Grasso senza detrimento veruno La polve delle lucerte pria scorticate e nette, presa in dose d'un denaro per mattina a proprio beneplacito. 75 Preparato farmaceutico a base di scamonea polverizzata. Alle Moroidi anello simpatico Regolo stellato fatto senza sali onc. 1, mercurio congelato, con l'odor di saturno 76 mezz'oncia, si sonda il regolo, s'unischi il mercurio e se ne gettino anelli da portargli nel dito auriculare della mano sinistra. Altro La folia di fabbaria 77 applicata allo stomaco[,] cioè su la mucronata 78 sana; così fa applicato alla parte l'unguento di linaria o il succo di scrofolaria 79 montana nutrito con l'olio sambucino o grasso di ranno 80. All'Hidropisia d'acqua Dopo li debiti purganti si prenda per 10 o 15 giorni mezzo scropolo fino ad uno di polve di rospi seccati in forno ed è rimedio esperimentato. 76 Preparato farmaceutico a base di sali di piombo. 77 Favària o fabària è il sedo, la fava grossa (fava grassa, Mattioli, 352) o fava inversa. Chiamata popolarmente fava di san Giovanni, perché fiorisce al tempo della sua festa liturgica (27 dicembre). 78 Apofisi tifoidea, parte inferiore dello sterno. Inizialmente cartilaginea (cartilagine mucronata), si ossifica in età matura (latino mucro -onis, pugnale). 79 Linaria, pianta delle Scrofulariacee somigliante al lino. Il succo era usato contro le infiammazioni degli occhi, e l'erba stessa e il suo succo servivano a curare le fistole e i carcinomi. Scrofularia, antic. scrofolaria, pianta delle Scrofulariacee, ritenuta importante contro le scrofole (tubercolosi delle ghiandole linfatiche) e contro le emorroidi (Mattioli, 570). 80 Liquido che trasuda dalle olive nel frantoio non ancora sottoposte a spremitura. All'Iterizia o sia gialore Si inghiotta sopra d'un uovo sorbile un cimice vivo, replicandolo 2 o 3.volte ed è sicuro, così l'orina dell'infermo su la cenere del frassino, la detta orina su le fecci del mullo 81, così il rimedio del Lanzoni 82 dello scorzo d'ovo ed urina e altri simpatici tutti facili e sicuri. Latte per moltiplicare La polvere de lombrichi seccati in forno, e data nelle minestre o ne uovi in dose di mezza drama incirca è rimedio certissimo. Latte per farlo perdere Succo di cicuta caldo applicato alle mamelle con pezza di lino dupplicata; si replichi 3 o 4 volte, e lo fa senza alcun danno. Latte acquagliato nelle mamelle Succo o decotto o empiastro di menta applicato caldo due volte il giorno fa l'effetto. Così (e anche meglio) il succo di brionia, o sua decozione. 81 Mulo. 82 Giuseppe Lanzoni (Ferrara, 1665 - 1730), medico. Latte virginale composto Storace, belgioino a. onz. 2, borace min. dram. 1, garofoli num. 4[,] si digerisce in spirito di vino lib. [?], si cola e si serve d'esso a tener bianche le carni, gettatane 10 o 12 goccie in un cucchiaro d'acqua, e con quella bagnarsi. Macchie del volto levarsi e far le carni morbidissime Si tagliano per metà l'ova intostateU se le leva il torlo ed in sua vece s'empiono le cavità della seguente mistura. Trementina onc. 6, belgioino, mira, spermaceti a. oncia 1, di nuovo empiuti si legano e per b. m. si distilla tutto ciò che può distillarsi, e l'acqua che uscirà spiritosa e chiara è una delle più eccellenti che possino adoperarsi, avvertasi però d'usarla solo la sera, ungendone il volto e dove altro si vuole[,] poi la mattina lavarsi con la molica di pane fresco, e vedrasi il gran bene che ne fa. Al Morbo gallico decotto universale Dopo li debiti purganti si usi il seguente decotto. Rasura di sassafras 83 oncia una, smilace aspra 84, poli-podio quercino 85 a. oncie due, argento vivo ben purga to oncie quattro[,] si pone il tutto in acqua comune lib. dodeci, e in vaso di terra si fa bollire per 4 o 5 ore, poi si cola, e d'esso sen beve due volte al giorno, sei o vero otto onc. per volta secondo la complessione e quantità del male[,] per 15 o 20 dì[,] al più 30 o 40. Avverto al cortese leggitore che all'estirpazione intiera di questo pessimo morbo ho una medicina impareggiabile mercuriale, che non opera mai per salivazione né per seccesso, né per vomito, e pur con essa ho sanati li più disperati morbi che in caso tale possono darsi. Non paleso per ora la forma di fabricarla, perché fin che vivo voglio io tutto l'onore di servirvi, temendo non sii in altre mani per fabbricarsi da tutti con sicurezza e fedeltà. 83 Sassafrasso o sassofrasso (antic. sassafras), pianta delle Lauracee (Laurus sassafras), originaria dell'America. 84 Pianta delle Gigliacee (Smilax aspera), Volgarmente detta vilucchio-ne. 85 Polipodio dolce o quercino (Polypodium vulgare), delle Felci Polipodiacee, detto felce o radice degli alberi (Bencivenni, 7, 25) perché dirama le radici sui muri o sulle cortecce arboree (da no?ance•Stov, comp. da nokk molto, e no•6g, noSóg, radice). Mestrui provocare Si prenda per mezzo d'un imbutto alle parti naturali 2 volte al dì il fumo del decotto delle scorie d'antimonio dalla fabrica del regolo comune, e ciò per 3 o 4 giorni avanti il tempo stabilito. Opera in questi casi anche a meraviglia la tintura di Marte sopra scritta, e la seconda delle due tinture di corallo pur scritta di sopra. Memoria moltiplicare Seme d'ortica onc. 6, olio com. onc. 3 [,] si pestano li semi[,] s'uniscano all'olio e per b. m. si digerisca per 2 o 3 dì, poi per cenere si distilla e d'esso sen onge la nucca due volte la settimana. A mottivo di giovar a studenti, vo' palesar il maggior de Secreti che io possegga per la memoria ed è la seguente tintura o sia elixir, da usarsi però solo ne pituitosi, o siano umidi, che ne biliosi e addusti ci vol attenzione. Formiche raccolte co' foli di carta intinta di mele oncie quattro, canella, satijrion polposo 86, anacardi 87 a. onc. 1, cubebe 88, macis 89, garofoli, a. onc. mezza. Ameos 90, dauco 91, spico nardo 92, semi di rucchetta, di portulaca, d'urtica e di finocchio, foglie di petroscelino macedonico 93 a. dra. due[,] melissa, salvia, rucchetta a. man 94. duoi, vino bianco generoso libre 20, si digerisce per due giorni in lambico di rame ben stagnato, poi a foco gagliardo si distilla, lo spirito che distillò si cola sopra robba nuova 95, e dieci libbre di nuovo vino, e ciò che distilla la seconda volta di nuovo per la terza si replica, in ultimo si macina uno scropolo d'ambra grisa e mezza di muschio orientale con una mezz'oncia di zuccaro candito e ben macinato[,] si pone in detto spirito usando di quello per trenta o quaranta dì[,] mattina e sera[,] un quarto d'oncia per volta dopo d'aver fatta un esata purga coi tartarizati, si viva a regolata dieta né si ecceda in niuna delle cose non naturali. 86 Satirio o satirion (latino satyrion -onis da aatí)plov, che rimanda a csecrupog), pianta delle Gigliacee e Orchidacee, con proprietà afrodisiache. 87 Anacardo o anacardio (Anacardium occidentale), pianta e frutto a forma di cuore (da avax6p8tov, simile al cuore) delle Anacardiacee. 88 Cùcube, rampicante e frutto delle Piperacee, d'origine araba. In medicina era usato come diuretico. 89 Droga aromatica preparata con la noce moscata. 90 Forse, ammi o ammio, erbacea delle Ombrellifere, usata per í condimenti ma anche in medicina per vari scopi, ad esempio come diuretico (Plinio, II, 64). 91 Detta anche pastinaca (latino daucun o daucus, carota), pianta delle Ombrellifere dai semi odorosi (Mattioli, 422). 92 Spigonardo (con varianti) o nardo indico (Nardostachys iatamansi), molto usato anche come diuretico. Sembra che, per rafforzare la memoria, giovi orinare molto. 93 Petroselino o petrosellino, petrosilino, pretrosillino, termine antico per prezzemolo (Petroselinum hortense), così chiamato (latino petroselinum da nEtpocra,tvov, comp. da rckpa, pietra, e aatvov, sedano) perché nasce dalle pietre in Macedonia (Mattioli, 417). Anch'esso ha proprietà diuretiche (Dizionario di sanità, IV, 52). 94 Manipolo: in farmacopea, misura di peso equivalente a 50 grammi per i semi e le farine e a 15 per le erbe. 95 "sopra un panno pulito". Morsicatura di cani rabiosi Le frondi della cinoglosa 96 pestate con assongia di porco e applicate più presto che si può [i sana, in tanto si usi interno il balsamo di sale o le poveri di gran-ci[,] avertendo che il veleno del can rabbioso scioglie il sangue, non lo coagula. Morsicature delle vipere Succedendo la disgrazia della morsicatura[,] si prendano più presto che si può delle laminette di ferro in numero di 4 o 6 e fatte rosse nel fuoco con le molette se ne tenga una poco discosto dall'offesa, di modo che scotti, e si levi la vescica, si replichi con l'altra, spezzando le vesciche che di mano in mano si van facendo, fin che si vede che non cola più una cert'acqua verde e giala, che sono le linfe della parte ed il sangue sciolto dall'alkealico 97 volatile del veleno, si medichi poscia come se fosse scottatura ed in tanto interamente si beva buon vin generoso con entro lo scordion o le foglie di frassino o qualsisia d'altro bezoartico 98 od alexifarmaco 99 fortificato dallo spirito di sale. 96 Cinoglossa o cinoglosso, pianta delle Borracinacee, detta "lingua canina" (latino cynoglossos da Kuvóy?aoaaog, comp. da id)ov, leuvég, cane, e yXWcaa, lingua), "erba della madonna", "erba vellutina" e, come per varie erbe venefiche, "pisciacane" (Tramater, sub voce). In farmacopea era composta con l'oppio (Tommaseo, sub voce). 97 Forse, si deve leggere "alchilico". 98 Composto farmaceutico del bezoàr (latino medioevale bezoar, dall'arabo bdzar e persiano pddzahr, pietra contro il veleno), concrezione che si forma nell'apparato digerente dei ruminanti e che costituiva nella medicina popolare un potente antiveleno. Altrettanto, pianta (Dorstenia contrayerva) delle Moracee, originaria dell'America centrale, la cui radice è un antidoto contro il veleno dei serpenti. La variante lessicologica è belzuar, o benzuar, con incrocio di "bello" e di "bene", tanto era ben vista e apprezzata questa sostanza, in epoche in cui il morso dei serpenti velenosi normalmente uccideva. 99 Alessifarmaco (latino alexipbarmacon da aik.egtcpécpptalcov, comp. da écXg-tg, protezione, e (pécpgalcov, farmaco), antidoto. All'Odorato perduto Se il male è sul principio[,] si sana coll'odorar spesso l'oglio distillato di menta, di maggiorana, di noce moscata uniti assieme con sal volatile d'Inghilterra 100 in un vasetto ben oturato. Acqua per mal d'Occhi Vino bianco una carafa, tuzia 101 preparata mezz'onza[,] verderame due drame, uova toste tagliate in fette sottili con lo scorzo n. 3, si facci infusione al sole per un mese, si coli e si aggiongi canfora raduta drame una, e si conservi per ogni mal d'occhi. Ardor d'Orina Polve d'ossi d'olive mature, presa in dose d'una drama in un cucchiaro di vino o brodo, in tre o quattro mattine è sicurissimo. 100 Detto anche sale amaro, è un purgante (Tommaseo, sub voce). 101 Tuzia, ossia zinco. Alla dificultà d'Orina La gomma bdelio 102 data in dose d'un denaro è sicurissimo, assicuratevene adunque ed all'occasione adoperatelo. Orina rittenere a chi piasciasse a letto involontariamente La polve de sorci seccati in forno o de rizzi 103 data in dose d'una drama la sera avanti l'ora del sonno e replicata per varie volte è cosa sperimentatissima. Alla Paralesia 104 Il decotto della radica d'agrimonia 105 preso caldo tutte le mattine per trenta o quaranta giorni; in tanto applicare esterno il decotto di tabacco fatto nel vino alla radice de nervi ed alla parte più tremante. 102 Bdellio (latino bdellium da 13&?kItov), arbusto, e sua resina, delle Bursaracee. La resina è usata in farmacia per preparare impiastri ed emulsioni. Era chiamata anche broco, malaca, maldaco (Plinio, I, 1152). Alcuni ritengono che tale fosse la "manna" del deserto, mangiata dagli ebrei. 103 Variante linguistica di "riccio". 104 Una delle varianti linguistiche di parlesia, cioè epilessia. 105 Pianta delle Rosacee (Agrimonia eupatoria, latino argemonia da apyei.tówn, papavero selvatico). Con il suo frutto si componeva un antidiarroico. A facilitar il Parto E’ sicuro ed esperimentato il fegato d'un anguilla fatto in polve dopo d'averlo seccato in forno senza che ab-brugi, e dato tutto dopo la rotta dell'acque, avertasi che non dura più d'uno in due mesi, che si corrompe, sì che converebbe preparargli pochi dì avanti il bisogno. Pastiglia odorata eccellente Noce moscata, garofoli, storace in lacrima oncie 1 per sorte, polve di fiori di lavandola, di maggiorana a. mezz'oncia, Balsamo del Perù due drame, farina d'amito onc. 2, dragante 106 sciolto in acqua di fior di cedro q. b. se ne faci una pastiglia, che seccatasi può ongere con qualche olio d'odori e conservarla. Levar Pelli con sicurezza Rospi vivi nel solleone num. 4 si coprono in una pignata con sale decrepitato per 20 dì, dopo per b.m. in lambico di vetro si distilli, e l'acqua che ne uscirà si usi con sicurezza. Amuletto sicurissimo contro la Peste Polvere di rospi battuti prima vivi al solleone, che gettino nelle patelle di cera li vermi verdi, e unito il tutto con la metà di succino 107 e dragante disciolto si compongono amuletti, alla quale [polvere] secondo l'autorità del Tenzelio 108 unite le limature de quattro in-perfetti metalli; e fattane pasta alla grossezza d'un amandolo[,] da portarsi alla parte del peto[,] difendono (permitente Deo) da ogni mal contaggioso. Di questi me ne trovo in quantità pronti a comandi dell'amato legitore, per conservazione d'ognuno Alla Pleuritide o sia mal di costa Prendi polve da schioppo 2 drame o 3, al più mezz'oncia secondo le forze dell'amalato, vin bianco generoso una libra, e tutta l'orina d'una volta del paziente, si fa scaldar un poco, e distemperata la polvere se ne fa un cristiere, e si replica un'altra volta da lì a quattro ore incirca. In tanto s'applichi esterno su la parte ove duole il seguente empiastro. Calcina viva oncie 2, mel vergine onc. 4, posto sopra foglio di carta luccida. Polipo del naso Si tirri a d'uso di tabacco la polve di sabina, e sola da per sé basta a disseccarlo o sanarlo a fatto. Poluzioni notturne L’emulsione di semi di canape e papavere bianco fatta col gello 109 di cotogni e brodo di tormentilla è ri medio assodato da replicatissime esperienze[,] in tanto alle reni un empiastro corroborante. 106 Dragante o adagrante, gomma resinosa. Tutto ciò, "quanto basti" (abbreviazione, "q. b."). 107 Sùccino: ambra. 108 Tenzel Andreas, medico tedesco del sec. XVII. 109 Gelo, nel significato antico e letterario di gelatina. Alla Raucedine Si facci bollir in acqua la semola di grano, la liquirizia, iuiube 110 e dattili e fichi secchi, e di questa colata, e si gargarizzi, e ne beva. Reuma inveterato alla testa Si facci fumo d'incenso e bacche di ginepro e si ricevi a bocca aperta ed a capo ben coperto. Rotture intestinali Si prendano da trenta lucerte vive e si pongano in due libre d'olio d'ulivo, lasciandole al sole tutto il mese di luglio ed agosto, poi si cola, e caldo di applica col suo cinto. Sputo di sangue quantunque venisse da polmoni Rane verdi così vive si pongano in una pignata di terra in forno ben caldo a seccare in polve di cui se ne dà una drama in sciropo di papaveri replicandole anche due volte il dì finché cessi lo sputo, ed assicurasi che è rimedio impareggiabile. Le peli delle rane di fiume scorticate la luna di maggio, fatte in polvere sono un grand'arcano per lo sbocco di sangue, a chi le sa usare. 110 'm O iuiuba, giuggiola (arabo jujuba). Alle Scrofole aperte Si prendano sei o vero otto ragani verdi grossi, si ponghino nell'olio d'ulivo a farli morire a foco legero, poi a poco a poco s'aumenti il foco facendolo bollir alla gagliarda, in fine si attacchi il foco nell'olio ed abbruggi il tutto, quando sarà ridotto ogni cosa in cenere si macini, e si conservi per coprir di questa polve le scrofole aperte, e sopra ponervi una pezza duplicata inzuppata in liscivia gagliarda, e si replichi finché cadano tutte le radiche per proprietà e virtù della sopra detta polvere, all'ora si usi il solo ceroto di cerusa 111 o di minio, e guariscono ottimamente. Singiozzo Due o tre goccie d'essenza di spico in un uovo fresco si beva, e sana. Settole nelle mamelle e fissure de labri Olio mastici onc. 2[,] incenso in polve onc. mezza [,] cera bianca q. b.[,] cuoci in scorzo di citrine, ed è unguento preciosissimo. 111 Antic. per cerussa, biacca. Come il minio, non si usava solo in cosmetica, ma anche in medicina, come disinfettante (Mattioli, 687). Fermar lo Starnuto Latte tepido tirato su per il naso è sicurissimo. Stagnar il Sangue del naso La terra dolce di vitriolo tirata per le narici fa sicuro l'effetto, così fa il succo di fimo asinino o la polve del mede [s] mo. Sordità Prendasi l'ova di formiche e pestare con assongia d'anguille si applichi, così lo spirito di formiche, così il fumo di solfo preso alla parte con un inbatto. Levar lo stridor allo Stagno Si calcini per mezzo della fusione senza aggionta alcuna, calcinato si macini con sal decrepitato, poi si lavi con acqua calda, si asciughi, e con borace si riduchi, e sarà duro, sonoro, senza stridore, senza puzza, e bianchissimo. Saponetto odorifero Sapon mol[l]e lib. 1[,] succo di limoni onc. 2, si battono assieme e si lasci asciugar, dopo si agi[u]nghi olio di tartaro on. 3 E,] olio di belgioino mezza onc. bals. bianco una drama, e se agradisce ci si può anche metter muschio o ambra, all'or si conserva per lavar le macchie ed imbiancar le carni e fuggar macchie leggeri. Tigna Vale sopra tutti l'essenza di solfo applicata dopo gli emoglienti, così l'olio di tartaro on. 1 e laurino onc. 2 applicati varie volte. Vaiolo All'ora che sono scopiate si ongino subito con olio di amandole dolci, indi si coprono con fogli d'oro di zecchino replicandolo 2 volte il dì per 3 o 4 giorni, che non lasciano segno veruno, e questo a causa dell'impedir che si fa l'irruzion dell'aria. Al Vomito violento Si cuocino li cotogni nell'acetto fortissimo, si pestano e vi si aggionga seme di senapa e polvere di garofoli un poco per sorte, e se ne facci empiastro che si applichi caldo alla bocca dello stomaco. A Vermini sì ne' fanciulli, come in ognun d'altri Sopra quanti medicamenti si possino fabricare egl'è valevole l'ettiope minerale, che si fabrica macinando un oncia e mezza di fior di solfo con un oncia d'argento vivo in un mortaro di pietra[,] fino che sii fatto il tutto in polvere negrissima la dosa, e mezzo danaro fino a uno, o in polpa di pomo cotto o qualche conserva. All'Uscir della vagina dell'utero Que calli che si ritrovano alle gambe de cavalli intieri si legano con uno spago e se ne pone uno nel collo rilasciato, legando il capo dello spago alla coscia, e sana. Alle Volatiche L’olio di frumento applicato due o tre volte il dì è mirabile. Eccoci gionti al fine dell'Alfabeto, e con questo terminato l'assunto anche di questo terzo punto a che difender m'ho promesso, cioè della cognizione che ha quest'arte di remedi sicuri, s'acerti però V. S. Illustrissima e chiunque legerà questo mio, che avrei potuto scrivere d'altri altissimi segreti sì farmaceutico chimici, medico chirurgici, come anche mettalici e simpatici, ma il genio di non mi diffonder troppo m'ha fatto frenar il volo e chiuder le piumme[,] sì per non attediarla d'avvantaggio, come perché abbastanza resta provato l'assunto. S'escludi adunque oramai tutto ciò che non è stima di quest'arte dalla di lei mente e rissolva di vedermici di buon occhio, specialmente che mi vanto d'esercitarla con onore e decoro al pari di quanti altri la pretendono: la sperienza glie ne dà attestati che bastano, onde conoscendo superflua ogn'altra espressione dessisto dallo scrivere; ma non già dal dedicarmi qual mi vanto e protesto. Di V. S. Illustriss. Humiliss. Devot. Obblig. Scrittore L'Anonimo Postfazione di Gabriella Cattaneo Medici (e dintorni) nell'iconografia del tempo Nel '700 molti generi pittorici giunsero in Italia dalle Fiandre, percorrendo il consueto cammino che passava per Venezia e che già aveva condotto nell'arte italiana la tecnica dell'olio, l'uso della tela e delle lenti ottiche. Tra le molte tipologie della pittura di genere è tra le più note anche ai nostri giorni quella che rappresenta la vita quotidiana, senza distinzione di livello sociale, scendendo, quindi, anche fra le piazze anguste, le vie buie e le case scrostate della plebe. Maestro indiscusso del genere è il veneto Longhi, ben noto grazie anche alla quantità di quadretti da lui dipinti e sparsi oggi tra palazzi e musei di tutta Europa. Nelle piazze, anzi nei campielli veneziani del suo Settecento non mancano imbonitori di ogni specie, come il famoso esibitore della Mostra del rinoceronte: non dissimile come impostazione sono i due famosi Cavadenti, che appartengono a buon diritto alla stirpe dei medicisaltimbanchi del tempo. Il cavadenti vero e proprio è quello issato sopra un tavolato, evidentemente palco della sua pubblicità, scena del suo spettacolo e gabinetto della sua arte: sta agitando il dente sconfitto come vessillo della sua faticosa (anche a livello muscolare, possiamo immaginare) vittoria e richiamo per altri potenziali clienti, mentre la vittima siede con aria afflitta ai suoi piedi, sul tavolato medesimo, piuttosto ignorata dalla folla curiosa che assiste allo spettacolo. La sofferenza del poveretto è evidenziata dal suo portamento rattrappito e dal fazzolettone con cui comprime la guancia offesa; ma solo il pittore sembra accorgersi di lui, mentre un vario campione di popolazione testimonia l'interesse spettacolare dell'operazione. Non vi sono, infatti, solo popolane in sottana corta (si intende alle caviglie, per permettere di lavorare) e scialle sulla testa e sulle spalle, poveri diavoli deformi come la nana in primo piano; ben due coppie di nobili si aggirano in un ambiente che non è il loro, come si desume dai muri scrostati della via, e perciò sono rigorosamente mascherati con la veneziana bautta bianca dal velo nero, che non nasconde la stoffa pregiata, il modello esclusivo e la foggia aristocratica delle vesti. E lui, il cavadenti? qual è il suo rango sociale? piccolo borghese, si desume, sempre dall'abbigliamento: la giubba c'è, ma senza tanti fronzoli e di monocromo tessuto grigiastro. Evidentemente ci tiene a presentarsi decentemente al suo pubblico e la sua professione gli fornisce mezzi bastanti, ma non sufficienti per un abbigliamento più ricco e spettacolare... Ma il cavadenti più celebre del Longhi, indicato anche con il titolo Il farmacista, è quello che i meno giovani di noi hanno contemplato per decenni sulle confezioni di un diffuso dentifricio: quello, decisamente arriso da un maggior successo, che tiene spettacolo all'interno di una bottega, fornita di tutto l'arredamento di una spezieria, non in abiti civili, ma rivestito di una palandrana che, se non fosse di un bel giallo brillante, potrebbe apparire più ippocratea e di un copricapo stranamente simile a un berretto da notte. La collocazione in interni non limita il suo pubblico, né la sua gestualità è meno teatrale o imbonitrice di quella del suo meno "arrivato" collega. Anch'egli incombe sulla cliente-vittima, anch'egli è circondato da un variopinto gruppo di differenti ceti sociali: ce lo immaginiamo in procinto, appena terminata la difficile operazione, di levare alto il suo trofeo dentario... È lecito chiedersi il parere del pittore sui suoi soggetti? Non troppo, perché il Longhi è pittore che descrive per curiosità, senza impegnarsi in diagnosi o giudizi sociali. Non sfugge, però, una certa ironia nel sottolineare la teatralità dei guaritori e la grama condizione dei clienti, più sfruttati che beneficati da loro... e non pare che il pittore si metterebbe volentieri nelle loro mani. Forse si fiderebbe di più il suo contemporaneo Traversi del medico, o del chirurgo (e c'è da chiedersi se chirurgo-medico o chirurgo-barbiere, all'epoca...) che sta esaminando con fiero cipiglio, o forse con sguardo miope, la piaga del Ferito, sofferente e consolato da una dolce fanciulla, tra sguardi rassegnati di vecchietti che assistono allo "spettacolo". C'è anche lo spettatore distratto, o inorridito, che, all'estrema sinistra del dipinto, guarda dall'altra parte. Non ci è dato sapere se lo spettacolo si svolge in piazza o se è domestico, vista l'assenza di una prospettiva identificabile; certo di spettacolo si tratta, vista la mise del medico, imparruccato, con cravatta e polsini, e l'indiscreta posizione della ferita, decisamente dislocata nelle parti posteriori della vittima, così da far sospettare che sia stata inflitta in una postura che denota poco coraggio ín qualche tenzone... Vorremmo fare un confronto tra queste vivaci immagini, non troppo rispettose della solennità della professione ippocratea, e le celebri rappresentazioni secentesche di Rembrandt delle Lezione di anatomia del professor Tulp e Lezione di anatomia del dottor Deyman, ambientata nel mondo accademico e trattata con l'austerità cromatica e con la gravità di atteggiamenti che la professione medica ufficiale esigeva. Cupamente vestiti di nero, con i colletti bianchi, come la divisa professionale richiedeva, tanto lontana dal vistoso abbigliamento del medico-saltimbanco del secolo seguente, nel primo dipinto i dottori assistono alla dissezione operata dal più venerabile tra loro: l'arte celebra la liberizzazione legale della dissezione mostrandoci non studenti relativamente giovani, ma professionisti già maturi che, diremmo oggi, si aggiornano sulle nuove tecniche. L'attenzione psicologica con cui il pittore mostra i diversi atteggiamenti, quali attenti, quali incuriositi, quali distratti o poco convinti, sembra riflettere le polemiche che serpeggiavano nell'ambiente accademico circa la nuova medicina "empirica", osteggiata dai tradizionalisti aristotelici, e testimonia comunque un approccio solenne ad una "arte" appartenente a una ristretta cerchia di "iniziati" , che mai si degnerebbero di scendere nelle piazze a dare spettacolo, ma forse neanche a curare, in qualsiasi modo, i poveri diavoli... Nella seconda opera, di cui ci resta solo il frammento centrale con il cadavere, le mani con il bisturi e la fi, gura altrettanto solenne di un assistente, l'attenzione del pittore sembra realisticamente concentrata sul raccapricciante effetto della dissezione: l'addome svuotato, il bisturi che incide il cranio... Sono, quelle di Rembrandt, visioni solenni e drammatiche della professione medica privilegiata e accademica, agli antipodi dell'allegro spettacolo fornito alla folla dai medici saltimbanchi del secolo seguente.