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PARLAMI D`AMORE… - santippolito.org
PARROCCHIA S. IPPOLITO MARTIRE PARLAMI D’AMORE… 24 Febbraio 2013 ‘non gode dell’ingiustizia ma si compiace della verità ‘ SALMO 84 Sei stato buono, Signore, con la tua terra, hai ristabilito la sorte di Giacobbe. Hai perdonato la colpa del tuo popolo, hai coperto ogni loro peccato. Hai posto fine a tutta la tua collera, ti sei distolto dalla tua ira ardente. Ritorna a noi, Dio nostra salvezza, e placa il tuo sdegno verso di noi. Forse per sempre sarai adirato con noi, di generazione in generazione riverserai la tua ira? Non tornerai tu a ridarci la vita, perché in te gioisca il tuo popolo? Mostraci, Signore, la tua misericordia e donaci la tua salvezza. Ascolterò che cosa dice Dio, il Signore: egli annuncia la pace per il suo popolo, per i suoi fedeli, per chi ritorna a lui con fiducia. Sì, la sua salvezza è vicina a chi lo teme, perché la sua gloria abiti la nostra terra. Amore e verità s'incontreranno, giustizia e pace si baceranno. Verità germoglierà dalla terra e giustizia si affaccerà dal cielo. Certo, il Signore donerà il suo bene e la nostra terra darà il suo frutto; giustizia camminerà davanti a lui: i suoi passi tracceranno il cammino. «Non gode dell’ingiustizia», perché, anelando unicamente all’amore verso tutti, non si compiace in alcun modo della rovina degli avversari. «Ma si compiace della verità», perché, amando gli altri come se stessa, e vedendo in essi la rettitudine, si rallegra come di un profitto e progresso proprio. 1 Complessa e polivalente dunque è questa legge di Dio. Dal «Commento al libro di Giobbe» di san Gregorio Magno. La parola “iniquità” è la parola Greca “adikia”. Il suo significato è: “quello che non è proprio conforme, ciò che non dovrebbe essere; quello che non deve essere a causa della verità rivelata; quindi sbagliato, ingiusto.” Ogni cosa che è contro la verità è ingiustizia. E dal momento che in Giovanni 17,17 noi sappiamo che la verità è la Parola di Dio, tutto ciò che è contro la Parola, è “adikia”, ingiusto. Quindi secondo questo passaggio, l'amore gioisce con la verità, la Parola di Dio, e non con ciò che è contro di essa, che è ingiustizia. La giustizia si può definire come la virtù morale che consiste nella disposizione abituale di dare a Dio e al prossimo ciò che è loro dovuto. Ne abbiamo un esempio chiaro in Lv 19,15: "Non tratterai con parzialità il povero, né userai preferenze verso il potente". Nel NT Cristo ne offre una formulazione concisa e completa al tempo stesso: "Rendete dunque a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio" (Mt 22,21). Ciò significa che la guarigione completa di tutti i rapporti, di cui un uomo è il soggetto, consiste nel non essere in difetto verso Dio e verso gli uomini. Questa armonia riconquistata in tutte le relazioni prende il nome appunto di "giustizia". Il primo e più importante ambito in cui si muove la virtù della giustizia è rappresentato dai doveri verso Dio. Occorre interrogare la Scrittura per sapere quali sono. Precisiamo subito che la parola "doveri" non va intesa, in questo contesto, nel suo significato giuridico: vale a dire che i doveri verso Dio, come quelli verso il prossimo, in quanto ispirati dalla virtù, non sono equiparabili ai "doveri" che invece risultano da una obbligazione derivante dalla legge. E' vero che la pietà si può imporre per legge, come si impone per legge la fedeltà ai coniugi, ma non è virtù quel gesto intrinsecamente buono che si compie solo per conformarsi a un dettame esteriore. E' fin troppo chiaro che qualunque coniuge si sentirebbe umiliato se sapesse che il suo partner gli conserva fedeltà solo perché così stabilisce la legge. La virtù è invece una forza che spinge la persona dall'interno sotto la luce della verità e non sotto quella di un qualche codice. Fatta questa premessa, possiamo interrogare la Bibbia sulla giustizia. Il punto di partenza non può che essere la domanda cruciale che uno scriba pone a Cristo: "Qual è il primo di tutti i comandamenti?" (Mc 12,28). Con l'espressione "primo dei comandamenti" lo scriba ha inteso alludere ai doveri fondamentali richiesti da Dio verso se stesso. Ed è proprio in questa stessa linea che Cristo risponde: "Il primo è: Ascolta Israele. Il Signore Dio nostro è l'unico Signore; amerai dunque il Signore Dio tuo con tutto il cuore" (v. 29). Subito dopo, superando i confini della domanda dello scriba, il Maestro aggiunge spontaneamente un'altra verità non richiesta: il secondo comandamento, che è simile al primo. I doveri fondamentali verso Dio sono sintetizzati da Cristo con tre concetti presi dal Deuteronomio: l'ascolto, la professione del 2 monoteismo, un amore verso Dio superiore all'amore che si ha verso se stessi. Il rapporto con Dio, e tutti i "doveri" inerenti a questo rapporto, ha inizio con la disposizione dell'ascolto. Diciamo pure che questo è il culto che Dio gradisce più di ogni altro gesto. In questo senso possiamo comprendere il testo di Qoelet: "Bada ai tuoi passi quando ti rechi alla casa di Dio. Avvicinarsi per ascoltare vale più del sacrificio offerto dagli stolti che non comprendono neppure di far male" (4,17). Dio insomma è glorificato dall'uomo che prende sul serio la sua Parola. L'ascolto della Parola di Dio è ripetutamente comandato in tutte le parti della Scrittura. Aggiungo che all'ascolto di Dio va unita inscindibilmente la memoria. La Parola di Dio e le sue opere vanno conosciute e conservate nella memoria, tanto che la loro dimenticanza è equiparabile a un peccato di omissione: "Ma guardati e guardati bene dalle cose che i tuoi occhi hanno viste… Le insegnerai anche ai tuoi figli e ai figli dei tuoi figli" (Dt 4,9). Con l'espressione "le cose che i tuoi occhi hanno viste" non si può intendere altro che il contenuto stesso della Bibbia, cioè la storia della salvezza nel suo insieme, ignorare la quale, o dimenticarla, è già un grave peccato davanti a Dio, come si vede dalla esortazione duplice: "guardati e guardati bene". Alla luce di questo si comprende fino a che punto ingannino se stessi coloro che cercano la salvezza nella partecipazione fisica alle iniziative della Chiesa, senza curarsi del proposito del salmista: "Ascolterò che cosa dice Dio" (Sal 85,9) né dell'avvertimento del Qoelet: "Bada ai tuoi passi quando ti rechi alla casa di Dio. Avvicinarsi per ascoltare vale più del sacrificio offerto dagli stolti che non comprendono neppure di far male" (4,17). Il secondo nucleo in cui Gesù sintetizza i "doveri" verso Dio è costituito dalla professione radicale del monoteismo. Al monoteismo si oppone l'idolatria, questo è chiaro, ossia l'adorazione di ciò che non è Dio. Le idolatrie manifeste sono facilmente identificabili, dal momento che sono strettamente connesse alle cose corporee. La forma più esteriore e più grossolana di idolatria è un rapporto disordinato con il corpo umano. L'Apostolo Paolo ne fa menzione in più punti delle sue lettere. Questo genere di idolatria consiste nel separare la persona dal suo corpo e trattare il corpo come uno strumento o un oggetto di cui fruire. Agli Efesini Paolo dice: "Vi scongiuro nel Signore: non comportatevi più come i pagani nella vanità della loro mente… Diventati così insensibili si sono abbandonati alla dissolutezza, commettendo ogni sorta di impurità" (4,17). E ai Tessalonicesi: "Ciascuno sappia mantenere il proprio corpo con santità e rispetto, non come oggetto di passioni e libidine come i pagani che non conoscono Dio" (1 Ts 4,4-5). Il messaggio è chiaro i cristiani differiscono dai pagani in questo punto essenziale: non trattano più il corpo umano come se fosse un giocattolo. I cristiani trattano anche la materialità del corpo umano come se fosse un "soggetto" e non un oggetto. La motivazione di questa trasformazione etica del mondo non è tanto da ricercarsi nel concetto di dignità della persona, non ignoto alla cultura greca, ma in un altro concetto, assolutamente originale, 3 che non si trova neppure nell'AT. Paolo lo esprime con queste parole: "Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio e che non appartenete più a voi stessi?" (1 Cor 6,19). La ragione profonda che spinge i cristiani a trattare il proprio corpo come un soggetto sta nella presenza personale dello Spirito Santo in ciascun battezzato. Da quel momento in poi il battezzato è un "Tempio" dove dimora lo Spirito di Dio. Quindi non è più possibile fruirne a proprio piacimento senza contristare lo Spirito di Dio inabitante. Grazie alla presenza dello Spirito anche la materialità del corpo umano ha conquistato, per così dire, una certa "soggettività" e non deve più essere degradato alla dimensione degli oggetti. Questo enunciato paolino che stiamo esaminando offre però una seconda motivazione integrativa: "Non appartenete a voi stessi" (1 Cor 6,19). La presenza dello Spirito di Dio nel nostro corpo è il sigillo di una appartenenza irrevocabile a Dio, dal momento che siamo stati "comprati" da Lui a caro prezzo (cfr. v. 20), cioè a prezzo del Sangue del Figlio. Non possiamo più disporre di noi stessi perché, a partire dal battesimo, abbiamo cessato di appartenere a noi stessi. Inoltre, la presenza dello Spirito ci costituisce Corpo di Cristo, perciò i nostri corpi sono il Corpo di Cristo: "Non sapete che i vostri corpo sono membra di Cristo?" (1 Cor 6,15). Ciò significa che non si può strumentalizzare il corpo di un cristiano (sia proprio, sia altrui), senza, per ciò stesso, strumentalizzare il Corpo di Cristo. A questo si deve aggiungere che il corpo umano è destinato alla risurrezione, ed è questo un ulteriore argomento a favore della sua "soggettività": "Il corpo non è per l'impudicizia ma per il Signore, e il Signore è per il corpo. Dio, poi, che ha risuscitato il Signore, risusciterà anche noi con la sua potenza" (1 Cor 6,13-14). Passando però dall'esterno all'interno della persona, ci si imbatte in idolatrie ben più sottili e nascoste. Vi sono idolatrie che colpiscono l'intelletto e idolatrie che colpiscono l'affettività. La Bibbia ci mette in guardia da entrambe. L'idolatria dell'intelletto consiste nel ritenersi intelligenti davanti a se stessi (cfr. Is 5,21) e capaci giudicare tutto e di afferrare tutto, senza tenere conto della Parola. Le idolatrie dell'affettività sono ancora meno visibili perché meglio camuffate delle altre. La Bibbia ci aiuterà a discernere anche questi fenomeni. In generale si potrebbe dire che questi aspetti dell'idolatria, ben camuffati perché fanno leva su realtà legittime, si verificano quando la persona, per osservare le aspettative di amici e parenti, o di qualunque altra autorità terrestre, non risponde alle aspettative di Dio. Si tratta di idolatria, perché ciò che si preferisce alla volontà di Dio è sempre una pseudodivinità. Il culto più puro che Dio si attende dall'uomo è l'obbedienza alla sua Parola e, di conseguenza, ogni ubbidienza data a qualcos'altro non è che un culto deviato, una parodia della virtù della pietà. Infine, il terzo nucleo in cui Cristo ha sintetizzato i nostri "doveri" verso Dio, è costituito da una consegna totale della nostra vita nelle sue Mani (cfr. Mt 22,37), un insegnamento che si esprime con le parole "Amerai il 4 Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutta la mente". E' ovvio che, nel linguaggio biblico, il cuore, l'anima e la mente non sono tre cose diverse da ciò che è l'uomo nella sua storicità, né sono tre elementi distinti del composto umano; piuttosto, sono tre aspetti sotto cui deve realizzarsi la totale sottomissione della persona umana a Dio: il cuore rappresenta la coscienza, ossia la dimensione della interiorità in cui la persona prende le sue decisioni nei confronti della verità; l'anima rappresenta le energie vitali, le forze che la persona canalizza verso la realizzazione di sé; la mente è la sede del pensiero, il cui nutrimento è la conoscenza. La sottomissione a Dio deve avere, nell'uomo, questi tre volti. Sarà opportuno considerarli separatamente. Il "cuore" del linguaggio biblico non è dunque la sede dei sentimenti, ma è la sede delle decisioni importanti della vita, quelle decisioni che hanno la loro radice nel discernimento del bene e del male e che si traducono nella posizione che la persona sente di dovere prendere dinanzi ai valori morali. Dopo questa premessa, si può comprendere facilmente che "amare Dio con tutto il cuore" significa COMPIERE UNA SCELTA DI COSCIENZA CHE ORIENTI LA PROPRIA PERSONA E LA PROPRIA VITA INTERAMENTE VERSO IL PRIMATO DELLA VOLONTÀ DI DIO. Amare Dio infatti non è una esperienza sensibile o sentimentale, ma è una scelta di coscienza. Dio vuole che la nostra coscienza sia abitata da Lui e dalla sua Luce. Amare Dio con tutta l'anima. E' la seconda determinazione. Chiariamo subito che, in questo contesto, la parola "anima" non indica il principio spirituale che si oppone a "corpo". E amare Dio con l'anima non significa amarlo "con lo spirito", visto che non è possibile amarlo "con il corpo". La parola anima, nel linguaggio biblico (nefesh, in ebraico), indica qualcosa di più che non semplicemente il principio vitale che si oppone al corpo. Nella Bibbia, la parola "anima" è sinonimo di "energia vitale", che include il concetto di persona nella sua globalità, senza eccettuare il corpo. Per dirla in breve, con la parola "anima" nei testi biblici dobbiamo intendere non soltanto il soffio vitale, ma soprattutto la totalità della persona, in tutte le sue energie vitali, fisiche e psichiche. Direi quindi che il senso della esigenza di amare Dio con tutta l'anima, consiste nel NON GIUDICARE LA PROPRIA VITA PIÙ PREZIOSA O PIÙ IMPORTANTE DEL REGNO DI DIO, ED ESSERE QUINDI DISPOSTI A MORIRE IN UN ATTO DI OFFERTA DI SE STESSI COME IMMOLATI AGLI INTERESSI DEL REGNO CHE VIENE. L'apostolo Paolo ha amato Dio con tutta l'anima, quando ha consegnato la propria vita alle esigenze dure dell'annuncio del Vangelo e ha portato questo amore alla sua ultima perfezione quando è stato martirizzato. Amare Dio con tutta la mente. E' la terza determinazione. La parola "mente" nel linguaggio biblico non si riferisce a cose diverse da quelle che intendiamo noi usando la medesima parola. La "mente" è la sede del pensiero, 5 il luogo del rapporto dell'uomo con la conoscenza e con la verità. "Amare Dio con tutta la mente" significa RICONOSCERE CHE L'OGGETTO DELLA CONOSCENZA CAPACE DI APPAGARE INTERAMENTE IL NOSTRO BISOGNO DI VERITÀ È DIO STESSO. Amare Dio con la mente vuol dire innanzitutto riconoscere i limiti oggettivi che Dio ha posto al nostro sapere e non pretendere di valicarli empiamente, uguagliando la nostra intelligenza a una divinità. La nostra intelligenza, per quanto ammirevole, è anch'essa una creatura e non un dio. I confini della giustizia sono determinati dalla misura dell'amore verso se stessi, mentre i traguardi della santità non hanno misura, perché modellati sull'infinito amore del Figlio di Dio che ha dato Se Stesso per noi. Solo il Vangelo di Luca aggiunge all'insegnamento tratto dal Levitico la parabola del buon samaritano, con l'intenzione di spiegare il concetto di "prossimo", che nelle parole del Maestro non è rappresentato da colui che mi è vicino, ma da colui al quale io mi faccio vicino. In sostanza, gli altri non "sono" mio prossimo, ma lo "divengono" se io li rendo tali, avvicinandomi alle loro sofferenze. Qui dobbiamo però precisare soltanto i confini della giustizia verso il prossimo. Il punto di riferimento offerto dalla Bibbia è, come abbiamo già detto, l'amore verso se stessi. Non è solo il Levitico ad esprimersi in questi termini. Possiamo ricordare altre formulazioni dello stesso precetto: "Non fare a nessuno ciò che non piace a te" (Tb 4,15). Nel NT è pure ripreso ma con una variazione che lo riesprime in positivo: "Ciò che volete gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro" (Lc 6,31). Il senso sostanziale non cambia: il livello minimo della giustizia verso gli altri, al di sotto del quale c'è l'ingiustizia, consiste nel DESIDERARE PER GLI ALTRI IL MEDESIMO BENE CHE SI DESIDERA PER SE STESSI. L'amore perciò non accumula beni per sé a danno dell'altro; al contrario è disposto a dare i propri beni per corrispondere al bisogno dell'altro, anche quando questo gli risulta tutt'altro che spontaneo. Come tale, l'amore non gode dell'ingiustizia, non si rallegra della disparità tra il proprio benessere e il malessere altrui. Il contrasto con questo atteggiamento dell'amore è chiaramente scolpito nella parabola del ricco cattivo e del povero Lazzaro. C’era un uomo ricco, che vestiva di porpora e di bisso e tutti i giorni banchettava lautamente. Un mendicante, di nome Lazzaro, giaceva alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi di quello che cadeva dalla mensa del ricco. Perfino i cani venivano a leccare le sue piaghe. Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli nel seno di Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando nell'inferno tra i tormenti, levò gli occhi e vide di lontano Abramo e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell'acqua la punta del dito e bagnarmi la lingua, perché questa fiamma mi tortura. Ma Abramo rispose. Figlio, ricordati che hai ricevuto i tuoi beni durante la vita e Lazzaro parimenti i suoi mali; ora invece lui è consolato e tu sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stabilito un 6 grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi non possono, né di costì si può attraversare fino a noi. E quegli replicò: Allora, padre, ti prego di mandarlo a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca, perché non vengano anch'essi in questo luogo di tormento. Ma Abramo rispose: Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro. E lui: No, padre Abramo, ma se qualcuno dai morti andrà da loro, si ravvederanno. Abramo rispose: Se non ascoltano Mosè e i Profeti, neanche se uno risuscitasse dai morti saranno persuasi (Lc 16,19-31 ). Lo stile di vita dell'uomo ricco abbonda di benessere: il suo corpo è elegantemente vestito, il suo palato raffinatamente soddisfatto. La soddisfazione per la sua condizione di vita lo apparenta all'agricoltore facoltoso di un'altra parabola, che per via dei magazzini stracolmi diceva a se stesso: «Riposati, mangia, bevi e datti alla gioia» (Lc 12,19). Per la verità quel ricco sembra non abbia potuto soddisfare il suo proposito, restando con l'acquolina in bocca per via della morte che, nottetempo, lo raggiunse improvvisamente. Il ricco della parabola sopra riportata, invece, da tempo gode dei piaceri degli occhi e della gola. Non è insolito per lui il piacere della tavola: si fa notare, infatti, che egli banchettava lautamente non occasionalmente, ma «tutti i giorni». La parabola, finemente, non attribuisce all'uomo ricco la colpa per la condizione del povero Lazzaro e nemmeno esclude che quest'ultimo abbia qualche responsabilità nel trovarsi così malridotto. L'amore per l'altro non è dovuto sulla base della propria diretta responsabilità per la sua povertà e nemmeno sulla base dell'innocenza dell'altro. L'amore è dovuto semplicemente perché l'altro, senza aiuto, rischia la vita. L'amore cristiano non è un generico sentimento e nemmeno un'intensa commozione o compassione solo esteriore. L'amore cristiano, come ebbe a precisare Gesù e come lui visse «sino alla fine» (Gv 13,1), è il dono della propria vita per la vita degli altri: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13). Questa concezione dell'amore spinge anche a rivedere il concetto di giustizia. Giusto non è chi si limita a non sottrarre i beni agli altri, accontentandosi di osservare la lettera del comandamento: «non rubare». Giusto è chi pratica la legge dell'amore, per la quale anche l'omissione di soccorso è trasgressione. L'amore cristiano dunque, non solo non commette l'ingiustizia, ma nemmeno si compiace della propria giustizia, del non essere, cioè, responsabile del male altrui. Non gode dell'ingiustizia, nemmeno quando essa non dipende direttamente da lui. Nondimeno, il suo atteggiamento non è di complicità con l'ingiustizia, nemmeno a livello di sentimento interiore. Una concezione della giustizia che fa della vita dell'altro il criterio di riferimento del proprio comportamento, non accontentandosi di non fare nulla direttamente contro di lui, nemmeno assume come alibi per sentirsi «a posto» il fatto di concedere all'altro il proprio superfluo. Si dice che Lazzaro giaceva alla 7 porta «bramoso di sfamarsi di quello che cadeva dalla mensa del ricco». Non ci sono difficoltà particolari nell’ immaginare che Lazzaro ottenne i rifiuti della mensa del ricco e, forse anche, qualche avanzo. Ancora oggi, su scala mondiale, i poveri ricevono dai ricchi ciò che i ricchi possono regalare senza che il loro livello di benessere subisca alcuna diminuzione. Ciò che avviene su scala mondiale o personale in riferimento al cibo e agli altri beni di consumo capita anche nelle relazioni amorose in riferimento al bene dell'attenzione all'altro. Non è, infatti, così raro che l'uno sia tanto compiaciuto di se stesso da usare per l'altro solo briciole di attenzione. Sono talvolta briciole nemmeno intenzionalmente offerte, ma occasionalmente concesse all'altro che per ottenerle ha magari dovuto persino umiliarsi. La ricerca del proprio godimento può giungere sino all'indifferenza di fronte all'ardente desiderio d'amore dell'altro. Ci si compiace, anzi, dello scarto tra la propria autosufficienza, che non ha bisogno di nulla perché ha tutto in sovrabbondanza, e la necessità dell'altro, che è privo di tutto e non può contare su nulla. Il confronto con l'indigenza dell'altro può indurre a stringersi nelle vesti morbide della propria indifferenza, godendo della propria sufficienza. L'indifferenza per la condizione dell'altro può però crescere ancora e arrivare all'impassibilità non solo di fronte all'umiliarsi dell'altro, ma anche all'umiliazione che gli viene inferta. L'indifferenza dell'uomo ricco non è scalfita nemmeno dal fatto che il povero Lazzaro, coperto di piaghe, riceve solo l'attenzione dei cani, attenzione che umilia l'uomo sino al livello subumano degli animali. Lo scarto tra lo standard di benessere del ricco e di malessere del povero, scivolato al di sotto del livello di sopravvivenza umana, appare abissale. L'omissione dell'amore per l'altro può anche gonfiare la vita di benessere, ma intanto, nascostamente, scava un abisso di vuoto da cui, prima o poi, saliranno i tormenti infernali della solitudine. La parabola rappresenta l'esito inquietante di chi omette l'amore, godendo dell'ingiusta indigenza di chi ne abbisogna, collocando il ricco, dopo la morte, fra i tormenti dell'inferno, diviso da un «grande abisso» dal povero Lazzaro, cullato di consolazione nel seno di Abramo. La fine del benessere personale scopre la vergogna dell'assenza di amore: allora si comprende che una sola goccia di attenzione amorosa vale più di tutto il proprio benessere. L'irreversibilità della separazione tra il ricco e il povero dichiarata da Abramo - «Tra voi e noi è stabilito un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi non possono, né di costì si può attraversare fino a noi» - lascia intendere che la perdurante indifferenza amorosa può giungere a un punto di non ritorno. Nessun richiamo, nessun miracolo a quel punto potrebbero sciogliere la durezza di cuore di chi non ha avuto occhi che per il proprio benessere. L'amore per l'altro è questione tanto seria da incidere irrimediabilmente sul destino della propria vita. L'amore che non gode (chatrei) del compromesso con l'ingiustizia, fosse anche solo di compiacenza interiore, si compiace (synchairei) della verità. Un amore ingiusto sarebbe falso, nemmeno potrebbe essere chiamato amore. L'amore, se è veramente tale, gode quando giustizia è fatta, ovvero 8 quando l'altro abbonda di vita. Proviamo a fare ‘verità’ sulla relazione d’amore. La vita di coppia, considerata sul piano della relazione reciproca di due persone, viene descritta dalla Bibbia in modo da offrire a ogni coppia credente le tracce di uno stile di vita quotidiana conforme alle aspettative di Dio. La prima cosa che balza subito agli occhi è il fatto che una relazione d'amore, costruita secondo Dio, deve essere priva dei rapporti di forza. Il racconto della creazione contiene già questo elemento di pacificazione reciproca che deve caratterizzare la coppia che vive il suo amore nella luce di Dio: "Non è bene che l'uomo sia solo, gli voglio fare un aiuto che gli sia simile… Il Signore Dio plasmò una donna e la condusse all'uomo" (2,18.22). Questi brevi enunciati raggiungono una notevole profondità antropologica e teologica al tempo stesso: la coppia pensata da Dio è una coppia che nasce innanzitutto sulla base della similitudine. La prima esperienza di pace nel rapporto tra due persone consiste nell'avere lo stesso cuore. E' difficile che un uomo e una donna possano costruire insieme un amore veramente felice se sono uniti da una similitudine soltanto superficiale (il piacersi fisicamente o caratterialmente, l'avere gli stessi gusti…) e sono invece diversi nella maniera di interpretare la vita e negli obiettivi fondamentali da perseguire. L'amore donato da Dio alla coppia delle origini può fondarsi solo sulla similitudine della coscienza, quando cioè l'uomo e la donna credono negli stessi valori, condividono le stesse aspirazioni, interpretano la vita nella medesima chiave. Il secondo enunciato (v. 22) si muove invece sul registro dello stile di vita: Adamo non si appropria di sua moglie, è Dio che gliela offre come un dono. La coppia che vive nella luce di Dio non perde mai di vista il fatto che, pur nella reciproca e totale appartenenza, nessuno dei due è "padrone" dell'altro. Piuttosto, l'altro si accoglie con il rispetto e la delicatezza con cui si accoglie un dono prezioso fatto da Dio. L'incontro di Tobia e di Sara veicola infatti proprio questo insegnamento; Tobia prende Sara non come una moglie autonomamente scelta, ma come la donna che Dio ha giudicato adatta per lui: "Dal cielo è stato stabilito che ti sia data" (Tb 7,12). Di fatto, sempre nel libro della Genesi, i rapporti di forza entrano nella vita di coppia solo dopo il peccato originale e perciò non esprimono la volontà di Dio, ma solo la conseguenza di un disordine voluto dall'uomo e progettato dal diavolo: "Alla donna Dio disse: verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà" (Gen 3,16). Questo "egli ti dominerà" segna l'ingresso dei rapporti di forza che hanno snaturato l'amore umano, deformandolo nel suo significato sacramentale, ossia nella sua capacità di rendere visibile l'amore di Dio. Cristo, nella sua risposta ai farisei che lo interrogavano sul divorzio, fa riferimento a una condizione in cui la coppia umana non è più quello 9 che Dio aveva stabilito al principio della creazione (cfr. Mt 19,8). Nelle parole di Cristo si comprende che l'amore umano ha perduto lo splendore che aveva all'origine, perché il peccato ha ferito gli equilibri della persona e il cuore si è ammalato di indurimento. Alla luce di questo presupposto, il Maestro afferma che il fallimento dell'amore umano non è dovuto a una qualche forma di incompatibilità tra l'uomo e la donna, ma è da attribuirsi a una causa più profonda, ossia lo stato di malattia del cuore oscurato dal peccato. Sarà necessaria la redenzione perché la coppia umana possa avvicinarsi allo splendore delle origini, recuperando l'intimità con Dio, perduta con la cacciata dall'Eden. Lo stile delle relazioni tra marito e moglie viene ripreso dall'Apostolo Paolo nella lettera agli Efesini, con una amplificazione del discorso nella prospettiva sacramentale. Paolo presenta in termini nuovi quello che può sembrare non solo un discorso vecchio, ma anche un discorso che dovrebbe essere superato nella nuova economia del NT. L'Apostolo "sembra" infatti suggerire la sottomissione della donna all'uomo. Ci sembra opportuno chiarire qui cosa egli abbia inteso dire. Il suo enunciato suona intanto così: "Le mogli siano sottomesse ai loro mariti come al Signore; il marito infatti è capo della moglie come Cristo è capo della Chiesa" (Ef 22). Il concetto di "sottomissione" ha bisogno di essere contestualizzato, per non correre il rischio di cadere in un madornale fraintendimento. Sarebbe un errore tentare di capire il senso delle parole dell'Apostolo senza tenere conto di ciò che egli subito dopo aggiunge: "E voi, mariti, amate le vostre mogli come Cristo ha amato la Chiesa" (v. 25). Ora, noi sappiamo che Cristo ha amato la Chiesa lavando i piedi ai suoi discepoli e rappresentando così il senso profondo dell'offerta della propria vita per la nostra salvezza. Se dunque la moglie deve essere sottomessa al marito come a Cristo, il marito, a sua volta, deve mantenere verso di lei lo stesso atteggiamento di Cristo, chino in un instancabile servizio. Sotto questa chiave scopriamo allora che la "sottomissione" è un atteggiamento altissimo e nobile, se è ispirato dall'amore e dall'imitazione di Cristo. L'amore totalmente dedito al bene degli altri al punto da dimenticare sé non è un prodotto della terra degli uomini, non appartiene alle loro proprietà. Si potrebbe anzi dire che appartiene a un altro mondo, desiderabile fin che si vuole, ma distante e irraggiungibile quanto il cielo sovrasta la terra. L'amore vero appartiene a un regno che non è di questo mondo; appartiene, infatti, al «regno dei cieli». Tale è l'espressione con cui Gesù indica l'amore autentico annunciato agli uomini. Come tale amore, limpido e luminoso come un cielo terso e soleggiato, possa essere scoperto sulla terra è raccontato nelle parabole gemelle del tesoro e della perla. Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto in un campo; un uomo lo trova e lo nasconde di nuovo, poi va pieno di gioia, e vende tutti i suoi averi e compra quel campo. Il regno dei cieli è simile a un mercante che va in cerca di perle preziose: trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra (Mt 10 13,44-46). Protagonista di entrambe le parabole è il regno dei cieli, nominato all'inizio della narrazione. II regno dei cieli non è da pensare secondo i canoni di questo mondo, che subito rinviano a un territorio e a un potere politico. Il regno dei cieli si presenta sulla terra nella persona di Gesù. La testimonianza dell'evangelo di Marco lo mette in chiara luce. Le prime parole pronunciate da Gesù non appena compare sulla scena del Vangelo sono: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino» (Mc 1,15). Il regno di Dio, ovvero la comunione amorosa che stringe in uno il Padre, il Figlio, e lo Spirito Santo, «sbuca» sulla terra degli uomini attraverso Gesù, il Figlio fatto uomo. Se l'amore divino prende forma umana, allora esso si può incontrare. La possibilità e la modalità di incontrare l'amore divino sono narrate nel prosieguo delle parabole. Gli attori in scena sono un povero bracciante e un ricco mercante. Il fatto che entrambi siano assunti per narrare dell'incontro degli uomini con il regno dei cieli significa che esso è offerto a tutti, indipendentemente dalla loro condizione sociale e professionale. La scoperta del regno, che pur non è vincolata a una speciale situazione di vita, tiene conto della situazione in cui gli uomini concretamente si trovano. È così che il bracciante trova il tesoro nel campo dove lavora, e il mercante trova la perla di grande valore aggirandosi tra i mercati. Il prezioso tesoro del regno dei cieli è collocato sulla terra degli uomini. Non appare immediatamente, eppure non è introvabile. Già in altre occasioni Gesù aveva paragonato il regno a un «granellino di senapa. [...] il più piccolo di tutti i semi» (Mt 13,31-32), insegnando che la sua visibilità non acceca la vista, ma richiede, al contrario, uno sguardo attento e penetrante. Il tesoro e la perla preziosa, benché collocati in modo da poter essere trovati, sono nascosti, rispettivamente, sotto terra o nella confusione delle altre perle. Per essere scoperti, tesoro e perla richiedono l'attività del bracciante e del mercante. Di quest'ultimo, si dice esplicitamente che «va in cerca di perle preziose»: la sua attività è già mirata a una scoperta speciale. Del bracciante si dice semplicemente che «trova» il tesoro, ma non si esclude certo che esso sia venuto alla luce del sole per via della fatica di chi scavava il terreno. La necessaria attività degli uomini per scoprire il regno dei cieli, per trovare cioè l'amore divino vissuto da Cristo, è scandita in entrambe le parabole da tre verbi: trovare, vendere, comperare. Il primo verbo si riferisce alla scoperta straordinaria del tesoro e della perla preziosa. La straordinarietà della scoperta risuona nell'intimo della persona: è messa in evidenza dalla gioia di cui si riempie il cuore del bracciante allorquando il suo piccone cozza contro il tesoro sotterrato. La straordinarietà della scoperta è pure sottolineata dal secondo verbo vendere - che descrive l'alienazione di quanto i due attori della parabola già posseggono. Il verbo, reso dall'italiano vendere, traduce nel medesimo modo verbi diversi usati nei due racconti. Il verbo del primo racconto (póléó) può riferirsi ad un affare più modesto di quello indicato dal verbo del secondo racconto (pipraskó). Questo particolare esegetico, collocato nella dinamica della narrazione 11 delle parabole, propone un crescendo che invita il lettore a ben considerare il grande valore della scoperta: la seconda parabola non solo ribadisce la straordinarietà di ciò che è stato trovato, ma ne enfatizza la preziosità. Il terzo e ultimo verbo, che scandisce l'attenzione mediante la quale gli uomini acconsentono e corrispondono all'amore rivelato da Cristo - il verbo comperare -, insiste ancora sul valore straordinario dell'amore cristiano, tanto prezioso da giustificare l'investimento di tutti i propri averi. Nell'articolata attività umana attratta dall'amore divino, il vertice è rappresentato dalla disposizione a giocare il tutto per tutto, pur di entrare nel regno dell'amore di Cristo. Lo si intuisce da entrambe le parabole, che hanno il loro punto decisivo non tanto nella scoperta del tesoro e della perla, quanto nella decisione di tutto disporre per acquisirli. Che questo atteggiamento di disposizione totale delle proprie risorse e finanche di se stessi, in vista dell'acquisizione dell'amore divino, non sia solo una bella favola, ma un'esigenza prospettata da Gesù ai discepoli e un'esperienza di questi ultimi, è comprovato dai molteplici racconti di vocazione riportati dai Vangeli. Compreso mediante le parabole del regno dei cieli, il compiacersi della verità, tratto caratteristico dell'amore autenticamente cristiano, non descrive un puro sentimento interiore, ma accentua la decisione che si traduce in effettiva azione: il piacere dell'amore è godimento autentico quando scaturisce come frutto di una reale disposizione ad abbracciare l'altro con tutta la propria esistenza. E difficile diventare autentici, è necessaria l'intera vita e uno sguardo di misericordia. Diventare autentici significa guardare le cose in profondità, con spirito critico e oggettivo, senza mai scivolare nel fanatismo della coerenza (Gesù è morto per amore, non in nome della coerenza!), consapevoli che un rapporto giusto è fondamentale per esprimere l'amore. Ti amo con tutta la verità di cui sono capace, non sono meglio di ciò che io sono veramente. Prendimi così, col mio amore sincero e piccolino. Ecco ciò che pensa Paolo dell'amore. Poco sentimento, come vedete, e molto realismo, quasi crudo, essenziale. Non spaventatevi, però: Paolo ci indica la vetta, a noi spetta iniziare la salita in mezzo al bosco. Non è un approccio moralistico quello di Paolo e del cristianesimo (che alcuni si sforzino di farlo diventare tale è un altro paio di maniche...), ma autentico e liberante: la grazia ti rende capace di diventare così; tu, discepolo del Maestro, sei reso capace di amare come Lui ci ha amati, con pazienza, benevolenza, umiltà, rispetto, perdono e autenticità. Dopo tanti anni, rileggendo Paolo, non posso che sottoscrivere la sua audace riflessione sulla concretezza dell'amore. Nessuna ansia di perfezione, però. Conosco persone che ogni volta che leggono la Parola di Dio ne escono 12 depresse e si sentono inadatte. Forse, leggendo queste pagine, abbiamo provato un frustrante senso di inadeguatezza. E’ normale che il nostro amore sia snervato, invidioso, rancoroso, possessivo, egoista, un po' falso. E’ naturale che ci venga da manipolare l'altro, da guardare la realtà sempre dal lato a noi più conveniente. È spontaneo che la parte oscura di noi, l'uomo vecchio, faccia sentire la sua voce. E’ evangelico scegliere che non sia così. DAL MESSAGGIO DI QUARESIMA 2013 DI BENEDETTO XVI Tutta la vita cristiana è un rispondere all'amore di Dio. La prima risposta è appunto la fede come accoglienza piena di stupore e gratitudine di un’inaudita iniziativa divina che ci precede e ci sollecita. E il «sì» della fede segna l’inizio di una luminosa storia di amicizia con il Signore, che riempie e dà senso pieno a tutta la nostra esistenza. Dio però non si accontenta che noi accogliamo il suo amore gratuito. Egli non si limita ad amarci, ma vuole attiraci a Sé, trasformarci in modo così profondo da portarci a dire con san Paolo: non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me (cfr Gal 2,20). Quando noi lasciamo spazio all’amore di Dio, siamo resi simili a Lui, partecipi della sua stessa carità. Aprirci al suo amore significa lasciare che Egli viva in noi e ci porti ad amare con Lui, in Lui e come Lui; solo allora la nostra fede diventa veramente «operosa per mezzo della carità» (Gal 5,6) ed Egli prende dimora in noi (cfr 1 Gv 4,12). La fede è conoscere la verità e aderirvi (cfr 1 Tm 2,4); la carità è «camminare» nella verità (cfr Ef 4,15). Con la fede si entra nell'amicizia con il Signore; con la carità si vive e si coltiva questa amicizia (cfr Gv 15,14s). La fede ci fa accogliere il comandamento del Signore e Maestro; la carità ci dona la beatitudine di metterlo in pratica (cfr Gv 13,13-17). Nella fede siamo generati come figli di Dio (cfr Gv 1,12s); la carità ci fa perseverare concretamente nella figliolanza divina portando il frutto dello Spirito Santo (cfr Gal 5,22). La fede ci fa riconoscere i doni che il Dio buono e generoso ci affida; la carità li fa fruttificare (cfr Mt 25,14-30). La carità fondata sulla favorisce l’indissolubilità del matrimonio verità e sulla giustizia Carità, giustizia e verità – linee guida di chiunque sia chiamato ad amministrare la giustizia – favoriscono l’indissolubilità del matrimonio. Il Papa lo ha ricordato ai membri del Tribunale della Rota Romana nell’udienza di venerdì mattina, 29 gennaio, nella Sala Clementina, in occasione dell’inaugurazione dell’Anno giudiziario. Benedetto XVI ha voluto anche raccomandare alla Rota di rifuggire da richiami pseudopastorali per soddisfare richieste soggettive. L’azione, poi, di chi amministra la giustizia non può prescindere dalla carità. L’amore verso Dio e verso il prossimo deve informare ogni attività, anche quella apparentemente più tecnica e burocratica. Lo sguardo e la misura della carità aiuterà a non dimenticare che si è 13 sempre davanti a persone segnate da problemi e da sofferenze. Anche nell’ambito specifico del servizio di operatori della giustizia vale il principio secondo cui “la carità eccede la giustizia” (Enc. Caritas in veritate, n. 6). Di conseguenza, l’approccio alle persone, pur avendo una sua specifica modalità legata al processo, deve calarsi nel caso concreto per facilitare alle parti, mediante la delicatezza e la sollecitudine, il contatto con il competente tribunale. In pari tempo, è importante adoperarsi fattivamente ogni qualvolta si intraveda una speranza di buon esito, per indurre i coniugi a convalidare eventualmente il matrimonio e a ristabilire la convivenza coniugale (cfr. CIC, can. 1676). Non va, inoltre, tralasciato lo sforzo di instaurare tra le parti un clima di disponibilità umana e cristiana, fondata sulla ricerca della verità (cfr. Instr. Dignitas connubii, art. 65 2-3). Tuttavia occorre ribadire che ogni opera di autentica carità comprende il riferimento indispensabile alla giustizia, tanto più nel nostro caso. “L’amore – “caritas” – è una frza straordinaria, che spinge le persone a impegnarsi con coraggio e generosità nel campo della giustizia e della pace” (Enc. Caritas in veritate, n. 1). “Chi ama con carità gli altri è anzitutto giusto verso di loro. Non solo la giustizia non è estranea alla carità, non solo non è una via alternativa o parallela alla carità: la giustizia è “inseparabile dalla carità”, intrinseca ad essa” (Ibid., n. 6). La carità senza giustizia non è tale, ma soltanto una contraffazione, perché la stessa carità richiede quella oggettività tipica della giustizia, che non va confusa con disumana freddezza. Vorrei oggi sottolineare come sia la giustizia, sia la carità, postulino l’amore alla verità e comportino essenzialmente la ricerca del vero. In particolare, la carità rende il riferimento alla verità ancora più esigente. “Difendere la verità, proporla con umiltà e convinzione e testimoniarla nella vita sono pertanto forme esigenti e insostituibili di carità. Questa, infatti, “si compiace della verità” ( 1 Cor 13, 6)” (Enc. Caritas in veritate, n. 1). “Solo nella verità la carità risplende e può essere autenticamente vissuta (…). Senza verità la carità scivola nel sentimentalismo. L’amore diventa un guscio vuoto, da riempire arbitrariamente. È il fatale rischio dell’amore in una cultura senza verità. Esso è preda delle emozioni e delle opinioni contingenti dei soggetti, una parola abusata e distorta, fino a significare il contrario. 14 15