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Il decreto Salva Italia e il nuovo divieto di “interlocking directorates”

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Il decreto Salva Italia e il nuovo divieto di “interlocking directorates”
a cura di Claudio Visco e Salvatore Orlando
DIRITTO E NORMATIVA FINANZIARIA
Pietro Fulvio
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Il decreto Salva Italia
e il nuovo divieto di
“interlocking directorates”
1. CONSIDERAZIONI INTRODUTTIVE
Il d.l. 6 dicembre 2011 n. 201 recante “Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici” (il “Decreto Crescita”) introduce nel nostro ordinamento
il divieto dei cosiddetti “interlocking directorates” o, per utilizzare un termine italiano, il
divieto di legami personali nei settori del credito, assicurativi e finanziari.
In particolare, l’articolo 36, primo comma, del Decreto Crescita dispone: “È vietato ai titolari di cariche negli organi gestionali, di sorveglianza e di controllo e ai funzionari di vertice di imprese o gruppi di imprese operanti nei mercati del credito, assicurativi e finanziari
di assumere o esercitare analoghe cariche in imprese o gruppi di imprese concorrenti”.
Gli interlocking directorates vietati dalla norma potrebbero essere definiti come quei legami fondati su elementi personali tra imprese (o gruppi di imprese) concorrenti che ricorrono allorché uno o più esponenti aziendali di un’impresa (o di un gruppo di imprese)
siano altresì presenti negli organi di governo societario di un’impresa (o di un gruppo di
imprese) concorrente.
Tale divieto è stato introdotto con la finalità di tutelare la concorrenza e di garantire corrette dinamiche competitive in settori, quali quelli del credito, assicurativo e finanziario,
che sono caratterizzati da un elevato numero di legami su base personale fra concorrenti,
che non trova raffronto in altri paesi dell’Unione europea. Con l’introduzione di questa
norma, il legislatore ha recepito quanto auspicato, in diverse occasioni, dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (l’“AGCM”).
Nel prosieguo saranno in primo luogo presi in considerazione gli effetti anti-competitivi
degli interlocking directorates, unitamente ai principali elementi fattuali emersi dall’indagine conoscitiva (IC 36) “La corporate governance di banche e compagnie di assicurazione” dell’AGCM (l’“Indagine Conoscitiva dell’AGCM”). In seguito, verrà dato uno sguardo alle
norme italiane che, anteriormente al Decreto Crescita, già prendevano in considerazione
l’esistenza di legami su base personale fra imprese, nonché all’esperienza estera in materia. La parte finale è dedicata ad alcune prime riflessioni sulla portata normativa e sui
profili applicativi del nuovo divieto.
PIETRO FULVIO: Avvocato, partner Studio legale Macchi di Cellere Gangemi.
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Va inoltre premesso che nel presente articolo il termine “imprese concorrenti” andrà inteso come riferito anche a “gruppi di imprese concorrenti”.
2. EFFETTI ANTI-COMPETITIVI DEGLI INTERLOCKING DIRECTORATES.
RISULTATI DELL’INDAGINE CONOSCITIVA DELL’AGCM
Quella parte di teoria economica che sostiene gli effetti anti-competitivi degli interlocking directorates li ricollega allo scambio di informazioni sensibili (quali prezzi, strategie,
ecc.) fra imprese concorrenti, che potrebbero verificarsi proprio in virtù del fatto che i
medesimi esponenti aziendali partecipano alla vita sociale di entrambe le imprese. Lo
scambio di informazioni fra concorrenti in senso orizzontale contribuisce ad allentare la
tensione competitiva fra i medesimi, con conseguente pericolo di adozione da parte dei
partecipanti all’interlocking di (i) condotte unilaterali che, benché non sfocianti in intese
fra i medesimi, possono comunque concretizzarsi nell’adozione di strategie commerciali
meno aggressive di quelle che sarebbero state assunte in assenza di un simile scambio
di informazioni; e / o (ii) pratiche concordate, scaturenti in vere e proprie intese restrittive
della concorrenza. In entrambi i casi, le imprese concorrenti conseguirebbero un equilibrio stabile nel mercato di riferimento che, inevitabilmente, si risolverebbe in un affievolimento della tensione competitiva e, quindi, in un pregiudizio per l’utente.
Inoltre, l’effetto anti-competitivo dell’interlocking directorate è maggiore laddove il legame personale sia accompagnato anche da partecipazioni di minoranza nel capitale sociale dell’impresa concorrente. È stato rilevato come in tale ipotesi l’impresa con legami sia
su base personale che azionaria in imprese concorrenti avrebbe ancora meno interesse
ad attuare un’attenta politica dei prezzi, in quanto il rischio che i propri clienti possano
rivolgersi ad altri operatori sarebbe attenuato proprio dalla partecipazione al capitale del
concorrente e, quindi, agli utili dello stesso.
Ulteriore effetto negativo associato alla combinazione di legami di questo tipo fra concorrenti è quello della diminuzione della contendibilità del controllo delle imprese interessate, con conseguente minore capacità delle stesse di attirare capitali e di adottare le
soluzioni produttive più efficienti.
L’Indagine Conoscitiva dell’AGCM ha evidenziato, fra l’altro, che:
– i maggiori gruppi bancari e assicurativi italiani sono caratterizzati da legami personali
e azionari nonché da una scarsa contendibilità del controllo;
– per i gruppi bancari la scarsa contendibilità del controllo è dovuta anche alla presenza
consistente nel loro capitale delle fondazioni bancarie, alcune delle quali con partecipazioni di rilievo in diversi gruppi;
– il fenomeno italiano di interlocking directorates non ha eguali in Europa, risultando
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– l’azionariato dei principali gruppi bancari italiani è caratterizzato dalla scarsa presenza
di investitori istituzionali, quali i fondi comuni di investimento, soprattutto se i dati
italiani vengono comparati a quelli di altri paesi europei quali Inghilterra, Germania e
Francia.
3. LE NORME ANTERIORI AL DECRETO CRESCITA
Sebbene sino ad oggi mancasse nel nostro ordinamento un divieto di interlocking directorates, tuttavia diverse norme legislative, regolamentari e di autoregolamentazione
prendevano già in considerazione, disciplinandolo, il fenomeno di condivisione di esponenti aziendali da parte di più imprese. Fra queste:
– l’articolo 2390 del codice civile, che stabilisce il divieto per l’amministratore di società
per azioni di assumere la carica di amministratore o direttore generale in società concorrenti;
– l’articolo 148-bis del Decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 recante il “Testo unico
delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria” (il “TUF”), che attribuisce a
Consob il compito di individuare, con regolamento, i limiti al cumulo degli incarichi
di amministrazione e controllo che i componenti degli organi di controllo di società
quotate possono assumere in altre società di capitali;
– “Le disposizioni di vigilanza in materia di organizzazione e governo societario delle
banche” emanate da Banca d’Italia in data 4 marzo 2008, che dispongono, fra l’altro,
che “i componenti degli organi di controllo non possono assumere cariche in organi
diversi da quelli di controllo presso altre società del gruppo o del conglomerato finanziario, nonché presso società nelle quali la banca detenga, anche indirettamente, una
partecipazione strategica”;
– il Codice di Autodisciplina delle società quotate (il “Codice di Autodisciplina”) che prevede, fra l’altro, che gli amministratori dovrebbero accettare la carica “… quando ritengono di poter dedicare allo svolgimento diligente dei loro compiti il tempo necessario, anche tenendo conto del numero di cariche di amministratore o sindaco da essi
ricoperte in altre società quotate in mercati regolamentati (anche esteri), in società
finanziarie, bancarie, assicurative o di rilevanti dimensioni. …”; e
– le norme contenute negli articoli 147-ter e 148 del TUF nonché nel Codice di Autodisciplina sui requisiti di indipendenza degli organi amministrativi e di controllo di società
quotate.
In relazione alle norme sopra richiamate è stato evidenziato, sia in dottrina che nell’In1
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il buon governo societario e, nel caso delle banche, la sana e prudente gestione degli
istituti di credito, non siano in grado di spiegare anche effetti pro competitivi allorché si
sia in presenza di interlocking directorates.
In relazione all’articolo 2390 del codice civile va osservato come il divieto sia derogabile con una semplice autorizzazione assembleare, mentre le altre norme citate appaiono
prendere in considerazione il cumulo degli incarichi (in alcuni casi solo quelli ricoperti
nell’ambito del gruppo di appartenenza) da un punto di vista quantitativo, limitandoli
non già qualora gli stessi possano produrre effetti anti-concorrenziali bensì solo laddove
questi possano compromettere il buon funzionamento della società.
In conclusione, interlocking directorates con effetti anti-competitivi sarebbero comunque consentiti dalle norme sopra citate in quanto la portata normativa delle stesse non
è idonea a escludere il caso in cui un esponente aziendale, con incarichi in imprese concorrenti, fra due azioni ammissibili nel perseguimento dell’interesse sociale scelga quella
che comporti il minor pregiudizio per il concorrente e, quindi, non l’azione migliore dal
punto di vista competitivo.
4. L’ESPERIENZA ESTERA IN MATERIA DI INTERLOCKING DIRECTORATES
A livello di diritto dell’Unione europea gli interlocking directorates non sono disciplinati
o vietati in quanto tali. Tuttavia, gli stessi possono essere rilevanti per la disciplina antitrust Ue nella fase patologica, vale a dire quando, ad esempio, gli stessi si concretizzano
in un’intesa restrittiva della concorrenza, come tale vietata ai sensi dell’articolo 101 (ex
articolo 81 del TCE) del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea (“TFUE”), o in un
abuso di posizione dominante vietato ai sensi dell’articolo 102 (ex articolo 82 del TCE)
del TFUE. Simili considerazioni possono essere svolte, a livello di normativa nazionale, in
relazione agli articoli 2 e 3 del d.lgs. del 10 ottobre 1990 (la “Legge Antitrust”) che vietano,
rispettivamente, le intese restrittive della concorrenza e gli abusi di posizione dominante.
Una norma simile a quella introdotta dall’articolo 36 del Decreto Crescita non è nemmeno ravvisabile nelle legislazioni degli altri paesi membri dell’Unione europea, in alcune
delle quali gli interlocking directorates vengono espressamente presi in considerazione
ai fini della disciplina anti-trust sulle concentrazioni mentre, in altre, al fine di definire i
requisiti di indipendenza degli esponenti aziendali.
Un divieto analogo a quello introdotto dal Decreto Crescita, peraltro applicabile alla generalità delle imprese e, quindi, non solo agli operatori del settore del credito, assicurativo e finanziario, è in vigore negli Stati Uniti d’America sin dal 1914. Nei particolari, il divieto applicabile alla generalità delle imprese, con esclusione di quelle operanti nel settore
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del Depository Institution Management Interlocks Act.
Pur non volendoci soffermare sul contenuto delle norme ora richiamate, vale la pena evidenziare i seguenti punti, in quanto rilevanti per le considerazioni che saranno svolte nel
paragrafo successivo. Negli Stati Uniti:
– il divieto sembra essere operativo unicamente per quegli esponenti aziendali che ricoprono anche funzioni amministrative, direttive o strategiche; e
– sono previsti requisiti minimi all’operatività del divieto, il quale non si applica: a. nel
caso di soggetti non bancari, qualora le imprese interessate non raggiungano determinati valori patrimoniali; o b. nel caso di imprese bancarie (i) per le imprese di minori dimensioni, qualora le imprese interessate siano localizzate in aree geografiche
diverse; o (ii) per le imprese di maggiori dimensioni, qualora una delle due imprese
interessate non raggiunga determinati valori in termini di assets detenuti.
5. PRIME RIFLESSIONI SULLA PORTATA NORMATIVA E SUI PROFILI APPLICATIVI
DEL NUOVO DIVIETO
L’articolo 36 del Decreto Crescita pone numerosi dubbi di natura interpretativa. Basti
pensare che nei giorni in cui viene scritto il presente articolo è stato costituito un tavolo
tecnico tra il Ministero dell’Economia e delle Finanze, Banca d’Italia, Consob, ISVAP e AGCM,
il cui compito sarà quello di superare le incertezze interpretative poste dalla norma e che
dovrebbe portare all’adozione di una circolare esplicativa da parte del Ministero.
Contrariamente a quanto si sarebbe potuto prevedere, l’AGCM non appare essere stata
designata quale autorità competente a far rispettare il nuovo divieto. Ciò si può desumere dal comma 2-bis dell’articolo 36 che, nel sanzionare la violazione del divieto, dispone,
nella parte finale, che la decadenza dell’esponente aziendale da entrambe le cariche per
le quali ricorra l’interlocking directorate va dichiarata dall’Autorità di vigilanza di settore. Pertanto, dal tenore della norma sembra potersi desumere che le autorità preposte a
far rispettare il divieto siano Banca d’Italia e Consob, per le imprese dei settori creditizio
e finanziario, l’ISVAP, per le imprese del settore assicurativo. Questa conclusione sembra
trovare ulteriore conferma nella segnalazione AS901 “Proposte di riforma concorrenziale
ai fini della legge annuale per il mercato e la concorrenza” del 9 gennaio 2012 (la “Segnalazione AS901”), nella quale l’AGCM ha chiesto di rafforzare il divieto dell’articolo 36 “…
mediante opportuni obblighi di informativa nei confronti dei soggetti regolatori di settore”. La
scelta del legislatore appare essere in parziale controtendenza alle valutazioni compiute
nel 2005 con la legge n. 252 (cosiddetta “Legge sul Risparmio”), con la quale le compe1
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tenze in materia anti-trust nel settore bancario e assicurativo, sino ad allora spettanti a
Banca d’Italia e ISVAP, vennero trasferite all’AGCM, lasciando alle prime funzioni di natura
consultiva e propositiva. Fra le varie ragioni che possono avere indotto il legislatore a optare per questa soluzione, forse vi è anche quella legata al fatto che tali Autorità, in virtù
delle disposizioni regolamentari vigenti nei settori creditizio, finanziario e assicurativo,
sono già in possesso dei dati riguardanti gli esponenti aziendali delle imprese soggette
alla loro vigilanza.
Il divieto è da intendersi operativo sia nei confronti di società quotate che non, e sarà interessante vedere come saranno divise le competenze tra Consob e Banca d’Italia riguardo
alle imprese bancarie e finanziarie quotate nonché alle società di gestione del risparmio
(SGR) e agli intermediari finanziari del mercato mobiliare (SIM), in quanto per questi operatori vige un obbligo informativo in merito agli esponenti aziendali nei confronti di entrambe le Autorità di vigilanza.
Ai sensi del comma 2 dell’articolo 36, il divieto opera tra singole imprese o tra gruppi di
imprese concorrenti tra i quali non vi siano rapporti di controllo ai sensi dell’articolo 7
della Legge Antitrust. Quest’ultima norma prevede una nozione di controllo molto più
estesa di quella contenuta nell’articolo 2359 del codice civile e che non necessariamente
coincide con le nozioni di controllo contenute nell’articolo 23 del d.lgs. 385/1993 (il “Testo
Unico Bancario”), nell’articolo 93 del TUF e nell’articolo 72 del d.lgs. 209/2005 (il “Codice
delle Assicurazioni Private”).
Quanto agli esponenti aziendali destinatari della norma, il primo comma dell’articolo
36 è abbastanza chiaro nell’individuare i soggetti nei cui confronti il divieto è operativo. Questi sono non solo gli esponenti aziendali che svolgono funzioni amministrative e
direttive quali i membri del consiglio di amministrazione (nel sistema monistico), i membri del consiglio di gestione (nel sistema dualistico) e i funzionari di vertice, ma anche i
membri degli organi di controllo quali il collegio sindacale e il consiglio di sorveglianza.
In merito all’applicazione del divieto ai membri degli organi di controllo, una prima riflessione induce a ritenere che se la scelta del legislatore può senz’altro essere condivisa
per i membri del consiglio di sorveglianza, qualora lo statuto della società attribuisca a
quest’organo anche il potere di deliberare sulle operazioni strategiche dell’impresa, qualche perplessità sorge riguardo all’applicabilità del divieto anche a soggetti che svolgono
esclusivamente attività di controllo. Inoltre, la norma potrebbe far sorgere qualche dubbio sulla sua portata laddove, nel sancire il divieto, fa riferimento a cariche “analoghe” in
imprese concorrenti. Il dubbio pare fondato se si considera che l’AGCM, nella Segnalazione
AS901, ha chiesto il rafforzamento del divieto “eliminando il riferimento ‘analoghe’ alle cariche incompatibili”. Benché lo escluderei, viene da chiedersi se con tale aggettivo il legislatore abbia voluto in qualche modo limitare l’operatività della norma in maniera tale
da consentire, ad esempio, al membro del consiglio di amministrazione della società X di
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essere membro del collegio sindacale del concorrente Y. Va inoltre notato che il divieto
riguarda “l’assunzione o l’esercizio” di cariche in concorrenti. La circostanza che il legislatore abbia utilizzato il disgiuntivo “o” induce a ritenere che il divieto dovrebbe intendersi
operativo anche nel caso in cui un dato esponente aziendale eserciti di fatto, quindi senza
che sia intervenuta una formale nomina e accettazione, una carica analoga presso un
concorrente.
Il secondo comma dell’articolo 36 dispone che “Ai fini del divieto di cui al comma 1, si
intendono concorrenti le imprese o i gruppi di imprese… che operano nei medesimi
mercati del prodotto e geografici”. Viene da chiedersi se il divieto sia operativo unicamente tra imprese appartenenti a uno dei tre settori (credito, assicurativo e finanziario)
o se, invece, sia da intendersi in maniera estensiva e quindi possa trovare applicazione
anche tra imprese appartenenti a settori diversi, come sembra suggerito dall’AGCM nella
Segnalazione AS901 nella quale si chiede di modificare l’articolo 36 in maniera tale da
esplicitare che per l’applicabilità del divieto deve farsi riferimento all’insieme delle attività svolte dal gruppo. Se consideriamo che i gruppi bancari italiani sono, nella norma,
costituiti da istituti di credito e da altri intermediari finanziari cui molto spesso le banche delegano attività per le quali sono state autorizzate in prima persona (ad esempio,
deleghe di gestione a SIM o SGR del gruppo), verosimilmente il divieto dovrebbe essere
inteso come operativo anche tra imprese dei settori del credito e finanziario. In una
interpretazione ancora più estensiva della norma, si potrebbe addirittura ipotizzare che
il divieto sia operativo tra banche e assicurazioni. L’ultima parte del comma in analisi,
nel fare riferimento a concorrenti che operano nei medesimi mercati del prodotto e geografici, sembrerebbe far propendere per una portata meno estensiva del divieto che,
quindi, dovrebbe essere operativo solo tra imprese che siano concorrenti a livello orizzontale (credito/finanziario – credito/finanziario e assicurazione – assicurazione). Una
riflessione ulteriore va fatta però in relazione ai conglomerati finanziari di cui al d.lgs. 30
maggio 2005 n. 142, costituiti da imprese attive in tutti e tre i settori colpiti dal divieto.
Il d.lgs. 142 individua i conglomerati finanziari al fine di sottoporre gli stessi a forme di
vigilanza supplementare e, quindi, non per finalità di tutela della concorrenza. Peraltro,
fra le varie condizioni che il d.lgs. 142/2005 pone per l’individuazione dei conglomerati, vi è anche quella in cui il gruppo conglomerale è sottoposto a direzione unitaria
per il fatto che gli organi di amministrazione, direzione e controllo sono costituiti dalle
stesse persone. Pertanto, è il caso di chiedersi se e in che misura le autorità preposte
all’applicazione dell’articolo 36 daranno una rilevanza anti-trust al gruppo conglomerale e giungeranno, per questa via, a considerare operativo il divieto anche fra banche
e assicurazioni.
Contrariamente a quanto previsto dalla disciplina statunitense degli interlocking directorates, l’articolo 36 non prevede delle soglie de minimis sotto le quali il divieto non è ope1
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rativo. Questa scelta, se confermata nella prassi, è discutibile in quanto comporterebbe
l’applicabilità del divieto anche all’esponente aziendale di un’impresa di rilevanza nazionale che ricopra una carica analoga in un’impresa di rilevanza locale. In dottrina è stata
evidenziata, invece, l’opportunità di consentire deroghe per tali casi, in considerazione
degli effetti positivi, in termini di efficienza e competitività, che l’esperienza del grande
manager potrebbe portare alla piccola impresa.
La violazione del divieto è sanzionata con la decadenza da entrambe le cariche per le
quali il divieto è operativo. Nei particolari, il comma 2-bis dell’articolo 36 offre all’esponente aziendale che sia titolare di cariche incompatibili la possibilità di optare, nel termine di 90 giorni dalla nomina, per una delle due cariche. Qualora l’opzione non venga
esercitata nel predetto termine, l’esponente aziendale decade da entrambe le cariche e
la decadenza va dichiarata dall’organo competente interessato nei 30 giorni successivi o
non appena venga a conoscenza della violazione del divieto. In caso di inerzia dell’organo, la decadenza viene dichiarata dall’Autorità di vigilanza di settore competente.
Il divieto troverà applicazione non solo nei confronti degli esponenti aziendali di nuova nomina ma anche nei confronti di quelli già in carica alla data di entrata in vigore
del Decreto Crescita. Infatti il comma 2-ter dell’articolo 36 dispone che, in sede di prima
applicazione del divieto, il termine per esercitare l’opzione è di 120 giorni dall’entrata in
vigore della legge di conversione del Decreto Crescita. Questo termine dovrebbe scadere
il prossimo 25 aprile 2012.
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