...

leggi/scarica l`intero libro

by user

on
Category: Documents
22

views

Report

Comments

Transcript

leggi/scarica l`intero libro
Avvertenza sulla trascrizione
La trascrizione del testo è fedele all'originale. Pertanto, anche le differenze ortografiche dell'edizione originale non
sono da ritenere errori di battitura. Correzioni di palesi errori di stampa sono segnalati in nota. I rari interventi di
rettifica sono indicati con parentesi quadre.
Ho operato solo qualche modifica, senza sconvolgere la scrittura settecentesca: nell'alleggerire l'uso delle virgole;
nella iniziale minuscola in luogo della maiuscola dei nomi comuni e degli aggettivi; nell'accentazione di alcune
parole (ad esempio, "o", "sa", "fa", "sta", "su", "qui"), adeguandola all'ortografia attuale.
F. d. C.
Prefazione
di Francesco di Ciaccia
La medicina alternativa e popolare ebbe un esponente di gran prestigio in Bonafede Vitali, che
ha pubblicato le sue opere come "Anonimo". Lo illustra con la consueta perizia Giorgio
Cosmacini, introducendone un prezioso scritto e togliendolo dall'anonimato dei libri giacenti nei
pur benemeriti scaffali antichi delle biblioteche.
Il Vitali è un validissimo medico, che però ha scelto la metodologia popolare di approccio con il
pubblico: quella del "medico di piazza", detto spregiativamente saltimbanco.
A chi è avvezzo alla storia del cristianesimo viene da paragonarlo, per la metodologia della
comunicazione, al "giullare" d'Assisi: Francesco "a volte raccattava da terra un pezzo di legno, lo
posava sul braccio sinistro, prendeva nella destra un altro bastoncino, ve lo posava sopra a
modo dell'archetto di una viola o d'altro strumento, facendo gesti appropriati, e così
accompagnava, cantandole in francese, le lodi di Dio" (Specchio di perfezione, 93). Era una
forma innovativa di predicazione. E la nuova forma di omelia sulla natività di Cristo fu la
"messa in scena" di Greccio: il "presepe vivente". Il paragone non è forzato. Di fatto, i medici
"pratici", che salivano sui banchi in piazza per comunicare con il pubblico anche mediante
qualche espediente teatrale, facevano "spettacolo".
Ma il problema delle scelte metodologiche pone quello della libertà individuale. È la prima
riflessione del Vitali: il quale si rivela anche un buon filosofo. Egli ripropone la dottrina
"umanistica" di Epitteto: il mondo è come una 'rappresentazione teatrale; ad ognuno la vita
assegna un ruolo, un ruolo che si fonda sulle attitudini ed inclinazioni personali. È sufficiente
che ciascuno segua ciò cui si sente chiamato, per mettere a frutto i propri talenti a beneficio di sé
e dei propri simili.
È notevole, nei primi anni del Settecento, una simile concezione di libertà, dopo tanti secoli in
cui le vocazioni degli individui erano imprigionate entro rigidi schemi di ordine sociale e morale.
Anche la scelta professionale del Vitali poggia sulla filosofia di Epitteto. Per Epitteto, come per
il "medico pratico" Vitali, il valore del sapere teoretico è secondario, rispetto al sapere pratico.
Tuttavia né la libertà individuale né il consenso popolare, sia pure su larga scala, fondano a
livello etico la validità dei comportamenti umani: "non basta che la Comune del Volgo" giudichi
onorata e lecita un'azione. Occorre che l'attività sia buona "intrinsecamente", perché possa
definirsi tale, "non essendo possibile mai, che il giudicarsi bene d'una cosa in sé mala la possi
cangiar veramente dal suo essere, e farla-buona". E chiara l'impostazione filosofica di matrice
classica, a partire dal pensiero socratico-platonico, sostenuta poi da tutto il filone razionalista
dell'età moderna.
L'Autore si prefigge dunque di dimostrare la bontà intrinseca della professione del medico di
piazza.
La pratica è il criterio propriamente adeguato della medicina. La specificità teoretica del medico
saltimbanco sta proprio nella concezione che egli ha della "pratica". Non si può disconoscere che
la scienza medica abbia tenuto sempre d'occhio il riferimento all'esperienza: senza il riscontro
fattuale sugli effetti reali, le indicazioni astratte non servono. Su questa linea si erano mossi i
medici che avevano ottenuto i migliori risultati e acquisito i maggiori successi. Lo abbiamo
riscontrato, per riferirci ad un'opera edita da questa stessa Editrice, presentando il libro di
Giovan Pietro Aduno sulla peste.
Ma il saltimbanco osteggia ogni ingerenza dell'apporto teorico, che pur era tenuto sempre in
conto dai medici ufficiali, anche se orientati più alla pratica che alla teoria. Egli vuole che il
"raziocinio" - così recita - stia lontano dalla medicina. Il pensiero teorico ha in sé un rischio,
ineludibile: porta a "trascurare le osservazioni dell'Esperienza", sicché la medicina "razionale" è
più dannosa che vantaggiosa per i "corpi nostri infermi". La condanna della medicina che
insegue teorizzazioni astratte è quanto mai inequivocabile.
Portando in causa le più "disparate" teorie mediche, spesso in contraddizione tra loro, il teorico
della "pratica" ha buon gioco. E intende dimostrare come la teoria sia pura "opinione", cioè
credenza fondata solo sul pensato del tutto soggettivo, e che sia quindi "fantasia", come la
denomina.
L'autentica professione medica è invece quella che si attiene alla nuda e pura "esperienza" dei
mali: constata di volta in volta le manifestazioni morbose, e prescrive i medicamenti che, di
volta in volta, di fatto sono stati accertati utili.
L'esperienza assurge a supremo, anzi ad unico, criterio di validità, in campo medico.
Altri aspetti della prassi del medico di piazza concernono l'ambito morale. Esercitare la
professione in pubblico è indecoroso? Al contrario. Garantisce correttezza ed onestà.
Il Vitali ha inteso rivendicare la bontà della sua professione di "saltimbanco". Ma nella sua
difesa ha sollevato anche molti problemi relativi all'esercizio della medicina e ha offerto diverse
indicazioni utili a livello generale. Una di queste, solo alla quale qui voglio accennare, è
l'inopportunità di troppi farmaci. Bastano pochi, sicuri e validi! Con risparmio anche degli
infermi, precisa il nostro "Anonimo". Anche oggi il problema è stato più volte sollevato.
Introduzione
di Giorgio Cosmacini
«Colui che per le piazze spaccia unguenti o altre medicine, cava i denti e anche fa giuochi dí
mano»: spacciatore, cavadenti, giocoliere. «Coloro insomma che laddove la gente più si aduna,
salgono sopra banchi, panche o palchi per dispensare farmaci di varia natura, specifici contro
determinate malattie, antidoti contro veleni, per cavar denti, compiere piccole operazioni
chirurgiche»: mezzochirurghi, mezzospeziali, ancora cavadenti, salimbanchi (o montimbanchi).
Così il seicentesco Vocabolario degli Accademici della Crusca (Venezia 1612, 1623, 1691)
definisce, facendo d'ogni erba un fascio, coloro che, sul mercato della salute, prestano larga parte
delle cure richieste da un'altrettanto larga utenza popolare.
La definizione è neutra; però la voce, in tal modo definita, ha un'accezione svalutativa,
negativa: «ciarlatano». La storia della parola fa derivare «ciarlatano» dall'incrocio lessicale tra
«ciarla» e «cerretano». «Ciarlare», ci informa nell'Ercolano (Firenze 1590) Benedetto Varchi,
dicesi di «coloro i quali favellano non per aver che favellare, ma per non aver che fare, dicendo
senza saper che dirsi e insomma cose inutili o vane, cioè senza sugo o sostanza alcuna».
«Cerretano», ci informa nella Descrittione di tutta Italia (Bologna 1550) il geografo Leonardo
Alberti, deriva da «Cereto, castello di nuovo nome et molto pieno di popolo», sito tra gli «asperi
et alti monti» del Ducato di Spoleto: «da qui sono nominati li cerretani, quali discorrono per
tutta Italia simulando santità con diversi modi e sotto diversi colori per trarne denari».
Simulatori, giramondo, gabbamondo, e chi più ne ha più ne metta. Ma gli uomini dai molti
imbrogli erano anche gli uomini dai molti miracoli, gli empirici che praticavano toccamenti e
toccasana, impomatavano e crocesegnavano, cavavano denti e dolori, acconciavano ossa rotte o
slogate, vendevano rimedi in qualche modo lenitivi o di null'altro carichi che di benefica
suggestione, tanto da giustificare il detto che talora «arrivano le medicine degli empirici che non
giunge Galeno con la dottrina».
Empirici, altro nome. All'empiria, all'esperienza osservativa e operativa di prima mano, vera e
sola madre del conoscere, si richiamavano quanti, nell'esercizio dell'arte della cura e della
guarigione, stigmatizzavano la vanità del sapere «rationale», libresco, opponendogli la
proficuità del leggere il «libro della natura» e del fare «chirurgico», con le mani (da chèir, mano,
ed èrgon, lavoro), proprio delle donne delle erbe, delle comari, degli unguentari, dei cavadenti,
dei conciaossa, dei manipolatori e venditori di empiastri ed elisir. Dalla dottrina non si cava
nulla, diceva nel 1571 Leonardo Fioravanti, un empirico bolognese seguace di Paracelso, cultore
dell'Experienz del maestro-mago transalpino: «Non vi fidate della scienza, ma si bene
dell'esperienza». Il Leonardo da Bologna riteneva di avere un autorevole aggancio in Leonardo
da Vinci (anch'egli «orno sanza lettere»): «La scienza è discepola della sperienza». «Questa
ruvida empiria, sorta dall'arrischiato provando e riprovando dei diseredati», ha scritto al
riguardo Luigi Firpo in una sua bella pagina, «finì per imporre il proprio metodo alla scienza
ufficiale»1.
Mettiamola così: come in ogni altro mestiere del mondo, c'erano anche qui i buoni e i cattivi.
Non c'erano, finanche, i poveri falsi e "cattivi", meritevoli d'essere reietti o messi in ceppi, e i
poveri veri e "buoni", meritevoli invece di misericordia e di elemosine? Così, nel mestiere del
curare e del guarire, c'erano gli empirici della peggior specie, truffaldini e perciò costretti a
vagabondare, e c'erano gli empirici della specie migliore, imbonitori, curatori alla buona,
guaritori per noméa, guaritori talvolta nei fatti. Nella varia moltitudine di coloro che,
coniugando con spregiudicatezza medicina e teatro, salivano sopra banchi o palchi nelle
pubbliche piazze per farsi pubblicità a buon prezzo e richiamare gente con le arti della
commedia — recitando, musicando, incantando, mangiando fuoco, ammaestrando animali e
così via — c'erano salimbanchi o saltimbanchi che assumevano la "maschera del Dottore" per
coprire trucchi e malefatte, ma c'erano anche «montaimbanchi da bene», come diceva
Fioravanti di sé, che dispensavano autentici benefici e agivano in perfetta buona fede.
Buonafede Vitali — in extenso, all'anagrafe del comune di Busseto dove nacque il 13 luglio
1686, Buonafede Bonaventura Ignazio Vitali, figlio di Giuseppe e di Maria Carpi — fu un
«saglimbanco» e un «publico operatore empirico», come egli si autodefinì, del tutto sui generis e
svettante sulla massa dei suoi pari. Le sue vicende di vita, sulla traccia della breve biografia 2
(Ferrara 1779) scritta dal di lui nipote, Buonafede Vitali junior, e sulla scia del profilo che ne
abbozzò Carlo Gol-doni nei Mémoires (tradotti a Venezia nel 1788), possono essere rievocate nel
modo che segue:
Sortito da natura ingegno precoce, in età di anni 12 disputò di filosofia nello studio di Parma.
Due anni dopo, essendo il padre castellano di Montechiarugolo, al confine tra i Ducati parmense
ed estense, prese parte come tamburino portaordini alla difesa di questa Rocca, nel tentativo
d'impedire l'accesso agli armati imperiali di cui era supremo condottiero Eugenio di Savoia —
Eugen von Savoy maresciallo dell'Impero. Dolutosi il gran maresciallo con il duca di Parma, la
prodezza e la fedeltà del bravo castellano furono premiate con la rimozine di questi dalla carica.
I due Vitali, padre e figlio, passarono allora al servizio di Venezia: sotto le insegne di San Marco
li ritroviamo nel 1705 a Crema, l'uno capitano e l'altro alfiere nello stesso reggimento, impegnati
ambedue in uno scontro d'onore, l'uno in veste di duellante, l'altro di assistente. Nel duello il
giovane fu ferito leggermente a un braccio; «ma non andavano a sangue di Buonafede né la
naturale fierezza del genitore, né il mestiere della milizia, e per[ciò], abbandonato questo e
separatosi da quello, volse i suoi pensieri al sacerdozio; del che passato a consigliarsi in Busseto
collo zio Antonio [arciprete], e non ottenutone ciò che desiderava, si volse di fermo allo studio
della medicina e della chimica nelle quali fu addottorato in Parma.
Scelta dunque, tra le due vesti nere, quella di chi curava il corpo (ma un po' anche l'anima),
dopo aver preso la laurea in «fisica e filosofia» che faceva di lui un medico de jure, divenne de
facto anche chirurgo, per l'esattezza «chirurgo maggiore», in un reggimento che conobbe il
battesimo del fuoco nella battaglia di Cassano vinta dal Vendóme sugli imperiali (nel 1705,
durante la guerra di successione spagnola). Nella stessa veste fu anche all'assedio di Torino (che
vide immolarsi nel 1706 Pietro Micca), dove fu ferito di baionetta a un fianco, restando mezzo
morto sul terreno. Guarito e congedato dall'esercito, fu a Roma a rassodare le sue conoscenze
chimiche e mediche, indi a Canterbury, compiendo un triennio di studio in quella università, e a
Londra, dove fu spettatore di una pestilenza «popolare e mortifera», cioè epidemica e ad alto
tasso di letalità, che descrisse, cercando di spiegarne le cause, in un Breve trattato della peste e
sua origine (Londra, 1710).
Dai 24 ai 28 anni viaggiò in continuazione: da Londra a Parigi, poi nelle Fiandre, nei Paesi
Bassi, in Germania, Danimarca, Polonia, Livonia, Curlandia, Pietroburgo, Stoccolma. Da qui
passò in Lapponia, speditovi dal re di Svezia a scrutare e saggiare le vene argentifere del
sottosuolo. Il sovrano svedese pensava che il Vitali, ottimo chimico a suo avviso detentore del
segreto di estrarre dalle miniere la maggior quantità di argento possibile, potesse essergli utile
nello sfruttamento del patrimonio minerario di quell'impervia regione. Questo segreto del Vitali
era la vera "pietra filosofale", in grado di trarre i metalli nobili dai minerali ignobili: tutt'altra
cosa dal lapis philosophorum «che si faceva secondo gli antichi» e che, nel Settecento, era ormai
scaduto al basso rango di una "ubbìa» per gonzi, di una «gabbarìa» da ciarlatani.
I risultati non dovettero essere pari alle attese. Da Stoccolma passò ad Amsterdam: con la
Svezia e la Danimarca, l'Olanda era il paese in cui le istituzioni erano più aperte ad accogliere,
sviluppare, potenziare gli apporti metodologici e teorici della rivoluzione scientifica nel campo
delle scienze medico-naturali, tra cui, al primo posto, quella scienza eretica che era allora la
chimica. Uppsala, Copenaghen, Leida erano università più libere di altre più antiche, e avevano
maggiori possibilità di alleggerire il peso della tradizione galenica, contribuendo alla crescita di
nuovi rami sull'albero del sapere. A Leida il Vitali conobbe certamente Hermann Boerhaave, il
policattedratico — in clinica, anatomia, botanica e chimica — salutato quale totius Europae
praeceptor.
Dall'Olanda, via mare, passò in Portogallo. A Lisbona, esperto com'era in ricerche sull'«oro
chimico», fu fatto consulente della Zecca. Con il suo «fornello filosofico» doveva saggiare la
qualità dei metalli pregiati, argentiferi e auriferi, di provenienza brasiliana e garantire la
massima resa, traendone la maggior quantità di «sostanza pura» ed evitando frodi e
contraffazioni. Le sue «operazioni metalliche» erano finalizzate al conio delle «lisbonine»,
monete forti del mercato finanziario.
Forse anche qui i risultati non dovettero essere adeguati alle aspettative del committente. Il
Vitali riprese il mare e, dopo brevi soste a Siviglia, Barcellona, Perpignano, Aigues Mortes e
Marsiglia, giunse a Genova. Fu la città ligure a registrare per prima la sua comparsa in scena
con il nome dei "senza nome": l'Anonimo. Come tale «si espose allora in quella città al pubblico,
per rispondere improvvisamente ad ogni questione e a discorrere e disputare a lungo sopra ogni
propostagli materia».
Questo, in pratica, fu il suo esordio quale salimbanco onorevole; ma l'identità era ben lungi
dall'essere definita. Da Genova si inoltrò nell'entroterra pedemontano (piemontese) a fare
oggetto di studio le sorgenti di acque minerali della zona. Le sorgenti minerali erano come le
miniere: grandi laboratori spontanei della natura, utilizzabili dall'uomo a proprio beneficio. Il
fatto che le acque sgorgassero dalle viscere della terra, talune traendo da questa il calore degli
inferi, caricava di significato sotterraneo e segreto la pratica del termalísmo e dava agli studi del
naturalista e del chimico l'aura prometeica di chi strappava faville dal fuoco della sapienza
divina e penetrava nei più reconditi arcani posti in grembo alla natura. Di tale periodo eroico
resta, del Vitali, il Trattato delle acque bollenti di Acqui nel Monferrato (Acqui 1714).
Poi da Genova si imbarcò per Livorno, quindi per Civitavecchia, donde si portò nuovamente a
Roma. Qui curò e guarì da una ferita trasformatasi in piaga la bellissima e famosa Faustina
Zappi Maratti, poetessa arcade con il nome di Aglaura Cidonia, sfregiata in volto dalla mano del
duca Cesarini da lei respinto e deriso. Scrisse il Vitali: «Così io fece in Roma l'anno 1715 alla
virtuosissima Faustina Zappi, che fu sfrisata dal duca Cesarino, e mal curata, ch'era orrore a
vederla. D'ordine di Clemente XI [Giovanni Francesco Albani], suo padrino, io gli riaprii la
ferita e la sanai».
Il successo che gliene venne non bastò a trattenerlo. Roma era una città gonfia di medici e la
Sapienza una università tronfia di dottori saputi. Portatosi a Napoli, grande emporio tra
Settentrione e Mezzogiorno, percorse in lungo e in largo quel reame, incrementando la sua
attività di guaritore itinerante e la sua fama di curante efficace. Nei sei mesi trascorsi nelle terre
meridionali guadagnò 24 mila ducati, una fortuna; ma «ne partì con pochi carlini, poiché
sprecava ogni suo profitto». Quest'uomo dotto, anzi onnisapiente, che però mostrava di tenere le
propria dottrina in assai minor conto della propria arte empirica, che lucrava molti denari che
però gli sfuggivano dalle mani bucate, che metteva continuamente in gioco la stabilitas di uomo
"estravagante", riprese a vagare come un gabbiano di mare, migratore senza pace né posa. Dopo
un fugace ritorno a Roma, si condusse in altre città dello Stato pontificio finché, giunto a
Rimini, si imbarcò per Venezia: dalla città caput mundi alla città "ombelico del mondo". Nessun
centro di civile convivenza e di vitale importanza era troppo grande per lui.
In questo torno di tempo fu a Parma, sua patria, «ascritto al Collegio de' medici» e a Milano, nel
1717, «aggregato a quell'illustre Collegio di medicina»; e nel 1719, a Bologna, fu «acclamato
dottore e maestro anche nell'arte chimica». Tra le due date, due eventi importanti: l'uno intimo,
il matrimonio con la vicentina Erminia Arsiero, e l'altro pubblico, la pubblicazione presso i
fratelli Merli della Lettera scritta dall'Anonimo a difesa dell'«esercizio del Saglimbanco», con
l'aggiunta di una Raccolta di varij ma sicuri secreti esposti per alfabeto «in sostentamento
d'esser l'Arte del Saglimbanco onorata a chi giustamente l'esercita ed utile a chi d'essa si
prevale» (Verona, 1718).
Il Vitali ritornò a Roma nel 1722 ad assistere il padre morente e farsi carico della madre vedova.
Durante il nuovo soggiorno romano una sua cura guarì da inveterato singhiozzo papa Innocenzo
XII (Michelangelo Corti), che era affetto da un cronico male dovuto a eccessiva pinguedine e
torpidi umori, riuscendo là dove avevano fallito l'archiatra Giambattista Nuccarini e alcuni
dottori della Sapienza chiamati a consulto.
Da Roma si recò di nuovo nel Meridione, questa volta a Palermo, dove pronunziò un acclamato
Discorso accademico sopra il problema che nel sangue non vi sia acido (Palermo, 1724). Il senato
cittadino lo premiò con la nomina a «lettore pubblico di chimica e filosofia sperimentale»,
nonché «direttore di un nobile laboratorio». Per essere abilitato a dirigerlo dovette, secondo le
leggi vigenti nel reame, riaddottorarsi in "filosofia e medicina": a Catania, il 17 giugno 1724. Nel
suo «gabinetto chimico" mise a punto «facoltà, uso e dose de' dodici arcani, che si rinchiudono
nella cassetta medica dispensata dall'Anonimo in Palermo». Tra crogiuoli e lambicchi egli
"preparava" i suoi dodici "trovati chimici" salvifici come i dodici apostoli coadiutori del
Salvatore — e li metteva in vendita confezionati in cassette farmaceutiche, con allegate
indicazioni, posologia e istruzioni per l'uso.
Ma anche la Sicilia gli andava stretta. Era appena partito dalla Conca d'oro quando, «pochi
giorni dopo, gli pervenne in mano la nuova del terribile tremuoto di Palermo, pel quale cadde in
rovina la casa stessa ch'egli abitò, e andarono a perdimento i mobili ed i cavalli che vi aveva
lasciato da vendersi, non meno che i loro custodi. Balestrato altresì da fortuna di mare, prese
terra a Civitavecchia, ove fatte le occorrenti provvigioni, ripigliò il viaggio, approdò alla Spezia,
e di là per la via di Pontremoli si [ri]condusse a Parma».
Nemo propheta in patria. Osteggiato da intrighi di corte, nonostante il favore del duca e del
primo ministro conte Anviti, nel 1726 lasciò la sovrintendenza delle miniere parmensi che gli
erano state affidate e accettò l'offerta dei Veneziani di sovrintendere alle miniere di Schio, nel
Vicentino, prossime al luogo dove s'era accasato con l'Erminia. Qui il suo ingegno minerario si
alimentò anche di curiosità prescientifica per il mondo dei fossili; infatti «durante gli scavi trovò
uomini, cavalli e altri animali impietriti, pesci e conche marine».
Gran curioso e studioso della natura, il 10 marzo 1728, poco più che quarantenne, fu còlto da
apoplessia, dovuta al suo «pingue e pletorico temperamento»; «co' soccorsi dell'arte», peraltro,
«si ristabilì in poco tempo». Ottenuta licenza dai Veneziani, si recò in Toscana, dove dal
granduca Gian Gastone, ultimo di Casa Medici, venne «onorato e presentato di grosso smeraldo
e di bel diamante» e dove dal Collegio medico fiorentino fu salutato, con patente del 16
settembre 1730, "maestro di sapienza". Da Firenze si recò a Lucca, Pisa, Livorno, donde navigò
nuovamente alla volta di Genova, teatro tre lustri prima dei suoi esordi come Anonimo
"saglimbanco". Nella città di San Giorgio ricuperò immediatamente la popolarità di prima,
risanando con grande perizia dal "mal della pietra" (calcolosi vescica-le) il doge Balbi.
Poi, a Torino, nel 1731, cullò per qualche tempo l'idea di passare in Francia. Optò invece per
Milano, dove rimase tre anni. Il triennio milanese fu un periodo centrale, per almeno tre motivi:
nel 1732 ripubblicò, presso Giovanni Richino Malatesta, la lettera «scritta dall'Anonimo
pubblico operatore empirico», che venne ad acquistare massima risonanza; nel 1733 incontrò il
Goldoni, che ne ebbe, scolpita nella mente, duratura "memoria"; nel 1734 diede alle stampe,
dedicata alla principessa Maria Archinti Trivulzio, l'opera sua scientificamente più accreditata,
una dotta «dissertazione medico-fisica» sulle valtellinesi Terme del Masino, «nella quale si tratta
della natura e proprietà delle acque termali suddette».
La centralità del triennio milanese nella biografia del Vitali vuole che a questo punto si dia
spazio a una breve pausa, animata dalla parola goldoniana e atta a far sì che il lettore sosti nel
correr dietro all'Anonimo per terra e per mare, attraverso l'Italia e l'Europa. Scrive il Goldoni
all'inizio del capitolo XXVIII dei suoi Mémoires: «Al principio della Quaresima [del 1733] arrivò
in questa città [di Milano] un ciarlatano di specie rarissima». Per definire meglio tale rarità,
prosegue:
Quest'uomo singolare a nessuna scienza era estraneo; aveva un'ambizione sfrenata di far valere
le sue conoscenze in tutta la loro estensione, e poiché nella parola era più valente che nello
scritto, lasciato il posto che occupava con onore, prese il partito di montare sul palco per
arringare il pubblico. Non essendo abbastanza ricco per appagarsi della semplice gloria, traeva
partito dal suo ingegno vendendo i suoi medicamenti. Ciò equivaleva a fare il mestiere di
ciarlatano.
Era un mestiere, sottintende il Goldoni, generalmente squalificante per chi lo esercitava, basato
com'era sullo spaccio di rimedi buoni a tutto, cioè a nulla. «Ma», obietta al riguardo, «i suoi
rimedi specifici erano buoni» perdavvero, «e con la sua scienza e la sua eloquenza aveva
meritatamente ottenuto una fama e una condizione poco comuni».
Il goldoniano interessamento al personaggio, interprete del ciarlatano ideale, esulava dai meriti
del curatore per appuntarsi su quelli del teatrante impresario:
«Dovunque si mostrava in pubblico a Milano, [...] aveva la soddisfazione di vedere tutto pieno
di gente a piedi e di gente in carrozza; ma poiché i dotti erano quelli che comperavano meno,
bisognava rifornire il palco di certe attrazioni per intrattenere gl'ignoranti; e il nuovo Ippocrate
spacciava i suoi medicamenti e prodigava la sua oratoria circondato dalle quattro maschere
[Pantaleone, Arlecchino, Brighella e il Dottor Balanzone] della Commedia italiana».
Il sapiente dosaggio delle sue arti — arte comica e arte medica — dava luogo a un prodotto
molto apprezzato dal pubblico e autorizzava il Goldoni ad aggiungere che il salimbanco in
questione «merita[va] forse di essere ricordato negli annali del secolo. Il suo nome vero era
Bonafede Vitali, parmense, ma si faceva chiamare l'Anonimo»3.
Riprendiamo il filo biografico. Dopo i tre anni passati a Milano, il Vitali si stabilì per qualche
tempo nelle Valli bergamasche e bresciane per via di certe imprese minerarie nelle quali investì
tempo e denaro. I pur cospicui proventi di salimbanco evidentemente non bastavano al suo stile
di vita. In Val Camonica ebbe socio nello sfruttamento di alcune cave il conte Federici, che poi
però abbandonò unitamente all'impresa e alle valli prealpine. Dalla terraferma della Serenissima
fece ritorno alla città di mare, Venezia, di cui prediligeva il clima e la vita intensa. Nella città
dei granti attori e dei "gran signori" alternava l'attività di «onorato saglimbanco», vista con
sospetto dai medici collegiati e dai "gran dottori" di Padova, con l'attività, dagli stessi medici e
dottori vista con dispetto, di emerito consulente di signori e di nobili, di ambasciatori e di bey.
Un agà dei giannizzeri lo consultò per i postumi di un colpo d'alabarda veneziana che lo aveva
privato della vista e il principe di Elboeuf fu da lui risanato da una «pericolosa malattia
emorroidale».
Lasciò poi anche Venezia per Trieste, allettato dal miraggio di fortune ancora maggiori nelle
terre dell'Impero. A Gorizia, nel 1740, fu colto dalla notizia della morte dell'Imperatore Carlo VI
e dell'ascesa al trono d'Austria di Maria Teresa. «L'Anonimo non pensò più a mandare ad effetto
il suo proposito», nella ragionevole presunzione che i mutamenti istituzionali in atto potessero
ripercuotersi in modo non favorevole alla sua libera professione, che taluni consideravano
abusiva. «Ritornò a Trieste, nel seguente anno passò in Udine ed a Trevigi, e finalmente a
Verona dove fu accolto» sono parole del suo biografo e nipote «quasi che un semi-deo». Due anni
dopo, nel febbraio 1743, «fu dalla sessione dell'Ospedale de' SS. Jacopo e Lazzaro eletto
protomedico di Verona». Scrive in proposito il Goldoni:
Fu chiamato a Verona in occasione di una malattia epidemica che faceva strage fra quanti ne
erano colpiti. Il suo arrivo in quella città fu salutato come l'apparizione di Esculapio in Grecia.
Ottenne guarigioni generali con delle mele appiole e del vino di Cipro. Per riconoscenza gli fu
dato il titolo di medico primario di Verona.
Un salimbanco fatto protomedico: come dire un ciarlatano fatto primario. A fronte di qualche
bell'esempio di primario cialtrone, l'evento non dovette fare scandalo.
Gli anni di Verona, gli ultimi della sua vita movimentata, furono densi di opere e di
riconoscimenti. Nel 1743 egli pubblicò una lunga Lettera e risposta del dottor Buonafede Vitali,
protomedico in Verona, che tratta delle malattie contagiose: la lettera, tradotta in latino e
inserita nel giornale di Norimberga, gli procurò encomi e l'attenzione del re di Prussia Federico
II, l'illuminato sovrano filosofo, che gli offrì una cattedra nell'Università di Halle con
l'appannaggio di 5.000 fiorini l'anno (più 1.000 ungari per le spese di trasferta). Era sul punto di
accettare quando, colpito da una polmonite galoppante, improvvisamente morì il 2 ottobre
1745, a cinquantanove anni compiuti. Aveva da poco terminato di scrivere una pregiata
memoria su Li bagni del Caldiero, esaminati dal dottor Buonafede Vitali, protomedico in
Verona e patrizio bussetano, opera che fu pubblicata postuma l'anno dopo, in Venezia.
Chiosa la biografia laudativa il nipote: «Gli furono fatte pompose esequie nella chiesa dei SS.
Apostoli in Verona, ove fu sepolto, in mezzo al compianto universale». Conclude l'agiografo:
«Così terminò il corso di sua vita, questo famoso ed irrequieto bussetano. Mezzana ebbe la
statura, nobile la presenza, leonina la faccia, vivace il colorito, assai pingue il corpo. Fu
larghissimo spenditore dell'innumerevoli suoi guadagni, ed inclinò a giovare ad ognuno. Era
immensa la sua erudizione; piacevole e faceto il suo conversare. Eloquentissimo dicitore,
dipingeva con le parole ogni suo concetto, benché fosse poi scorrettissimo scrittore. La sua
eloquenza spesso vinceva anche i suoi contrarii».
A prova che Buonafede Vitali, nell'esercizio dell'anonima arte sua, tenne in gran conto la
spettacolarizzazione cerimoniale della sua eloquenza dal palco e delle sue vendite al pubblico,
sta l'impegno con cui si dedicò egli stesso, in prima persona, all'arte dello spettacolo, scrivendo i
testi per i teatranti che gli facevano "compagnia" — una vera compagnia di teatro — nelle sue
esibizioni. Sua è La bella negromantessa, «commedia (in prosa) brieve, onesta e piacevole,
composta e data in luce dall'Anonimo E...] in Bologna, per il Longhi, nel 1735».
La scelta di Bologna quale sede editoriale non fu casuale. Ha scritto lo storico del teatro italiano
Luigi Rasi, traendo spunto dall'Histoire du Thétitre Italien (Parigi 1728) di Luigi Andrea
Riccoboni: «La città di Bologna, che è il centro delle scienze [...], ci ha sempre fornito un gran
numero di scienziati, e soprattutto di Dottori, che avean le cattedre pubbliche di quella
Università. Essi vestivan la toga e in iscuola e per via; e saggiamente si pensò di fare del Dottore
bolognese un altro vecchio che potesse figurare al fianco di Pantalone». Nacque così la maschera
del Dottor Balanzone, «un eterno cicalone», che condiva il proprio dire con molte ciarle e le
proprie ciarle con molte parole incomprensibili. «Non è fuori del possibile», conclude il Rasi,
«che sia preso questo carattere dal vero» 4.
Questo "vero" appariva manifesto nella figura di molti dottori — nel Seicento irrisi da Molière,
del Sette
cento burlati dal Goldoni — che con la sterile dottrina, con l'eloquio pomposo e inafferrabile,
con la sicumera diagnostica pari solo all'inefficacia terapeutica, incarnavano una crisi della
medicina "ufficiale" così profonda e diffusa da valorizzare per contrasto la figura "alternativa" di
quei curanti e guaritori che vantavano la loro pratica empirica e che l'esercitavano come una
"andata verso il popolo" ben più accetta di una scienza saccente e distante e più produttiva, o
non meno improduttiva, di risultati in qualche modo benefici.
Proprio per differenziarsi in modo netto dai bolognesi e padovani "gran dottori", l'Anonimo, che
pur possedeva pari dottrina e pari titoli, preferì alla cattedra il palco. Le sue arringhe e le
rappresentazioni dei suoi allegri compari facevano da viatico alla vendita dei suoi «preparati
sicuri». Tra questi c'erano le «pillole ermetiche», la «cera cattolica», un «cerotto salutare» o
«pezza stomacale», un «alessifarmaco» antiveleni, un «balsamo anodino minerale», un «olio
glaciale di fuliggine, dato alla luce in Verona». Gli ingredienti di quest'ultimo erano: fuliggine
cristallina e vino bianco dolce portati a bollitura e filtrati; indi si univa miele ottimo e zucchero
eletto.
Al riguardo i Serenissimi Sopraprocuratori e Provveditori alla Sanità di Venezia, vista
l'«habilità, sufficienza e peritia» dimostrate dall'Anonimo «in ciò che aspetta alla Medicina e
all'Operatione chimica», avevano concesso a lui fin dal 1717-1718 la «libera facoltà di potere
tanto in questa Città, quanto in ogni altro luoco di questo Serenissimo dominio, manipulare e
vendere tutti li suoi medicamenti chimici». E sempre al riguardo i Rettori della Sanità di Verona
attestavano che nella loro città il Vitali, al quale era stata concessa licenza di libero esercizio,
aveva «compiuto li desideri delli valenti huomini di qualsivoglia condicione [...] particolarmente
con l'esperimentata prova degli ottimi medicinali da lui manipolati e dispensati, [aventi il]
preggio nel sanare le più ardue infermitati»5.
Anche dal seno della stessa medicina "ufficiale", pur sospettosa e dispettosa, non mancavano i
riconoscimenti. Nel suo spoglio e commento della «corrispondenza di un medico del '700»,
professore nell'Università di Padova quale fu Antonio Vallisnieri, Bruno Brunelli ha rintracciato
un «montimbanco» molto attivo nel Padovano intorno al 1718, che nobilitava il mestiere con
«pulito e limato discorso» per distinguersi così facendo «da' cerretani». La differenza tra
ciarlatani e salimbanchi "da bene" era che «quella professione [era] infame, questa civile» e che
«quelli [erano] baroni, questi nobili». Ma la vera differenza non era quella interna al mondo
della ciarlataneria; era piuttosto quella tra quest'ultima e la cialtroneria allignante quale folta
zizzania tra le file dei medici. Scrivendo al Vallisnieri, il collega dottor Magna-vini affermava
che i ciarlatani erano meno furfanti dei medici, perché quelli «parlano, gridano, si sfiatano che si
comprino i loro cerotti, i loro elettuari, ma finalmente non obbligano, ma lasciano in libertà chi
vuole e chi non vuole»; il medico invece «scrive, comanda, vuole medicine, unguenti, acque,
elettuari, sciroppi, polveri, e mille altre cose [...] da rubar denari a chi gli cava il cappello e con
riverenza quanto più fa spendere» 6.
A confronto dei "semplici" semi d'oliva tritati, proposti dall'Anonimo ai «pietranti» (portatori di
calcoli urinari), il Vallisnieri negli stessi casi prescriveva «polveri di millepiedi, emulsioni di semi
di mellone, di viole rosse, di alchechengi e, per cibo, brodi di gamberi bolliti e spremuti nel brodo
di pollo, una gelatina formata con raspatura di corno di cervo e infuso di vipere»7: una medicina
ricca per i ricchi, a confronto della quale la medicina dell'Anonimo era un'arte povera per i
poveri.
Quella medicina per abbienti celava la propria impotenza a giovare, nascondendola tra latinismi
e grecismi. Ha lasciato scritto il filosofo Nicolas de Malebranche nella sua Recherche de la verité
(pubblicata nel 16741675):
Se i medici citano passi greci e latini servendosi di termini nuovi e fuori del comune, per quelli
che li ascoltano si tratta di grandi uomini. Si dà loro diritto di vita e di morte, si crede loro come
ad oracoli [...]. È addirittura necessario che i medici di vaglia, per farsi una fama e ottenere
obbedienza, parlino qualche volta una lingua che i loro pazienti non capiscono 8.
Il ricettario terapeutico dell'Anonimo era una fonte alla quale ogni curante poteva attingere
liberamente per il trattamento di questa o quella affezione, afflizione, questione di salute o di
benessere. Per le «buganze o gelature» c'era «l'olio di cera»; per i «capelli a fargli biondi, lo
spirito di mele unito all'acqua sua per 15 o 20 giorni con la testa al sole»; per le «scotature da
fuoco, l'olio sambucino e chiara d'ovi battuti assieme», per «stagnar il sangue dal naso, la terra
dolce di vitriolo tirata per le narici»; per il «dolor de' denti, il decoto di nicoziana [tabacco] e
radici o seme di giusquiasmo fatto in aceto e applicato caldo»; per «emmendare il fiato
puzzolente, la zedoaria masticata, infusa prima nello spirito di rosmarino dopo l'uso dell'oximel
scillitico»; «venendo però alla bocca per denti guasti, questi si levino, per piaghe si medichino, e
vedrassi la sanitade».
Era questa medicina spicciola dell'operatore empirico, manipolatore di medicamenti e di parti
corporee — medicatore, giustaossa, cavadenti, guaritore a suo modo — quella che può trovare
consensi anche oggi. L'operatore empirico poteva però anche, se oculista, curare le «cattarate
degl'occhi» con un impacco di «sterco di fanciullo maschio che ancor si cibi di solo latte»; se
comare, far «moltiplicare il latte» con la «polvere de' lombrichi seccata in forno e data nelle
minestre»; se barbiere o cerusico, usare per i «calli de' piedi il tartaro d'orina, cioè quel sale che si
ritrova attaccato agli orinali mal custodíti», unito a «verderame, pece greca e cera» in un
«ceroto d'applicarsi con tutta sicurezza». Certamente questa medicina non può trovare consensi
oggigiorno; ma almeno, a paragone con le prescrizioni ridondanti non meno cervellotiche ed
eclettiche, della medicina "ufficiale", ciascuno di questi preparati era offerto a prezzo
conveniente, accessibile ai più. Con in più un altro vantaggio. L'arte di curare e guarire era
dall'Anonimo concepita e praticata come arte gioconda e gioiosa. Questo suo modello aveva
certo imitatori di basso rango e sfruttatori ambigui: ad esempio, un tal Faustini detto il
Lombardo, da un palco drizzato in occasione di questa o quella festa liturgica, spacciava i propri
medicamenti intrattenendo il pubblico con lo «sparare diversi razzi» quasi «ad uso di orchestra»;
e un tale Natta, venditore di «cataplasmi ed empiastri», dall'alto di un trespolo «versava
pasticche da tre pissidi» e recitando amenità sotto forma di giaculatorie «conciliava una fede
fatua con le sue fiale» 9. Ma l'arte dell'Anonimo aveva, a sua volta, un modello d'alto rango,
tanto autorevole quanto insospettabile, dal Vitale utilizzato in modo forse inconscio.
Ricordiamoci dei suoi giovanili viaggi d'istruzione e del suo passaggio per Amsterdam. S'è detto
di Hermann Boerhaave, il professore di Leida che irraggiava in Europa i bagliori del
preilluminismo medico-scientifico. Il Goldoni lo cita nel capitolo XXXI (parte seconda) dei suoi
Mémoires dicendo di lui che «conosceva altrettanto bene le malattie dello spirito che quelle del
corpo». «Dissimulai il nome di Boerrhave [sic!] sotto quello di Bainer», scrive a proposito della
propria commedia Il medico olandese, rappresentata con grande successo a Milano nel 1756. E
aggiunge: al «savio olandese», maestro di tutti i maestri, «si scriveva dalla Cina al signor
Boerrhave, in Europa». Ebbene, questo pozzo di sapienza e saggezza insegnava ai suoi colleghi e
discepoli: «Due cose si richiedono al Medico: 1. che sia ben istruito nella scienza medica; 2. che
abbia quella prontezza di genio onde possa esercitare la sua scienza a vantaggio dei malati.
Infatti non è sufficiente che il Medico sappia tutto ciò che gli compete; egli deve soprattutto
possedere la predetta facoltà, ut exerceat medicinam jucundam»'°.
«Per esercitare una medicina gioconda»: non la medicina "ufficiale" compassata e distante,
complicata e saccente, ma l'arte empirica dell'Anonimo salimbanco si esprimeva, a modo suo, in
forma giocosa e gioconda, affabulatoria e affabile. Su queste basi di corrispondenza simpatetica,
oggi diremmo di empatìa, si costruiva il buon rapporto di cura, tra curante e paziente, premessa
irrinunciabile di ogni possibile guarigione e comunque del «palliare, ove il guarir non ha luogo»,
cioè dí ogni umana consolazione o speranza. L'elaborazione teoretica ed etica che l'Anonimo fa
della propria professione non si mostra consapevole del debito nei confronti del «medico e
filosofo olandese» ricordato dal Goldoni e da lui conosciuto. Il Vitali è molto più occupato,
preoccupato, di dimostrare «non inferire Macchia di disonore alcuno l'esercizio del Saglimbanco
a chi lo porta con Decoro e Fedeltà». La sua difesa è volta su due fronti: da un lato verso quei
«cantaimbanchi che più presto mangiaguadagní puon dimandarsi che altramente», contro í
quali aveva in questi termini già tuonato il canonico Tomaso Garzoni nel discorso CIV della sua
Piazza universale di tutte le professioni del mondo, e nobili et ignobili (Venezia, 1585); dall'altro
lato è volta, soprattutto, verso la medicina assisa in cattedra o nei collegi e verso i «di Lei
professori», come egli scrive.
«Onori, e ben grandi», scrive l'Anonimo, «si devono alla Medicina». Tra i «di Lei professori» egli
inserisce, provocatoriamente, coloro che a buon diritto ritiene «doversi annoverare come li veri
Saglimbanchi», di gran lunga migliori dei vari medici «rationalí» e «dogmatici» anche perché
l'arte del salimbanco, per il fatto di «essere esercitata alla presenza d'un pubblico, non può se
non essere piena di sicurezza e di fedeltà, e perciò d'onore e di merito». Egli incalza: i medici
accademici o collegiati «ponno a loro beneplacito o per malizia o per ignoranza operare, non
temendo del loro privato fallire pubblico lo scorno», mentre una «profession così publica ed arte
così esposta» come quella del salimbanco «è onoratissima in sé» anche perché i suoi cultori «con
pochissimi medicamenti guariscono, come perché facili e pronti, ed anche di poca spesa».
Medicina dei ricchi, s'è detto, contro medicina dei poveri. La medicina dei professori «è un'arte
di mettere in pompa la medicina» e «nello stesso tempo è una forma di far dar fondo alle facoltà
più pingui»; l'arte del «publico operatore empirico» è invece, già sappiamo, un'arte che porta le
cure in mezzo al popolo e le rende da questo fruibili.
Quanto al corteo teatrale «de' personaggi buffoneschi» che i salimbanchi «si portano su palchi»,
ciò è dovuto alla necessità di introdurre «il divertimento per allettare i popoli»: «dal vedergli
svogliati dell'utile», gli empirici onesti «gli proposero il dilettevole» onde «fargli gustar'il bene
della medicina circondato dal dolce dello spasso». Non in una scienza distaccata dall'uomo, ma
in un'arte per l'uomo e in un artigianato con essa integrato sta, per l'Anonimo, il «secreto» della
«vera arte di medicare», il nocciolo della «sola e sicura medicina».
La Lettera scritta dall'Anonimo, edita nel 1718 a Verona in prima edizione, è posteriore di
appena quattro anni alla De morbis artificum diatriba del medico Bernardino Ramazzini, edita
nel 1714 a Padova in seconda edizione. Quanto ai tempi e ai luoghi, l'accostamento non è
dunque arbitrario. Non lo è nemmeno, a nostro avviso, per talune motivazioni e finalità dei due
autori. Ciò non deve stupire. È vero che Ramazzini fu un "gran dottore" di Padova, medicofisico universitario, curante di sovrani e di principi (sua l'orazione accademica De princiPum
valetudine tuenda del 1710), estensore delle sue opere in latino, la lingua dei dotti; ed è
altrettanto vero che il Vitali fu tutt'altro: un curante alternativo che preferì, come detto, il palco
nella pubblica piazza alla cattedra nell'aula riservata dell'ateneo e che si espresse, con la parola e
per iscritto, in volgare, la lingua del volgo. Ma l'uno e l'altro fecero del popolo rispettivamente
l'oggetto e il destinatario delle loro attenzioni, il primo descrivendo per primo le malattie della
gens popularis correlate al lavoro, il secondo offrendo alla "gente del popolo" medicamenti e
rimedi a buon mercato.
Nel primo Settecento, cioè nel protrarsi di quella congiuntura storica che è stata definita «crisi
della coscienza europea» 11, comprendente l'anzidetta crisi della medicina "ufficiale", c'era un
medico "novatore" che assumeva posizioni critiche e anticonformiste. «Vi è un certo tipo di
professori che predispongono lunghe cure per malattie altrimenti di breve durata e guaribili
spontaneamente». Per essi vale il principio «che non trascorra giorno senza un appunto, senza
cioè la ricetta di qualche nuovo rimedio». La loro «allegria d'animo» dipende dal fatto che essi
«ritornano a casa loro ben provvisti di denaro. Io da parte mia», conclude questa sferzante
tirata il medico "novatore", «noto che mai i medici stanno tanto male più di quando nessuno sta
male» ".
L'anticonformista autore di una tale critica, evocante Molière e Goldoni, non era un teatrante
come costoro, né un medico anonimo. Era invece un uomo d'Arcadia con il binomio accademico
di Licoro Langiano, un medico aulico con tanto di nome e cognome: Bernardino Ramazzini,
appunto. A scrivere quelle frasi non fu il suo quasi coevo Anonimo interprete d'avanspettacolo,
"operatore" come medico "publico", cioè "popolare", nelle piazze delle stesse città dove
Ramazzini esercitava la sua professione. Non fu Buonafede Vitali a scriverle; ma questi avrebbe
potuto ben essere quello scrittore, lui con la sua maschera goldoniana e la sua prosa satirica,
stigmatizzante la professione medica ufficiale a vantaggio della propria.
LETTERA SCRITTA
dall'
ANONIMO
PUBLICO OPERATORE
EMPIRICO
All'Illustriss. Sig. il Sig. N. N.
IN CUI SI PROVA
Non inferire Macchia di disonore alcuno
l'esercizio del
SAGLIMBANCO
A chi lo porta con Decoro, e Fedeltà
IN VERONA
<Per li Fratelli Mani 1718. Con lic. de' Super.
Illustriss. Sig. Sig. mio Colendiss.
Alle replicate istanze fattemi da V. S. Illustriss. acciò abbandoni l'uso della professione che
esercito, sì come comprendo la parzialità e la stima che ha per me, così conosco l'inganno in cui
ella con i più vive, giudicando capace quest'arte ad inferire macchia disonorata, in tempo i che
essa non è né sarà mai così, se forsi non volesse credersi essere l'onore un'opinione che[,]
nascendo nella fantasia degli uomini[,] venga da essi a loro capriccio attribuito a ciò che più loro
aggrada e non più tosto un merito della virtù, addattabile solo a quello che realmente e non
sofisticamente è virtuoso. Per questo ho presa la risoluzione di disingannarla, facendole vedere
ad evidenza essere onorata questa proffessione in sé, purché onoratamente si eserciti.
Non attribuisca questo ad ostinato puntiglio d'ostentare ciò che non è giusto o vero, posciaché
troppo male può difendersi il falso, e poi ella vedrà che in tanto scrivo, in quanto la verità
m'obliga a farlo, ed il genio di vederla un dì disingannata.
Ponderi, rifletta e si sovvenga che lascio margine capace a bella posta acciò[,] avendo ella o chi
sia d'altro qualche cosa in opposto, scriva, e risponderò, e ciò non mai per altercare, ma per
vieppiù dilucidarne il vero. Posciaché potrei scansar quest'impegno e dir io che[,] s'egli è vero il
sentimento d'Epitteto 2 accordato da tant'altri essere il mondo un teatro diviso in atteggiatori e
spettatori d'azion scenica, o sia questa tragica o eroica o comica o mista, essere altresì vero 3[,] sì
come è legge del Supremo Autore di questa rappresentazione a sua libera volontà stabilita, che
ognuno rivesti diverso il personaggio e questo esequisca, così è sufficiente l'ubbidire ad occhio
chiuso e far quello a cui ognun di noi è elletto, purché si faccia con esattezza e pontualità tale,
che di quella parte che si rappresenta sen porti l'onore ed il vanto. Ma tutto questo si ponga in
non cale, perché verrebbe a disputarsi la libertà dell'elezione della vita, in cui non voglio per
conto alcuno introdurmi, avendo con che provar bastantemente il mio assunto.
Ed in effetti che sia così, come a V. S. Illustriss. dico, cioè essere onoratissima questa
proffessione, si prova e dal primato che essa tiene nella medicina, e dall'esercitarsi in pubblico a
prò4 d'ognuno, e dal dispensarsi da essa medicamenti sicuri. Cose tutte, che a provare m'accingo.
Per essere veramente lecita ed onorata in sé una proffessione od un costume, non basta che la
commune del volgo così la giudichi. Ma bisogna che intrinsicamente e dalla prima origine sia
tale, non essendo possibile mai che il giudicarsi bene d'una cosa in sé mala la si possi cangiar
veramente dal suo essere, e farla buona.
Questa è prerogativa del medico, che non sa coprire coll'onorevole suo manto le deformi rozzezze
dell'ignominia. Non possono mai li vizi[,] quantunque infrascati di bizzarri epiteti[,] trasvertirsi
da virtù, di modo che sia virtuoso ed onorato quello che intrinsecamente è vizioso e vile. Ma se
ella s è così delle cose giudicate indebitamente onorate, perché non dovrà il simile nelle giudicate
indebitamente disonorate?
Al testimonio di Trogo historico 6 sappiamo che li popoli dell'Etiopia pensavano infame quella
moglie che alla morte del marito anch'essa volontariamente non si gettava al rogo destinato alle
sue ceneri. Gl'indiani sotto Dario vantavano per indegno quell'erede, quel parente, quel figlio
che de' morti loro non faccesse sepoltura il ventre col mangiarseli cotti in sontuoso banchetto. Li
sciti giuravano per disonorato quel famigliare o ministro del re il quale non si cavava un occhio
o non si stropiava all'inguercire o allo storpiare del loro sovrano. Ma perché il contradire a tali
costumi è bene, tendendo questi ad una volontaria e indegna carnificina di se stessi, perciò non
fu mai intrinsecamente disonorato (quantunque giudicato così) chi a questi vigorosamente
s'oppose.
Vorrei adunque si conoscesse per istabilito tale principio, che la comune opinione fondata sul
suposto non può far essere buono un intrinsecamente male né male un intrinsecamente buono,
che da qui verrebbesi a deddurre che anche quest'arte, abbenché giudicata dalla comune per
abbietta e per vile, perché giudicata sul -apposto e perché intrinsecamente non è tale, mai né
per nissun conto può esserla.
Come mai sarà giudicata con supposto per vile quest'arte[,] mi dirà V. S. Illustriss.[,] se abbiam
tant'evvidenze d'esserne essa tale? Con supposto si giudica ciò che pienamente non si conosce.
Qui si veggono (dice lei) li vizi e le imposture a milliaia. Onde non con supposto ma con
evvidenza si giudica.
Primo[,] nelle millantarie, vantando quasi tutti li saglinbanco d'aver servite Corone, ricavate da
Prencipi o da gran dottori li segreti che dispensano, aver medicate armate, salvate città,
ricuperate dall'incursione de' mali le provincie e i regni. Nelle sperienze, facendo comparir per
vero ciò che è falsissimo, come a dire [per le] morsicature di vipere beveroni di veleni, arsenici,
risigalli 7, rospi ed altri semplici o composti' guazzabugli, facendo ancor ad arte gettarsi da un
parziale' qualche acqua sotto nome di potentissimo veleno, e così ingannar il popolo. Tagli,
ferite, abbenché grandi in apparenza, pur finalmente di pura pelle, e scottature di pompa che si
fingono sanate in poco tempo, essendo falsissimo che le prime sì presto guariscano e che le
seconde veramente abbruggino. Ne' medicamenti, spacciando per arcani potentissimi un po'
d'olio impecciato, quattro radiche impastate col mele, un po' di catapuzia 10 e quattr'altre
robbazze da strapazzo. Ne' prezii, sostentando con fasto oggi la robba loro ad un scudo, dimani o
l'altro per meno, con palese inganno della borsa de' primi, che corrivi dello speso maledicono la
bricconeria dell'artefice. Nelle pubblicità ostentando quadri con dipinti uomini mezzo morti
risuscitati, mali incurabili guariti, cose in somma né da credersi fatte né da immaginarsi fattibili.
Compagnie da postriboli, non da esporsi alla presenza d'un publico onorato,
altre cose che per non innoltrarmi le taccio.
Tutto questo è pur vero? Non è già supposto? Come dunque chi giudicherà per vile un mestiere,
ove tante ribbalderie si commettono[,] giudicherà per supposto?
Ha d'altro V. S. Illustriss. da suggerirmi? Ho inteso il tutto, e dico che ha ragione di lamentarsi,
che con giustizia si duole; e che sono poche le voci che alza, le invettive che espone.
Ma né men per questo mi muove punto dall'intrapreso, posciaché riprovando ella le triste azioni
degli artefici, non vien perciò punto ad annerire l'arte. I difetti delli artefici (così scrive una
dotta penna del secolo scorso) non è di ragione che siano di pregiudizio all'arte, né dee credersi
essere qualità di natura quello che è vizio di mal'uso. Non ha cosa nel mondo sì innocente, che
rea non sia se possono renderla colpevole le colpe di chi a mal'uso la trasporta. È che reos sceleris
societas non facit (Leg. nel Cod.) ".
Creda a me ed all'esperienza che l'aprova, che quella terra medesima che è capace di produrre
antora 12, vincitossico, erbe, fiori, arbori, pietre, metalli purissimi e perfettissimi, basta anche a
generare aconiti, cicute, napelli 13, arsenici'`' ed altri velenati escrementi, e ciò non ratione terra'
sed ratione seminis 15. Entri un poco in un campo di biada, e sia bella e scielta quanto esser si
voglia, non sarà mai che non ci sia framischiata qualche erba selvatica, oglio o zizania. Ma e 16
chi si prendesse la pena d'andarne raccogliendo un fascio e radunatele assieme ne volesse far
mostra al pubblico col dire essere tutto il campo pieno di quella cattiva semenza, non sarebb'egli
un solennissimo mentitore ed infamatore di quel seminato, mentre palesando solo le spicche
infette non facesse niuna rimembranza del grano che vi lasciò?
Se fra i teologi io dassi di piglio a un Lutero, ad un Calvino ed a tant'altri e[,] posti in publico li
loro falsi dogmi ed ingiusta riforma, dicessi che tutti i teologi sono così e che per causa di questi
la teologia è male, non sarei io un sacrilego mentitore? Se fra filosofi tirassi in campo un
Epicuro, fra comici un Aristofane, fra i giuristi il fatto scorticare dal suo re, fra cortiggiani il
condannato alla morte del fumo, fra soldati il poltrone o il ribelle, fra notai il falsario, fra i
mercanti l'usuraio, fra i medici l'omicida, fra cavaglieri l'indegno, fra i principi l'usurpatore, fra
monarchi il tirranno, e[,] declamate le loro sceleragindi argomentassi simili tutti gl'altri perché
dello stess'ordine; o meriterei titolo d'iniquo o al meno al meno taccia di stolto. Eh via, che
siccome non vale[:] Aliqui iuristx, theologi, politici sunt athei et sine conscientia, ergo omnes,
così non deve valere: Ali-qui circulatores sunt mali, ergo omnes 17 , tanto più che io non intendo
d'aver a provarle che li proffessori sieno medicinali. Per il suo color dorato i latini lo chiamavano
volgarmente aurzPigmentum (orpimento), "oro pigmento". Il termine dotto era arsenicum o
arrenicum (da apaeviKóv o appevuo:Sv). buoni; ma che l'arte in sé è onorata e che quand'uno
l'esercita bene è onorato all'eguale di chi che sia d'altro virtuoso ed " onorato artefice. Sarebbe
un farla da Mesenzio di cui scrive il Poeta:
Mortua quin etiam iungebat corpora vivis
se volessimo inverminire con la corruttela de' pessimi l'onorate azzioni de' costumati proffessori.
Peccata igitur suos teneant auctores2° (Cod. Leg.) e noi passiamo a vedere come sia unita alla
medicina quest'arte ed anzi come con quest'arte si esercitò la prima medicina, per assegnarle
quell'onorevole grado che giustamente le si conviene[,] usurpatole solo da un falso supposto del
volgo che ha volsuto indebitamente attribuire all'arte i difetti degli artefici falsi ed indegni.
Risciedeva ancora nella sua prima ignoranza il mondo, tempo segnato da Seneca in cui c'perunt
homines admirari, inde philosophari21; allora quando fra le infelicità de' mortali di fame,
fatiche, stagioni, intemperie e disturbi furono conosciute per offensive e distruttive per l'uman
genere ancor le malattie.
Erano queste, al riferirci d'Erodoto 22, divise in due classi dall'antica superstizione[:] altre
interne, e giudicate venute da' Dei, altre esterne, e conosciute derivate dagli uomini[;] per
queste, e non per quelle E,] pensarono il remedio[,] argomentando che[,] sì come per man
d'uomo venivano fatte, così per essi potersi sanare. Posero a tal fine sotto lo scrutinio
dell'esperienza di versi remedi che[,] proposti loro o dall'evento o dall'imitazione de' bruti,
conobbero valere ai tumori, alle piaghe, alle ferite, estendendosi poi anche da lì a non molto a
cercar que' remedi che per le malatie interne servivano; e tale in effetto ne sortì ad essi l'evento,
che di molti si viddero assai fortunatamente cogliere nel segno.
Da qui ne nacque che Esculapio 23 e tant'altri, come che attenti alla pratica di sì neccessaria
cognizione, furono chi con distinti encomii lodati, chi sino per deità (abenché bugiarde) venerati.
Fastosi de' ritrovati arcani e desiderosi di propalare a publica utilità li tesori della salute, a
ristorarne i viventi da' languori de' morbi. Correvano in ogni parte a soggetarli, aprendo a d'ogni
chi che sia l'adito alla sanitade. Portavano que' loro specifici quasi in trionfo, e coronati di giusto
applauso godevano nelle publiche dismostrazioni de' popoli il contento di vedersi fabbri
dell'altrui bene.
E tal'opra, che ad altro non aspirava che al publico vantaggio? e tal'azione, che altro fine non
conosceva che l'utile dell'universo, in che grado di stima pensa lei che fosse a que' primi popoli,
quali, per essere meno lontani dal secolo innocente, erano più vicini alla gratitudine? Ne
abbiamo testimonio verace nelle notizie che pur in molti scrittori ci son rimaste, che erano
desiderati con ansia, ricercati con sollecitudine, ricevuti con fasto e custoditi con applauso,
decente al merito loro e alla nobil arte che sì felicemente principiarono.
Questi furono i principi da' quali a poco a poco conobbe gl'avanzamenti suoi la medicina, fino
che[,] dato per legge che dovesse ognuno dare in scritto a certi tempii su le tabelle il modo con
cui da qualche infirmità sanavasi, si stabilì da reiterati esperimenti l'esperienza, che vera
maestra delle cose tutte[.] Fullo" anche ad Hippocrate, che formò dalle dette cognitioni ne'
tempii raccolte la dottissima serie de' suoi impareggiabili aforismi. Si mantenne appo degl'arabi
ed egizi longo tempo in concetto ben grande, giacché solo a sacri di prole 25 in prole si
palesavano le cognizioni pratiche a tal'arte necessaria, cosa che non osservarono i greci,
posciaché da' scritti del mentovato Hippocrate e di altri susseguenti cominciandosi a voler unire
al pratico tutto sicuro il raziocinio tutto incerto, si divisero le scuole in varie opinioni, e
disputandosi il perché si perdette il come.
Oh strana miseria della nostra fantasia allucinata, voler più tosto correre dietro ad un
Menecrate, perché coll'ampulloso epiteto di Giove, Menecrates Iupiter, che ad un empirico,
perché col nudo ma degno titolo di Verdadietro: Empiricus Verax26. Oh trasporto della nostra
ambizione! voler più tosto affidarsi dell'opinione, che nulla di certo scuopre, di quel che sia della
pratica, che il tutto per evidente dimostra.
Questa, Illustriss. Sig., fu la pietra ove inciampò e si distorse dal camin retto la medicina, questa
la remora che la fermò al meglio del correre, posciaché [,] perdendosi l'intelletto umano in ricerca
del raziocinio[,] trascurò le osservazioni della esperienza: e che in fatti la razionale più di danno
che di vantaggio apporti a' corpi nostri infermi, oltre il detto di S. Paolo: Mete ne quis decipiet
vos per philosophiam, avrei mille argomenti a favor mio, ma pure fra gli altri questo solo mi
ellego ".
Evvi ragione che possi far credere verità, ove si ritrovano tante disparità d'opinioni? A che ci
conduce la razionale, fuorché trattar di farci conoscere la causa de' mali per deddurre poscia da
tal cognizione le vere indicazioni per la cura? Questo è un dillungarsi dalla vera medicina, non è
un incontrarla. Posciaché se tante sono le opinioni quanti sono gli uomini, e se vari fra di loro
sono li sentimenti de' capi di questa razionale, a qual d'essi si doverà il titolo di verace?
Corre Galeno inmitator del Peripato 28 a stabilir i principii della medicina su la base delle
quattro qualità elementali[,] sforzandosi di persuaderci esservi in noi quattro umori, sangue,
bile, pituita e flema, da' quali, o soli o diversamente combinati[,] conosche l'origine delle
malattie, per questo a chi li colagoghi[,] a chi li flemmagoghi, idragoghi e melan[col]agoghi
propone 29, diversificando li gradi di calore, d'umido, di secco e di frigido anche a medicamenti,
con la regola del che" vuole che si proceda a suo modo. Paracelso" lo niega ed esso seco tutti li
suoi seguaci, che vantando per principii d'ogni ente il mercurio, il solfo ed il sale, prettendono
che da questi[,] esaltati, esuberanti o dislegati o troppo uniti, ne nascano le malattie, e
rifiutando il contraria contrariis curantur di Galeno fa credere che salia evincenda sint salibus.
Quanti assurdi anche da questa setta ne siano venuti, lo sanno que' poveri infermi, che[,] astretti
a soffrire violenze ne' loro mali[,] hanno provata più disgrazia nel medicarsi che nello star
com'erano infermi.
Correggitore di questi errori[,] Elmontio 32 conduce da un error grande ad un altro peggiore;
posciaché[,] pretendendo contro l'esperienza d'annullar li purganti e la flebotomia e volendo co'
soli irradianti il suo immaginato arkeo stabbilire la salute, non s'accorge che le reiterate prove
indicarono ad Hippocrate[,] vero e reale empirico[,] che ne' mali tutti abbisogna vel superflua
demere vel deficientia addere", sì che col suo ragionare distrugge anch'egli, non corrobora la
medicina.
Che più? e Silvio 34 a suo modo la vuole, ed il Vilis 35 a suo capriccio la sente. Vol questi[,] alla
sola fermentazione attenendosi[,] prettendere un moto fermentatizio nel sangue, in tempo che le
vere prove empiriche tutte all'opposto fanno conoscere, cioè non potersi fermentar licore che si
move, del che io più difusamente altrove. Quegli a' sali irritanti, pungenti ascrivendo tutte le
cause de' mali, ammette gl'acidi fino nelle ultime nutrizioni, fino ne' sughi nervei, cosa
tutt'opposta all'esperienza.
Li cartesiani un sistema, li takeniani un altro, li democritici 36 uno di più, oltre tant'altri, e tutti
diametralmente opposti, che recano non che ammirazione, ma compatimento, anzi (vo' dir più, e
dirò il vero) rabbia e veleno a chi si prende la pazienza di perdere il tempo ad esaminargli tutti.
E da questo diverso filosofar di principi, che ne nasce? Che dirruti li veri principi dell'empirica
che stanno fondati su la sola esperienza, si perde la vera e legitima cognizione di sanar li mali. E
pure si sente esclamar ognora che ratio stat pro experientia . Oh Dio! e può sentirsi di peggio?
Ratio stat pro experientia? E che ragion potiam dar noi de' mali se non v'è la cognitione a parte
ante?
Concludianla adunque senza diffondersi d'avvantaggio, che la sola storia del male con la buona
pratica del remedio, che vuol dire in buon linguaggio la sola buona e regolata empirica, è la vera,
la sola e la sicura medicina, a cui dobbiamo confidare la salute nostra e di cui dobbiamo servirci
nelle indisposizioni che ci travagliano.
Ora questa è per appunto l'arte che scegue il saglinbanco, esercitare publicamente un'assodata
empirica e prevalersi di medicamenti repplicatissime volte conosciuti a prò d'ogn'uno,
vendendogli a prezzi decenti ed innalterabili ed usandogli alla guarigione d'indisposizioni
stranissime con utile del prossimo e con gloria della proffessione.
Così volesse Iddio, che non ci fossero tanti e tanti che[,] isporcando con le loro ignoranze e
ribalderie il lustro a quest'arte, non la facessero comparire per quella che intrinsecamente non è.
Che così non avrei io occasione d'attediare V. S. Illustrissima con questi rozzi miei sensi e
provarle ciò che da per essa conoscerebbe. Ma non interrompiamo il filo, e mi risponda, se le
piace.
Come non può chiamar arte onorata e civile quella che con tanta sicurezza attende a medicare le
indisposizioni più ardue de' viventi? Essa ha per fine la sanitade, tesoro senza del quale ben si sa
che nulla vagliono né gli onori né le ricchezze né le dignitadi né qual si sia d'altra quantunque
legittima e virtuosa sadisfazione, bene escluso il quale da noi non so qual'altro possasi sostituire
a farci felici e contenti.
L'ogetto poscia è il corpo umano, [il] quale quanto supera le altre creature nel merito, tanto
innalza questa nel grado; con la differenza che vie più esalta ed onora la mia arte, che invece di
perdersi questa in dispute vane se gli umori sieno essi che[,] scomposti ed alterati[,] sieno causa
de' morbi o pure escrementi che[,] imboccandosi ne' vasi di diverse figure, alterino le parti
impresse, o gli acidi della scuola takeniana, che[,] posti in ogni luogo e vestiti d'ogni carattere[,]
gli fanno fare da Protteo " nel cangiamento delle forme facendogli esser causa d'ogni
indisposizione, o finalmente qualche altro duelecch o archeo o cardimelecch irritato, o altri
fantastici perché non mai debitamente spiegati, perché non mai debitamente intesi; in vece,
dissi, di perdersi in queste o simili vane dispute, esamina la storia del male, e riccorrendo subito
al medicamento che da reiterati esperimenti si è fatto conoscere per sicuro, questo adopera, e con
questo si guarisce.
Ma avanti che più oltre mi estenda mi pare di leggergle in fronte ciò che rumina nella mente,
cioè d'aver letto in vari luoghi che l'empirica è scuola incerta e pericolosa, e che non possi aver
quel merito che da me le viene in questa mia attribuito. E perciò conosco necessario anche di
questo disingannarla.
Sappia dunque in primo luogo che altro è esperimento, altro è esperienza[:] di quello esclamò
Hippocrate nel primo aforismo[:] Experimentum periculosum, e di questa è noto l'addagio che
experientia est rerum magistra 39; se per empirica viene inteso di quell'arte di medicare che
s'azarda all'esperimento, veramente niuno si inganna a chiamarla arte fallace e pericolosa. Ma se
la vera empirica non è questa, anzi è affare de' razionali il dedurre co' loro argomenti la
possibilità della forza d'un remedio non mai più praticato, cosa a che li reali empirici mai né mai
si estendono, ma appoggiati su la sola esperienza operano non perché così pensino, ma perché
così fanno. Dunque? Non è questa la empirica, lo ripeto, non è questa. Ma è quella vera e leggitima arte che non si serve dell'esperimento ma dell'esperienza, non de' medicamenti alla rinfusa
ma di esperimentatissimi, e con cognitione storica de' mali a' quali giustamente gli adopra, dal
che comprende V. S. Illustriss. che chi dice che l'empirica è scuola incerta e pericolosa, o lo dice
per ignoranza, o per malizia, per ignoranza non bene distinguendo quanto io dissi, cioè
l'esperimento dalla esperienza, che val a dire l'operar alla rinfusa dall'operar con cognizione[;]
altri poscia per pura malizia, non volendo confessare ciò che pur malgrado loro convien che
giurino, che il medico (e sia di qualsisia setta o scuola esser si voglia) in tanto è tale, in quanto
alli ammalati soccorre, non in quanto discorre, ed in tanto ciò effetua, in quanto l'esperienza o
ad esso o ad altri suoi precessori palesò la verità del fatto che vuol dire, in quanto la vera
empirica somministra loro il lume neccessario a tali cognizioni.
Vanno cercandosi questi sprezzatori dell'empirica nuovi titoli, sicuri che se l'Omnia nova
placent40, così essi come innovatori saranno per essere acclamati e posti in istima, e pure vedesi
che questo è un conculcare quella medesima scuola di dove appresero la vera arte di medicare,
ed è un cercarsi concetto da una palese arte di ingannare, quale è quella del raziocinio, come ho
provato di sopra.
Confessinsi adunque oramai per erronee quelle anticipazioni di genio nelle quali si è indotta
contro quest'arte, non per altro, che per correre alla buona coi più, e sovvengasi che
Qui statuit aliquid parte inaudita altera
zEquum licet statuerit, haud 'quus fuir".
Sentimento di Seneca il tragico nella sua Medea. Ma molto deve fare per essa, affine di non
giudicar male di ciò che pienamente non conosce. Il giudicare senza udir le discolpe
dell'accusato, egli è quel tanto e abbominevol estremo della crudeltà di Caligola, quando a'
condannati da lui al supplizio toglieva la voce da potersi gridare innocenti[;] eccone lo storicoH
His in quos animadverti iubebat os inserta spongia includi ne vocis emittenda haberent
facultatem.
Né convienmisi dire troppa la gran bestia è il popolo, ed ove questi giudica, bisogna tutti così
rissolvere che sembra temerità, non fortezza voltargli contro la faccia ed il petto, quasi che non
si ricordassimo del famoso detto di Plutarco, Argumentum pessimi turba est 43 .
Eh via! cicali, romoreggi e se anche il vole scoppi il volgo, e faccia ognuno intanto per
virtuosamente operare, per giustamente giudicare di quest'arte quel che Demostene per
intrepidamente orare, piantato sopra d'una punta d'uno scoglio, a i cui fianchi il mare bollente
cozzava, strillava ciò non ostante, e portava a giusto fine la sua perorazione[.] Il simile lo
dovrebbe far ognuno che ha cima di cervello, e non giudicar alla cieca co' più perché i più così
giudicano, che meriteranno sentir Seneca ad esclamare, Turpe est non ire, sed ferri", cosa che ad
altro meglio non può applicarsi, quanto per appunto a chi si lascia trasportare da ciò che
credono li più, solo perché così li più credono. Fra le pecore sole vi è questo costume[,]
Che ciò che fa la prima, e l'altre fanno
Addossandosi a lei s'ella s'arresta
Semplici e chete e lo perché non sanno'''.
Lo che conosciuto[,] conchíudasi che d'ogni qualsisia cosa[,] avanti stabilirne il giudizio, convien
ponderarne nella mente gli argomenti che obbligano a pensarne male, poiché succederà
facilmente d'inganarsi. Chi può esser giudice di più intiera fede che l'occhio, il quale
intervenendo presenzialmente al tutto con le lunghe mani de' suoi sguardi, tocca e palpa le cose;
ond'è che ne' più severi giudizi egli fa intierissima fede, perché in fatti l'occhio solo è testimonio
di veduta?
E pure tallora succede che[,] se non è scortato dalla ragione[,] inciampa anch'egli da cieco e
giudica ingannato e depone il falso. Pensa imbratato il sol nell'orizonte: tremulanti ed instabili
d'un continuo movimento le stelle fisse. Giudica lo sterminato corpo del sole non esser in
grandezza di mole maggior d'uno in due palmi. Giura che nello scoccarsi del fulmine il lampo che
ne ferrisce gli occhi sia il primo ad uscire dalla nuvola che [non] il tuono che ne giunge agli
orecchi; che il remo mezo immerso nell'acqua sia spezzato o torto, non si accorgendo che
Mendacium visui obiicitur, et est contra conscientiam veritatis, come la discorre Tertuliano 46.
Eh? che mendacium visui obiicitur anche a V. S. Illustriss., che a prima vista avendomi veduto
sopra publiche tavole ad esercitar questa professione, misurandomi da ciò [che] gli dettò
l'impression della prima apparenza, non solo non mi stima; ma[,] come gli apparve nella fantasia
guasta e preocupata dall'opinione comune, contra conscientiam veritatis mi ha per vile, mi
sprezza, mi vilipende. Ma se l'occhio (direm così) s'inganna al vedersi da esso nelle acque il remo,
causa del piegarsi con la refazione 47 da lungi alla linea perpendicolare la spezie visiva, che da
un mezzo trasparente e denso trapassa ed entra in un più raro; pure la ragione, che ha per ufficio
di scoprire le fallacie del senso e per debito d'emmendarne gli errori, non afferma per vero ciò che
l'ogetto ingannatore e l'occhio ingannato l'appresenta per vero.
Non altrimenti nel fatto di che parliamo dovrebbe farsi da chi che sia, che vede un vero
operatore su publiche tavole non giudicare contra conscientiam veritatis, ma ponderare,
riflettere l'esercizio che fa la vera arte della medicina, così convenirsi a' di lei professori, e fra
questi doversi annoverare li veri saglinbanchi come quelli de' quali abbastanza s'è parlato per
l'esercizio che tengono nella mera medicina empirica[.] Dunque?
Lascio a V. S. la conclusione e passo al secondo de' punti che mi propone: potersi esercitare
questa parte della medicina sulle publiche tavole, dal che ella inferisce disprezzo anzi che stima
all'arte.
Concedasi (mi par che ella mi dica) ,] concedasi che l'empirica ristretta in questi limiti di
cognizione storica de' mali e notizia esperimentata de' remedi sia una strada meno fallace della
medicina, ed in cui più si debbano confidare gl'infermi, perché da essa per via più breve senza
l'ambage de' soffismi si viene al riscontro del vero medicamento; con tutto ciò mi sembra che[,]
se il vero esercitator di quest'arte che è il saglimbanco non s'esponesse su publiche piazze alla
licenziosa censura de popoli, ma l'esercitasse privatanente come fan la loro li razionali, li
dogmatici e che so io d'altri, verrebbe ad accrescergli il lustro togliendogli quella pubblicità che
l'avvilisce e disonora.
Al che rispondo che giusto le cose, quanto più al publico s'espongono è segno che l'espositor delle
medesme" non teme di sé, e da questo ricavo che anzi per l'appunto quest'arte per essere
esercitata alla presenza d'un publico non può se non essere piena dí sicurezza e fedeltà e per ciò
d'onore e di merito.
Ben sa V. S. Illustrissima[,] ben lo sa ognuno che un publico operatore senza scusa o coperta
d'altri vi dispensa un remedio da applicarsi a vostro beneplacito a que' mali che egli vi nota e
dice; e se non giova, non v'ha scampo incolpando chi 'l fabbricò. Come e c.
" Non v'ha niun che lo difenda, come di tant'altri che[,] particolarmente o privatamente
esercitandosi, ponno a loro beneplacito o per malizia o per ignoranza operare, non temendo del
loro privato fallire publico lo scorno. Ove qui ha tanti nemici giurati della di lui fama, della di
lui fortuna[,] quanti sono que' professori che temono il Venient Romani adripient regnum
nostrum et gentes 50. Parla in somma in un publico ed è inteso da ogni genere di letterati,
esponendo ogni sua cosa sicuro di trarne onore, perché affidato della propria ingenuità 5' e delle
replicate esperienze.
Questo è quello che da sé solo rinnova a nostri dì il coraggio di Druso, uno di que' Romani del
secolo buono, che[,] ricchiesto un esperto architetto affinché gli dissegnasse un palaggio da
fabbricarsi sul Monte Palatino, perché il sito era signoreggiato da palaggi superiori, vennegli
questo tutto da per sé a esibirgli d'operar con sì bel modo d'ingegno, che non potessero li vicini
che sovrastavano gettar uno sguardo a vedergli in casa. Onde per questo si meritò la famosa e
veramente grande risposta di Druso riferita dallo storico. Tu vero (inquit) si quid in te artis est,
ita dispone domum meam, ut quidquid agam ab omnibus perspici possit".
Ora dicami, non ella è così, quale io ho detto: non esservi persona che più dell'operator di
quest'arte imiti il nominato Druso e il suo nobil costume ut quidquid agam ab omnibus perspici
possit? Si perspici potest la qualità della sua portata, l'ingenuità del suo procedere,
l'onorevolezza del suo agire. Perspici potest l'attenzione con cui serve nel medesimo tempo ed a'
popoli co' re-medi sicuri ed al suo onore con proposizioni limitate. Perspici potest la virtù con la
qual vi serve, le raggioni che stan per lui, l'autorità de' scrittori che cita, la cognizione di quella
medicina che in quest'arte è neccessaria. Perspici potest l'attività di que' segreti che vi dispensa
l'esperienza che tutto dì avete sotto gli occhi dell'esser atto a sanar tanti mali. In somma per dir
tutto in uno: omne quidquid agit ab omnibus perspici potest.
E profession così publica, ed arte così esposta potrà essere intaccata né pur per pensiero da
macchia disonorata? Eh via! convien oramai che ella creda a tante prove del merito di sì
degn'arte, e che concordi anche per questo, perché publicamente s'esercita, che ella è
onoratissima in sé e che per conseguenza chi giustamente in essa si espone merita tutti gli onori e
le glorie.
Aggiungasi che[,] sì come non vi è bene maggior in questo mondo della sanitade, così non v'è a
chi più dobbiamo aver obbligo, quanto a chi per conservarcela invigili o per ricuperarcela
s'affattichi. Li medicamenti sono quei mezzi per li quali un ben sì grande o si conserva, o si
ricupera, e li medici son essi che colle loro vigilie ed osservazioni ci fanno esser felici col possesso
d'un tanto bene.
Ma perché in varie forme e diversamente questi s'esercitano per ottenere quest'intento, chi
conducendoci per l'intricato sentiero delle opinioni e del raziocinio, chi volendoci strascinar per a
strada del dogma perché calcata dai più, giurata e stretta a tal'Ordine, qual non si pretterisce
punto perché non lice scostarsi a verbis magistri53; chi con arcani o per meglio dire delirii
chimici inventati oggi né mai esperimentati né muniti d'altra autorità che di quello che nasce
nell'opinione di chi l'inventa. In somma chi con un apparato sontuoso di dispendiosissimi
medicamenti e chi con pochi ma sicuri rimedi perché avvalorati da notissime esperienze.
E per questo mi permetta che corri anche questa lancia per farle veder gli utili che ricavano da
quest'arte gli'infermi, sì perché con pochi medicamenti guariscono, come perché facili e pronti,
ed anche di poca spesa si ritrovano.
Mi sovviene l'eroico rimprovero che fe' Ciro ad Astiage" in occasione che fu da questi invitato ad
una mensa tremante sotto il peso d'infinite vivande, paragonandolo egli quell'inutile prodigalità
con la parsimonia persiana: Voi (disse) Astiage, e noi coll'uso de' cibi tendiamo allo stesso
termine di trarci con essi la fame, ma ove noi contenti di poca carne e pane in breve tempo ci
siamo, Voi perduto per sì vasto circuito di vivande appena dopo molte ore di fatica ci giongete.
Così appunto lo stesso ne medicamenti campeggia[:] a che prò tanta varietà, tante squisitezze e
nel correggere (anzi nel soggettar) co' zuccari le facoltà de' semplici e nel depredare li paesi più
lontani per trasportar a noi medicine prezziose perché rare, stimate perché d'insuperabile
prezzo? Questa è un'arte di mettere in pompa la medicina, ma nello stesso tempo è una forma di
far dar fondo alle facoltà più pingui; cosa che è superflua e dannosa e che merita di far sentir di
nuovo Plinio che esclama[:] Arabia atque India in medio testimatur vicerique parvo medicina a
Rubro Mari impetratur, cum remedia vera pauperrimus quisque canit".
Non è forsi vero che ne sylva quidem horridiorque natura facies medicinis caret (idem) senza che
cerchiamo remedi che[,] nati lontano dal nostro clima[,] non ponno fors'anche ben adattarsi alle
nostre complessioni? Oltre il considerare che la distanza o li può far aver adulterati perché non
intieramente conosciuti, o almeno alterati sì per le mutazioni de' siti, come per il longo tempo
che vi si frapone ad avergli.
Benedetta adunque la mia proffessione, ché[,] prendendo di misura il detto di S. Giov.
Damasceno Medicamina tibi pauca paranda sunt quorum vires et usus pluries sis expertus"[J
non si estende che all'uso di pochi non exotici ma validi e sicuri remedi e[,] su quelli
esercitandosi, quegli stessi con poca spesa propone e con molta utilitade adopera.
Si sovvengono li veri e legittimi proffessori di questa del dettato del loro antesignano
Hippocrate: Oportet medico adiuvare naturam, et superflua demere et deficentia addere", e per
questo co' loro balsami potentissimi a corroborar la natura, sanano le ferite senza il maledetto
abuso delle taste e de sedagni", guariscono le languidezze, li vomiti e le ostruzioni, etc., perché
conoscono nascer questo da un moto impedito alle parti nervose per mancanza della ellasticità
de' spiriti, il che non è correre a cause d'acidi sognati o di figure non mai debitamente intese o di
archei non mai a bastanza spiegati; ma appoggio di vera esperienza, che val a dire d'occulata
osservazione de' moti del corpo nostro, della storia de' mali e della virtù de remedi, e per questo
ritorno ad esclamare che essendo li più utili al mondo infermo, perché publici ad ogn'uno,
comodi per la poca quantità de' remedi, per la sicurezza de' medesimi e per la poca spesa che con
essi si fa, devono altresì sopra d'ogn'altri essere e lodati, ed onorati.
Così fosse intesa da ognuno tal verità, che così non adoperarebbonsi tanti e sì vari rimedi ad un
sol male, dal che viene che molti[,] annoiati dal più usar medicamenti, o inveiscono contro la
bell'arte della medicina con mille imprecazioni, giacché si ritrovano peggiorati[,] allorché si
medicarono con la tanta varietà de' remedi, di quello che prima di medicarsi. Incontrano li
miseri in essi la qualità del bagno di Diogene, che per il di lui sucidume l'obbligò ad esclamare[:]
Qui hic lavantur ubi deinde lavantur? e fanno a guisa di certe navi che[,] esponendosi alla vela
per incaminarsi al loro retto viaggio, appena uscite dal porto sono sorprese da una contraria e
ostinata fortuna di vento, al quale[,] per non si rendere pienamente, tenendosi sempre incontro
co 'l bordo, stanno su le mosse. Corrono, volano, ma tutto questo è un riandare la medesima
strada, in un giorno di tal fortuna avranno fatte delle miglia, Dio sa quante; ma il piloto, che
pur in questa faticosa riandata fe' stancar i nocchieri, fe' por in opera quanti ordegni ha la nave,
dar le mosse reiterate a quante vele stendono le braccia, per cogliere o tagliare il vento,
conterralle forse per avanzo del loro viaggio? Ed oh! dice Seneca, di cui è il pensiero che non
multum navigavit sed multum iactatus est.
Così per appunto è chi[,] usando in una infirmità re-medi contro indicanti, conviene che la
natura più combatta contro la forza opposta di questi, che contro il male. Oh Dio! poco vento
che spiri secondo, empie un par di vele, e di poppa soffiando spinge senz'altra fatica del
nocchiero la nave, così medicamento poco, ma atto al male, porta in breve alla salute, senza che
debba troppo penarsi, e questo da chi con più sicurezza si può ottenere, quanto da chi[,] salendo
su publiche tavole ad esercitare con giustizia questa proffessione[,] altro non aspetta che la
dispensa di remedio sicuro che gli fabbrichi il concetto colle operazioni e glielo confermi e
multiplichi coll'evidenza?
In qual si sia altra forma che s'eserciti la medicina, fuor che con questa publica mostra, si può
sempre temere più di quel che da questa, appunto perché le altre non sono tanto publiche ed
esposte.
Io per me stimerò molto più Milon Crotonense, che con le nerborute sue braccia si levò in collo
vegente tutto il teatro pieno di spettatori e portò nella sua nicchia la propria statua di
pesantissimo marmo fattagli scolpire in onor suo ed in memoria della propria gagliardia, di quel
che io possa stimar Seiano, a cui consecrato da Tiberio il ristabilito teatro di Pompeo, si fe' salir
a forza di canapi, d'argani e di taglia un gran fusto di marmo che lo rappresentava al vivo.
Veniva questo portato a tanta altezza di gloria dalla ruota della sua fortuna; e la virtù che
l'imprimeva il moto era il braccio di Tiberio, ove il Crotonense tutto da per sé [fece], ed
aquistonne il merito, e vi si collocò con fasto di gloriosa memoria. Così[,] Illustrissimo Signore[,]
chi saglie coll'aiuto altrui viene portato a braccia e poco fatica; il bello è di portar se stesso senza
assistenza altrui.
Questo è l'ascendere che fa il saglinbanco, che da per sé convien che si porti, anzi che si porti
passando per mezzo d'una folla d'oppositori che gli contrastano il posto, e giaché non ponno
avvilir le vere ed onorate di lui operazioni, conculcano il mezzo[,] avviliscono l'arte caricandola
d'obbrobri, affinché non ne riluca il merito, non ne risplenda la gloria.
Che se poi volesse tacciare la pubblicità di quest'arte a causa de' personaggi buffoneschi che si
portano su palchi, quasi che fosse unito il sodo e meritevole della medicina col tutto ridicolo del
divvertimento, risponderò che la corruttella del secolo è in colpa di questo, ed ove principiò a
mancare il buon gusto negli uditori, introdussero gli operatori il divvertimento per alletare i
popoli, e dal vedergli svogliati dell'utile gli proposero il dilettevole. S'aumentò a poco a poco a
grado tale faccenda, che divenne costume quello che fu semplice arte di fargli gustar il bene della
medicina, circondato dal dolce dello spasso.
Ma perché il costume è un violento maestro di scuola: Usus efficacissimus omnium rerum
magister (Liv.), fermò a poco a poco il piede della sua autorità e stabilì per legge quello che tale
non era. Non dobbiamo dunque istupirsi se fermò cosa tale, posciacché lo vediamo forzar tutti i
riti e tutte le legi della natura, e volgere le più assodate volontà alla sola riflessione, tale è il
costume. Onde conviene concluderla con Seneca: Consuetudinis magna vis est.
Da qui ne viene che al giorno d'oggi si conosce obbligato un proffessore di quest'arte a seguitar il
costume de' vecchi, non avendo niun di noi più la forza bastante d'introdurre costume nuovo.
Oltre a che cosa hanno da far li personaggi col capo? Altra cosa è egli, altra essi, altro sono li
medicamenti e chi li dispensa, altro è lo spasso e chi lo dà. Eh! che non sono per niun conto unite
queste due azzioni fra loro sì diverse. Era l'imperatore Severo col suo fiorentissimo esercito in
procinto di far fra pochi dì un'aspra battaglia con inimico egualmente potente. Ma per suo
infortunio aggravato da tormentosa podagra che stabilitaglisi più ne' piedi che altrove
gl'impediva a non potersi egli mostrare all'esercito. Si cominciò per questo fra soldati un
ammuttinamento ed una mezza sedizione nel campo. Al primo avviso che ne riseppe
l'imperatore, eccolo sulle altrui spalle, gli altrui piedi in mezzo all'esercito, con un volto da quel
severo che egli era[,] attorniato da centurioni e tribuni, minaccia, e paventa, atterrisce ogn'uno,
sicché gettatosegli ai piedi tutto l'esercito chiedente a gran voci perdono. Censitis tandem,
esclamò, caput imperare non pedes.
Anche qui[,] Illustriss. Sign.: caput imperat non pedes. Non sono li personaggi che soministrino
il concetto a gli arcani che si dispensano in quest'arte, né con la loro abilità né co' loro gesti né
col loro numero, perché questi sunt pedes. Il padrone è il capo, che con l'autorità delle sperienze,
con la forza del dire, coll'ingenuità delle sue azioni deve far conoscere quanta abbilità abbiano li
suoi remedi in combattere e debbelar i mali, perché caput imperat et non pedes.
Anche li dipintori della Grecia, dice Plutarco, allorché avvevano da rappresentarvi la vera
effigie d'un uomo[,] ve ne dipingevano con gran studio la testa: Nec de ceteris membris
magnopere curabant. Dovrebbe ognuno conoscere la neccesità di far il simile[,] anche nel caso
nostro far stima del capo, diriger l'attenzioni a chi serve al comun bene con esperti segreti: et de
ceteris membris magnopere non curare. Che così si conoscerebbe la neccesità di soffrir il costume
degli operatori di portar esso seco li personaggi come totalmente disgiunti dalle operazioni del
capo, con questo però che essi non si rimescolino con loro, degradando al decoro dell'arte col
vestir l'abito vile e buffonesco maggiormente, che caput imperat, non pedes.
Toccai (a mio credere) quanto basti li due primi punti, restami venire alla prova del terzo, cioè
della dispensa de' medicamenti sicuri che si fabricano in quest'arte, per farle pienamente
conoscere le sue prerogative.
Ma poiché il molto che potrei dire potrebbe dar nel naso a qualche Zoilo non potendo a meno di
non saettar la malizia di quelli che a medicamenti ordinatissimi o al meno ben mediocri
attribuiscono gloriosi e fastosi titoli di Panacee, di restaurativi di vita e d'Ercoli vitali, balsami
universali e di altri di simile portata, per questo mi ristringerò quanto sia possibile, e per farle
conoscere che la vera empirica non è altro che pura esperienza, userò in favor mio, in difesa
d'essa in quest'ultimo punto la sola esperienza, acciò che la esperienza stessa con la esperienza si
difenda, armi propriissi[m]e e sicure che riusciranno utili all'arte, perché la faran conoscere vie
più per onorata e degna, giaché arcani così preziosi adopera e possiede, ed utilissime tanto a V.
S. Illustriss. quanto a chi che sia altro che leggerà questo picciolo trattato, potendosi prevalere
di ciò che con fedeltà quest'arte palesa.
Egli è però vero che lo scrivere segreti al giorno d'oggi è molto difficile per diverse cause, sì
perché: Nil dictum quod prius non fuerit dictum. Vole anche perché una pasta cotanto
maneggiata, e a cui non ponno aggiungere cose nuove li più celebri sugetti de' nostri dì, non
dovrebbe essere strapazzata da me, che tra i veri proffessori dell'arte empirica sono il minimo ed
il più inesperto. Pure mi dia V. S. Illustrissn me la dia il mondo tutto, che ambisco di dare
anch'io caparra ad ognuno, se non di quel molto che dovrei sapere, almeno di quel tutto che
voglio operare a prò del prossimo mio e della mia proffessione. Mi sta troppo a petto ciò che
disse di sé Diogene alloraché faticava tutta Corinto per assodarsi ad una vigorosa difesa contro
le armi di Filippo il Macedone che gli aveva intimata aspra guerra. Ansavano li cittadini tutti
portando alle mura chi pietre, chi travi ed armi di varia forma[,] sì per offendere l'inimico, come
[per] difendere se stessi. Quando esso vegendosi vecchio inabile e mal prattico d'ubbidire a tali
fonzioni, si mise tutto solo a rottolare su e giù da picciol erta la sua sdruscita botte, per lo che
quanti passavano l'interrogavano a che ciò facesse, ed ei a tutti così rispondeva. Voluto etiam
ego dolum meum, ne ut solus otiosus ferriari videar inter tot laborantes".
Così voglio far anch'io, rottolare la mia botte, che se viene da tal moto a mandar da sé qualche
buon odore, ciò sarà del genio di servir ad ognuno, fin dove si estende il mio debole. Anche lo
specchio esposto a' raggi del sole mandante riverbero di luce col moto intus et extra, è appo gli
academici simbolo e figura degli uomini virtuosi, significando con questo che non basta aver in
sé la luce e godersela; ma conviene tramandarla all'altrui lume.
Conosco anch'io che vani sono li sudori di chi impallidendosi su le carte, non vuole poi esercitar
ciò che apprese, e che la mente, che dalle virtuose fatiche de' scrittori raccoglie a guisa d'ape
spiritose cognizioni, se non le riduce al pratico gitta le fatiche al vento. Sono giovevoli le scienze,
ma però solo quando alle operazioni si riducono, essendo più che vero ciò che lo Stoico ci
insegna, consistere una parte della virtù nella dottrina, ma l'altra nell'esercizio.
Sicché concludiamola, spero, che mi sia lecito ubbidire al mio genio spezialmente, che serve al
sostenimento di quell'assunto a che difender ho io detto: d'esser l'arte del saglimbanco onorata
ed utile, purché con onore e fedeltade si eserciti.
Rimetto adunque all'altra parte V. S. Illustrissl] ove vedrà per alfabeto esposti vari ma sicuri
segreti, accioché coll'esperienza, siccome con le antedette ragioni[,] sia doppiamente palese
l'onore ed il merito di sì bell'arte.
Raccolta
di varii ma sicuri
Secreti
esposti per alfabeto
Aborto proibire a chi n'è solita per debolezza di Reni o d'altro
Polve di radica di tormentilla 1 onz. 2 una, di radica di bistorta 3 mez'onza, veri grani di kermes
due drame 5, canella 6 due drame, zuccaro sciolto in acqua di cottogni quanto basta, si cuocia il
tutto assieme e si riduchi a guisa di conserva, da prendere un cucchiaro per mattina, ed in tanto
si aplichi alle reni il seguente ceroto.
4
1 Erba delle Rosacee (Potentilla erecta o Potentilla tormentilla). Latino medioevale tormentilla, da tormentum (tormento):
forse perché la sua radice polverizzata serviva per lenire vari dolori e il "tormento" del mal di denti (Pianagiani, II, 1443). Il
rizoma ricco di tannino è usato come astringente e antidiarroico nella medicina popolare. La polverizzazione dei vegetali era
l'operazione più importante di divisione dei prodotti naturali. Dopo l'essiccazione a temperatura da 25° a 40-45° e dopo la
frantumazione, il prodotto veniva setacciato per separare la polvere più fine man mano che si formava. In tal modo era possibile
la preparazione di farmaci composti, dosati con molta precisione.
2 Onza (latino uncia), variante morfologica provenzale e poi spagnola di oncia: unità di peso che è 1/12 di un intero.
3 Erba delle Poligonacee (Polygonum bistorta), detta anche serpentina o serpentaria. Dal composto latino bis (due volte) e torta
(piegata), per la forma a due curve del suo rizoma. Il rizoma è usato in medicina come astringente.
4 Chermes (variante morfologica, kermes), minerale composto (ossisolfuro di antimonio), dall'aspetto di polvere rosso cupo (da
cui chèrmisi o crèmisi). Dall'arabo qírmiz (coccinella), a sua volta dal sanscrito krmis (verme), poiché la sostanza colorante rossa,
in cui consiste il principale composto che va sotto questo nome, si ottiene da una coccinella (Coccus
o anche da vermi (Ricettario fiorentino, I, 39). In medicina era usato per le sue proprietà emetiche, espettoranti e diaforetiche.
5 Dramma, dragma o dracma (da Spooqui, affine a 8payptA e 3petwa, manata, manipolo), come misura di peso equivale
all'ottava parte dell'oncia.
6 Variante antica di cannella (diminutivo di canna, perché la corteccia, essiccandosi, sí accartoccia a forma di cannuccia): droga
costituita dalla corteccia di rami di diverse piante, con proprietà antisettiche.
Incenso, mastice, ladano 7, mez'on. per sorte, pietra emattite 8, coagulo di lepre, Balsamo del
Perù 9 dra. una per sorta, resina di pino quanto basta a legar il tutto in forma di ceroto, da
aplicarsene una parte, secondo il bisogno.
Aneurisma per rafrenarlo, che non si augumenti
Si distilino tre parti di calcina, ed una parte di rasura di piombo primo tenuti in vaso di vetro al
fimo equino per 25 o 30 dì, e l'acqua, che distilerà si aplichi di volta in volta con pezze inzupate
al sito più vicino all'arteria dilatata: avvertasi che quest'acqua scioglie le nate per grosse che
siino, usandola come pezze duplicate sopra il male, così all'ernie carnose, ed umorali, a sciri, ed a
cancri principianti per risolverlo o frenarli.
7 Mastice o mastica (latino mastiche -es da gocatixi, resina del lentisco), resina del lentisco o lentischio (Pistacia lentiscus) delle
Anacardiacee. Di largo uso in farmacopea, serviva anche ad aromatizzare il vino. Làdano o làbdano, làudano (latino ladanus o
ladanum da 2u5cSavov), pianta del genere del cinto; in farmacologia, sostanza resinosa profumata.
8 In mineralogia, sequiossido di ferro, così detto per il suo color sangue (latino llematites da atilatítrig, sanguigno).
9 Uno dei balsami naturali: soluzioni o emulsioni di resine e di essenze trattate con oli essenziali contenenti acido benzoico e
cinnamico. Il balsamo del Perù è il Myroxylon Pereirx, albero delle Leguminose. La sua resina è usata in medicina come
revulsivo, e anche nelle ulcerazioni e contro la scabbia. Il nome deriva dal luogo in cui cresce: non solo tuttavia in Perù, ma in
genere nell'America centrale.
10 Natta, in medicina, cisti sebacea, ascesso, afta, o altre vescichette purulenti (latino natta, nacta, natha, nasda, nasta, cosa
addensata e compressa).
11 Sciro (latino scirros —i da ccippog, cosa dura e callosa; scirro, variante morfologica antica, come schiro e sirro) in medicina è
un "tumore duro senza dolore e pesante, che si forma e cresce lentamente nelle differenti parti sdel corpo, tanto interne quanto
esterne" (Dizionario di sanità, III, 61). E di colore cinerino o plumbeo.
Angina o sia scaranzia 12
Portando al colo un laccio di seta cremesi, con cui sia stata apesa una vipera, vi assicura, così la
testa d'una vipera secata, e faccendo empiastro con cascia 13 estrata di fresco, polvere di nido di
rondine, e sterco di cane che mangi ossa, replicato ogni 2 o 3 ore la [sera], riccorrendo però
all'uso de vomitori se ci sono le indicazioni, e della cavata del sangue, se naschino da troppa
quantità del mede[s]mo.
Racordo anche per gran specifico il seguente gargarismo. Si faci suco da tutto il pomo granato e
depuratolo se n'adoperi un cucchiaro per volta con qualche decotto digestivo, o d'uva passa, o di
dattili, o di fichi, o di liquirizia, o di malva per 6 o 8 volte il dì in circa, e vederassi grande
effetto.
Apoplesia
Successo l'accidente apopletico in chi ne sia, se gli aprino i denti e si gli ponghi in bocca del sal
marino decrepitato, ed espurga le viscosità del capo, e dà tempo di venir all'uso degli emetici 14
ed altri appropriati elementi, e costa per esperienza che ponendo un sacchetino stretto e longo,
pieno di sale decrepitato caldo al sofribile intorno al collo dell'infermo, lo difende da nuovi
acidenti, non resto anche di ricordar per gran speci fico dopo li debiti vomitivi il Balsamo della
Mecca 15 in dose di 12 in 20 goccie per un mese o più, o in pillola con qualche polvere cefalica 16,
o in brodo appropriato, sciolto col rosso dell'uovo.
12 Variante regionale di squinanzia e sinonimo di angina (dal latino angere, stringere) e di difterite: infiammazione del cavo
orale e della faringe che provoca senso di costrizione alla gola.
13 Termine popolare per "acacia". Pianta utile, ín farmacopea, per il tannino che contiene.
14 Farmaci atti a provocare il vomito (da egerucóg, vomitivo).
Asma o sia strettezza di petto
La
tintura di belgioino 17 e spermaceti 18 fatta con lo spirito etereo di trementina 19 è un
mirabile specifico, dopo l'uso dell'osime120 di nicotiana 21, quando però si intenda d'asma
umorale, cioè umida.
15 Detto anche giudaico, è la pianta (Amyris opobalsamum) che produce un liquido grigiastro, dall'odore del rosmarino. La
liturgia cattolica ne fa uso mescolato con l'olio per il crisma. Vomitivo equivale a emetico.
16 Nel tardo latino cephalicus da tcwakticóg, relativo alla testa (da xeTech, testa). Questa polvere "buona per la testa" consta
già in Pietro Ispano, nome con cui è noto Pietro di Giuliano (Lisbona, ca. 1220 - Viterbo, 1277), scienziato e archiatra pontificio,
che fu papa Giovanni XXI. Famoso il suo trattato di medicina popolare, Thesaurus pauperum, che indicava le cure per ogni
malattia: ebbe volgarizzamenti durante l'Umanesimo.
1' Antic. bengiuì, poi anche belgiuino, benzoino, belzuino, la pianta (Stirax benzoin) da cui si ricava questo balsamo, usato in
medicina come espettorante. In arabo lubén giàwî, incenso di Giava, perché così era chiamata Sumatra.
18 Sostanza oleosa, densa, biancastra, brillante, cristallina che si trova nelle parti molli del cranio del maschio delle balene (dal
composto anépp,a, seme, e icécog, balena).
19 Nome collettivo delle resine liquide degli alberi delle Conifere e delle Terebintinacee (latino terebenthina da TEpOlvOog).
20 Nel testo, osimel, ovvero ossimele (o ossimiele, antíc., con diverse varianti), bevanda medicinale costituita da miele in
soluzione acetica (latino oximel -mellis, o oximeli -litis da oVweit..t-Xutog, comp. da gúg, aceto, e tat, miele).
21 Francesismo (nicotiane) della denominazione originaria della nicotina (nicoziana), detta anche "olio volatile del tabacco". La
nicoziana (o nicotina, necoziana, nicosiana) è il nome di varie piante delle Solacee, tra le cui specie si registra la Nicotina
tabacum, pianta del tabacco.
Artritide o siano dolori arterici
Si estingua la calcina viva nell'orina del paziente, si coli il licore e si aplichi più volte alla parte
ofesa con stoppe.
Atrofia e tabe22
Dopo
legeri vomitivi, né mai purganti, si viene all'uso di emulsioni con la noce d'India e
amandole 23, con esse lo spirito di formiche in dose di 12 in 20 goccie, e se la tabe è particolare, si
aplichi il detto spirito alla parte ofesa con il balsamo di sapone 24, e tutto ciò intendasi
dell'atrofia che non viene da scioglimento.
Aciaro intenerire come stagno
Limatura di piombo onc. 6, sale armoniaco 25 onc. 4, aceto una libra e mezza 26[,] si ponghi il
tutto in un sagiolo 27 in fimo equino per dieci dì, e si farà un'acqua latesina 28, in cui se smorzerai
varie volte il ferro rovente si farà tenerissimo.
22 Atrofia è il deperimento organico per mancanza di nutrizione (da a-, privativo, e Tpogill, nutrimento). Tabe (latino tabes,
putrefazione, da tabeo, mi struggo) è più in generale la dissoluzione o consumazione corporale per malattia cronica.
23 Mandorla, detta amandola dal basso latino amandola. La noce d'India è la noce di cocco.
24 Balsamo tratto dalla Sapindus saponaria.
25 Variante antica di ammoniaco. Il sale ammoniaco è il cloruro di ammonio. Ne era ricco il territorio dell'oracolo di Giove
Ammone, in Libia, da cui il vocabolo (antowtax69).
26 Libbra o libra, misura di peso equivalente a poco più di 300 grammi.
27 Saggiuolo (o saggiolo, antic. sagiuolo, nel testo "sagiolo"), in questo caso è una provetta di vetro resistente al fuoco.
28 Lattimo, composizione vetrosa di color bianco latte (da cui il nome) ottenuta addizionando biossido di stagno e di piombo.
Acciaro indurire di gran tempra
Scioltasi in acqua comune il sale armeniaco filtrato con la calce viva s. a., ed in essa si temperi.
Con l'occasione che si tratta dell'acciaro mi viene in concio di dir qualche cosa della fastosa neve
di Marte 29 [,] medicamento di gran nome, ma di poca o niuna riuscita, ella è un fior di regolo 30
d'antimonio fatto senza sali, che triturato sottilmente si sublima nelli aludeli a guisa de fiori di
nitro 31. Vien vantata per un gran deostruente e corroborante. Ma non rispondono i fatti alle
promesse.
Vera tintura di Marte
Paleso la seguente, quantunque sia scritta dal Zuelfer né così facilmente intesa, e ciò a motivo
della sua impareggiabil virtù e prerogativa in tutti que' mali ove abbisognino li Marziali 32, cioè
nelle ostruzioni, hidropisia, cachessia 33, mancanze di mestrui, emorroidi viziate, hipocondria,
flati 34 scorbuto, etc.
29 Farmaco a base di biossido di antimonio.
30 Fiore, in chimica, sostanza ottenuta per sublimazione. Regolo, in metallografia, indicava la massa purissima di metalli. Nella
letteratura farmacologia consta in particolare per l'antimonio (Tramater, sub voce; Imperato, I, 2,25).
31 Aludelo, ispanismo per alludella, vaso di terracotta usato per la sublimazione di alcuni minerali (spagnolo aludel dall'arabo
al- 'utàl, apparato chimico per sublimare). Nitro, termine in disuso, è il nitrato (latino nitrum da vírpov, soda).
32 In chimica farmaceutica e in medicina, composto e medicamento a base prevalentemente di ferro o di suoi derivati
(Vallisneri, III, 508).
33 " Cachessia (da icaxgía, cattiva costituzione fisica, comp. da xcocóg, cattivo, e gtg, disposizione fisica, Isidoro, 4, 7, 27), stato
di gravissimo deperimento organico progressivo, riconoscibile "dalla mancanza di colorito nelle parti carnose, particolarmente
dal pallore del viso, dalla perdita delle forze, dalla inabilità tanto per le funzioni naturali, che per le volontarie, dalla bassezza
delle braccia e delle gambe, da una languidezza universale" (Dizionario di sanità, I, 83).
34 Gas che si forma nell'apparato digerente e che viene espulso dalla bocca o dal retto. Dal latino flatus (soffio). Il "flato
trattenuto" dà origine "a ben quattro mali", secondo il Regimen sanitatis, cap. 4: "colica, vertigine, timpaníte e spasmo acuto".
Si prenda di vera terra 35 fogliata di tartaro rettificata con lo spirito di vino onc. 4, ruggine di
ferro fatto all'aria onc. 3, si macina in porfido tutto assieme per 6 o 8 ore continove 36, né si
perdoni a fattica, poi si espone all'aria difesa dal sole e dalle piogge sopra lamine o piatti di vetro
o marmo per 2 o 3 dì, e vedrassi una ellevazione a guisa di funghetti rubicondissimi, si levino con
diligenza ponendoli in saggioletto con spirito di vino o spirito di tartaro solubile a farne tintura,
la dose è goccie 25 in 20, ed opera mirabilmente.
Bozio 37 o sia tumor della gola
L’aplicazione della radica della brionia 38 fresca e rafano silvestre 39 pestati con l'assongia 40 e
applicati per 15 dì al calar della luna, ed in tanto usar intieramente le rotule di Gio. del Vico 41
ad bozium.
35 Anticamente, in medicina, sostanza minerale polverulenta dotata di proprietà medicamentose (Mattioli, 728).
36 Termine antico e letterario, nel senso di ininterrotto.
37 Il termine non mi risulta usato da altri. I vocaboli simili sono bozzo, nel senso di protuberanza, e bozza, in disuso, usato nel
dialetto toscano nel significato di bubbone, tumore (Vallisneri, III, 378).
38 Rampicante delle Cucurbitacee (Bryonia dioica, da [Spixovía, deriv. da (3pixo, faccio germogliare, per le tante ramificazioni),
detta anche vite alba, vitalba, barbone. Le radici contengono un glucoside con proprietà fortemente purgative (Plinio, 23, 13). È
chiamata anche fescera, zucca marina, zucca selvatica (Tommaseo, sub voce).
39 O ràffano, pianta delle Crocifere (latino raphanus da pewavo;). Se silvestre è detta laudra.
40 Latinismo per sognia o sugna e varianti (latino axungia, originariamente grasso da ruote, comp. da axis, asse del carro, e
tema di ungere).
41 In realtà Giovanni da Vigo, archiatra di Giulio II e autore della Pratica de arte chirurgica (Cosmacini, 229).
Buganze 42 o gelature
L’olio
di cera è rimedio prestantissimo, così la decozione delle foglie grosse del selano
applicata calda.
43
Bianchetto mobilissimo per conservar le carni bianche e morbide
Si battino con bacchettine a mazzo le chiare d'uovi, a fine di ridurli in spumma, la quale si
distenda su tavole monde a seccare, si macini, ad essa si unischi per onc. 1 una drama di borace
minerale abbruggiato 44, allume zuccherino e zuccaro candito drame due per sorta; e si adoperi
fregandola su le carni come l'uso.
Bianchetto sopra rame
Giaché
si è indicata la forma sicura d'un bianchetto innocentissimo per le donne[,] ora a
sadisfazione de mettallurgi espongo il seguente.
Si prenda tartaro di Bologna, salnitro ed arsenico cristallino parti eguali, si macini e si unischi il
tutto, e fatto rosso nel fuoco un crogiolo de più grandi a cucciaro, a cucciaro ci si getti entro la
detta mistura, lavorando a fuoco scoperto e sopra vento, e con cucciaro lon go per scansar li
fumi avelenati dell'arsenico, terminata la detonazione d'uno si getti l'altro, e così si facci fino alla
fine, si levi dal foco colandolo sopra qualche marmo, e si lasci all'umido per 2 o 3 giorni, e si farà
come unguento mole, che è privo affatto di venefico, sen ongino di quello le lamine di rame
sottili e depurato con alume, sale e urina s. a. e si faci strato sopra strato con argento laminato
od abbruggiato, ad ogni libra di rame tre in 4 onc. d'argento, o più se piace, e fondasi il tutto
prima con foco legero per un'ora e più, poi gagliardo al bisogno, ed avverassi un rame tanto
bianco, quanto più dir non si può, estensibile al martello, e sonoro, di cui sen può servir anche
per piatti, non essendoci timor dell'arsenico, come che nella dettonazione si fissò.
42 Voce dialettale del nord d'Italia (anche bugansa), per indicare í geloni, forse da "buchi", per i segni che lasciano i geloni
(Panzini, IV, 91).
45 Voce antica per sedano (latino classico selinon, e, volgare, selinum da aíltvov, termine diffuso dall'Esarcato di Ravenna).
44 Sale sodico dell'acido tetraborico (latino medioevale borax -acis dall'arabo btiraq e dal persiano btirah). In medicina
costituisce un lieve disinfettante. L'allume, poi, in medicina ha proprietà astringenti.
Calcoli discacciare
Polvere di scarpioni 45 seccati nel sol lione, e presa in dose di grani 2 fino a 6 rompe con tutta
sicurezza ogni sorte di calcoli, e caso che ci fosse infiamazione si antimettano qualch'oncie d'olio
d'amandole dolci o di semi di melone.
Cali di piedi
Tartaro d'orina (cioè quel sale, che si ritrova attaccato agli orinali mal custoditi), verderame,
pece greca, e cera mole parti eguali, si faci ceroto d'applicarsi con tutta sicurezza.
45 Variante per "scorpione". Specifico, come olio o come polvere, per le vie urinarie (Bencivenni, 7, 55).
Capopurgio 46 per tutte le ottusità, flussioni e dolori di testa
Radica d'ireos onc.1, radica d'eleboro nero onc. mezza, sandali citrini drame 2, si unischi il tutto
in polve sottilissima e si usi per purgar la testa tirandone in poca quantità per il naso a forma di
tabacco.
Capelli per fargli nascere
Mosche, api e vespe, parte eguali si cuocino nell'olio di nocelle o di rossi d'uovi, si coli e si
aggioghi di storace liquido 47 ad libitum, e si usi lungamente.
Capelli a fargli biondi
Spirito di mele unito all'acqua sua usato per 15 o 20 giorni con la testa al sole.
Capelli a fargli neri
Tintura di ferro fatta con aceto, usata per umettarne, è sicurissima, il simile la polvere di folie
di fichi cotta in unguento con olio di nociole, lo stesso il succo di bacelli d'orobo freschi 48.
46 Termine antico (dal latino medioevale, comp. da caput, capo, e purgare): medicamento contro i dolori di testa. In polvere o in
balsamo, era inspirato dal naso (Tommaseo, sub voce).
47 Storace o stirace (latino storax o styrax -cis da atúp4), arbusto resinoso (Styrax officinalis) e relativa resina, usata in
medicina contro la scabbia e i pidocchi. Lo stesso vale per l'arbusto e relativa resina del liquidambra (Liquidambar orientalis), al
quale sembra riferirsi l'Autore.
48 Oròbo o òrobo (latino tardo orobus da ópo(3og, ervo), pianta delle Leguminose. È così detto l'ervo "nelle spezierie" (Mattioli,
274).
Capelli che cadono
Pelle delle vipere abbruggiate ed unite all'olio di nocelle selvatiche, e fattane onzione serve
mirabilmente.
Cancri aperti
Quantunque
si lega in Hippocrate: Cancri curati citius pareunt, non curati vero diutius
perdurant pure la esperienza m'ha fatto veder a sanare molti. L'arte prima consiste in purgar
il corpo ed il sangue, il corpo coll'estrato d'eleboro magistrale 50, che in questi casi val sopra di
tutti; el sangue co' dilluenti e vulnerari, ed in tanto esternamente si aplichi la magnesia
arsenicale fino che sii estirpata tutta la quantità del morbo, e sopra il ceroto di minio, in ultimo
il balsamo di solfo del Rolando 51, e sopra lo stesso ceroto, col mercurio diaforetico vero52 è più
sicura la guariggione.
49,
Cancrene e sfacello 53
Il più potente e sicuro rimedio è il butiro 54 liquido d'antimonio, col quale si tocca tutto l'ofeso, e
sopra ci si aplica un empiastro di farina d'orobo replicandolo al bisogno.
49 "I cancri curati si manifestano più velocemente, i cancri non curati perdurano più a lungo".
50 Termine desueto per "galenico".
51 Forse, un preparato che risale a Rolando di Parma, chirurgo operante a Bologna nel sec. XIII.
52 I farmaci a base di mercurio erano sudoriferi (Cestoni, 132): prescritti per espellere dalla cute il veleno pestilenziale (Muratori,
III, 176). Diaforetico vuol dire sudorifero (agg. di diaforesi, da Stacpópriatg, comp. da Sta, attraverso, e Opco, conduco).
53 Sfacelo o sfacelo in medicina è la necrosi di tessuti comunicanti con l'esterno.
54 Così anche detto il butirro o burro (latino medioevale butirum da floínupov, comp. da Paín, bue, e tvp6;, formaggio).
Carboni o sien antraci
Si gira atomo d'essi con una penna intinta nel detto butirro d'antimonio e sopra si aplica il
ceroto di minio cotto a nerezza, e così si cavano dal fondo con facilità 55.
Carnosità del meato urinario
La polvere sottilissima di sabina 56 atortigliata alla candela di cera, la di cui sommità sii di
ceroto di minio, si replichi finché è disseccata la carnosità, ed in ultimo si aplichi il solo ceroto.
Cascate d'alto
Ho sperimentato più volte con successo felice il balsamo di copayue 57 in dose di 30 o più gorcie
in suco di granci pestati vivi, e vin bianco replicato di 8 in 8 ore, 2 o 3 volte, e ciò con felicissimo
fine.
55 Si tratta dell'antrace che chiamiamo cutanea: "un insieme di foruncoli che si produce nel medesimo momento sulla stessa
superficie" (Valnet-Duraffourd-Lapraz, 355).
56 Anche savena o savina (latino sabina), arbusto delle Cupressacee (Iuniperus sabina). Le foglie o i rami erano usati in polvere
(Erbolario volgare, I, 132).
57 Così scritto nel testo (in realtà copaive o copaibe, copaiba, coppaiba), per assonanza al caribico copau, con cui si designa la
pianta (copallera) delle Leguminose Cesalpinioidee. Il suo balsamo era usato come antisettico urinario.
Cattarate degl'occhi
Si prenda
lo sterco di fanciullo maschio che ancor si cibi di solo late, e raccolto in debita
quantità si distilli cenere, e l'acqua che n'esce si adoperi aplicandola all'occhio, e vedransene
operazioni singolari, parlo delle cattarate ancor principianti[,] non restando però di purgare il
corpo ed usar gli altri cefalici incisivi.
Dolori colici
Prendi
pepe bianco polverizato onc. una e mezza, folie di ruta polverizata mezz'onza, sal
gemma drame cinque, teriaca 58 onc. 4, si facci eletovario 59, e si usi in dose di denari uno in dui
al bisogno.
Altro simpatico 60
La pelle interiore del ventricolo del galletto giovane, lavata in vino generoso e caldo è rimedio
sicuro. Così anche la polve dell'intestino del lupo presa in vi no, vale il simile anche l'intestino
detto, legato sul ventre, lo stesso fa un certo ossetto del piede destro della lepra preso in polve.
58 La più nota delle medicine composte. Gli ingredienti, molto variabili e complicati, erano in linea di massima i seguenti: carne
di vipera, oppio, liquirizia, genziana, pepe, zafferano, pino,
zenzero, cassia, camomilla, anice, cardamomo, acacia, peperoncino, resine e gomme vegetali e varie sostanze minerali (Penso,
404). La teriaca o triaca risale ai greci (Ori piocieíb da cui il latino theriaca), per le cui ricette divenne famoso il cretese
Andromaco, vissuto a Roma al tempo di Nerone.
59 Variante antica per elettuario (tardo latino electuarium, miscela medicamentosa). Preparato farmaceutico costituito di
polveri, sali, vegetali e altri ingredienti mescolati con sciroppo, miele o resine liquide. Era usato per molte malattie, specie
riguardanti l'apparato digerente (Bencivenni, 5, 68).
60 Sostanza pulverulenta che si riteneva assorbisse gli effluvi delle malattie. Il termine risale alla tradizione alchemica.
Carie d'ossi in ogni parte
Lo spirito di canfora legitimamente preparato, così la polve di trementina ottimamente cotta
sono due sicuri remedi da appropriarsi secondo i casi.
Contusioni
Si aplichi più presto che sia possibile la radica di brionia pestata, ed è rimedio sicuro avvalorato
da mille esperienze ed anche dall'autoritade d'Elmontio.
Diarea, disenteria e flussi menstruali
La terra dolce di vitriolo in dose d'un denaro 61 presa con estratto di tormentilla o zuccaro
rosato replicata 3 o 4 volte il dì. Altro sicurissimo si è raccogliere li cottogni allor che sono ancor
inmaturi assai né hanno succo alcuno, fargli seccare (e seccano come se fossero di legno) i
limarne al bisogno mezza drama e prenderla con vino o brodo replicandola due volte il dì;
avvertendo però che sii primo preparato il corpo per scansar quelli accidenti che potessero
succedere alla sopressione indebita. La radica d'ipequaquana è sopra tutti 62.
61 Come unità di peso, 1/24 di oncia.
62 Ipecacuana (ant. ipecoacana, ipococaana), pianta delle Rubiacee di origine brasiliana. Le sue proprietà vomitive sono state
apprezzate a lungo (festoni, 374).
Dolor de denti
Decoto di nicoziana e radica o seme di insquiamo 63 fatto in aceto e applicato caldo.
Altri infiniti cen sono, e tutti sperimentatissimi in questo caso, ma per non eccedere in noiosa
longezza a questo solo m'attengo.
Nettar de Denti
Cremor di tartaro 64 onc. una[,] alume abbrugiata dram. due[,] scorze di lumache abbruggiate
onc. 6, rad[ica] d'ireos, coralli bianchi prep[arati] a 65. mezz'oncia, garofoli n. 12 incirca[,] si facci
polvere per usar ne casi più ardui, avertasi che li incarna a meraviglia, ed è rimedio sicurissimo.
Diabete o sia flusso d'orina
Opio torrefatto tanto, che non sia più capace di far dormire, fatto in polve si unisce con egual
porzione d'ocrea di Marte 66, la dose grani 5 in 6 per sorte[,] 3 o 4 volte il dì in brodo di
tormentilla.
63 Giusquiamo (latino tardo iusquiamus o hyoschyamus, da uomeúcqlog, fava porcina, comp. da vg-még, porco, e icùaptcq,
fava), pianta erbacea delle Solanacee. In medicina si usa come antispasmodico, sedativo e analgesico: da ricorrervi "con
parsimonia" (Tramater, sub voce).
" Cremore (estratto di una sostanza) di tartaro, nome comune del tartaro acido di potassio. Si forma nelle grume delle botti. In
medicina, ad uso interno, serve come lieve lassativo.
65 Abbreviazione di "ana" (da avec, in senso distributivo): parità di dosi per più componenti indicati nella ricetta.
66 Ocra (ant. òcrea, raro òcria), una delle tante varietà terrose, unita a differenti minerali. Quella di Marte è ferrosa (Tramater,
sub voce "Marte").
Non posso trascurare in questo caso di dar notizia ad ognuno delle due vere e legitime tinture di
coralo, diverse nelle operazioni, secondo diverse sono le manipolazioni d'esse. La prima
coroborante di tutte le parti del corpo e confortativi in sommo di tutti gli spiriti ne casi più
ardui, e di diabete e di flussi, e di qual sia d'altro simile. La seconda incisiva in tutte le viscidità
che siino fino nell'ultime nutrizioni, e per apoplesie e vertigini, e scorbuto, e effetti ipocondriaci
disperati, e mancanze di mestrui e flussi albi, e casi simili l'arte di fabricarle si è di prepararsi il
mestruo, che è il solo spirito di tartaro solubile[,] fatto all'uso zuelferiano, e rettificato, se con
questo si digerirà il corallo crudo qual è lo scioglie, e ne cava il solfo qual potrà ridotto in
estratto cavarsi con altro qual si sia spirito a proprio beneplacito, o lasciarla nel detto spirito. La
seconda è di calcinar il corallo nelle fornaci de vetrari e lasciarcelo per 2 o 3 giorni, che così da
bianco, che si fa nel fuoco, ritorna rubicondissimo e spongioso[,] si trituri ed a poco a poco ci si
infonda lo spirito sopra segnato, e si caverà perfettissima e odorifera tintura senza passarla in
altro liquore.
Già che del corallo si discorre[,] mi resta da palesare una esperienza fatta e rifatta da me di
ridurlo tutto qual è in acqua rubicondissima senza l'unione del mestruo, ed è di far in acqua un
po' più fluida il mercurio d'antimonio cavato dal regolo marziale, quale vien descritto dal
Becchero 67; e distillata più volte, e sempre senza unione di cosa alcuna, dett'acqua, posta in
debita quantità su coralli gli scioglie in acqua rubiconda, e gli scioglie in tutto il suo peso, e
l'acqua di mercurio sta sul fondo del vaso, e si può separare con cautella d'imbutto, essendo la
dett'acqua sempre la stessa, e sempre capace a scioglier nuovi coralli, se quest'acqua poi di
coralli possi servir nella medicina lo lascio sperimentar ad altri curiosi, desideroso io di tentar
qualch'altro esperimento di maggior importanza.
67 Italianizzazione di Johann Joachim Becher (Spira, 1635 - Londra, 1682), professore di medicina a Magonza, Monaco ed
Haarlem. Si rifece a Paracelso per la dottrina sulla costituzione della materia. Dei suoi scritti rammento le Theses chimici.
Diamanti nuvolosi chiarificare
Si sepellischi il diamante nella polve di carbon di frassino in duoi crogioli legati, e a fuoco di
secondo grado si mantenghi per due ore, si leva dal fuoco, si lascia rafredare[,] poi si cava e si
polisca.
All'Emicrania simpatico
Lo sterco di pavone maschio con canfora applicato alle tempia è sicurissimo.
Epilepsia o sia mal caducco de fanciulli
Cinabbro 68 nativo mezz'onzia, coralli rossi scrup. 2 69, zafrano scrup. 1, si facci in polvere, la
dose è un denaro nell'accessione mescolato con polpa di pomo cotto.
La sopra segnata tintura di corallo dopo li debiti universali è sicurissima.
68 Cinabro (latino cinnabaris da Ktvvetflapt, tintura rossa), in mineralogia è il solfuro di mercurio. Quello puro, o nativo, è
rosso vermiglio.
69 Scrupolo (latino scrupulus e varianti, sassolino, da scruptus, sasso), come misura di peso è 1/24 di oncia (come il denaro).
Così ad ogni età dopo l'uso de debiti vomitori purganti e diaforetici si adoperi per specifico la
secondina 70 di cavalla, adattata a sessi, si polverizi dopo averla fatta debitamente seccare e si
dia in 9 prese a luna calante, ed è remedio certo.
Erisipelle 71 o fuoco sacro
Una pezza di lino inzuppata in sangue di lepre stancata in longa caccia da cani, ed ucciso verso
la fine di giugno o principio di luglio, si conserva per applicarla a lochi ofesi bagnandola primo
d'usarla in acqua di fonte, e sana immediatamente.
Altro per difendersi dalle Eresipelle
Un nodo della pianta maestra del sambuco di quattro rami portato adosso vien depredicato per
sicurissimo.
Febbri pestilenziali
Cristallo minerale prep. onc. mezza[,] canfora drama una[,] se ne facci polvere e si divida in 4
parti da prendersene una ogni sei ore in brodo di scordion 72 o simile.
70 L'insieme degli annessi fetali espulsi al termine del parto.
71 Erisipela (o eresipela e varianti; antic. erisipele, latino tardo erysipelas, infiammazione della pelle).
72 Scordio o scòrdeo, scordeon (latino scordium da axópStov), teucrio, erba aglio (Teucrium scordium), astringente e
conservante: tra l'altro si usava per impedire la putrefazione dei cadaveri. La putrefazione dei cadaveri era ritenuta una delle
possibili cause di peste (Arluno, 8).
Febbri intermittenti col freddo
Fiori
di centaurea minore 73, alume crudo, cocole di cipresso una drama per sorte, opio
torrefatto, otto grani[,] si unisce il tutto assieme e se ne fanno 4 parti eguali, dandone una
nell'accesso della febbre, e ponendosi in letto, così replicando l'altre se il bisogno porterà,
avvertasi però di non usarla mai se non dopo purgato il corpo, ed ognuno si accerti che è rimedio
approvatissimo.
Ferite de' nervi
La polvere de lombrichi seccati applicata, sana presto senza pericolo.
Fiato puzzolente emmendare
Masticata la zedoaria infusa primo nello spirito di rosmarino dopo l'uso dell'oximel scilitico è
sicurissimo, quando il difetto venghi dallo stomaco venendo poi dalla bocca per denti guasti, si
levino, per piaghe si medichino, e vedrasi la sanitade.
Unguento da Fuoco
Olio sambucino 74 e chiara d'ovi battuti assieme, e fattone unguento è precioso a tal'effetto.
73 Pianta delle Genzianacee (Centaurium umbellatum), è detta biondella perché usata per schiarire i capelli (Mattioli, I, 407),
ma anche "erba delle febbri" (Tommaseo, sub voce). Così chiamata (latino centaurea da icevtaúpetov), perché la usò il centauro
Chitone per curare una sua ferita.
74 O sambuchino, olio ricavato dal sambuco, usato tra l'altro contro i dolori nevritici (Bencivenni, 7, 54).
Altro per scotature di polvere, solfo e cose simili
Calce sfiorata da per sé in luoco umido, si unischi con acqua di fior di sambuco facendone
finimento da applicarsi alla parte offesa più presto che si può è di tutta esperienza, vero rimedio
per l'armate e per abbruggiati da mine scoppiate, e simili.
Alla Gonorea rimedio approvatissimo
Cremor di tartaro mezz'oncia[,] occhi di granci veri preparati, osso di seppia prepar. dram. una
per sorte, canfora e diagridio 75 due danari per cadauno, si facci del tutto polvere e si unischi e si
separi in sei prese o al più otto secondo le forze dell'amalato[;] da prendersene una per mattina, e
dopo queste il balsamo di copajue per 10 o 15 dì in dose di 8 o 15 goccie in emulsione di seme di
canape, amandole e papaveri bianchi (l'ipequaquana).
A dolori della Gotta
Si distillino le cervella di vitello per cenere, e l'acqua che n'esce si applichi al loco doloroso
tepida, e acquieta meravigliosamente il dolore. Così vale anche a dolori delle dislocature delle
contusioni de nervi, e altre parti dolorose.
Per smagrire un Grasso senza detrimento veruno
La polve delle lucerte pria scorticate e nette, presa
in dose d'un denaro per mattina a proprio beneplacito.
75 Preparato farmaceutico a base di scamonea polverizzata.
Alle Moroidi anello simpatico
Regolo stellato fatto senza sali onc. 1, mercurio congelato, con l'odor di saturno 76 mezz'oncia, si
sonda il regolo, s'unischi il mercurio e se ne gettino anelli da portargli nel dito auriculare della
mano sinistra.
Altro
La folia di fabbaria 77 applicata allo stomaco[,] cioè su la mucronata 78 sana; così fa applicato
alla parte l'unguento di linaria o il succo di scrofolaria 79 montana nutrito con l'olio sambucino o
grasso di ranno 80.
All'Hidropisia d'acqua
Dopo li debiti purganti si prenda per 10 o 15 giorni mezzo scropolo fino ad uno di polve di rospi
seccati in forno ed è rimedio esperimentato.
76 Preparato farmaceutico a base di sali di piombo.
77 Favària o fabària è il sedo, la fava grossa (fava grassa, Mattioli, 352) o fava inversa. Chiamata popolarmente fava di san
Giovanni, perché fiorisce al tempo della sua festa liturgica (27 dicembre).
78 Apofisi tifoidea, parte inferiore dello sterno. Inizialmente cartilaginea (cartilagine mucronata), si ossifica in età matura
(latino mucro -onis, pugnale).
79 Linaria, pianta delle Scrofulariacee somigliante al lino. Il succo era usato contro le infiammazioni degli occhi, e l'erba stessa e
il suo succo servivano a curare le fistole e i carcinomi. Scrofularia, antic. scrofolaria, pianta delle Scrofulariacee, ritenuta
importante contro le scrofole (tubercolosi delle ghiandole linfatiche) e contro le emorroidi (Mattioli, 570).
80 Liquido che trasuda dalle olive nel frantoio non ancora sottoposte a spremitura.
All'Iterizia o sia gialore
Si inghiotta sopra d'un uovo sorbile un cimice vivo, replicandolo 2 o 3.volte ed è sicuro, così
l'orina dell'infermo su la cenere del frassino, la detta orina su le fecci del mullo 81, così il rimedio
del Lanzoni 82 dello scorzo d'ovo ed urina e altri simpatici tutti facili e sicuri.
Latte per moltiplicare
La polvere de lombrichi seccati in forno, e data nelle minestre o ne uovi in dose di mezza drama
incirca è rimedio certissimo.
Latte per farlo perdere
Succo di cicuta caldo applicato alle mamelle con pezza di lino dupplicata; si replichi 3 o 4 volte,
e lo fa senza alcun danno.
Latte acquagliato nelle mamelle
Succo o decotto o empiastro di menta applicato caldo due volte il giorno fa l'effetto. Così (e
anche meglio) il succo di brionia, o sua decozione.
81 Mulo.
82 Giuseppe Lanzoni (Ferrara, 1665 - 1730), medico.
Latte virginale composto
Storace, belgioino a. onz. 2, borace min. dram. 1, garofoli num. 4[,] si digerisce in spirito di vino
lib. [?], si cola e si serve d'esso a tener bianche le carni, gettatane 10 o 12 goccie in un cucchiaro
d'acqua, e con quella bagnarsi.
Macchie del volto levarsi e far le carni morbidissime
Si tagliano per metà l'ova intostateU se le leva il torlo ed in sua vece s'empiono le cavità della
seguente mistura. Trementina onc. 6, belgioino, mira, spermaceti a. oncia 1, di nuovo empiuti si
legano e per b. m. si distilla tutto ciò che può distillarsi, e l'acqua che uscirà spiritosa e chiara è
una delle più eccellenti che possino adoperarsi, avvertasi però d'usarla solo la sera, ungendone il
volto e dove altro si vuole[,] poi la mattina lavarsi con la molica di pane fresco, e vedrasi il gran
bene che ne fa.
Al Morbo gallico decotto universale
Dopo li debiti purganti si usi il seguente decotto. Rasura di sassafras 83 oncia una, smilace aspra
84,
poli-podio quercino 85 a. oncie due, argento vivo ben purga to oncie quattro[,] si pone il tutto
in acqua comune lib. dodeci, e in vaso di terra si fa bollire per 4 o 5 ore, poi si cola, e d'esso sen
beve due volte al giorno, sei o vero otto onc. per volta secondo la complessione e quantità del
male[,] per 15 o 20 dì[,] al più 30 o 40.
Avverto al cortese leggitore che all'estirpazione intiera di questo pessimo morbo ho una
medicina impareggiabile mercuriale, che non opera mai per salivazione né per seccesso, né per
vomito, e pur con essa ho sanati li più disperati morbi che in caso tale possono darsi. Non paleso
per ora la forma di fabricarla, perché fin che vivo voglio io tutto l'onore di servirvi, temendo non
sii in altre mani per fabbricarsi da tutti con sicurezza e fedeltà.
83 Sassafrasso o sassofrasso (antic. sassafras), pianta delle Lauracee (Laurus sassafras), originaria dell'America.
84 Pianta delle Gigliacee (Smilax aspera), Volgarmente detta vilucchio-ne.
85 Polipodio dolce o quercino (Polypodium vulgare), delle Felci Polipodiacee, detto felce o radice degli alberi (Bencivenni, 7, 25)
perché dirama le radici sui muri o sulle cortecce arboree (da no?ance•Stov, comp. da nokk molto, e no•6g, noSóg, radice).
Mestrui provocare
Si prenda per mezzo d'un imbutto alle parti naturali 2 volte al dì il fumo del decotto delle scorie
d'antimonio dalla fabrica del regolo comune, e ciò per 3 o 4 giorni avanti il tempo stabilito.
Opera in questi casi anche a meraviglia la tintura di Marte sopra scritta, e la seconda delle due
tinture di corallo pur scritta di sopra.
Memoria moltiplicare
Seme d'ortica onc. 6, olio com. onc. 3 [,] si pestano li semi[,] s'uniscano all'olio e per b. m. si
digerisca per 2 o 3 dì, poi per cenere si distilla e d'esso sen onge la nucca due volte la settimana.
A mottivo di giovar a studenti, vo' palesar il maggior de Secreti che io possegga per la memoria
ed è la seguente tintura o sia elixir, da usarsi però solo ne pituitosi, o siano umidi, che ne biliosi e
addusti ci vol attenzione.
Formiche raccolte co' foli di carta intinta di mele oncie quattro, canella, satijrion polposo 86,
anacardi 87 a. onc. 1, cubebe 88, macis 89, garofoli, a. onc. mezza. Ameos 90, dauco 91, spico nardo
92, semi di rucchetta, di portulaca, d'urtica e di finocchio, foglie di petroscelino macedonico 93 a.
dra. due[,] melissa, salvia, rucchetta a. man 94. duoi, vino bianco generoso libre 20, si digerisce
per due giorni in lambico di rame ben stagnato, poi a foco gagliardo si distilla, lo spirito che
distillò si cola sopra robba nuova 95, e dieci libbre di nuovo vino, e ciò che distilla la seconda
volta di nuovo per la terza si replica, in ultimo si macina uno scropolo d'ambra grisa e mezza di
muschio orientale con una mezz'oncia di zuccaro candito e ben macinato[,] si pone in detto
spirito usando di quello per trenta o quaranta dì[,] mattina e sera[,] un quarto d'oncia per volta
dopo d'aver fatta un esata purga coi tartarizati, si viva a regolata dieta né si ecceda in niuna
delle cose non naturali.
86 Satirio o satirion (latino satyrion -onis da aatí)plov, che rimanda a
csecrupog), pianta delle Gigliacee e Orchidacee, con proprietà afrodisiache.
87 Anacardo o anacardio (Anacardium occidentale), pianta e frutto a forma di cuore (da avax6p8tov, simile al cuore) delle
Anacardiacee.
88 Cùcube, rampicante e frutto delle Piperacee, d'origine araba. In medicina era usato come diuretico.
89 Droga aromatica preparata con la noce moscata.
90 Forse, ammi o ammio, erbacea delle Ombrellifere, usata per í condimenti ma anche in medicina per vari scopi, ad esempio
come diuretico (Plinio, II, 64).
91 Detta anche pastinaca (latino daucun o daucus, carota), pianta delle Ombrellifere dai semi odorosi (Mattioli, 422).
92 Spigonardo (con varianti) o nardo indico (Nardostachys iatamansi), molto usato anche come diuretico. Sembra che, per
rafforzare la memoria, giovi orinare molto.
93 Petroselino o petrosellino, petrosilino, pretrosillino, termine antico per prezzemolo (Petroselinum hortense), così chiamato
(latino petroselinum da nEtpocra,tvov, comp. da rckpa, pietra, e aatvov, sedano) perché nasce dalle pietre in Macedonia
(Mattioli, 417). Anch'esso ha proprietà diuretiche (Dizionario di sanità, IV, 52).
94 Manipolo: in farmacopea, misura di peso equivalente a 50 grammi per i semi e le farine e a 15 per le erbe.
95 "sopra un panno pulito".
Morsicatura di cani rabiosi
Le frondi della cinoglosa 96 pestate con assongia di porco e applicate più presto che si può [i
sana, in tanto si usi interno il balsamo di sale o le poveri di gran-ci[,] avertendo che il veleno del
can rabbioso scioglie il sangue, non lo coagula.
Morsicature delle vipere
Succedendo la disgrazia della morsicatura[,] si prendano più presto che si può delle laminette di
ferro in numero di 4 o 6 e fatte rosse nel fuoco con le molette se ne tenga una poco discosto
dall'offesa, di modo che scotti, e si levi la vescica, si replichi con l'altra, spezzando le vesciche che
di mano in mano si van facendo, fin che si vede che non cola più una cert'acqua verde e giala,
che sono le linfe della parte ed il sangue sciolto dall'alkealico 97 volatile del veleno, si medichi
poscia come se fosse scottatura ed in tanto interamente si beva buon vin generoso con entro lo
scordion o le foglie di frassino o qualsisia d'altro bezoartico 98 od alexifarmaco 99 fortificato dallo
spirito di sale.
96 Cinoglossa o cinoglosso, pianta delle Borracinacee, detta "lingua canina" (latino cynoglossos da Kuvóy?aoaaog, comp. da
id)ov, leuvég, cane, e yXWcaa, lingua), "erba della madonna", "erba vellutina" e, come per varie erbe venefiche, "pisciacane"
(Tramater, sub voce). In farmacopea era composta con l'oppio (Tommaseo, sub voce).
97 Forse, si deve leggere "alchilico".
98 Composto farmaceutico del bezoàr (latino medioevale bezoar, dall'arabo bdzar e persiano pddzahr, pietra contro il veleno),
concrezione che si forma nell'apparato digerente dei ruminanti e che costituiva nella medicina popolare un potente antiveleno.
Altrettanto, pianta (Dorstenia contrayerva) delle Moracee, originaria dell'America centrale, la cui radice è un antidoto contro il
veleno dei serpenti. La variante lessicologica è belzuar, o benzuar, con incrocio di "bello" e di "bene", tanto era ben vista e
apprezzata questa sostanza, in epoche in cui il morso dei serpenti velenosi normalmente uccideva.
99 Alessifarmaco (latino alexipbarmacon da aik.egtcpécpptalcov, comp. da écXg-tg, protezione, e (pécpgalcov, farmaco),
antidoto.
All'Odorato perduto
Se il male è sul principio[,] si sana coll'odorar spesso l'oglio distillato di menta, di maggiorana,
di noce moscata uniti assieme con sal volatile d'Inghilterra 100 in un vasetto ben oturato.
Acqua per mal d'Occhi
Vino bianco
una carafa, tuzia 101 preparata mezz'onza[,] verderame due drame, uova toste
tagliate in fette sottili con lo scorzo n. 3, si facci infusione al sole per un mese, si coli e si aggiongi
canfora raduta drame una, e si conservi per ogni mal d'occhi.
Ardor d'Orina
Polve d'ossi d'olive mature, presa in dose d'una drama in un cucchiaro di vino o brodo, in tre o
quattro mattine è sicurissimo.
100 Detto anche sale amaro, è un purgante (Tommaseo, sub voce).
101 Tuzia, ossia zinco.
Alla dificultà d'Orina
La
gomma bdelio 102 data in dose d'un denaro è sicurissimo, assicuratevene adunque ed
all'occasione adoperatelo.
Orina rittenere a chi piasciasse a letto involontariamente
La polve de sorci seccati in forno o de rizzi 103 data in dose d'una drama la sera avanti l'ora del
sonno e replicata per varie volte è cosa sperimentatissima.
Alla Paralesia 104
Il decotto della radica d'agrimonia 105 preso caldo tutte le mattine per trenta o quaranta giorni;
in tanto applicare esterno il decotto di tabacco fatto nel vino alla radice de nervi ed alla parte
più tremante.
102 Bdellio (latino bdellium da 13&?kItov), arbusto, e sua resina, delle Bursaracee. La resina è usata in farmacia per preparare
impiastri ed emulsioni. Era chiamata anche broco, malaca, maldaco (Plinio, I, 1152). Alcuni ritengono che tale fosse la "manna"
del deserto, mangiata dagli ebrei.
103 Variante linguistica di "riccio".
104 Una delle varianti linguistiche di parlesia, cioè epilessia.
105 Pianta delle Rosacee (Agrimonia eupatoria, latino argemonia da apyei.tówn, papavero selvatico). Con il suo frutto si
componeva un antidiarroico.
A facilitar il Parto
E’ sicuro ed esperimentato il fegato d'un anguilla fatto in polve dopo d'averlo seccato in forno
senza che ab-brugi, e dato tutto dopo la rotta dell'acque, avertasi che non dura più d'uno in due
mesi, che si corrompe, sì che converebbe preparargli pochi dì avanti il bisogno.
Pastiglia odorata eccellente
Noce moscata, garofoli, storace in lacrima oncie 1 per sorte, polve di fiori di lavandola, di
maggiorana a. mezz'oncia, Balsamo del Perù due drame, farina d'amito onc. 2, dragante 106
sciolto in acqua di fior di cedro q. b. se ne faci una pastiglia, che seccatasi può ongere con
qualche olio d'odori e conservarla.
Levar Pelli con sicurezza
Rospi vivi nel solleone num. 4 si coprono in una pignata con sale decrepitato per 20 dì, dopo
per b.m. in lambico di vetro si distilli, e l'acqua che ne uscirà si usi con sicurezza.
Amuletto sicurissimo contro la Peste
Polvere di rospi battuti prima vivi al solleone, che gettino nelle patelle di cera li vermi verdi, e
unito il tutto con la metà di succino 107 e dragante disciolto si compongono amuletti, alla quale
[polvere] secondo l'autorità del Tenzelio 108 unite le limature de quattro in-perfetti metalli; e
fattane pasta alla grossezza d'un amandolo[,] da portarsi alla parte del peto[,] difendono
(permitente Deo) da ogni mal contaggioso. Di questi me ne trovo in quantità pronti a comandi
dell'amato legitore, per conservazione d'ognuno
Alla Pleuritide o sia mal di costa
Prendi polve da schioppo 2 drame o 3, al più mezz'oncia secondo le forze dell'amalato, vin
bianco generoso una libra, e tutta l'orina d'una volta del paziente, si fa scaldar un poco, e
distemperata la polvere se ne fa un cristiere, e si replica un'altra volta da lì a quattro ore incirca.
In tanto s'applichi esterno su la parte ove duole il seguente empiastro. Calcina viva oncie 2, mel
vergine onc. 4, posto sopra foglio di carta luccida.
Polipo del naso
Si tirri a d'uso di tabacco la polve di sabina, e sola da per sé basta a disseccarlo o sanarlo a fatto.
Poluzioni notturne
L’emulsione di semi di canape e papavere bianco fatta col gello 109 di cotogni e brodo di
tormentilla è ri medio assodato da replicatissime esperienze[,] in tanto alle reni un empiastro
corroborante.
106 Dragante o adagrante, gomma resinosa. Tutto ciò, "quanto basti" (abbreviazione, "q. b.").
107 Sùccino: ambra.
108 Tenzel Andreas, medico tedesco del sec. XVII.
109 Gelo, nel significato antico e letterario di gelatina.
Alla Raucedine
Si facci bollir in acqua la semola di grano, la liquirizia, iuiube 110 e dattili e fichi secchi, e di
questa colata, e si gargarizzi, e ne beva.
Reuma inveterato alla testa
Si facci fumo d'incenso e bacche di ginepro e si ricevi a bocca aperta ed a capo ben coperto.
Rotture intestinali
Si prendano da trenta lucerte vive e si pongano in due libre d'olio d'ulivo, lasciandole al sole
tutto il mese di luglio ed agosto, poi si cola, e caldo di applica col suo cinto.
Sputo di sangue quantunque venisse da polmoni
Rane verdi così vive si pongano in una pignata di terra in forno ben caldo a seccare in polve di
cui se ne dà una drama in sciropo di papaveri replicandole anche due volte il dì finché cessi lo
sputo, ed assicurasi che è rimedio impareggiabile. Le peli delle rane di fiume scorticate la luna di
maggio, fatte in polvere sono un grand'arcano per lo sbocco di sangue, a chi le sa usare.
110 'm O iuiuba, giuggiola (arabo jujuba).
Alle Scrofole aperte
Si prendano sei o vero otto ragani verdi grossi, si ponghino nell'olio d'ulivo a farli morire a foco
legero, poi a poco a poco s'aumenti il foco facendolo bollir alla gagliarda, in fine si attacchi il
foco nell'olio ed abbruggi il tutto, quando sarà ridotto ogni cosa in cenere si macini, e si conservi
per coprir di questa polve le scrofole aperte, e sopra ponervi una pezza duplicata inzuppata in
liscivia gagliarda, e si replichi finché cadano tutte le radiche per proprietà e virtù della sopra
detta polvere, all'ora si usi il solo ceroto di cerusa 111 o di minio, e guariscono ottimamente.
Singiozzo
Due o tre goccie d'essenza di spico in un uovo fresco si beva, e sana.
Settole nelle mamelle e fissure de labri
Olio mastici onc. 2[,] incenso in polve onc. mezza [,] cera bianca q. b.[,] cuoci in scorzo di
citrine, ed è unguento preciosissimo.
111 Antic. per cerussa, biacca. Come il minio, non si usava solo in cosmetica, ma anche in medicina, come disinfettante
(Mattioli, 687).
Fermar lo Starnuto
Latte tepido tirato su per il naso è sicurissimo.
Stagnar il Sangue del naso
La terra dolce di vitriolo tirata per le narici fa sicuro l'effetto, così fa il succo di fimo asinino o la
polve del mede [s] mo.
Sordità
Prendasi
l'ova di formiche e pestare con assongia d'anguille si applichi, così lo spirito di
formiche, così il fumo di solfo preso alla parte con un inbatto.
Levar lo stridor allo Stagno
Si calcini per mezzo della fusione senza aggionta alcuna, calcinato si macini con sal decrepitato,
poi si lavi con acqua calda, si asciughi, e con borace si riduchi, e sarà duro, sonoro, senza
stridore, senza puzza, e bianchissimo.
Saponetto odorifero
Sapon mol[l]e lib. 1[,] succo di limoni onc. 2, si battono assieme e si lasci asciugar, dopo si
agi[u]nghi olio di tartaro on. 3 E,] olio di belgioino mezza onc. bals. bianco una drama, e se
agradisce ci si può anche metter muschio o ambra, all'or si conserva per lavar le macchie ed
imbiancar le carni e fuggar macchie leggeri.
Tigna
Vale sopra tutti l'essenza di solfo applicata dopo gli emoglienti, così l'olio di tartaro on. 1 e
laurino onc. 2 applicati varie volte.
Vaiolo
All'ora che sono scopiate si ongino subito con olio di amandole dolci, indi si coprono con fogli
d'oro di zecchino replicandolo 2 volte il dì per 3 o 4 giorni, che non lasciano segno veruno, e
questo a causa dell'impedir che si fa l'irruzion dell'aria.
Al Vomito violento
Si cuocino li cotogni nell'acetto fortissimo, si pestano e vi si aggionga seme di senapa e polvere
di garofoli un poco per sorte, e se ne facci empiastro che si applichi caldo alla bocca dello
stomaco.
A Vermini sì ne' fanciulli, come in ognun d'altri
Sopra quanti medicamenti si possino fabricare egl'è valevole l'ettiope minerale, che si fabrica
macinando un oncia e mezza di fior di solfo con un oncia d'argento vivo in un mortaro di
pietra[,] fino che sii fatto il tutto in polvere negrissima la dosa, e mezzo danaro fino a uno, o in
polpa di pomo cotto o qualche conserva.
All'Uscir della vagina dell'utero
Que calli che si ritrovano alle gambe de cavalli intieri si legano con uno spago e se ne pone uno
nel collo rilasciato, legando il capo dello spago alla coscia, e sana.
Alle Volatiche
L’olio di frumento applicato due o tre volte il dì è mirabile.
Eccoci gionti al fine dell'Alfabeto, e con questo terminato l'assunto anche di questo terzo punto
a che difender m'ho promesso, cioè della cognizione che ha quest'arte di remedi sicuri, s'acerti
però V. S. Illustrissima e chiunque legerà questo mio, che avrei potuto scrivere d'altri altissimi
segreti sì farmaceutico chimici, medico chirurgici, come anche mettalici e simpatici, ma il genio
di non mi diffonder troppo m'ha fatto frenar il volo e chiuder le piumme[,] sì per non attediarla
d'avvantaggio, come perché abbastanza resta provato l'assunto. S'escludi adunque oramai tutto
ciò che non è stima di quest'arte dalla di lei mente e rissolva di vedermici di buon occhio,
specialmente che mi vanto d'esercitarla con onore e decoro al pari di quanti altri la pretendono:
la sperienza glie ne dà attestati che bastano, onde conoscendo superflua ogn'altra espressione
dessisto dallo scrivere; ma non già dal dedicarmi qual mi vanto e protesto.
Di V. S. Illustriss.
Humiliss. Devot. Obblig. Scrittore
L'Anonimo
Postfazione
di Gabriella Cattaneo
Medici (e dintorni) nell'iconografia del tempo
Nel '700 molti generi pittorici giunsero in Italia dalle Fiandre, percorrendo il consueto cammino
che passava per Venezia e che già aveva condotto nell'arte italiana la tecnica dell'olio, l'uso della
tela e delle lenti ottiche. Tra le molte tipologie della pittura di genere è tra le più note anche ai
nostri giorni quella che rappresenta la vita quotidiana, senza distinzione di livello sociale,
scendendo, quindi, anche fra le piazze anguste, le vie buie e le case scrostate della plebe. Maestro
indiscusso del genere è il veneto Longhi, ben noto grazie anche alla quantità di quadretti da lui
dipinti e sparsi oggi tra palazzi e musei di tutta Europa.
Nelle piazze, anzi nei campielli veneziani del suo Settecento non mancano imbonitori di ogni
specie, come il famoso esibitore della Mostra del rinoceronte: non dissimile come impostazione
sono i due famosi Cavadenti, che appartengono a buon diritto alla stirpe dei medicisaltimbanchi del tempo.
Il cavadenti vero e proprio è quello issato sopra un tavolato, evidentemente palco della sua
pubblicità, scena del suo spettacolo e gabinetto della sua arte: sta agitando il dente sconfitto
come vessillo della sua faticosa (anche a livello muscolare, possiamo immaginare) vittoria e
richiamo per altri potenziali clienti, mentre la vittima siede con aria afflitta ai suoi piedi, sul
tavolato medesimo, piuttosto ignorata dalla folla curiosa che assiste allo spettacolo. La
sofferenza del poveretto è evidenziata dal suo portamento rattrappito e dal fazzolettone con cui
comprime la guancia offesa; ma solo il pittore sembra accorgersi di lui, mentre un vario
campione di popolazione testimonia l'interesse spettacolare dell'operazione.
Non vi sono, infatti, solo popolane in sottana corta (si intende alle caviglie, per permettere di
lavorare) e scialle sulla testa e sulle spalle, poveri diavoli deformi come la nana in primo piano;
ben due coppie di nobili si aggirano in un ambiente che non è il loro, come si desume dai muri
scrostati della via, e perciò sono rigorosamente mascherati con la veneziana bautta bianca dal
velo nero, che non nasconde la stoffa pregiata, il modello esclusivo e la foggia aristocratica delle
vesti.
E lui, il cavadenti? qual è il suo rango sociale? piccolo borghese, si desume, sempre
dall'abbigliamento: la giubba c'è, ma senza tanti fronzoli e di monocromo tessuto grigiastro.
Evidentemente ci tiene a presentarsi decentemente al suo pubblico e la sua professione gli
fornisce mezzi bastanti, ma non sufficienti per un abbigliamento più ricco e spettacolare...
Ma il cavadenti più celebre del Longhi, indicato anche con il titolo Il farmacista, è quello che i
meno giovani di noi hanno contemplato per decenni sulle confezioni di un diffuso dentifricio:
quello, decisamente arriso da un maggior successo, che tiene spettacolo all'interno di una
bottega, fornita di tutto l'arredamento di una spezieria, non in abiti civili, ma rivestito di una
palandrana che, se non fosse di un bel giallo brillante, potrebbe apparire più ippocratea e di un
copricapo stranamente simile a un berretto da notte.
La collocazione in interni non limita il suo pubblico, né la sua gestualità è meno teatrale o
imbonitrice di quella del suo meno "arrivato" collega. Anch'egli incombe sulla cliente-vittima,
anch'egli è circondato da un variopinto gruppo di differenti ceti sociali: ce lo immaginiamo in
procinto, appena terminata la difficile operazione, di levare alto il suo trofeo dentario...
È lecito chiedersi il parere del pittore sui suoi soggetti? Non troppo, perché il Longhi è pittore
che descrive per curiosità, senza impegnarsi in diagnosi o giudizi sociali. Non sfugge, però, una
certa ironia nel sottolineare la teatralità dei guaritori e la grama condizione dei clienti, più
sfruttati che beneficati da loro... e non pare che il pittore si metterebbe volentieri nelle loro
mani.
Forse si fiderebbe di più il suo contemporaneo Traversi del medico, o del chirurgo (e c'è da
chiedersi se chirurgo-medico o chirurgo-barbiere, all'epoca...) che sta esaminando con fiero
cipiglio, o forse con sguardo miope, la piaga del Ferito, sofferente e consolato da una dolce
fanciulla, tra sguardi rassegnati di vecchietti che assistono allo "spettacolo". C'è anche lo
spettatore distratto, o inorridito, che, all'estrema sinistra del dipinto, guarda dall'altra parte.
Non ci è dato sapere se lo spettacolo si svolge in piazza o se è domestico, vista l'assenza di una
prospettiva identificabile; certo di spettacolo si tratta, vista la mise del medico, imparruccato,
con cravatta e polsini, e l'indiscreta posizione della ferita, decisamente dislocata nelle parti
posteriori della vittima, così da far sospettare che sia stata inflitta in una postura che denota
poco coraggio ín qualche tenzone...
Vorremmo fare un confronto tra queste vivaci immagini, non troppo rispettose della solennità
della professione ippocratea, e le celebri rappresentazioni secentesche di Rembrandt delle
Lezione di anatomia del professor Tulp e Lezione di anatomia del dottor Deyman, ambientata
nel mondo accademico e trattata con l'austerità cromatica e con la gravità di atteggiamenti che
la professione medica ufficiale esigeva.
Cupamente vestiti di nero, con i colletti bianchi, come la divisa professionale richiedeva, tanto
lontana dal vistoso abbigliamento del medico-saltimbanco del secolo seguente, nel primo dipinto
i dottori assistono alla dissezione operata dal più venerabile tra loro: l'arte celebra la
liberizzazione legale della dissezione mostrandoci non studenti relativamente giovani, ma
professionisti già maturi che, diremmo oggi, si aggiornano sulle nuove tecniche. L'attenzione
psicologica con cui il pittore mostra i diversi atteggiamenti, quali attenti, quali incuriositi, quali
distratti o poco convinti, sembra riflettere le polemiche che serpeggiavano nell'ambiente
accademico circa la nuova medicina "empirica", osteggiata dai tradizionalisti aristotelici, e
testimonia comunque un approccio solenne ad una "arte" appartenente a una ristretta cerchia di
"iniziati" , che mai si degnerebbero di scendere nelle piazze a dare spettacolo, ma forse neanche a
curare, in qualsiasi modo, i poveri diavoli...
Nella seconda opera, di cui ci resta solo il frammento centrale con il cadavere, le mani con il
bisturi e la fi, gura altrettanto solenne di un assistente, l'attenzione del pittore sembra
realisticamente concentrata sul raccapricciante effetto della dissezione: l'addome svuotato, il
bisturi che incide il cranio... Sono, quelle di Rembrandt, visioni solenni e drammatiche della
professione medica privilegiata e accademica, agli antipodi dell'allegro spettacolo fornito alla
folla dai medici saltimbanchi del secolo seguente.
Fly UP