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Le biografie d`impresa nel Veneto

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Le biografie d`impresa nel Veneto
Storia Economica
a.a. 2003-04
Giorgio Roverato
Le biografie d’impresa nel Veneto
testo comparso in “Protagonisti”, n. 83/2002
e riprodotto ad esclusivi fini didattici
Ricerche e proposte di studio
Le biografie d’impresa nel Veneto
Giorgio Roverato
Uno sguardo d’insieme
La “storia d’impresa” costituisce una branca specialistica della storia economica, ed indaga i meccanismi di crescita e di successo (ed a volte anche
di insuccesso) di una tra le fondamentali strutture organizzative in cui si
articola la vita associata: l’impresa, appunto. Impresa che è ad un tempo
soggetto economico ma anche “comunità” di individui, almeno nella misura
in cui i lavoratori in essa occupati condividono un tratto più o meno lungo
del percorso individuale di un determinato imprenditore, come essi
partecipano di un senso di comune appartenenza e di identità nel rapporto
con il datore di lavoro.
Se praticata “a tappeto”, anche se tale indirizzo di studio è ancora agli inizi,
la storia d’impresa consente di ricostruire i meccanismi di sviluppo di un
territorio dato. Generalmente la storia economica ricostruisce il profilo
economico di un’area, una regione, uno stato, attraverso i grandi aggregati
statistici della contabilità pubblica, nel cui contesto le grandi imprese, che
costituiscono l’asse portante dello sviluppo del territorio, vengono necessariamente privilegiate.
La mia opinione è che per questa via la storia economica non sempre
riesca a cogliere la “qualità” dello sviluppo, che invece può essere meglio
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Le biografie d’impresa nel Veneto
interpretata attraverso lo studio delle singole imprese.
In quanto settore della storia economica che si occupa della nascita e dello
sviluppo delle imprese, la storia d’impresa trae origine da un interesse
specifico: quello per l’imprenditore in quanto tale. Di conseguenza essa è
portata a chiedersi: quali sono le molle che spingono un uomo a intraprendere? Quali le risorse che quell’uomo, o quel gruppo di uomini associati
tra loro, riescono a mettere in moto?
Un difetto che può essere individuato in questo tipo di studi consiste nel
fatto che lo storico tende a privilegiare le imprese di successo, quelle che
hanno costituito, e che magari ancora oggi costituiscono, un punto di
riferimento di un determinato settore. In effetti, le imprese di successo,
contrariamente a quelle che sono fallite o cessate, sono ancora viventi e
quindi conservano al loro interno il materiale archivistico che consente di
studiarne l’evoluzione, mentre le imprese che non hanno avuto successo
sono sparite. Se si vuole capire il motivo per cui sono fallite, fatto non
indifferente nello studio dell’evoluzione di un territorio o di un settore, è
necessario tuttavia includere anche queste nel campo d’interesse dello
storico.
In Italia questo tipo di studi non si è ancora affermato, se non in qualche
caso sporadico, mentre ci sono paesi in cui gruppi di studiosi si sono
dedicati specificatamente a questo settore. Mi riferisco in particolare alla
Germania, dove sono state analizzate molte serie di fallimenti nel tentativo
di capire perché, nel momento dell’industrializzazione, molte imprese
fallirono, ed in definitiva quali furono le cause che portarono al fallimento.
Il risultato più interessante di questi studi è che ci si è accorti che in realtà
quasi mai le imprese fallivano per incapacità tecnica dell’imprenditore. In
genere l’imprenditore si dimostrava bravo nello sviluppare il prodotto, ma
non sapeva tenere la contabilità oppure si accorgeva troppo tardi che stava
lavorando in perdita o, ancora, non aveva le competenze per crearsi una rete
commerciale e distributiva.
La storia d’impresa si è sviluppata particolarmente nei grandi paesi
industriali, a partire dall’Inghilterra, dove tra gli anni ’20 e ’30 del Novecento iniziarono i primi studi, per passare poi alla Francia, alla Germania e
soprattutto agli Stati Uniti. Qui, nel secondo dopoguerra, è fiorita una serie
interessantissima di studi, che praticamente ha permesso di ricostruire
l’intero tessuto delle grandi imprese americane.
In Italia la storia d’impresa è invece iniziata più tardi, all’incirca a metà
degli anni ’70 del Novecento. Il motivo è evidente: l’Italia è un paese a sviluppo ritardato, e quindi anche la storiografia ne ha risentito nei suoi pro-
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gressi. Ha pesato anche una certa diffidenza della cultura accademica nostrana verso questo tipo di storiografia. In sostanza, si è obiettato da parte di
taluni, la storia d’impresa non è altro che una microstoria rispetto ai grandi
aggregati statistici normalmente oggetto delle ricostruzioni d’insieme della
storia economica. Che cosa ci può essa permettere di conoscere in più rispetto a quanto non ci consentano le serie statistiche?
Non è difficile dimostrare che ciò non è vero. Se andiamo a studiare una
grande impresa leader nel suo settore, ci accorgiamo, ad esempio, che nelle
carte e nell’evoluzione dell’andamento di questa impresa si condensa la
conoscenza dell’intero settore, perché la grande impresa intrattiene rapporti
con tutti, dalle imprese minori alla pubblica amministrazione, allo Stato. Di
conseguenza, entrare nel suo archivio significa accedere alla conoscenza
dell’intero settore. Pensiamo solo al caso della Fiat, i cui archivi sono stati
gradatamente organizzati e messi a disposizione degli studiosi nella bellissima sede della ex Lancia a Torino.
Con ciò arriviamo a quello che può essere considerato quasi il prodromo
della storia d’impresa in Italia, cioè allo studio di Franco Bonelli sulla Terni
uscito nel 1975 e intitolato Lo sviluppo di una grande impresa in Italia: la
Terni dal 1884 al 1962, pubblicato per i tipi della Einaudi Per capire questo
libro occorre soffermarsi brevemente sulle politiche industriali che vengono
sviluppate in periodo fascista, quando con il crollo della banca mista il governo fu costretto (1933) a dar vita all’Istituto di Ricostruzione Industriale
(IRI), che prese in carico tutte le imprese partecipate dalle banche miste.
La storia dell’IRI è conosciuta: doveva essere un ente temporaneo, doveva
cioè risanare le imprese e riportarle sul mercato, ma la grande crisi mondiale
– i cui effetti pesarono seppur in ritardo anche nel nostro paese, a
dimostrazione che la globalizzazione dei mercati era già in atto ed è
tutt’altro che cosa recente – non consentì questo esito. Così nel 1937 l’IRI
fu trasformato in ente permanente al quale in sostanza lo Stato delegò
l’esecuzione di una parte della politica economica dato che al suo interno si
trovò riunita la più vasta concentrazione di settori produttivi: dalla siderurgia alla cantieristica, dalla meccanica alla produzione di elettricità, senza
contare le concessionarie telefoniche interregionali e l’intera gamma delle
linee di navigazione transoceaniche, nonché le ex banche miste (Comit,
Credit e Banco di Roma), convenientemente ridenominate “banche di interesse nazionale” dato il loro capillare irradiamento nel territorio.
È in questo contesto che la Terni pervenne allo Stato. Nel 1933, quando ciò
avvenne, essa non rappresentava soltanto l’impresa di punta della siderurgia
italiana, ma le origini stesse della siderurgia italiana, essendo nata nel 1884.
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Le biografie d’impresa nel Veneto
Per Bonelli, studiare la Terni significava, pertanto, studiare l’intero settore
siderurgico italiano, conoscerne i meccanismi e le difficoltà di crescita, dato
che il settore siderurgico è sempre stato, fino a pochi decenni fa, un settore
di estrema difficoltà nella sua conduzione, se non altro per la povertà di
materie prime esistente in Italia e quindi per la necessità (ed i costi) dell’approvvigionamento all’estero dei minerali e materiali ferrosi occorrenti.
Fu questa in sostanza la prima storia d’impresa scritta in Italia, alla quale
seguì, come sempre succede quando si parte in ritardo, un grande recupero.
Come c’era da attendersi, questo primo studio fu in parte ignorato dagli
studiosi accademici, e di conseguenza molti si tennero lontani da tale campo
d’indagine fino a quando, all’inizio degli anni ’80, alcuni giovani ricercatori, che non erano ancora completamente inseriti nel mondo universitario,
ebbero il coraggio di cominciare la propria carriera seguendo proprio la
strada aperta da Bonelli. Attraverso un’associazione non accademica –
l’ASSI-Associazione di Studi di Storia sull’Impresa di Milano – ebbe inizio
così un lavoro di scavo negli archivi delle imprese, da cui si sarebbe
originata un’ampia messe di studi che ci ha consentito, nel giro di vent’anni,
di conoscere quasi tutte le grandi imprese e le problematiche dei settori
produttivi più importanti.
Accedere agli archivi, però, all’inizio non fu facile. Le imprese negavano
l’esistenza dei propri archivi, con l’esclusione di quegli spezzoni di carte
detenuti per obblighi fiscali o legati a specifici contenziosi con i fornitori e i
clienti. In realtà, in molti casi l’inesistenza di archivi era reale, anche perché
per un’impresa votata al profitto, l’archivio, una volta cessata la sua funzione di supporto all’attività amministrativa, non aveva alcun valore e
quindi veniva distrutto. Naturalmente, non sempre questo era vero; piuttosto
nelle imprese poteva succedere quello che succede in molte famiglie, per
cui, assolte alle varie incombenze che la gestione degli affari familiari
comporta, si giunge per inerzia a una sorta di stratificazione di carte abbandonate in un cassetto (nel caso delle famiglie, le bollette del telefono, dell’acqua ecc., le ricevute dell’affitto, gli estratti conti bancari...) di cui spesso
non ci si sovviene più. Di fronte a questa incapacità di sapere ciò che si era
nel tempo accumulato, era naturale la diffidenza dell’impresa che negava
l’esistenza stessa di un archivio a rilevanza storica. Una diffidenza che spesso è più che motivata: l’archivio di un’impresa familiare può conservare,
infatti, non solo le carte contabili, ma anche carte personali dell’imprenditore e della sua famiglia. Col tempo, questa diffidenza è stata superata grazie
alla percezione di molti imprenditori, che hanno capito di poter sfruttare la
propria storia per arricchire l’immagine dell’azienda.
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Ovviamente ci sono molti modi di fare storia d’impresa: da un lato c’è la
storia d’impresa classica, quella che tende a ricostruire dalle origini il
percorso dell’azienda e dei suoi aggregati produttivi (costi, innovazioni tecnologiche, prodotto), dall’altro c’è la storia che immerge l’impresa nel contesto sociale del suo tempo.
Pensiamo, ad esempio, ad un imprenditore che sviluppa, nel corso dell’Ottocento e del primo Novecento, pratiche paternalistiche che danno vita a
un sistema di relazioni con le maestranze fondato sui benefici erogati a
seconda della “fedeltà” del dipendente. In questo caso la storia d’impresa
facilmente deborda nell’ambito della storia operaia e sociale, in cui il profilo
dell’azienda sfuma nel rapporto di “dominio” – ma anche di mutua dipendenza – creatosi nel tempo tra imprenditore e lavoratori.
Per converso, può darsi il caso di un semplice profilo biografico, in cui
l’obiettivo dello studioso si concentra non sullo studio dell’impresa, ma
sulla persona dell’imprenditore, che di conseguenza viene narrato a partire
dagli elementi che ne hanno determinato il successo, senza però addentrarsi
più di tanto nella vita tecnico-produttiva, e quindi economica, dell’impresa.
Questo taglio è tipico di lavori brevi, come quelli che troviamo nel Dizionario biografico degli italiani. Si tratta di profili che danno la dimensione
dell’importanza del personaggio e del modo in cui esso si è mosso nel
mercato, ma non riescono a farci capire fino in fondo come l’impresa funzionava e, a maggior ragione, come funzionava il settore cui l’impresa
apparteneva.
Accanto a questo tipo di storia d’impresa, praticato dagli studiosi, abbiamo
anche produzioni che non nascono per essere affidate per la loro divulgazione a case editrici, ma che vengono invece assemblate dagli uffici di
relazioni esterne delle imprese e degli enti pubblici economici per rispondere ad esigenze di comunicazione. In questa letteratura prodotta dalle
imprese, un tempo (almeno tra gli anni ’60 e ’70) si riscontravano soprattutto degli intenti giubilari. Poiché il libro veniva pubblicato in occasione di un certo traguardo raggiunto dall’impresa, come possono essere i
50 o i 100 anni dalla fondazione, gli autori si soffermavano non tanto sulle
problematiche che ne avevano contraddistinto lo sviluppo, ma indulgevano
nella celebrazione dei successi raggiunti. Si tratta in genere di libri fotografici bellissimi, confezionati con immagini corredate da didascalie o da
brevi introduzioni che descrivono alcuni passaggi, sempre di successo,
dell’impresa, ma che poco ci dicono riguardo alle strategie produttive da
essa nel tempo sviluppate.
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Questo materiale, se non è storia d’impresa, costituisce comunque una fonte
utilissima per lo storico, soprattutto nel caso degli archivi scomparsi: l’archivio non esiste più, però abbiamo riproduzioni fotografiche, magari di
imprese che hanno celebrato i cinquant’anni negli anni ’30, che ci consentono, ad esempio, di vedere la razionalità o meno degli spazi produttivi,
il tipo di macchinari che c’erano dentro, e quindi di capire il livello
tecnologico raggiunto dall’impresa. Queste fonti, assieme a quelle che si
trovano negli archivi delle Camere di Commercio e di altri enti pubblici,
possono consentirci di ricostruire il profilo di un’impresa il cui archivio è
andato distrutto, o di un’impresa pure al suo tempo importante ma ormai
cessata.
Sempre all’interno di questo filone, si collocano altri materiali prodotti dagli
stessi imprenditori, come le autobiografie, i diari, gli scritti, gli epistolari.
Un esempio bellissimo di epistolario è quello di Adriano Olivetti, che, dagli
Stati Uniti, scrive in patria, ad Ivrea, dove ha sede la sua ditta, e trasmette
informazioni che mettono in risalto la sua visione della modernità americana
raffrontata con l’arretratezza italiana, percezione che spiega poi molte delle
innovazioni introdotte al suo ritorno, pur mediate con la particolarità del
nostro tessuto produttivo. Anche gli epistolari, quindi, costituiscono, da questo punto di vista, un elemento interessantissimo a margine della storia
d’impresa.
L’interesse del caso Veneto
In questo quadro, la situazione del Veneto si presenta per molti versi interessante e originale. Il Veneto è stato a lungo descritto, soprattutto nella
vulgata giornalistica, come una regione arretrata – non solo periferica – che
arriverebbe alla modernità e all’industrializzazione solo in tempi molto
recenti, negli ultimi venti, trent’anni. Prima non ci sarebbe stato nulla, salvo
qualche caso sporadico di industrializzazione. Per indicare questa crescita
repentina, o presunta tale, si arrivò a coniare l’espressione “modello veneto
di sviluppo”, dapprima ad opera di esponenti del partito politico all’epoca di
maggioranza assoluta in regione (la Democrazia Cristiana), poi di qualche
sciagurato economista, che si adoperò a dare “copertura” o dignità scientifica a questa tesi. La diversità di questo modello di sviluppo rispetto al resto
del paese, sarebbe basato sulla presenza della piccola impresa, o meglio
sulla rapida espansione della piccola impresa che, proprio a partire dagli
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anni ’70, si manifestò in tutta la regione, andando a investire anche quelle
aree marginali rappresentate dal Rodigino e dal Bellunese.
In realtà un modello veneto di sviluppo “altro” non è mai esistito, dato che
l’espansione di piccola impresa che l’avrebbe caratterizzato, quella poi che
diede origine ai distretti industriali o che fece rispuntare dal passato i
distretti industriali di antica manifattura, stava in realtà avvenendo in quegli
stessi anni non solo in Veneto ma anche in altre parti d’Italia, ad esempio in
Emilia Romagna, nelle Marche, in Toscana e in parte in Friuli, tanto da
indurre alcuni sociologi a parlare di una “terza Italia”, per indicare una Italia
del Centro-Nordest distinta da quella del Nordovest, incentrata sulla
presenza della grande impresa ad alta intensità di capitale, e dal Sud
sottosviluppato. Secondo tale ed ancor oggi condivisibile impostazione, l’economia italiana aveva ormai resa obsoleta la categoria dello storico dualismo Nord-Sud, mettendo in luce – grazie alla manifattura leggera cresciuta
nelle aree prima menzionate, sempre più vivaci ed in parte proiettate, pur
nelle piccole dimensioni delle loro imprese, sui mercati internazionali – una
realtà più complessa ed articolata.
Tornando alla vulgata giornalistica di cui parlavo prima, la tesi del
“modello” risulta inconsistente anche per un altro motivo. Un “modello” è
qualcosa che viene progettato, applicato, monitorato per vederne gli effetti,
e quindi corretto se questi risultano diversi da quelli progettati. Un modello
non è una intuizione: è una progettazione dello sviluppo, ed il governo dello
stesso. Ebbene, al supposto “modello veneto” è mancato proprio il “governo”. Si pensi al sistema di mobilità presente nella nostra regione, intasato e
confliggente con le esigenze di rapidi spostamenti di persone e cose di
un’area in accelerata crescita: e la tangenziale di Mestre è solo una delle
tante, troppe ed antieconomiche emergenze ormai denunciate da tutti. Ma si
rifletta anche sulla politiche a sostegno all’artigianato, e cioè alle piccole
imprese che del Veneto costituiscono l’ossatura portante, praticate dall’ente
Regione: dove svariati lustri di contributi a pioggia (il più delle volte poco
più che simbolici) hanno significato la rinuncia totale a qualsiasi politica
dell’innovazione.
L’idea della rapida crescita che sarebbe avvenuta solo negli ultimi venti,
trent’anni, e che costituisce il presupposto della teoria del “modello”, è poi
in realtà smentita da fenomeni industrializzanti che in regione partono
invece molto prima, e che si collocano in un’epoca contemporanea a quella
della prima industrializzazione del continente europeo. La provincia di
Vicenza, l’alto vicentino in particolare, ha gli stessi ritmi di sviluppo delle
altre aree del continente europeo, che nella prima metà dell’Ottocento si
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Le biografie d’impresa nel Veneto
stavano avviando verso la modernizzazione produttiva. Certo non basterebbe solo l’emergere dell’impresa laniera (seppure di straordinaria grandezza,
basti pensare alle imprese dei Rossi e dei Marzotto) a determinare un’industrializzazione; vi sono però altri fermenti che portano a ritenere che il
Veneto sia stato a pieno titolo uno degli attori della prima industrializzazione italiana. Tralasciando la crescita dell’apparato produttivo locale,
pensiamo al ruolo che alcuni imprenditori locali hanno svolto nel contesto italiano. Innanzitutto Alessandro Rossi, titolare dell’impresa laniera di Schio,
che costituì, almeno fino agli anni ’80 dell’Ottocento, la più grande impresa
laniera italiana. Questo imprenditore, oltre a fare i suoi concreti (e legittimi)
interessi di capo d’azienda, svolse un ruolo di leadership nell’ambito del
suo settore, fino a diventare il rappresentante degli interessi industriali – o
meglio industrialisti, come si diceva allora – di tutto il paese. Alessandro
Rossi fu dapprima deputato del Regno e quindi Senatore. Egli usò il suo
scranno di parlamentare per fare azione di lobbing, riuscendo, alla fine, a
strappare al Parlamento – un Parlamento allora dominato dalla proprietà
fondiaria e dai rappresentanti delle professioni liberali – vari provvedimenti
a favore dell’industrializzazione del Paese. Provvedimenti che non erano
aiuti economici, ma misure ben precise orientate allo sviluppo delle imprese,
come nel caso della legislazione sulle società per azioni, il cui obiettivo fu
quello di permettere alle industrie di intercettare, attraverso più snelle (e
certe) procedure nella costituzione di una società azionaria, danaro fresco
per il capitale di rischio.
In merito vorrei ricordare che all’epoca, e non solo in Italia, le società per
azioni erano sottoposte a un rigido controllo di tipo amministrativo che
spesso si rivelava arbitrario, oltre a richiedere tempi molto lunghi per il
completamento dell’iter di autorizzazione ministeriale ad operare sul
mercato. In sostanza, per costituire una società per azioni bisognava – dopo
il rogito notarile – sottoporre gli atti per la loro approvazione al Ministero di
Agricoltura Industria e Commercio. Il quale ne chiedeva il vaglio al Consiglio di Stato, che nella maggior parte dei casi imponeva modifiche o correzioni agli articoli statutari. Rispedite le prescrizioni ai promotori della
società azionaria in attesa di autorizzazione, questi dovevano recepirle mediante un altro atto notarile di modifica della statuto, poi nuovamente inoltrato al Ministero: il quale, vagliate le intervenute modifiche, approvava poi
in via definitiva lo statuto societario ed autorizzava finalmente la società ad
operare, e quindi a raccogliere le sottoscrizioni azionarie.
Un iter di questo tipo richiedeva almeno due anni per essere completato. Un
tempo assolutamente eccessivo, anche all’epoca, per poter rispondere effica-
Le biografie d’impresa nel Veneto
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cemente ai tempi rapidi tipici delle decisioni economiche: tanto che, piuttosto di affrontarlo, gli imprenditori preferivano conservare la natura di ditta
individuale alla loro impresa, rinunciando perciò ai propri progetti espansivi, oppure scegliere la via della formazione di una società di persone, che
tuttavia era inidonea a raccogliere i flussi di risparmio privato che la forma
azionaria avrebbe consentito.
La battaglia di Alessandro Rossi per la liberalizzazione delle società anonime portò alla fine – in sede di revisione del Codice di Commercio, varato
nel 1882 e noto come Codice Mancini dal nome del ministro proponente –
alla tipizzazione delle norme obbligatorie da inserire negli statuti societari, e
quindi ad una drastica velocizzazione nella costituzione delle società azionarie. Esse non furono più soggette alla autorizzazione governativa, ma solo
alla omologa dei Tribunali di Commercio, chiamati a verificare la rispondenza degli statuti alle prescrizioni del Codice.
Questa battaglia si accompagnò a quella per tariffe “protezionistiche”, poi
conseguite nel 1887, intese a difendere le gracili industrie italiane dalla concorrenza dei prodotti stranieri, più economici e qualitativamente migliori
delle produzioni nostrane.
Non è un caso che entrambi questi provvedimenti abbiano in buona parte
coinciso con il decollo della nostra industria.
Per ultimo, merita di essere menzionata l’azione di Rossi, in parte riuscita,
volta a creare nuovi e più stretti legami tra la finanza veneta, all’epoca
sostanzialmente immobilista basata com’era sulla rendita dei grandi proprietari fondiari, e quella dell’area lombarda, ben più dinamica. Essa trovò
modo di esprimersi non solo attraverso la costituzione di imprese societarie
minori con capitalisti extraveneti, ma soprattutto con la scelta strategica di
trasformare (1873) la sua ditta individuale nella più grande (almeno fino a
metà degli anni Ottanta) anonima industriale del paese, coinvolgendovi
investitori e capitalisti lombardi, romani, piemontesi e perfino stranieri,
svizzeri ed austriaci in particolare, ma anche mediante lo svecchiamento
dell’apparato finanziario veneto perseguito con una accorta rete relazionale
con i grandi proprietari fondiari ed i mercanti-banchieri veneti. Una opzione
che presto si rivelò come una vera e propria tecnica di apertura e di integrazione del Veneto nella finanza del giovane regno italiano.
Un altro imprenditore d’eccezione fu Vincenzo Stefano Breda, che nel 1872
diede vita in Padova ad una impresa, la “Società Veneta per Imprese e
Costruzioni Pubbliche”, che fu una delle primissime aziende italiane a dedicarsi ai grandi lavori di costruzione di nelle aree urbane: ponti, strade,
fognature, acquedotti, reti ferroviarie minori, grandi immobili, cimiteri
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Le biografie d’impresa nel Veneto
(quello di S. Michele a Venezia, ad esempio), il tutto conglobato in un complesso sistema organizzativo. Nella costruzione di questa impresa, Breda fu
buon compagno di strada di Alessandro Rossi, peraltro presente nel suo azionariato: ovvero apertura del capitale azionario agli investitori extraveneti,
e soprattutto realizzazione di rapporti stretti con l’apparato pubblico centrale, spesso appaltante questa tipologia di lavori. Un rapporto, quest’ultimo,
che se da un lato alimentò non poche corruttele con la struttura politica e
l’alta burocrazia del paese, dall’altro portò ad esiti di grande valore imprenditoriale, come la costituzione della “Società degli Altiforni, Acciaierie e
Fonderie di Terni”, elemento fondativo dell’industria siderurgica nazionale
come magistralmente descritto nello studio del ricordato Bonelli.
Per raggiungere questo risultato, Breda si alleò con il capitale finanziario
della nuova capitale romana, e con la locale Banca Tiberina (erede di una
precedente Banca Italo-Tedesca) di cui la Società Veneta acquisì in breve il
controllo azionario. Ciò che intendeva realizzare Breda con l’impianto di
Terni era la prima vera acciaieria italiana. Ma a far decollare il progetto fu
un fattore extraeconomico, e cioè una combine politico-burocratica: Breda,
già deputato nel collegio di Padova 2, conobbe in anticipo la scelta della
Marina militare italiana tesa a rendersi indipendente dall’estero per la
corazzatura del naviglio da guerra, e della sua intenzione di reperire un impianto nazionale cui affidare quest’attività. La Società Veneta rilevò tempestivamente una piccola impresa metallurgica corrente in Terni, la futura
“Società degli Altiforni”, che alla fine fu individuata dalla commissione
incaricata dal Ministero della Marina militare – il cui titolare pro tempore
era, guarda caso, amico personale di Breda – come la più idonea allo scopo.
L’aspetto più inquietante e significativo di questo aspetto della modernizzazione italiana è rappresentato dal fatto che lo Stato anticipò per ben due
volte, con altrettanti provvedimenti legislativi ad hoc, seppure in conto
future forniture, il danaro occorrente alla Terni per trasformarsi da semplice
fonderia in ferro in moderna acciaieria. In questo modo lo Stato, anche se
non direttamente, ma attraverso un finanziamento anomalo, entrava in pieno
nell’attività economica, tanto che alcuni storici datano dal 1884, l’anno della
costituzione formale della Società degli Altiforni, Acciaierie e Fonderie di
Terni, ed invero forzando gli eventi, l’inizio dell’intervento pubblico italiano. A margine di questo episodio sarebbe da ricordare come l’avvio travagliato dell’impresa, che incontrò crescenti difficoltà economiche data la
scelta (discutibile, ma senz’altro avveniristica) del Breda di realizzare un
impianto a ciclo integrato dal controllo della materia prima fino al prodotto
finito, provocò (dopo il crollo della Banca Romana dell’inizio degli anni
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Novanta dell’Ottocento) il secondo grande scandalo finanziario dello stato
unitario, stante che i lavori per l’approntamento della Terni proseguivano
con difficoltà senza che alcuna piastra corazzata – a fronte delle due successive anticipazioni ex lege – fosse stata ancora stata consegnata. Attaccato
da più parti, Breda, che nel frattempo era stato nominato senatore del Regno, si difese alla Camera alta in una infuocata seduta dei primi anni ’90
argomentando più o meno così: «Ma cosa vi aspettavate, Signori? Che un
imprenditore spendesse del suo nell’acciaio, e cioè in un affare dagli elevati
costi e dall’esito dubbio? No! Era lo Stato che aveva bisogno di acciaio, e
non avendone le competenze ha chiesto a dei patrioti, a degli industriali, di
farsene carico! E noi, patrioti, lo abbiamo con generosità fatto. Quindi, i ritardi, e le spese crescenti, non sono stata colpa nostra. Sono la conseguenza
del fatto che l’Italia ha ritenuto di entrare nell’acciaio, e cioè in un settore
difficile, dovendone sostenere gli elevati costi, e l’alea, che nessun imprenditore avrebbe mai potuto affrontare da solo!».
È una testimonianza significativa questa, perché evidenzia il punto da cui si
origina il deficit strutturale dell’acciaio italiano, che non riuscì per lungo
tempo ad essere competitivo con quello straniero costringendo alla fine lo
Stato ad assorbirlo (e poi, non senza recuperi di efficienza, a gestirlo)
attraverso l’IRI. Ma l’interesse del caso Breda sta appunto nell’aver lo
spregiudicato imprenditore padovano colto, egli e non altri!, anche se
indubbiamente in una combine politico-affaristica dal sapore oggi amaro,
che se il paese voleva modernizzarsi aveva bisogno dell’acciaio, e che solo
con l’improprio finanziamento pubblico allora escogitato ciò avrebbe potuto
avvenire.
Dal Veneto supposto periferico, o marginale fino agli anni Settanta del Novecento, appaiono da questa breve ricostruzione risaltare invece fin da prima
del decollo industriale italiano due messaggi forti: che sono quelli dell’integrazione finanziaria del paese e della sua modernizzazione attraverso
l’acciaio ed il successivo sviluppo di un’industria meccanica che proprio
sull’acciaio nazionale andò fondandosi.
Questa precoce “centralità” ottocentesca del Veneto trovò invero il suo definitivo affinamento nei primi decenni del Novecento, quando emerse un
personaggio come Giuseppe Volpi, veneziano, presidente della SADE, che
mise mano a quel grande progetto che è stato il Porto Industriale di Venezia,
destinato non solo a ridare una nuova identità ad una Venezia languente, ma
soprattutto a realizzare la definitiva integrazione fra il capitale veneto e la
finanza della parte più moderna del paese, cioè il Nordovest. E, infatti, da lì
scaturì l’alleanza capitalistica che, attraverso la localizzazione a Marghera
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Le biografie d’impresa nel Veneto
del Porto Industriale e della relativa zona produttiva, fece approdare in laguna i grandi gruppi ad alta intensità di capitale del Nordovest: la Fiat,
l’Ansaldo, la Montecatini etc.
Su questo sfondo, vi sono alcune caratteristiche dello sviluppo veneto che
conviene riassumere. La prima è che il polo laniero dell’alto Vicentino
nacque sulle antiche competenze manifatturiere della zona. Lì la lana si
lavorava all’incirca dal Seicento, e ciò diede origine ad intere generazioni di
persone adibite a tale attività attraverso la classica trasmissione “del saper
fare” e “dell’imparar facendo”. Lì , inoltre, erano disponibili le risorse necessarie per sviluppare quell’attività: l’acqua, innanzitutto, necessaria alle
prime lavorazioni di pulitura della lana, e quindi l’energia idraulica, ma
soprattutto la materia prima costituita dalle greggi ovine. Nel momento in
cui partì il sistema di fabbrica, quest’area, che era intensamente investita dal
fenomeno manifatturiero d’ancien régime, fu tra le prime in Europa ad
inserirsi, e proficuamente, pur con alcune contraddizioni, nei nuovi metodi
produttivi.
L’anomalia, ed alla fine vincente, fu costituta dal fatto che, mentre le altre
zone che seguirono gli stessi percorsi, come il biellese e il pratese, crebbero
sulla piccola e media impresa, nel polo dell’alto Vicentino ben presto emersero due grandi imprese, che di fatto monopolizzarono il settore e, soprattutto, il mercato del lavoro: il lanificio Rossi a Schio e i Marzotto a
Valdagno. La loro presenza, se da un lato rischiò di uccidere il distretto che
si era formato sulla base di tante piccole imprese familiari, svolse dall’altro
un ruolo di primo piano nella diffusione delle conoscenze. Si pensi ai tanti
lavoratori che si formarono all’interno di queste grandi imprese, prima di
allontanarsene magari per mettersi in proprio, o all’addestramento del personale addetto alla manutenzione e riparazione dei macchinari, che la
meccanizzazione della produzione necessariamente comportava. In quest’ultimo caso, ora sappiamo che l’impresa meccanica vicentina nacque
anche a partire dalla fuoriuscita da queste fabbriche di tecnici e di operai che
si erano formati proprio nella riparazione delle macchine tessili.
A ciò bisogna aggiungere l’attività di patronage che personaggi come
Alessandro Rossi e, in un contesto diverso, anche Vincenzo Stefano Breda,
esercitarono nei confronti dei grandi proprietari, incoraggiandoli a partecipare alle attività imprenditoriali e svolgendo un ruolo promozionale verso
le nuove iniziative. Quest’opera, che potremmo definire “pedagogica”, e
spesso, se vogliamo, di un pedagogismo spicciolo, si connette all’andamento della congiuntura che andò registrandosi nell’Italia del Nord tra gli
anni ’80 e ’90 dell’Ottocento, con l’emergere, ad esempio in Veneto lungo
Le biografie d’impresa nel Veneto
17
l’asse padano che collega Verona a Treviso, ed in un ambito non più
solamente rurale ma anche cittadino, di una miriade di piccole imprese.
Fu questa la prima ondata di piccola impresa che si originò nel Veneto, alla
quale ne seguirono poi altre nei decenni successivi: dapprima in periodo
giolittiano, quindi nel primo dopoguerra, infine e soprattutto negli anni
successivi al miracolo economico, cioè tra la fine degli anni ’60 e l’inizio
degli anni ’70. Che significato ebbe questa diffusione di piccole imprese?
Un significato evidente può essere colto, innanzitutto, nella voglia di molti
individui di migliorare le proprie condizioni di vita. Spesso si trattava di
operai che si mettevano in proprio a partire dalle competenze acquisite nel
corso della loro attività lavorativa. Non mancavano però anche molti piccoli
mercanti di estrazione cittadina, che cominciarono a produrre ciò che fino a
quel momento avevano solo intermediato, rischiando le loro risorse nel
divenire imprenditori. Questo è un processo tipico di tutte le industrializzazioni, in cui il mercante, anche di piccola taglia, tende a frasi imprenditore attraverso la produzione di ciò che vende o di qualcosa che ad
esso è più contiguo. È evidente che in questo contesto si andarono formando
solo imprenditori di limitate dimensioni, ed interagenti quasi esclusivamente
con il mercato locale. E, tuttavia, non pochi, anche se con fatica, riuscirono
poi a veicolare le loro produzioni su mercati più vasti di quella del paese,
della provincia, o di quella confinante.
Questa è la situazione che ritroviamo ancora a metà del Novecento. Pensiamo a Padova. Oggi il Padovano, antico granaio del Veneto, è un’area
intensamente industrializzata, con imprese che godono di una presenza internazionale in non pochi settori di elevata qualificazione. Fino agli anni
’50, però, fatte salve tre o quattro grandi imprese con circuiti di distribuzione nazionale, prima fra tutte la SGIV-Società Generale italiana della
Viscosa (durante la seconda guerra mondiale inglobata nel monopolio della
SNIA in tale settore della chimica tessile), nel Padovano erano insediate sì
tante piccolissime imprese industriali, ma nella maggior parte tutte incapaci
di uscire per quanto riguarda la distribuzione dal territorio del proprio comune o da quelli limitrofi, riuscendo solo in pochi casi a raggiungere le altre
località della provincia: il che appariva un evidente sintomo della loro debolezza, e della loro marginalità.
Sappiamo che col modificarsi dei mercati (e grazie alla crescente domanda
postbellica) questa debolezza andò via via scomparendo: da imprese marginali, esse via via irrobustendosi riuscirono ad andare ben al di là del
mercato provinciale o interprovinciale o regionale, diventando aziende in
18
Le biografie d’impresa nel Veneto
grado di aggredire non solo il mercato nazionale ma, in non pochi casi,
anche quello internazionale.
Tra le varie ondate di insediamento di piccole imprese che ho citato prima,
una in particolare merita la nostra attenzione. Essa si verifica nel corso degli
anni ’30 e si manifesta attraverso un’insolita crescita del numero di iscrizioni alle Camere di Commercio venete ad opera di imprenditori, ma anche
lavoratori ex dipendemti che iniziano ad “auto-intraprendere”. In un momento di crisi come quello, vedere che il numero di piccole imprese e di
iscrizioni alla Camera di Commercio è in crescita costituisce un fatto
abbastanza singolare. L’analisi di questa casistica ci dice che si trattava di
persone che intraprendevano perché sapevano del loro licenziamento o
perché temevano, soltanto temevano!, tale esito estremo.
Naturalmente, molte di queste piccole, piccolissime, imprese erano destinate
a chiudere quasi subito, perché i loro titolari non avevano le risorse per
andare avanti. Tuttavia, nel momento in cui si andò, nel dopoguerra, verificando un’inversione del ciclo economico, non pochi di quelli che
avevano “intrapreso” e poi erano stati costretti a chiudere, tornarono a intraprendere, questa volta rimanendo sul mercato. In questo senso, un ruolo
importante giocò anche la sedimentazione di esperienza e di conoscenze, e
la voglia di non darsi per vinti.
Le biografie d’impresa nel Veneto
Arriviamo cosi alle biografie d’impresa. Nel Veneto questo genere di studi è
ancora relativamente poco frequentato, in parte a causa nella scarsa presenza
di grandi imprese.
Se la storiografia d’impresa in Italia si è occupata soprattutto delle grandi
imprese, nel Veneto essa ne ha trovate poche. Avendole tutte studiate, si è
trovata di fronte a imprese che rappresentavano la leadership di interi settori.
È il caso di Marzotto, un imprenditore che ha operato anche su mercati internazionale qualificati, e non solo in quelli a valuta povera, come avviene
per i produttori di media dimensione.
Oltre a queste imprese leader, sono state studiate alcune medie imprese del
porto industriale di Marghera, che avevano collegamenti con altre imprese
collocate a Nordovest, ma in sostanza non si è scavato molto. Ciò è dipeso
da un lato dalle difficoltà legate alla ricordata praticabilità degli archivi,
dall’altro dal fatto che un tessuto di piccola e media impresa è difficile da
studiare nella individualità delle singole imprese che lo compongono. In tali
Le biografie d’impresa nel Veneto
19
condizioni è più facile che vengano prodotte delle biografie di singoli imprenditori, piuttosto che delle monografie d’impresa.
Soffermiamoci in proposito sul Vicentino. Oggi il Vicentino è la terza provincia più industrializzata del paese, il che trova riscontro anche nel fatto
che la locale Associazione degli Industriali occupa un posto di rilievo all’interno della Confindustria. Essendo oggi la provincia più industrializzata
del Veneto e la terza d’Italia, essa presenta un grande numero di insediamenti produttivi e di profili imprenditoriali di notevole interesse. Possiamo,
ad esempio, citare il Lanificio G.B. Conte di Schio, il Lanificio Cazzola,
sempre di Schio, il Lanificio Ferrarin di Thiene, il Cotonificio Roi di
Cavazzale, le Industrie Saccardo attive nel settore di supporto al tessile
attraverso la produzione di spole e navette per la tessitura, la Marzari,
ancora di Schio, che fu azienda pioniera in Italia della fototipia e della produzione di cartoline illustrate. Oltre a questi, troviamo Brusarosco ad
Arzignano, attivo nel settore della concia delle pelli; Pellizzari, sempre ad
Arzignano, che fu uno dei pionieri dell’elettromeccanica in Italia; Laverda,
il cui nome forse è più familiare per via delle moto, ma che iniziò e crebbe
nella produzione di macchinari agricoli; Ceccato a Montecchio Maggiore, la
cui storia sarebbe tutta da raccontare perché la sua è una delle biografie più
interessanti dal punto di vista della vocazione all’intrapresa.
Altre biografie significative, sempre in ambito vicentino, sono quelle di
Gaetano Zambon, che da un’attività di tipo commerciale nel campo dei
prodotti farmaceutici passò poi a produrli, diventando un’impresa che oggi
costituisce una piccola realtà multinazionale; o di Bortolo Nardini, di Bassano del Grappa, che partì da una grande passione per la grappa diventando
poi un esperto nelle tecniche di distillazione, e la cui azienda è oggi conosciutissima nel mondo.
Analizzando questi profili, si nota come il Veneto goda di una singolare
presenza di imprese di lunga durata, anche se non di grandi dimensioni.
Basti pensare ad Antonio Conte, del quale esistono diversi profili biografici,
diede vita alla sua impresa – il Lanificio Conte – nel lontano 1757, che
risulta essere tra le più longeve aziende italiane ancora in attività. O a
Giuseppe Colbachini, che ancor prima – nel 1745 – avviò ad Angarano, un
borgo di Bassano, una piccola fonderia di campane. Ovviamente i clienti di
questo particolare prodotto non potevano che essere le chiese, e siccome
Bassano apparteneva, allora come adesso, alla diocesi di Padova, gli eredi
del fondatore spostarono agli inizi dell’Ottocento la propria attività in quella
città, a poche centinaia di metri dalla Curia, in quel momento il principale
committente. Per farla breve, quest’impresa crebbe arrivando ai giorni no-
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Le biografie d’impresa nel Veneto
stri, ed è ancora attiva, anche se negli anni Sessanta del Novecento la famiglia imprenditrice affiancò ad essa un più redditizio business nel settore
dei tubi speciali per l’industria e nei prodotti paramedicali.
In questi, e in altri casi simili, è possibile notare come gli imprenditori di
antica origine siano andati presto scoprendo nella longevità aziendale un valore spendibile sul mercato, e come questa intuizione sia stata a tal punto
interiorizzata da riversarsi nel ripetersi dei nomi di battesimo della famiglia
tanto da originare delle vere e proprie dinastie che evocano le pratiche delle
dinastie aristocratiche. Un esempio, ma non l’unico, si ritrova nella famiglia
Conte di Schio proprietaria dell’omonimo Lanificio: dove furono ben quattro i Giovanni Battista – usualmente ricordati o chiamati con il numero romano progressivo: Giovanni Battista I, II, III ecc. – a succedersi alla sua
guida
Altri due nomi di lunga durata, le cui attività originarono anch’esse alla fine
del Settecento, sono quelli dei Barovier, che diedero vita ad un’azienda del
settore del vetro a Murano, e dei Bianchi originari di Cibiana in Cadore, la
cui impresa a metà degli anni Cinquanta del Novecento migrò in quel di
Conegliano poi definitinivamente installandosi a Vittorio Veneto. La Silca
(Società Italiana Lavorazione Chiavi e Affini), il nome che assunse negli
anni Sessanta l’antica ditta del cibianese Prospero Bianchi, all’origine
piccolo fabbro ferraio, è oggi leader europeo nella produzione di fusti per
chiave e nelle apparecchiature per la duplicazione di chiavi di sicurezza.
Mi sono soffermato su questi casi perché la lunga durata è uno degli
elementi caratteristici della storia di un’impresa, vale a dire un fattore che
consente di guardare in prospettiva allo sviluppo stesso del settore alla quale
l’azienda studiata appartiene. Queste storie di lunga durata stanno anche a
dimostrare che la storia industriale del Veneto è in realtà una storia antica,
non recente, che affonda le sue radici in parte nei vecchi mestieri, ma che si
fonda anche sulla capacità imprenditoriale di cogliere i momenti di
innovazione. Si pensi ad esempio al già citato Volpi che, operatore di origine mercantile, non esitò a buttarsi nel settore elettrico – la nuova fonte di
energia – intuendone le potenzialità, e divenendo presto l’assertore forse più
coerente della necessità di accentrare nelle mani di pochi grandi produttori
la produzione di energia e propugnando la teoria del suo monopolio “naturale”, più o meno analogamente alla battaglia condotta da J.D. Rockefeller
negli Stati Uniti degli ultimi decenni dell’Ottocento a proposito della raffinazione del petrolio.
In realtà la storiografia sul Veneto industriale presenta un numero più ampio
di biografie imprenditoriali rispetto alle storie d’impresa. Una biografia
Le biografie d’impresa nel Veneto
21
recente (e per certi versi esemplare) è quella che G.L. Fontana ha dedicata al
fondatore della Safilo: Guglielmo Tabacchi pioniere dell’occhialeria italiana. La ragione principale del numero ancora esiguo di storie d’impresa
vere e proprie, rispetto al ricco tessuto imprenditoriale regionale, sta – come
accennato – nella carenza delle fonti archivistiche interne alle aziende, per
cui risulta relativamente più agevole ricostruire l’attività di un imprenditore
attraverso la documentazione conservata negli archivi pubblici, o nelle carte
private degli imprenditori stessi.
In mancanza degli archivi aziendali, esistono tuttavia altre fonti che possono
aiutare lo storico d’impresa, come la pubblicistica politica e gli archivi
sindacali. In effetti, sia i partiti, che soprattutto i sindacati, a partire dagli
anni ’50 spesso hanno prodotto, nel corso delle lotte operaie e delle
trattative con la controparte padronale, articolate analisi sulle singole
situazioni aziendali, che possono risultare utili per capire l’ambiente di
fabbrica e l’andamento del processo produttivo. Anche da questi studi non
accademici può emergere una ricca mole di informazioni, tale da compensare, almeno in parte, la mancanza della documentazione d’impresa.
Un’altra fonte alternativa e integrativa che sta emergendo è costituita dalla
collana “Imprese e strategie” pubblicata dell’ISEDI di Torino e diretta da
Giorgio Brunetti e Giovanni Costa, ambedue docenti di Economia aziendale. L’impianto dei volumi è di tipo didattico, nel senso che serve a verificare, dapprima attraverso un’intervista all’imprenditore e quindi attraverso
una ricostruzione del profilo storico dell’impresa, alcuni elementi della
teoria aziendalistica. La storia d’impresa è perciò piegata a cogliere i momenti di snodo dell’impresa analizzata. La prima biografia apparsa è stata
quella sulla Marzotto di Valdagno, sulla quale per altro esistevano già lavori
consistenti dal punto di vista della storia economica. A questa ne sono seguite altre due: la prima dedicata alla Forall-Pal Zileri, un’impresa di abbigliamento sartoriale, sempre vicentina, di cui – data la formazione relativamente recente (1970) – non esisteva alcuna ricostruzione storica; la seconda
affronta invece il caso della Carraro di Campodarsego, nel padovano, il cui
percorso evolutivo (dalla produzione di seminatrici e trattori alla componentistica sofisticata, assali e trasmissioni in genere, per trattori e macchine
movimentazione terra) l’ha insediata in posizioni di leadership mondiale.
Va infine tenuto presente che, poiché ci troviamo in un territorio la cui
economia è basata in gran parte sulla piccola impresa, è naturale che, una
volta studiate le grandi imprese, la ricerca storiografica andrà vai via orientandosi a questo settore, che costituisce a tutt’oggi un vero buco nero nelle
nostre conoscenze. La piccola impresa è difficilissima da indagare: il dato
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Le biografie d’impresa nel Veneto
significativo per lo studioso non può certo essere la singola piccola impresa,
ma piuttosto l’insieme di imprese di cui essa fa parte, e più ancora le
relazioni che tra esse sono andate consolidandosi. Le ricerche, pertanto,
dovranno orientarsi più a capire le pulsioni che motivano la crescita di una
massa vasta di imprese, piuttosto che sui singoli imprenditori e le loro unità
produttive.
Per farlo, possono aiutarci gli studi di Giacomo Becattini sui distretti industriali, cioè di quelle aree in cui, col tempo, si è formata una particolare specializzazione produttiva a partire da una comunità di valori e di scambio
produttivi. Nel Veneto l’esistenza di questi distretti, o comunità d’imprese,
come forse sarebbe preferibile chiamarle, data spesso da un passato lontano,
anche se non mancano aree cresciute più recentemente.
All’interno di queste comunità d’imprese è possibile non solo ricostruire
l’insieme, ma recuperare qualche profilo di storia d’impresa, che rimanda a
saperi e tradizioni produttive. Un esempio abbastanza recente (1998) è costituito dai risultati di uno studio sulla Riviera del Brenta, realizzato da G.L.
Fontana, G. Franceschetti e dal sottoscritto per conto dalla locale Associazione degli industriali calzaturieri (Acrib). Quel distretto calzaturiero si formò grazie alla sedimentazione di saperi scaturiti, a partire dal 1898, quando
ad opera di tale Giovanni Luigi Voltan di Stra che, emigrato negli Stati Uniti, tornò in paese con l’idea di riprodurre in piccolo i grandi calzaturifici
meccanizzati da lui osservati a Boston. La fabbrica all’inizio partì bene, dato
il minor costo della produzione meccanizzata: e nei primi decenni del Novecento già poteva contare su 5-600 addetti. Il successo iniziale dovette però
presto scontrarsi con la diffidenza del consumatore verso un prodotto di
fatto, anche se non completamente, serializzato. Per superare questa difficoltà, l’imprenditore, sempre mutuando dagli Stati Uniti, costruì una
propria rete distributiva strutturata su negozi di vendita nelle principali città
e su una politica di prezzi contenuti che battesse il prodotto artigiano. Una
serie di cause, anche relazionali, portò però a partire dagli anni Venti ad una
graduale fuoriuscita di operai dall’azienda, che si azzardarono a sfruttare in
proprio le competenze acquisite nella fabbrica meccanizzata. Non avendo
tuttavia a disposizione le risorse economiche necessarie a replicare in
piccolo il processo produttivo della Voltan, essi si orientarono ad una
produzione pressoché interamente manuale, trasformando cosi in un prodotto di qualità l’originaria matrice massificata. L’infoltirsi di queste fuoriuscite, il crescere di altre imprese via via ingranditesi, con nuovi successivi
esodi di operai spinti all’auto-imprenditorialità, l’applicazione successiva di
una meccanizzazione soft che non rinunciava ad una forte componente
Le biografie d’impresa nel Veneto
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manuale delle lavorazioni, andò gradatamente trasformando la Riviera del
Brenta in un distretto che oggi è considerata un’area di eccellenza mondiale
nella produzione di calzature per donna.
Lo studio di un distretto – normalmente composto da una miriade di piccole
imprese, e di qualche azienda di media dimensione – consente, anche
attraverso interviste e colloqui diretti, di mettere in luce non solo le pulsioni
personali all’intraprendere, ma anche la loro trasmissione all’interno delle
famiglie imprenditrici. Analizzando le singole biografie, o meglio un campione di biografie, si ritrovano chi si è messo in proprio per migliorare le
proprie condizioni di vita, forse anche sperando di arricchirsi; chi lo ha fatto
perché aveva litigato col padrone, magari perché quel padrone era fascista
(ad es. nel caso dei Voltan di Stra) o per la sua arroganza; chi era stanco di
fare otto chilometri a piedi, ogni giorno con il tempo cattivo o buono, per
raggiungere il posto di lavoro, e via elencando.
La storia della piccola impresa, diversamente dalla grande, è perciò una
storia “naturalmente” corale, in cui si incrociano i percorsi e le figure più
diverse.
Certo, per conoscere un distretto bisogna farne l’analisi: come è nato, quali
fenomeni si sono strutturati al suo interno, quali sono le imprese più
significative, quali gli attori che lo governano. Lo studio delle impreseguida, in particolare, anche se piccole, ci permette di cogliere lo spirito con
cui gli imprenditori che ne erano alla testa sono riusciti a stimolare gli altri a
dotarsi tutti insieme di strumenti organizzativi. È risaputo, infatti, che uno
degli elementi caratteristici del distretto è costituito dalla capacità di mettere
in moto non solo collaborazioni informali tra imprese, attraverso l’interscambio di semilavorati, ma anche strutture di organizzazione del sistema
locale di produzione.
Un caso classico? Quello delle piccole imprese che non dispongono di
risorse sufficienti per innovare, ad esempio per introdurre una macchina
particolarmente costosa nel proprio ciclo produttivo, o per studiare i mercati
di sbocco e le possibili innovazioni di prodotto, od ancora per la formazione
di particolari figure professionali. La risposta sta nella costruzione di
consorzi ad hoc, o di associazioni imprenditoriali dimensionate sul territorio
e sul prodotto, delegati a conseguire con i contributi degli associati quelle
determinate finalità. Ed, ovviamente, la realizzazione di tali operazioni vedranno l’emergere nel distretto di imprese (o meglio di imprenditori) leader,
capaci cioè di coagulare il consenso della maggior parte attorno a tali
obiettivi.
24
Le biografie d’impresa nel Veneto
Lo studio dei distretti, o delle comunità di imprese, od ancora delle areesistema incentrate su una particolare tipologia merceologica, fornisce in
definitiva uno straordinario strumento di conoscenza delle imprese minori,
ancorché parziale rimanendone fuori le imprese attive in aree non
specializzate.
C’è un’ultima fonte di conoscenza delle imprese venete che va menzionato,
e per il quale si è solo agli inizi, ma che troverà un suo prossimo primo esito
alla fine del 2003. Si tratta del Dizionario biografico degli imprenditori
italiani, edito dall’Istituto dell’Enciclopedia Italiana, nel quale per la parte
veneta (curatori G.L. Fontana e chi scrive) compariranno una cinquantina di
biografie riferite a questa regione, distribuite su tre volumi da qui al 2005.
È ovvio che, trattandosi di un’opera a carattere nazionale, i nomi censiti
riguarderanno solo i casi più significativi: che tuttavia, da soli, ed anche se
taluni rilevantissimi, non riusciranno a rendere compiutamente la complessità dell’area.
Né vanno dimenticate le numerose tesi di laurea, che ancorché non proseguite poi in più compiute pubblicazioni a stampa, hanno tuttavia abbozzato percorsi di ricerca foriere di positivi risultati.
E mi piace, a questo proposito, di citare una ottima tesi da me seguita:
quella di T. Bonazza, Gli Stucky di Venezia: profilo di una famiglia
imprenditoriale tra Otto e Novecento, discussa alla Facoltà di Scienze
Politiche di Padova nell’a.a. 2000-2001, che costituisce il primo studio su
tale (breve) dinastia familiare che tuttavia ebbe un ruolo rilevantissimo
nell’industria molitoria nazionale tra i due secoli. Una tesi che si addentra
molto nei risvolti psicologico-familiari, individuando nei documeti catastali
anche la residenza che gli Stucky acquistarono nel 1908, PalazzoGrassi sul
Canal Grande, per trovare, loro stranieri, uno status nell’establishement
cittadino.
Anni fa mi capitò di cominciare a lavorare – anche a partire dalle suggestioni che mi pervenivano dai lavori più disparati, incluse le tesi di laurea –
ad un “Dizionario biografico degli imprenditori veneti”, ma mi arresi presto
per le difficoltà, soprattutto economiche, che mi si presentarono davanti. E
tuttavia, l’idea continua a non apparirmi peregrina. Forse, con un comune
sforzo dei centri di ricerca di storia contemporanea in Veneto, e con il
contributo delle Associazioni imprenditoriali esistenti nel territorio, il
progetto potrebbe riavviarsi: restituendo identità a tutte quelle ancor oggi
anonime energie individuali che hanno reso in pochi decenni il Veneto una
regione ad alta intensità manifatturiera. E penso non solo alle aree forti
(Vicenza, Venezia, Treviso), ma anche ad aree un tempo marginali come il
Le biografie d’impresa nel Veneto
25
bellunese dove – e non solo per merito di Luxottica, Safilo o De Rigo! – è
cresciuta la maggior concentrazione mondiale nella produzione di occhiali,
ma dove anche sono emerse interessanti realtà aziendali.
Come dire, e concludo, che la storia d’impresa in Veneto ha innanzi a se
ancora molta – e proficua – strada da percorrere*.
____________________
* NOTA BIBLIOGRAFICA
Questo testo è la revisione della trascrizione, a cura dell’Isbrec, della conversazione
intitolata Le biografie d’impresa in Veneto. Come e perché?, svoltasi il 9 dicembre 2002
nell’ambito degli incontri seminariali del Corso di Storia Economica tenuto dalla prof.ssa
Paola Lanaro presso la Facoltà di Economia e Commercio dell’Università Cà Foscari di
Venezia
Sulla storia industriale del Veneto esiste poca letteratura specifica, per la quale rimando a
quanto citato in G. Roverato, L’industria nel Veneto: storia economica di un “caso”
regionale, Padova, Esedra, 1996 ed nelle pagine dedicate alla regione da G.L. Fontana, a
cura di, Le vie dell’industrializzazione europea. Sistemi a confronto, Bologna, Il Mulino,
1997. Tipologie di biografie d’impresa o di imprenditori veneti sono riscontrabili nei
seguenti testi: C. Chinello, Storia di uno sviluppo capitalistico. Porto Marghera e Venezia,
Roma, Editori Riuniti. 1975; C. Chinello, Porto Marghera 1902-1926. Alle origini del
"problema di Venezia", Venezia, Marsilio, 1979; G.L. Fontana, a cura di, Schio e
Alessandro Rossi. Imprenditorialità, politica, cultura e paesaggi sociali del secondo
Ottocento, voll. 2, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1985-86; G. Roverato, Una casa
industriale. I Marzotto, Milano, Angeli, 1986; G. Roverato, Gaetano Marzotto Jr: le
ambizioni politiche di un imprenditore tra fascismo e postfascismo, "Annali di storia
dell'impresa", 2, 1986; G. Toffanin, I novant'anni della Grassetto, Padova, Editoriale
Programma, 1992; G.L. Fontana, Mercanti, pionieri e capitani d'industria. Imprenditori e
imprese nel Vicentino tra '700 e '900, Vicenza, Neri Pozza, 1993; G. Roverato, a cura di,
Una famiglia e un caso imprenditoriale: i Morassutti, Vicenza, Neri Pozza, 1993; G.L.
Fontana, G. Franceschetti e G. Roverato, 100 anni di industria calzaturiera nella Riviera
del Brenta, Stra-Venezia, Acrib, 1998; G.L. Fontana, Guglielmo Tabacchi pioniere
dell’occhialeria italiana, Cinisello Balsamo (Mi), Silvana Editoriale, 2000; G.L. Fontana e
G. Roverato, Processi di settorializzazione e di distrettualizzazione nei sistemi economici
locali. Il caso veneto, in Amatori-Colli, a cura di, Comunità di imprese. Sistemi locali in
Italia tra Ottocento e Novecento, Bologna, Il Mulino, 2001; M. Massignani, La Ceccato
S.p.A.: storia d’impresa, storia operaia (1938-1957), “Quaderni del Centenario della
Camera del Lavoro di Vicenza (1902-2002)” n. 1/2002, supplemento al n. 22/2001 di
26
Le biografie d’impresa nel Veneto
“materiali di storia”. A proposito del bellunese, al cui carattere significativo ho accennato
nel testo, consiglio la lettura del fascicolo Notizie sulle condizioni industriali della
provincia di Belluno, pubblicato in "Annali di statistica", Serie IV, fasc. L (n. 33 della
Statistica industriale), Roma, 1891, meritoriamente ristampato non molti anni or sono dalla
locale Associazione degli Industriali. Tale fascicolo è prezioso, perché fornisce un catalogo
ragionato delle attività manifatturiere provinciali di fine secolo, dalle quali può essere
agevole, tramite l’archivio storico della locale Camera di Commercio, risalire via via alla
crescita manifatturiera, e quindi imprenditoriale della provincia.
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