Diritto tributario italiano Il raddoppio del termine di accertamento
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Diritto tributario italiano Il raddoppio del termine di accertamento
Diritto tributario italiano Il raddoppio del termine di accertamento Nicola Daina Dottore in Giurisprudenza (Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano) Praticante avvocato Studio Legale Tributario Tesauro, Milano Le condizioni in virtù delle quali l’Amministrazione finanziaria può avvalersi di un più ampio termine di accertamento 1. Premessa La questione del “raddoppio” del termine di accertamento viene qui intesa come la questione legata alle condizioni che consentono all’Amministrazione finanziaria di avvalersi di tale più ampio termine, derogando quello ordinario. È indubbio che il “raddoppio” del termine può avvenire solo in presenza di un evento chiaro ed univoco che permetta al contribuente di sapere che il termine di accertamento potrebbe raddoppiarsi, qualora le sue condotte, configurando una violazione penale tributaria, facciano sorgere in capo all’Agenzia delle Entrate l’obbligo di denuncia previsto dall’articolo 331 del Codice di procedura penale (di seguito c.p.p.). 2. Il quadro normativo Il legislatore, con l’articolo 37, comma 24 del Decreto Legge (di seguito D.L.) n. 223/2006, convertito con la Legge (di seguito L.) n. 248/2006, ha integrato l’articolo 43 del Decreto del Presidente della Repubblica (di seguito D.P.R.) n. 600/1973, prevedendo che “in caso di violazione che comporta obbligo di denunzia ai sensi dell’art. 331 del codice di procedura penale per uno dei reati previsti dal D.Lgs 10 marzo 2000, n. 74, i termini di cui ai commi precedenti sono raddoppiati relativamente al periodo di imposta in cui è stata commessa la violazione”. Con il comma 25 è stato introdotto il “raddoppio” del termine anche ai fini dell’accertamento dell’IVA, modificando l’articolo 57 D.P.R. n. 633/1972. Orbene, l’Amministrazione finanziaria qualora, nel corso delle sue indagini, riscontri un (presunto) illecito penale, per il quale sussiste l’obbligo di denuncia ai sensi dell’articolo 331 c.p.p., può avvalersi di un più lungo termine decadenziale entro cui emettere l’avviso di accertamento. È bene precisare che tale facoltà si presenta solo nel caso in cui la condotta del contribuente configuri una delle ipotesi di reato previste dal Decreto Legislativo (di seguito D.Lgs.) n. 74/2000, ossia un reato tributario, con esclusione dei reati che non sono di matrice tributaria. Più in particolare, la ratio della disposizione normativa in esame è quella di dotare l’Amministrazione finanziaria di un maggior lasso di tempo per acquisire e valutare dati utili a contrastare illeciti tributari, permettendole anche di acquisire prove derivanti dal giudizio penale[1]. In tal senso si è pronunciata l’Agenzia delle Entrate, sostenendo che il raddoppio del termine trova ragione nell’esigenza di “garantire all’Amministrazione finanziaria, a fronte di fattispecie che sono di rilevanza penale, l’utilizzabilità degli elementi istruttori che emergano nel corso delle indagini condotte dall’autorità giudiziaria per un periodo di tempo più ampio rispetto a quello previsto a pena di decadenza per l’accertamento” [2]. In sintesi, grazie al “raddoppio” del termine, l’Amministrazione finanziaria, a fronte di fattispecie che sono di rilevanza penale, ha a disposizione un lasso di tempo “raddoppiato”, al fine di sviluppare la propria attività istruttoria, utilizzando anche gli elementi di prova provenienti dal procedimento penale. 3. L’obbligo di denuncia La norma in esame, come anticipato, subordina il “raddoppio” del termine decadenziale alla constatazione di una violazione dalla quale consegua l’obbligo di denuncia ai sensi dell’articolo 331 c.p.p. In altri termini, è necessario che l’Agenzia delle Entrate, nell’esercizio dei poteri ispettivi previsti dalla normativa 25 26 Novità fiscali / n.9 / settembre 2014 tributaria, ravvisi nel fatto accertato il fumus di (almeno) uno dei reati tributari previsti dal D.Lgs. n. 74/2000, individuandone con sicurezza gli elementi oggettivi e soggettivi da riportare nella denuncia. Ne consegue che vi deve essere coincidenza tra il fatto oggetto della denuncia e il fatto assunto a base dell’avviso di accertamento. Un primo aspetto controverso dell’istituto in esame è rappresentato dal momento in cui l’obbligo di denuncia deve sussistere affinché l’Agenzia delle Entrate possa, legittimamente, avvalersi del più ampio termine decadenziale. Il dubbio è se il “raddoppio” del termine possa applicarsi solo nel caso in cui la notizia di reato avvenga prima dello spirare del termine ordinario o anche quando tale notizia emerga successivamente al consumarsi di tale termine. A favore della prima tesi si è espressa la recente giurisprudenza di merito, secondo la quale il “raddoppio” del termine può essere applicato solo nel caso in cui, già durante l’ordinario periodo di accertamento, emergano e siano denunciati fatti che possono avere rilievo penale. Infatti, una diversa interpretazione, “esporrebbe i contribuenti alla possibilità di essere sottoposti ad accertamento anche a distanza di molti anni dalla scadenza del termine ordinario […]. Ciò farebbe venire meno la certezza delle situazioni giuridiche che con la fissazione dei termini di decadenza – oltre che di quelli di prescrizione – il legislatore ha voluto garantire” [3]. Giova rilevare che la soluzione dell’antecedenza del rilievo rispetto allo spirare del termine ordinario trova la sua giustificazione nel diritto alla certezza dei rapporti giuridici, che non può venire meno in virtù della disposizione contenuta nell’articolo 43, comma 3 D.P.R. n. 600/1973. Quindi, secondo tale tesi, il raddoppio dei termini può avvenire solo qualora, prima della scadenza del termine ordinario, i rilievi risultanti dalle verifiche fiscali configurino una violazione penale tributaria, facendo sorgere l’obbligo di denuncia previsto dall’articolo 331 c.p.p. Del resto, se così non fosse, all’Agenzia delle Entrate sarebbe concessa la possibilità di riattribuirsi – dopo che è maturata la decadenza – un potere ormai estinto, riaprendo, a sua discrezione, i periodi d’imposta non più accertabili, solo in virtù della mera affermazione di una presunta violazione penale. Diversamente, a favore della seconda tesi si è espressa la Corte Costituzionale, la quale, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità della norma in questione, ha statuito che “è del tutto irrilevante che l’obbligo di denuncia possa insorgere anche dopo il decorso del termine breve o possa non essere adempiuto entro tale termine”. Secondo la Corte non può parlarsi di riapertura o proroga di termini scaduti, né di reviviscenza di poteri di accertamento ormai esauriti, perché i termini ordinari e quelli raddoppiati si riferiscono a fattispecie ab origine diverse. Più precisamente, i termini ordinari operano in presenza di violazioni tributarie per le quali non sorge l’obbligo di denuncia di reati previsti dal D.Lgs. n. 74/2000; i termini raddoppiati, invece, operano in presenza di violazioni tributarie per le quali vi è l’obbligo di denuncia[4]. A favore di quest’ultima tesi, vi è anche l’interpretazione letterale della norma in questione, secondo cui non è prevista alcuna limitazione temporale entro cui deve verificarsi l’obbligo di denuncia. Il legislatore, infatti, ha previsto che il termine raddoppiato sia applicabile nel caso in cui vi sia una violazione che comporta l’obbligo di denuncia ex articolo 331 c.p.p., senza specificare che tale obbligo debba sorgere prima della scadenza del termine ordinario. Ci si chiede, inoltre, se per usufruire del “raddoppio” sia necessario che la denuncia venga effettivamente presentata oppure se basti una semplice valutazione fatta dall’Agenzia delle Entrate in merito alla verosimiglianza della fattispecie di reato, senza alcuna comunicazione all’autorità giudiziaria. Stando all’interpretazione letterale della norma l’unico requisito necessario affinché l’Agenzia delle Entrate possa avvalersi del “raddoppio” del termine è l’esistenza dell’obbligo di denuncia, a prescindere dall’inoltro della notizia di reato alla Procura della Repubblica. Per contro, applicando tale interpretazione alla realtà, sorgerebbero alcune problematiche: se, infatti, l’Agenzia, durante la verifica fiscale, si è avvalsa del “raddoppio” in virtù dell’esistenza dell’obbligo di denuncia gravante nei suoi confronti, allora, in conformità a tale obbligo, la stessa Agenzia delle Entrate dovrà inevitabilmente comunicare la notizia di reato all’autorità competente, pena la commissione del reato di omessa denuncia[5]. Con la conseguenza che, se l’Agenzia delle Entrate non inoltrasse la denuncia di reato, l’utilizzo del “raddoppio” del termine sembrerebbe alquanto pretestuoso, fatto al sol fine di fruire di un più ampio termine di accertamento. Sulla questione si è espressa la Corte Costituzionale, la quale, in merito alla tempestività della denuncia penale, ha precisato che “il Pubblico Ufficiale infatti non può liberamente valutare se e quando presentare la denuncia, ma deve inoltrarla prontamente, pena la commissione del reato previsto e punito dall’art. 361 c.p.” [6]. Addirittura, la giurisprudenza di merito ha statuito che “è il deposito della denunzia penale presso la competente Procura della Repubblica che fa scattare il raddoppio dei termini […]” [7]. Non è superfluo rilevare che il Parlamento, con la recente legge delega in materia fiscale, ha affidato al Governo il compito di definire, mediante appositi atti normativi, la portata applicativa della disciplina del raddoppio del termine, prevedendo che “il raddoppio si verifichi soltanto in presenza di effettivo invio della denuncia, ai sensi dell’articolo 331 del codice di procedura penale, effettuato entro un termine correlato allo scadere del termine ordinario di decadenza” [8]. Novità fiscali / n.9 / settembre 2014 Si può, quindi, affermare che quando l’avviso di accertamento viene notificato dopo la scadenza del termine “ordinario”, l’Agenzia delle Entrate deve inoltrare alle autorità giudiziarie la denuncia di reato, come prova dell’esistenza dell’obbligo di denuncia, da cui deriva, come detto, la facoltà di avvalersi del più ampio termine d’accertamento. 4. L’obbligo di denuncia nell’ambito del processo tributario Un altro aspetto dibattuto è rappresentato dall’onere di provare l’esistenza dell’obbligo di denuncia, nel caso in cui il contribuente decida di agire in giudizio. Il dubbio è se l’Agenzia delle Entrate, in un eventuale contenzioso, abbia anche l’onere di provare l’esistenza degli elementi da cui deriva la facoltà di avvalersi del termine “raddoppiato”. Sul punto si è espressa la Corte Costituzionale nella già menzionata sentenza, ove ha precisato che “l’onere di provare detti presupposti è a carico dell’amministrazione finanziaria, dovendo questa giustificare il più ampio potere accertativo […]” [9]. È quindi l’Agenzia delle Entrate che, avvalendosi della facoltà di esercitare l’azione accertativa oltre il termine ordinario di decadenza, ha l’onere di provare i presupposti di tale facoltà, indicando il fatto da cui è scaturito l’obbligo di denuncia previsto dall'articolo 331 del c.p.p. Preme precisare inoltre che, per scongiurare che il “raddoppio” sia affidato unicamente ad una discrezionale valutazione dell’Agenzia delle Entrate, è necessario che il giudice adito, se richiesto dal ricorrente, si pronunci in ordine all’esistenza o meno degli elementi oggettivi e soggettivi configuranti l’ipotesi di reato addebitata al contribuente. 5. Rapporto tra processo penale e “raddoppio” del termine Un'altra questione dibattuta è rappresentata dagli effetti di un’eventuale sentenza di proscioglimento emessa nel giudizio penale (scaturito dalla notizia di reato inoltrata dall’Agenzia), sull’avviso di accertamento notificato oltre il termine ordinario di decadenza. Innanzitutto, secondo l'interpretazione letterale della norma, affinché l’Agenzia possa avvalersi del “raddoppio” del termine, è necessario e sufficiente che sussista l’obbligo di denuncia ex articolo 331 c.p.p., a prescindere, quindi, dagli esiti dell'eventuale processo penale. È altresì vero che l'eventuale proscioglimento del contribuente in sede penale, non esclude che al momento della notifica dell’avviso di accertamento vi fosse in capo all'Agenzia l'obbligo di denuncia ex articolo 331 c.p.p. Se, infatti, la decisione nel giudizio penale presuppone che il giudice accerti, oltre ogni ragionevole dubbio, l’esistenza della fattispecie delittuosa, diversamente, l'obbligo di denuncia sorge in seguito ad una mera valutazione amministrativa circa l'esistenza del fumus di reato. A favore di questa tesi si è espressa la Corte costituzionale, affermando, in particolare, che “il raddoppio dei termini deriva dall'insorgenza dell'obbligo della denuncia penale, indipendentemente [...] da un accertamento penale definitivo circa la sussistenza del reato” [11]. Non solo, anche in virtù del principio del cosiddetto “doppio binario” [12] , che prevede una netta separazione tra il giudizio tributario e quello penale, la legittimità dell’avviso di accertamento non potrebbe essere compromessa solamente da una sentenza di proscioglimento emessa nel giudizio penale, nonostante quest’ultimo verta sui medesimi fatti dell’accertamento tributario[13]. Invero, come già anticipato, è solo il giudice tributario che, nell’esercizio dei propri autonomi poteri di valutazione, si pronuncia sulla legittimità dell’avviso di accertamento, verificando la sussistenza dei presupposti dell’obbligo di denuncia, al fine di stabilire se l’Agenzia si sia avvalsa legittimamente del “raddoppio” del termine o se, invece, ne abbia fatto un uso pretestuoso. Dunque, in ultima istanza, stabilire se vi sia o non vi sia l’obbligo di denuncia, con riguardo ai fatti su cui si basa l’accertamento, non spetta all’Agenzia delle Entrate, ma al giudice tributario. Del resto ciò è quanto statuito dalla Corte Costituzionale, secondo cui “il giudice tributario dovrà controllare, se richiesto con i motivi di impugnazione, la sussistenza dei presupposti dell’obbligo di denuncia, compiendo al riguardo una valutazione ora per allora (cosiddetta «prognosi postuma») circa la loro ricorrenza […]” [10]. In altri termini, il giudice di prime cure è chiamato ad accertare se l’Amministrazione finanziaria abbia agito con imparzialità o abbia, invece, fatto un uso pretestuoso e strumentale della disposizione in esame. Inoltre, ci si chiede se la prescrizione del reato riscontrato dall’Agenzia delle Entrate, incida sull’esistenza dell’obbligo di denuncia ex articolo 331 c.p.p., da cui dipende, come detto, la possibilità per l’Agenzia delle Entrate di avvalersi del “raddoppio” del termine. Al riguardo, la Corte di Cassazione è conforme nel ritenere che al pubblico ufficiale, che redige la notitia criminis, non competa la valutazione in merito all’esistenza o meno di cause di estinzione o di non punibilità del reato, atteso che questa analisi spetta solo all’autorità giudiziaria[14]. Seguendo tale tesi, si evince che l’Agenzia delle Entrate, anche di fronte a un (presunto) reato tributario ormai estinto, avrebbe comunque l’obbligo di inoltrare la notizia di reato, insomma, sarebbe 27 28 Novità fiscali / n.9 / settembre 2014 comunque legittimata ad emettere l’avviso di accertamento avvalendosi del termine raddoppiato. Tuttavia, la giurisprudenza di merito è conforme nel ritenere che qualora il reato tributario sia prescritto, l’Amministrazione finanziaria non possa usufruire del “raddoppio” del termine per procedere all’accertamento[15]. 6. Mancanza di esigenze istruttorie Da ultimo, ci si chiede se l’Agenzia delle Entrate possa avvalersi del “raddoppio” del termine, anche nel caso in cui tutti gli elementi per poter emettere l’avviso di accertamento siano già a sua disposizione prima della scadenza del termine ordinario. Com’è noto, la ratio della norma in esame è quella di dotare l’Amministrazione finanziaria di un maggior lasso di tempo per acquisire e valutare dati utili a contrastare tutti quegli illeciti tributari che, avendo anche una rilevanza penale, necessitano di una più ampia attività istruttoria. Se però l’Agenzia delle Entrate, già prima della scadenza del termine ordinario, fosse in grado di individuare tutti gli elementi di fatto e di diritto fondanti la pretesa fiscale, è verosimile che non ci sarebbe alcuna reale esigenza per cui avvalersi del “raddoppio” del termine. In questo caso, seguendo l’insegnamento della Corte Costituzionale, spetterà al giudice adito stabilire se l’Amministrazione finanziaria abbia agito con imparzialità od abbia, invece, fatto un uso pretestuoso e strumentale delle disposizioni denunciate, al fine di fruire, ingiustificatamente, di un più ampio termine di accertamento[16]. Ciò in ossequio al principio generale della certezza del diritto che non può essere in alcun modo compromesso dalla previsione del “raddoppio” del termine di accertamento. È indubbio che proprio tale principio necessiti di una maggior tutela, da realizzarsi, per esempio, dando ottemperanza a quella disposizione contenuta nello Statuto dei diritti del contribuente secondo cui “i termini di prescrizione e di decadenza per gli accertamenti di imposta non possono essere prorogati” [17]. In tal senso si è spinto il Parlamento con la recente legge delega in materia fiscale, con cui, come già anticipato, ha affidato al Governo il compito di definire la portata applicativa della disciplina del “raddoppio” del termine, prevedendo che il “raddoppio” si verifichi soltanto in presenza dell’effettivo invio della denuncia ex articolo 331 c.p.p., da eseguirsi entro un termine correlato allo scadere del termine ordinario di decadenza[18]. Elenco delle fonti fotografiche: http://fiscooggi.it/files/immagini_articoli/u5/tempo.jpg [05.09.2014] http://i.res.24o.it/images2010/SoleOnLine5/_Immagini/Notizie/Italia/2011/10/calendario-politica--672.jpg?uuid=69452a16-0164-11e1bc7c-d8f2777a00e4 [05.09.2014] http://www.agenziebenucci.com/_WFC/Source/WFC_Med/Media/ DG6KGNUB.jpg [05.09.2014] 7. Conclusioni Solo dall’analisi di alcune delle astiose problematiche che attanagliano l’istituto del “raddoppio” del termine di accertamento si percepisce che la disciplina di cui all’articolo 43, terzo comma, D.P.R. n. 600/1973 urge di essere riformata, al fine di concedere all’Agenzia delle Entrate l’uso del più ampio termine di accertamento solo in presenza di un evento chiaro ed univoco. [1] Così come risulta dalla relazione d’accompagnamento al disegno di legge di conversione del D.L. n. 223/2006. [2] Agenzia delle Entrate, Circolare n. 28/E del 2006. [3] Commissione Tributaria Regionale (di seguito CTR) di Milano, 23 gennaio 2014, n. 382. Si veda altresì Commissione Tributaria Provinciale (di seguito CTP) di Ancona, 22 maggio 2013, n. 152. [4] Corte Costituzionale, 25 luglio 2011, n. 247. [5] Il reato di omessa denuncia è previsto dall’articolo 361 del Codice Penale, secondo cui: “Il pubblico ufficiale, il quale omette o ritarda di denunciare all’autorità giudiziaria, o ad un’altra autorità che a quella abbia obbligo di riferirne, un reato di cui ha avuto notizia nell’esercizio o a causa delle sue funzioni, è punito con la multa da euro 30 a euro 516. La pena è della reclusione fino ad un anno, se il colpevole è un ufficiale o un agente di polizia giudiziaria, che ha avuto comunque notizia di un reato del quale doveva fare rapporto. Le disposizioni precedenti non si applicano se si tratta di delitto punibile a querela della persona offesa”. [6] Cfr. nota 4. [7] CTR Milano, 14 novembre 2014, n. 132; si veda altresì CTR di Milano, 29 ottobre 2013, n. 118. [8] Articolo 8 L. n. 23/2014. [9] Cfr. nota 4. [10] Cfr. nota 4. [11] Cfr. nota 4. [12] Tale principio è disciplinato dall’articolo 20 D.Lgs. n. 74/2000, ove è previsto che: “Il procedimento amministrativo di accertamento ed il processo tributario non possono essere sospesi per la pendenza del procedimento penale avente ad oggetto i medesimi fatti o fatti da cui accertamento comunque dipende la relativa definizione”. [13] Sulla questione, la Corte di Cassazione ha più volte statuito che “nel contenzioso tributario […] la sentenza penale costituisce semplice indizio od elemento di prova critica in ordine ai fatti in essa eventualmente accertati sulla base delle prove raccolte nel relativo giudizio e non rappresenta un accertamento preliminare necessario; pertanto, non può disporsi, ai sensi dell’art. 295 c.p.c. ed ancorché coincidano i fatti esaminati in sede penale e quelli che fondano l’accertamento, la sospensione del processo tributario in attesa della definitività della predetta sentenza, come peraltro sancito dall’art. 20 d.leg. 10 marzo 2000 n. 74” (tra tutte si veda Corte di Cassazione, 27 febbraio 2013, n. 4924). [14] Tra tutte si veda Corte di Cassazione, 4 aprile 2008, n. 26081. [15] Si veda CTP di Lecco, 28 maggio 2012, n. 61. In senso conforme, CTR di Milano, 19 novembre 2013, n. 147, ove è statuito che il raddoppio del termine non può sussistere se “la documentazione presentata dall’Ufficio attesta che la denuncia penale è stata presentata, ma che essa non sia stata presa in considerazione dal giudice penale, perché prodotta oltre il termine di prescrizione”. In senso analogo, CTP di Vicenza, 14 marzo 2012, n. 34 e CTR di Perugia, 5 marzo 2012, n. 41. [16] Cfr. nota 4. [17] Articolo 3, comma 3 L. n. 212/2000. [18] Cfr. nota 8.