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Consumo, dunque sono

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Consumo, dunque sono
Consumo, dunque sono
Le origini della società dei consumi
Il fenomeno del consumismo viene tradizionalmente fatto iniziare con la seconda
rivoluzione industriale, quel processo di sviluppo industriale che si determinò alla fine del
XIX secolo e che trova il suo sostegno filosofico nella corrente del Positivismo,
movimento caratterizzato dall’esaltazione della scienza. Questo sviluppo, migliorando le
condizioni di vita dei ceti medi, determinò da parte loro una sempre maggiore presa di
coscienza dei propri diritti, tanto che i proletari in molti paesi industrializzati iniziarono a
riunirsi in sindacati e in movimenti protesta.
Di vera e propria società dei consumi, però, non si può parlare prima della fine della seconda
guerra mondiale. Quando i paesi allineati con il blocco statunitense accettarono gli aiuti del
“piano Marshall”, non ci fu solo l’importazione di beni di prima necessità e di grandi quantità
di denaro, ma anche di un modello economico da seguire. Le industrie dell’europa occidentale
cominciarono di nuovo ad incrementare i livelli di produzione, ci fu una vera e propria
esplosione di consumi, non a caso chiamata "boom economico". Nei Paesi occidentali del
piano Marshall le condizioni di vita materiali migliorarono enormemente: anche le persone
dei ceti più bassi potevano godere di un benessere prima riservato solo a
ristrette élite privilegiate.
Il consumismo è una conseguenza delle scoperte scientifiche?
Il modello del consumismo imposto alle società occidentali non è tuttavia una conseguenza né
diretta né immediata del benessere economico, così come non è direttamente correlato al
progresso scientifico: basti pensare al fatto che la civiltà alessandrina, pur conoscendo un
progresso scientifico mai sperimentato prima e pur disponendo di scoperte scientifiche di
valore assoluto, come quelledi Archimede e di Erone (queste ultime non a caso utilizzate per
scopi puramente ludici), non aveva mai avvertito l'esigenza di tradurlo in progresso
tecnologico, né di porre la tecnologia al servizio di una produzione di tipo pre-industriale, né
men che meno di incentivare il consumo di beni a tutti i costi. Il pericolo era stato avvertito
anche nell'antichità: voci di netto dissenso nei confronti di una civiltà dell'apparire anziché
dell'essere si erano levate già nel periodo ellenistico (si pensi alla filosofia cinica ed in
particolare
al
disprezzo
di Diogene per il
possesso
dei
beni
materiali,
ed
in
Roma alle Satire di Giovenale). Tuttavia nulla di paragonabile alla civiltà dei consumi si
determinò in Occidente prima del Novecento, perché in precedenza il consumo
sovrabbondante dei beni materiali era riservato alle classi dominanti, mentre i ceti più bassi
possedevano solo lo stretto necessario per la sopravvivenza.
Le caratteristiche del consumismo
Il
modello del
consumismo è,
come
già
illustrato
in
precedenza,
di
matrice
chiaramente statunitense: la presenza stessa dei soldati yankee nell'ultima fase del conflitto
condizionò le scelte di vita degli europei, imponendo al grosso pubblico prodotti fino ad allora
quasi sconosciuti nel mercato nazionale: gomma da masticare, cioccolata, sigarette, dischi...
Una tipica "famigliola felice" americana del 1956
Tutti, in questo modello, sono tenuti ad essere consumatori, e più precisamente, nell'ottica
di Henry Ford, consumatori dei prodotti che essi stessi producono (in questo caso le
automobili), in un circolo vizioso che, se da una parte appare poco sensato (si consuma per
poter produrre e si produce per poter consumare, a prescindere dagli effettivi bisogni
individuali), dall'altra garantisce però opportunità lavorative, e quindi di benessere materiale,
mai sperimentate in precedenza. A tutto questo gli USA conferiscono il nome di "democrazia"
e di "modernità", le due parole d'ordine della seconda metà del Novecento. Va notato
che questo fenomeno, nella vecchia Europa (non negli Stati Uniti), si associò alla
promulgazione di leggi ispirate dal Welfare state britannico (assistenza sanitaria, pubblica
istruzione, indennità di disoccupazione, sussidi familiari, previdenza sociale etc.), che ebbero
l'effetto di diminuire drasticamente le diseguaglianze economiche. E questo è precisamente
ciò che chiamiamo "civiltà".
La pubblicità, la televisione e l’omologazione
Nel secondo dopoguerra ci fu un generalizzato aumento della domanda dei beni di consumo,
ma era evidente che il mantenimento di questa prosperità era strettamente legato
alla continua espansione della domanda di beni, vale a dire al loro consumo. I cittadini
cominciarono a essere indotti a desiderare beni di cui non avevano alcun bisogno mediante il
plagio della pubblicità, senza la quale la civiltà dei consumi non potrebbe nemmeno esistere.
Un fenomeno che tra i suoi pionieri annovera l’illustratore francese Toulouse Lautrec, che
utilizzò sapientemente i manifesti pubblicitari per promuovere gli artisti parigini del suo
tempo e soprattutto Edward Bernays, che negli anni ’20, quando il fumare sigarette era
ancora una prerogativa maschile, finanziato da una grande compagnia di tabacchi, convinse le
Suffragette, attraverso finte manifestazioni, che fumare fosse un rivoluzionario gesto di
libertà, aprendo così alla compagnia un nuovo grande mercato.
Per costringere le persone al consumo forzato di merci anche perfettamente inutili, fu
inventato il sistema delle rate, delle cambiali e dei mutui, che determinarono un generale e
alla fine deleterio indebitamento. Nelle case non solo borghesi, ma anche operaie, fecero
quindi la loro comparsa beni non strettamente necessari alla sopravvivenza, come radio,
televisioni, automobili, frigoriferi, aspirapolvere e lavatrici. Effetto non secondario di questo
sgravio di lavoro dovuto all'aiuto delle macchine è la nascita del cosiddetto "tempo libero" e
del concetto di "vacanza". La gente incominciò a pensare non solo a come vivere, ma a come
godersi la vita: dove e come trascorrere le vacanze e i week-end, naturalmente spendendo
molti soldi, cominciò a diventare un "problema". Tutto ciò coincise con una fase di espansione
senza precedenti dell'economia di Paesi come Stati Uniti, Canada, Giappone ed Europa
occidentale.
Contro questo dilagare del consumismo, tuttavia, si levarono presto le voci di alcuni
intellettuali, che in varia misura si ispiravano alle teorie del valore di Karl Marx, il quale già
aveva individuato nel capitalismo una tendenza al consumo che aveva chiamato "feticismo
della merce": da ricordare i filosofi della Scuola di Francoforte, Italo Calvino con il
suo Marcovaldo e Francis Scott Fitzgerald, che ci consegna un vero e proprio monumento
alla solitudine dell'uomo nell'era del dio Denaro con il romanzo Il Grande Gatsby.
Tutto questo creò le premesse per il movimento del Sessantotto, che ebbe tra i suoi bersagli
polemici anche la legge dell'accumulo e del consumo tipica della società borghese. Pier Paolo
Pasolini denunciò l'omologazione del modello consumistico, giudicandola negativa poiché
tende ad appiattire le caratteristiche regionali e locali, oltre che individuali, ma oggi
quest’omologazione è chiamata "globalizzazione" e ha generalmente un significato positivo.
Nei primi anni di governo della Democrazia Cristiana, Pasolini arrivò a sostenere che “gli
italiani erano più felici durante il fascismo”.
Il principale esito figurativo di questo movimento è la pop art di Andy Warhol, che
provocatoriamente porta gli scaffali di un supermercato all'interno dei musei, a dimostrazione
del fatto che l'arte, nella società dei consumi, ha perso ogni aura di sacralità ed è divenuta essa
stessa un prodotto di consumo come un qualsiasi altro prodotto commerciale.
Possiamo affermare che questa protesta è fallita: il modello consumistico infatti è proseguito
indisturbato,
a
parte
la
sporadica
contestazione
dei
movimenti no-global,
e
se
ora scricchiola pericolosamente, si vedano le continue crisi economiche che ci affliggono, è
proprio perché le sue fondamenta non sono solide. Nel frattempo altre voci di intellettuali ed
artisti si sono levate contro la mostruosità disumanizzante della società dei consumi, e fra
queste Fight Club di Chuck Palahniuk del 1996, un romanzo (da cui è tratto il film di
culto del 1999) interamente imperniato sul consumismo e sull'alienazione dell'uomo
moderno. "Tu non sei il tuo lavoro, non sei la quantità di soldi che hai in banca, non sei la
macchina che guidi, né il contenuto del tuo portafogli, non sei i tuoi vestiti di marca" ricorda
Tyler Durden a Jack, il protagonista di Fight Club.
Edward Norton (Jack) e Brad Pitt (Tyler) in una scena di Fight Club
La povertà è diminuita grazie a questo modello?
La cosa più disturbante del consumismo è la sua ipocrisia: esso infatti si spaccia per una
"filosofia di vita" tesa a garantire a tutti il benessere, eppure anziché far diminuire il
divario tra ricchi e poveri, lo ha aumentato: solo una percentuale minima della popolazione
mondiale può godere di uno stato di agiatezza, sulle spalle di miliardi di poveri. Nel 2006 le
Nazioni Unite non hanno trovato un accordo per raccogliere 30 miliardi di dollari che
sarebbero stati destinati a 2,6 miliardi di poveri nel cosiddetto "terzo mondo", eppure nello
stesso anno sono stati spesi più di 1,500 miliardi di dollari in armi e dieci presidenti dei
maggiori istituti finanziari statunitensi si sono attribuiti 23 miliardi di dollari in premi e bonus
senza provocare scandali.
E noi occidentali ne abbiamo beneficiato?
Sono aumentate in modo esponenziale le patologie connesse con un uso scorretto dei
prodotti e con la cattiva alimentazione, e saranno ovviamente destinate ad aumentare
ulteriormente in seguito all'imposizione a livello mondiale degli OGM; aumentano le malattie
sociali, come la depressione, la solitudine, i suicidi, la disoccupazione, il calo delle nascite;
soffochiamo
tra i
rifiuti e
i
veleni
dellediscariche,
mentre il
pianeta
si
sta
autodistruggendo. È stato calcolato che negli ultimi 250 anni le attività umane hanno emesso
nell’atmosfera 1785 Gton (miliardi di tonnellate) di anidride carbonica, di queste 775 Gton
sono ancora nell’atmosfera e hanno già causato un aumento della temperatura media di +0,7
°C, mentre le restanti 1010 Gton sono state in gran parte assorbite dal mare, il cui pH è calato
da 8,179 a 8,069 causando problemi devastanti alla fauna marina, che costituisce, tra l’altro,
una grande fonte di cibo per la nostra alimentazione.
Almeno siamo più felici?
La New Economics Foundation nel 2009 ha svolto un’inchiesta (Happy Planet Index) dalla
quale risulta che tra i paesi più ‘felici’, cioè quelli che hanno un maggiore benessere di vita
percepito, ci sono nelle prime posizioni quelli con un PIL e un indice di sviluppo molto bassi,
come Costa Rica e Repubblica Dominicana, che hanno ottenuto il 1° posto, mentre se l’Italia è
al 69°, gli U.S.A. si trovano al 114° posto.
In verde i Paesi con il maggiore benessere di vita percepito
Cosa concluderne?
Difficile emettere un giudizio sereno e non dettato da emotività, se si considera che i vantaggi,
nel campo della medicina, dei viaggi, delle comunicazioni, sono innegabili. D'altra parte, prima
di demonizzare le conquiste del "progresso", per quanto discutibile sia questo concetto,
sarebbe il caso di soffermarsi a riflettere sul fatto che dalle macchine dipende spesso la
salvezza degli esseri umani (si pensi agli ospedali) e che tutto sommato, se gli
intellettuali greci e latini potevano permettersi il lusso di dedicare molto tempo all'otiumed
al pensiero puro, era perché legioni di schiavi lavoravano per loro (contraddizione della
quale Seneca e Plinio il Giovane si rendevano ben conto e su cui Nietzsche pesantemente
ironizza, mettendo in ridicolo le pretese di "libertà" degli schiavi moderni). Il fatto è che
occorrerebbe, citando Richard Heinberg, "ammettere che è stata solo una festa formidabile,
ma adesso è finita e bisogna far pulizia dietro di noi e preparare i luoghi per quelli che
verranno in seguito”. Ipotesi molto difficile da realizzare: abitiamo un mondo finito
utilizzando costantemente le risorse che esso ci concede come fossero infinite.
Si può ancora giustificare l’incuria nei confronti del futuro se, come Schopenhauer,
giudichiamo che la vita è una faccenda che non vale la pena, risparmiando alle future
generazioni il mal di vivere.
Ma non è meglio basarsi sulla filosofia della maggior parte delle culture non occidentali?
Per misteriosa che sia, la vita è un dono meraviglioso.
Un dono che noi siamo riusciti a trasformare in una mela avvelenata. Il primo passo per
cambiare le cose è guardarci allo specchio e riconoscere che il nostro stile di vita non solo è
insostenibile, ma non ci rende nemmeno felici.
"Voglio che tu mi colpisca. Più forte che puoi." dice Tyler Durden a un allibito Jack in Fight
Club. E' l'inizio di un percorso di risveglio, e il risveglio è necessariamente brutale: perché,
come afferma lo stesso Nietzsche nei Frammenti postumi "la verità è brutta", ma bisogna
guardarla in faccia per poter essere liberi.
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