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che cosa posso sapere?

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che cosa posso sapere?
CHE COSA POSSO SAPERE?
CHE COSA DEVO FARE?
CHE COSA POSSO SPERARE?
Zwei Dinge erfüllen das Gemüt mit immer neuer
und zunehmender Bewunderung und Ehrfurcht,
je öfter und anhaltender sich das Nachdenken damit beschäftigt:
der bestirnte Himmel über mir
und das moralische Gesetz in mir1
(I. Kant, Kritik der praktischen Vernunft)
Il risveglio dal “sonno dogmatico”
Come abbiamo anticipato, Hume spiana in qualche misura la strada al filosofo prussiano Kant, il pensatore
più acuto dell’età moderna.
Non siamo quindi in presenza di due scuole - quella inglese e quella continentale - diametralmente opposte.
È vero. Kant è fortemente influenzato dal filosofo scozzese: è questi che lo sveglia “dal sonno dogmatico”.
Un dogmatico, Kant?
Lo è prima (lo dice egli stesso) della scoperta di Hume. Lo è perché si trova in sintonia col razionalismo
continentale.
Kant, quindi, si avvicina all’empirismo inglese?
Andiamo per gradi. Il pensatore prussiano è convinto, dopo la rivoluzione scientifica, dopo le scoperte di
scienziati quali Galileo e Newton, che la fisica sia una scienza a tutti gli effetti: le sue leggi, cioè, sono
oggettive, quindi necessarie e universali.
Questo in netto contrasto con la prudenza di Hume, una prudenza che mi convince di più.
Il filosofo inglese, in effetti, non nega il valore pratico della scienza, ma è dell’avviso che le sue leggi altro
non sono che il frutto di una “credenza”.
Una tesi ragionevole: tot fatti, quand’anche fossero miliardi, non fanno mai una necessità.
Infatti: secondo Kant le leggi scientifiche non possono avere come fondamento l’esperienza perché le
connessioni tra fenomeni accertate ripetutamente in base all’esperienza stessa non possono costituire una
garanzia per il futuro.
La necessità, secondo Hume, può esserci soltanto nelle relazioni tra idee, non tra fatti.
Relazioni tra idee che Kant traduce col suo linguaggio “giudizi analitici a priori”.
Una terminologia che mi pare astrusa.
Kant, in questo, prende le distanze dalla lezione di Locke e dello stesso Hume: egli, infatti, ricorre a un
linguaggio specialistico, non certo adatto al lettore medio. Comunque, se guardiamo quello che c’è dietro,
non troviamo nulla di difficile: si tratta di proposizioni (i giudizi non sono proposizioni?) che non hanno a
che vedere con i fatti dell’esperienza, ma solo con idee. Ecco perché Kant li definisce “a priori”. Se dici che
“la somma degli angoli interni di un triangolo è di 180°” non ti riferisci a dei fatti, ma a dei concetti e alle
loro proprietà intrinseche. È per questo che tali giudizi sono chiamati da Kant analitici: il predicato esprime
analiticamente, in modo esplicito, quanto è implicitamente presente nel soggetto. Vedi il giudizio “2+2 = 4”.
È quanto diceva Hume. Si tratta di giudizi la cui negazione implica la contraddizione: negare infatti che “2+2
= 4” significa di fatto affermare che “2+2 (che per definizione è uguale a 4) non è uguale a 4”.
È questa la lezione di Hume. Così se negassimo che “i corpi sono estesi” (l’esempio è di Kant) cadremmo in
contraddizione perché è nella definizione di “corpi” il predicato “estensione” (Cartesio docet). Non cadrei,
invece, in contraddizione se negassimo che “i corpi sono pesanti” (un altro esempio di Kant).
Perché la pesantezza non fa parte della definizione di “corpi”, ma dell’esperienza.
Esatto. Secondo Kant la proposizione “i corpi sono pesanti” è un “giudizio sintetico a posteriori”.
1
Due cose riempiono l’animo di ammirazione e di reverenza sempre nuovi e crescenti, quanto più spesso e più a lungo
il pensiero ci si ferma su: il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me (tr. Vittorio Mathieu, in Kant, Critica della
ragion pratica, La Scuola, Brescia 1962).
A posteriori perché il predicato viene accertato in base all’esperienza.
Sì. Si chiama “sintetico” perché in questo caso il predicato è qualcosa di nuovo rispetto al soggetto,
qualcosa che “si aggiunge” al soggetto stesso.
I giudizi analitici, allora, sono tautologici nel senso che il predicato non aggiunge nulla di nuovo al soggetto.
È così, come se dicessimo che “gli scapoli non sono sposati”: il non essere sposati è già nella definizione di
scapoli. Il predicato, di conseguenza, non fa che ripetere ciò che è già implicito nel soggetto.
È proprio per questo, dunque, che i nessi tra il soggetto e il predicato dei giudizi analitici sono necessari e
universali.
Già, proprio perché tautologico, sarà sempre vero il giudizio “gli scapoli non sono sposati”.
Oltre sia l’empirismo che il razionalismo
Ma le leggi scientifiche non sono proposizioni tautologiche: se lo fossero, dove sarebbero le “scoperte” degli
scienziati?
È questo il problema che Kant si trova di fronte dopo essere stato risvegliato da Hume: da dove possono
venire le caratteristiche di necessità e di universalità che sono proprie delle leggi scientifiche considerato
che è escluso che derivino dall’esperienza?
Già, da dove vengono? La risposta di Hume mi pare ineccepibile: derivano dall’“abitudine” di vedere
ripetutamente connessi dei fenomeni.
Ma come può una “credenza” generata da un’“abitudine” giocare il ruolo di fondamento delle leggi
scientifiche?
Non può, è vero, ma ammettere che all’origine delle leggi scientifiche vi è la “credenza” è riconoscere
socraticamente i limiti del sapere umano.
Kant sa bene che il conoscere dell’uomo ha dei limiti strutturali, ma è altrettanto convinto che la scienza sia
un sapere certo perché assolute sono le sue leggi: come dubitare del valore necessario della legge della
gravitazione universale di Newton? Non può trattarsi di una semplice “credenza”.
Una convinzione, quella di Kant, che tuttavia mi pare impossibile fondare.
Ma il filosofo prussiano una soluzione la trova.
Andando oltre l’orizzonte dell’empirismo.
Non vi è alcun dubbio: e va oltre anche il razionalismo.
Oltre, quindi, i giudizi analitici a priori tipici del razionalismo e i giudizi sintetici a posteriori che
caratterizzano l’empirismo.
Certamente: egli approda ai “giudizi sintetici a priori”.
Ma questa è una contraddizione!
Non è così: Secondo lui le leggi scientifiche hanno l’assolutezza dei giudizi analitici a priori, ma non sono
tautologici come questi: le leggi, infatti, arricchiscono la conoscenza, rappresentano cioè un “valore
aggiunto”.
L’assolutezza non può che venire dalla ragione e l’arricchimento della conoscenza dall’esperienza.
Indubbiamente.
Ma tutto questo discorso non porta a nulla: le proposizioni necessarie sono tali perché tautologiche.
È proprio vero che i teoremi della geometria sono costituiti da proposizioni tautologiche? Kant non ne è
convinto affatto.
Non capisco. Qui siamo in presenza di relazioni tra idee che prescindono dall’esperienza: non abbiamo
parlato di giudizi analitici a priori?
Il filosofo prussiano è dell’avviso che non solo le leggi scientifiche sono costituite da giudizi sintetici a priori,
ma anche le proposizioni necessarie che si trovano nelle scienze matematiche, checché ne pensi Hume.
Ma questo sarebbe un sovvertimento della distinzione di Hume tra “relazioni tra idee” e “relazioni tra fatti”.
Kant, infatti, pur avendo un debito con Hume, ritiene indispensabile andare oltre il filosofo scozzese.
Una sfida presuntuosa, mi pare.
Una mente tutt’altro che vuota
Una sfida, sì. Per cogliere il percorso intrapreso da Kant, dobbiamo fare un passo indietro e cercare di
capire bene la concezione kantiana della percezione sensibile.
Anche in questo Kant prende le distanze d Hume?
Sì.
Ma Hume mi pare del tutto convincente: la conoscenza sensibile è costituita dalle “impressioni” che si
caratterizzano, rispetto alle idee, per la loro forza e vivacità.
Kant non lo mette in dubbio, ma secondo lui la percezione sensibile non può essere spiegata solo con degli
input esterni.
Con che cosa d’altro, allora? Io percepisco questa penna che ho in mano perché dall’esterno questa penna
colpisce i miei occhi.
Questo non basta. Tu non percepisci questa penna come percepisci un numero, un triangolo, un’idea
astratta.
Certo, i numeri li penso al di fuori del tempo.
Già, al di fuori del tempo e dello spazio, mentre questa penna la percepisci qui e ora.
E che cosa c’è di strano? Come può una percezione sensibile non essere hic et nunc?
Infatti. Ecco il problema: da dove ricaviamo noi le idee di spazio (Raum) e di tempo (Zeit)?
Naturalmente dall’esperienza.
Ma come puoi ricavarle dall’esperienza se tu percepisci l’esperienza stessa in uno spazio e in un tempo?
Spazio e tempo non possono che essere a priori.
Non vedo come si possa uscire dall’empirismo: tutto ciò che percepiamo a livello dei sensi non può che
provenire dall’esperienza, quindi anche le nozioni di spazio e tempo.
Ma questo non può essere vero perché si tratta di nozioni di cui noi abbiamo bisogno per percepire
qualsiasi oggetto dell’esperienza. La conseguenza è chiara: non possono derivare dall’esperienza. Se
derivassero da questa, infatti, ci sarebbe un’esperienza originaria senza spazio e tempo da cui ricaveremmo
tali nozioni, il che è impossibile: come sarebbe possibile percepire qualcosa di sensibile che non fosse
collocato in uno spazio e in un tempo? Ecco, allora, la convinzione di Kant: tali nozioni, proprio perché non
possono derivare dall’esperienza sensibile essendo la condizione senza la quale tale esperienza è possibile,
sono a priori, sono cioè una sorta di schemi mentali.
Ma come? La mente non è una “tabula rasa” senza l’esperienza?
Secondo il pensatore di Königsberg (oggi Kaliningrad), no: la mente è tutt’altro che vuota.
Ma che cosa sarebbero questi schemi mentali?
Secondo il filosofo prussiano non sono propriamente dei concetti, né delle nozioni, ma forme senza
contenuto.
Spazio e tempo non sono dei contenuti?
No: spazio e tempo sarebbero vuoti senza questa penna che percepiamo. Che cosa sarebbero l’ hic et nunc
se non l’hic et nunc di qualcosa (contenuto) che percepiamo? Spazio e tempo non sono le “cose spaziotemporali”, ma le condizioni preliminari che consentono di percepire le cose in uno spazio e in un tempo:
per questo altro non sono che forme senza contenuto.
Lo spazio – immagino – ha a che vedere con i sensi esterni e il tempo (in sintonia con Hume) con il senso
interno.
È così: è il tempo che ci consente di cogliere i fenomeni in successione.
In questo modo Kant coniuga empirismo e razionalismo.
Certo: contenuto a posteriori e forme a priori. Anche le proposizioni della geometria sono costituite da un a
priori e da un a posteriori.
È la tesi che hai anticipato: le proposizioni matematiche non sono tautologiche.
Sì: secondo Kant affermare che la linea retta è la più breve esistente tra due punti è affermare una
proposizione necessaria e quindi universale, ma tutt’altro che tautologica in quanto il soggetto “la linea
retta” non comprende per nulla il predicato “più breve tra due punti”.
Il predicato, quindi, arricchisce il soggetto.
Già. Ecco perché il pensatore prussiano parla, a proposito delle proposizioni della geometria, di giudizi
sintetici a priori.
Perché a priori?
La necessità non può derivare dall’esperienza e quindi è a priori.
Ma il predicato non ha a che vedere con l’esperienza.
È vero, ma ha a che fare con l’idea di spazio che è la forma a priori della conoscenza sensibile: la geometria
sarebbe impensabile senza lo spazio.
Ma in questo caso non si tratterebbe di uno spazio oggettivo, ma soggettivo.
Infatti: lo spazio della geometria è una nostra soggettiva forma a priori. Non si tratta, però, di una forma
individuale: le forme a priori di spazio e tempo sono schemi (una sorta di “lenti” con cui noi percepiamo)
della mente umana, di ogni mente umana.
E l’idea del tempo che cosa c’entra con la geometria?
C’entra con l’aritmetica: sommare due numeri non è collocare un numero “dopo” l’altro? Anche “3+2 = 5” è
un giudizio sintetico a priori.
Perché giudizio sintetico? È sì necessario e universale, ma questo è dovuto al fatto che il predicato “5” è già
incluso nel soggetto “3+2”.
Kant non è di questo avviso. Se tu pensassi a dei numeri non familiari, non coglieresti per nulla che il
predicato è contenuto nel soggetto. Ecco perché il filosofo prussiano considera anche le proposizioni
dell’aritmetica dei giudizi sintetici a priori: sono necessari e universali e nello stesso tempo in essi il
predicato aggiunge qualcosa di nuovo al soggetto. Come sono necessarie e universali, ma non tautologiche
le leggi scientifiche.
Anch’esse, quindi, riducibili a giudizi sintetici a priori.
Il ruolo organizzativo della mente
Sì, ma in questo caso dobbiamo ancora andare alla ricerca di specifiche forme a priori. Le forme a priori
della conoscenza sensibile, come delle stesse scienze matematiche, sono – come abbiamo detto – spazio e
tempo: sono queste che danno un ordine, una unità (qui e ora) al caos delle “impressioni”.
L’uomo, quindi, non è del tutto passivo nel momento in cui percepisce i dati sensibili: siamo lontani
dall’empirismo.
Sì. In questo modo Kant dà il via a una corrente di pensiero (che avrà un grande sviluppo sia nell’Ottocento
che nel Novecento) secondo cui la mente svolge un ruolo attivo, costruttivo. Ma è il momento di
individuare le condizioni a priori che rendono possibile la formulazione di leggi scientifiche. Che cosa fonda
la necessità e l’universalità di tali leggi, considerato che tali proprietà non possono derivare dall’esperienza?
Hume, lo ripeto, le fonda sulla credenza a sua volta fondata sull’abitudine.
Ma Kant - anch’io mi ripeto - ha la convinzione ferma che le leggi abbiano un valore assoluto, che la
cosiddetta legge della gravitazione universale di Newton, ad esempio, sia valida per sempre. Da qui la
ricerca di forme a priori capaci di dare una garanzia, appunto, alle leggi in questione.
Intende cercare, cioè, nella mente ciò che non è ricavabile dall’esperienza.
È così: è la mente che organizza i dati sensibili. E li organizza conferendo loro i nessi che si trovano nelle
leggi scientifiche.
Dati sensibili che, a loro volta, sono organizzati e unificati dalle forme di spazio e tempo.
La capacità organizzativa dell’intelletto (è di questo che stiamo parlando: è l’intelletto - Verstand - che sta a
fondamento della conoscenza scientifica) è, però, di gran lunga superiore perché collega dei fenomeni con
un rapporto causale necessario.
È questo che dà conformità al comportamento della natura: ogni volta che c’è il fuoco, c’è pure il fumo.
Non solo. Dà uniformità al comportamento della natura (il sole è sempre sorto il mattino e sorgerà anche
domani), ma anche stabilità: non solo ciò rende necessari e universali i nessi causali che secondo Hume
sono soltanto oggetto di “credenza”, ma àncora i dati sensibili a qualcosa di stabile.
La sostanza.
La sostanza che, secondo Hume, è anch’essa oggetto di credenza perché le qualità sensibili che
percepiamo, non le percepiamo sempre, ma in modo intermittente: è l’intelletto umano che fa del caos
delle percezioni sensibili un vero e proprio kόsmos.
Il kόsmos di cui parlavano i pitagorici.
Certo, un kόsmos che, grazie alla rivoluzione scientifica, assume nell’età moderna un ordine più preciso, un
ordine espresso da formule matematiche.
Ma i pitagorici si riferivano alla natura. Non mi pare che lo faccia altrettanto Kant.
Il pensatore prussiano, infatti, non parla di un kόsmos in sé, di un ordine che preesiste all’uomo e che questi
scopre.
Ma di un ordine imposto dall’intelletto ai dati sensibili.
La sostanza, oggetto misterioso sia per Locke che per Hume, rimane un enigma in Kant. La sostanza di cui
parla il nostro è una “categoria” mentale che non ha un’esistenza al di là della mente. Così sono categorie
dell’intelletto la causalità, la necessità, l’universalità, la totalità…
Sarebbe l’uomo, dunque, il legislatore della natura.
In qualche misura, sì: non si tratta proprio della natura, ma del mondo dei “fenomeni” ( Erscheinungen), di
tutto ciò che, in altre parole, viene percepito in base all’esperienza. L’uomo, cioè, è il legislatore della
“natura fenomenica”. È questa che Kant chiama la “rivoluzione copernicana”: non è il Sole a muoversi
intorno alla Terra, ma la Terra intorno al Sole.
In altre parole?
Al centro non c’è la natura, ma l’uomo: non siamo noi che rispecchiamo la natura, ma è la natura che si
organizza in base alle categorie della mente umana.
Sarà pure rigoroso, ma Kant non mi convince. Risolve, è vero, un problema, ma ne crea un altro perché
trasferisce l’ordine della natura nella mente umana, spostando così il problema. A questo punto, infatti,
dovrei spiegare tale ordine mentale.
Kant è chiaro: le leggi scientifiche sono necessarie e universali e le categorie dell’intelletto sono le
condizioni a priori che rendono possibili tali leggi. In altre parole, se la mente umana non fosse
strutturalmente unificatrice, organizzatrice, le leggi scientifiche non sarebbero spiegate perché l’esperienza
non certifica nessun rapporto di necessità.
Ho la sensazione che Kant ingigantisca il ruolo dell’uomo: non ne fa una sorta di dio legislatore?
L’intenzione di Kant è tutt’altra. Il pensatore prussiano punta solo a cercare le condizioni che rendono
possibile la conoscenza umana, ogni conoscenza umana: dalla sensazione alle scienze matematiche e alla
stessa fisica. Una conoscenza, secondo lui, strutturalmente limitata: essa, infatti, ha come ambito solo
l’esperienza.
Le colonne d’Ercole
Rifiuta, quindi, la metafisica.
Sì: la metafisica, secondo lui, è un sapere inaccessibile all’uomo perché si fonda sulla pretesa di andare oltre
quelle colonne d’Ercole che sono rappresentate dall’esperienza. L’uomo può conoscere solo ciò che è
“fenomeno”, ciò che appare nell’esperienza, mai quanto è al di là che Kant chiama “noumeno”.
Ma Kant va comunque al di là del fenomeno: che cosa sono le forme a priori dello spazio e del tempo e le
categorie se non qualcosa che va oltre l’esperienza?
Le forme a priori non sono delle conoscenze, ma soltanto le condizioni della conoscenza che, per essere
tale, ha bisogno di “contenuti” empirici, contenuti cioè che provengono dall’esperienza.
Ma l’esperienza – ciò che appare – deriverà pure da qualcosa che esiste al di là del percepire.
Kant lo dice in modo esplicito: il mondo in sé (la cosiddetta “cosa in sé”: Ding an sich) è del tutto
inconoscibile, ma noi tutti ne supponiamo l’esistenza.
In sintonia con Hume.
Certo. Il pensatore prussiano considera il “noumeno” un concetto-limite nel senso che esso fa da
spartiacque tra il mondo fenomenico (l’unico conoscibile dall’uomo) e ciò che è al di là la cui esistenza è
presupposta.
È presupposta perché nel nostro percepire noi siamo passivi.
Sì: proprio perché ci sentiamo passivi di fronte al contenuto empirico, supponiamo che derivi da una cosa in
sé, una cosa che però per noi è del tutto inconoscibile.
Quindi crolla anche la teologia.
Sicuramente: Dio non può essere oggetto di conoscenza perché la conoscenza scientifica ha solo come
oggetti dei dati empirici.
In questo torna sulle posizioni di Hume.
È vero, anzi utilizza alcune sue armi.
La non dimostrabilità dell’esistenza di Dio
Ad esempio a proposito dell’argomento ontologico.
Sì. Sulla stessa lunghezza d’onda del pensatore scozzese Kant è convinto che l’esistenza non sia un
predicato deducibile dall’idea di una cosa.
Ma solo accertabile in base all’esperienza.
Infatti: dire che “una cosa esiste” è affermare un “giudizio sintetico”, non analitico.
Ma Dio è qualcosa di eccezionale, non è l’equivalente di “un’isola incantata” di cui accertare l’esistenza. È la
stessa definizione dell’esistenza di Dio (secondo lo stesso illustre Cartesio) che implica l’esistenza: se non
esistesse, come potrebbe essere perfettissimo?
Sulla base di quanto abbiamo detto, Dio non può essere oggetto di conoscenza perché non è un contenuto
fenomenico. Dedurne poi l’esistenza dall’idea di Essere perfettissimo implica un salto logico indebito dal
piano puramente mentale (l’idea di Dio) e quello reale (dell’esistenza). Un salto che si trova pure nella
cosiddetta prova cosmologica: proprio perché tutto ciò che esiste ha una causa, per evitare il regresso
all’infinito, dobbiamo affermare l’esistenza di una Causa incausata, di una Causa prima.
Anche in questo caso l’esistenza non verrebbe accertata in base all’esperienza.
Infatti: la ricerca delle cause funziona nell’ambito dell’esperienza, ma non può riguardare una realtà – il
mondo noumenico – che a noi è del tutto inaccessibile. La prova cosmologica applica in modo arbitrario la
categoria di causalità – categoria applicabile solo al mondo fenomenico – a qualcosa che è al di là ed è
inconoscibile. E così facendo ricade nello stesso argomento ontologico: la Causa incausata, proprio perché
non contingente, implica l’esistenza.
Con queste armi, però, è difficile smontare la prova che, partendo dall’ordine del mondo, arriva ad
affermare l’esistenza di Dio.
Il filosofo prussiano chiama “teleologica” questa prova (teleologica perché prende l’avvio dal finalismo che
viene percepito in natura) e la demolisce come le altre. Si tratta di un’argomentazione - secondo lui - che
tutt’al più può arrivare all’idea di un Essere intelligente, di un Architetto divino, ma non di un Creatore. Se si
volesse dimostrare che questo Architetto è il Creatore, si dovrebbe affermare che tale Creatore è un che di
non contingente, cioè una Causa incausata e in questo modo si ricadrebbe nella prova cosmologica, la quale
– come abbiamo detto – rimanda all’argomento ontologico.
Un’esigenza di infinito
Le smonta, dunque, tutte.
Sì, ma in questo modo Kant non intende liquidare la “questione-Dio”: Dio non è dimostrabile
razionalmente, ma a Lui si può accedere esplorando altre vie. Il filosofo prussiano – lo dice egli stesso – è
“innamorato” della metafisica. Ne riparleremo. La stessa idea di Dio, poi, secondo lui, è un’idea della
“ragione”.
Come le forme a priori (conoscenza sensibile) e le categorie (conoscenza intellettuale).
In qualche misura, sì, nel senso che si tratta di un’idea a priori, ma che, rispetto alle altre, non organizza
l’esperienza.
Un’idea destinata a rimanere vuota di contenuto.
Sì, ma esprime un’istanza profonda della mente umana, quella di andare oltre il mondo delle cause causate,
oltre il mondo delle cose condizionate e di approdare a ciò che è incondizionato.
Un’esigenza di infinito.
Sì, l’intelletto ha a come oggetto ciò che è finito, mentre la ragione punta all’infinito.
Infinito che tuttavia rimane ignoto all’uomo.
Non solo ignoto, ma inconoscibile, mai accessibile. È questo l’errore dei metafisici: trasformare un’esigenza
razionale di unificazione della mente in una realtà in sé. In altre parole i metafisici traducono un nesso
logico (ciò che è causato è, in ultima analisi, causato da una causa incausata) in un nesso che ha a che
vedere con una realtà esterna alla mente.
Un errore che i metafisici commettono pure a proposito del “mondo”.
Del mondo ordinato dalle categorie dell’intelletto?
No, del mondo in sé, del mondo che è a di là di ciò che è fenomenico, di ciò che appare ai sensi. Siamo in
presenza di una realtà di cui non possiamo sapere nulla. Non possiamo sapere, ad esempio, se è eterno o se
ha avuto un inizio, se è finito o infinito, se in esso tutto è necessario oppure sia possibile una causalità
libera.
Per questo i filosofi non si sono mai messi d’accordo su questi temi.
Infatti: secondo Kant, nella misura in cui pretendiamo di studiare il mondo come totalità, non possiamo che
approdare a delle contraddizioni (“antinomie”).
Cioè?
A delle tesi e antitesi: chi troverà ragioni per una tesi e chi per la tesi opposta (antitesi).
Ich denke
Lo stesso discorso dovremmo farlo per l’“io”.
Kant, dunque, rimane anche in questo ambito sulle posizioni di Hume.
Per certi aspetti, sì: cadiamo in errore quando pensiamo all’“io” come a una sostanza che pensa (alla
Cartesio) da cui poi deduciamo la spiritualità e l’immortalità; quando invece l’“io” è inteso come
unificazione di tutti i fenomeni interiori è solo un’idea della ragione, come idea della ragione è il mondo in
sé inteso come l’unificazione di tutti i fenomeni “esterni”.
Quando parliamo dell’“io”, dunque, non dobbiamo pensare all’anima.
Anche Hume sosteneva questo, ma il nostro va oltre il pensatore scozzese: egli parla di “Io penso” ( Ich
denke).
Il cogito cartesiano?
Cartesio - l’abbiamo appena detto - concepisce il cogito come una “res cogitans”, cioè come una sostanza
pensante.
Kant dice “Io penso”: quale sarebbe la differenza?
L’io penso non è una sostanza.
Allora è un “fascio di percezioni” alla Hume.
Non è così. L’Io penso è consapevolezza di conoscere, vale a dire è autocoscienza. L’io, quindi, non è solo
una sorta di teatro delle percezioni, ma è coscienza dell’unità del conoscere.
Ma l’intelletto non ha un centro perché è costituito da diverse categorie.
Ecco: l’Io penso riporta a unità tutti i dati organizzati dalle categorie.
Li sintetizza tutti.
Infatti: mette insieme tutte le unificazioni dell’intelletto: causalità, necessità, sostanza…
L’Io penso, quindi, è la sintesi delle unificazioni.
Sì, ed è consapevole di questa sintesi. La conoscenza è unitaria e l’Io penso sa di questa unità e, dunque, sa
che queste unificazioni sono “sue”: ecco l’identità della coscienza.
Si tratta di un io individuale?
No, non è una coscienza individuale: Kant si riferisce a un soggetto generale, a un orizzonte che unifica i
risultati di tutte le categorie.
Un orizzonte che è una condizione della conoscenza, come condizioni sine qua non sono le forme a priori
della conoscenza sensibile e le categorie dell’intelletto.
Sì, è la struttura logica comune a tutti gli uomini che consente loro una conoscenza unitaria dei fenomeni,
una struttura che non esiste in sé, ma solo nel processo conoscitivo. Se così non fosse, non potremmo
spiegare l’unità dell’esperienza.
Un innamorato della metafisica, Kant - dicevamo -, che tuttavia considera la metafisica al di là dei limiti
della conoscenza umana. Ma l’amore rimane intatto. Non è un caso che nella prefazione alla seconda
edizione della “Critica della ragion pura” scriva: “Fui costretto così a togliere il sapere per dare spazio al
credere (Ich mußte also das Wissen aufheben, um zum Glauben Platz bekommen). Lo si coglie in un’altra
grande opera, la “Critica della ragion pratica” (finora abbiamo affrontato, in primo luogo, la “Critica della
ragion pura”).
L’etica.
Sì. La domanda di Kant, in questo caso, non è “che cosa posso sapere?”, ma “che cosa devo fare?”. Si tratta,
quindi, di dare un fondamento alla morale.
Anche Hume ha cercato questo fondamento. E l’ha cercato senza ricorrere all’ipotesi di Dio.
Anche secondo Kant la morale è del tutto laica.
Una morale non finalizzata a un premio ultraterreno.
Infatti: già Socrate sosteneva che la virtù è fine a se stessa.
Escluso Dio quale fonte della morale ed escluso il premio ultraterreno che caratterizza una lunga tradizione
religiosa occidentale, in che direzione si muove il pensatore prussiano?
Prende subito le distanze da Hume: l’etica non è fondata su un sentimento, sul senso morale comune a tutti
gli uomini.
Su che cosa, allora?
Sulla ragione. È solo la ragione che, in quanto comune a tutti gli uomini, è in grado di conferire un valore
universale alla morale. Kant definisce la legge morale un “fatto della ragione” (Factum der Vernunft).
Kant, quindi, parte dalla convinzione che le norme morali siano universali.
Sì, come nella “Critica della ragion pura” parte dalla convinzione che le leggi scientifiche (nonché le
proposizioni delle scienze matematiche) siano universali.
Ma se si inizia la ricerca da un presupposto falso, si rischia di costruire un castello sulla sabbia.
Anche secondo lo stesso Hume, di fronte ad esempio a un omicidio volontario, tutti gli uomini avvertono un
senso di disapprovazione, come tutti gli uomini provano una sensazione gradevole di fronte a
comportamenti virtuosi quand’anche – l’abbiamo detto – questi avessero come autori dei nostri nemici. Il
compito che si propone Kant è quello di dare un fondamento più saldo - rispetto a quello di Hume - alle
norme universali.
Non può certo trovarlo nella ragione: il relativismo morale è un fatto. Se la morale fosse fondata sulla
ragione, tale relativismo (reso ancora più evidente dalla scoperta delle popolazioni “primitive”) non si
spiegherebbe.
Kant non nega l’esistenza di punti di vista diversi in ambito etico, ma questo fatto, secondo lui, non può di
per sé mettere in discussione le norme universali. Comportamenti diversi dipendono anche dal fatto che
l’uomo non è solo ragione, ma anche passione. In ogni singolo individuo, quindi, vi è un permanente
conflitto tra le “ragioni” della ragione e quelle dei propri istinti o delle proprie inclinazioni personali.
La natura umana, in altre parole, è duplice.
Infatti. Ed è questa duplicità che fa sì che nessuno di noi segue sempre le esigenze della ragione. Ma il fatto
che noi siamo fragili e che talora o spesso ci comportiamo seguendo le nostre passioni e inclinazioni non
significa che non esistono norme universali. E tali norme, proprio perché sono universali, non possono che
essere espressione della ragione.
Kant parla di autonomia della morale.
E quindi i dieci comandamenti non possono essere una fonte della morale.
Infatti: non possono esserlo anche perché, in quanto oggetto di fede, escludono gli atei, gli agnostici e,
naturalmente, i credenti in tradizioni religiose diverse da quella ebraico-cristiana.
Non possono derivare, a maggior ragione, da uno Stato che si presentasse come uno Stato “etico”.
Indubbiamente: proprio perché universale la morale va oltre i confini degli Stati e si estende a tutta
l’umanità.
Una morale senza alcun tornaconto
Le norme morali non possono derivare da fonti esterne anche per altre ragioni.
Perché un comportamento conforme a norme morali divine o di uno Stato avrebbe come obiettivo un utile:
evitare il castigo eterno di Dio o la punizione umana.
È così. In primo luogo un conto è la sfera della morale e un conto quella della utilità che non hanno nulla in
comune. In secondo luogo le norme morali non possono essere subordinate a uno scopo, anche se questo
non fosse di carattere utilitaristico. Kant distingue due tipi di “imperativi” (norme): ipotetici – quelli
subordinati a un obiettivo – e categorici.
Le norme morali sono categoriche, naturalmente.
Certo: la norma è un “devi” non perché vuoi raggiungere uno scopo, magari andare in paradiso.
L’imperativo categorico (categorischer Imperativ), nella sua sostanza, è questo: “devi perché devi” e
nient’altro. Tu potresti benissimo agire in conformità alle norme, ma non perché è un “dovere”: in questo
caso la tua azione non sarebbe “morale”, ma “legale”. Accadrebbe, ad esempio, se tu facessi un’elemosina
per avere una gratificazione interiore.
Una morale pura, libera del tutto da qualsiasi tornaconto (perfino di tipo spirituale) non è una morale
“umana” ma da “santi”.
Non hai torto. Lo stesso Kant sa bene che gli uomini agiscono per lo più in funzione di un tornaconto.
Questo, però, non inficia – lo ripeto – il suo discorso: la norma morale è un modello.
E c’è di più: la norma morale, per essere tale, non può avere dei contenuti.
Ma che norma morale sarebbe una norma che non prevedesse dei contenuti? Non sarebbe un paradosso
affermare che “non uccidere” non è una norma morale?
La norma morale, secondo Kant, non può ispirarsi a dei contenuti perché questi hanno a che vedere con
l’esperienza la quale non può certo garantire i caratteri dell’universalità. Ecco perché essa non può che
essere fondata su un a priori.
Ma non capisco: che cosa può indicare un imperativo se non un comportamento?
L’imperativo categorico indica il criterio dell’agire in modo virtuoso, non uno specifico comportamento.
E quale sarebbe tale criterio?
Kant scrive: “Opera in modo che la massima della tua volontà possa valere in ogni tempo come principio di
una legislazione universale”.
Mi pare un comandamento quanto meno oscuro: molto meglio la chiarezza dei dieci comandamenti.
Non è così oscuro. Il discorso del pensatore prussiano è chiaro: prima di agire, domandati se il principio a
cui tu ispiri la tua scelta possa diventare una legge valida per tutti e per tutti i tempi. Se sì, si tratterebbe di
una scelta morale (non utilitaristica), se no non avrebbe nulla di morale. Potrebbe diventare una legge
valida per tutti, ad esempio, il principio secondo cui “è lecito promettere il falso e non restituire i prestiti”?
Ovviamente no: se così fosse, chi mai farebbe prestiti?
È proprio così. Nulla, quindi, di oscuro.
Il rispetto della dignità umana
Kant in un’altra opera (Fondazione della metafisica dei costumi) espone un’altra formulazione
dell’imperativo categorico: “agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di un
altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo”.
Questa sì che è una formulazione immediatamente comprensibile: mi pare un imperativo che eredita
l’innovazione più importante del Cristianesimo.
Secondo il nostro si tratta di un dovere che va oltre una religione o le religioni. Di sicuro, però, qui troviamo
il tema del rispetto (Achtung) della dignità umana – di ogni uomo – tanto sottolineato dal Cristianesimo.
È da questa formulazione che dobbiamo dedurre il comandamento “non uccidere”.
Senz’altro: un omicidio volontario è indice di un totale disprezzo della dignità di un’altra persona.
Anche il suicidio.
Senza dubbio: sarebbe una palese violazione della dignità che c’è in ciascuno di noi. Il suicidio, ma anche
più semplicemente il disprezzo di noi stessi.
Si tratta, anche qui, di un modello. È praticamente impossibile trattare gli altri non semplicemente come
mezzi: penso a un imprenditore, a un politico, alle nostre stesse amicizie quotidiane che sono largamente
interessate.
È vero, l’amicizia finalizzata a un tornaconto non ha nulla di morale, ma ha a che vedere con l’utilitarismo. È
il caso, comunque, di precisare che, secondo Kant, l’imperativo etico ci chiede di trattare gli altri “sempre
anche come fini”. È cioè scontato che noi trattiamo un’altra persona come mezzo, ma ciò che conta è che la
trattiamo “sempre anche come fine”.
Quindi il filosofo prussiano è più… umano di quanto appaia a prima vista.
È comunque vero che il dovere kantiano (il dovere per il dovere, senza alcun tornaconto) rimane sempre un
modello. Vale la pena, poi, sottolineare il fatto che l’etica kantiana è “un’etica dell’intenzione”: che rende
morale un comportamento non è tanto il comportamento in se stesso, ma l’intenzione. Ciò che conta, ad
esempio, non è restituire di fatto un debito, ma l’intenzione chiara di farlo: potrebbero accadere delle
circostanze indipendenti dalla volontà del soggetto tali da impedire la messa in atto dell’intenzione.
Agire “bene”, dunque, è essenzialmente un atto dell’intenzione.
Chiariamo i termini: “bene” (Kant usa il termine tedesco Gute in contrapposizione a Wohl che significa bene
nel senso di benessere) non è ciò che fonda la legge morale e quindi fa sì che essa sia tale, ma è agire (in
primis nell’atto dell’intenzione) secondo la legge e per la legge.
Un varco nel determinismo
Vedo che insisti sul primato dell’intenzione: questo non può che rinviare al tema della libertà.
Infatti: il “devi” dell’imperativo categorico presuppone la libertà di scelta. Non avrebbe senso un comando
a un ente (supponiamo un albero) che non avesse la possibilità di scegliere. Ecco la formula kantiana: “Devi,
dunque puoi”. Kant definisce la libertà un postulato.
Un postulato, cioè qualcosa di non dimostrabile.
Esatto. Si tratta, appunto, di un presupposto senza il quale l’etica non potrebbe esserci.
Un postulato che mette in discussione la concezione dell’universo quale esce dalla “Critica della ragion
pura”.
In qualche misura sì: il modello di cosmo che emerge dalla conoscenza scientifica (le cui leggi sono fondate
in primo luogo sulle categorie di “causalità” e di “necessità”) è di tipo deterministico, meccanicistico, un
modello che non concede alcuno spazio alla libertà. In questo modo Kant recupera la metafisica che nella
“Critica della ragion pura” ha bocciato come un sapere inaccessibile all’uomo. La metafisica è bocciata in
quanto “scienza”, ma questo non impedisce a un “innamorato” della metafisica come Kant, di andare oltre
il mondo fenomenico.
Senza, tuttavia, alcuna dimostrazione.
È vero. Kant parla di postulati, cioè “esigenze” della morale. La morale esige (postula) che l’uomo sia libero.
Non solo: la morale esige (postula) la stessa immortalità dell’anima.
Passare dall’“Io penso” all’immortalità dell’anima mi pare un salto mortale anche perché l’immortalità
dell’anima presuppone una sostanza che per Kant è solo una categoria dell’intelletto.
Un compito infinito
Un salto, sì, ma il filosofo prussiano non ha alcuna pretesa di dimostrarlo. Egli parte solo da una
constatazione: l’uomo ha il compito di agire sempre in conformità al dovere e per il dovere (imperativo
categorico), ma proprio perché è quotidianamente combattuto tra la pura esigenza etica e le sue passioni e
inclinazioni personali (il suo stesso attaccamento all’utile), non riesce mai ad essere “santo”. È la stessa
morale, quindi, ad esigere che l’anima possa continuare a proseguire all’infinito questo processo teso alla
santità.
Mi pare un postulato più debole dell’altro.
È vero, ma non puoi negare che è radicato proprio nella morale kantiana, una morale che non accetta
compromessi, una morale radicale che chiede di puntare in continuazione al modello della santità.
Kant arriva a recuperare, sempre in ambito, morale, la stessa esistenza di Dio.
Tutto quanto aveva negato.
Sì, ma si tratta, anche in questo caso, di un’esigenza morale.
Ma se un individuo agisse per avere un premio eterno o anche solo per ingraziarsi Dio, non agirebbe in
modo morale: in che senso, allora, Dio sarebbe un’esigenza della morale?
Ogni uomo aspira a ciò che Kant chiama il “sommo bene” (das höchste Gut), vale a dire alla “virtù” +
“felicità”.
Ma la virtù non dà necessariamente la felicità: sono noti i casi di persone da tutti considerati virtuosi che
portano sulle spalle una croce pesante.
È vero, ma nonostante ciò, riteniamo giusto che coloro che si comportano in modo virtuoso si meritino la
felicità. È per questo che Kant avverte l’esigenza – un’esigenza fondata sulla stessa morale – che ci sia un
Dio che premi con la felicità (Seligkeit, cioè beatitudine) chi si è comportato bene.
Ma questa è solo una speranza.
Sì, del resto è lui stesso che si domanda: “che cosa posso sperare?”
Si tratta di un atto irrazionale.
Kant parla di “ragionevole speranza”. È chiaro che non abbiamo alcuna certezza. L’esistenza di Dio, tanto
più di un Dio giusto che premia con la felicità i virtuosi non ha a che vedere con dimostrazioni razionali, ma
risponde a un’esigenza morale: ci rifiutiamo di credere che un santo abbia la stessa fine di un criminale. Dio,
in ultima analisi, è un’espressione della volontà: “”Io voglio che vi sia Dio”.
Dio, quindi, non precede la morale, ma è una conseguenza.
Lo dice lo stesso Kant: “la morale […] conduce inevitabilmente alla religione” (zur Religion). Non è la
religione, quindi, ad essere il fondamento della morale, ma è la morale che spiana la strada alla religione: le
norme morali del cristianesimo, anzi, altro non sono che le norme della morale naturale, della morale cioè
fondata sulla ragione umana.
In che senso?
Kant sottolinea alcuni valori-cardine del cristianesimo che sono in perfetta sintonia con la morale razionale.
Alcuni esempi? “Solo l’intenzione morale pura può rendere l’uomo gradito a Dio, non l’osservanza di doveri
cristiani esterni”: ecco perché “davanti a Dio, il peccato nel pensiero ha lo stesso valore dell’atto
peccaminoso” (Sünde in Gedanken vor Gott der Tat gleich geachtet werde) e che “odiare col cuore equivale
a uccidere (im Herzen hassen so viel sei als töten). La stessa religione cristiana coglie bene il conflitto
presente nell’uomo: un conflitto tra lo spirito e la carne, tra il bene e il male (che è “connaturato al cuore
umano” (im menschlichen Herzen), tra la legge morale e la propria inclinazione al male. Da qui il senso di
lotta che caratterizza la morale. È Gesù Cristo, infine, che col suo comandamento “ama il prossimo tuo
come te stesso” indica il criterio per agire bene, fare del bene “per benevolenza immediata, non per motivi
egoistici”.
Valori chiaramente presenti nella morale kantiana, ma che di sicuro il cristianesimo ha anticipato.
Sì, si tratta di valori cristiani che solo successivamente la ragione riconosce come suoi. Il cristianesimo,
dunque, svolge un ruolo estremamente utile ai fini di tale riconoscimento.
Kant esalta l’etica cristiana come etica razionale, ma non manca di stigmatizzare l’involuzione di una chiesa
cristiana ridotta a ritualità, formalità, preghiere. Non è un caso – scrive – che la religione cristiana oggi
contribuisca ancora “pochissimo al miglioramento degli uomini” (so wenig zur Besserung der Menschen),
come non è un caso che “la luce interiore” (innere Licht) degli “eletti dalla grazia” non risplenda “più
intensamente rispetto agli altri uomini dotati soltanto di onestà naturale, i quali senza cerimonie,
abbracciano sinceramente la ragion non per sostituire bensì per promuovere l’intenzione virtuosa che si
concretizza in una buona condotta”.
La versione laica del “regno di Dio”
Kant mi pare piuttosto duro contro la chiesa del suo tempo.
Lo è perché la contrappone alla “chiesa invisibile” fondata sulla legge morale. È questa, in versione laica, la
vera chiesa cristiana, il “regno di Dio” di cui parla Gesù Cristo, il “regno dei fini” ( Reich der Zweicke). È
questo “regno di Dio” la meta a cui faticosamente tende l’umanità nella sua storia: l’uomo sempre più
afferma la ragione sull’egoismo e sull’istinto.
Un processo che storicamente è molto accidentato.
Sicuramente. Un processo lento. Non è un caso, ad esempio, che per un lungo tempo i popoli abbiano
avuto bisogno di un monarca che li guidasse. È solo con l’Illuminismo (Aufklärung) - afferma - che il popolo
raggiunge l’età della ragione, esce cioè dalla minore età.
Ma l’età della ragione, che ci risulta, i popoli non l’hanno ancora raggiunta neppure nel XXI secolo.
È lo stesso Kant che lo dice: la lotta tra ragione e istinto è una lotta che non ha mai fine. La storia, quindi, è
un progredire all’infinito.
Come infinito è il compito etico dell’uomo teso alla perfezione morale.
Secondo Kant il progresso dell’umanità è associato a una sempre maggiore integrazione tra i popoli: solo
quando si giungerà a un unico governo mondiale, ci sarà la “pace perpetua”.
Un’utopia.
Secondo Kant non ha senso domandarsi se tale pace sia possibile, ma tocca a noi comportarci come se
fosse possibile.
Sgomento e fascino insieme
In tema di morale Kant prende le distanze - come abbiamo visto - da Hume, ma è invece in sintonia con lui
quando affronta l’ambito dell’estetica: la bellezza non appartiene agli oggetti, ma si tratta di un sentimento
del soggetto.
Ma un fiore, un tramonto, un cielo stellato sono belli in sé: tutti gli uomini ne apprezzano la bellezza.
Tutti ne apprezzano la bellezza perché siamo in presenza di un sentimento comune all’intera umanità.
Il gusto estetico, però, cambia da individuo a individuo.
È vero, Kant non nega che vi siano diversità legate all’individualità e alle varie epoche storiche e contesti
culturali, ma è convinto che queste differenze riguardino ciò che più propriamente è la sfera del
“piacevole”, non del “bello” perché un tramonto è percepito bello in ogni epoca e in ogni contesto
culturale.
Ma questo depone a favore della tesi secondo cui la bellezza è qualcosa di oggettivo.
Secondo Kant noi percepiamo “bello” ciò che è in accordo col nostro senso del gusto.
Siamo sempre, allora, di fronte al primato della soggettività.
Sì. E ciò che noi sentiamo come bello non ha nulla a che vedere con ciò che è utile, né con ciò che è buono.
Una concezione analoga a quella che abbiamo trovato a proposito della morale.
Sì: il bello ha una sua identità e non va confuso neppure col piacevole.
Quindi, nemmeno con la funzione pedagogica dell’arte.
Già, un’opera d’arte è tale non in base al suo contento, al suo messaggio più o meno pedagogico, ma
all’armonia delle sue parti.
Anche nell’estetica, quindi, come nell’etica, Kant pone l’accento sulla “forma”, non sul “contenuto”.
Sì. Sottolinea, inoltre, che essendo oggetto di un sentimento, il bello non rinvia ad una spiegazione
razionale: non si può spiegare perché ciò che “sentiamo bello” è bello.
Kant parla di armonia, ma noi non apprezziamo come bello solo ciò che è armonioso.
È lo stesso Kant che lo sottolinea distinguendo ciò che è “bello” (das Schöne) da ciò che è “sublime” (das
Erhabene): un’eruzione vulcanica, una tempesta, ad esempio.
Ma un’eruzione vulcanica ci terrorizza.
Sì. Kant parla di un sentimento contraddittorio: da un lato avvertiamo una tempesta come spaventosa,
dall’altro percepiamo il contrasto tra la forza della natura e la nostra nullità, un contrasto che ci consente
un risveglio della coscienza.
Ma dove sarebbe, in questo caso, il bello?
L’eruzione di un vulcano ci sgomenta, è vero, ma nello stesso tempo ci affascina: ci affascina vedere le forze
della natura scatenarsi in modo incontrollato.
Anche l’estetica, quindi, va ben oltre la concezione meccanicistica della natura: qui la natura è tutt’altro che
fredda, ma trasmette emozione.
Infatti: secondo il pensatore prussiano, poi, sono gli stessi esseri viventi che operano – così ci appaiono – in
base a degli scopi (fini).
Non si possono spiegare, dunque, esclusivamente con cause meramente meccaniche.
Certo: siamo noi che intuiamo che la scienza non è in grado di spiegare tutto e, a maggior ragione, non è in
grado di dare un senso alla natura, un senso allo stesso posto che l’uomo ha nella natura.
Dare un senso, infatti, esula dall’ambito scientifico.
Sì. Kant, naturalmente, non ha la pretesa di conferire un senso alla natura. Egli formula solo un’ipotesi: se la
natura ha uno scopo, questo non può che essere l’uomo perché è l’uomo l’unico essere della natura che
agisce consapevolmente per dei fini.
Siamo, ovviamente, non solo oltre l’ambito scientifico, ma anche oltre qualsiasi esperienza possibile.
Già, Kant si riferisce all’uomo come “noumeno”.
È sempre la metafisica che è in agguato.
Non può non essere così: il noumeno è per noi inaccessibile, ma non possiamo non porci il senso della
nostra esistenza.
L’unico miracolo
Abbiamo incontrato dei big del pensiero, ma qui ci troviamo di fronte a un vero e proprio gigante.
Un gigante che può essere benissimo paragonato ai più grandi dell’antichità.
Anche lui, tuttavia, non privo di limiti.
Tutti i pensatori vanno contestualizzati nel loro tempo. Oggi, ad esempio, vi è chi sottolinea la fragilità della
stessa scienza.
Kant, quindi, ha costruito un castello di a priori sulla sabbia.
Il pensatore prussiano, di sicuro, ha aperto la strada a quanti hanno scoperto (anche nell’ambito delle
neuroscienze) il ruolo decisamente attivo della mente umana, addirittura della stessa percezione sensibile
degli animali.
Non convince neppure la sua strenua difesa dell’universalità delle norme morali: il relativismo etico è un
fatto non smentibile.
Sì, è vero, siamo in presenza di un anti-relativista, ma non sono pochi i filosofi oggi che ritengono
sacrosanta la battaglia culturale contro il relativismo, o meglio contro la degenerazione del relativismo
secondo cui i valori sono equipollenti. Una battaglia in nome di valori comuni all’umanità, in primis del
profondo rispetto della dignità umana. Si tratta di valori che, tra l’altro, sono stati codificati ufficialmente
dalla carta dei diritti dell’uomo redatta dall’Onu.
Non vi è dubbio, tuttavia, che la morale teorizzata da Kant è tutt’altro che accessibile all’uomo comune.
Come, del resto, è radicale il messaggio morale del cristianesimo a cui egli ha dato sostanzialmente una
veste laica.
Svuotando però il cristianesimo perché l’ha ridotto a una religione semplicemente naturale, anzi a un
messaggio puramente etico.
In questo modo ha dato una nuova vitalità ai valori cristiani in un clima - quello diffuso dall’Illuminismo marcatamente anti-cristiano. È un fatto, tuttavia, che Kant, schierato a fianco dell’Illuminismo, ha
contribuito non poco alla demolizione del cristianesimo come si è storicamente recepito dalle varie chiese
cristiane.
Non solo. Ha contribuito a demolire la stessa “fede” cristiana”: che cosa rimane del cristianesimo quando si
vede nella figura di Cristo solo un maestro di saggezza morale?
Non hai torto. Kant ha liberato i vangeli da tutto ciò che considerava di carattere mitologico: la nascita di
Gesù da una vergine, Cristo-figlio di Dio, i miracoli… Il filosofo prussiano, inoltre, ha preso le distanze dalla
stessa lettura del cristianesimo da parte della Riforma protestante: la dottrina luterana della
“giustificazione” (noi siamo “giusti” di fronte a Dio e, quindi, meritiamo la salvezza, solo a causa della
“grazia” divina), ad esempio, deresponsabilizza l’uomo e dunque annulla ciò che caratterizza l’uomo.
Si è avvicinato, in questo, alla posizione della chiesa cattolica.
Sì. In sintonia col luteranesimo, invece, è il primato kantiano della coscienza, un primato che la stessa
chiesa cattolica negli ultimi tempi ha riconosciuto.
Una lettura del cristianesimo, la sua, del tutto razionale.
Kant non ha messo in dubbio la positiva funzione storica della mitologia cristiana: “è più arduo concepire in
che modo l’uomo per natura cattivo possa spogliarsi da se stesso del Male ed elevarsi all’ideale della
santità, piuttosto che pensare l’ideale della perfezione morale nell’atto di assumere la natura umana e di
abbassarsi fino a essa”.
Così scrive Massimo Roncoroni: “Se dunque Dio non si fa uomo, anche per Kant, nemmeno l’uomo riesce a
farsi pienamente umano, ove l’umanazione di Dio si presenta come la condizione necessaria e sufficiente
perché l’uomo sia umano fino in fondo. […] Non servono i miracoli, dal momento che l’unico miracolo
razionale è quello di credere di poter farci buoni perché sappiamo di dover essere tali” (Kant, La religione
entro i limiti della semplice ragione, Bompiani, Milano 2001, pp. 20-21).
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