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La nuova - La Repubblica.it
Domenica
La
di
DOMENICA 8 MAGGIO 2005
Repubblica
il fatto
Ivan e Luise, amore e guerra fredda
SANDRO VIOLA e GIAMPAOLO VISETTI
il racconto
Molly, la vita di una bambina
MARIA STELLA CONTE e CONCITA DE GREGORIO
La nuova
Londra
Repubblica Nazionale 25 08/05/2005
di Blair
Dopo otto anni di New
Labour, l’antica capitale
dell’impero è la vera capitale
d’Europa. Ce la racconta
un testimone d’eccezione
JOHN LLOYD
T
LONDRA
ony Blair è sempre stato un politico fortunato: tuttora lo
è, anche mentre inizia il suo ultimo periodo in carica,
primo leader laburista a dar vita a un governo di tre mandati consecutivi e a poter definire il Labour «il naturale
partito di governo». Il suo compleanno (ha 52 anni, giovane età per
un politico) è caduto venerdì, mentre formava il suo nuovo esecutivo. Ha una famiglia numerosa e giovane, una moglie di talento e con
una buona carriera professionale, è in salute e ha un forte carattere.
Una grossa parte della sua fortuna, della proficua eredità che
gli è pervenuta dagli anni in cui al potere c’erano i conservatori,
è la capitale, la città di Londra. Negli anni Novanta e tanto più oggi, negli anni Duemila, Londra gode di una nuova epoca di grandeur. Non si tratta di una grandeur imperiale, come nel XIX secolo: al contrario, essa è decisamente post-imperiale, calza a
meraviglia, come un guanto, alla nuova dialettica Labour. La sua
energia post-imperiale integra perfettamente il post-industria-
lismo del paese e il post-socialismo del nuovo Labour. Il New Labour è il prodotto della New London.
Nel 1996, quando divenne chiaro che il New Labourstava per arrivare al potere e che i conservatori non esprimevano più la vera
anima del Paese, il giovane e brillante ricercatore di un think tank
scrisse un pamphlet intitolato Rebranding Britain. Lo studio di
Mark Leonard fu immediatamente inviso sia alla vecchia destra
che alla vecchia sinistra, perché esso descriveva la rinuncia a un futuro plasmato dal socialismo e al tempo stesso la lieta accettazione del fatto che questo futuro — che sarebbe stato sostenuto dai
mercati e dalle leggi di mercato — sarebbe stato multiculturale,
aperto al mondo, animato da scambi di vedute su ciò che l’identità
britannica rappresenta, fortemente europeo. Esso è stato, per così dire, una sorta di testamento per la nuova intellighenzia cosmopolita, scritto a Londra (da un autore cresciuto tra Londra e Bruxelles) e inconsapevolmente un manifesto per la città di Londra.
Londra è sovversiva nei confronti dei vecchi valori Labour, ma
sostiene quelli del nuovo Labour.
(segue nella pagina successiva)
con un servizio di ENRICO FRANCESCHINI
i luoghi
Stevenson, cercando i fari di famiglia
STEFANO MALATESTA
cultura
Landolfi, uno scrittore sotto sequestro
CURZIO MALTESE
spettacoli
Il flauto magico e il gioco di Mozart
LEONETTA BENTIVOGLIO
26 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 8 MAGGIO 2005
la copertina
Capitale internazionale
L’economia, l’arte, lo sport e la cucina: Londra attraversa
un’epoca di splendore, dove il capitalismo degli affari
e le diverse culture della società multietnica si integrano
mettendo in circolo energie positive. Una nuova metropoli
che è il prodotto del “New Labour” di Blair. Anche
se adesso, come per il premier, arrivano le sfide più difficili
La città dalle mille anime
Qui arrivano
gli uomini d’affari
e i giovani
più talentuosi
I MITI
ANNI ’50
La città conosce un periodo di
boom economico ma anche di
fermento sociale: emergono i
movimenti giovanili dei Teddy
Boys e del Mod e si afferma
Cliff Richard, la prima grande
star del rock ‘n’ roll britannico.
Nel ’56 cominciano a circolare i
primi bus rossi a due piani
ANNI ’60
È l’era della Swinging London:
Mary Quant inventa la
minigonna che, anche grazie
alla giovanissima top model
Twiggy, impone al mondo una
moda. Rivoluzione musicale
con i Beatles e i Rolling Stones
ANNI ’70
Londra diventa la capitale del
punk, il movimento che incarna
lo spirito ribelle delle nuove
generazioni, provate dalla
depressione economica che
travolge la città e dalla paura
degli attacchi dell’Ira. La
colonna sonora è “God Save
the Queen” dei Sex Pistols
JOHN LLOYD
(segue dalla copertina)
la città capitalista per eccellenza: suo cuore pulsante è
la City, il distretto finanziario che ormai si estende dal
cuore della vecchia City che
sorge intorno alla cattedrale di St. Paul a quelle che erano le grandi banchine del porto londinese. Negli
ultimi due decenni questo centro finanziario è diventato ancor più importante: perfino la creazione dell’euro, al
quale la Gran Bretagna ha deciso di non
aderire, non ha determinato la migrazione a Francoforte o altrove di molte
sue attività. Questo è il motore di una
ricchezza prodotta senza fumo, senza
sporcizia e senza classe operaia. Essa
permette alla diversità culturale di prosperare, consente il passaggio dalla
cultura del progresso della classe lavoratrice alle classi colte e accademiche,
facilita il sostegno a cause nuove —
quali il femminismo, l’antirazzismo,
l’emancipazione dei gay — che ben si
armonizza all’economia di mercato. In
questo modo Ken Livingstone, il sindaco di sinistra di Londra, ha vita facile
nella sua posizione, poiché al pari del
Labour Party — dal quale era stato
espulso e nel quale adesso è rientrato
— egli ha abbracciato il nuovo progressismo, lasciandosi alle spalle il passato.
Quando Tony Blair ha assunto la leadership del suo partito, Londra stava
iniziando a essere considerata alla
stregua di una leader tra le capitali del
mondo. In Gran Bretagna la città non
aveva rivali da tempo: non è da Londra
spartire il potere con un altro potente
centro commerciale o mediatico, così
come Roma deve fare con Milano, o
Berlino con Francoforte e soprattutto
Washington con New York. Soltanto
Edimburgo, la capitale della Scozia, si
vanta di poter contendere a Londra il
ruolo di centro culturale e politico, ma
la sfida non è delle più grandi e nessun
altro oltre agli scozzesi vi presta attenzione. Le altre grandi città inglesi —
Birmingham, Manchester, Bristol,
Newcastle — hanno trascorso gran
parte dell’ultimo mezzo secolo impegnate a riprendersi dai rispettivi vari
stadi di declino industriale. In linea di
massima ci sono riuscite e sono luoghi
più gradevoli oggi, pur non avendo alcun peso politico e non potendo essere altro che città di provincia.
Tra le altre grandi capitali del mondo, Berlino deve tuttora riaffermarsi
È
come un’unica città unita ed è finanziariamente al limite delle proprie possibilità; Roma resta magnifica, ma è un
calderone politico nel quale intercorrono continue fluttuazioni di potere e
di influenza tra il Vaticano e il Parlamento; la grandeur di Madrid è insidiata da Barcellona e la sua autorità è contestata da alcune regioni, soprattutto
Catalogna e Paesi Baschi; Tokyo oggi è
finanziariamente in crisi ed è sempre
stata per gli stranieri e specialmente
per gli europei diversa in modo estenuante; Washington è una città che vive solo per il potere, profondamente
divisa dal punto di vista razziale, con
un centro che di sera e nei weekend si
svuota completamente; Mosca tuttora
risulta poco accogliente con la sua glaciale imponenza semi-asiatica e semisovietica, con qualche meraviglia qua e
là, negletta e sommersa dalle brutture
dell’ultimo secolo.
Soltanto Parigi compete con Londra:
agli occhi dell’intellighenzia britannica e della sua classe reggente, la Francia è la rivale di sempre, l’unico vecchio
Stato europeo col quale essa abbia rivaleggiato per oltre un millennio, con
spargimento di sangue o del tutto pacificamente, per il potere, l’autorevolezza e la supremazia. Parigi è imponente,
in modo più formale: Londra ha ben
poco per competere con i suoi grandi
viali, concepiti appositamente per enfatizzarne la grandeur; ha poco per reggere il confronto con i boulevard di
Haussman e le sue prospettive. Parigi è
tuttora una città maggiormente interessata a proiettare l’immagine di uno
Stato francese come faro culturale: nella creazione del centro Pompidou, nel
rifacimento del Louvre, nella splendida riconversione della Gare d’Orsay in
Museo d’Orsay, Parigi porta avanti
molto bene la propria tradizione.
Ma Parigi non regge il confronto su
quello che è diventato un elemento caratterizzante — e molto New Labour —
della grande città moderna: non ha saputo procedere bene come Londra nel
fornire una casa accogliente alle diverse culture. Tutti coloro che visitano
Londra — e molti di coloro che la abitano — sono impressionati dalla sua diversità culturale: la varietà di colore
della pelle e le lingue diverse che si incontrano per le strade; l’insieme di
chiese, templi, moschee, sinagoghe e
centri di culto; l’evidente mescolanza
delle razze in gran parte dei quartieri
della città. Questo è il trionfo del postimperialismo: la capacità di lasciare
spazio a quelli che un tempo erano i popoli dell’impero in Africa, nelle Indie
Occidentali, in India e nell’estremo
oriente, così come ai “bianchi del Commonwealth”, provenienti dal Canada,
dall’Australia, dalla Nuova Zelanda, e
ai bianchi d’Africa. Parigi, invece, per
gran parte del XX secolo è stata luogo di
rifugio di russi, nordafricani e artisti
americani, e oggi resta in gran parte ciò
che era: più spesso definita dalle patologie razziali, con le bidonville che la
circondano e che alimentano la povertà, la violenza e la paura.
Londra — e Blair con lei — è stata for-
tunata altresì nel predominio dell’inglese. A Londra (anche in altre città britanniche, ma soprattutto a Londra) arrivano i giovani di vari Paesi. Nella City
di Londra approdano dirigenti di talento provenienti da tutta Europa e
dall’America; e nei club di calcio di
Londra arrivano calciatori stranieri.
Quando negli anni Settanta il giornalista italiano Beppe Severgnini arrivò a
le interviste
Parla Vivienne Westwood, la regina della moda inglese
“C’è un’opportunità per tutti”
ivienne Westwood, lei che è la
regina della moda inglese e
che sta nella casa che fu di Capitan Cook, come vive nella Londra di Blair?
«Sono una laburista convinta e sto dalla sua parte,
anche se non gli ho mai perdonato la scelta di fare la
guerra in Iraq. Però ha anche dei meriti. Ha rilanciato
Londra, uscita con le ossa
rotte dopo la cura Thatcher, facendola tornare ad essere la vera capitale europea, il nuovo ombelico del mondo».
In che senso?
«C’è vitalità e grande energia. Londra è la città degli estremi, qui arrivano giovani da tutto il mondo, sia quel-
V
li ricchi che studiano nei nostri college, sia quelli con pochi soldi in tasca
ma con un grande talento da esprimere».
In concreto, cosa ha fatto
Blair per fare di Londra una
capitale internazionale?
«Partiamo da un dato di
fatto. La City è piena di uomini d’affari italiani, i grandi magazzini come Harrods, sono in mano a facoltosi arabi, le case più belle di Londra
appartengono alle grandi famiglie indiane. La verità è che Londra è una
“città aperta” che sa accogliere e offrire opportunità a chiunque abbia uno
spirito imprenditoriale».
(laura asnaghi)
Lo scrittore Kureishi: bene la società più multietnica
“Ma per i poveri è ancora dura”
«C
ool Britannia? è solo un’etichetta inventata dal
marketing. Può essere vera per alcuni, ma falsa per
molti». Scrittore di origine
pachistana, Hanif Kureishi è uno degli intellettuali
più glamour della Londra
di Blair.
Com’è stato vivere a Londra in questi otto anni?
«Le cose sono peggiorate negli ultimi cinque e le prospettive non sono
rosee: disoccupazione crescente,
economia in flessione. la gente si chiede se ci saranno ancora scuole pubbliche decenti e assistenza sanitaria gratis. Per non dire dei soldati che muoiono in Iraq».
Non nota differenze rispetto ai governi Tory?
«Oggi c’è una società più mista, grazie all’immigrazione. Ma i
ceti bassi perdono terreno,
proprio come accadde con
la Thatcher. Alcuni dei successi di Blair, come la sicurezza nelle città, sembrano i
tipici risultati di politiche di
centro-destra».
Che dovrebbe fare un buon governo per migliorare la situazione?
«Rimodulare le tasse a favore dei
poveri. A Blair riconosco di aver fatto
investimenti per la scuola primaria
ma non perdonerò mai l’intervento
contro Saddam».
(riccardo staglianò)
DOMENICA 8 MAGGIO 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 27
DA NON PERDERE
Il ristorante: Hakkasan, ristorante cinese
“fusion”, atmosfera da fumeria d'oppio
L’albergo: l’hotel Sanderson, disegnato da
Philippe Starck, e luogo di ritrovo della notte
Il teatro: “Philadelphia story”, diretto e
interpretato da Kevin Spacey, all'Old Vic
20%
28mln
La mostra: la Turner-Whistler-Manet
alla Tate Britain
Il night club: “Tropicana”, ristorante-dancing
cubano, ispirato a quello di Hemingway
La squadra: il Chelsea appena laureato
campione d'Inghilterra
I turisti che ogni anno
visitano la città
815 euro
L’affitto settimanale
di un monolocale in centro
L’aumento annuale
dei prezzi degli immobili
103 euro
Il costo dell’abbonamento
mensile ai mezzi pubblici
Il titolo assegnato da una ricerca Eurostat
Numeri da record
è prima in Europa
ENRICO FRANCESCHINI
FOTO ZEFA
C’
che vive nel futuro
Londra per imparare l’inglese trovò
(come ha descritto più volte) un Paese
pieno di gente vestita male e in modo
ordinario, cibo pessimo e una totale
noncuranza per il comfort. Un po’ di
tutto ciò sussiste ancor oggi, ma molto
meno. Fare una passeggiata in una
strada londinese del centro significa ritrovarsi ad ascoltare la gente parlare in
svedese, russo, italiano, arabo. L’altra
sera, mentre me ne tornavo a casa, un
gruppo di lettoni mi ha chiesto indicazioni per trovare un ristorante portoghese. Più tardi insieme a mia moglie
(italiana di Firenze) siamo andati a vedere un film tedesco (Downfall) in un
cinema vicino Hyde Park. Dall’altra
parte della strada rispetto al cinema c’è
quell’angolo noto con il nome di
Speaker’s corner, per molti decenni
luogo tipicamente britannico, nel quale persone alquanto eccentriche si recavano spesso per parlare alla folla di
tutto ciò che gli passava per la testa. Ma
la strada dove c’è il cinema, Edgware
Road, una delle strade centrali di Londra, è oggi in gran parte araba: vi si trovano caffè libanesi con i tavoli all’aperto, e i camerieri servono caffè e paste
agli arabi che indossano maglie di jersey nella fresca primavera londinese.
Questo mix culturale, questa energia, ha portato a Londra quello che Londra non aveva e di cui la sua middle class
si era lamentata per gran parte del periodo post-bellico: una cultura culinaria. Qui gli italiani e i francesi sono stati
dei missionari: se da un lato tuttora vi si
trova qualche buon ristorante francese, sono gli italiani ad aver conquistato
la piazza. Ovunque ci si imbatte in pizzerie e negozi di pasta, e in molti quartieri si trovano tante trattorie quante a
Roma. I loro diretti concorrenti sono gli
indiani con i loro ristoranti — dagli
standard decisamente migliorati — il
cui piatto più famoso, il “chicken tikka
masala” è un’invenzione esclusiva inglese, descritta dall’ex segretario degli
Esteri Robin Cook come il piatto nazionale. Il punto debole, anzi, diciamo pure la mancanza di una cultura culinaria
britannica, si è trasformato nel punto
di forza contemporaneo: perché in una
stessa città oggi si può avere il meglio —
o quanto di più vicino possibile vi sia al
meglio — delle cucine di ogni parte del
mondo, e perché per la prima volta dopo secoli gli inglesi hanno iniziato a interessarsi al cibo che mangiano e ad
informarsi su di esso.
Io, nato in Scozia e cresciuto in un villaggio di pescatori, sono arrivato a Londra da giovane giornalista e qui sono rimasto: questa è diventata la mia casa,
alla quale faccio ritorno in tutta naturalezza dopo essermi recato all’estero
per lavoro. È diventato il luogo di na-
scita e la casa di mio figlio, il paese semi-adottivo di mia moglie, italiana. Io
sono uno dei suoi molti abitanti fortunati, avendo la preparazione e la capacità di sentirmi a mio agio nelle molte
società che la compongono e avendo
altresì la tendenza a trovare qualcosa di
valido in gran parte di esse. Durante la
campagna elettorale appena conclusa,
ho attraversato zone di questa città
nelle quali i cittadini non sono altrettanto fortunati: mi riferisco ad alcune
aree di East London nelle quali gli immigrati indiani e pachistani vivono in
relativa povertà, dove i pochi cittadini
bianchi sono pieni di risentimento e
hanno voglia di andarsene, e dove, nella circoscrizione di Bethnal Green, un
estremista politico di nome George
Galloway ha sconfitto una deputata laburista mezzo-ebrea e mezzo di colore
sull’onda della rabbia per la guerra in
Iraq dei giovani musulmani e dei giovani bianchi di sinistra. Londra in alcune sue zone è ancora una città divisa dal
punto di vista politico e razziale. In alcuni quartieri di South London le gang
afro-caraibiche spadroneggiano per le
strade. A West London, dove vivono le
grandi comunità asiatiche, si scontrano bande di bianchi e di asiatici.
Per il momento, tuttavia, Londra si
caratterizza ed è caratterizzata più dalla sua energia che dalle sue divisioni,
più dalla sua ricchezza che dalla sua
povertà, più dall’evidente varietà delle
sue culture che dalle loro reciproche
avversioni; più dalle possibilità che riserva il futuro che dai timori che esso
incute. Il primo deputato conservatore
di colore, un imprenditore milionario
la cui famiglia è immigrata dall’Africa,
è stato eletto questa settimana a Windsor, una città della middle class alla periferia di Londra, dove la Regina ha un
castello. I londinesi sono diventati più
parigini nei loro gusti culinari, più milanesi nella loro eleganza, più simili
agli abitanti di Tokyo per la loro laboriosità. Un giorno, tra non moltissimo,
Pechino, persino Delhi o Bombay, la
sfideranno per conquistare lo status
mondiale. Adesso, però, Londra vive la
sua fase post-imperiale e in linea generale resta una città New Labour, tanto
da vedere il leader del New Labour
compiere la mezza età e iniziare una
nuova vita.
Un agglomerato
multiculturale:
nemmeno Parigi
regge il confronto
I MITI
ANNI ’80
È il decennio di Margaret
Thatcher: si impoveriscono i
ceti meno abbienti ma per chi
ha disponibilità finanziarie gli
affari vanno a gonfie vele. Nella
City dominano gli “Yuppies”, il
governo vara il grande progetto
di ristrutturazione del quartiere
dei Docklands
ANNI ’90
Nel ’97 Blair vince le elezioni.
Ma nel frattempo un gruppo di
scrittori, Nick Hornby in testa a
tutti (nella foto Hugh Grant in
“About a Boy”), ha raccontato
l’ansia di voltare pagina. Con gli
Oasis arriva il nuovo Britpop
ANNI ’00
L’autore è direttore del magazine
del Financial Times e autore
di numerosi saggi sul crollo
del comunismo e sui media
(Traduzione di Anna Bissanti)
La città si rinnova. I simboli
sono il Millennium Bridge, il
Millennium Dome ma
soprattutto la Tate Modern,
sede delle grandi mostre e
punto di riferimento degli artisti
maturati nel periodo della
Britart. Sul fronte sportivo, sono
gli anni del Chelsea
LONDRA
è la Piccola Hollywood e c’è la Rive Gauche
(senza il fiume, però), c’è Billionaires Boulevard e c’è
Banglatown, c’è lo skyline alla newyorchese dei grattacieli in cui si vive soltanto di giorno e l’antro buio dei ritrovi sotterranei in cui si vive soltanto di notte, c’è la cittadella dei soldi e la cittadella del potere, quella della
moda e quella degli artisti, quella del sesso e quella dei
“gentlemen’s club”. Ci sono mille Londra, e tutte insieme fanno la Londra di Blair: la Londra che ha finito un
secolo e ne ha cominciato un altro nel ruolo di scintillante faro d’Europa, forse la vera capitale del pianeta.
Non più semplicemente London calling, canzonesimbolo di un paese che sembrò risvegliarsi nel 1997,
in coincidenza con la prima elezione di Tony Blair a
Downing street, non l’etichetta alla moda di Cool Britannia, alimentata da un paio di rock band hot e qualche fashion designer hip: bensì una reinvenzione totale dell’idea di metropoli, come scriveva il mese scorso
il settimanale americano Newsweek, dedicandole la
copertina.
Visitarla tutta, per di più in poche righe, è impossibile: un primo ministro, Benjamin Disraeli, già centocinquant’anni or sono la chiamava «nuova Babilonia, una
nazione non una città». È sempre utile, per rendersi
conto delle dimensioni, ripassare le cifre. Con sette milioni e mezzo di abitanti, la popolazione messa insieme di Roma, Parigi, Vienna, Bruxelles (e arriva a venti
milioni con gli sterminati sobborghi): la più grande
città d’Europa. Anche geograficamente: si espande su
un’area che è il doppio di New York. Verde, inoltre: il 39
per cento è composto di parchi e giardini, a cominciare dai due polmoni del centro, Hyde e Regent’s Park.
Una Babilonia, per citare Disraeli: più di trecento, fra
lingue e dialetti. La più multiculturale e cosmopolita:
ogni razza, colore, nazionalità e religione della terra
(inclusi centomila italiani). E poi, alla rinfusa: 183 sinagoghe e 130 moschee, 12200 ristoranti (tra cui dodici
dei migliori cinquanta del pianeta, secondo una recente classifica) e 5200 pub, 600 cinema e 400 teatri
(non perdete Kevin Spacey in Philadelphia Story, all’Old Vic), 18300 taxi black cab, 275 stazioni del metrò,
649 linee di autobus (a due piani rossi, sebbene stiano
scomparendo i Routemaster della leggenda), 13 squadre professionistiche di calcio, tra Premier League (4) e
serie minori. Ultimo dato, uno studio di Eurostat, ufficio statistiche Ue, che la proclama «migliore città d’Europa» per qualità della vita, con il crimine più basso, più
posti di lavoro, migliori servizi pubblici, più vivace vita
culturale, smentendo tra l’altro la sua cattiva reputazione meteorologica: si è scoperto che ha più ore di sole l’anno di Parigi o Berlino. Messa in soffitta la bombetta dello stereotipo, qui si può rinunciare pure all’ombrello.
Ora che ci siamo ricordati cos’è la Londra di Blair, andiamo a dare un’occhiatina qui e là. Partendo da nord:
ad Hampstead, villaggio di magnifiche townhouse e sinuose collinette, spetta il titolo di “rive gauche” sul Tamigi, nonostante il fiume da quassù nemmeno si veda.
In compenso c’è la borghesia illuminata, scrittori,
qualche stella del rock, intellettuali di sinistra. Un poco più a sud sorge l’altura più elevata della città, da cui
si domina un panorama spettacolare: Primrose Hill.
Una volta zona di spacciatori e piccoli delinquenti, ora
una “piccola Hollywood” dove sono andati a stabilirsi
Jude Law e Sienna Miller, Sadie Frost e Liam Gallagher
degli Oasis, Kate Moss e Pete Doherty, trasformando i
vecchi pub a base di fish and chips in raffinati gastropub dove si serve salmone norvegese e mozzarella di
bufala, portatori di uno stile di vita spregiudicato che
l’ha fatta ribattezzare, da collina “della primula” (Primrose), “collina della promiscuità”.
Scendiamo ancora. Ecco Notting Hill, l’ex-quartiere di immigrati caraibici, invaso da artisti e benpensanti, pizzerie italiane e librerie, come quella in cui
Hugh Grant faceva la corte a Julia Roberts nel film
omonimo. Avviciniamoci a un parco: ecco Kensington Palace Gardens, Billionaires’Boulevard, il viale
dei miliardari, dove il petroliere Roman Abramovich
e altri oligarchi russi stanno sloggiando gli sceicchi
arabi dalle magioni più sontuose della metropoli.
Prezzi? Meglio non chiedere, ma se insistete: 50-100
milioni di euro per una casa, se non pagate in contanti fanno 400mila euro al mese di mutuo, se preferite affittare fanno 10mila euro alla settimana per una two
bedroom, appartamento con due camere da letto (alla settimana, alla settimana: non è un errore di stampa). A proposito di Abramovich: il suo Chelsea appena laureato campione d’Inghilterra gioca qui vicino,
in fondo a King’s Road, la strada mito degli anni Sessanta, ora presidiata da una “legione straniera” di europei continentali, che ne fanno la loro Little Italy o
Little Paris.
E poi basta, perché le righe a disposizione finiscono:
tocca lasciar fuori il Gherkin (Cetriolino) dell’architetto Norman Foster e gli altri grattacieli di Canary Wharf,
nuova City finanziaria che ha soppiantato la vecchia; i
vecchi Docklands restaurati lungo il Tamigi, punteggiato di ristorantini e botteghe; la Bangladesh-Town di
Brick Lane, dove Monica Alì sceneggia il suo romanzo;
l’East End dei locali after-hour, la Soho del night-club
Tropicana ispirato a Hemingway, le conigliette del
“table-dancing” da 300 euro a mezz’ora di Stringfellow, i club per gentiluomini di Pall Mall. Le mille e una
Londra della Londra di Blair: che lui, poveretto, non
vede mai, perché non mette il naso fuori dal 10 di Downing street. Dove peraltro, grazie a una striminzita vittoria elettorale, è ben contento di restare un altro po’.
28 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 8 MAGGIO 2005
il fatto
Simboli del ‘900
Lui era un soldato russo entrato in Germania
con l’Armata Rossa, lei era una ragazza tedesca.
La caduta di Hitler li fece incontrare e innamorare.
La cortina di ferro li allontanò e la dittatura di Stalin
separò i loro destini. Adesso, dopo sessant’anni,
si sono ritrovati e sono pronti a sposarsi
La festa di Ivan e Luise
divisi dalla guerra fredda
H
IERI E OGGI
GIAMPAOLO VISETTI
Qui a sinistra Ivan
e Luise alla fine
della seconda
guerra mondiale.
Nell’immagine
sotto, la coppia
fotografata oggi
dopo 60 anni.
A destra
una donna russa
festeggia
un soldato
dell’Armata rossa
durante la
cerimonia di
benvenuto nel
maggio del 1945
Repubblica Nazionale 28 08/05/2005
MOSCA
itler casualmente li unì,
Stalin scientificamente li
divise. La seconda guerra
mondiale è stato lo sfondo del loro amore, la guerra fredda il
palcoscenico dell’addio. Ivan e Luise
sono così, involontariamente, il simbolo del secolo dei totalitarismi: gli
anonimi vincitori reali, testimoni impotenti della sconfitta del nazismo e
del crollo del comunismo. Sono sopravvissuti al Novecento. In Germania si sono amati sotto le bombe delle
truppe alleate e dell’armata rossa. In
Unione Sovietica si sono perduti grazie alla “liberazione”, presto soffocata
dalla dittatura dei servizi segreti e dallo scontro tra le grandi potenze. E ora,
sessant’anni dopo, ormai vecchi, si ritrovano e scoprono di non essersi mai
lasciati. Separati a vent’anni dalla cortina di ferro, ricongiunti a ottanta dallo stesso destino che li ha indotti a restare soli: la rivincita della cronaca minore, quella dove si cela la vita, mentre
la storia ufficiale si scontra con l’utilizzo opposto del passato. I grandi del
mondo celebrano le vittorie degli
eserciti, loro annunciano sommessamente la realizzazione di un sogno
semplice: «Finalmente possiamo partire per un viaggio di nozze».
Alla vigilia delle imponenti manifestazioni putiniane per il sessantesimo
anniversario dalla sconfitta del nazismo, non sono le parate dei veterani
ad emozionare la Russia. È la storia di
Ivan e Luise a commuovere la gente
che si sente sempre, in qualche modo,
battuta.
Ivan Byvscjkh, nel 1943, era un ragazzo siberiano del villaggio di Ponacevo. Luise Waldheim era una giovane di
Heierod, piccolo borgo della Turingia.
Un mondo in mezzo, secoli di battaglie
ed una guerra in corso, a separarli. Finché Ivan, studente modello e appassionato di letteratura tedesca, viene reclutato nel reggimento 210 della 82esima
divisione Jartsevskaja dei fanti di Stalin. Traduceva Robinson Crusoe in russo: gli mettono una vecchia baionetta
in mano. L’Urss è allo stremo, a combattere finiscono anche i ragazzini. Poi
il fronte orientale tedesco cede di
schianto e Hitler assiste impotente alla
rotta. I nazisti cadono a Smolensk, a
Minsk, a Varsavia, a Poznan e infine a
Berlino. L’armata rossa avanza. Libera
e subito occupa nazioni, rivela tutto
l’orrore dei Lager, ma pure considera
bottino di guerra le popolazioni affamate dell’Est europeo. Ivan, stupito di
essere chiamato eroe, si ritrova in quella che sarebbe presto divenuta la Ddr:
comandante di presidio.
«Non avevo mai baciato una ragazza — racconta oggi — avevo trascorso
due anni da esploratore, sabotatore e
addetto alla propaganda. Ero un ragazzo di campagna e tra compaesani
non si usa sgomitare. Il mio compito
era penetrare nelle linee nemiche e
gridare ai tedeschi di arrendersi. Strisciavo, facevo rumori con un megafono, chiedevo ad altri ragazzi come me,
ma pronti a uccidermi, che senso
avesse resistere». L’8 maggio 1945 la
Germania capitola.
Il soldato dell’Armata rossa non viene richiamato in patria. Conosce il tedesco, lo promuovono interprete di
reggimento e finisce alla censura dei
primi film americani. Ha vent’anni.
Ispeziona le pellicole e, se vede una coscia, vieta. Nel tempo che resta controlla la registrazione dei prigionieri
delle SS liberati da Mosca. È così, rinunciando a perseguitare un clandestino rimpatriato da sei mesi, che incontra Luise. «Ero andato ad arrestare
un certo Guenther Waldheim. Si nascondeva nella casa della madre. Mi
ha aperto la sorella e ho cominciato a
balbettare». L’ex nemico ottenne i documenti e rimase libero, Ivan e Luise
iniziarono a passeggiare tenendosi
per mano.
Una vita interrotta per ordini superiori. Il mondo viene diviso, Est e Ovest tornano nemici. America, Europa e
Urss si dividono il mondo. Ivan finisce
prima in Sassonia, quindi viene richiamato a Krasnojarsk. Quando parte, nel
1946, Luise segretamente gli infila un
biglietto in tasca: «Sono incinta». Chiedono a un dado, sotto la pensilina della stazione ferroviaria, quante volte si
vedranno ancora: esce l’uno. È stato il
loro ultimo segreto, fino a pochi giorni
fa. La famiglia di lei costringe la figlia ad
abortire «il frutto del nemico russo». In
un paese raso al suolo e perduto nell’orbita sovietica, essere una ragazza
madre significa morire da condannata. La gente la chiama «la stuprata dei
rossi». Anche lei ha vent’anni. Scappa
nella Germania occidentale, inseguita
dalla condanna del villaggio. Lui viene
spedito a riparare radio a Sverdlovsk.
«Per dieci anni — racconta Luise — ci
siamo scritti ogni settimana. Mai una
risposta. Ognuno di noi ha creduto che
l’altro l’avesse scordato».
È il 1956 quando il Kgb di Mosca convoca Ivan all’hotel Bolshoj Ural. I servizi segreti sovietici gli mostrano tutte le
sue lettere e quelle di lei. Oltre mille lettere d’amore. Mai partite, mai recapitate. Corrispondenza vietata, tra Impero del Bene e Impero del Male. Scrivevano baci, disegnavano due innamorati abbracciati nel buio. «O la
smette — gli viene detto — o fa la valigia per Magadan». Vuol dire che l’amore, durante la dittatura comunista, può
Quando le hanno
telefonato
per sapere se
si ricordava di un
ragazzo russo, lei ha
subito risposto:
“Certo, l’ho amato
per tutta la vita”
costare il gulag. «Mi costrinsero — dice
Ivan — a spedirle un ultimo biglietto
con due parole false: mi sposo. Un ufficiale del Kgb scrisse, io ho dovuto firmare». Così, anni dopo, però fu. Due
matrimoni senza mal di pancia, tre figli e due separazioni. Il prezzo per non
morire in un campo di concentramento, privato di carta e penna, di cuore e
di cervello.
Anche Luise si rassegna: nozze con il
secondo uomo che glielo chiede e divorzio. Niente figli. Sarebbe finita così,
se la generazione di Breznev non avesse accompagnato l’Urss verso il tramonto. Invece spunta un marziano
che si chiama Gorbaciov, parla di perestrojka. Viene abbattuto il Muro di Berlino, l’Unione sovietica si sfascia, la
Germania ritorna unita, l’Europa centro-orientale riassapora la libertà.
«Mia figlia Lena — racconta Ivan —
ascoltava i miei ricordi. Piangeva sulle
lettere che non avevo smesso di scrive-
re alla donna che non era sua madre.
Mi scopriva a impilare le buste in un armadio. Ancora terrorizzato dai servizi
segreti, non ci pensavo nemmeno ad
imbucarle. Dopo oltre quarant’anni,
una lettera finiva così: “Dove sei, Lisetta, rispondi”. Mi ha convinto a fissare
in un libretto la nostra storia». Titolo:
Vanja e Lizchen. Dedica: “A mia figlia,
che sa”».
Il rimpianto del veterano staliniano
perseguitato da Stalin, la leggenda delle lettere d’amore archiviate dal Kgb in
quanto «documenti anti-sovietici» cominciano a girare tra gli amici. Finchè
Natalja Barscevskaja spedisce i ricordi
di Ivan alla figlia Anna, sposata in Germania. Anche qui il libro passa di mano in mano. Viene fotocopiato: lettori
e lettrici occasionali iniziano quasi per
gioco le ricerche della donna inghiottita da un amore e da due guerre. «Ho
sperato quasi — rivela Ivan — che non
la trovassero. Pensavo: sarà sposata,
avrà avuto altri bambini, vivrà felice.
Mica posso ripresentarmi, dopo oltre
mezzo secolo». Alcuni mesi di tentativi a vuoto. Il fratello Guenther è morto,
il sindaco del paese natale non l’ha mai
vista. Ricorda però il racconto della ragazza tedesca a cui fu negato «il figlio
del russo e della guerra». Il vecchio soldato, che si credeva padre per amore,
scopre un’altra durezza
della pace. È la metà di
aprile, pochi giorni fa. Luise viene rintracciata in
Lussemburgo.
Vive sola, è povera. Al telefono le chiedono se si ricorda di un soldato sovietico di nome Ivan. Risponde senza pensarci: «L’ho
amato tutta la vita e continuo a sentirmi vicina a
lui». Mercoledì scorso, a
Kransnojarsk, la vecchia
Luise scende faticosamente dalla scaletta dell’aereo. Le va incontro il
vecchio Ivan, bastone e un
mazzo di margherite selvatiche nelle mani. Anche
lui non può permettersi
una rosa. Tacciono e si avviano lungo le rive del fiume Enissej.
Vincitori e vinti non esistono più, consumato è
l’odio delle comparse della storia. Anche per loro le
guerre sono finite. «Ci siamo vergognati — dicono —. Solo vedendoci così, sfiniti, abbiamo capito di
non aver lottato abbastanza. Ci siamo
imbrogliati, fingendo di sentirci grandi perché amavamo. Ma abbiamo
aspettato che fossero gli altri a ricongiungerci. La verità è che non abbiamo
avuto il coraggio di vivere: l’ingiustizia
si batte quando ci si alza e si va davvero dove si deve andare».
Otto maggio 2005. Vladimir Putin,
davanti ai capi di Stato dell’Occidente,
fa rimettere una gigantografia di Stalin
sulla piazza Rossa. Dice che la Russia
non dove scusarsi più con nessuno per
aver vinto la grande guerra patriottica.
Bush torna ad usare il linguaggio del liberatore nella “nuova Europa” che ha
risposto sì all’esportazione armata
della sua democrazia. Nelle piazze dell’ex Urss, dice che l’America deve essere fiera di aver vinto la guerra fredda e
di aver donato la libertà ai vincitori
sconfitti. Un vento da guerra fredda riprende a soffiare tra le steppe e sull’oceano.
Ivan e Luise sono stanchi e osservano che «intanto anche la nostra vita è
passata». Dicono di non seguire «la replica sbiadita della storia», di non riuscire più a sentirsi felici. Martedì partiranno per il loro primo viaggio insieme. Tornano a Heierod, alla ricerca del
tempo perduto. Dopo sessant’anni
ancora prigionieri di un’illusione.
DOMENICA 8 MAGGIO 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 29
LA VITTORIA
L’atto di capitolazione dei tedeschi viene firmato a Reims,
in Francia Orientale, nella notte tra il 6 e il 7 maggio: gli
alleati ingiungono alle forze naziste di cessare ogni ostilità
alle 23.01 dell’8 maggio. Stalin pretende, per la fine
della guerra, una cerimonia ufficiale a Berlino: ma dal
momento che in Unione Sovietica (a causa del fuso orario)
a quell’ora è già cominciato il giorno successivo, per i russi
il “Giorno della vittoria in Europa” resta il 9 maggio
LA CELEBRAZIONE
Domani il mondo festeggerà la fine della seconda guerra
mondiale. La liberazione dal nazismo sarà commemorata
con una parata militare a Mosca alla quale assisteranno
il presidente russo Vladimir Putin, quello americano George
W. Bush e i leader di una cinquantina di paesi. Una
ricorrenza avvelenata però dalle polemiche: il presidente
georgiano ha rifiutato l’invito a Mosca e Putin ha mostrato
di non gradire le visite di Bush nelle repubbliche baltiche
La parata
che fa litigare
le due Europe
SANDRO VIOLA
e grandi cerimonie, e prima di tutte la parata sulla Piazza
Rossa — alla presenza d’una cinquantina di capi di Stato
e di governo — di truppe russe nelle uniformi della Seconda guerra mondiale, avranno inizio domani. Ma a Mosca
suonano già da due giorni le bande militari, si vedono ovunque
gruppi di “veterani” col petto ricoperto di medaglie, nei parchi
vengono distribuiti gratis panini e bevande. Sì, l’organizzazione dei festeggiamenti per il sessantesimo anniversario della
vittoria sulla Germania nazista sembra, almeno alla vigilia, impeccabile. Del resto il Cremlino vi s’era impegnato a fondo, e
senza badare a spese.
Decidendo di celebrare con tanta enfasi il 9 maggio 1945,
Vladimir Putin mira infatti a due risultati. Ricompattare attorno alle memorie della «grande guerra patriottica» un Paese diviso, frustrato, dove le differenze di reddito tra i vari strati della popolazione rasentano ormai quelle che esistevano nell’Europa occidentale alla metà dell’Ottocento. E nello stesso tempo, facendo confluire sugli spalti del Cremlino i leader dell’Occidente, dare l’illusione d’una “continuità” della grandezza russa rispetto a quando, sessant’anni fa, l’Urss di Stalin
divenne la maggiore potenza continentale. Quasi che non fosse avvenuto, intanto, il fallimento politico-ideologico del comunismo, che ha seminato la Russia di macerie e lacerato l’identità della nazione.
Gli intenti di Putin sono insomma comprensibili. Ricavare
consensi, popolarità, sul piano interno. Quanto al fatto che in
quello stesso maggio del ‘45 i sovietici misero alla catena l’Europa Centrorientale, e ve la tennero per quarant’anni e più, si
tratta di eventi dei quali l’attuale classe dirigente russa non
vuole sentir parlare. Infatti, quando i baltici, i polacchi, e alcune voci levatesi dal Parlamento europeo hanno ricordato che
per molti popoli la disfatta del Terzo Reich non fu una «vera» liberazione, visto che in Polonia, in Romania, in Bulgaria, in Ungheria, in Cecoslovacchia e in mezza Germania, più l’Estonia,
la Lettonia e la Lituania, la resa dei nazisti coincise con l’imposizione del comunismo sovietico, le risposte del governo di
Mosca sono state durissime. Nessuno osi discutere la vittoria
dell’Urss sulla Germania di Hitler: la storia non si corregge.
Ma se i calcoli del regime russo sono, come s’è detto, comprensibili, risulta invece più difficile da capire perché i leader
dell’Occidente abbiano deciso di piegarsi ai disegni di Putin
partecipando personalmente alle cerimonie di Mosca. È infatti vero, come ha detto l’altro giorno Bush, che «bisogna mantenere un rapporto rispettoso con una grande nazione qual è
la Russia»: ma gli euro-americani avrebbero potuto trattare
una partecipazione meno vistosa e magniloquente, per esempio la presenza sulla Piazza Rossa dei ministri degli Esteri o della Difesa. Ciò che li avrebbe tolti dalla situazione piuttosto imbarazzante in cui si troveranno domani Bush e Blair, Chirac,
Schroeder, Berlusconi e gli altri. Schierati a due passi dal mausoleo di Lenin (sia pure schermato da grandi pannelli), lì dove
Stalin e i suoi scherani assistevano alle parate dello stesso anniversario, e questo mentre dal Baltico al Centro-Europa affiorano i risentimenti dei popoli per i quali il 9 maggio ‘45 segnò
la discesa nella tragedia del comunismo.
La verità è che lo spirito, le intenzioni riposte con cui il Cremlino ha progettato le cerimonie di domani a Mosca, andavano
scrutati con più attenzione. Con maggiori cautele. Bisognava
probabilmente ricordarsi che non più tardi d’un mese fa Putin
aveva definito la scomparsa dell’Unione Sovietica come «la
massima tragedia del XX secolo». Tenere presente che l’intelligencija liberale russa ha subito guardato con diffidenza alla
retorica con cui il regime ha allestito le celebrazioni: tanto che
una delle sue figure più prestigiose, lo storico Yurij Afanasiev,
aveva parlato «d’un tentativo di restaurare l’immagine dell’Urss, rimettendo in circolo la versione distorta, ideologica,
della storia, approntata a suo tempo dallo stalinismo».
Beninteso, il punto non è che Putin e i suoi vogliano far rivivere l’Unione Sovietica. Non è di questo che si tratta. Il punto
è che l’aver deciso di compiacere e spalleggiare il regime russo
in quest’occasione, rischia di far risaltare ancora una volta l’indifferenza degli europei dell’Ovest verso il dramma vissuto da
quelli dell’Est durante i quarant’anni del comunismo. E di conseguenza, rischia d’ammorbare i rapporti all’interno dell’Unione europea.
Bronislaw Geremek, storico a sua volta, poi uno dei leader di
Solidarnosc e per qualche anno ministro degli Esteri polacco,
ne parla in modo assai chiaro: «La cosa certa è che i popoli dei
due versanti dell’Europa restano divisi dalle diverse esperienze vissute dopo il 1945. La libertà per l’Ovest, e all’Est l’imposizione forzosa del comunismo. Un problema che potrebbe produrre notevoli conseguenze politiche, visto che non ci può essere un’unità europea senza una comune interpretazione e valutazione del passato». E l’ungherese George Schopflin, politologo alla London School ed eurodeputato, concorda: «Gli europei occidentali non si rendono conto di che cos’è stata
l’esperienza del comunismo che noi abbiamo vissuta all’Est, e
noi non ci sentiamo di chiudere i conti col passato come fanno
gli occidentali. Una differenza cruciale».
Una differenza destinata probabilmente a fermentare tra
Bruxelles e Strasburgo, e a ridare così una consistenza all’idea
di Donald Rumsfeld sulle due Europe, la «vecchia» e la «nuova». Quest’ultima essendo formata dalle nazioni che nel ‘45
caddero sotto il dominio sovietico: le quali, di fronte ai silenzi
degli Chirac e Schroeder, vale a dire i governanti della «vecchia
Europa», diventano sempre più pro-americane. Quanto meno, George W. Bush ha infatti riconosciuto ai baltici d’essere
stati inglobati nell’Urss contro il loro volere, e promesso d’affrontare la questione domani con Putin.
Mentre sarebbe stato forse giusto che a prendere la parola
per ricordare le sofferenze inferte dall’Urss ai popoli dell’Europa Centrorientale, fossero stati i rappresentanti dell’Unione. Con una dichiarazione solenne del Parlamento europeo,
per esempio, o declinando qualcuno degli inviti alle cerimonie di Mosca.
FOTO RIA NOVOSTI / AFP
Repubblica Nazionale 29 08/05/2005
L
30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 8 MAGGIO 2005
il racconto
“Quando è nata mia figlia, i medici mi hanno detto
che non sarebbe uscita dall’ospedale, sarebbe morta subito.
Io l’ho portata a casa e siamo state insieme quattordici anni”:
Lesley McIntyre comincia così a parlare di sé
e della sua piccola. Una storia meravigliosa e terribile
che lei ha raccontato per fotografie
Mamma coraggio
Molly, la vita di una bambina
CONCITA DE GREGORIO
Q
LONDRA
Repubblica Nazionale 30 08/05/2005
uesta è la storia meravigliosa e terribile di Molly, una
bambina nata per non vivere nemmeno qualche giorno
— avevano detto i medici, perché qualcosa nel suo corpo consumava i muscoli e la vita — e vissuta quattordici
anni, invece, quattordici lunghissimi anni in cui si è vestita da ballerina ed è andata dal parrucchiere coi rolli in testa e con la rivista
Hallo in mano, ha fatto da damigella al matrimonio di suo zio e ha
recitato nel Lago dei cigni, ha fatto il bagno nel mare di Maiorca e la
turista a Roma con gli occhiali scuri, ha tenuto in braccio un neonato, ha fatto i capricci, ha riso fino a farsi venire il singhiozzo, ha giocato a nascondino a ricreazione, ha manifestato in piazza contro i
tagli alla scuola pubblica coi cartelli «stop the cuts», ha scritto un tema sulla morte di lady Diana che è morta nel tunnel tre giorni dopo
che sua zia Carol era morta in un letto, ad agosto: «I fiori che io e i
miei due cuginetti abbiamo lasciato alla zia Carol erano molto speciali perché venivano dal suo giardino, i fiori dei figli della principessa Diana non venivano dal suo giardino. Mi è sembrato che la
morte della principessa Diana sia restata in tv per giorni e giorni. La
zia Carol è morta di cancro e ha lasciato i suoi due figli di 3 e 5 anni e
suo marito, mio zio Bruce. La principessa Diana ha lasciato due figli di 12 e 15 anni e suo marito, il principe Carlo. La morte della principessa Diana è stata solo un sottofondo».
Questa è la storia di Molly e di sua madre Lesley che di mestiere fa
la fotografa e che con le sue foto l’ha raccontata in silenzio a tutto il
mondo, e se non avete voglia di ascoltarla perché costa fatica senti-
re di bambini ammalati, bambini che muoiono vi sbagliate perché
è una storia bellissima, invece, che parla di rabbia e di allegria e di
come si possa vivere e poi sopravvivere, alla fine, anche quando
sembra di no. Lesley, per esempio, quando Molly se n’è andata ha
cominciato a curare le piante: «Volevo sparire, essere invisibile.
Mettere le mani nella terra fino a farle diventare nere. Far crescere i
fiori, accarezzare le foglie. Stare in silenzio ad accudire qualcosa che
avesse bisogno di me. Togliere quello che non serve, aggiungere
quello che manca. È stupendo fare il giardiniere: non sei più nessuno, sei la forza che fa crescere le piante. Ti dimentichi. Ti prendi cura». È stato così per tre anni, ora ha ricominciato a fotografare. Vuole traslocare, dice, perché le serve avere in casa una camera oscura.
Lesley McIntyre ha 55 anni, sembrano 15 di meno. Vive in una casa di fate dentro il parco di Putney, Londra. È lunga e sottile, ha i capelli lisci biondi che scendono sul viso separati da una riga a metà,
porta alle orecchie due tappi di bottiglia su cui è dipinta Frida Khalo. Sta scalza, tiene le finestre aperte anche se fa freddo, porta una
maglietta leggera, senza maniche. In bagno c’è una vasca verde e al
muro una foto di Molly che fa il bagno dentro la vasca verde. In soggiorno ci sono libri per terra, libri dappertutto. Alle pareti i bambini
africani di quando viaggiava in Africa, «prima», e i disegni dei fiori e
dell’orto botanico di quando ha curato le piante, «dopo». Molly nelle cartoline di Natale, Molly con le amiche, Molly ovunque.
Sorride moltissimo, Lesley. Sorride tutto il tempo anche quando
le si inclina un angolo delle labbra e dice cose come «certo sì che
avrei abortito se l’avessi saputo. Ma no, non se avessi saputo che
Molly era malata: se avessi saputo che sarei stata sempre da sola, che
avrei fatto così tanta fatica, che viviamo in un mondo che non prevede l’errore e quando l’errore arriva devi arrangiarti, è un proble-
ma tuo, nessuno vuole saperne di bambini tanto fragili da essere destinati a morire ma tutti siamo fragili da qualche parte, e destinati a
morire, anche».
Tiene sul tavolo l’edizione italiana del libro The time of her life, lo
pubblica Contrasto: Il tempo di una vita. «Prima che Molly nascesse pensavo che sarei riuscita a conciliare il lavoro con la maternità.
Ci sono riuscita, ma non nel modo che avevo previsto. Non ho mai
potuto allontanarmi da una bambina così fragile, sono stata fuori da
sola cinque volte in quattordici anni, cinque giorni. Per il resto, cioè
sempre, ero con lei, e non ho mai smesso di fotografare. Ho fotografato la vita quotidiana, la sua infanzia, i nostri viaggi, tutto. Ho decine di migliaia di foto ancora da sviluppare. Queste sono alcune, pochissime». Dal giorno della nascita a quello che di quattro giorni precede la morte, il tempo di una vita.
«Avevo 34 anni, Molly era la mia prima figlia. Non ho avuto nessun sintomo durante la gravidanza, tutto bene, i tracciati, tutto a posto. Solo, tardava a nascere. 44 settimane. I medici dicevano è a posto, prende il suo tempo. Quando è arrivato il momento non ho voluto anestesie, né stimolanti: è nata da sola. Gli amici mi hanno portato dei fiori e dei biscotti, abbiamo festeggiato. Dopo qualche giorno mi hanno detto che non sarebbe sopravvissuta. Aveva un’anomalia nella formazione dei muscoli, non l’hanno mai diagnosticata
con esattezza. Mi hanno detto che non sarebbe uscita dall’ospedale. L’ho portata a casa, invece, e l’ho tenuta qui più di 14 anni. La nostra vita non è stata tragica: è stata molto dura, ma bellissima. Molly è stata una bambina felice: privilegiata, dunque felice. Era brillante a scuola, stava molto a suo agio con gli altri, adorava mia madre, aveva delle amiche magnifiche e prendeva i suoi limiti con realismo e filosofia. A differenza di moltissimi bambini nella sua con-
DOMENICA 8 MAGGIO 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31
dizione ha avuto tutto ciò che le serviva per vivere serena. Non si è
mai considerata malata. Solo nelle ultime settimane mi ha detto:
“Ho un cervello che funziona in un corpo che non lo fa”. E sei giorni
prima di morire: “Finora sono stata sana per tutta la vita”. La tragedia non è la malattia, è che viviamo in un mondo che non è attrezzato per dare un supporto a chi non ce la fa: ho passato tanti anni a
lottare per evitare che mia figlia, a causa della sua disabilità fisica,
venisse emarginata. So esattamente di cosa parlo. C’è un tabù che
riguarda l’invalidità, la morte e soprattutto la morte infantile: è come se fosse un pensiero da scacciare, qualcosa da nascondere. E invece la vita dura quel che dura, per tutti, Molly era così intelligente,
brillante, ironica, era così consapevole dei suoi limiti e della sua fortuna. Ci sono milioni di bambini nel mondo che non hanno il privilegio di Molly e che giacciono abbandonati in qualche letto. Allora
sì, non vale la pena che vivano. Parliamo di aborto, di eutanasia. Allora sì, se non ci sono le condizioni per far vivere dignitosamente
queste persone, non bisogna farle nascere. Io rispetto tutte le religioni pur senza averne una. Rispetto cattolici e buddisti, ebrei. Però
nessuna religione dovrebbe imporre la vita per la vita se non è in grado poi di renderla vivibile per il bambino e per gli altri, per tutti».
Vento dalla finestra, un brivido di freddo. Lesley sorride e si scuote i capelli, vuole qualcosa da bere? La cucina è grande, rosa e di legno. Altri libri, altre foto di Molly. Le somiglia moltissimo. «Quindi
anche adesso che so cosa è stata Molly per me posso dirle con esattezza che sì: avrei abortito se avessi saputo, e abortirei adesso in un
mondo così. Quando nascono bambini con problemi tanto gravi il
novanta per cento delle coppie non resiste all’urto. I genitori si separano, anche io e suo padre ci siamo separati: è inevitabile, se per
esempio si hanno idee diverse su cosa fare... Operarla e farla vivere
negli ospedali attaccata alle macchine, o non operarla e aspettare
che la morte la trovasse viva, a casa? “Salvare” le nostre vite adulte,
o salvare la sua? Ecco, è difficile dimenticarsi di sé, proiettarsi in due,
insieme, in un bambino che richiede ogni energia. Capita che si resti presto soli. E da soli, o si ha una famiglia alle spalle, una madre,
una nonna, del denaro, le risorse per lasciare il lavoro e occuparsi
solo di lei, la possibilità di farlo oppure cosa? Dove sono, dopo, le associazioni per la vita, gli antiabortisti? E aggiungerò: Molly non ha
mai sofferto il dolore fisico. Ha vissuto bene, sulla sua sedia ma bene. Se avesse sofferto e mi avesse chiesto di aiutarla a smettere di soffrire io l’avrei fatto. In linea di principio non vorrei veder morire nessun essere umano ma certo che l’avrei fatto, l’avrei fatto per lei come se lo stessi facendo su di me. Quando ami qualcuno non è affatto difficile decidere, è facilissimo. La adoravo, e non avrei esitato».
«Quando Molly è morta ero così stanca. Pensavo che sarei morta
anch’io. L’amore profondo è un’esperienza molto negativa. Può annullarti, portarti via da te. Però invece da quando è nata ho sempre
avuto chiara la consapevolezza che un figlio è un essere separato, è
un altro essere umano non una parte di te. Molly ha visto morire mia
madre, sua zia. Ha visto sparire le persone della vita quotidiana, ha
imparato che succede, uno va e gli altri restano. Sapeva che sarebbe andata, un giorno, anche lei. Ho aspettato fino all’ultimo che mi
chiedesse “mamma, sto morendo?”. Le avrei detto: sì. Era così arrabbiata gli ultimi giorni, era infuriata all’idea di morire. La stavo girando per evitare che le venissero le piaghe, una volta, lei era insofferente con me. Le ho detto “amore, se potessi fare qualcosa la starei già facendo”. Lei mi ha risposto “lo so, mamma” e poi ha aggiunto: “Sarei così contenta se potessi essere ancora me stessa anche solo per un momento”. Così, eravamo pronte. Lo sapevamo. Però la
La sociologa Chiara Saraceno: una prova della straordinaria potenza dell’amore
“Eroi invisibili, condannati alla solitudine”
Repubblica Nazionale 31 08/05/2005
MARIA STELLA CONTE
hiara Saraceno, sono talmente tanti i pensieri e le emozioni che travolgono nel racconto di Lesley McIntyre. A lei, madre oltre
che sociologa, cosa colpisce particolarmente?
«Mi colpiscono due cose belle. La prima è che la
piccola Molly, quando è nata, a detta dei medici
non aveva alcuna speranza di vita. Invece la madre
l’ha fatta vivere per 14 anni sfidando giorno dopo
giorno la profezia dei dottori. Questo ci dice della
straordinaria potenza dell’amore, perché Molly
non solo non è morta ma ha avuto una buona vita.
Certo, non tutti i genitori possono farcela e non
perché non vogliano: c’è chi non regge; c’è chi non
ha i mezzi per riuscirci; c’è chi, di fronte ad un evento tanto complesso come la nascita di un figlio con
una qualche forma di handicap, prova il desiderio
di fuggire. Lo capisco. E tuttavia questa vicenda ci
parla della forza e della solitudine di una donna che
ha dato due volte la vita alla figlia».
L’altra cosa bella?
«È lo sguardo di questa madre sulla morte. “Tutto nasce e muore, tutto comincia a morire subito”,
dice ad un certo punto. La maggior parte di noi, davanti alla morte di un bambino, immagina una vita interrotta, mancata; noi pensiamo a tutto ciò
che poteva essere e non è stato, e questo ci fa disperare. E non consideriamo che una vita è una vita sempre, se trascorre degnamente; se si accetta
l’idea che quel tratto di esistenza possibile non è la
premessa di qualcosa ma è compiuta in se stessa.
Lesley sapeva che quella della figlia sarebbe stata
una vita corta e lo è stata, ma non c’è nostalgia per
il tempo mancato quando quello avuto è stato ricco, e pieno, e degno».
Ciononostante, Lesley McIntyre sostiene: avrei
abortito se avessi saputo e abortirei adesso in un
mondo così.
«È vero, dice così, ed è un’accusa durissima contro il contesto in cui viviamo e al tempo stesso il rifiuto dell’eroismo e del martirio in una società nella quale, se i bambini non nascono sani, non hai
C
scelta. Una società più preoccupata dei feti che
non nascono che dei bambini nati; una società che
lascia pochissime opzioni e che in fondo dice: se i
figli non nascono perfetti sono fatti tuoi, e comunque è anche un po’ colpa tua. E intorno a te si crea
il vuoto sociale. Spesso la coppia non regge, gli
amici si dileguano, i soldi mancano, la casa è inadeguata, il lavoro incompatibile...».
Con che risultato?
«Che resti sola con la consapevolezza che se non
ce la farai tu, se crollerai, non riuscirai a dargli quella buona vita alla quale anche tuo figlio ha diritto.
Parlo di scuola, luna park, vacanze, aria aperta,
amici; parlo di tutto ciò che Molly ha potuto avere
grazie ad una condizione che la madre definisce di
privilegio e che quando manca rischia di ridurre
quel bambino a un vegetale. Se questo non è possibile, se non si hanno risorse interiori — poiché
non nasciamo tutti martiri ed eroi — né materiali,
se si rischia di dare una cattiva vita, una vita che è
una condanna, allora è meglio non farli nascere».
Una gran solitudine...
«Sì, grandissima. Perché il bambino con handicap fa paura e il rapporto con lui è spesso percepito come insostenibile; fa paura l’imperfezione; fa
paura vedere quel che potrebbe succedere anche
a te ma che invece succede sempre agli altri; fa paura immaginare la sofferenza; fa paura dare una mano perché se poi non basta? se poi volessi tirarmi
indietro? e allora si scappa. Si vive, quando si hanno figli così, sospesi tra indifferenza e ostilità, e
senza orizzonti temporali perché loro restano in
un certo senso bambini per sempre. Dobbiamo
ammettere che rispetto a trent’anni fa, almeno in
Italia, tanto è stato fatto, ma molto altro si dovrebbe fare: abitazioni adeguate, integrazioni di reddito, integrazioni di risorse umane, orari di lavoro...
Tutte cose che mancando obbligano queste famiglie all’invisibilità, all’isolamento, dunque a una
vita o da martiri o da eroi. Che vengono poi sepolti
nel silenzio».
domanda che aspettavo mi facesse non me l’ha fatta mai. È stata più
saggia di me, e più generosa».
«Dopo, per tre anni, ho lavorato come giardiniere. Sono scomparsa, ero diventata invisibile. Era fantastico stare fuori con la terra nelle mani, ascoltavo gli uccelli, anche Molly era un uccello. Facevo un lavoro molto pesante e leggerissimo. Facevo sbocciare i
fiori e pazienza per quell’amore finito, un amore così non finisce,
certi amori non finiscono mai. Ti accompagnano e ti aiutano a potare un ramo secco, a sorridere a un germoglio. Tutto nasce e muore, tutto comincia a morire subito: con Molly è stato chiarissimo.
Ho sempre sentito, anche nei momenti più felici, la presenza costante della loro e della sua mortalità. Poi un giorno, per caso, ho
incontrato un fotografo. Abbiamo cominciato a parlare di foto.
Non avrei mai pensato di mostrare le foto di mia figlia, in grandissima parte non le avevo nemmeno stampate. Mi pareva una storia
personale, la nostra storia. Però poi ne ho mostrate alcune, timidamente, e le ho viste con gli occhi di un altro: è stato come vederle per la prima volta, ed erano bellissime. Intendo: Molly è bellissima. Oggettivamente: la sua vita è stata bellissima, non tutte lo sono altrettanto. Lui, il fotografo mi ha detto: “Hai le immagini di una
persona straordinaria, forte e fragile come ciascuno, la sua storia
non è solo la vostra: è anche la nostra è di tutti”».
«Così le ho messe in fila, in ordine di tempo: credo che chi le guarda, prima di arrivare al punto in cui la sua invalidità risulta evidente, possa essersi affezionato alla persona contenuta in un involucro così delicato e fragile. Credo che nelle foto si veda una bambina che cresce e dopo, solo molto dopo, una bambina un po’ diversa. Questo in effetti era Molly. Una bambina. Dopo, molto dopo,
una bambina diversa».
STORIA PER IMMAGINI
Le foto di queste pagine sono state
scattate da Lesley McIntyre e sono
tratte dal libro “Il tempo di una vita”
pubblicato in Italia da Contrasto
Editore (116 pagine, 55 foto in
bianco e nero, prezzo 25 euro).
Dal libro è tratto anche il foglio
di quaderno (in basso) dove
la piccola Molly ha riassunto la sua
vita anno per anno
DOMENICA 8 MAGGIO 2005
le storie
Sport estremi
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33
Francisco “Pipin” Ferreras, cubano, cacciatore di record
nelle immersioni subacquee. Audrey Mestre, la ragazza
francese che si innamora di lui, ne impara le tecniche fino
a superarlo e a morire cercando di battere se stessa. Questa
è la favola di Pipin e Audrey. Che, nonostante la tragedia,
continua dentro la terribile magia del fondo del mare
Amore e morte nel Grande Blu
S
EMANUELA AUDISIO
cendi, cerchi, trovi, risali.
L’abisso non sembra più un
inferno. Tocchi il fondo, soprattutto di te stesso, ti piace:
il blu fuori, il buio dentro. Il
respiro rauco del mare, mentre tu trattieni il fiato, i polmoni ridotti a
spugne inzuppate. Chiedi la luna, ma il
tuo cielo è capovolto, senza luce. Non
voli, affondi, in apnea. Vai giù veloce, a
capofitto, come un ascensore. Non vedi capitan Nemo, perché hai gli occhi
chiusi. Sai che veniamo tutti da lì, dall’acqua, solo che un giorno ne siamo
usciti. Tu pesce, io uomo. La vita iniziò
negli oceani tre miliardi e settecento
milioni di anni fa. Peccato, aver perso
compagnia. Ma basta smettere di respirare e si torna fratelli, Itaca è giù in fondo, se sei Ulisse ti tuffi. Poi un giorno
scendi, non trovi più, perdi, non risali.
Hai smesso di essere pesce e anche uomo. Bevi, anneghi, muori. «Houston,
abbiamo un problema». Eppure non
hai fatto nulla di sbagliato, l’immersione era giusta, la preparazione accurata,
ti sentivi bene. E il mare per te e per lei
era tutto: passione, avventura, amore.
Se si condivide l’abisso, si è uniti per
sempre. Così se il mare ti fa male, tu non
lasci, non dici basta. Lui ti ha rubato lei,
non l’ha fatta più risalire, certi abbracci
a 171 metri soffocano. Dovresti odiarlo,
smettere di frequentarlo, ripudiarlo.
Urlare mai più. Invece riprendi le tue
immersioni. Sei da solo, sembri solo,
ma lei è laggiù, sparsa, in acqua senti le
sue labbra, il suo viso, la sua voce. «A volte è un peccato risalire», diceva.
Un libro per guarire
Certe storie partono come conquiste,
finiscono che in mano non resta niente,
nel cuore tutto. Voglia, desiderio, felicità: a mollo. La casa si svuota, la vita
perde peso, solo la spina è sempre lì.
Sanguini, arpionato, ma non maledici.
L’acqua lava, lenisce. Ti rituffi: per lei,
per te, perché le lacrime si sciolgono,
perché se ce l’hai dentro la caccia a
Moby Dick dura tutta una vita. Certe
storie diventano libro (Nel blu profondo, uscita 10 maggio) e film (The Dive, in
lavorazione). Scrivere di come tua moglie non è più riaffiorata secca i polmoni: «Pensavo di farcela in tre mesi, ci ho
messo un anno, dopo tre giorni dovevo
smettere, fermarmi, non respiravo. Al-
l’inizio il libro lo volevo
per i suoi genitori, per far
capire com’era vissuta la
loro figlia, poi ho capito
che era per me, ma accettarlo è stato difficile. Secondo molti sono stato io
con la mia fame di record
ad ucciderla. Chi pensa
così è gente scontenta, infelice della sua relazione
amorosa, invidiosa di chi è
capace di vivere bene. Ero
contento che Audrey
avesse imparato l’immersione da me, mi dispiaceva solo che fosse timida
davanti alle tv».
Francisco “Pipin” Ferreras, nato nella baia di
Matanzas sulla costa settentrionale di Cuba nel
’62, è un cercatore di record, uno di quelli fino all’ultimo respiro, basta che
sia abisso. Nel duemila in
tre minuti scarsi arriva a
meno 162 metri, l’estensione di due campi di calcio. È l’erede di una grande stagione dell’immersione subacquea, di
quando finita la passione
per la conquista della luna
si passa a ventimila leghe
sotto il mare. L’Italia ha
Enzo Maiorca, di Siracusa, faccia da Ulisse, grande innovatore; la Francia ha Jaques
Mayol, volto da intellettuale, appassionato di yoga e meditazione. I due ispirano al regista Luc Besson Le grand
bleu. Mayol si ritira a 56 anni all’Elba e
come molti in cerca di sé finisce la sua
vita dondolando con una corda al collo da una trave di casa.
Pipin vive a Cuba, per la prima maschera da subacqueo fonde la gomma
di un paio di stivali sovietici e l’attacca a
due pezzi di vetro tondi. All’Avana diventa socio di «El Ronco», Il Rauco,
grande cacciatore subacqueo, versione
aggiornata de Il vecchio e il mare.
Nell’89 arriva in Sicilia per una gara, l’attrezzatura è arrangiata: con testiere di
IL LIBRO E IL FILM
NEL BLU PROFONDO
È in uscita per Mondadori
nella collana Omnibus (320
pagine, 18 euro) il libro scritto
da Pipin Ferreras. Il libro sarà
presto anche un film con la
regia di James Cameron.
In questa pagina alcune foto
dell’atleta cubano e di sua
moglie Audrey Mestre tratte
da “Nel blu profondo”
letto saldate, costruisce
una slitta che consente all’atleta di stare a testa in su,
con le gambe flesse intorno alla barra di sostegno.
Conosce Maiorca. «È stato
tutto per me, ammiro la
sua onestà». Nel ‘96 a Cabo
San Lucas, in Baja California, Pipin incontra Audrey
Mestre, una studentessa
francese di 22 anni, appassionata di mare. Lui viene
da due divorzi, ha due figli,
da tre anni ha voltato le
spalle a Fidel e vive e Miami. Si definisce un cubano
calvo, arrogante e maschilista. Si innamorano, si
sposano, anche lei comincia a fare immersioni. Audrey è giovane e brava,
scende a 130 metri in 1 minuto e 56 secondi.
Nell’estate del 2002
un’altra ragazza, l’americana Tanya Streeter, arriva a meno 160. Pipin non
la prende bene. Due stagioni prima aveva provato
i 164 metri, ma era svenuto nell’ultimo tratto di
mare. Si chiama «sincope
delle acque di superficie»,
è il nemico della risalita.
Meglio fare una pausa,
dietro ci sono anche spettri banali: la paura di invecchiare, di avere perso coraggio, l’insoddisfazione personale. Audrey migliora, fa meglio di lui, scende a 166 metri, lui è fiero e geloso, la incalza, perché
non 170? Lei risponde: «Non so, competo con me stessa, non con gli altri». In
un anno a Audrey viene chiesto di scendere altri 41 metri sotto il suo record
personale. A quella profondità il blu è
orribile: le orecchie dolgono, sul corpo
pesa una pressione di 120 chili, i polmoni si riducono alle dimensioni di
un’arancia, la frequenza cardiaca cala
a soli 20 battiti al minuto, il cuore viene
spinto in su, verso la cavità toracica. Per
non perdere conoscenza (narcosi da
azoto) ti chiedi: quanti anni ho, dove
abito, qual è il mio numero di telefono?
Pipin è un marito esigente, il suo amico Carlos protesta: «Tratti i metri come
noccioline, se fai così non rimarrà più
niente da tentare. Piantala». Lui risponde che ci sono due tipi di persone: quel-
le che nella vita immergono solo l’alluce e quelle che si buttano dentro a pesce. Audrey in allenamento scende a
meno 170. Ora si tratta di rifarlo, magari meglio. 171 metri sono pari ad un palazzo di 55 piani. Pipin di quel giorno si
ricorda tutto: c’era brutto tempo, ci vollero tre persone per portare a bordo la
slitta zavorrata, appesantita da 45 chili
di piombo, con cui Audrey sarebbe scesa. Rivede sempre la stessa scena: lui è
in acqua per i controlli, allunga la mano
verso il bombolino, gira la valvola, sente il normale sibilo dell’aria, un refolo
contro la mano. Domanda: il bombolino è pieno? «Sì», qualcuno risponde,
nessuno saprà mai chi.
Malinteso fatale
Audrey è bella, ha un sorriso malizioso
negli occhi. Tutto bene?, lui le chiede.
Saranno le ultime parole. Lei va giù. Poi
più niente, per cinque minuti. Lui si
preoccupa, scende, a 90 metri vede le
bolle, dalla bocca di Audrey esce una
schiuma rosa, dal naso la stessa bava.
Nessuno sa spiegarsi cosa sia successo,
c’è stato un malinteso, l’hanno persa di
vista in un tratto, è caduta come una foglia, dice uno. Forse dal bombolino non
è uscita aria. Annegamento, dice il medico. Audrey è rimasta sott’acqua otto
minuti e trentotto secondi. Aveva 28 anni. Credeva come Mayol che gli essere
umani fossero in parte delfini.
Pipin sapeva che nel mare ci sta tutto:
bellezza e rapina. Smette di immergersi,
non dorme più, prende sonniferi, dimagrisce nove chili. Poi un giorno da Miami leva l’ancora e con la barca va a
Fowely Light, un «loro» posto, scivola
nell’acqua, la sente viva, capisce che Audrey è lì ogni volta che lui si tufferà in mare. James Cameron, regista del Titanic,
lo chiama da Hollywood: ha letto dell’immersione fatale, vuole fare un film
sulla loro storia. Pipin riprende da dove
aveva lasciato lei: 170 metri. Vuole riscendere, ritrovarla. Proverà a Cabo San
Lucas il 18 agosto, data del suo matrimonio, attorno non ha più tutti i suoi
compagni. Molti ancora lo accusano degli errori che Audrey ha pagato. Chiede
un favore: se qualcosa va storto, se perdo conoscenza, legatemi una cintura
zavorrata alla vita e lasciatemi andare.
Sulle spalle della muta in verde chiaro ha
scritto: «En tu memoria, Audrey». Ce la
fa, scende, dov’è arrivata lei, d’un tratto
prova la tentazione di non tornare. Facile, basta restare lì. Con la mano sulla valvola, apre gli occhi e la vede. I loro visi
quasi si toccano. Poi lui sfreccia su.
La vita è insensata, lo sport anche, ma
ha una sua semplice onestà, quasi meccanica: ti fa fare cose che non credevi più
di saper fare. Ricordi, riprovi, riesci. Sei
ancora capace di dare la mano. Pipin si
sta allenando per i 183 metri. Il dolore si
muove, fa sempre male, ma in maniera
diversa. Il ricordo è un livido scuro, scuro, che senti e non tocchi. Audrey, Audrey? Come gli squali, dobbiamo continuare a nuotare.
34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 8 MAGGIO 2005
i luoghi
Fra terra e mare
Il fantasioso, delicato autore dell’“Isola del tesoro”
discendeva da una stirpe di ruvidi e tenaci costruttori
di “lighthouse”. Un viaggiatore-acquarellista ne
ha ricostruito la saga e ha percorso le rive della Scozia
e delle sue isole per dipingere e raccontare tutte
le loro opere. E ne ha ricavato un libro e una mostra
Stevenson, cercando
STEFANO MALATESTA
rbroath, sulla costa
nord-est della Scozia,
sopra Edimburgo, è uno
di quei piccoli porti che
nelle fotografie appaiono incantevoli, se amate
la wilderness e il mare tempestoso
d’inverno, con le onde bianche di
schiuma anche al largo.
Ci sono mari peggiori: lo stretto di
Drake, ad esempio, sotto Cape de Hornos; e poi quel tratto dell’Atlantico del
Sud chiamato “The roaring forties”,
con immense onde che si vanno a
schiacciare sulle spiagge affollate di
pinguini; o, per rimanere nei dintorni
della Scozia, il Pentland Firth, lo stretto
Repubblica Nazionale 34 08/05/2005
A
Nel febbraio 1811
il Pillar Rock,
il primo dei fari
Stevenson, cominciò
la sua carriera
di sette miglia che mette in comunicazione il mare del Nord con l’Atlantico,
forse il passaggio più detestato dai marinai europei dell’epoca della vela.
Ma anche sulla costa orientale scozzese i venti, che si trasformano in raffiche senza una ragione apparente,
riuscivano a spingere contro le rocce
affilate i battelli minori. Navigare da
queste parti significava rischiare due
volte, a causa della natura e degli
umani. Le popolazioni rivierasche,
come venivano chiamate nei libri di
geografia, quattro straccioni affamati
che guatavano l’orizzonte sperando
che qualche nave in difficoltà naufragasse nelle loro terre, campavano con
il diritto di preda. E non conoscevano
pietà davanti ai corpi distesi sulla sabbia o che galleggiavano nell’acqua: vivi o morti venivano subito eliminati
per non richiamare l’attenzione.
Spesso erano loro a provocare i disastri, attirando di notte le barche condotte da piloti inesperti verso i fondali
più pericolosi della zona. Quando si cominciò a parlare di fari, una deputazione ebbe la faccia tosta di andare a Edimburgo a protestare, come dissero, contro l’iniquo progetto.
Nel dicembre 1799 una tempesta
che ricordava, per la sua forza distruttiva, quella che aveva annientato duecento anni prima l’Invincibile Armada, spedì sugli scogli settanta navi,
compresa la nave da guerra “HMS
York” con sessantaquattro cannoni e
quattrocentonovantuno uomini.
Questa volta anche il Parlamento inglese, che normalmente se ne fotteva
di quello che poteva accadere oltre il
confine con la Scozia, sentì il dovere di
fare qualcosa. E in poco tempo, anche
se il via ai lavori arriverà soltanto nel
1806, si decise di costruire un grande
faro a quindici miglia da Arbroath. Sarebbe stato il primo Pillar Rock di Scozia, ossia il primo faro a colonna: un
grande pilone alto trentasei metri e
poggiato su una scheggia di roccia che
si innalzava per oltre ottocento metri
dal fondale.
Per costruirlo venne dato l’incarico
al Northener Lighthouse Board, l’ente
responsabile dei fari, fondato una
quindicina d’anni prima. Fu un’impresa abbastanza straordinaria perché si
doveva lavorare con una marea che
provocava un dislivello di sei metri ogni
sei ore. Poco più di quattro anni più tardi, il primo febbraio del 1811, ventiquattro lampade argand si accesero e il
Pillar Rock cominciò la sua carriera di
faro più famoso della Scozia. Nelle belle giornate chi si mettesse a guardare
verso l’orizzonte dal lungomare di Arbroath noterebbe in lontananza come
un ago tremolante e luccicante che
sembra ballare sopra il mare.
Chi l’aveva progettato portava un
nome non particolarmente
famoso allora: Robert Stevenson. Il Northener Lighthouse Board, con la
sua sigla altisonante,
era solo una facciata a
copertura, nemmeno tanto ricercata, di
un gruppo di affaristi che faceva pagare una sorta di pedaggio ad ogni nave
per avere utilizzato
o beneficiato in
qualche modo della sua luce. Alla fine
del Settecento la
Gran Bretagna era
ancora, e lo sarà
per molto tempo,
uno Stato privato
come fini e come
mezzi e la detestata mano pubblica
veniva ammessa
solo in caso di
estrema necessità. I membri dell’Alta
Camera dei Lord conservavano i loro
posti per diritto ereditario, numerosi
boroughs appartenevano a ricchi nobili di campagna e nessuno voleva la
polizia, per paura che gli agenti andassero a ficcanasare negli affari altrui come facevano in Francia. Il primo nucleo di poliziotti, tutti disarmati, venne istituito da Robert Pil, all’inizio del secolo diciannovesimo, da cui
il soprannome di bobbies.
Circa novanta fari vennero costruiti su ordine dell’ente Northener in un
arco di circa sei generazioni: fari costruiti a pelo dell’acqua; o in cima a
roccioni protesi nell’aria su isolotti
che chiudevano una baia; o ai confini
più remoti della Scozia, su isole di cui
nessuno conosceva il nome. Non esisteva un modello unico al quale ispirarsi, esistevano esigenze di illuminazione e anche di semplice avviso. Il faro di Chanonry Point si trova alla fine
di un campo di golf; il Cromarti Lighthouse segnala l’ingresso di un
fiordo una volta frequentato dai
pirati e ora dagli studenti della
Aberdeen University per studiare i delfini; in quanto al faro
chiamato Rattrai Hed, che ha
una portata di ventiquattro miglia, ci sono voluti quarantatrè
anni di carteggio tra l’Inghilterra e la Scozia solo per ottenere il permesso di costruzione. Se consentite un parere
personale, il più bello dal punto di vista paesaggistico è l’Ismore, il cui guardiano si chiamava Robert Selkirk, discendente da quel Selkirk che è stato il modello per il Robinson
Crusoe.
Questa classica saga scozzese tenne impegnati gli Stevenson per oltre centocinquant’anni: l’ultimo faro costruito dalla pregiata ditta risale a prima della seconda
guerra mondiale. Tuttavia da
questo monopolio la famiglia
non trasse tutti i possibili vantaggi perché non riuscì ad
avere nemmeno un brevetto
sulle innovazioni tecniche
DOMENICA 8 MAGGIO 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35
TACCUINO DI VIAGGIO
Gli acquerelli riprodotti in queste pagine sono di Giorgio
Maria Griffa e sono tratti dal libro “I fari degli Stevenson”
(Edizioni Nuages, 240 pagine, 40 euro). Attualmente e fino
al 22 maggio, gli 82 acquerelli di Griffa sono esposti, a cura
di Cristina Taverna, a Torre Avogadro, Lumezzane.
La mostra sarà riallestita in seguito, divisa in due parti,
alla galleria Nuages, via del Lauro 10, Milano, dal 7 giugno
al 9 luglio, e alla galleria Davico, Galleria Subalpina 30,
Torino, dal 9 giugno al 9 luglio
i novanta fari di famiglia
impiegate di volta in volta. Dal 1805 al
te lungo la riva e le passeggiate sotto le
1842 il più prolifico e capace ingegnepalme da cocco, anche la presenza a
re dell’azienda era stato Robert SteVailima di una bellissima samoana
venson, autore di progetti legati ai
che lasciava cadere a ogni passo le garquindici fari maggiori e ad altri minoze trasparenti che l’avvolgevano non
ri e tecnico discretamente geniale. Fu
cancellavano le memorie e il senso
lui che fece realizzare il mortaio di
dell’appartenenza a un paese che non
Manby, un’arma da fuoco che sparavoleva essere solo un’appendice setva un proiettile a cui era stata legata
tentrionale dell’Inghilterra.
una lunghissima ciLa romantica Scoma, invenzione rivezia era così differente
latasi utilissima per
dall’Inghilterra, troprecuperare i naufrapo appiattita nel suo
ghi. Infatti nei quacinico buonsenso, e la
rant’anni successivi
ferita di Culloden, dooltre mille persone fuve gli scozzesi avevarono salvate.
no perso la libertà, era
Robert Stevenson
ancora aperta. E anmorì nel 1850, lo stesche quel senso del goso anno in cui nasceva
tico entro il quale posil nipote Robert Louis
siamo comprendere il
Stevenson, l’autore
tema del demoniaco e
de L’isola del tesoro.
della duplicità umaQuel giovanotto dai
na, di cui tratta Lo
polmoni delicati, che
strano caso del Dottor
vestiva sempre strinJeckill e Mr Hyde, si era
gendosi alla vita una
fatto più forte e adofusciacca e che scriveperato con maestria
va in una prosa così
finirà negli ultimi lalimpida e apparentevori, ad esempio Il simente così naturale,
gnore di Ballantrae.
fu l’unico tra i compoNon so se ricordate
nenti del clan, attral’inizio dell’Isola del teverso cinque o sei gesoro. Jim Hawkins, il
nerazioni, a scampare
giovane protagonista,
alle corvée delle misuaiuta la madre a gestire
razioni delle maree,
una locanda che è asdei lavori nei fondali e
solutamente identica
di tutto quanto ria un faro. Si chiama la
guardasse la costru“Locanda dell’ammizione dei fari.
raglio Benbow”, apIsola
Scalpay,
Ebridi
Esterne
Ma non si possono
pollaiata sopra un proda
VACANZE
1814
mollare impunemenmontorio e con ottima
te i luoghi dell’infanvista sulla spiaggia.
zia, qualsiasi cosa
Nella locanda si è rifuquest’infanzia sia stata. E quella dello
giato un vecchio filibustiere che sta
scrittore non dev’essere stata pessima,
aspettando qualcuno che alla fine lo
con l’eccezione della malattia. Tusitaucciderà. E Jim comincia ad avere gli
la, il raccontatore, l’affabulatore, coincubi, con Stevenson che sta prepame l’avevano chiamato gli atletici abirando l’atmosfera: «Quando il vento
tanti di Samoa che andavano ad ascolscuoteva i quattro canti della casa e i catarlo quasi ogni pomeriggio nella sua
valloni infuriati mugghiavano contro
casa di Vailima, i “Cinque ruscelli”,
la baia...».
non fu mai tanto scozzese d’anima e di
La intelligente e premurosa Fanny
memoria come quando stava nelle isoOsborne — moglie amante compagna
le incantate del sud Pacifico. Le nuotamadre e infermiera — aveva capito be-
‘‘
Walter Scott
Risaliamo di bolina
uno stretto canale
tra quelle che
paiono due scure
e tristi isole in una
bufera di vento
e pioggia, guidati
solo dalla fioca
scintilla del faro su
un’isola chiamata
Eilean Glas
nissimo che Robert Louis aveva la psicologia di un liceale molto intelligente e
brillante e che sapeva di esserlo. Ma come scrittore Stevenson era tutt’altro che
un liceale: un artista estremamente
consapevole, un artigiano abilissimo
che sapeva come maneggiare la prosa e
come distillare un’opera limpida dalla
grossolanità dei materiali. Quando
morì, Henry James scrisse il commento
più commovente: «Ha illuminato un’intera parte del globo, ed era lui stesso
un’intera provincia della nostra immaginazione. Noi ci sentiamo più soli e più
deboli senza di lui». E se non volete credere a James, credete a un signore argentino di gusti antiquati che si chiamava Borges e che diceva spesso. «Mi piacciono le illustrazioni del Settecento, il
sapore del caffè e la prosa di Stevenson».
Qualche volta gli dei superni, che
guardano agli uomini in basso con invidia e sono la causa delle nostre disgrazie, hanno anche loro delle pause
e lasciano che le cose vadano come
devono andare e cioè per il meglio.
Quando un amico le ha raccontato la
saga stevensoniana dei fari, Cristina
Taverna, editore del Carnet de voyage, la collana dove è stato pubblicato
questo libro, si è entusiasmata quasi
fuori misura per due ragioni: il progetto di disegnare tutti i fari era bellissimo. Inoltre lei conosceva perfettamente uno dei pochi artisti in grado di
farlo. Anni prima aveva pubblicato un
altro carnet de voyage di un artista che
aveva attraversato le Americhe, per
scendere lungo quelle immense
spiagge argentine e cilene dove l’oceano lasciava le carcasse di navi e di
grandi cetacei.
Per quanto disabitati e solitari e remoti fossero quei luoghi, c’era sempre qualcuno che andava a prendere
questi resti commoventi e bellissimi
per adornare le facciate delle case argentine. Ma l’artista, che si chiama
Giorgio Maria Griffa, di Biella, era arrivato in tempo e i suoi acquerelli erano esattamente intonati al fascino
nebbioso e solitario della Patagonia
marina. Griffa aveva dipinto anche alcuni fari e dunque doveva aver avuto
come una premonizione. Senza alcuna piaggeria, questi nuovi acquerelli
dei fari mi sono sembrati tra le cose
migliori che ho visto negli ultimi anni.
Quanto a Griffa ho parlato con lui
solo al telefono: un tipo gentile, non
molto loquace, un tipo solitario genere «via dalla pazza folla». Suo nonno
era stato in Patagonia insieme con
quello straordinario geografo che si
chiamava De Agostini, mandato da
don Bosco da quelle parti dopo aver
sognato il salesiano che scalava il Cerro Torre o una montagna analoga.
E da quelle parti, anni fa, avevo conosciuto un alpinista di Lecco che si
era ritirato nel sud della Patagonia, vicino a un grande lago, e raccontava
una strana storia. In un libro del De
Agostini aveva trovato una fotografia
che fissava l’immagine di una montagna completamente sconosciuta. Era
andato in giro per anni mostrando la
fotografia della montagna, e tutti dicevano che non esisteva. Finalmente un
pescatore l’aveva riconosciuta, l’aveva portato attraverso il lago alla base
della montagna e lui l’aveva scalata.
Mi piacerebbe molto tornare in Patagonia con Griffa per vedere se questo
montanaro di Lecco, che nel frattempo è morto, mi aveva raccontato una
storia vera o se si era inventato tutto.
ROBERT LOUIS
LA PECORA NERA
Robert Louis Stevenson
nasce a Edimburgo il 13
novembre 1850 da Thomas
Stevenson, ingegnere e
progettista di fari per il
Northern Lighthouse Board,
e da Margaret Isabella
Balfour. Gracile, debole di
petto, ha un’educazione
scolastica discontinua. Nel
1869 si iscrive a ingegneria a
Edimburgo ma dopo due
anni confessa al padre di
non avere alcuna intenzione
di proseguire l’attività di
famiglia, preferendo
dedicarsi alla scrittura...
36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 8 MAGGIO 2005
Una guerra di avvocati e carte bollate che va avanti da anni,
gestita dal tribunale di Cassino. A contendersi i “beni letterari”
sono i due figli, Idolina e Landolfo, insieme alla vedova.
Una battaglia legale che dura ormai dal 1979 e che blocca la pubblicazione
dell’opera omnia. Simbolo della controversia, il degrado del castello di Pico, la casa
di famiglia non lontana da Roma
L’eredità
Landolfi
Il tesoro sotto sequestro
di un genio “scandaloso”
FOTO DI GRUPPO
CURZIO MALTESE
Repubblica Nazionale 36 08/05/2005
FOTO EFFIGIE
F
dine, oltre che ammirazione, per il do- mille inciampi burocratici.
no riottosamente amoroso che offre».
L’immagine concreta dell’eredità
Alberto Moravia si spinse a immagina- Landolfi è il castello di Pico, la casa di fare lo scrittore di Pico come il potenzia- miglia dove lo scrittore ha trascorso
le «Bulgakov italiano».
tutta la vita. Con più o meno lunghi inLandolfi non divenne il Bulgakov ita- tervalli fra Firenze, Roma, Milano che
liano: gli mancava la fede o una fede non amava (Milano non esiste, un suo
qualsiasi. Rimase un «tipico minore» bel racconto) e soprattutto a Sanremo
come si descrive con la consueta auto- e Venezia, naturalmente per i casinò. È
denigrazione nei diari, uno scrittore un luogo magico per il lettore perché
dal talento e dalla fantasia portentosi qui sono ambientati alcuni racconti.
ma votati all’annullamento. Soltanto Ma ora la magia bisogna andarsela a
negli ultimi anni, con l’arrivo di un edi- cercare fra rovi e travi annerite e scontore nuovo, adatto come Adelphi, il te- nesse, cataste di rami secchi, mura fatisoro letterario stava per incontrare il scenti, cantine dantesche. L’interno
successo, soprattutto
del palazzo conserva
per l’interesse e la
ancora un’aura lansorpresa delle giovadolfiana, una specie di
ni generazioni, cattusilenziosa macchina
rate nella luciferina
del tempo. Basta chiuseduzione del mondo
dere il portone e si vielandolfiano.
ne proiettati fuori dalMa
proprio
la contemporaneità.
quand’era sul punto
Alle pareti sopravvivodi uscire dall’ombra,
no i disegni di Landoll’opera di Landolfi è
fi, figure di donne mostata ricacciata nelstruose eppure senl’oscurità da un’itasuali. Il resto è macerie
lianissima battaglia
o quasi.
legale per l’eredità
Anni fa qui doveva
che vede da una parte
nascere una fondaziola figlia Idolina, indine letteraria che in
menticabile «minor»
fondo avrebbe onoradei diari, teneramento l’unica gloria cultute amata, e dall’altra
rale della zona e offerla vedova e il figlio
to anche una sede
Landolfo capaci di
adatta ai manoscritti
ibernare l’opera omdi Landolfi, un tesoro
nia dello scrittore in
che ora giace in una
attesa di un miglior
stanza dell’Archivio di
guadagno che come
Stato a Roma, in attesa
la vincita finale al cadi miglior destinaziosinò non arriva mai.
ne. Naturalmente non
Una guerra di avvocaci si mise d’accordo
ti e carte bollate che
neppure su quella.
infuria da anni, senza
L’assurdo è che il camai placare i risentistello Landolfi è segnada
DES
MOIS
menti e le ferite lalato per tutto il paese di
1967
sciate da un padre e
Pico, salvo che una
da un marito imposvolta arrivati all’insibile, attutita soltangresso, in fondo alla
to ormai dai torpidi ritmi del tribunale salita, il portone della rocca è serrato.
di Cassino, statistiche alla mano il più
Non esiste scena più malinconica
lento d’Italia e quindi probabilmente per chi ha amato Landolfi e quello che
del pianeta.
forse è il suo capolavoro, Racconto
Persa ogni speranza di ottenere lo d’Autunno, scritto di getto nel ‘47, dove
svincolo dell’intera opera landolfiana, la casa, ispirata al palazzo di Pico, è la
Idolina sembra decisa a ottenere alme- vera protagonista, il «ricettacolo dei sono la separazione di un terzo, in modo gni» stuprato dalla guerra. È un persoda poter continuare a diffondere i libri naggio vivente, anzi uno dei più bei
del padre. Ma gli altri due eredi e so- personaggi «femminili» della letteratuprattutto i tempi della magistratura ra italiana del dopoguerra. Per capirne
rendono di fatto Landolfi uno scrittore la genesi occorre forse ricordare la traproibito. Negli ultimi mesi sono anda- gedia che ha segnato per sempre Tomte in fumo due traduzioni antologiche maso Landolfi, la morte della giovanisin tedesco e francese. È stato cancella- sima madre. «Io ero un bambino che a
to un progetto di film americano da La un anno e mezzo avevano portato daMoglie di Gogol, racconto di un altro vanti a sua madre morta, colla vana
amore impossibile fra il grande scritto- speranza che i lineamenti di lei gli rire e una bambola gonfiabile, finito manessero impressi nella memoria; e
chissà come sul tavolo di un produtto- che aveva detto: lasciamola stare, dorre hollywoodiano. Per vie altrettanto me».
inconsuete, Le Due Zittelle, travolgenNel ricordo dello scrittore adulto i lite novella di due vecchie frustrate e di neamenti della madre svaniscono, souna scimmia, ha fatto innamorare An- stituiti dal luogo, dalle stanze della cana Marchesini, ex del Trio, che l’ha tra- sa. Nel Racconto d’Autunno la casa è lei,
dotto in un monologo di raffinato umo- ogni descrizione è una carezza su un
rismo e bel successo. Mentre le vere corpo di donna. Fino alla confessione
opere teatrali di Landolfi, dal Landolfo disperata: «Ma perché mi attarderei a
VI alle Scene dalla Vita di Cagliostro, descriverne i menomi particolari e i
non si possono più rappresentare. La menomi oggetti, di nessuna importanstessa pubblicazione della narrativa da za per gli altri, ciascuno dei quali parlaparte di Adelphi procede a rilento, fra va invece al mio cuore? Basti dire che
‘‘
FOTO MASSIMO ARCESE
ra tanti letterati da premio
ministeriale, Tommaso Landolfi ha rappresentato l’ultimo dei grandi scrittori personaggi, ironicamente romantico, inafferrabile e
scandaloso. Inventore di una delle più
lucenti e musicali lingue del Novecento italiano e di storie surreali, diarista di
spietata sincerità, Landolfi si portava
nella vita un’anima russa. Come l’amatissimo Dostoesvki, scriveva per giocare e giocava per scrivere, annichilendo
infine al tavolo della roulette due patrimoni, il personale e quello familiare dei
nobili Landolfi, signori di Pico. Nei termini psicanalitici, che
l’avrebbero fatto sorridere, era come molti giocatori un sadico autopunitivo, ovvero in pratica la più
gentile e innocua persona di questo mondo.
Ora la dissipazione che
in vita è stata la sua principale attività ne segna
pure la fortuna a ventisei
anni dalla morte. È un mistero come uno dei pochi
grandi scrittori italiani
del secolo sia scomparso
dalle antologie, cancellato dai calendari delle celebrazioni, che pure non
si negano a nessuno,
ignorato dalla critica. Lo
spazio bianco che Landolfi pretendeva sui risvolti di copertina di romanzi e racconti al posto
delle note biografiche
(«quel trafiletto d’imbonimento…»), è diventato
un destino.
Accolto come un classico fin dagli esordi giovanili, con Dialogo dei Massimi Sistemi del 1937,
Landolfi ha sempre sofferto una fortuna alterna. Un po’ per la sua sfrontata
ricerca d’impopolarità e molto per la
sfiducia dei suoi editori, prima il fiorentino Vallecchi e poi Rizzoli, che
l’hanno sempre considerato scrittore
per pochi eletti, dalla lingua troppo ricca e con una felicità narrativa indiscussa ma impossibile da classificare nelle
categorie riconoscibili. Landolfi non
apparteneva alla scuola dei neorealisti,
più o meno socialmente impegnati, ma
era altrettanto lontano dalle retoriche
dello sperimentalismo e dall’intruppamento avanguardistico.
È un grande vantaggio agli occhi del
lettore di oggi, che può scoprire l’intatta anomalia dell’opera landolfiana. Ma
non lo era all’epoca, se non appunto
per gli eletti. Ch’erano davvero tali ed
entusiasti. Eugenio Montale, per
esempio, ammirato tanto dalla lingua
di Landolfi quanto dal personaggio
(«che magnifico attore sarebbe stato
Tommaso, se soltanto avesse voluto»
scrive in una lettera). Andrea Zanzotto
ha lasciato un saggio memorabile su
Pietra Lunare, e a dieci anni dalla morte dell’autore scriveva: «Un ritorno di
Landolfi, anche con uno qualsiasi dei
suoi libri, è sempre da considerare un
avvenimento. E verso questo grande
autore non si può non provare gratitu-
A sinistra, uno
scatto degli anni
’50 al caffè
“Le giubbe rosse”
di Firenze: si
riconoscono,
al centro, Mario
Luzi, Eugenio
Montale
e Tommaso
Landofli. Qui
sotto il castello
di Pico
Ridicola mania
Meglio penetrare
la varia vita
con cui venivo
occasionalmente
e fugacemente
a contatto:
far provvista
di fuggevoli
esperienze è stata
sempre la mia
ridicola mania
DOMENICA 8 MAGGIO 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37
LE OPERE
L’ESORDIO
I DIARI
I RACCONTI
IL RITRATTO
GLI ARTICOLI
Il libro si intitola
“Dialogo dei
massimi sistemi”
e fu pubblicato
nel ‘37; è il racconto
di uno scherzo
linguistico fatto da
un capitano inglese
Sono tre: “La bière
du peûcheur” (‘53)
di doppia traduzione:
“La bara del
peccatore”, la “Birra
del pescatore”,
“Rien va” (‘63)
e “Des mois” (‘67)
La raccolta
“Ombre” (1954),
contiene racconti
fantastici di
Landolfi, come
“La moglie
di Gogol” o “Lettere
dalla provincia”
“Ottavio di SaintVincent” è una
specie di favola, la
vita di un giovane
poeta povero
e annoiato che non
si suicida perché
attende qualcosa
“Gogol a Roma”,
del 1971 è un
insieme di micro
saggi, riflessioni
irriverenti, aperture
a temi extraletterari
come “la metafisica
della roulette”
Piccola antologia su Pico
Solo, nella casa
che crolla
un poco al giorno
TOMMASO LANDOLFI
ederico rientrava: nel cortile gli
saltò incontro a festeggiarlo la vecchia cagnetta da caccia, lasciata a
guardia. Il cortile, chiuso da tre lati, si
apriva dall’altro sull’orto sottostante, e,
oltre una fila di case basse, su una stretta valle che, risalendo dolcemente, si
conchiudeva all’orizzonte alto e lontano in una fila di colli rotondi; una luna
coperta lo illuminava di luce blanda e
ombrosa.
Federico viveva completamente solo
nella sua grande casa abbandonata e,
per semplificare le cose, usciva ed entrava da una porta di servizio donde, dopo
un certo giro attraverso due umidi ripostigli e una dispensa, si raggiungeva finalmente la cucina, prima stanza fornita d’una lampadina elettrica.
F
da MANI, in Dialogo dei massimi
sistemi, 1937
***
Ultimo forse rappresentante genuino
della gloriosa nobiltà meridionale, io sto
da solo in questa casa crollata più che per
metà, e che seguita a crollare un poco
ogni giorno, in cui il vento si insinua gemendo, sufolando, facendo garrire le
pendule tappezzerie. [...] Oggi pioveva
forte e insistente, non solo fuori, ma dentro da molte parti. Pioveva per la scala a
chiocciola, dalla volta sotto la scala
esterna, in alcune stanze; sulle pareti si
espandevano grandi macchie, altre sulle tele delle soffitte, acqua grondava lungo il filo delle pareti, s’infiltrava di sotto
e di tra le imposte. E penetrava fino a me
sguazzante il grande scroscio, il rombo
delle piene. Questa pioggia non era purificante, era corrompente; non scioglieva i pensieri, li inzuppava e appesantiva. Essa macerava fin nel midollo,
scommetteva pietra per pietra quanto
resta di questa vecchia casa. La quale un
giorno non lontano si fenderà a mezzo e
lentamente rovinerà seppellendo il suo
solitario abitatore; e di tra la fenditura si
sarà mostrata una luna rossa; insomma,
come della casa di Roderigo Usher. Ebbene? Non è bello che io muoia con lei, o
lei con me?
Repubblica Nazionale 37 08/05/2005
da LA BIERE DU PEÛCHEUR, 1953
ogni cosa, il più piccolo ninnolo, le cortine del letto, le babbucce ricamate a
piè di questo, lo sgabello imbottito davanti alla toeletta, e cento altre, ogni cosa serbava viva la di lei impronta ed era
rimasta, lo si vedeva bene, come quando ella aveva lasciato quel luogo l’ultima volta; e potevano essere passati tanti anni!».
Più del gioco e della morte, del surrealismo o dell’affinità elettiva con i
grandi russi che ha tradotto splendidamente, da Gogol a Puskin a Dostoevski,
più ancora che nella ricerca di un Dio irraggiungibile («Oh Signore, inventato
dai poeti…»), il cuore dell’opera di Lan-
***
Nel cortile della mia casa ci sono, o meglio c’erano, quattro acace, vulgo casce,
grandi e fiorenti. Verso il mio venticinquesimo anno di età, senza causa apparente, una di esse morì. In tale occasione
a mio padre scappò detto con un sorriso:
«Queste casce rappresentano la tua vita:
il suo primo quarto se n’è andato». Era un
augurio, era anche una triste constatazione paterna, era soprattutto una frase
imprudente, che legava con nodi indissolubili il mio destino a quello dei quattro alberi. [...] Da qui, da questa casa, è
passata la guerra, lasciandovi vaste piaghe aperte, lasciandovi in ispecie, nell’aria, le tracce della sua insolenza. Quando
vi tornammo, poco dopo, non solo due
quartieri erano crollati, e le mura, un
tempo così gelose del loro vetusto segreto, si scosciavano al sole, ma, quel che era
peggio, esse avevano dato ricetto a molta gente straniera, a Tedeschi prima, poi
a Francesi o Algerini, infine a torme di
“sfollati”. Noi contemplavamo quello
squallore e quella rovina, ma il peggio,
come ho detto, era che non riconoscevamo l’aria di casa nostra. Eppure, anche
allora, lo sguardo mi corse subito ai miei
tre alberi.
da QUATTRO CASCE, in Ombre, 1954
dolfi, come scrive Monique Baccelli, risiede «nel suo rapporto con la figura
femminile, e con l’amore in generale».
Nel disperato bisogno di un amore che
si sa inarrivabile, negato fin dal principio. E per questo si rovescia in fantasia
mostruosa e sadica, incubo erotico, ripulsa difensiva, rabbia e ambivalenza,
incarnata dal personaggio di Pietra Lunare, per metà donna bellissima e per
l’altra capra. Per poi tornare alla fine
della vita, nelle poesie degli ultimi anni, ormai senza più gioco o finzione letteraria, nel puro dolore.
La casa madre di Racconto d’Autunno ha resistito alle offese del tempo e
della storia, alla profanazione degli
eserciti durante la guerra e perfino ai
bombardamenti che hanno trasformato la zona di Cassino in un paesaggio
davvero lunare. Rischia di non resistere invece alla tragedia minima e quotidiana dell’indifferenza, della burocrazia. Ci vorrebbe magari un intervento
politico o di qualche istituzione culturale. Ma Landolfi non è oggetto di appartenenze né a destra né a sinistra.
Scriveva «per non essere incluso»,
avrebbe detto Flaiano, riuscendo benissimo in vita e in morte a star fuori, libero di cercare un altrove, un tempo
giusto nel passato o forse nel futuro.
***
Ho affermato che avevo ed ho un’unica passione, ed è vero, solo che non ho
nominato la giusta. In realtà delle corse e
del gioco, come vedi, posso fare a meno.
E invece non posso fare a meno di... di
che? Forse di questa cadente casa piena
degli ululati del vento, col suo orizzonte
di montagne calve? [...] Ero in città, una
volta d’autunno, e d’un tratto fui preso
da una furiosa nostalgia: sai tu di cosa?
Ma di nient’altro che di questo cortile cosparso delle foglie gialle e marce di queste acace, veduto di dentro a questa sala,
traverso i vetri di questa porta, come ora
lo vediamo. E dovetti prendere un treno
e venirci.
da IL VILLAGGIO DI X E I SUOI ABITANTI,
in Se non la realtà, 1960
Repubblica Nazionale 38 08/05/2005
DOMENICA 8 MAGGIO 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39
cultura
Lo scrittore australiano legge i suoi
versi, intimi e colloquiali, davanti
al pubblico del Lingotto: “So di essere
un cattolico strano ma la religiosità
è al centro del mio lavoro e per me
le liriche sono come visioni”
La Fiera del Libro
di Torino
La poesia sognata
del grande Les Murray
A
LUCIANA SICA
TORINO
rriva in una delle sale della Fiera torinese, immenso come un elefante, col
faccione rubicondo di un
contadino e il passo traballante di un gigante buono alla Shrek. Una mole boteriana che contrasta con il volto segnato
da una malinconica mitezza. Una specie di ossimoro vivente.
Leslie Allan Murray si siede al tavolo,
si guarda intorno forse un po’ stupito
dalla gran folla che l’osserva, si concentra ma senza nessuna affettazione, e legge le sue poesie: ispirato ma disinvolto,
rapidissimo, a tratti tagliente, sempre
provvisto di una sicurezza assoluta.
Legge versi magnifici, molto intimi e
colloquiali, di una forza espressiva abbagliante, di un’inventività linguistica
che incanta: sono versi tratti da Un arcobaleno perfettamente normale, l’antologia pubblicata lo scorso anno da
Adelphi che ripercorre la sua intera
opera poetica, dal 1965 alle “poesie
formato foto” del 2002.
«Sarebbe miope considerare Les
Murray un poeta australiano, così come lo sarebbe dire che Yeats è un irlandese», ha scritto di lui Iosif Brodskij, e certamente — come nel caso di
Seamus Heaney e Derek Walcott —
siamo di fronte a un autore tra i più
emblematici della vitalità che esprimono le aree “periferiche” della cultura letteraria inglese e se è vero anche
che Murray è il cantore della cultura
aborigena, degli antenati, che la sua
esperienza poetica nasce dall’incontro con i luoghi più sacri della tradizione nativa, è altrettanto vero che il lettore di Murray scopre nell’Australia
un “luogo” universale, uno specchio
dove è possibile rintracciare ogni
mondo dell’anima.
Claudio Gorlier e Luigi Sampietro,
LA RACCOLTA
Le poesie lette da Les
Murray (nella foto sopra)
alla Fiera del libro di Torino
erano tratte dal volume
“Un arcobaleno
perfettamente normale”,
pubblicato lo scorso
anno in Italia da Adelphi
che lo presentano al pubblico torinese,
fanno più volte riferimento agli altri libri
di Murray usciti da Giano Editore: dal
poema-romanzo Freddy Nettuno, più di
ottocento pagine per raccontare in un
modo assai stravagante il Novecento, alle più recenti Lettere dalla Beozia — così
Murray chiama il mondo remoto e dimenticato dell’Australia rurale, in una
raccolta di saggi in cui contrappone alla
fretta indifferente della civiltà occidentale i valori del mondo contadino da cui egli
stesso proviene.
Murray dice di sentirsi lontanissimo
dal disincanto degli intellettuali e per
questa ragione sembra che nel suo Paese
sia considerato un conservatore, se non
proprio un reazionario. «Accuse idiote»,
dice lui, «che nascono dal mio approccio
anti-elitario alla cultura. Io voglio scrivere per tutti: non sono sperimentale né intellettualistico. E non faccio politica. Non
faccio battaglie, e neppure crociate. Semplicemente non mi piace il disprezzo e lo
snobismo di certa gente».
Non è la politica che interessa Murray,
ma piuttosto la religiosità, il senso
profondo del sacro nell’esistenza.
«So di essere un cattolico strano, ma lo
sono senz’altro, da un punto di vista molto intimo e anche sacramentale», dice.
«Un mio amico musulmano mi ripete che
sono piuttosto un mistico sufi e magari
sarà anche così. In ogni caso la religiosità
sta profondamente dentro al mio lavoro,
al modo che ho di esprimermi. I versi mi
giungono così, come visioni, perché una
cosa è certa: la poesia va sognata».
Tra le liriche brevi che legge ce n’è una
intitolata Il significato dell’esistenza. Eccola: Ogni cosa tranne il linguaggio/ conosce il significato dell’esistenza./ Gli alberi, i pianeti, i fiumi, il tempo/ non conoscono altro. Lo esprimono/ momento
per momento come universo./ Perfino
questo stupido corpo/ lo vive almeno in
parte,/ e vi avrebbe piena dignità/ non
fosse per l’ignorante libertà/ della mia
mente parlante.
controsalone
I dati elaborati dagli editori
Gli “Inizi” di Baricco
e il mistero delle cifre
I lettori italiani
ultimi in Europa
Repubblica Nazionale 39 08/05/2005
MASSIMO NOVELLI
I
G
TORINO
l silenzio è d’oro. Gli organizzatori della Fiera hanno deciso ieri di non comunicare più
giorno per giorno il numero dei visitatori. «Basta con lo stillicidio delle cifre, hanno proclamato d’imperio, le presenze si conosceranno
soltanto domani sera, quando il salone chiuderà i battenti». Perché questa “omertà”? Ecco
la risposta di Rolando Picchioni,
segretario generale: «Siccome ci
accusavano di fornire numeri a
capocchia, e dato che siamo invece persone serie, daremo soltanto
il rendiconto finale». Ma che cosa
cambia? Se le percentuali sugli afflussi fossero inventate di sana
pianta (ma non ci crediamo), anche il totale lo sarebbe, no?
Americanate. Per alcune questioni burocratiche tutte americane, lo scrittore marocchino Abdellah Hammoudi, che si trova negli
Stati Uniti, non ha potuto ottenere il visto d’espatrio per l’Italia. È stato così costretto a disertare l’incontro odierno, previsto nell’ambito di
“Lingua Madre”. Vivaci proteste di Tahar Ben
Jelloun, che avrebbe dovuto dialogare con il suo
connazionale.
Arriva Baricco. Con buona probabilità, a sorpresa Alessandro Baricco comparirà oggi a mezzogiorno al Salone. Lo farà per partecipare alla
presentazione di Inizi, il libro con cui la Fandango Libri ha raccolto gli incipit di romanzi e
sceneggiature prossime venture (da Margaret
Atwood a J. M. Coetzee, da Claudio Magris a Ian
McEwan, da Stephen King allo stesso Baricco), il
cui ricavato delle vendite è destinato a finanziare un progetto di aiuto per le popolazioni colpite dallo Tsunami. Lo scopo, in particolare, è dare una mano ai bambini dello Sri Lanka.
IL SALONE
Tra gli appuntamenti
di ieri alla Fiera
del Lingotto, il Forum
del libro e l’incontro
“Lingua Madre”
che ha avuto come
protagonista il poeta
Les Murray
TORINO
li italiani finalmente ricominciano (o cominciano tout court) a leggere, ma la crescita è
talmente lieve da apparire quasi impalpabile.
Tradotto in numeri, significa un aumento di lettori del 2,5 per cento rispetto alle rilevazioni precedenti. In sostanza poco più di 29 milioni di
persone, con un età superiore ai sei anni, leggono almeno un libro non scolastico
all’anno. Rappresentano il 41,4
per cento della popolazione del
Paese. Nel complesso, un italiano
su due (il 53,2 per cento del totale)
legge annualmente un libro, però
quasi la metà di questi lettori sporadici dichiara di non leggerne più
di tre in dodici mesi. E soltanto il
12,3 per cento ne leggerebbe uno
al mese.
Sono i dati elaborati dall’ufficio
studi dell’Associazione Italiana
Editori, che il linguista Tullio De
Mauro ha citato ieri mattina, al Lingotto, nel
corso dell’incontro con Marino Sinibaldi, curatore del programma Fahrenheit di Radiotre,
promosso dall’Associazione Presìdi del Libro
guidata da Giuseppe Laterza. Di fronte a uno
scenario del genere, che ci colloca agli ultimi
posti in Europa nel mercato editoriale dopo
Portogallo e Grecia, pertanto non deve illudere troppo la leggera ripresa in materia di lettura e il proliferare dei festival letterari sul modello di quello di Mantova, così come il consolidarsi della Fiera del Libro torinese. «I festival
letterari — ha ricordato infatti De Mauro — assomigliano un po’ ai famosi aerei che Mussolini spostava da un posto all’altro per far credere che ce ne fossero tanti. Sono frequentati,
insomma, dalle stesse persone».
(m. nov.)
40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 8 MAGGIO 2005
L’anno prossimo cadono i 250 anni dalla nascita
del grande compositore e i festeggiamenti sono
cominciati con la rilettura, da parte di Abbado,
Kentridge e Muti, dell’opera in cui Amadeus espresse al meglio la sua
cultura progressista. Ma anche le atmosfere esoteriche che grazie
alla New Age, due secoli dopo, continuano ad affascinare l’Occidente
L’ultimo gioco di specchi
di Mozart il giacobino
Il
flauto
magico
I
LEONETTA BENTIVOGLIO
l Flauto Magico è tra noi. Cammino di sapienza, gioco geometrico
di coppie (male e bene, passione
e ragione, uomo e donna, corpo e
anima), ricchezza di registri simbolici e narrativi. Il Flauto Magico
ci insegue, interroga temi del presente,
disegna il cerchio della creazione, conduce chi ascolta ai confini del tutto con
grazia e anche con estrema crudeltà,
specchio dell’imprendibilità di Mozart,
dell’infinitezza densa di colorazioni
opposte del suo genio. Il Flauto Magico
non dà pace. Perché può contenere il
mondo (numerosi pensieri del mondo)
e diventare metafora dell’essenza stessa della musica, intesa come rito assoluto e straordinaria formula alchemica.
Il Flauto Magico sta invadendo i nostri palcoscenici. Questa sua forte presenza è solo un annuncio delle prossime celebrazioni mozartiane: Wolfgang
Amadeus nacque nel 1756, sicché l’anno venturo cade il duecentocinquantesimo anniversario della sua miracolosa
venuta al mondo. La ragione del miracolo, lo sappiamo, sta nella facoltà di
conciliare una facilità avvolgente con
insondabili abissi espressivi. Mozart è
giocoso e metafisico come nessun altro,
e il conturbante fondersi di questi
aspetti gli consente (o almeno così sembra) la percezione dell’universo: la capacità di proporcela come se niente fosse, illudendoci o cullandoci nella gradevolezza dell’ascolto, gli ha regalato una
popolarità senza confronti.
Andato in scena a Vienna nel 1791,
nel mese di settembre, dunque non
molto tempo prima della morte del
compositore, che avvenne il 5 dicembre, Il Flauto Magico, ridente opera testamentaria di Mozart, ha appena debuttato a Reggio Emilia con la direzione
di Claudio Abbado, che l’affronta dal
podio per la prima volta, collaborando
in quest’occasione con il figlio Daniele,
regista colto e sensibile, autore di un allestimento ricco di spunti e riflessivo,
già passato con successo per Ferrara e
atteso a fine maggio in Germania, in autunno a Modena e nei mesi successivi in
un tour europeo.
Si sta rappresentando (con molte repliche a venire: dureranno fino a settembre) un Flauto Magico anche a
Bruxelles, al teatro dell’opera della
Monnaie, in una nuova, importante
produzione. Dirige René Jacobs, grande specialista della musica barocca, anch’egli al suo primo incontro con l’opera mozartiana. La regia è dell’artista sudafricano William Kentridge, bizzarro
inventore di affreschi trompe-l’oeil e
appassionato cultore di metafore sul
contrasto avvincente tra luce e tenebre,
come dire il nucleo stesso del Flauto
Magico: per l’opera ha architettato una
scatola di illusioni ottiche che accoglie
e sovrappone le diverse ambientazioni
del libretto.
C’è ancora un Flauto in arrivo, di cui
quest’estate si parlerà molto: lo dirigerà
Riccardo Muti, a fine luglio, in apertura
del Festival di Salisburgo, con la regia di
un campione del teatro lirico come
Graham Vick. Sono in molti a ricordare
il suono trasparente e le profondità vertiginose del Flauto che Muti diresse alla
Scala nel ‘95, con ripresa nel ‘98. Vi erano coinvolti alcuni degli stessi interpreti che canteranno nell’allestimento
programmato a Salisburgo, come il baritono londinese Simon Keenlyside, il
più irresistibile Papageno che si possa
immaginare, e Michael Schade nel nobile ruolo di Tamino.
Perché tanta attrazione per questa vivida mistura di tragico e comico, trivia-
È il capolavoro
che affranca l’autore
dal cliché tramandatoci
dalla letteratura
e dal cinema: quello
dell’artista rozzo,
infantile e soavemente
animalesco
LA PRIMA
“Il flauto magico” fu rappresentato per la prima
volta a Vienna nel 1791. In alto, il primo libretto
Qui sopra, una scenografia di David Hockney
per la messa in scena alla Scala nel 1985
lità burlesca e spazi del «meraviglioso»?
Premesso che non si può parlare di renaissance — l’amore per Il Flauto Magico non si è mai estinto — è chiaro che incalza, con speciale ostinazione, il sogno
della rilettura. Eppure la vicenda, sviluppata in forma di Singspiel, e cioè
comprensiva anche di dialoghi parlati,
è stata giudicata spesso faticosa e pasticciona: «Nient’altro che un’accozza-
glia di banalità massoniche adattate al
gusto barocco e per di più oscuro»,
scrisse impietosa Marguerite Yourcenar, mentre il compositore Richard
Strauss non esitò a definire il libretto,
firmato dall’impresario e cantante
Emanuel Schikaneder, alquanto confuso e strampalato, riscattato solo dalla
sublime partitura mozartiana.
Il Flauto Magico parte dalla storia del
DOMENICA 8 MAGGIO 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41
GLI ALLESTIMENTI
ABBADO
MUTI
KENTRIDGE
Ha diretto di recente “Il Flauto
Magico” a Reggio Emilia. Lo
spettacolo, che a fine maggio
sarà in Germania, è firmato da
suo figlio Daniele, regista
affermato, con cui il grande
direttore d’orchestra ha
collaborato per la prima volta
nella sua carriera
Dirigerà un nuovo “Flauto
Magico” a Salisburgo,
in apertura del festival, a fine
luglio, con la regia di Graham
Vick. Il cast include Simon
Keenlyside, irresistibile nel ruolo
di Papageno, e Michael Schade
che si calerà nel nobile ruolo
di Tamino
L’originalissimo artista
sudafricano firma la regia
del “Flauto Magico” che è
attualmente programmato
a Bruxelles. La scena è una
scatola di illusioni ottiche
che accoglie e sovrappone i vari
ambienti del libretto. Dirige
l’orchestra René Jacobs
‘‘
Ingmar Bergman
Nel “Flauto magico”
arriva, come
tra parentesi,
un messaggio:
l’amore è la cosa
migliore della vita.
L’amore come
significato segreto
del vivere
COPYRIGHT TEATRO ALLA SCALA/COSTUMI: ODETTE NICOLETTI
Dal libro
LA LANTERNA MAGICA
Repubblica Nazionale 41 08/05/2005
principe Tamino, inseguito da un serpente e salvato da tre dame civettuole, al
servizio di una regina notturna e fiammeggiante, eroica e metastasiana, che
all’inizio pare buona ma che si rivelerà
cattiva, furente nelle arie prodigiose, di
virtuosistico splendore artificiale. In
scena irrompe il buon selvaggio Papageno, prodigo di battute e di lazzi, e costantemente in cerca di una Papagena
con cui ha una gran desiderio di figliare:
un clown fantastico, ispirato dal Kasperl del teatro popolare viennese, e
imparentabile all’uccellatore Truffaldino del Re Cervo
di Carlo Gozzi (sicuramente noto all’esperto capocomico Schikaneder). Non manca la
consueta bella
principessa delle
fiabe, che qui si
chiama Pamina,
rapita da Sarastro,
fedele al culto di Iside e Osiride, che in
una metamorfosi
opposta a quella
della sua tremenda
antagonista (la Regina della Notte)
pare cattivo all’inizio e finirà per dimostrarsi buono.
Innamorato di Pamina, Tamino viaggia e lotta per la salvezza dell’amata, armato di un flauto d’oro dai poteri magici. Tenace nell’affrontare le prove che lo
introdurranno nella schiera degli iniziati, consentendogli le nozze con Pamina,
I PERSONAGGI
Sotto, i figurini di Papageno
(a destra) e Papagena
(a sinistra) tratti dall’allestimento
del 1816 alla Scala.
Nell’illustrazione a centro
pagina, il costume di scena
della Regina della notte
realizzato per la messa
in scena alla Scala diretta
da Roberto De Simone
il principe conquisterà il suo obiettivo
dopo un succedersi convulso di azioni e
discussioni, interventi di fanciulli dalle
aeree voci bianche (in numero di tre, cifra massonica, la stessa delle dame dell’inizio) e apparizioni prodigiose, porte
di templi che si aprono e si chiudono e
vasti mondi ieratici e cerimoniali. Il finale è un trionfo che precipita i cattivi
nella notte eterna, compone felicemente le due coppie (quella nobile, formata da Tamino e Pamina, e quella popolare, che unisce Papageno a Papagena), festeggia la vittoria del sole
sulle tenebre.
L’iniziazione, la ricerca di sapienza superiore, il senso dell’amore comune: è la chiave fondante. Al di là delle fonti spesso
segnalate
da cui attinsero i
due autori
(dalla fiaba
Lulu oder
Zauberflöte, Lulu ovvero
Il
Flauto magico, di August Jakob Liebeskind, fino al dramma Thamos, König in Ägypten, di Tobias Philipp von Gebler, già
musicato da Mozart anni
addietro, e al romanzo anch’esso orientaleggiante
Séthos, dell’abate Terrasson), contano soprattutto, nel disegnare
la trama del
Flauto, le ragioni profonde dell’ade-
sione di Mozart alla massoneria, parte
integrante di un densissimo universo
culturale che affranca il compositore dal
più diffuso cliché — quello dell’artista
rozzo, infantile, sporcaccione e soavemente animalesco — tramandatoci dalla letteratura romantica e, in tempi più
recenti, dal brillante film di Milos Forman, Amadeus, tanto spassoso quanto
inattendibile.
Viaggia invece nella direzione di una
sua piena consapevolezza intellettuale
molta moderna musicologia, come
giungerà presto a testimoniarci, con un
apporto di folta documentazione originale, anche il libro Mozart massone e rivoluzionario, della musicologa Lidia
Bramani, che uscirà in giugno pubblicato da Bruno Mondadori: ritratto di un
musicista colto, impegnato, curioso, inserito nei circuiti di diffusione creativa e
nelle cerchie dell’intellighenzia più
aperta del suo tempo, oltre che immerso negli ideali progressisti degli Illuminati di Baviera, adepti di un ordine che
veniva definito «comunista». Vi appartenevano tra gli altri Sonnenfels, il fondatore del Giornale dei Massoni, e il poeta Aloys Blumauer, autore di una parodia dell’Eneide, Virgils Aeneis travestiert,
che fu messa all’indice in Austria, e che
conteneva una dura denuncia della politica ecclesiastica, con corollario di dileggio del bigottismo e di sparate sull’Inquisizione.
Il Flauto s’alimenta di nessi molto saldi con questo filone della massoneria
settecentesca: una sorta di fede non ortodossa, piena di influssi pagani e attinti dalle religioni orientali, che vive in sintonia coi presupposti ideali delle rivoluzioni americana e francese. Accanto a
questo pensiero massonico critico, illuministico e giacobino, emerge, dall’opera, un altro aspetto legato alla massoneria, più pedagogico, edificante e costruttivo (Mozart sa moralizzare senza mai
imporci delle prediche), che ci conduce
a guardare l’itinerario del Flauto come
un percorso, psicoanalitico ante-litteram, di costruzione strutturata del sé.
Ma a rendere l’opera nostra contemporanea non c’è soltanto tutto questo.
Segna la sua singolare e preveggente fisionomia anche l’elemento alchemico
ed esoterico, molto diffuso al tempo di
Mozart, con la sua lettura simbolica della natura e dell’uomo e la ricerca della
pietra filosofale attraverso la nascita, più
che mai anticipatrice, dell’uomo artificiale (in provetta!), e col suo opporsi alla
scissione tra materia e spirito, percezione soggettiva e realtà oggettiva. Tutte
prospettive rifiorite nel Novecento con il
movimento New Age, il moltiplicarsi
delle medicine alternative, le varie scuole di meditazione e teosofiche.
In realtà c’è ancora molto di più: il
Flauto mozartiano è un pozzo senza
fondo. Però un cuore del discorso forse
lo si rintraccia. Come scrisse Sergio Sablich, limpido narratore di cose musicali, le prove del fuoco e dell’acqua, affrontate da Tamino, sono l’affermazione di
una legge universale, trascendente, che
riguarda l’umanità tutta: il compimento
dell’amore nel mondo degli uomini.
Non è soltanto l’ideale massonico nella
sua più alta accezione settecentesca, ovvero quella sposata dal saggio e birichino Mozart: lo spirito della solidarietà e
della fratellanza rappresentato da Sarastro e dalla casta dei sacerdoti. Ma è anche, e forse soprattutto, qualcosa che si
realizza nella coppia unita nell’amore. A
confermarlo c’è il momento in cui Tamino e Pamina si riconoscono, al primo
sguardo. Come Romeo e Giulietta: all’improvviso e per sempre. A Mozart basta una cadenza per dire che il riconoscimento è totale, e che il teatro può inventare la felicità.
Lo storico della musica Rosen
“Un capolavoro
dell’illuminismo”
«A
l di là delle sue apparenze di opera comica, il Flauto Magico è l’opera più morale e politica di Mozart, che era uomo intelligente e ambizioso, portatore di una visione del mondo
condizionata dal pensiero massonico e
violentemente anti-cattolica. Quando
parlo di politica in Mozart, penso soprattutto alla sua visione ecumenica dell’amore e della fratellanza, a partire dalla costruzione della coppia: uomo e donna, maschile e femminile, congiunti da un legame che è donazione, scambio e generazione. Mozart appartiene all’illuminismo austriaco, dove a una prospettiva dogmatica
della religione si contrapponeva una concezione religiosa appunto di tipo ecumenico, orientata verso la fusione con l’armonia della natura e l’accettazione di pulsioni naturali».
Giudica così l’identità del Flauto lo storico della musica Charles Rosen, che ha
scritto uno dei massimi testi di riferimento sul classicismo: The Classical Style —
Haydn, Mozart, Beethoven. Compositore
e pianista, interessato anche alla matematica, alla filosofia e alla letteratura, l’americano Rosen è autore di saggi densi e multitradotti. L’amore che lo lega a Mozart e al
Flauto Magico affiora prepotentemente
dal suo vasto volume sul classicismo. Ed è
proprio in nome di quell’amore, racconta,
che egli evita ormai come la peste qualsiasi realizzazione teatrale del capolavoro
mozartiano: «Odio i registi odierni, che
pensano solo a sovrapporre le loro idee
personali alle partiture. Solitamente le
messe in scena operistiche del nostro tempo sono ridicole, gratuite e non hanno
niente a che vedere con la musica».
Dal suo studio di New York, il musicologo espone allegramente la sua prospettiva
originale sul Flauto Magico, «considerata
— dice — la più viennese delle opere viennesi, in contrapposizione alla trilogia delle
opere italiane di Mozart, quelle su libretto
di Da Ponte: Le Nozze di Figaro, Don Giovanni e Così fan tutte. Secondo me invece,
proprio nel Flauto è fortissimo l’influsso
italiano. Il modello e l’ispirazione della sua
forma giungono dalle opere del veneziano
Carlo Gozzi, che influenzò lo stile delle
commedie magiche viennesi. Popolare in
Germania nell’ultimo venticinquennio
del Settecento, Gozzi costruì un’alternativa di successo alla commedia razionale e
borghese del suo nemico Goldoni, molto
segnato dalla tradizione francese».
Quando Gozzi, riferisce ancora Rosen,
nelle sue memorie si avventura nella descrizione delle proprie «fiabe drammatiche», secondo la denominazione che dava
ai suoi lavori, «sembra che parli del Flauto
Magico. Le caratteristiche sono le stesse:
maestosità, senso del mistero, sorprese,
eloquenza, sentimenti di filosofia morale,
nutriente capacità critica, dialoghi che
sgorghino dal cuore e una magia ammaliante, capace di condurre lo spirito e la
mente degli spettatori alla convinzione
della verità dell’impossibile».
Fondato su una combinazione di avventure fiabesche e di tradizione farsesca derivata dalla Commedia dell’Arte, quello di
Gozzi, prosegue Rosen, «era un teatro che
concedeva ampio spazio all’improvvisazione. L’azione del Flauto Magico ne dimostra l’influsso non solo nella farsa popolaresca di Papageno, ruolo in gran parte
improvvisato dall’impresario e librettista
Schikaneder, che lo interpretò nelle prime
rappresentazioni viennesi dell’opera, ma
anche nell’illusionismo fiabesco e nella
spettacolarizzazione dei rituali religiosi».
Quanto alle forme musicali, mille sono
gli spunti di novità, si entusiasma Rosen.
Tanto per fare un esempio: «Nel ruolo di
Sarastro e nel coro dei sacerdoti, Mozart
introduce una forma di inno classico che
si sarebbe rivelata di estrema importanza
negli sviluppi della musica di Beethoven.
Inoltre il Flauto, come corollario dell’inno, introduce una concezione della musica come veicolo di essenziali verità morali: qui, più che mai, il raggio d’azione
espressivo della musica appare ampliato
in direzione intellettuale».
Ma il tema centrale, il più importante e
forse anche il più moderno del Flauto, insiste Rosen, è una moralità fondata sull’amore universale e sulla più serena fiducia
nei sentimenti della vita: «È l’amore, sembra suggerirci Mozart attraverso la sua
musica ricchissima, proprio l’amore
umano, terreno e anche sensuale, la forza
che conduce a una più alta consapevolezza dell’esistenza. Non è l’amore del potere, ma è il potere dell’amore, ispirato dalla
fedeltà e dalla coesione della coppia, a dettare il finale dell’opera».
(l. b.)
Repubblica Nazionale 42 08/05/2005
DOMENICA 8 MAGGIO 2005
Miti del jazz
GIACOMO PELLICCIOTTI
on è solo l’ultimo divo del
pianoforte, ma anche un
uomo sofferto, che ha
scelto una vita ascetica e
solitaria, scandita da regole ferree, per custodire il
suo bene più prezioso. È l’ispirazione
musicale che Keith Jarrett, principe dell’improvvisazione, va regalando con generosa prodigalità in giro per il mondo
da 40 anni. Oggi festeggia il sessantesimo compleanno, sfoggiando con orgoglio il dono più luminoso che si è potuto
fare: un nuovo doppio album di pianosolo, Radiance, improvvisato «da zero a
zero», come dice lui. Per Jarrett è la ciclopica rivincita, catturata nell’ottobre
2002 dai concerti giapponesi di Osaka e
Tokyo. Una rinnovata voglia di creare
quando, prostrato dalla malattia (sindrome da fatica cronica), credeva di non
poter più sopportare lo sforzo supremo
del “solo-concert”. E invece a luglio
l’imprevedibile Keith ritorna in tour con
Gary Peacock e Jack DeJohnette: il 9 a
Macerata, il 12 a Napoli e il 15 a Roma. E
a settembre il suo secondo figlio lo fa diventare nonno.
Happy birthday, Keith. Come reagisce al passare del tempo, ne ha paura o
ha trovato un antidoto per resistere?
«Al momento non ho nessun timore,
perché sono così felice del mio nuovo album. Comunque non ho l’impressione
di essere vecchio, almeno fino a che posso fare il mio lavoro. Quando comincerò
a suonare male, allora sì che avrò paura
della mia età».
Specie dopo la malattia, lei dedica
molta attenzione alla cura del corpo.
Che tipo di disciplina segue?
«È come prepararsi alle Olimpiadi.
Devo spingere il mio intero corpo, mente compresa ovviamente. Seguo per la
parte superiore una speciale terapia che
sviluppa il metabolismo e la capacità di
resistenza. E ogni giorno, ogni singolo
giorno senza eccezione, devo esercitarmi al piano. È molto diverso dal passato,
quando pensavo di non averne bisogno.
Continuo anche a prendere molte vitamine e medicine per il mio male. E mangio normalmente, evitando alcool, derivati del latte, zucchero e carne rossa, una
dieta che seguo ormai da anni».
Oltre alle ore per lo studio e la pratica
del piano, come usa il tempo libero? Ha
Repubblica Nazionale 43 08/05/2005
N
IL DISCO
L’ultima fatica di Keith Jarrett si chiama
“Radiance”. Si tratta di un doppio cd
di improvvisazioni per piano-solo
registrato dal vivo durante i concerti
di Tokyo e Osaka nel 2002. All’uscita
seguirà un tour. Le date italiane: il 9
a Macerata, il 12 a Napoli e il 15 a Roma
IL DVD
In autunno la Ecm, pubblicherà un Dvd,
intitolato “The Art of Improvisation”,
con materiale inedito relativo anche
ai concerti degli anni Sessanta quando
Jarrett militava nella band di Miles
Davis o quando guidava il suo quartetto
europeo con Jan Garbarek
Keith Jarrett.La vita ascetica
mi ridà la gioia di suonare
FOTO JACQUES MUNCH/AFP
spettacoli
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43
una vita sociale?
«Sono per lo più un essere solitario.
Ho pochi amici fuori dall’ambiente della musica, che incontro quando sono in
tour. A casa non li vedo, vivo molto solo».
E non pensa di cambiare?
«Non sono sicuro di poterlo fare, è una
questione di età. Da giovane era diverso,
ora credo di aver bisogno dei miei spazi.
Perché se voglio restare ancora a lungo
nel mondo della musica, ci vuole ancora più concentrazione. E se invitassi i
Il pianista compie
sessant’anni.
E torna sulla scena,
dopo la malattia, con
un disco e una tournée
miei amici a casa, finirei col guardare
l’orologio in attesa che se ne vadano, per
tornare ad esercitarmi al piano».
Il piano-solo è un modo molto impegnativo di creare musica ogni volta
dal nulla. Una pratica talmente stressante, che lei sospetta all’origine del
suo male. Come si è preparato al ritorno ai concerti?
«Ho provato più volte nel mio studio,
continuando a ripetermi: no, ferma,
non è quello che sento adesso, è solo
un’abitudine riproporre suoni vecchi,
cose che conosco già. Ho cercato perciò
di pulire la mente, eliminando i miei
suoni favoriti, i climi prediletti. Nessuna
indulgenza. Ma ci ho lavorato su per mesi a casa, non è stato facile, ci vuole molta disciplina. È qualcosa di nuovo: non
suonare quello che ti piace, ma quello
che le mani ti spingono a fare. Non
dev’essere sempre il cervello, ma anche
il corpo a fare musica. Nel jazz è la mano
sinistra a disegnare gli accordi, le linee di
basso. È una convenzione che ho voluto
cambiare. Quando mi ascoltavo a casa,
la mia sinistra suonava cose incredibili
che non le avevo chiesto. E allora l’ho lasciata libera, ho lasciato il mio corpo libero di prendere decisioni al posto della mente.
Che effetto le ha fatto rivedersi 35 anni dopo sul palco dell’Isola di Wight, nel
dvd di Miles Davis?
«Grande. Di solito dico no ai commenti su episodi del passato, ma Miles
suonò così bene quella sera che non ho
potuto non accettare di essere intervistato. Ma c’è un altro suo inedito travolgente, che la Sony pubblicherà l’inverno
prossimo. Oltre alla session già uscita su
Live-evil, suonammo con la stessa
band, ma senza John McLaughlin, al
Cellar Door di Washington: Miles, Airto,
Jack DeJohnette, Gary Bartz, Mike Henderson ed io. Quattro cd completamente inediti, molto, molto buoni».
Non è strano che i suoi paesi preferiti
siano l’Italia e il Giappone? I giapponesi
così precisi e massificati, mentre gli italiani sono anarcoidi e individualisti.
«Sono come un pranzo di due diverse
portate. In Giappone suono sempre al
chiuso con un pubblico molto paziente
e quieto, mentre in Italia suono soprattutto all’aperto davanti a un’audience
attenta ed emozionale. È una buona
combinazione».
Il suo bestseller The Koln Concert risale al 1975. Non si sente ossessionato
dal confronto con quell’antico capolavoro?
«No, anzi decido ora che Radiance
sarà l’antidoto al Koln Concert».
Lei non è un americano facile. Che
cosa ama e cosa odia del suo paese?
«Odio la naïveté e la amo. Posso dire
che l’America è il miglior paese del mondo per essere liberi di esprimere le proprie idee. Ma purtroppo la gente qui non
è troppo intelligente».
44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 8 MAGGIO 2005
i sapori
Cinque anni fa nascevano i Presìdi
con l’intento di tutelare prodotti
alimentari della nostra tradizione
in pericolo. Venerdì in Sicilia i
responsabili di quei progetti tirano
le somme di un successo clamoroso
Qualità vincente
Liguria
CASTAGNA ESSICCATA NEI TECCI
Secondo tradizione, in alta Val Bormida
l'essiccatura delle castagne avviene nei cosiddetti
tecci, piccole costruzioni di pietra con tetti di
scandole (piccole assi). Un broker milanese,
Federico Santamaria, scelto Calizzano come buen retiro, ha
promosso il recupero di castagneti ed essiccatoi. Oltre
all'affumicatura, con i frutti disposti a strati (e ruotati, per rendere il
processo omogeneo , sui soffitti a graticcio per due mesi), le castagne
Gabbine vengono lavorate per produrre confetture e sciroppi
Toscana
AGNELLO DI ZERI
Nel cuore della Lunigiana, una ragazza, Cinzia
Angiolini, ha ripristinato l’allevamento della
pecora zerasca, lasciata al pascolo (sopra gli 800
metri) e ritirata solo in inverno. Il latte — il più ricco
di proteine di tutte le razze ovine presenti in Italia — è destinato alla
produzione di un eccellente pecorino e all’alimentazione degli agnelli.
Grazie alle caratteristiche della carne, profumata, morbida, la
produzione è assorbita quasi esclusivamente da ristoratori di qualità
SlowFood
La miniera dei cibi perduti
l’Italia ritrova 200 gioielli
LICIA GRANELLO
aglia il melone!
Gridò mia madre.
Incisi la forte scorza
e il coltello subito
affondò. Mia madre
intanto aveva portato vino e bicchieri. E il vino era povera
cosa, ma il popone era aperto in mezzo
alla tavola e bevemmo profumo invernale di popone». Elio Vittorini racconta così, nel suo Conversazione in Sicilia
il rapporto quasi carnale tra i commensali e il frutto golosamente offerto.
Il melone d’inverno è uno dei 200 Presìdi Slow Food che venerdì 13 maggio
sfileranno a Patti, in Sicilia, nella prima
edizione degli Stati Generali. Come per
gli altri 199 (a cui vanno aggiunti una settantina di esteri), si tratta di un prodotto
pressoché scomparso, ingoiato da importazioni più o meno esotiche e quasi
mai all’altezza, da speculazioni spietate,
da rassegnazione mista a oblio.
Cinque anni dopo la messa in opera
e dieci dopo la prima teorizzazione,
forti di uno studio della Bocconi che ne
ha decretato il successo a suon di numeri e verifiche sociologiche, i 400 responsabili dei Presìdi si confronteranno davanti al loro mentore e pigmalione Carlo Petrini. Che racconta: «Nel
1996, con la metafora dell’Arca abbiamo delineato geografia e contenuti di
un patrimonio in erosione. Ma si trattava di una denuncia senza ricadute
pratiche. Da qui, l’esigenza di intervenire in maniera mirata: obbiettivo, non
farli scomparire dalla faccia della terra.
E siccome le parole sono pietre, abbiamo battezzato il progetto con un termine difensivo come Presidio».
Chiunque abbia assaggiato il melone
di Vittorini, il provolone del monaco, la
fagiolina del lago Trasimeno, la focaccia
classica di Genova, sa di che cosa si tratta: piccoli tesori, frutto di una sapienza
antica e di una microeconomia fragile,
così indeboliti e così a rischio da non essere in grado di alzare la voce.
Le cifre dicono che dove sono arrivati
i Presìdi, i cambiamenti sono stati incredibili: tessuti sociali ricostituiti, tradizioni recuperate, fatturati incrementati
con percentuali addirittura imbaraz-
Repubblica Nazionale 44 08/05/2005
«T
Formaggi, verdure,
salumi dimenticati
sono tornati ad
essere apprezzati
per il loro gusto
zanti. Vero è che si partiva da situazioni
al limite della disperazione: quattro forme di formaggio Montebore, poche
centinaia di vacche modicane sarde, radi filari di Nosiola trentina. Alle spalle,
una storia radicata e benevola, davanti
un futuro impossibile. Per effetto opposto, dopo l’attivazione del programma
di aiuti, alcune produzioni sono andate
così oltre il salvataggio da squilibrare il
rapporto domanda-offerta.
Errori e limiti fisiologici di un esperimento rivoluzionario. In compenso,
Slow Food è stato catapultato nell’empireo delle associazioni di statura mondiale. «Se abbiamo avuto un merito, è
stato mirare i progetti alle diverse merceologie: in alcuni casi migliorare il valore aggiunto, in altri preservare le modalità, in altri ancora promuovere la conoscenza, giù giù fino agli interventi
strutturali (campi da comprare, stalle da
riattare), utilizzando le risorse arrivate
da semplici cittadini, aziende, istituzioni. Ci siamo riusciti toccando corde molto sentite nel nostro paese: identità, me-
moria, e una cultura alimentare da difendere fino all’ultima coltivazione di
radicchio».
Ben lo sanno i dirigenti della Lufthansa, che hanno chiesto a Slow Food di proporre una selezione di Presìdi sui voli
AirDolomiti: l’accordo, annunciato
proprio qualche giorno fa, prevede che i
pasti serviti a bordo siano una sorta di
vetrina per le produzioni sotto tutela,
scelte in armonia con i diversi eventi che
l’associazione organizza in Italia.
Se questa golosa levata di scudi era facilmente pronosticabile da Alessandria
a Ustica, molto meno scontata era lo
spostamento del modello fuori dai nostri confini. E invece, le 1.300 comunità
arrivate da 130 nazioni all’appuntamento di Terra Madre a Torino, sei mesi fa, hanno dato un seguito tale all’evento che la Rete, fatta di condivisione
di conoscenze, trasmissione di saperi,
confronto di metodologie e risultati, sta
costringendo Petrini a un tour de force
planetario, dalla comunità tibetana che
lavora il latte di yak alle produttrici marocchine di olio d’argan. Obbiettivo,
conoscere e accedere in maniera collegata e trasversale alle nuove tecnologie,
capaci di supportare la «globalizzazione virtuosa».
Guai a definirla un’utopia, anche se la
strada è lunghissima. Se le parole sono
pietre, la prima da scagliar via è “consumatore”. Consumare è un errore che
non ci possiamo più permettere, dicono
a Slow Food: meglio chiamarci coproduttori, diventando parte attiva nel determinare le produzioni di qualità.
Del resto, «mangiare è il primo atto
agricolo — sostiene il poeta-contadino
americano Wendel Berry — e l’autoresponsabilizzazione è un processo che
può muovere le montagne». Senza aver
paura di spendere qualche euro in più (la
spesa per il cibo negli ultimi trent’anni è
scesa dal 32 al 17%). Perché sotto certi
prezzi, i risultati sono mucca pazza, l’ingiustizia sociale, l’ambiente devastato
da pesticidi e inquinanti, la salute dimenticata. «Meno gioielli e più cipolle di
Tropea», ride amaro Petrini. Chi ancora
dubita, passi dalle parti di Patti, il prossimo fine settimana: scoprirà che una forma di Maiorchino e un pane di Castelvetrano sono quasi meglio di un collier.
Veneto
CARCIOFO VIOLETTO DI SANT’ERASMO
Pensare a Venezia come a un orto è insolito e
affascinante. La cultura del carciofo in laguna è
stata introdotta dalla comunità ebraica, avendo
un’intera isola dedicata alla coltivazione di
ortaggi, a cominciare proprio dagli articiochi, il cui primo
germoglio, la castraura, è alla base di alcune ricette-culto della
cucina veneziana. Il terreno salino, l’aria ventosa, la concimatura
con conchiglie e gusci di granchio, rendono particolare il sapore
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45
200
Il numero dei Presìdi
Slow Food in Italia
1999
È l’anno di nascita
dei Presìdi italiani
1.480
Tante le aziende coinvolte
nel progetto di valorizzazione
4.000
È il numero degli addetti
ai lavori nei Presìdi
93%
Repubblica Nazionale 45 08/05/2005
L’incremento medio di
prezzo dei cibi dei Presìdi
ILLUSTRAZIONE DI FRANCO MATTICCHIO "L'ITALIA A TAVOLA" PER GENTILE CONCESSIONE DELLA GALLERIA DELL'INCISIONE BRESCIA
DOMENICA 8 MAGGIO 2005
Cinque
Terre
Appennino
romagnolo
Acciughe di Monterosso
e Sciacchetrà sono i simboli
di una terra ruvida e
bellissima, dove nulla riesce
facile. Quattro pescatori
e altrettanti viticultori
proseguono la tradizione
delle due produzioni,
tra il bel mare spezzino e i
terrazzamenti dell’entroterra
L’entroterra della riviera
è un alternarsi di pascoli e
boschi, coltivazioni di
foraggio e frutteti. Sotto
osservazione le piante di
pera cocomerina, dalla polpa
rossa, dolce, profumata, e la
produzione di raviggiolo,
formaggio a latte crudo, da
consumare freschissimo
DOVE DORMIRE
DOVE DORMIRE
IL VIGNETO
Via Pasubio 6
Volastra (Riomaggiore)
Tel. 0187-762053
Camera doppia da 75 euro
LOCANDA AL GAMBERO ROSSO
Via Giuseppe Verdi 5
San Piero in Bagno
Tel. 0543-903405
Doppia da 50 euro, con colazione
DOVE MANGIARE
DOVE MANGIARE
TRATTORIA GIANNI FRANZI
(con camere)
Piazza Matteotti 5 - Vernazza
Tel. 0187-821003
Chiuso il mercoledì,
menù da 25 euro
OSTERIA DEI FRATI
(con camere)
Via Comandini 149 - Roncofreddo
Tel. 0541-949649.
Chiuso lunedì e martedì,
menù da 30 euro
DOVE COMPRARE
DOVE COMPRARE
NON SOLO VINO
Via Colombo 180 - Riomaggiore
Tel. 0187-760558
MACELLERIA CAMILLINI
Piazza Santa Maria 5 - Bagno
di Romagna - Tel. 0543-911219
Gargano
Madonie
Grano e olio, vino e
mozzarelle: la miscellanea di
mare, sole e terra fertile
firma tutto l’agroalimentare
del promontorio, in provincia
di Foggia. I presìdi
proteggono le produzioni di
agrumi, caciocavallo e delle
vacche podoliche allevate
allo stato brado
Un’area scoscesa e boschiva a
ridosso del mare: ovvero quanto
di meglio per favorire
e preservare la biodiversità.
Un esempio su tutti, quello
della manna, la resina
biancastra dei frassini,
dolcificante e leggermente
lassativa. Protezione anche
per la provola a latte crudo
DOVE DORMIRE
DOVE DORMIRE
LA CHIUSA DELLE MORE
Valle dello Schiaffo/SS.89
Peschici
Tel. 347-0577272
Camera doppia da 35 euro,
colazione inclusa
AZIENDA AGRITURISTICA
BERGI
SS. 286 per Geraci Siculo
Castelbuono
Tel. 0921-672045
Doppia da 70 euro, con colazione
DOVE MANGIARE
DOVE MANGIARE
AL TRABUCCO
Località Monte Pucci
Peschici
Tel. 0339-3810142
Sempre aperto da aprile a
ottobre, menù da 25 euro
NANGALARRUNI
Via Alberghi 5
Castelbuono
Tel. 0921-671428
Chiuso mercoledì,
menù da 30 euro
DOVE COMPRARE
DOVE COMPRARE
ENOTECA VESTE
Via Duomo 14
Vieste
Tel. 0884-70641
TUDIA – ANTICHE
RICETTE MADONITE
Contrada Tudia - Petralia Sottana
Tel. 0934-676054
Sicilia
MELONE D’INVERNO
La cooperativa Placido Rizzotto, impegnata nella
coltivazione delle terre confiscate alla mafia,
all’interno del progetto Libera Terra di Don Ciotti,
esibisce tra i suoi fiori all’occhiello la ripresa della
coltivazione di una vecchia varietà di meloni, i Purceddi d’Alcamo,
dalla buccia rugosa e verde, capaci di conservarsi a lungo, tanto
da migliorare in bontà e dolcezza fino a oltre Natale, malgrado la
raccolta cominci a giugno. Tra Palermo e Trapani, sono sotto
tutela anche i meloni Cartucciani di Paceco
Abruzzo
LENTICCHIA DI S. STEFANO DI SESSANIO
Nel parco del Gran Sasso, l’intero paese di
Sessanio lavora al recupero di questa minuscola
tipologia di legume, dalla buccia tenerissima e
molto saporita, coltivata in zona da oltre mille anni
Crescendo su alture che vanno dai 1.000 ai 1.600 metri, la
maturazione avviene in tempi diversi e la raccolta è manuale. Uno
sforzo vanificato dall’esistenza sul mercato di finte lenticchie di Santo
Stefano, di qualità inferiore
Molise
SIGNORA DI CONCA CASALE
È un salame buonissimo e prezioso (da cui il
nome), tradizionalmente confezionato dalle
donne di questa micro comunità (400 abitanti)
sopra Venafro e utilizzato come regalo “in natura”
ai notabili del paese nelle occasioni importanti. Carla Rambaldi ha
deciso di avviare un’attività di norcineria, ripartendo da lì. Sono
state le anziane a insegnarle la ricetta,dall’allevamento biologico
dei suini alla lavorazione, interamente manuale
46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 8 MAGGIO 2005
le tendenze
Impronte di donna
Corda, sughero, cuoio, fibbie, plastica, tessuto multicolore:
tornano gli zatteroni, scarpe cult del dopoguerra
“rimodernate” negli anni Settanta e oggi riproposte in versioni
hi-tech con materiali diversi. Mille i modelli per ragazze
di vecchie e nuove generazioni che affronteranno la stagione
con qualche centimetro in più sotto i piedi
LAURA ASNAGHI
n’estate sulle zeppe. La moda
è ciclica, ha dei tormentoni
che riemergono magari dopo
anni e fanno boom. Stavolta
tocca alle scarpe con il doppio
fondo, che già adesso spopolano in tutte le vetrine. Girare nei centri città
per credere.
Ma le zeppe sono scarpe particolari. Fanno discutere e, da sempre, dividono il pubblico, maschile e femminile, su due fronti.
Favorevoli o contrari. C’è chi, guardandole,
inorridisce e le considera il massimo della
volgarità e chi, all’opposto, ne va pazzo e le
esalta come «piccoli capolavori fetish». Ma
non c’è da stupirsi. Le zeppe, da sempre, sono amate o avversate. Sarà perché portano
in eredità, una connotazione trasgressiva e
peccaminosa? Tutta colpa (o forse merito)
del fatto che, tra la fine del 1400 e la metà del
1600, su questi trampoli (alti anche 50 centimetri) calzati con l’aiuto della servitù, si
esibivano sia integerrime signore preoccupate di proteggersi dal fango delle strade,
che donne di piacere che volevano, invece,
mettersi in bella mostra, emergere sulle altre dame e calamitare così l’attenzione dei
maschi conquistatori e, magari, paganti.
Ma oggi è un’altra storia, con qualche
centimetro in più sotto le suole le ragazze
hanno imparato perfino a ballare. Potenza
della moda che va e ritorna? Donatella Versace non crede alla fugacità stagionale delle zeppe: «Io le ho sempre usate perché sono sexy e glamour. E in più regalano alle
donne l’altezza, senza sottoporsi alla schiavitù di un tacco a spillo, bello ma spesso
sfiancante. Ecco perché mi auguro che questa estate molte signore possano scoprire il
piacere di stare sulle zeppe». Un piacere diverso da quello provato da mamme e nonne negli anni duri e grami della seconda
guerra mondiale, quando Salvatore Ferragamo nobilitò le zeppe «per cause di forza
maggiore». Negli anni Quaranta, infatti,
con l’acciaio che veniva destinato a scopi
bellici, riuscire a fare scarpe con tacchi resistenti era impossibile. E così, «il calzolaio
dei sogni», l’uomo che, per primo, ha prodotto scarpe per le dive di Hollywood, reinventò la zeppa: con sughero sardo, materiale autarchico, come imponeva il regime.
Ferragamo fece di necessità virtù e trasformò gli zatteroni in oggetti del desiderio,
belli e colorati, capaci di esaltare la bellezza
femminile.
Ma chi ha dato la spettacolarizzazione
massima alle zeppe sono state alcune rock
star, note per la loro stravaganza e originalità. Negli anni Settanta, Elton John si conquistava in un sol colpo dai 20 ai 30 centimetri in più di altezza, con scarpe “sopraelevate” e decorate con perline e strass. Stessa mania per David Bowie che, pur essendo altissimo, andava pazzo per le zeppe “glitterate” e
adottate, in discoteca, dai suoi fan. Modelli
stravaganti che Roberto Cavalli ricorda bene. «È un tuffo negli anni Settanta. Quando
ero giovane le ragazze portavano gonnellone fiorite e sandali alti, come sospesi su zattere. Queste scarpe hanno un pregio enorme. Quello di allungare magicamente le
gambe delle donne sfidando ad ogni passo la
legge dell’equilibrio. Sono belle e racchiudono in sé tante cose: la gioventù, l’energia, la
libertà e la voglia di divertirsi».
E il tormentone continua. Sempre presenti nelle collezioni di stilisti amanti della provocazione come Jean Paul Gaultier, John
Galliano, Alexander McQueen, Vivienne
Westwood e Fiorucci, gli “zatteroni” ora rinascono, grazie alle griffe del made in Italy,
in versione lusso, ironica o più semplicemente pratica. Il tutto per una
estate (ma non è escluso un
prolungamento invernale),
in cui le donne dovranno
imparare a camminare
agilmente sui trampoli,
per evitare dolorose ma
modaiole slogature.
Repubblica Nazionale 46 08/05/2005
U
2
1
3
1. Il sexy-glamour della linea “flora”
di Gucci, la scarpa di culto per l’estate
2. Tacco grosso tessuto rigato e fibbia
quadrata per il sandalo Paciotti
3. Leggera e confortevole, ecco
la Campermarinera - 4. È degli anni
Quaranta il capolavoro di Salvatore
Ferragamo, il “calzolaio delle stelle”
5. Zeppa Dior in sughero e pelle pregiata
6. Versione espadrillas, con fiore,
per Sisley
4
5
6
Zeppe
Quest’estate tutte sui trampoli
9
8
10
7
7. Pois in bianco e nero per il sandalo “pin up” di Fiorucci - 8. Oro e logo in vista, da Versace la zeppa è da vera star hollywoodiana - 9. Una farfalla
e lacci sottili intorno alla caviglia. Da Emporio Armani il sandalo mantiene una impronta chic - 10. Verde e viola, un perfetto mix di colori per Etro
DOMENICA 8 MAGGIO 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47
Così cambia il portamento femminile
Sollevate da terra
come eleganti Masai
CARLA SOZZANI
Repubblica Nazionale 47 08/05/2005
IMMAGINI FASHION
Sandalo multicolore
in satin di cotone, tacco
8 centimetri (R.Vivier
1971). La foto è stata
tratta dal libro “Elle
style” di Francois
Baudot-Jean Demachy
(Edizioni Filipacchi)
È una delle immagini
fashion degli anni
Settanta
C’è chi ne
ha tante paia
e non ne può
fare a meno
e chi inorridisce
soltanto a guardarle
Ecco la moda che
divide i clienti davanti
alle vetrine dei negozi
12
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e scarpe con la zeppa sono una tradizione orientale
mai abbandonata nelle abitudini familiari e quotidiane; tradizione che attraversa anni, ceti sociali, valori culturali, attitudini ed educazione, rapporti tra i sessi,
codici e modalità di comunicazione.
Le scarpe con zeppa (è interessante ricordare che in termini retorici il principio della zeppa si definisce ad iectio =
aggiunta), che sottolineano l’elegante incedere delle ieratiche icone femminili in kimono durante le cerimonie religiose e di corte, ma anche nei ritrovi contraddistinti dalle lanterne rosse, sono prepotentemente ricomparse nelle vetrine di tutto il mondo. Ad Hanoi, Vietnam: le più incredibili, vertiginose e sicuramente inaspettate.
Anche nella Venezia del 1600 si era vissuto il frivolo tripudio delle famose chopine ai piedi delle nobildonne, delle intellettuali e delle cortigiane.
Dopodiché, nel mondo occidentale, delle calzature con
la zeppa si perdono le tracce: scomparse, per secoli addirittura, fino alla fine degli anni ‘30, quando Salvatore Ferragamo e André Perugia creano e realizzano le più fantasiose ed avventurose scarpe con zeppe di tutti i tempi. Le
zeppe si decorano, si disegnano, per prendere e proporre
forme nuove, inedite. Così il costume e la moda della calzatura voltano pagina.
Ferragamo e Perugia, con David Evins e Beth Levine, preparano gusto e mercato alla rivoluzione della moda degli
anni ‘70 quando la “platform” viene compresa e omologata tra i simboli di libertà di scelta antiborghese per donne (e
uomini). Ne faranno il loro emblema Fiorucci e Biba.
Manolo Blahnik (non ancora famoso per il suo stiletto
heels) ne crea una esclusiva per Paloma Picasso: un serpente stringe la caviglia. Così l’autorevole eleganza riconosciuta alla zeppa, assume riferimenti sensuali. Legittimata e consacrata da Vivienne Westwood e Azzedine
Alaïa, nelle loro sfilate, come simbolo sexy negli anni ‘80.
Oggi la zeppa vive un’ulteriore evoluzione verso la solidità dell’immagine accettata. Si è adeguata ai ritmi globali, fino a toccare i margini di utilità nel
dinamismo delle attività del tempo
libero, dello sport e della salute. E
così la vera ultima grande novità
di moda è la zeppa più nuova e
meno ortodossa di tutti i tempi.
La zeppa del 2000 è la MBT (Masai
Barefoot Technology): inventata
da Karl Muller (ingegnere) e ispirata dalla postura eretta dei mitici
Masai, alti, eleganti e dritti, dà la
piacevole impressione di camminare a piedi nudi sulla sabbia.
La nuova zeppa, affascinante
nella sua semplicità, allunga la figura, fa camminare sui talloni, obbliga
naturalmente ad un’andatura dondolante, rialza i glutei, rende la postura
corretta, favorisce e sollecita l’elasticità
muscolare. Vero e proprio strumento sorprendente di allenamento.
Per le strade di Londra le modelle e non, sedotte
dalle MBT, si riconoscono da lontano; non camminano,
sembrano sollevate da terra, leggerissime, quasi danzanti, vera e propria avanguardia di una femminilità sempre
più gioiosa, ammirevole e salvifica.
L
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11. Logomania per le zeppe di Guess - 12. L’azzurro dei Caraibi per Geox- 13. Sandali da gran sera firmati Dolce e Gabbana con strass e paillettes - 14. Fascia
rossa per Louis Vuitton - 15. I decori di Christian Lacroix
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48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 8 MAGGIO 2005
l’incontro
Caratteri opposti
Ha iniziato “da giovane
e sconsiderato” ridendo in faccia
al regista e facendosi cacciare
dal set di uno dei film più sfortunati
di Hollywood: “I cancelli del
cielo”. Poteva essere
la fine immediata della
sua carriera, invece
il cinema americano ha
trovato in lui uno degli
attori più versatili:
il diabolico carnefice
capace di trasformarsi
nella vittima più innocente. Tanto
da arrivare ad interpretare Gesù
con Martin Scorsese
Willem Dafoe
a cominciato la sua carriera di attore in un capolavoro sfortunato, e la sua
prima apparizione sullo
schermo venne bloccata sul nascere da
una risata lunga e irrefrenabile. Non si
trattava neanche di un vero e proprio
ruolo, e la sceneggiatura non prevedeva per lui alcuna battuta, ma Willem
Dafoe era entusiasta di lavorare con il
regista del Cacciatore in un western che
avrebbe raccontato uno degli episodi
più drammatici e inquietanti della storia americana. Il perfezionismo estenuante di Michael Cimino e le lentezze
infinite sul set dei Cancelli del Cielo
avevano sfiancato tutti i componenti
della troupe, e in una notte di ripetizioni e cambiamenti impercettibili Dafoe
sfogò la propria stanchezza con uno
scoppio di risate, che dapprima sconcertò il regista, e quindi lo mandò su
tutte le furie. Cimino lo aveva fortissimamente voluto per il suo volto da angelo caduto, e si era reso immediatamente conto di un talento che meritava ben più di una comparsata, però
quella risata offendeva non soltanto il
suo orgoglio ma il film che stava tentando di completare contro l’intera
Hollywood, e con il quale avrebbe voluto ridefinire il genere western.
Dafoe venne cacciato dal set tra le urla, ed oggi, a venticinque anni di distanza, ricorda ancora quell’episodio con un
misto di imbarazzo e ironia: «Non posso
dire che mi sia comportato con grande
professionismo, ma ero giovane, inesperto e un po’ sconsiderato. Su quel set
si respirava un’aria che non ho mai più
visto: un misto di tensione e sacralità, di
perfezionismo e ossessione, e Cimino
era l’unico a sapere cosa volesse, ma si
guardava bene dal parlarne con gli altri».
Chi pensa che questa ricostruzione sia
solo un alibi deve ricordare che stiamo
malriposte ambizioni artistiche. «Mi
resi conto che non si trattava di un qualunque film di genere quando lessi il
modo in cui era presentato il mio personaggio, chiamato Rick Master — racconta come se dovesse ancora studiare
il ruolo —. In una delle scene iniziali incendio un quadro subito dopo averlo
completato. Viene spontaneo da chiedersi: Rick è consapevole di non avere
talento? O c’è qualcosa di perfino più
profondo e inquietante: è consapevole
della fallacia del talento? Si tratta di un
personaggio complesso, che nasconde
una voragine di tormento dietro la sua
spietatezza e la sua perversione».
Con quel film Dafoe rubò la scena al
protagonista William Petersen ma il
grande successo, e la prima candidatura all’oscar, arrivarono l’anno successivo quando Oliver Stone ebbe l’intuizione di scritturarlo finalmente against type in Platoon. Furono in molti ad
obiettare che era impensabile prendere un attore con un volto così diabolico
per un personaggio assolutamente positivo come il sergente Elias, ma Stone
Da Oliver Stone
a David Lynch:
sono fortunato, ho
lavorato con registi
bravissimi, capaci,
ognuno con il suo
stile, di metterti
nella situazione
migliore per tirar
fuori il massimo
FOTO K.B./GAMMA
H
NEW YORK
parlando di un film che causò il fallimento di una major gloriosa come la
United Artists, e che sul set il regista invitò le attrici che interpretavano il ruolo
di prostitute ad esercitarsi realmente
nel mestiere più antico del mondo.
Oggi Dafoe ha la serenità sufficiente
per sorriderne, ma quell’avvio traumatico ha pesato non poco su una prima
parte di carriera in cui veniva scritturato perennemente per ruoli da “villain”,
meglio se sadico e senza la minima ombra di scrupolo o pentimento. Da quando è arrivato a New York dalla cittadina
di Appleton nel Wisconsin (è il luogo
che ha dato i natali a Joe McCarthy e
Harry Houdini) ha espresso tenacemente la volontà di sperimentare nuovi linguaggi recitativi, privilegiando in
un primo momento il teatro sul cinema:
è uno dei fondatori di un’istituzione di
culto come il Wooster Group, ed è riuscito a conquistare un pubblico estremamente variegato con spettacoli che
vanno da The Hairy Ape di Eugene O’Neill, nel quale si esibiva nudo, a To you
birdie!, basato sulla Fedradi Racine. Ancora adesso dedica molto tempo al teatro d’avanguardia, e tra gli attori statunitensi è quello che alterna con maggiore efficacia il lavoro nelle grandi produzioni mainstream a memorabili interpretazioni nel cinema indipendente. Dopo l’incidente dei Cancelli del
Cieloha interpretato un piccolo ruolo in
The Hungerdi Tony Scott, ma la scoperta della qualità della sua recitazione si
deve a due tra i registi più interessanti
tra quelli nati negli anni Ottanta:
Kathryn Bigelow, che lo volle come protagonista in The Loveless, e Walter Hill,
che lo scritturò come perfido antagonista in Streets of fire, nel ruolo di un personaggio chiamato Raven, il corvo.
In questi giorni Dafoe ha rivisitato i
diversi momenti della carriera per preparare l’appuntamento all’Auditorium
di Roma per il Viaggio nel cinema americano. Di fronte alle clip dei primi film
tende a notare soprattutto il passaggio
inesorabile del tempo: «Mi fa impressione vedere quanto eravamo giovani.
La prima cosa che mi viene in mente rivedendo questi film sono i ricordi relativi alla lavorazione. Il risultato viene
sempre in un secondo momento. Mi
succede lo stesso anche di fronte a Vivere e morire a Los Angeles: mi trovavo
di fronte a William Friedkin, uno dei registi che avevano rivoluzionato Hollywood dopo il crollo dello studio system, e ricordo che rimasi colpito dalla
sua assoluta padronanza del mezzo cinematografico. Friedkin aveva realizzato Il braccio violento della legge e L’Esorcista, ma nell’ambiente era noto in
particolare per le scene di inseguimento. Il film ne prevedeva un paio, e ricordo il disappunto nello scoprire che non
partecipavo a nessuna delle due».
In Vivere e morire a Los Angeles,
Dafoe interpreta la parte di un falsario
perverso e leggendario, che sfoga nel
crimine le frustrazioni procurate da
si ricordò della descrizione di «angelo
caduto» dell’amico Cimino e dimostrò
quanto possa essere efficace sorprendere le aspettative dello spettatore.
Tre anni più tardi, Martin Scorsese
portò questa intuizione alle estreme
conseguenze, e lo chiamò ad interpretare addirittura Gesù. Le infinite polemiche che accolsero L’ultima tentazione di Cristo non intaccarono la reputazione dell’attore e, a rivederla oggi, l’interpretazione di questo Cristo umano,
troppo umano, riesce a trasmettere tutte le angosce di un regista che sente il richiamo del messaggio evangelico mentre vive il tormento di una natura violenta e dalle passioni incontrollabili.
«Lavorare con Scorsese è una gioia ed
un privilegio: è sorprendente vedere come riesca ad ottenere delle interpretazioni straordinarie dando una quantità
minima di informazioni ai propri attori», racconta Dafoe mentre ricorda la
complicata lavorazione di un film considerato ad Hollywood come low-budget: «Nella mia vita mi sarei aspettato di
tutto, ma non di interpretare Gesù, specie in quel momento della carriera».
La scelta di Scorsese cambiò radicalmente la sua immagine, e nel giro di pochi mesi venne chiamato in Mississippi
Burning da Alan Parker per un ruolo di
poliziotto probo che cerca di calmare
gli eccessi del partner Gene Hackman.
E poi in una serie di ruoli positivi, addirittura di vittime: un uomo internato in
un campo di concentramento in
Triumph of the spirit, un reduce del
Vietnam in Nato il 4 di Luglio ancora
una volta con Oliver Stone. Per tornare
ad interpretare ruoli diabolici ci volle
l’ironia di John Waters in Cry Baby (il
credit di Dafoe nei titoli di testa è «guardia odiosa»), e quindi il genio visionario
di David Lynch che in Cuore Selvaggio
gli affidò il personaggio malefico di
Bobbi Peru dopo averlo truccato con
denti marci e sopracciglia cespugliose.
«Un altro grande regista che sa ottenere il meglio dando poche indicazioni»,
racconta di fronte alle immagini di uno
dei suoi personaggi preferiti. «Io ricordo solo che continuava a sorridere, e
che quando si divertiva significava che
era buon segno. Una volta, in una scena di prova con Laura Dern, mi misi a
cantare le mie battute e fui bloccato da
un urlo. Per un attimo mi venne in mente quanto era successo con Cimino, ma
David invece era assolutamente entusiasta: decise di girare la scena, ed è un
peccato che poi non l’abbia montata».
L’alternanza tra ruoli diabolici e messianici convinse molti altri cineasti della duttilità del suo talento, e da quel momento ha cominciato ad interpretare
personaggi segnati sempre da forti personalità, ma certamente meno estremi,
come il Thomas Stearn Eliot di Tom &
Viv, lo scrittore della Notte e il momento
ed il personaggio denominato Caravaggio nel Paziente inglese. «Minghella appartiene a quella razza di registi che ti
mettono la mano sulla spalla e parlano
nell’orecchio» racconta di fronte alla
scena del film in cui gli vengono amputati i pollici, «è l’opposto dei cineasti che
urlano, ma non per questo è meno motivato o competente. È un uomo tenero
e gentile, in particolare con le attrici».
In questi ultimi anni Dafoe ha preso
gusto nei cammei di lusso (l’ultimo in
The Aviator, ma ha una partecipazione
indimenticabile in Affliction) e perfino
nel prestare la voce per grandi animazioni (Finding Nemo), ma forse la scelta
più sorprendente è quella della commedia: nelle Avventure acquatiche di Steve
Zissou di Wes Anderson ha l’intelligenza di interpretare un personaggio totalmente privo di carisma, che tuttavia dimostra una commovente abnegazione
nei confronti del suo capo. Gli appassionati di aneddotica cinematografica sanno che questo attore dai lineamenti
estremi e dal corpo incredibilmente agile (pratica lo yoga quotidianamente) è il
primo ad essere mai stato candidato all’Oscar per aver interpretato un vampiro (Shadow of the Vampire) ed è probabilmente la star che ha collezionato sullo schermo il maggior numero di morti
violente: oltre ai film citati, la lista si può
estendere a Speed 2, eXistenz, Spiderman, C’era una volta in Messico.
Prima dell’appuntamento romano
ha alternato ancora una volta una
grande produzione hollywoodiana
(xXx: State of the Union) con un film
squisitamente d’autore come Manderlay di Lars von Trier, che sarà presentato al Festival di Cannes. L’incontro con
il cineasta danese è una delle esperienze che lo hanno maggiormente entusiasmato negli ultimi tempi, e all’ennesimo richiamo delle sirene hollywoodiane (è uno dei protagonisti di una
nuova avventura del personaggio di Ripley creato da Patricia Highsmith) ha
risposto con l’interpretazione di The
Black Widow un film indipendente e
assolutamente low budget scritto insieme alla moglie Giada Colagrande e
girato da quest’ultima nella loro casa di
campagna vicino New York.
‘‘
ANTONIO MONDA
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