...

PARLAMI D`AMORE… - santippolito.org

by user

on
Category: Documents
7

views

Report

Comments

Transcript

PARLAMI D`AMORE… - santippolito.org
PARROCCHIA S. IPPOLITO MARTIRE
PARLAMI D’AMORE…
24 Febbraio 2013
‘non gode dell’ingiustizia ma si compiace
della verità ‘
SALMO 84
Sei stato buono, Signore, con la tua terra, hai ristabilito la sorte di Giacobbe.
Hai perdonato la colpa del tuo popolo, hai coperto ogni loro peccato.
Hai posto fine a tutta la tua collera, ti sei distolto dalla tua ira ardente.
Ritorna a noi, Dio nostra salvezza, e placa il tuo sdegno verso di noi.
Forse per sempre sarai adirato con noi,
di generazione in generazione riverserai la tua ira?
Non tornerai tu a ridarci la vita, perché in te gioisca il tuo popolo?
Mostraci, Signore, la tua misericordia e donaci la tua salvezza.
Ascolterò che cosa dice Dio, il Signore: egli annuncia la pace
per il suo popolo, per i suoi fedeli, per chi ritorna a lui con fiducia.
Sì, la sua salvezza è vicina a chi lo teme, perché la sua gloria abiti la nostra terra.
Amore e verità s'incontreranno, giustizia e pace si baceranno.
Verità germoglierà dalla terra e giustizia si affaccerà dal cielo.
Certo, il Signore donerà il suo bene e la nostra terra darà il suo frutto;
giustizia camminerà davanti a lui: i suoi passi tracceranno il cammino.
«Non gode dell’ingiustizia», perché, anelando unicamente all’amore verso tutti, non
si compiace in alcun modo della rovina degli avversari.
«Ma si compiace della verità», perché, amando gli altri come se stessa, e vedendo in
essi la rettitudine, si rallegra come di un profitto e progresso proprio.
1
Complessa e polivalente dunque è questa legge di Dio.
Dal «Commento al libro di Giobbe» di san Gregorio Magno.
La parola “iniquità” è la parola Greca “adikia”. Il suo significato è: “quello
che non è proprio conforme, ciò che non dovrebbe essere; quello che non deve
essere a causa della verità rivelata; quindi sbagliato, ingiusto.” Ogni cosa che è
contro la verità è ingiustizia. E dal momento che in Giovanni 17,17 noi
sappiamo che la verità è la Parola di Dio, tutto ciò che è contro la Parola, è
“adikia”, ingiusto. Quindi secondo questo passaggio, l'amore gioisce con la
verità, la Parola di Dio, e non con ciò che è contro di essa, che è ingiustizia.
La giustizia si può definire come la virtù morale che consiste nella
disposizione abituale di dare a Dio e al prossimo ciò che è loro dovuto. Ne
abbiamo un esempio chiaro in Lv 19,15: "Non tratterai con parzialità il povero, né
userai preferenze verso il potente". Nel NT Cristo ne offre una formulazione
concisa e completa al tempo stesso: "Rendete dunque a Cesare quel che è di
Cesare e a Dio quel che è di Dio" (Mt 22,21). Ciò significa che la guarigione
completa di tutti i rapporti, di cui un uomo è il soggetto, consiste nel non
essere in difetto verso Dio e verso gli uomini. Questa armonia riconquistata
in tutte le relazioni prende il nome appunto di "giustizia".
Il primo e più importante ambito in cui si muove la virtù della giustizia
è rappresentato dai doveri verso Dio. Occorre interrogare la Scrittura per
sapere quali sono. Precisiamo subito che la parola "doveri" non va intesa, in
questo contesto, nel suo significato giuridico: vale a dire che i doveri verso Dio,
come quelli verso il prossimo, in quanto ispirati dalla virtù, non sono equiparabili
ai "doveri" che invece risultano da una obbligazione derivante dalla legge. E' vero
che la pietà si può imporre per legge, come si impone per legge la fedeltà ai
coniugi, ma non è virtù quel gesto intrinsecamente buono che si compie solo per
conformarsi a un dettame esteriore. E' fin troppo chiaro che qualunque
coniuge si sentirebbe umiliato se sapesse che il suo partner gli conserva
fedeltà solo perché così stabilisce la legge. La virtù è invece una forza che
spinge la persona dall'interno sotto la luce della verità e non sotto quella di un
qualche codice.
Fatta questa premessa, possiamo interrogare la Bibbia sulla giustizia.
Il punto di partenza non può che essere la domanda cruciale che uno
scriba pone a Cristo: "Qual è il primo di tutti i comandamenti?" (Mc 12,28). Con
l'espressione "primo dei comandamenti" lo scriba ha inteso alludere ai doveri
fondamentali richiesti da Dio verso se stesso. Ed è proprio in questa stessa linea
che Cristo risponde: "Il primo è: Ascolta Israele. Il Signore Dio nostro è l'unico
Signore; amerai dunque il Signore Dio tuo con tutto il cuore" (v. 29). Subito dopo,
superando i confini della domanda dello scriba, il Maestro aggiunge
spontaneamente un'altra verità non richiesta: il secondo comandamento, che è
simile al primo. I doveri fondamentali verso Dio sono sintetizzati da Cristo
con tre concetti presi dal Deuteronomio: l'ascolto, la professione del
2
monoteismo, un amore verso Dio superiore all'amore che si ha verso se
stessi.
Il rapporto con Dio, e tutti i "doveri" inerenti a questo rapporto, ha
inizio con la disposizione dell'ascolto. Diciamo pure che questo è il culto che
Dio gradisce più di ogni altro gesto. In questo senso possiamo comprendere il
testo di Qoelet: "Bada ai tuoi passi quando ti rechi alla casa di Dio. Avvicinarsi
per ascoltare vale più del sacrificio offerto dagli stolti che non comprendono
neppure di far male" (4,17). Dio insomma è glorificato dall'uomo che prende
sul serio la sua Parola. L'ascolto della Parola di Dio è ripetutamente comandato
in tutte le parti della Scrittura.
Aggiungo che all'ascolto di Dio va unita inscindibilmente la memoria.
La Parola di Dio e le sue opere vanno conosciute e conservate nella memoria,
tanto che la loro dimenticanza è equiparabile a un peccato di omissione: "Ma
guardati e guardati bene dalle cose che i tuoi occhi hanno viste… Le insegnerai
anche ai tuoi figli e ai figli dei tuoi figli" (Dt 4,9). Con l'espressione "le cose che i
tuoi occhi hanno viste" non si può intendere altro che il contenuto stesso della
Bibbia, cioè la storia della salvezza nel suo insieme, ignorare la quale, o
dimenticarla, è già un grave peccato davanti a Dio, come si vede dalla
esortazione duplice: "guardati e guardati bene". Alla luce di questo si comprende
fino a che punto ingannino se stessi coloro che cercano la salvezza nella
partecipazione fisica alle iniziative della Chiesa, senza curarsi del proposito del
salmista: "Ascolterò che cosa dice Dio" (Sal 85,9) né dell'avvertimento del
Qoelet: "Bada ai tuoi passi quando ti rechi alla casa di Dio. Avvicinarsi per
ascoltare vale più del sacrificio offerto dagli stolti che non comprendono neppure
di far male" (4,17).
Il secondo nucleo in cui Gesù sintetizza i "doveri" verso Dio è
costituito dalla professione radicale del monoteismo.
Al monoteismo si oppone l'idolatria, questo è chiaro, ossia l'adorazione di
ciò che non è Dio. Le idolatrie manifeste sono facilmente identificabili, dal
momento che sono strettamente connesse alle cose corporee. La forma più
esteriore e più grossolana di idolatria è un rapporto disordinato con il
corpo umano. L'Apostolo Paolo ne fa menzione in più punti delle sue lettere.
Questo genere di idolatria consiste nel separare la persona dal suo corpo e
trattare il corpo come uno strumento o un oggetto di cui fruire. Agli Efesini Paolo
dice: "Vi scongiuro nel Signore: non comportatevi più come i pagani nella vanità
della loro mente… Diventati così insensibili si sono abbandonati alla
dissolutezza, commettendo ogni sorta di impurità" (4,17). E ai Tessalonicesi:
"Ciascuno sappia mantenere il proprio corpo con santità e rispetto, non come
oggetto di passioni e libidine come i pagani che non conoscono Dio" (1 Ts 4,4-5).
Il messaggio è chiaro i cristiani differiscono dai pagani in questo punto
essenziale: non trattano più il corpo umano come se fosse un giocattolo. I
cristiani trattano anche la materialità del corpo umano come se fosse un
"soggetto" e non un oggetto. La motivazione di questa trasformazione etica
del mondo non è tanto da ricercarsi nel concetto di dignità della persona, non
ignoto alla cultura greca, ma in un altro concetto, assolutamente originale,
3
che non si trova neppure nell'AT. Paolo lo esprime con queste parole: "Non
sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete
da Dio e che non appartenete più a voi stessi?" (1 Cor 6,19). La ragione
profonda che spinge i cristiani a trattare il proprio corpo come un soggetto sta
nella presenza personale dello Spirito Santo in ciascun battezzato. Da quel
momento in poi il battezzato è un "Tempio" dove dimora lo Spirito di Dio.
Quindi non è più possibile fruirne a proprio piacimento senza contristare lo Spirito
di Dio inabitante. Grazie alla presenza dello Spirito anche la materialità del corpo
umano ha conquistato, per così dire, una certa "soggettività" e non deve più
essere degradato alla dimensione degli oggetti.
Questo enunciato paolino che stiamo esaminando offre però una seconda
motivazione integrativa: "Non appartenete a voi stessi" (1 Cor 6,19). La presenza
dello Spirito di Dio nel nostro corpo è il sigillo di una appartenenza irrevocabile a
Dio, dal momento che siamo stati "comprati" da Lui a caro prezzo (cfr. v. 20),
cioè a prezzo del Sangue del Figlio. Non possiamo più disporre di noi stessi
perché, a partire dal battesimo, abbiamo cessato di appartenere a noi stessi.
Inoltre, la presenza dello Spirito ci costituisce Corpo di Cristo, perciò i nostri corpi
sono il Corpo di Cristo: "Non sapete che i vostri corpo sono membra di Cristo?"
(1 Cor 6,15). Ciò significa che non si può strumentalizzare il corpo di un cristiano
(sia proprio, sia altrui), senza, per ciò stesso, strumentalizzare il Corpo di Cristo.
A questo si deve aggiungere che il corpo umano è destinato alla risurrezione, ed
è questo un ulteriore argomento a favore della sua "soggettività": "Il corpo non è
per l'impudicizia ma per il Signore, e il Signore è per il corpo. Dio, poi, che ha
risuscitato il Signore, risusciterà anche noi con la sua potenza" (1 Cor 6,13-14).
Passando però dall'esterno all'interno della persona, ci si imbatte in
idolatrie ben più sottili e nascoste. Vi sono idolatrie che colpiscono l'intelletto
e idolatrie che colpiscono l'affettività. La Bibbia ci mette in guardia da
entrambe.
L'idolatria dell'intelletto consiste nel ritenersi intelligenti davanti a se
stessi (cfr. Is 5,21) e capaci giudicare tutto e di afferrare tutto, senza tenere
conto della Parola.
Le idolatrie dell'affettività sono ancora meno visibili perché meglio
camuffate delle altre. La Bibbia ci aiuterà a discernere anche questi fenomeni.
In generale si potrebbe dire che questi aspetti dell'idolatria, ben camuffati perché
fanno leva su realtà legittime, si verificano quando la persona, per osservare
le aspettative di amici e parenti, o di qualunque altra autorità terrestre, non
risponde alle aspettative di Dio. Si tratta di idolatria, perché ciò che si
preferisce alla volontà di Dio è sempre una pseudodivinità. Il culto più puro
che Dio si attende dall'uomo è l'obbedienza alla sua Parola e, di conseguenza,
ogni ubbidienza data a qualcos'altro non è che un culto deviato, una parodia
della virtù della pietà.
Infine, il terzo nucleo in cui Cristo ha sintetizzato i nostri "doveri"
verso Dio, è costituito da una consegna totale della nostra vita nelle sue
Mani (cfr. Mt 22,37), un insegnamento che si esprime con le parole "Amerai il
4
Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutta la mente". E'
ovvio che, nel linguaggio biblico, il cuore, l'anima e la mente non sono tre
cose diverse da ciò che è l'uomo nella sua storicità, né sono tre elementi
distinti del composto umano; piuttosto, sono tre aspetti sotto cui deve
realizzarsi la totale sottomissione della persona umana a Dio: il cuore
rappresenta la coscienza, ossia la dimensione della interiorità in cui la
persona prende le sue decisioni nei confronti della verità; l'anima
rappresenta le energie vitali, le forze che la persona canalizza verso la
realizzazione di sé; la mente è la sede del pensiero, il cui nutrimento è la
conoscenza. La sottomissione a Dio deve avere, nell'uomo, questi tre volti.
Sarà opportuno considerarli separatamente.
Il "cuore" del linguaggio biblico non è dunque la sede dei sentimenti,
ma è la sede delle decisioni importanti della vita, quelle decisioni che
hanno la loro radice nel discernimento del bene e del male e che si
traducono nella posizione che la persona sente di dovere prendere dinanzi
ai valori morali.
Dopo questa premessa, si può comprendere facilmente che "amare Dio
con tutto il cuore" significa COMPIERE UNA SCELTA DI COSCIENZA CHE
ORIENTI LA PROPRIA PERSONA E LA PROPRIA VITA INTERAMENTE
VERSO IL PRIMATO DELLA VOLONTÀ DI DIO. Amare Dio infatti non è una
esperienza sensibile o sentimentale, ma è una scelta di coscienza. Dio vuole che
la nostra coscienza sia abitata da Lui e dalla sua Luce.
Amare Dio con tutta l'anima. E' la seconda determinazione. Chiariamo
subito che, in questo contesto, la parola "anima" non indica il principio spirituale
che si oppone a "corpo". E amare Dio con l'anima non significa amarlo "con lo
spirito", visto che non è possibile amarlo "con il corpo". La parola anima, nel
linguaggio biblico (nefesh, in ebraico), indica qualcosa di più che non
semplicemente il principio vitale che si oppone al corpo. Nella Bibbia, la
parola "anima" è sinonimo di "energia vitale", che include il concetto di
persona nella sua globalità, senza eccettuare il corpo. Per dirla in breve, con
la parola "anima" nei testi biblici dobbiamo intendere non soltanto il soffio
vitale, ma soprattutto la totalità della persona, in tutte le sue energie vitali,
fisiche e psichiche.
Direi quindi che il senso della esigenza di amare Dio con tutta l'anima,
consiste nel NON GIUDICARE LA PROPRIA VITA PIÙ PREZIOSA O PIÙ
IMPORTANTE DEL REGNO DI DIO, ED ESSERE QUINDI DISPOSTI A
MORIRE IN UN ATTO DI OFFERTA DI SE STESSI COME IMMOLATI AGLI
INTERESSI DEL REGNO CHE VIENE. L'apostolo Paolo ha amato Dio con tutta
l'anima, quando ha consegnato la propria vita alle esigenze dure dell'annuncio
del Vangelo e ha portato questo amore alla sua ultima perfezione quando è stato
martirizzato.
Amare Dio con tutta la mente. E' la terza determinazione. La parola
"mente" nel linguaggio biblico non si riferisce a cose diverse da quelle che
intendiamo noi usando la medesima parola. La "mente" è la sede del pensiero,
5
il luogo del rapporto dell'uomo con la conoscenza e con la verità. "Amare
Dio con tutta la mente" significa RICONOSCERE CHE L'OGGETTO DELLA
CONOSCENZA CAPACE DI APPAGARE INTERAMENTE IL NOSTRO
BISOGNO DI VERITÀ È DIO STESSO.
Amare Dio con la mente vuol dire innanzitutto riconoscere i limiti
oggettivi che Dio ha posto al nostro sapere e non pretendere di valicarli
empiamente, uguagliando la nostra intelligenza a una divinità. La nostra
intelligenza, per quanto ammirevole, è anch'essa una creatura e non un dio.
I confini della giustizia sono determinati dalla misura dell'amore verso
se stessi, mentre i traguardi della santità non hanno misura, perché
modellati sull'infinito amore del Figlio di Dio che ha dato Se Stesso per noi.
Solo il Vangelo di Luca aggiunge all'insegnamento tratto dal Levitico la parabola
del buon samaritano, con l'intenzione di spiegare il concetto di "prossimo", che
nelle parole del Maestro non è rappresentato da colui che mi è vicino, ma
da colui al quale io mi faccio vicino. In sostanza, gli altri non "sono" mio
prossimo, ma lo "divengono" se io li rendo tali, avvicinandomi alle loro
sofferenze.
Qui dobbiamo però precisare soltanto i confini della giustizia verso il
prossimo. Il punto di riferimento offerto dalla Bibbia è, come abbiamo già detto,
l'amore verso se stessi. Non è solo il Levitico ad esprimersi in questi termini.
Possiamo ricordare altre formulazioni dello stesso precetto: "Non fare a nessuno
ciò che non piace a te" (Tb 4,15). Nel NT è pure ripreso ma con una variazione
che lo riesprime in positivo: "Ciò che volete gli uomini facciano a voi, anche voi
fatelo a loro" (Lc 6,31). Il senso sostanziale non cambia: il livello minimo della
giustizia verso gli altri, al di sotto del quale c'è l'ingiustizia, consiste nel
DESIDERARE PER GLI ALTRI IL MEDESIMO BENE CHE SI DESIDERA PER
SE STESSI.
L'amore perciò non accumula beni per sé a danno dell'altro; al contrario è
disposto a dare i propri beni per corrispondere al bisogno dell'altro, anche
quando questo gli risulta tutt'altro che spontaneo. Come tale, l'amore non gode
dell'ingiustizia, non si rallegra della disparità tra il proprio benessere e il
malessere altrui. Il contrasto con questo atteggiamento dell'amore è chiaramente
scolpito nella parabola del ricco cattivo e del povero Lazzaro.
C’era un uomo ricco, che vestiva di porpora e di bisso e tutti i giorni
banchettava lautamente. Un mendicante, di nome Lazzaro, giaceva alla sua
porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi di quello che cadeva dalla mensa
del ricco. Perfino i cani venivano a leccare le sue piaghe. Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli nel seno di Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto.
Stando nell'inferno tra i tormenti, levò gli occhi e vide di lontano Abramo e
Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: Padre Abramo, abbi pietà di me e
manda Lazzaro a intingere nell'acqua la punta del dito e bagnarmi la lingua,
perché questa fiamma mi tortura. Ma Abramo rispose. Figlio, ricordati che hai
ricevuto i tuoi beni durante la vita e Lazzaro parimenti i suoi mali; ora invece lui è
consolato e tu sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stabilito un
6
grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi non possono, né di
costì si può attraversare fino a noi. E quegli replicò: Allora, padre, ti prego di
mandarlo a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca, perché
non vengano anch'essi in questo luogo di tormento. Ma Abramo rispose:
Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro. E lui: No, padre Abramo, ma se qualcuno
dai morti andrà da loro, si ravvederanno. Abramo rispose: Se non ascoltano
Mosè e i Profeti, neanche se uno risuscitasse dai morti saranno persuasi (Lc
16,19-31 ).
Lo stile di vita dell'uomo ricco abbonda di benessere: il suo corpo è
elegantemente vestito, il suo palato raffinatamente soddisfatto.
La soddisfazione per la sua condizione di vita lo apparenta all'agricoltore
facoltoso di un'altra parabola, che per via dei magazzini stracolmi diceva a se
stesso: «Riposati, mangia, bevi e datti alla gioia» (Lc 12,19). Per la verità quel
ricco sembra non abbia potuto soddisfare il suo proposito, restando con
l'acquolina in bocca per via della morte che, nottetempo, lo raggiunse improvvisamente. Il ricco della parabola sopra riportata, invece, da tempo gode dei
piaceri degli occhi e della gola. Non è insolito per lui il piacere della tavola: si fa
notare, infatti, che egli banchettava lautamente non occasionalmente, ma «tutti i
giorni».
La parabola, finemente, non attribuisce all'uomo ricco la colpa per la
condizione del povero Lazzaro e nemmeno esclude che quest'ultimo abbia
qualche responsabilità nel trovarsi così malridotto. L'amore per l'altro non è
dovuto sulla base della propria diretta responsabilità per la sua povertà e
nemmeno sulla base dell'innocenza dell'altro. L'amore è dovuto
semplicemente perché l'altro, senza aiuto, rischia la vita.
L'amore cristiano non è un generico sentimento e nemmeno un'intensa
commozione o compassione solo esteriore. L'amore cristiano, come ebbe a
precisare Gesù e come lui visse «sino alla fine» (Gv 13,1), è il dono della propria
vita per la vita degli altri: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la
vita per i propri amici» (Gv 15,13).
Questa concezione dell'amore spinge anche a rivedere il concetto di
giustizia. Giusto non è chi si limita a non sottrarre i beni agli altri,
accontentandosi di osservare la lettera del comandamento: «non rubare». Giusto
è chi pratica la legge dell'amore, per la quale anche l'omissione di soccorso è
trasgressione. L'amore cristiano dunque, non solo non commette
l'ingiustizia, ma nemmeno si compiace della propria giustizia, del non
essere, cioè, responsabile del male altrui. Non gode dell'ingiustizia,
nemmeno quando essa non dipende direttamente da lui. Nondimeno, il suo
atteggiamento non è di complicità con l'ingiustizia, nemmeno a livello di
sentimento interiore.
Una concezione della giustizia che fa della vita dell'altro il criterio di
riferimento del proprio comportamento, non accontentandosi di non fare nulla
direttamente contro di lui, nemmeno assume come alibi per sentirsi «a posto» il
fatto di concedere all'altro il proprio superfluo. Si dice che Lazzaro giaceva alla
7
porta «bramoso di sfamarsi di quello che cadeva dalla mensa del ricco». Non ci
sono difficoltà particolari nell’ immaginare che Lazzaro ottenne i rifiuti della
mensa del ricco e, forse anche, qualche avanzo. Ancora oggi, su scala mondiale,
i poveri ricevono dai ricchi ciò che i ricchi possono regalare senza che il loro
livello di benessere subisca alcuna diminuzione. Ciò che avviene su scala mondiale o personale in riferimento al cibo e agli altri beni di consumo capita anche
nelle relazioni amorose in riferimento al bene dell'attenzione all'altro. Non
è, infatti, così raro che l'uno sia tanto compiaciuto di se stesso da usare per
l'altro solo briciole di attenzione. Sono talvolta briciole nemmeno
intenzionalmente offerte, ma occasionalmente concesse all'altro che per
ottenerle ha magari dovuto persino umiliarsi.
La ricerca del proprio godimento può giungere sino all'indifferenza di fronte
all'ardente desiderio d'amore dell'altro. Ci si compiace, anzi, dello scarto tra la
propria autosufficienza, che non ha bisogno di nulla perché ha tutto in
sovrabbondanza, e la necessità dell'altro, che è privo di tutto e non può contare
su nulla. Il confronto con l'indigenza dell'altro può indurre a stringersi nelle vesti
morbide della propria indifferenza, godendo della propria sufficienza.
L'indifferenza per la condizione dell'altro può però crescere ancora e arrivare
all'impassibilità non solo di fronte all'umiliarsi dell'altro, ma anche all'umiliazione
che gli viene inferta. L'indifferenza dell'uomo ricco non è scalfita nemmeno dal
fatto che il povero Lazzaro, coperto di piaghe, riceve solo l'attenzione dei cani,
attenzione che umilia l'uomo sino al livello subumano degli animali. Lo scarto tra
lo standard di benessere del ricco e di malessere del povero, scivolato al di sotto
del livello di sopravvivenza umana, appare abissale.
L'omissione dell'amore per l'altro può anche gonfiare la vita di benessere,
ma intanto, nascostamente, scava un abisso di vuoto da cui, prima o poi,
saliranno i tormenti infernali della solitudine. La parabola rappresenta l'esito
inquietante di chi omette l'amore, godendo dell'ingiusta indigenza di chi ne
abbisogna, collocando il ricco, dopo la morte, fra i tormenti dell'inferno, diviso da
un «grande abisso» dal povero Lazzaro, cullato di consolazione nel seno di
Abramo. La fine del benessere personale scopre la vergogna dell'assenza di
amore: allora si comprende che una sola goccia di attenzione amorosa vale più
di tutto il proprio benessere.
L'irreversibilità della separazione tra il ricco e il povero dichiarata da
Abramo - «Tra voi e noi è stabilito un grande abisso: coloro che di qui vogliono
passare da voi non possono, né di costì si può attraversare fino a noi» - lascia intendere che la perdurante indifferenza amorosa può giungere a un punto di non
ritorno. Nessun richiamo, nessun miracolo a quel punto potrebbero sciogliere la
durezza di cuore di chi non ha avuto occhi che per il proprio benessere. L'amore
per l'altro è questione tanto seria da incidere irrimediabilmente sul destino della
propria vita.
L'amore che non gode (chatrei) del compromesso con l'ingiustizia,
fosse anche solo di compiacenza interiore, si compiace (synchairei) della
verità. Un amore ingiusto sarebbe falso, nemmeno potrebbe essere chiamato
amore. L'amore, se è veramente tale, gode quando giustizia è fatta, ovvero
8
quando l'altro abbonda di vita.
Proviamo a fare ‘verità’ sulla relazione d’amore. La vita di coppia,
considerata sul piano della relazione reciproca di due persone, viene descritta
dalla Bibbia in modo da offrire a ogni coppia credente le tracce di uno stile di vita
quotidiana conforme alle aspettative di Dio.
La prima cosa che balza subito agli occhi è il fatto che una relazione
d'amore, costruita secondo Dio, deve essere priva dei rapporti di forza. Il
racconto della creazione contiene già questo elemento di pacificazione reciproca
che deve caratterizzare la coppia che vive il suo amore nella luce di Dio: "Non è
bene che l'uomo sia solo, gli voglio fare un aiuto che gli sia simile… Il Signore
Dio plasmò una donna e la condusse all'uomo" (2,18.22). Questi brevi enunciati
raggiungono una notevole profondità antropologica e teologica al tempo stesso:
la coppia pensata da Dio è una coppia che nasce innanzitutto sulla base
della similitudine.
La prima esperienza di pace nel rapporto tra due persone consiste
nell'avere lo stesso cuore. E' difficile che un uomo e una donna possano
costruire insieme un amore veramente felice se sono uniti da una similitudine
soltanto superficiale (il piacersi fisicamente o caratterialmente, l'avere gli stessi
gusti…) e sono invece diversi nella maniera di interpretare la vita e negli obiettivi
fondamentali da perseguire. L'amore donato da Dio alla coppia delle origini
può fondarsi solo sulla similitudine della coscienza, quando cioè l'uomo e
la donna credono negli stessi valori, condividono le stesse aspirazioni,
interpretano la vita nella medesima chiave.
Il secondo enunciato (v. 22) si muove invece sul registro dello stile di
vita: Adamo non si appropria di sua moglie, è Dio che gliela offre come un
dono.
La coppia che vive nella luce di Dio non perde mai di vista il fatto che, pur
nella reciproca e totale appartenenza, nessuno dei due è "padrone" dell'altro.
Piuttosto, l'altro si accoglie con il rispetto e la delicatezza con cui si
accoglie un dono prezioso fatto da Dio.
L'incontro di Tobia e di Sara veicola infatti proprio questo insegnamento;
Tobia prende Sara non come una moglie autonomamente scelta, ma come la
donna che Dio ha giudicato adatta per lui: "Dal cielo è stato stabilito che ti sia
data" (Tb 7,12).
Di fatto, sempre nel libro della Genesi, i rapporti di forza entrano nella
vita di coppia solo dopo il peccato originale e perciò non esprimono la
volontà di Dio, ma solo la conseguenza di un disordine voluto dall'uomo e
progettato dal diavolo: "Alla donna Dio disse: verso tuo marito sarà il tuo
istinto, ma egli ti dominerà" (Gen 3,16). Questo "egli ti dominerà" segna
l'ingresso dei rapporti di forza che hanno snaturato l'amore umano, deformandolo
nel suo significato sacramentale, ossia nella sua capacità di rendere visibile
l'amore di Dio. Cristo, nella sua risposta ai farisei che lo interrogavano sul
divorzio, fa riferimento a una condizione in cui la coppia umana non è più quello
9
che Dio aveva stabilito al principio della creazione (cfr. Mt 19,8).
Nelle parole di Cristo si comprende che l'amore umano ha perduto lo
splendore che aveva all'origine, perché il peccato ha ferito gli equilibri della
persona e il cuore si è ammalato di indurimento. Alla luce di questo presupposto,
il Maestro afferma che il fallimento dell'amore umano non è dovuto a una qualche
forma di incompatibilità tra l'uomo e la donna, ma è da attribuirsi a una causa più
profonda, ossia lo stato di malattia del cuore oscurato dal peccato. Sarà
necessaria la redenzione perché la coppia umana possa avvicinarsi allo
splendore delle origini, recuperando l'intimità con Dio, perduta con la cacciata
dall'Eden.
Lo stile delle relazioni tra marito e moglie viene ripreso dall'Apostolo Paolo
nella lettera agli Efesini, con una amplificazione del discorso nella prospettiva
sacramentale. Paolo presenta in termini nuovi quello che può sembrare non
solo un discorso vecchio, ma anche un discorso che dovrebbe essere
superato nella nuova economia del NT. L'Apostolo "sembra" infatti suggerire la
sottomissione della donna all'uomo. Ci sembra opportuno chiarire qui cosa egli
abbia inteso dire. Il suo enunciato suona intanto così: "Le mogli siano
sottomesse ai loro mariti come al Signore; il marito infatti è capo della moglie
come Cristo è capo della Chiesa" (Ef 22). Il concetto di "sottomissione" ha
bisogno di essere contestualizzato, per non correre il rischio di cadere in un
madornale fraintendimento. Sarebbe un errore tentare di capire il senso delle
parole dell'Apostolo senza tenere conto di ciò che egli subito dopo aggiunge: "E
voi, mariti, amate le vostre mogli come Cristo ha amato la Chiesa" (v. 25). Ora,
noi sappiamo che Cristo ha amato la Chiesa lavando i piedi ai suoi discepoli e
rappresentando così il senso profondo dell'offerta della propria vita per la nostra
salvezza. Se dunque la moglie deve essere sottomessa al marito come a
Cristo, il marito, a sua volta, deve mantenere verso di lei lo stesso
atteggiamento di Cristo, chino in un instancabile servizio. Sotto questa
chiave scopriamo allora che la "sottomissione" è un atteggiamento altissimo e
nobile, se è ispirato dall'amore e dall'imitazione di Cristo.
L'amore totalmente dedito al bene degli altri al punto da dimenticare sé non
è un prodotto della terra degli uomini, non appartiene alle loro proprietà. Si
potrebbe anzi dire che appartiene a un altro mondo, desiderabile fin che si vuole,
ma distante e irraggiungibile quanto il cielo sovrasta la terra. L'amore vero
appartiene a un regno che non è di questo mondo; appartiene, infatti, al
«regno dei cieli». Tale è l'espressione con cui Gesù indica l'amore autentico
annunciato agli uomini. Come tale amore, limpido e luminoso come un cielo terso
e soleggiato, possa essere scoperto sulla terra è raccontato nelle parabole
gemelle del tesoro e della perla.
Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto in un campo; un uomo lo
trova e lo nasconde di nuovo, poi va pieno di gioia, e vende tutti i suoi averi e
compra quel campo.
Il regno dei cieli è simile a un mercante che va in cerca di perle preziose:
trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra (Mt
10
13,44-46).
Protagonista di entrambe le parabole è il regno dei cieli, nominato
all'inizio della narrazione. II regno dei cieli non è da pensare secondo i canoni di
questo mondo, che subito rinviano a un territorio e a un potere politico. Il regno
dei cieli si presenta sulla terra nella persona di Gesù. La testimonianza
dell'evangelo di Marco lo mette in chiara luce. Le prime parole pronunciate da
Gesù non appena compare sulla scena del Vangelo sono: «Il tempo è compiuto e il
regno di Dio è vicino» (Mc 1,15). Il regno di Dio, ovvero la comunione amorosa
che stringe in uno il Padre, il Figlio, e lo Spirito Santo, «sbuca» sulla terra degli
uomini attraverso Gesù, il Figlio fatto uomo. Se l'amore divino prende forma
umana, allora esso si può incontrare. La possibilità e la modalità di incontrare
l'amore divino sono narrate nel prosieguo delle parabole.
Gli attori in scena sono un povero bracciante e un ricco mercante. Il fatto che
entrambi siano assunti per narrare dell'incontro degli uomini con il regno dei cieli
significa che esso è offerto a tutti, indipendentemente dalla loro condizione sociale
e professionale.
La scoperta del regno, che pur non è vincolata a una speciale situazione di
vita, tiene conto della situazione in cui gli uomini concretamente si trovano. È così
che il bracciante trova il tesoro nel campo dove lavora, e il mercante trova la perla
di grande valore aggirandosi tra i mercati. Il prezioso tesoro del regno dei cieli è
collocato sulla terra degli uomini. Non appare immediatamente, eppure non è
introvabile. Già in altre occasioni Gesù aveva paragonato il regno a un «granellino
di senapa. [...] il più piccolo di tutti i semi» (Mt 13,31-32), insegnando che la sua
visibilità non acceca la vista, ma richiede, al contrario, uno sguardo attento e penetrante.
Il tesoro e la perla preziosa, benché collocati in modo da poter essere
trovati, sono nascosti, rispettivamente, sotto terra o nella confusione delle altre
perle. Per essere scoperti, tesoro e perla richiedono l'attività del bracciante e del
mercante. Di quest'ultimo, si dice esplicitamente che «va in cerca di perle
preziose»: la sua attività è già mirata a una scoperta speciale. Del bracciante si
dice semplicemente che «trova» il tesoro, ma non si esclude certo che esso sia
venuto alla luce del sole per via della fatica di chi scavava il terreno.
La necessaria attività degli uomini per scoprire il regno dei cieli, per trovare
cioè l'amore divino vissuto da Cristo, è scandita in entrambe le parabole da tre
verbi: trovare, vendere, comperare. Il primo verbo si riferisce alla scoperta
straordinaria del tesoro e della perla preziosa. La straordinarietà della scoperta
risuona nell'intimo della persona: è messa in evidenza dalla gioia di cui si riempie il
cuore del bracciante allorquando il suo piccone cozza contro il tesoro sotterrato.
La straordinarietà della scoperta è pure sottolineata dal secondo verbo vendere - che descrive l'alienazione di quanto i due attori della parabola già
posseggono. Il verbo, reso dall'italiano vendere, traduce nel medesimo modo verbi
diversi usati nei due racconti. Il verbo del primo racconto (póléó) può riferirsi ad
un affare più modesto di quello indicato dal verbo del secondo racconto
(pipraskó). Questo particolare esegetico, collocato nella dinamica della narrazione
11
delle parabole, propone un crescendo che invita il lettore a ben considerare il
grande valore della scoperta: la seconda parabola non solo ribadisce la
straordinarietà di ciò che è stato trovato, ma ne enfatizza la preziosità.
Il terzo e ultimo verbo, che scandisce l'attenzione mediante la quale gli
uomini acconsentono e corrispondono all'amore rivelato da Cristo - il verbo
comperare -, insiste ancora sul valore straordinario dell'amore cristiano, tanto
prezioso da giustificare l'investimento di tutti i propri averi. Nell'articolata attività
umana attratta dall'amore divino, il vertice è rappresentato dalla disposizione a
giocare il tutto per tutto, pur di entrare nel regno dell'amore di Cristo. Lo si
intuisce da entrambe le parabole, che hanno il loro punto decisivo non tanto nella
scoperta del tesoro e della perla, quanto nella decisione di tutto disporre per
acquisirli. Che questo atteggiamento di disposizione totale delle proprie risorse e
finanche di se stessi, in vista dell'acquisizione dell'amore divino, non sia solo una
bella favola, ma un'esigenza prospettata da Gesù ai discepoli e un'esperienza di
questi ultimi, è comprovato dai molteplici racconti di vocazione riportati dai
Vangeli.
Compreso mediante le parabole del regno dei cieli, il compiacersi della
verità, tratto caratteristico dell'amore autenticamente cristiano, non descrive un
puro sentimento interiore, ma accentua la decisione che si traduce in effettiva
azione: il piacere dell'amore è godimento autentico quando scaturisce
come frutto di una reale disposizione ad abbracciare l'altro con tutta la
propria esistenza.
E difficile diventare autentici, è necessaria l'intera vita e uno sguardo di
misericordia.
Diventare autentici significa guardare le cose in profondità, con spirito
critico e oggettivo, senza mai scivolare nel fanatismo della coerenza (Gesù è
morto per amore, non in nome della coerenza!), consapevoli che un rapporto
giusto è fondamentale per esprimere l'amore.
Ti amo con tutta la verità di cui sono capace, non sono meglio di ciò che io
sono veramente. Prendimi così, col mio amore sincero e piccolino.
Ecco ciò che pensa Paolo dell'amore.
Poco sentimento, come vedete, e molto realismo, quasi crudo, essenziale.
Non spaventatevi, però: Paolo ci indica la vetta, a noi spetta iniziare la
salita in mezzo al bosco.
Non è un approccio moralistico quello di Paolo e del cristianesimo (che
alcuni si sforzino di farlo diventare tale è un altro paio di maniche...), ma
autentico e liberante: la grazia ti rende capace di diventare così; tu, discepolo del
Maestro, sei reso capace di amare come Lui ci ha amati, con pazienza,
benevolenza, umiltà, rispetto, perdono e autenticità.
Dopo tanti anni, rileggendo Paolo, non posso che sottoscrivere la sua audace riflessione sulla concretezza dell'amore. Nessuna ansia di perfezione, però.
Conosco persone che ogni volta che leggono la Parola di Dio ne escono
12
depresse e si sentono inadatte. Forse, leggendo queste pagine, abbiamo
provato un frustrante senso di inadeguatezza.
E’ normale che il nostro amore sia snervato, invidioso, rancoroso,
possessivo, egoista, un po' falso. E’ naturale che ci venga da manipolare l'altro,
da guardare la realtà sempre dal lato a noi più conveniente.
È spontaneo che la parte oscura di noi, l'uomo vecchio, faccia sentire la
sua voce.
E’ evangelico scegliere che non sia così.
DAL MESSAGGIO DI QUARESIMA 2013 DI BENEDETTO XVI
Tutta la vita cristiana è un rispondere all'amore di Dio. La prima risposta è appunto
la fede come accoglienza piena di stupore e gratitudine di un’inaudita iniziativa divina che
ci precede e ci sollecita. E il «sì» della fede segna l’inizio di una luminosa storia di amicizia
con il Signore, che riempie e dà senso pieno a tutta la nostra esistenza. Dio però non si
accontenta che noi accogliamo il suo amore gratuito. Egli non si limita ad amarci, ma vuole
attiraci a Sé, trasformarci in modo così profondo da portarci a dire con san Paolo: non
sono più io che vivo, ma Cristo vive in me (cfr Gal 2,20).
Quando noi lasciamo spazio all’amore di Dio, siamo resi simili a Lui, partecipi della
sua stessa carità. Aprirci al suo amore significa lasciare che Egli viva in noi e ci porti ad
amare con Lui, in Lui e come Lui; solo allora la nostra fede diventa veramente «operosa
per mezzo della carità» (Gal 5,6) ed Egli prende dimora in noi (cfr 1 Gv 4,12).
La fede è conoscere la verità e aderirvi (cfr 1 Tm 2,4); la carità è «camminare» nella
verità (cfr Ef 4,15). Con la fede si entra nell'amicizia con il Signore; con la carità si vive e si
coltiva questa amicizia (cfr Gv 15,14s). La fede ci fa accogliere il comandamento del
Signore e Maestro; la carità ci dona la beatitudine di metterlo in pratica (cfr Gv 13,13-17).
Nella fede siamo generati come figli di Dio (cfr Gv 1,12s); la carità ci fa perseverare
concretamente nella figliolanza divina portando il frutto dello Spirito Santo (cfr Gal 5,22).
La fede ci fa riconoscere i doni che il Dio buono e generoso ci affida; la carità li fa
fruttificare (cfr Mt 25,14-30).
La
carità
fondata
sulla
favorisce l’indissolubilità del matrimonio
verità
e
sulla
giustizia
Carità, giustizia e verità – linee guida di chiunque sia chiamato ad amministrare la
giustizia – favoriscono l’indissolubilità del matrimonio. Il Papa lo ha ricordato ai membri
del Tribunale della Rota Romana nell’udienza di venerdì mattina, 29 gennaio, nella Sala
Clementina, in occasione dell’inaugurazione dell’Anno giudiziario. Benedetto XVI ha
voluto anche raccomandare alla Rota di rifuggire da richiami pseudopastorali per
soddisfare richieste soggettive.
L’azione, poi, di chi amministra la giustizia non può prescindere dalla carità. L’amore verso
Dio e verso il prossimo deve informare ogni attività, anche quella apparentemente più
tecnica e burocratica. Lo sguardo e la misura della carità aiuterà a non dimenticare che si è
13
sempre davanti a persone segnate da problemi e da sofferenze. Anche nell’ambito specifico
del servizio di operatori della giustizia vale il principio secondo cui “la carità eccede la
giustizia” (Enc. Caritas in veritate, n. 6). Di conseguenza, l’approccio alle persone, pur
avendo una sua specifica modalità legata al processo, deve calarsi nel caso concreto per
facilitare alle parti, mediante la delicatezza e la sollecitudine, il contatto con il competente
tribunale. In pari tempo, è importante adoperarsi fattivamente ogni qualvolta si intraveda
una speranza di buon esito, per indurre i coniugi a convalidare eventualmente il
matrimonio e a ristabilire la convivenza coniugale (cfr. CIC, can. 1676). Non va, inoltre,
tralasciato lo sforzo di instaurare tra le parti un clima di disponibilità umana e cristiana,
fondata sulla ricerca della verità (cfr. Instr. Dignitas connubii, art. 65 2-3).
Tuttavia occorre ribadire che ogni opera di autentica carità comprende il riferimento
indispensabile alla giustizia, tanto più nel nostro caso. “L’amore – “caritas” – è una frza
straordinaria, che spinge le persone a impegnarsi con coraggio e generosità nel campo della
giustizia e della pace” (Enc. Caritas in veritate, n. 1). “Chi ama con carità gli altri è anzitutto
giusto verso di loro. Non solo la giustizia non è estranea alla carità, non solo non è una via
alternativa o parallela alla carità: la giustizia è “inseparabile dalla carità”, intrinseca ad essa”
(Ibid., n. 6). La carità senza giustizia non è tale, ma soltanto una contraffazione, perché la
stessa carità richiede quella oggettività tipica della giustizia, che non va confusa con
disumana freddezza.
Vorrei oggi sottolineare come sia la giustizia, sia la carità, postulino l’amore alla verità
e comportino essenzialmente la ricerca del vero. In particolare, la carità rende il
riferimento alla verità ancora più esigente. “Difendere la verità, proporla con umiltà e
convinzione e testimoniarla nella vita sono pertanto forme esigenti e insostituibili di carità.
Questa, infatti, “si compiace della verità” ( 1 Cor 13, 6)” (Enc. Caritas in veritate, n. 1).
“Solo nella verità la carità risplende e può essere autenticamente vissuta (…). Senza verità la
carità scivola nel sentimentalismo. L’amore diventa un guscio vuoto, da riempire
arbitrariamente. È il fatale rischio dell’amore in una cultura senza verità. Esso è preda delle
emozioni e delle opinioni contingenti dei soggetti, una parola abusata e distorta, fino a
significare il contrario.
14
15
Fly UP