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La nuova - La Repubblica.it
Domenica La di DOMENICA 8 MAGGIO 2005 Repubblica il fatto Ivan e Luise, amore e guerra fredda SANDRO VIOLA e GIAMPAOLO VISETTI il racconto Molly, la vita di una bambina MARIA STELLA CONTE e CONCITA DE GREGORIO La nuova Londra Repubblica Nazionale 25 08/05/2005 di Blair Dopo otto anni di New Labour, l’antica capitale dell’impero è la vera capitale d’Europa. Ce la racconta un testimone d’eccezione JOHN LLOYD T LONDRA ony Blair è sempre stato un politico fortunato: tuttora lo è, anche mentre inizia il suo ultimo periodo in carica, primo leader laburista a dar vita a un governo di tre mandati consecutivi e a poter definire il Labour «il naturale partito di governo». Il suo compleanno (ha 52 anni, giovane età per un politico) è caduto venerdì, mentre formava il suo nuovo esecutivo. Ha una famiglia numerosa e giovane, una moglie di talento e con una buona carriera professionale, è in salute e ha un forte carattere. Una grossa parte della sua fortuna, della proficua eredità che gli è pervenuta dagli anni in cui al potere c’erano i conservatori, è la capitale, la città di Londra. Negli anni Novanta e tanto più oggi, negli anni Duemila, Londra gode di una nuova epoca di grandeur. Non si tratta di una grandeur imperiale, come nel XIX secolo: al contrario, essa è decisamente post-imperiale, calza a meraviglia, come un guanto, alla nuova dialettica Labour. La sua energia post-imperiale integra perfettamente il post-industria- lismo del paese e il post-socialismo del nuovo Labour. Il New Labour è il prodotto della New London. Nel 1996, quando divenne chiaro che il New Labourstava per arrivare al potere e che i conservatori non esprimevano più la vera anima del Paese, il giovane e brillante ricercatore di un think tank scrisse un pamphlet intitolato Rebranding Britain. Lo studio di Mark Leonard fu immediatamente inviso sia alla vecchia destra che alla vecchia sinistra, perché esso descriveva la rinuncia a un futuro plasmato dal socialismo e al tempo stesso la lieta accettazione del fatto che questo futuro — che sarebbe stato sostenuto dai mercati e dalle leggi di mercato — sarebbe stato multiculturale, aperto al mondo, animato da scambi di vedute su ciò che l’identità britannica rappresenta, fortemente europeo. Esso è stato, per così dire, una sorta di testamento per la nuova intellighenzia cosmopolita, scritto a Londra (da un autore cresciuto tra Londra e Bruxelles) e inconsapevolmente un manifesto per la città di Londra. Londra è sovversiva nei confronti dei vecchi valori Labour, ma sostiene quelli del nuovo Labour. (segue nella pagina successiva) con un servizio di ENRICO FRANCESCHINI i luoghi Stevenson, cercando i fari di famiglia STEFANO MALATESTA cultura Landolfi, uno scrittore sotto sequestro CURZIO MALTESE spettacoli Il flauto magico e il gioco di Mozart LEONETTA BENTIVOGLIO 26 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8 MAGGIO 2005 la copertina Capitale internazionale L’economia, l’arte, lo sport e la cucina: Londra attraversa un’epoca di splendore, dove il capitalismo degli affari e le diverse culture della società multietnica si integrano mettendo in circolo energie positive. Una nuova metropoli che è il prodotto del “New Labour” di Blair. Anche se adesso, come per il premier, arrivano le sfide più difficili La città dalle mille anime Qui arrivano gli uomini d’affari e i giovani più talentuosi I MITI ANNI ’50 La città conosce un periodo di boom economico ma anche di fermento sociale: emergono i movimenti giovanili dei Teddy Boys e del Mod e si afferma Cliff Richard, la prima grande star del rock ‘n’ roll britannico. Nel ’56 cominciano a circolare i primi bus rossi a due piani ANNI ’60 È l’era della Swinging London: Mary Quant inventa la minigonna che, anche grazie alla giovanissima top model Twiggy, impone al mondo una moda. Rivoluzione musicale con i Beatles e i Rolling Stones ANNI ’70 Londra diventa la capitale del punk, il movimento che incarna lo spirito ribelle delle nuove generazioni, provate dalla depressione economica che travolge la città e dalla paura degli attacchi dell’Ira. La colonna sonora è “God Save the Queen” dei Sex Pistols JOHN LLOYD (segue dalla copertina) la città capitalista per eccellenza: suo cuore pulsante è la City, il distretto finanziario che ormai si estende dal cuore della vecchia City che sorge intorno alla cattedrale di St. Paul a quelle che erano le grandi banchine del porto londinese. Negli ultimi due decenni questo centro finanziario è diventato ancor più importante: perfino la creazione dell’euro, al quale la Gran Bretagna ha deciso di non aderire, non ha determinato la migrazione a Francoforte o altrove di molte sue attività. Questo è il motore di una ricchezza prodotta senza fumo, senza sporcizia e senza classe operaia. Essa permette alla diversità culturale di prosperare, consente il passaggio dalla cultura del progresso della classe lavoratrice alle classi colte e accademiche, facilita il sostegno a cause nuove — quali il femminismo, l’antirazzismo, l’emancipazione dei gay — che ben si armonizza all’economia di mercato. In questo modo Ken Livingstone, il sindaco di sinistra di Londra, ha vita facile nella sua posizione, poiché al pari del Labour Party — dal quale era stato espulso e nel quale adesso è rientrato — egli ha abbracciato il nuovo progressismo, lasciandosi alle spalle il passato. Quando Tony Blair ha assunto la leadership del suo partito, Londra stava iniziando a essere considerata alla stregua di una leader tra le capitali del mondo. In Gran Bretagna la città non aveva rivali da tempo: non è da Londra spartire il potere con un altro potente centro commerciale o mediatico, così come Roma deve fare con Milano, o Berlino con Francoforte e soprattutto Washington con New York. Soltanto Edimburgo, la capitale della Scozia, si vanta di poter contendere a Londra il ruolo di centro culturale e politico, ma la sfida non è delle più grandi e nessun altro oltre agli scozzesi vi presta attenzione. Le altre grandi città inglesi — Birmingham, Manchester, Bristol, Newcastle — hanno trascorso gran parte dell’ultimo mezzo secolo impegnate a riprendersi dai rispettivi vari stadi di declino industriale. In linea di massima ci sono riuscite e sono luoghi più gradevoli oggi, pur non avendo alcun peso politico e non potendo essere altro che città di provincia. Tra le altre grandi capitali del mondo, Berlino deve tuttora riaffermarsi È come un’unica città unita ed è finanziariamente al limite delle proprie possibilità; Roma resta magnifica, ma è un calderone politico nel quale intercorrono continue fluttuazioni di potere e di influenza tra il Vaticano e il Parlamento; la grandeur di Madrid è insidiata da Barcellona e la sua autorità è contestata da alcune regioni, soprattutto Catalogna e Paesi Baschi; Tokyo oggi è finanziariamente in crisi ed è sempre stata per gli stranieri e specialmente per gli europei diversa in modo estenuante; Washington è una città che vive solo per il potere, profondamente divisa dal punto di vista razziale, con un centro che di sera e nei weekend si svuota completamente; Mosca tuttora risulta poco accogliente con la sua glaciale imponenza semi-asiatica e semisovietica, con qualche meraviglia qua e là, negletta e sommersa dalle brutture dell’ultimo secolo. Soltanto Parigi compete con Londra: agli occhi dell’intellighenzia britannica e della sua classe reggente, la Francia è la rivale di sempre, l’unico vecchio Stato europeo col quale essa abbia rivaleggiato per oltre un millennio, con spargimento di sangue o del tutto pacificamente, per il potere, l’autorevolezza e la supremazia. Parigi è imponente, in modo più formale: Londra ha ben poco per competere con i suoi grandi viali, concepiti appositamente per enfatizzarne la grandeur; ha poco per reggere il confronto con i boulevard di Haussman e le sue prospettive. Parigi è tuttora una città maggiormente interessata a proiettare l’immagine di uno Stato francese come faro culturale: nella creazione del centro Pompidou, nel rifacimento del Louvre, nella splendida riconversione della Gare d’Orsay in Museo d’Orsay, Parigi porta avanti molto bene la propria tradizione. Ma Parigi non regge il confronto su quello che è diventato un elemento caratterizzante — e molto New Labour — della grande città moderna: non ha saputo procedere bene come Londra nel fornire una casa accogliente alle diverse culture. Tutti coloro che visitano Londra — e molti di coloro che la abitano — sono impressionati dalla sua diversità culturale: la varietà di colore della pelle e le lingue diverse che si incontrano per le strade; l’insieme di chiese, templi, moschee, sinagoghe e centri di culto; l’evidente mescolanza delle razze in gran parte dei quartieri della città. Questo è il trionfo del postimperialismo: la capacità di lasciare spazio a quelli che un tempo erano i popoli dell’impero in Africa, nelle Indie Occidentali, in India e nell’estremo oriente, così come ai “bianchi del Commonwealth”, provenienti dal Canada, dall’Australia, dalla Nuova Zelanda, e ai bianchi d’Africa. Parigi, invece, per gran parte del XX secolo è stata luogo di rifugio di russi, nordafricani e artisti americani, e oggi resta in gran parte ciò che era: più spesso definita dalle patologie razziali, con le bidonville che la circondano e che alimentano la povertà, la violenza e la paura. Londra — e Blair con lei — è stata for- tunata altresì nel predominio dell’inglese. A Londra (anche in altre città britanniche, ma soprattutto a Londra) arrivano i giovani di vari Paesi. Nella City di Londra approdano dirigenti di talento provenienti da tutta Europa e dall’America; e nei club di calcio di Londra arrivano calciatori stranieri. Quando negli anni Settanta il giornalista italiano Beppe Severgnini arrivò a le interviste Parla Vivienne Westwood, la regina della moda inglese “C’è un’opportunità per tutti” ivienne Westwood, lei che è la regina della moda inglese e che sta nella casa che fu di Capitan Cook, come vive nella Londra di Blair? «Sono una laburista convinta e sto dalla sua parte, anche se non gli ho mai perdonato la scelta di fare la guerra in Iraq. Però ha anche dei meriti. Ha rilanciato Londra, uscita con le ossa rotte dopo la cura Thatcher, facendola tornare ad essere la vera capitale europea, il nuovo ombelico del mondo». In che senso? «C’è vitalità e grande energia. Londra è la città degli estremi, qui arrivano giovani da tutto il mondo, sia quel- V li ricchi che studiano nei nostri college, sia quelli con pochi soldi in tasca ma con un grande talento da esprimere». In concreto, cosa ha fatto Blair per fare di Londra una capitale internazionale? «Partiamo da un dato di fatto. La City è piena di uomini d’affari italiani, i grandi magazzini come Harrods, sono in mano a facoltosi arabi, le case più belle di Londra appartengono alle grandi famiglie indiane. La verità è che Londra è una “città aperta” che sa accogliere e offrire opportunità a chiunque abbia uno spirito imprenditoriale». (laura asnaghi) Lo scrittore Kureishi: bene la società più multietnica “Ma per i poveri è ancora dura” «C ool Britannia? è solo un’etichetta inventata dal marketing. Può essere vera per alcuni, ma falsa per molti». Scrittore di origine pachistana, Hanif Kureishi è uno degli intellettuali più glamour della Londra di Blair. Com’è stato vivere a Londra in questi otto anni? «Le cose sono peggiorate negli ultimi cinque e le prospettive non sono rosee: disoccupazione crescente, economia in flessione. la gente si chiede se ci saranno ancora scuole pubbliche decenti e assistenza sanitaria gratis. Per non dire dei soldati che muoiono in Iraq». Non nota differenze rispetto ai governi Tory? «Oggi c’è una società più mista, grazie all’immigrazione. Ma i ceti bassi perdono terreno, proprio come accadde con la Thatcher. Alcuni dei successi di Blair, come la sicurezza nelle città, sembrano i tipici risultati di politiche di centro-destra». Che dovrebbe fare un buon governo per migliorare la situazione? «Rimodulare le tasse a favore dei poveri. A Blair riconosco di aver fatto investimenti per la scuola primaria ma non perdonerò mai l’intervento contro Saddam». (riccardo staglianò) DOMENICA 8 MAGGIO 2005 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 27 DA NON PERDERE Il ristorante: Hakkasan, ristorante cinese “fusion”, atmosfera da fumeria d'oppio L’albergo: l’hotel Sanderson, disegnato da Philippe Starck, e luogo di ritrovo della notte Il teatro: “Philadelphia story”, diretto e interpretato da Kevin Spacey, all'Old Vic 20% 28mln La mostra: la Turner-Whistler-Manet alla Tate Britain Il night club: “Tropicana”, ristorante-dancing cubano, ispirato a quello di Hemingway La squadra: il Chelsea appena laureato campione d'Inghilterra I turisti che ogni anno visitano la città 815 euro L’affitto settimanale di un monolocale in centro L’aumento annuale dei prezzi degli immobili 103 euro Il costo dell’abbonamento mensile ai mezzi pubblici Il titolo assegnato da una ricerca Eurostat Numeri da record è prima in Europa ENRICO FRANCESCHINI FOTO ZEFA C’ che vive nel futuro Londra per imparare l’inglese trovò (come ha descritto più volte) un Paese pieno di gente vestita male e in modo ordinario, cibo pessimo e una totale noncuranza per il comfort. Un po’ di tutto ciò sussiste ancor oggi, ma molto meno. Fare una passeggiata in una strada londinese del centro significa ritrovarsi ad ascoltare la gente parlare in svedese, russo, italiano, arabo. L’altra sera, mentre me ne tornavo a casa, un gruppo di lettoni mi ha chiesto indicazioni per trovare un ristorante portoghese. Più tardi insieme a mia moglie (italiana di Firenze) siamo andati a vedere un film tedesco (Downfall) in un cinema vicino Hyde Park. Dall’altra parte della strada rispetto al cinema c’è quell’angolo noto con il nome di Speaker’s corner, per molti decenni luogo tipicamente britannico, nel quale persone alquanto eccentriche si recavano spesso per parlare alla folla di tutto ciò che gli passava per la testa. Ma la strada dove c’è il cinema, Edgware Road, una delle strade centrali di Londra, è oggi in gran parte araba: vi si trovano caffè libanesi con i tavoli all’aperto, e i camerieri servono caffè e paste agli arabi che indossano maglie di jersey nella fresca primavera londinese. Questo mix culturale, questa energia, ha portato a Londra quello che Londra non aveva e di cui la sua middle class si era lamentata per gran parte del periodo post-bellico: una cultura culinaria. Qui gli italiani e i francesi sono stati dei missionari: se da un lato tuttora vi si trova qualche buon ristorante francese, sono gli italiani ad aver conquistato la piazza. Ovunque ci si imbatte in pizzerie e negozi di pasta, e in molti quartieri si trovano tante trattorie quante a Roma. I loro diretti concorrenti sono gli indiani con i loro ristoranti — dagli standard decisamente migliorati — il cui piatto più famoso, il “chicken tikka masala” è un’invenzione esclusiva inglese, descritta dall’ex segretario degli Esteri Robin Cook come il piatto nazionale. Il punto debole, anzi, diciamo pure la mancanza di una cultura culinaria britannica, si è trasformato nel punto di forza contemporaneo: perché in una stessa città oggi si può avere il meglio — o quanto di più vicino possibile vi sia al meglio — delle cucine di ogni parte del mondo, e perché per la prima volta dopo secoli gli inglesi hanno iniziato a interessarsi al cibo che mangiano e ad informarsi su di esso. Io, nato in Scozia e cresciuto in un villaggio di pescatori, sono arrivato a Londra da giovane giornalista e qui sono rimasto: questa è diventata la mia casa, alla quale faccio ritorno in tutta naturalezza dopo essermi recato all’estero per lavoro. È diventato il luogo di na- scita e la casa di mio figlio, il paese semi-adottivo di mia moglie, italiana. Io sono uno dei suoi molti abitanti fortunati, avendo la preparazione e la capacità di sentirmi a mio agio nelle molte società che la compongono e avendo altresì la tendenza a trovare qualcosa di valido in gran parte di esse. Durante la campagna elettorale appena conclusa, ho attraversato zone di questa città nelle quali i cittadini non sono altrettanto fortunati: mi riferisco ad alcune aree di East London nelle quali gli immigrati indiani e pachistani vivono in relativa povertà, dove i pochi cittadini bianchi sono pieni di risentimento e hanno voglia di andarsene, e dove, nella circoscrizione di Bethnal Green, un estremista politico di nome George Galloway ha sconfitto una deputata laburista mezzo-ebrea e mezzo di colore sull’onda della rabbia per la guerra in Iraq dei giovani musulmani e dei giovani bianchi di sinistra. Londra in alcune sue zone è ancora una città divisa dal punto di vista politico e razziale. In alcuni quartieri di South London le gang afro-caraibiche spadroneggiano per le strade. A West London, dove vivono le grandi comunità asiatiche, si scontrano bande di bianchi e di asiatici. Per il momento, tuttavia, Londra si caratterizza ed è caratterizzata più dalla sua energia che dalle sue divisioni, più dalla sua ricchezza che dalla sua povertà, più dall’evidente varietà delle sue culture che dalle loro reciproche avversioni; più dalle possibilità che riserva il futuro che dai timori che esso incute. Il primo deputato conservatore di colore, un imprenditore milionario la cui famiglia è immigrata dall’Africa, è stato eletto questa settimana a Windsor, una città della middle class alla periferia di Londra, dove la Regina ha un castello. I londinesi sono diventati più parigini nei loro gusti culinari, più milanesi nella loro eleganza, più simili agli abitanti di Tokyo per la loro laboriosità. Un giorno, tra non moltissimo, Pechino, persino Delhi o Bombay, la sfideranno per conquistare lo status mondiale. Adesso, però, Londra vive la sua fase post-imperiale e in linea generale resta una città New Labour, tanto da vedere il leader del New Labour compiere la mezza età e iniziare una nuova vita. Un agglomerato multiculturale: nemmeno Parigi regge il confronto I MITI ANNI ’80 È il decennio di Margaret Thatcher: si impoveriscono i ceti meno abbienti ma per chi ha disponibilità finanziarie gli affari vanno a gonfie vele. Nella City dominano gli “Yuppies”, il governo vara il grande progetto di ristrutturazione del quartiere dei Docklands ANNI ’90 Nel ’97 Blair vince le elezioni. Ma nel frattempo un gruppo di scrittori, Nick Hornby in testa a tutti (nella foto Hugh Grant in “About a Boy”), ha raccontato l’ansia di voltare pagina. Con gli Oasis arriva il nuovo Britpop ANNI ’00 L’autore è direttore del magazine del Financial Times e autore di numerosi saggi sul crollo del comunismo e sui media (Traduzione di Anna Bissanti) La città si rinnova. I simboli sono il Millennium Bridge, il Millennium Dome ma soprattutto la Tate Modern, sede delle grandi mostre e punto di riferimento degli artisti maturati nel periodo della Britart. Sul fronte sportivo, sono gli anni del Chelsea LONDRA è la Piccola Hollywood e c’è la Rive Gauche (senza il fiume, però), c’è Billionaires Boulevard e c’è Banglatown, c’è lo skyline alla newyorchese dei grattacieli in cui si vive soltanto di giorno e l’antro buio dei ritrovi sotterranei in cui si vive soltanto di notte, c’è la cittadella dei soldi e la cittadella del potere, quella della moda e quella degli artisti, quella del sesso e quella dei “gentlemen’s club”. Ci sono mille Londra, e tutte insieme fanno la Londra di Blair: la Londra che ha finito un secolo e ne ha cominciato un altro nel ruolo di scintillante faro d’Europa, forse la vera capitale del pianeta. Non più semplicemente London calling, canzonesimbolo di un paese che sembrò risvegliarsi nel 1997, in coincidenza con la prima elezione di Tony Blair a Downing street, non l’etichetta alla moda di Cool Britannia, alimentata da un paio di rock band hot e qualche fashion designer hip: bensì una reinvenzione totale dell’idea di metropoli, come scriveva il mese scorso il settimanale americano Newsweek, dedicandole la copertina. Visitarla tutta, per di più in poche righe, è impossibile: un primo ministro, Benjamin Disraeli, già centocinquant’anni or sono la chiamava «nuova Babilonia, una nazione non una città». È sempre utile, per rendersi conto delle dimensioni, ripassare le cifre. Con sette milioni e mezzo di abitanti, la popolazione messa insieme di Roma, Parigi, Vienna, Bruxelles (e arriva a venti milioni con gli sterminati sobborghi): la più grande città d’Europa. Anche geograficamente: si espande su un’area che è il doppio di New York. Verde, inoltre: il 39 per cento è composto di parchi e giardini, a cominciare dai due polmoni del centro, Hyde e Regent’s Park. Una Babilonia, per citare Disraeli: più di trecento, fra lingue e dialetti. La più multiculturale e cosmopolita: ogni razza, colore, nazionalità e religione della terra (inclusi centomila italiani). E poi, alla rinfusa: 183 sinagoghe e 130 moschee, 12200 ristoranti (tra cui dodici dei migliori cinquanta del pianeta, secondo una recente classifica) e 5200 pub, 600 cinema e 400 teatri (non perdete Kevin Spacey in Philadelphia Story, all’Old Vic), 18300 taxi black cab, 275 stazioni del metrò, 649 linee di autobus (a due piani rossi, sebbene stiano scomparendo i Routemaster della leggenda), 13 squadre professionistiche di calcio, tra Premier League (4) e serie minori. Ultimo dato, uno studio di Eurostat, ufficio statistiche Ue, che la proclama «migliore città d’Europa» per qualità della vita, con il crimine più basso, più posti di lavoro, migliori servizi pubblici, più vivace vita culturale, smentendo tra l’altro la sua cattiva reputazione meteorologica: si è scoperto che ha più ore di sole l’anno di Parigi o Berlino. Messa in soffitta la bombetta dello stereotipo, qui si può rinunciare pure all’ombrello. Ora che ci siamo ricordati cos’è la Londra di Blair, andiamo a dare un’occhiatina qui e là. Partendo da nord: ad Hampstead, villaggio di magnifiche townhouse e sinuose collinette, spetta il titolo di “rive gauche” sul Tamigi, nonostante il fiume da quassù nemmeno si veda. In compenso c’è la borghesia illuminata, scrittori, qualche stella del rock, intellettuali di sinistra. Un poco più a sud sorge l’altura più elevata della città, da cui si domina un panorama spettacolare: Primrose Hill. Una volta zona di spacciatori e piccoli delinquenti, ora una “piccola Hollywood” dove sono andati a stabilirsi Jude Law e Sienna Miller, Sadie Frost e Liam Gallagher degli Oasis, Kate Moss e Pete Doherty, trasformando i vecchi pub a base di fish and chips in raffinati gastropub dove si serve salmone norvegese e mozzarella di bufala, portatori di uno stile di vita spregiudicato che l’ha fatta ribattezzare, da collina “della primula” (Primrose), “collina della promiscuità”. Scendiamo ancora. Ecco Notting Hill, l’ex-quartiere di immigrati caraibici, invaso da artisti e benpensanti, pizzerie italiane e librerie, come quella in cui Hugh Grant faceva la corte a Julia Roberts nel film omonimo. Avviciniamoci a un parco: ecco Kensington Palace Gardens, Billionaires’Boulevard, il viale dei miliardari, dove il petroliere Roman Abramovich e altri oligarchi russi stanno sloggiando gli sceicchi arabi dalle magioni più sontuose della metropoli. Prezzi? Meglio non chiedere, ma se insistete: 50-100 milioni di euro per una casa, se non pagate in contanti fanno 400mila euro al mese di mutuo, se preferite affittare fanno 10mila euro alla settimana per una two bedroom, appartamento con due camere da letto (alla settimana, alla settimana: non è un errore di stampa). A proposito di Abramovich: il suo Chelsea appena laureato campione d’Inghilterra gioca qui vicino, in fondo a King’s Road, la strada mito degli anni Sessanta, ora presidiata da una “legione straniera” di europei continentali, che ne fanno la loro Little Italy o Little Paris. E poi basta, perché le righe a disposizione finiscono: tocca lasciar fuori il Gherkin (Cetriolino) dell’architetto Norman Foster e gli altri grattacieli di Canary Wharf, nuova City finanziaria che ha soppiantato la vecchia; i vecchi Docklands restaurati lungo il Tamigi, punteggiato di ristorantini e botteghe; la Bangladesh-Town di Brick Lane, dove Monica Alì sceneggia il suo romanzo; l’East End dei locali after-hour, la Soho del night-club Tropicana ispirato a Hemingway, le conigliette del “table-dancing” da 300 euro a mezz’ora di Stringfellow, i club per gentiluomini di Pall Mall. Le mille e una Londra della Londra di Blair: che lui, poveretto, non vede mai, perché non mette il naso fuori dal 10 di Downing street. Dove peraltro, grazie a una striminzita vittoria elettorale, è ben contento di restare un altro po’. 28 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8 MAGGIO 2005 il fatto Simboli del ‘900 Lui era un soldato russo entrato in Germania con l’Armata Rossa, lei era una ragazza tedesca. La caduta di Hitler li fece incontrare e innamorare. La cortina di ferro li allontanò e la dittatura di Stalin separò i loro destini. Adesso, dopo sessant’anni, si sono ritrovati e sono pronti a sposarsi La festa di Ivan e Luise divisi dalla guerra fredda H IERI E OGGI GIAMPAOLO VISETTI Qui a sinistra Ivan e Luise alla fine della seconda guerra mondiale. Nell’immagine sotto, la coppia fotografata oggi dopo 60 anni. A destra una donna russa festeggia un soldato dell’Armata rossa durante la cerimonia di benvenuto nel maggio del 1945 Repubblica Nazionale 28 08/05/2005 MOSCA itler casualmente li unì, Stalin scientificamente li divise. La seconda guerra mondiale è stato lo sfondo del loro amore, la guerra fredda il palcoscenico dell’addio. Ivan e Luise sono così, involontariamente, il simbolo del secolo dei totalitarismi: gli anonimi vincitori reali, testimoni impotenti della sconfitta del nazismo e del crollo del comunismo. Sono sopravvissuti al Novecento. In Germania si sono amati sotto le bombe delle truppe alleate e dell’armata rossa. In Unione Sovietica si sono perduti grazie alla “liberazione”, presto soffocata dalla dittatura dei servizi segreti e dallo scontro tra le grandi potenze. E ora, sessant’anni dopo, ormai vecchi, si ritrovano e scoprono di non essersi mai lasciati. Separati a vent’anni dalla cortina di ferro, ricongiunti a ottanta dallo stesso destino che li ha indotti a restare soli: la rivincita della cronaca minore, quella dove si cela la vita, mentre la storia ufficiale si scontra con l’utilizzo opposto del passato. I grandi del mondo celebrano le vittorie degli eserciti, loro annunciano sommessamente la realizzazione di un sogno semplice: «Finalmente possiamo partire per un viaggio di nozze». Alla vigilia delle imponenti manifestazioni putiniane per il sessantesimo anniversario dalla sconfitta del nazismo, non sono le parate dei veterani ad emozionare la Russia. È la storia di Ivan e Luise a commuovere la gente che si sente sempre, in qualche modo, battuta. Ivan Byvscjkh, nel 1943, era un ragazzo siberiano del villaggio di Ponacevo. Luise Waldheim era una giovane di Heierod, piccolo borgo della Turingia. Un mondo in mezzo, secoli di battaglie ed una guerra in corso, a separarli. Finché Ivan, studente modello e appassionato di letteratura tedesca, viene reclutato nel reggimento 210 della 82esima divisione Jartsevskaja dei fanti di Stalin. Traduceva Robinson Crusoe in russo: gli mettono una vecchia baionetta in mano. L’Urss è allo stremo, a combattere finiscono anche i ragazzini. Poi il fronte orientale tedesco cede di schianto e Hitler assiste impotente alla rotta. I nazisti cadono a Smolensk, a Minsk, a Varsavia, a Poznan e infine a Berlino. L’armata rossa avanza. Libera e subito occupa nazioni, rivela tutto l’orrore dei Lager, ma pure considera bottino di guerra le popolazioni affamate dell’Est europeo. Ivan, stupito di essere chiamato eroe, si ritrova in quella che sarebbe presto divenuta la Ddr: comandante di presidio. «Non avevo mai baciato una ragazza — racconta oggi — avevo trascorso due anni da esploratore, sabotatore e addetto alla propaganda. Ero un ragazzo di campagna e tra compaesani non si usa sgomitare. Il mio compito era penetrare nelle linee nemiche e gridare ai tedeschi di arrendersi. Strisciavo, facevo rumori con un megafono, chiedevo ad altri ragazzi come me, ma pronti a uccidermi, che senso avesse resistere». L’8 maggio 1945 la Germania capitola. Il soldato dell’Armata rossa non viene richiamato in patria. Conosce il tedesco, lo promuovono interprete di reggimento e finisce alla censura dei primi film americani. Ha vent’anni. Ispeziona le pellicole e, se vede una coscia, vieta. Nel tempo che resta controlla la registrazione dei prigionieri delle SS liberati da Mosca. È così, rinunciando a perseguitare un clandestino rimpatriato da sei mesi, che incontra Luise. «Ero andato ad arrestare un certo Guenther Waldheim. Si nascondeva nella casa della madre. Mi ha aperto la sorella e ho cominciato a balbettare». L’ex nemico ottenne i documenti e rimase libero, Ivan e Luise iniziarono a passeggiare tenendosi per mano. Una vita interrotta per ordini superiori. Il mondo viene diviso, Est e Ovest tornano nemici. America, Europa e Urss si dividono il mondo. Ivan finisce prima in Sassonia, quindi viene richiamato a Krasnojarsk. Quando parte, nel 1946, Luise segretamente gli infila un biglietto in tasca: «Sono incinta». Chiedono a un dado, sotto la pensilina della stazione ferroviaria, quante volte si vedranno ancora: esce l’uno. È stato il loro ultimo segreto, fino a pochi giorni fa. La famiglia di lei costringe la figlia ad abortire «il frutto del nemico russo». In un paese raso al suolo e perduto nell’orbita sovietica, essere una ragazza madre significa morire da condannata. La gente la chiama «la stuprata dei rossi». Anche lei ha vent’anni. Scappa nella Germania occidentale, inseguita dalla condanna del villaggio. Lui viene spedito a riparare radio a Sverdlovsk. «Per dieci anni — racconta Luise — ci siamo scritti ogni settimana. Mai una risposta. Ognuno di noi ha creduto che l’altro l’avesse scordato». È il 1956 quando il Kgb di Mosca convoca Ivan all’hotel Bolshoj Ural. I servizi segreti sovietici gli mostrano tutte le sue lettere e quelle di lei. Oltre mille lettere d’amore. Mai partite, mai recapitate. Corrispondenza vietata, tra Impero del Bene e Impero del Male. Scrivevano baci, disegnavano due innamorati abbracciati nel buio. «O la smette — gli viene detto — o fa la valigia per Magadan». Vuol dire che l’amore, durante la dittatura comunista, può Quando le hanno telefonato per sapere se si ricordava di un ragazzo russo, lei ha subito risposto: “Certo, l’ho amato per tutta la vita” costare il gulag. «Mi costrinsero — dice Ivan — a spedirle un ultimo biglietto con due parole false: mi sposo. Un ufficiale del Kgb scrisse, io ho dovuto firmare». Così, anni dopo, però fu. Due matrimoni senza mal di pancia, tre figli e due separazioni. Il prezzo per non morire in un campo di concentramento, privato di carta e penna, di cuore e di cervello. Anche Luise si rassegna: nozze con il secondo uomo che glielo chiede e divorzio. Niente figli. Sarebbe finita così, se la generazione di Breznev non avesse accompagnato l’Urss verso il tramonto. Invece spunta un marziano che si chiama Gorbaciov, parla di perestrojka. Viene abbattuto il Muro di Berlino, l’Unione sovietica si sfascia, la Germania ritorna unita, l’Europa centro-orientale riassapora la libertà. «Mia figlia Lena — racconta Ivan — ascoltava i miei ricordi. Piangeva sulle lettere che non avevo smesso di scrive- re alla donna che non era sua madre. Mi scopriva a impilare le buste in un armadio. Ancora terrorizzato dai servizi segreti, non ci pensavo nemmeno ad imbucarle. Dopo oltre quarant’anni, una lettera finiva così: “Dove sei, Lisetta, rispondi”. Mi ha convinto a fissare in un libretto la nostra storia». Titolo: Vanja e Lizchen. Dedica: “A mia figlia, che sa”». Il rimpianto del veterano staliniano perseguitato da Stalin, la leggenda delle lettere d’amore archiviate dal Kgb in quanto «documenti anti-sovietici» cominciano a girare tra gli amici. Finchè Natalja Barscevskaja spedisce i ricordi di Ivan alla figlia Anna, sposata in Germania. Anche qui il libro passa di mano in mano. Viene fotocopiato: lettori e lettrici occasionali iniziano quasi per gioco le ricerche della donna inghiottita da un amore e da due guerre. «Ho sperato quasi — rivela Ivan — che non la trovassero. Pensavo: sarà sposata, avrà avuto altri bambini, vivrà felice. Mica posso ripresentarmi, dopo oltre mezzo secolo». Alcuni mesi di tentativi a vuoto. Il fratello Guenther è morto, il sindaco del paese natale non l’ha mai vista. Ricorda però il racconto della ragazza tedesca a cui fu negato «il figlio del russo e della guerra». Il vecchio soldato, che si credeva padre per amore, scopre un’altra durezza della pace. È la metà di aprile, pochi giorni fa. Luise viene rintracciata in Lussemburgo. Vive sola, è povera. Al telefono le chiedono se si ricorda di un soldato sovietico di nome Ivan. Risponde senza pensarci: «L’ho amato tutta la vita e continuo a sentirmi vicina a lui». Mercoledì scorso, a Kransnojarsk, la vecchia Luise scende faticosamente dalla scaletta dell’aereo. Le va incontro il vecchio Ivan, bastone e un mazzo di margherite selvatiche nelle mani. Anche lui non può permettersi una rosa. Tacciono e si avviano lungo le rive del fiume Enissej. Vincitori e vinti non esistono più, consumato è l’odio delle comparse della storia. Anche per loro le guerre sono finite. «Ci siamo vergognati — dicono —. Solo vedendoci così, sfiniti, abbiamo capito di non aver lottato abbastanza. Ci siamo imbrogliati, fingendo di sentirci grandi perché amavamo. Ma abbiamo aspettato che fossero gli altri a ricongiungerci. La verità è che non abbiamo avuto il coraggio di vivere: l’ingiustizia si batte quando ci si alza e si va davvero dove si deve andare». Otto maggio 2005. Vladimir Putin, davanti ai capi di Stato dell’Occidente, fa rimettere una gigantografia di Stalin sulla piazza Rossa. Dice che la Russia non dove scusarsi più con nessuno per aver vinto la grande guerra patriottica. Bush torna ad usare il linguaggio del liberatore nella “nuova Europa” che ha risposto sì all’esportazione armata della sua democrazia. Nelle piazze dell’ex Urss, dice che l’America deve essere fiera di aver vinto la guerra fredda e di aver donato la libertà ai vincitori sconfitti. Un vento da guerra fredda riprende a soffiare tra le steppe e sull’oceano. Ivan e Luise sono stanchi e osservano che «intanto anche la nostra vita è passata». Dicono di non seguire «la replica sbiadita della storia», di non riuscire più a sentirsi felici. Martedì partiranno per il loro primo viaggio insieme. Tornano a Heierod, alla ricerca del tempo perduto. Dopo sessant’anni ancora prigionieri di un’illusione. DOMENICA 8 MAGGIO 2005 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 29 LA VITTORIA L’atto di capitolazione dei tedeschi viene firmato a Reims, in Francia Orientale, nella notte tra il 6 e il 7 maggio: gli alleati ingiungono alle forze naziste di cessare ogni ostilità alle 23.01 dell’8 maggio. Stalin pretende, per la fine della guerra, una cerimonia ufficiale a Berlino: ma dal momento che in Unione Sovietica (a causa del fuso orario) a quell’ora è già cominciato il giorno successivo, per i russi il “Giorno della vittoria in Europa” resta il 9 maggio LA CELEBRAZIONE Domani il mondo festeggerà la fine della seconda guerra mondiale. La liberazione dal nazismo sarà commemorata con una parata militare a Mosca alla quale assisteranno il presidente russo Vladimir Putin, quello americano George W. Bush e i leader di una cinquantina di paesi. Una ricorrenza avvelenata però dalle polemiche: il presidente georgiano ha rifiutato l’invito a Mosca e Putin ha mostrato di non gradire le visite di Bush nelle repubbliche baltiche La parata che fa litigare le due Europe SANDRO VIOLA e grandi cerimonie, e prima di tutte la parata sulla Piazza Rossa — alla presenza d’una cinquantina di capi di Stato e di governo — di truppe russe nelle uniformi della Seconda guerra mondiale, avranno inizio domani. Ma a Mosca suonano già da due giorni le bande militari, si vedono ovunque gruppi di “veterani” col petto ricoperto di medaglie, nei parchi vengono distribuiti gratis panini e bevande. Sì, l’organizzazione dei festeggiamenti per il sessantesimo anniversario della vittoria sulla Germania nazista sembra, almeno alla vigilia, impeccabile. Del resto il Cremlino vi s’era impegnato a fondo, e senza badare a spese. Decidendo di celebrare con tanta enfasi il 9 maggio 1945, Vladimir Putin mira infatti a due risultati. Ricompattare attorno alle memorie della «grande guerra patriottica» un Paese diviso, frustrato, dove le differenze di reddito tra i vari strati della popolazione rasentano ormai quelle che esistevano nell’Europa occidentale alla metà dell’Ottocento. E nello stesso tempo, facendo confluire sugli spalti del Cremlino i leader dell’Occidente, dare l’illusione d’una “continuità” della grandezza russa rispetto a quando, sessant’anni fa, l’Urss di Stalin divenne la maggiore potenza continentale. Quasi che non fosse avvenuto, intanto, il fallimento politico-ideologico del comunismo, che ha seminato la Russia di macerie e lacerato l’identità della nazione. Gli intenti di Putin sono insomma comprensibili. Ricavare consensi, popolarità, sul piano interno. Quanto al fatto che in quello stesso maggio del ‘45 i sovietici misero alla catena l’Europa Centrorientale, e ve la tennero per quarant’anni e più, si tratta di eventi dei quali l’attuale classe dirigente russa non vuole sentir parlare. Infatti, quando i baltici, i polacchi, e alcune voci levatesi dal Parlamento europeo hanno ricordato che per molti popoli la disfatta del Terzo Reich non fu una «vera» liberazione, visto che in Polonia, in Romania, in Bulgaria, in Ungheria, in Cecoslovacchia e in mezza Germania, più l’Estonia, la Lettonia e la Lituania, la resa dei nazisti coincise con l’imposizione del comunismo sovietico, le risposte del governo di Mosca sono state durissime. Nessuno osi discutere la vittoria dell’Urss sulla Germania di Hitler: la storia non si corregge. Ma se i calcoli del regime russo sono, come s’è detto, comprensibili, risulta invece più difficile da capire perché i leader dell’Occidente abbiano deciso di piegarsi ai disegni di Putin partecipando personalmente alle cerimonie di Mosca. È infatti vero, come ha detto l’altro giorno Bush, che «bisogna mantenere un rapporto rispettoso con una grande nazione qual è la Russia»: ma gli euro-americani avrebbero potuto trattare una partecipazione meno vistosa e magniloquente, per esempio la presenza sulla Piazza Rossa dei ministri degli Esteri o della Difesa. Ciò che li avrebbe tolti dalla situazione piuttosto imbarazzante in cui si troveranno domani Bush e Blair, Chirac, Schroeder, Berlusconi e gli altri. Schierati a due passi dal mausoleo di Lenin (sia pure schermato da grandi pannelli), lì dove Stalin e i suoi scherani assistevano alle parate dello stesso anniversario, e questo mentre dal Baltico al Centro-Europa affiorano i risentimenti dei popoli per i quali il 9 maggio ‘45 segnò la discesa nella tragedia del comunismo. La verità è che lo spirito, le intenzioni riposte con cui il Cremlino ha progettato le cerimonie di domani a Mosca, andavano scrutati con più attenzione. Con maggiori cautele. Bisognava probabilmente ricordarsi che non più tardi d’un mese fa Putin aveva definito la scomparsa dell’Unione Sovietica come «la massima tragedia del XX secolo». Tenere presente che l’intelligencija liberale russa ha subito guardato con diffidenza alla retorica con cui il regime ha allestito le celebrazioni: tanto che una delle sue figure più prestigiose, lo storico Yurij Afanasiev, aveva parlato «d’un tentativo di restaurare l’immagine dell’Urss, rimettendo in circolo la versione distorta, ideologica, della storia, approntata a suo tempo dallo stalinismo». Beninteso, il punto non è che Putin e i suoi vogliano far rivivere l’Unione Sovietica. Non è di questo che si tratta. Il punto è che l’aver deciso di compiacere e spalleggiare il regime russo in quest’occasione, rischia di far risaltare ancora una volta l’indifferenza degli europei dell’Ovest verso il dramma vissuto da quelli dell’Est durante i quarant’anni del comunismo. E di conseguenza, rischia d’ammorbare i rapporti all’interno dell’Unione europea. Bronislaw Geremek, storico a sua volta, poi uno dei leader di Solidarnosc e per qualche anno ministro degli Esteri polacco, ne parla in modo assai chiaro: «La cosa certa è che i popoli dei due versanti dell’Europa restano divisi dalle diverse esperienze vissute dopo il 1945. La libertà per l’Ovest, e all’Est l’imposizione forzosa del comunismo. Un problema che potrebbe produrre notevoli conseguenze politiche, visto che non ci può essere un’unità europea senza una comune interpretazione e valutazione del passato». E l’ungherese George Schopflin, politologo alla London School ed eurodeputato, concorda: «Gli europei occidentali non si rendono conto di che cos’è stata l’esperienza del comunismo che noi abbiamo vissuta all’Est, e noi non ci sentiamo di chiudere i conti col passato come fanno gli occidentali. Una differenza cruciale». Una differenza destinata probabilmente a fermentare tra Bruxelles e Strasburgo, e a ridare così una consistenza all’idea di Donald Rumsfeld sulle due Europe, la «vecchia» e la «nuova». Quest’ultima essendo formata dalle nazioni che nel ‘45 caddero sotto il dominio sovietico: le quali, di fronte ai silenzi degli Chirac e Schroeder, vale a dire i governanti della «vecchia Europa», diventano sempre più pro-americane. Quanto meno, George W. Bush ha infatti riconosciuto ai baltici d’essere stati inglobati nell’Urss contro il loro volere, e promesso d’affrontare la questione domani con Putin. Mentre sarebbe stato forse giusto che a prendere la parola per ricordare le sofferenze inferte dall’Urss ai popoli dell’Europa Centrorientale, fossero stati i rappresentanti dell’Unione. Con una dichiarazione solenne del Parlamento europeo, per esempio, o declinando qualcuno degli inviti alle cerimonie di Mosca. FOTO RIA NOVOSTI / AFP Repubblica Nazionale 29 08/05/2005 L 30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8 MAGGIO 2005 il racconto “Quando è nata mia figlia, i medici mi hanno detto che non sarebbe uscita dall’ospedale, sarebbe morta subito. Io l’ho portata a casa e siamo state insieme quattordici anni”: Lesley McIntyre comincia così a parlare di sé e della sua piccola. Una storia meravigliosa e terribile che lei ha raccontato per fotografie Mamma coraggio Molly, la vita di una bambina CONCITA DE GREGORIO Q LONDRA Repubblica Nazionale 30 08/05/2005 uesta è la storia meravigliosa e terribile di Molly, una bambina nata per non vivere nemmeno qualche giorno — avevano detto i medici, perché qualcosa nel suo corpo consumava i muscoli e la vita — e vissuta quattordici anni, invece, quattordici lunghissimi anni in cui si è vestita da ballerina ed è andata dal parrucchiere coi rolli in testa e con la rivista Hallo in mano, ha fatto da damigella al matrimonio di suo zio e ha recitato nel Lago dei cigni, ha fatto il bagno nel mare di Maiorca e la turista a Roma con gli occhiali scuri, ha tenuto in braccio un neonato, ha fatto i capricci, ha riso fino a farsi venire il singhiozzo, ha giocato a nascondino a ricreazione, ha manifestato in piazza contro i tagli alla scuola pubblica coi cartelli «stop the cuts», ha scritto un tema sulla morte di lady Diana che è morta nel tunnel tre giorni dopo che sua zia Carol era morta in un letto, ad agosto: «I fiori che io e i miei due cuginetti abbiamo lasciato alla zia Carol erano molto speciali perché venivano dal suo giardino, i fiori dei figli della principessa Diana non venivano dal suo giardino. Mi è sembrato che la morte della principessa Diana sia restata in tv per giorni e giorni. La zia Carol è morta di cancro e ha lasciato i suoi due figli di 3 e 5 anni e suo marito, mio zio Bruce. La principessa Diana ha lasciato due figli di 12 e 15 anni e suo marito, il principe Carlo. La morte della principessa Diana è stata solo un sottofondo». Questa è la storia di Molly e di sua madre Lesley che di mestiere fa la fotografa e che con le sue foto l’ha raccontata in silenzio a tutto il mondo, e se non avete voglia di ascoltarla perché costa fatica senti- re di bambini ammalati, bambini che muoiono vi sbagliate perché è una storia bellissima, invece, che parla di rabbia e di allegria e di come si possa vivere e poi sopravvivere, alla fine, anche quando sembra di no. Lesley, per esempio, quando Molly se n’è andata ha cominciato a curare le piante: «Volevo sparire, essere invisibile. Mettere le mani nella terra fino a farle diventare nere. Far crescere i fiori, accarezzare le foglie. Stare in silenzio ad accudire qualcosa che avesse bisogno di me. Togliere quello che non serve, aggiungere quello che manca. È stupendo fare il giardiniere: non sei più nessuno, sei la forza che fa crescere le piante. Ti dimentichi. Ti prendi cura». È stato così per tre anni, ora ha ricominciato a fotografare. Vuole traslocare, dice, perché le serve avere in casa una camera oscura. Lesley McIntyre ha 55 anni, sembrano 15 di meno. Vive in una casa di fate dentro il parco di Putney, Londra. È lunga e sottile, ha i capelli lisci biondi che scendono sul viso separati da una riga a metà, porta alle orecchie due tappi di bottiglia su cui è dipinta Frida Khalo. Sta scalza, tiene le finestre aperte anche se fa freddo, porta una maglietta leggera, senza maniche. In bagno c’è una vasca verde e al muro una foto di Molly che fa il bagno dentro la vasca verde. In soggiorno ci sono libri per terra, libri dappertutto. Alle pareti i bambini africani di quando viaggiava in Africa, «prima», e i disegni dei fiori e dell’orto botanico di quando ha curato le piante, «dopo». Molly nelle cartoline di Natale, Molly con le amiche, Molly ovunque. Sorride moltissimo, Lesley. Sorride tutto il tempo anche quando le si inclina un angolo delle labbra e dice cose come «certo sì che avrei abortito se l’avessi saputo. Ma no, non se avessi saputo che Molly era malata: se avessi saputo che sarei stata sempre da sola, che avrei fatto così tanta fatica, che viviamo in un mondo che non prevede l’errore e quando l’errore arriva devi arrangiarti, è un proble- ma tuo, nessuno vuole saperne di bambini tanto fragili da essere destinati a morire ma tutti siamo fragili da qualche parte, e destinati a morire, anche». Tiene sul tavolo l’edizione italiana del libro The time of her life, lo pubblica Contrasto: Il tempo di una vita. «Prima che Molly nascesse pensavo che sarei riuscita a conciliare il lavoro con la maternità. Ci sono riuscita, ma non nel modo che avevo previsto. Non ho mai potuto allontanarmi da una bambina così fragile, sono stata fuori da sola cinque volte in quattordici anni, cinque giorni. Per il resto, cioè sempre, ero con lei, e non ho mai smesso di fotografare. Ho fotografato la vita quotidiana, la sua infanzia, i nostri viaggi, tutto. Ho decine di migliaia di foto ancora da sviluppare. Queste sono alcune, pochissime». Dal giorno della nascita a quello che di quattro giorni precede la morte, il tempo di una vita. «Avevo 34 anni, Molly era la mia prima figlia. Non ho avuto nessun sintomo durante la gravidanza, tutto bene, i tracciati, tutto a posto. Solo, tardava a nascere. 44 settimane. I medici dicevano è a posto, prende il suo tempo. Quando è arrivato il momento non ho voluto anestesie, né stimolanti: è nata da sola. Gli amici mi hanno portato dei fiori e dei biscotti, abbiamo festeggiato. Dopo qualche giorno mi hanno detto che non sarebbe sopravvissuta. Aveva un’anomalia nella formazione dei muscoli, non l’hanno mai diagnosticata con esattezza. Mi hanno detto che non sarebbe uscita dall’ospedale. L’ho portata a casa, invece, e l’ho tenuta qui più di 14 anni. La nostra vita non è stata tragica: è stata molto dura, ma bellissima. Molly è stata una bambina felice: privilegiata, dunque felice. Era brillante a scuola, stava molto a suo agio con gli altri, adorava mia madre, aveva delle amiche magnifiche e prendeva i suoi limiti con realismo e filosofia. A differenza di moltissimi bambini nella sua con- DOMENICA 8 MAGGIO 2005 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31 dizione ha avuto tutto ciò che le serviva per vivere serena. Non si è mai considerata malata. Solo nelle ultime settimane mi ha detto: “Ho un cervello che funziona in un corpo che non lo fa”. E sei giorni prima di morire: “Finora sono stata sana per tutta la vita”. La tragedia non è la malattia, è che viviamo in un mondo che non è attrezzato per dare un supporto a chi non ce la fa: ho passato tanti anni a lottare per evitare che mia figlia, a causa della sua disabilità fisica, venisse emarginata. So esattamente di cosa parlo. C’è un tabù che riguarda l’invalidità, la morte e soprattutto la morte infantile: è come se fosse un pensiero da scacciare, qualcosa da nascondere. E invece la vita dura quel che dura, per tutti, Molly era così intelligente, brillante, ironica, era così consapevole dei suoi limiti e della sua fortuna. Ci sono milioni di bambini nel mondo che non hanno il privilegio di Molly e che giacciono abbandonati in qualche letto. Allora sì, non vale la pena che vivano. Parliamo di aborto, di eutanasia. Allora sì, se non ci sono le condizioni per far vivere dignitosamente queste persone, non bisogna farle nascere. Io rispetto tutte le religioni pur senza averne una. Rispetto cattolici e buddisti, ebrei. Però nessuna religione dovrebbe imporre la vita per la vita se non è in grado poi di renderla vivibile per il bambino e per gli altri, per tutti». Vento dalla finestra, un brivido di freddo. Lesley sorride e si scuote i capelli, vuole qualcosa da bere? La cucina è grande, rosa e di legno. Altri libri, altre foto di Molly. Le somiglia moltissimo. «Quindi anche adesso che so cosa è stata Molly per me posso dirle con esattezza che sì: avrei abortito se avessi saputo, e abortirei adesso in un mondo così. Quando nascono bambini con problemi tanto gravi il novanta per cento delle coppie non resiste all’urto. I genitori si separano, anche io e suo padre ci siamo separati: è inevitabile, se per esempio si hanno idee diverse su cosa fare... Operarla e farla vivere negli ospedali attaccata alle macchine, o non operarla e aspettare che la morte la trovasse viva, a casa? “Salvare” le nostre vite adulte, o salvare la sua? Ecco, è difficile dimenticarsi di sé, proiettarsi in due, insieme, in un bambino che richiede ogni energia. Capita che si resti presto soli. E da soli, o si ha una famiglia alle spalle, una madre, una nonna, del denaro, le risorse per lasciare il lavoro e occuparsi solo di lei, la possibilità di farlo oppure cosa? Dove sono, dopo, le associazioni per la vita, gli antiabortisti? E aggiungerò: Molly non ha mai sofferto il dolore fisico. Ha vissuto bene, sulla sua sedia ma bene. Se avesse sofferto e mi avesse chiesto di aiutarla a smettere di soffrire io l’avrei fatto. In linea di principio non vorrei veder morire nessun essere umano ma certo che l’avrei fatto, l’avrei fatto per lei come se lo stessi facendo su di me. Quando ami qualcuno non è affatto difficile decidere, è facilissimo. La adoravo, e non avrei esitato». «Quando Molly è morta ero così stanca. Pensavo che sarei morta anch’io. L’amore profondo è un’esperienza molto negativa. Può annullarti, portarti via da te. Però invece da quando è nata ho sempre avuto chiara la consapevolezza che un figlio è un essere separato, è un altro essere umano non una parte di te. Molly ha visto morire mia madre, sua zia. Ha visto sparire le persone della vita quotidiana, ha imparato che succede, uno va e gli altri restano. Sapeva che sarebbe andata, un giorno, anche lei. Ho aspettato fino all’ultimo che mi chiedesse “mamma, sto morendo?”. Le avrei detto: sì. Era così arrabbiata gli ultimi giorni, era infuriata all’idea di morire. La stavo girando per evitare che le venissero le piaghe, una volta, lei era insofferente con me. Le ho detto “amore, se potessi fare qualcosa la starei già facendo”. Lei mi ha risposto “lo so, mamma” e poi ha aggiunto: “Sarei così contenta se potessi essere ancora me stessa anche solo per un momento”. Così, eravamo pronte. Lo sapevamo. Però la La sociologa Chiara Saraceno: una prova della straordinaria potenza dell’amore “Eroi invisibili, condannati alla solitudine” Repubblica Nazionale 31 08/05/2005 MARIA STELLA CONTE hiara Saraceno, sono talmente tanti i pensieri e le emozioni che travolgono nel racconto di Lesley McIntyre. A lei, madre oltre che sociologa, cosa colpisce particolarmente? «Mi colpiscono due cose belle. La prima è che la piccola Molly, quando è nata, a detta dei medici non aveva alcuna speranza di vita. Invece la madre l’ha fatta vivere per 14 anni sfidando giorno dopo giorno la profezia dei dottori. Questo ci dice della straordinaria potenza dell’amore, perché Molly non solo non è morta ma ha avuto una buona vita. Certo, non tutti i genitori possono farcela e non perché non vogliano: c’è chi non regge; c’è chi non ha i mezzi per riuscirci; c’è chi, di fronte ad un evento tanto complesso come la nascita di un figlio con una qualche forma di handicap, prova il desiderio di fuggire. Lo capisco. E tuttavia questa vicenda ci parla della forza e della solitudine di una donna che ha dato due volte la vita alla figlia». L’altra cosa bella? «È lo sguardo di questa madre sulla morte. “Tutto nasce e muore, tutto comincia a morire subito”, dice ad un certo punto. La maggior parte di noi, davanti alla morte di un bambino, immagina una vita interrotta, mancata; noi pensiamo a tutto ciò che poteva essere e non è stato, e questo ci fa disperare. E non consideriamo che una vita è una vita sempre, se trascorre degnamente; se si accetta l’idea che quel tratto di esistenza possibile non è la premessa di qualcosa ma è compiuta in se stessa. Lesley sapeva che quella della figlia sarebbe stata una vita corta e lo è stata, ma non c’è nostalgia per il tempo mancato quando quello avuto è stato ricco, e pieno, e degno». Ciononostante, Lesley McIntyre sostiene: avrei abortito se avessi saputo e abortirei adesso in un mondo così. «È vero, dice così, ed è un’accusa durissima contro il contesto in cui viviamo e al tempo stesso il rifiuto dell’eroismo e del martirio in una società nella quale, se i bambini non nascono sani, non hai C scelta. Una società più preoccupata dei feti che non nascono che dei bambini nati; una società che lascia pochissime opzioni e che in fondo dice: se i figli non nascono perfetti sono fatti tuoi, e comunque è anche un po’ colpa tua. E intorno a te si crea il vuoto sociale. Spesso la coppia non regge, gli amici si dileguano, i soldi mancano, la casa è inadeguata, il lavoro incompatibile...». Con che risultato? «Che resti sola con la consapevolezza che se non ce la farai tu, se crollerai, non riuscirai a dargli quella buona vita alla quale anche tuo figlio ha diritto. Parlo di scuola, luna park, vacanze, aria aperta, amici; parlo di tutto ciò che Molly ha potuto avere grazie ad una condizione che la madre definisce di privilegio e che quando manca rischia di ridurre quel bambino a un vegetale. Se questo non è possibile, se non si hanno risorse interiori — poiché non nasciamo tutti martiri ed eroi — né materiali, se si rischia di dare una cattiva vita, una vita che è una condanna, allora è meglio non farli nascere». Una gran solitudine... «Sì, grandissima. Perché il bambino con handicap fa paura e il rapporto con lui è spesso percepito come insostenibile; fa paura l’imperfezione; fa paura vedere quel che potrebbe succedere anche a te ma che invece succede sempre agli altri; fa paura immaginare la sofferenza; fa paura dare una mano perché se poi non basta? se poi volessi tirarmi indietro? e allora si scappa. Si vive, quando si hanno figli così, sospesi tra indifferenza e ostilità, e senza orizzonti temporali perché loro restano in un certo senso bambini per sempre. Dobbiamo ammettere che rispetto a trent’anni fa, almeno in Italia, tanto è stato fatto, ma molto altro si dovrebbe fare: abitazioni adeguate, integrazioni di reddito, integrazioni di risorse umane, orari di lavoro... Tutte cose che mancando obbligano queste famiglie all’invisibilità, all’isolamento, dunque a una vita o da martiri o da eroi. Che vengono poi sepolti nel silenzio». domanda che aspettavo mi facesse non me l’ha fatta mai. È stata più saggia di me, e più generosa». «Dopo, per tre anni, ho lavorato come giardiniere. Sono scomparsa, ero diventata invisibile. Era fantastico stare fuori con la terra nelle mani, ascoltavo gli uccelli, anche Molly era un uccello. Facevo un lavoro molto pesante e leggerissimo. Facevo sbocciare i fiori e pazienza per quell’amore finito, un amore così non finisce, certi amori non finiscono mai. Ti accompagnano e ti aiutano a potare un ramo secco, a sorridere a un germoglio. Tutto nasce e muore, tutto comincia a morire subito: con Molly è stato chiarissimo. Ho sempre sentito, anche nei momenti più felici, la presenza costante della loro e della sua mortalità. Poi un giorno, per caso, ho incontrato un fotografo. Abbiamo cominciato a parlare di foto. Non avrei mai pensato di mostrare le foto di mia figlia, in grandissima parte non le avevo nemmeno stampate. Mi pareva una storia personale, la nostra storia. Però poi ne ho mostrate alcune, timidamente, e le ho viste con gli occhi di un altro: è stato come vederle per la prima volta, ed erano bellissime. Intendo: Molly è bellissima. Oggettivamente: la sua vita è stata bellissima, non tutte lo sono altrettanto. Lui, il fotografo mi ha detto: “Hai le immagini di una persona straordinaria, forte e fragile come ciascuno, la sua storia non è solo la vostra: è anche la nostra è di tutti”». «Così le ho messe in fila, in ordine di tempo: credo che chi le guarda, prima di arrivare al punto in cui la sua invalidità risulta evidente, possa essersi affezionato alla persona contenuta in un involucro così delicato e fragile. Credo che nelle foto si veda una bambina che cresce e dopo, solo molto dopo, una bambina un po’ diversa. Questo in effetti era Molly. Una bambina. Dopo, molto dopo, una bambina diversa». STORIA PER IMMAGINI Le foto di queste pagine sono state scattate da Lesley McIntyre e sono tratte dal libro “Il tempo di una vita” pubblicato in Italia da Contrasto Editore (116 pagine, 55 foto in bianco e nero, prezzo 25 euro). Dal libro è tratto anche il foglio di quaderno (in basso) dove la piccola Molly ha riassunto la sua vita anno per anno DOMENICA 8 MAGGIO 2005 le storie Sport estremi LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33 Francisco “Pipin” Ferreras, cubano, cacciatore di record nelle immersioni subacquee. Audrey Mestre, la ragazza francese che si innamora di lui, ne impara le tecniche fino a superarlo e a morire cercando di battere se stessa. Questa è la favola di Pipin e Audrey. Che, nonostante la tragedia, continua dentro la terribile magia del fondo del mare Amore e morte nel Grande Blu S EMANUELA AUDISIO cendi, cerchi, trovi, risali. L’abisso non sembra più un inferno. Tocchi il fondo, soprattutto di te stesso, ti piace: il blu fuori, il buio dentro. Il respiro rauco del mare, mentre tu trattieni il fiato, i polmoni ridotti a spugne inzuppate. Chiedi la luna, ma il tuo cielo è capovolto, senza luce. Non voli, affondi, in apnea. Vai giù veloce, a capofitto, come un ascensore. Non vedi capitan Nemo, perché hai gli occhi chiusi. Sai che veniamo tutti da lì, dall’acqua, solo che un giorno ne siamo usciti. Tu pesce, io uomo. La vita iniziò negli oceani tre miliardi e settecento milioni di anni fa. Peccato, aver perso compagnia. Ma basta smettere di respirare e si torna fratelli, Itaca è giù in fondo, se sei Ulisse ti tuffi. Poi un giorno scendi, non trovi più, perdi, non risali. Hai smesso di essere pesce e anche uomo. Bevi, anneghi, muori. «Houston, abbiamo un problema». Eppure non hai fatto nulla di sbagliato, l’immersione era giusta, la preparazione accurata, ti sentivi bene. E il mare per te e per lei era tutto: passione, avventura, amore. Se si condivide l’abisso, si è uniti per sempre. Così se il mare ti fa male, tu non lasci, non dici basta. Lui ti ha rubato lei, non l’ha fatta più risalire, certi abbracci a 171 metri soffocano. Dovresti odiarlo, smettere di frequentarlo, ripudiarlo. Urlare mai più. Invece riprendi le tue immersioni. Sei da solo, sembri solo, ma lei è laggiù, sparsa, in acqua senti le sue labbra, il suo viso, la sua voce. «A volte è un peccato risalire», diceva. Un libro per guarire Certe storie partono come conquiste, finiscono che in mano non resta niente, nel cuore tutto. Voglia, desiderio, felicità: a mollo. La casa si svuota, la vita perde peso, solo la spina è sempre lì. Sanguini, arpionato, ma non maledici. L’acqua lava, lenisce. Ti rituffi: per lei, per te, perché le lacrime si sciolgono, perché se ce l’hai dentro la caccia a Moby Dick dura tutta una vita. Certe storie diventano libro (Nel blu profondo, uscita 10 maggio) e film (The Dive, in lavorazione). Scrivere di come tua moglie non è più riaffiorata secca i polmoni: «Pensavo di farcela in tre mesi, ci ho messo un anno, dopo tre giorni dovevo smettere, fermarmi, non respiravo. Al- l’inizio il libro lo volevo per i suoi genitori, per far capire com’era vissuta la loro figlia, poi ho capito che era per me, ma accettarlo è stato difficile. Secondo molti sono stato io con la mia fame di record ad ucciderla. Chi pensa così è gente scontenta, infelice della sua relazione amorosa, invidiosa di chi è capace di vivere bene. Ero contento che Audrey avesse imparato l’immersione da me, mi dispiaceva solo che fosse timida davanti alle tv». Francisco “Pipin” Ferreras, nato nella baia di Matanzas sulla costa settentrionale di Cuba nel ’62, è un cercatore di record, uno di quelli fino all’ultimo respiro, basta che sia abisso. Nel duemila in tre minuti scarsi arriva a meno 162 metri, l’estensione di due campi di calcio. È l’erede di una grande stagione dell’immersione subacquea, di quando finita la passione per la conquista della luna si passa a ventimila leghe sotto il mare. L’Italia ha Enzo Maiorca, di Siracusa, faccia da Ulisse, grande innovatore; la Francia ha Jaques Mayol, volto da intellettuale, appassionato di yoga e meditazione. I due ispirano al regista Luc Besson Le grand bleu. Mayol si ritira a 56 anni all’Elba e come molti in cerca di sé finisce la sua vita dondolando con una corda al collo da una trave di casa. Pipin vive a Cuba, per la prima maschera da subacqueo fonde la gomma di un paio di stivali sovietici e l’attacca a due pezzi di vetro tondi. All’Avana diventa socio di «El Ronco», Il Rauco, grande cacciatore subacqueo, versione aggiornata de Il vecchio e il mare. Nell’89 arriva in Sicilia per una gara, l’attrezzatura è arrangiata: con testiere di IL LIBRO E IL FILM NEL BLU PROFONDO È in uscita per Mondadori nella collana Omnibus (320 pagine, 18 euro) il libro scritto da Pipin Ferreras. Il libro sarà presto anche un film con la regia di James Cameron. In questa pagina alcune foto dell’atleta cubano e di sua moglie Audrey Mestre tratte da “Nel blu profondo” letto saldate, costruisce una slitta che consente all’atleta di stare a testa in su, con le gambe flesse intorno alla barra di sostegno. Conosce Maiorca. «È stato tutto per me, ammiro la sua onestà». Nel ‘96 a Cabo San Lucas, in Baja California, Pipin incontra Audrey Mestre, una studentessa francese di 22 anni, appassionata di mare. Lui viene da due divorzi, ha due figli, da tre anni ha voltato le spalle a Fidel e vive e Miami. Si definisce un cubano calvo, arrogante e maschilista. Si innamorano, si sposano, anche lei comincia a fare immersioni. Audrey è giovane e brava, scende a 130 metri in 1 minuto e 56 secondi. Nell’estate del 2002 un’altra ragazza, l’americana Tanya Streeter, arriva a meno 160. Pipin non la prende bene. Due stagioni prima aveva provato i 164 metri, ma era svenuto nell’ultimo tratto di mare. Si chiama «sincope delle acque di superficie», è il nemico della risalita. Meglio fare una pausa, dietro ci sono anche spettri banali: la paura di invecchiare, di avere perso coraggio, l’insoddisfazione personale. Audrey migliora, fa meglio di lui, scende a 166 metri, lui è fiero e geloso, la incalza, perché non 170? Lei risponde: «Non so, competo con me stessa, non con gli altri». In un anno a Audrey viene chiesto di scendere altri 41 metri sotto il suo record personale. A quella profondità il blu è orribile: le orecchie dolgono, sul corpo pesa una pressione di 120 chili, i polmoni si riducono alle dimensioni di un’arancia, la frequenza cardiaca cala a soli 20 battiti al minuto, il cuore viene spinto in su, verso la cavità toracica. Per non perdere conoscenza (narcosi da azoto) ti chiedi: quanti anni ho, dove abito, qual è il mio numero di telefono? Pipin è un marito esigente, il suo amico Carlos protesta: «Tratti i metri come noccioline, se fai così non rimarrà più niente da tentare. Piantala». Lui risponde che ci sono due tipi di persone: quel- le che nella vita immergono solo l’alluce e quelle che si buttano dentro a pesce. Audrey in allenamento scende a meno 170. Ora si tratta di rifarlo, magari meglio. 171 metri sono pari ad un palazzo di 55 piani. Pipin di quel giorno si ricorda tutto: c’era brutto tempo, ci vollero tre persone per portare a bordo la slitta zavorrata, appesantita da 45 chili di piombo, con cui Audrey sarebbe scesa. Rivede sempre la stessa scena: lui è in acqua per i controlli, allunga la mano verso il bombolino, gira la valvola, sente il normale sibilo dell’aria, un refolo contro la mano. Domanda: il bombolino è pieno? «Sì», qualcuno risponde, nessuno saprà mai chi. Malinteso fatale Audrey è bella, ha un sorriso malizioso negli occhi. Tutto bene?, lui le chiede. Saranno le ultime parole. Lei va giù. Poi più niente, per cinque minuti. Lui si preoccupa, scende, a 90 metri vede le bolle, dalla bocca di Audrey esce una schiuma rosa, dal naso la stessa bava. Nessuno sa spiegarsi cosa sia successo, c’è stato un malinteso, l’hanno persa di vista in un tratto, è caduta come una foglia, dice uno. Forse dal bombolino non è uscita aria. Annegamento, dice il medico. Audrey è rimasta sott’acqua otto minuti e trentotto secondi. Aveva 28 anni. Credeva come Mayol che gli essere umani fossero in parte delfini. Pipin sapeva che nel mare ci sta tutto: bellezza e rapina. Smette di immergersi, non dorme più, prende sonniferi, dimagrisce nove chili. Poi un giorno da Miami leva l’ancora e con la barca va a Fowely Light, un «loro» posto, scivola nell’acqua, la sente viva, capisce che Audrey è lì ogni volta che lui si tufferà in mare. James Cameron, regista del Titanic, lo chiama da Hollywood: ha letto dell’immersione fatale, vuole fare un film sulla loro storia. Pipin riprende da dove aveva lasciato lei: 170 metri. Vuole riscendere, ritrovarla. Proverà a Cabo San Lucas il 18 agosto, data del suo matrimonio, attorno non ha più tutti i suoi compagni. Molti ancora lo accusano degli errori che Audrey ha pagato. Chiede un favore: se qualcosa va storto, se perdo conoscenza, legatemi una cintura zavorrata alla vita e lasciatemi andare. Sulle spalle della muta in verde chiaro ha scritto: «En tu memoria, Audrey». Ce la fa, scende, dov’è arrivata lei, d’un tratto prova la tentazione di non tornare. Facile, basta restare lì. Con la mano sulla valvola, apre gli occhi e la vede. I loro visi quasi si toccano. Poi lui sfreccia su. La vita è insensata, lo sport anche, ma ha una sua semplice onestà, quasi meccanica: ti fa fare cose che non credevi più di saper fare. Ricordi, riprovi, riesci. Sei ancora capace di dare la mano. Pipin si sta allenando per i 183 metri. Il dolore si muove, fa sempre male, ma in maniera diversa. Il ricordo è un livido scuro, scuro, che senti e non tocchi. Audrey, Audrey? Come gli squali, dobbiamo continuare a nuotare. 34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8 MAGGIO 2005 i luoghi Fra terra e mare Il fantasioso, delicato autore dell’“Isola del tesoro” discendeva da una stirpe di ruvidi e tenaci costruttori di “lighthouse”. Un viaggiatore-acquarellista ne ha ricostruito la saga e ha percorso le rive della Scozia e delle sue isole per dipingere e raccontare tutte le loro opere. E ne ha ricavato un libro e una mostra Stevenson, cercando STEFANO MALATESTA rbroath, sulla costa nord-est della Scozia, sopra Edimburgo, è uno di quei piccoli porti che nelle fotografie appaiono incantevoli, se amate la wilderness e il mare tempestoso d’inverno, con le onde bianche di schiuma anche al largo. Ci sono mari peggiori: lo stretto di Drake, ad esempio, sotto Cape de Hornos; e poi quel tratto dell’Atlantico del Sud chiamato “The roaring forties”, con immense onde che si vanno a schiacciare sulle spiagge affollate di pinguini; o, per rimanere nei dintorni della Scozia, il Pentland Firth, lo stretto Repubblica Nazionale 34 08/05/2005 A Nel febbraio 1811 il Pillar Rock, il primo dei fari Stevenson, cominciò la sua carriera di sette miglia che mette in comunicazione il mare del Nord con l’Atlantico, forse il passaggio più detestato dai marinai europei dell’epoca della vela. Ma anche sulla costa orientale scozzese i venti, che si trasformano in raffiche senza una ragione apparente, riuscivano a spingere contro le rocce affilate i battelli minori. Navigare da queste parti significava rischiare due volte, a causa della natura e degli umani. Le popolazioni rivierasche, come venivano chiamate nei libri di geografia, quattro straccioni affamati che guatavano l’orizzonte sperando che qualche nave in difficoltà naufragasse nelle loro terre, campavano con il diritto di preda. E non conoscevano pietà davanti ai corpi distesi sulla sabbia o che galleggiavano nell’acqua: vivi o morti venivano subito eliminati per non richiamare l’attenzione. Spesso erano loro a provocare i disastri, attirando di notte le barche condotte da piloti inesperti verso i fondali più pericolosi della zona. Quando si cominciò a parlare di fari, una deputazione ebbe la faccia tosta di andare a Edimburgo a protestare, come dissero, contro l’iniquo progetto. Nel dicembre 1799 una tempesta che ricordava, per la sua forza distruttiva, quella che aveva annientato duecento anni prima l’Invincibile Armada, spedì sugli scogli settanta navi, compresa la nave da guerra “HMS York” con sessantaquattro cannoni e quattrocentonovantuno uomini. Questa volta anche il Parlamento inglese, che normalmente se ne fotteva di quello che poteva accadere oltre il confine con la Scozia, sentì il dovere di fare qualcosa. E in poco tempo, anche se il via ai lavori arriverà soltanto nel 1806, si decise di costruire un grande faro a quindici miglia da Arbroath. Sarebbe stato il primo Pillar Rock di Scozia, ossia il primo faro a colonna: un grande pilone alto trentasei metri e poggiato su una scheggia di roccia che si innalzava per oltre ottocento metri dal fondale. Per costruirlo venne dato l’incarico al Northener Lighthouse Board, l’ente responsabile dei fari, fondato una quindicina d’anni prima. Fu un’impresa abbastanza straordinaria perché si doveva lavorare con una marea che provocava un dislivello di sei metri ogni sei ore. Poco più di quattro anni più tardi, il primo febbraio del 1811, ventiquattro lampade argand si accesero e il Pillar Rock cominciò la sua carriera di faro più famoso della Scozia. Nelle belle giornate chi si mettesse a guardare verso l’orizzonte dal lungomare di Arbroath noterebbe in lontananza come un ago tremolante e luccicante che sembra ballare sopra il mare. Chi l’aveva progettato portava un nome non particolarmente famoso allora: Robert Stevenson. Il Northener Lighthouse Board, con la sua sigla altisonante, era solo una facciata a copertura, nemmeno tanto ricercata, di un gruppo di affaristi che faceva pagare una sorta di pedaggio ad ogni nave per avere utilizzato o beneficiato in qualche modo della sua luce. Alla fine del Settecento la Gran Bretagna era ancora, e lo sarà per molto tempo, uno Stato privato come fini e come mezzi e la detestata mano pubblica veniva ammessa solo in caso di estrema necessità. I membri dell’Alta Camera dei Lord conservavano i loro posti per diritto ereditario, numerosi boroughs appartenevano a ricchi nobili di campagna e nessuno voleva la polizia, per paura che gli agenti andassero a ficcanasare negli affari altrui come facevano in Francia. Il primo nucleo di poliziotti, tutti disarmati, venne istituito da Robert Pil, all’inizio del secolo diciannovesimo, da cui il soprannome di bobbies. Circa novanta fari vennero costruiti su ordine dell’ente Northener in un arco di circa sei generazioni: fari costruiti a pelo dell’acqua; o in cima a roccioni protesi nell’aria su isolotti che chiudevano una baia; o ai confini più remoti della Scozia, su isole di cui nessuno conosceva il nome. Non esisteva un modello unico al quale ispirarsi, esistevano esigenze di illuminazione e anche di semplice avviso. Il faro di Chanonry Point si trova alla fine di un campo di golf; il Cromarti Lighthouse segnala l’ingresso di un fiordo una volta frequentato dai pirati e ora dagli studenti della Aberdeen University per studiare i delfini; in quanto al faro chiamato Rattrai Hed, che ha una portata di ventiquattro miglia, ci sono voluti quarantatrè anni di carteggio tra l’Inghilterra e la Scozia solo per ottenere il permesso di costruzione. Se consentite un parere personale, il più bello dal punto di vista paesaggistico è l’Ismore, il cui guardiano si chiamava Robert Selkirk, discendente da quel Selkirk che è stato il modello per il Robinson Crusoe. Questa classica saga scozzese tenne impegnati gli Stevenson per oltre centocinquant’anni: l’ultimo faro costruito dalla pregiata ditta risale a prima della seconda guerra mondiale. Tuttavia da questo monopolio la famiglia non trasse tutti i possibili vantaggi perché non riuscì ad avere nemmeno un brevetto sulle innovazioni tecniche DOMENICA 8 MAGGIO 2005 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35 TACCUINO DI VIAGGIO Gli acquerelli riprodotti in queste pagine sono di Giorgio Maria Griffa e sono tratti dal libro “I fari degli Stevenson” (Edizioni Nuages, 240 pagine, 40 euro). Attualmente e fino al 22 maggio, gli 82 acquerelli di Griffa sono esposti, a cura di Cristina Taverna, a Torre Avogadro, Lumezzane. La mostra sarà riallestita in seguito, divisa in due parti, alla galleria Nuages, via del Lauro 10, Milano, dal 7 giugno al 9 luglio, e alla galleria Davico, Galleria Subalpina 30, Torino, dal 9 giugno al 9 luglio i novanta fari di famiglia impiegate di volta in volta. Dal 1805 al te lungo la riva e le passeggiate sotto le 1842 il più prolifico e capace ingegnepalme da cocco, anche la presenza a re dell’azienda era stato Robert SteVailima di una bellissima samoana venson, autore di progetti legati ai che lasciava cadere a ogni passo le garquindici fari maggiori e ad altri minoze trasparenti che l’avvolgevano non ri e tecnico discretamente geniale. Fu cancellavano le memorie e il senso lui che fece realizzare il mortaio di dell’appartenenza a un paese che non Manby, un’arma da fuoco che sparavoleva essere solo un’appendice setva un proiettile a cui era stata legata tentrionale dell’Inghilterra. una lunghissima ciLa romantica Scoma, invenzione rivezia era così differente latasi utilissima per dall’Inghilterra, troprecuperare i naufrapo appiattita nel suo ghi. Infatti nei quacinico buonsenso, e la rant’anni successivi ferita di Culloden, dooltre mille persone fuve gli scozzesi avevarono salvate. no perso la libertà, era Robert Stevenson ancora aperta. E anmorì nel 1850, lo stesche quel senso del goso anno in cui nasceva tico entro il quale posil nipote Robert Louis siamo comprendere il Stevenson, l’autore tema del demoniaco e de L’isola del tesoro. della duplicità umaQuel giovanotto dai na, di cui tratta Lo polmoni delicati, che strano caso del Dottor vestiva sempre strinJeckill e Mr Hyde, si era gendosi alla vita una fatto più forte e adofusciacca e che scriveperato con maestria va in una prosa così finirà negli ultimi lalimpida e apparentevori, ad esempio Il simente così naturale, gnore di Ballantrae. fu l’unico tra i compoNon so se ricordate nenti del clan, attral’inizio dell’Isola del teverso cinque o sei gesoro. Jim Hawkins, il nerazioni, a scampare giovane protagonista, alle corvée delle misuaiuta la madre a gestire razioni delle maree, una locanda che è asdei lavori nei fondali e solutamente identica di tutto quanto ria un faro. Si chiama la guardasse la costru“Locanda dell’ammizione dei fari. raglio Benbow”, apIsola Scalpay, Ebridi Esterne Ma non si possono pollaiata sopra un proda VACANZE 1814 mollare impunemenmontorio e con ottima te i luoghi dell’infanvista sulla spiaggia. zia, qualsiasi cosa Nella locanda si è rifuquest’infanzia sia stata. E quella dello giato un vecchio filibustiere che sta scrittore non dev’essere stata pessima, aspettando qualcuno che alla fine lo con l’eccezione della malattia. Tusitaucciderà. E Jim comincia ad avere gli la, il raccontatore, l’affabulatore, coincubi, con Stevenson che sta prepame l’avevano chiamato gli atletici abirando l’atmosfera: «Quando il vento tanti di Samoa che andavano ad ascolscuoteva i quattro canti della casa e i catarlo quasi ogni pomeriggio nella sua valloni infuriati mugghiavano contro casa di Vailima, i “Cinque ruscelli”, la baia...». non fu mai tanto scozzese d’anima e di La intelligente e premurosa Fanny memoria come quando stava nelle isoOsborne — moglie amante compagna le incantate del sud Pacifico. Le nuotamadre e infermiera — aveva capito be- ‘‘ Walter Scott Risaliamo di bolina uno stretto canale tra quelle che paiono due scure e tristi isole in una bufera di vento e pioggia, guidati solo dalla fioca scintilla del faro su un’isola chiamata Eilean Glas nissimo che Robert Louis aveva la psicologia di un liceale molto intelligente e brillante e che sapeva di esserlo. Ma come scrittore Stevenson era tutt’altro che un liceale: un artista estremamente consapevole, un artigiano abilissimo che sapeva come maneggiare la prosa e come distillare un’opera limpida dalla grossolanità dei materiali. Quando morì, Henry James scrisse il commento più commovente: «Ha illuminato un’intera parte del globo, ed era lui stesso un’intera provincia della nostra immaginazione. Noi ci sentiamo più soli e più deboli senza di lui». E se non volete credere a James, credete a un signore argentino di gusti antiquati che si chiamava Borges e che diceva spesso. «Mi piacciono le illustrazioni del Settecento, il sapore del caffè e la prosa di Stevenson». Qualche volta gli dei superni, che guardano agli uomini in basso con invidia e sono la causa delle nostre disgrazie, hanno anche loro delle pause e lasciano che le cose vadano come devono andare e cioè per il meglio. Quando un amico le ha raccontato la saga stevensoniana dei fari, Cristina Taverna, editore del Carnet de voyage, la collana dove è stato pubblicato questo libro, si è entusiasmata quasi fuori misura per due ragioni: il progetto di disegnare tutti i fari era bellissimo. Inoltre lei conosceva perfettamente uno dei pochi artisti in grado di farlo. Anni prima aveva pubblicato un altro carnet de voyage di un artista che aveva attraversato le Americhe, per scendere lungo quelle immense spiagge argentine e cilene dove l’oceano lasciava le carcasse di navi e di grandi cetacei. Per quanto disabitati e solitari e remoti fossero quei luoghi, c’era sempre qualcuno che andava a prendere questi resti commoventi e bellissimi per adornare le facciate delle case argentine. Ma l’artista, che si chiama Giorgio Maria Griffa, di Biella, era arrivato in tempo e i suoi acquerelli erano esattamente intonati al fascino nebbioso e solitario della Patagonia marina. Griffa aveva dipinto anche alcuni fari e dunque doveva aver avuto come una premonizione. Senza alcuna piaggeria, questi nuovi acquerelli dei fari mi sono sembrati tra le cose migliori che ho visto negli ultimi anni. Quanto a Griffa ho parlato con lui solo al telefono: un tipo gentile, non molto loquace, un tipo solitario genere «via dalla pazza folla». Suo nonno era stato in Patagonia insieme con quello straordinario geografo che si chiamava De Agostini, mandato da don Bosco da quelle parti dopo aver sognato il salesiano che scalava il Cerro Torre o una montagna analoga. E da quelle parti, anni fa, avevo conosciuto un alpinista di Lecco che si era ritirato nel sud della Patagonia, vicino a un grande lago, e raccontava una strana storia. In un libro del De Agostini aveva trovato una fotografia che fissava l’immagine di una montagna completamente sconosciuta. Era andato in giro per anni mostrando la fotografia della montagna, e tutti dicevano che non esisteva. Finalmente un pescatore l’aveva riconosciuta, l’aveva portato attraverso il lago alla base della montagna e lui l’aveva scalata. Mi piacerebbe molto tornare in Patagonia con Griffa per vedere se questo montanaro di Lecco, che nel frattempo è morto, mi aveva raccontato una storia vera o se si era inventato tutto. ROBERT LOUIS LA PECORA NERA Robert Louis Stevenson nasce a Edimburgo il 13 novembre 1850 da Thomas Stevenson, ingegnere e progettista di fari per il Northern Lighthouse Board, e da Margaret Isabella Balfour. Gracile, debole di petto, ha un’educazione scolastica discontinua. Nel 1869 si iscrive a ingegneria a Edimburgo ma dopo due anni confessa al padre di non avere alcuna intenzione di proseguire l’attività di famiglia, preferendo dedicarsi alla scrittura... 36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8 MAGGIO 2005 Una guerra di avvocati e carte bollate che va avanti da anni, gestita dal tribunale di Cassino. A contendersi i “beni letterari” sono i due figli, Idolina e Landolfo, insieme alla vedova. Una battaglia legale che dura ormai dal 1979 e che blocca la pubblicazione dell’opera omnia. Simbolo della controversia, il degrado del castello di Pico, la casa di famiglia non lontana da Roma L’eredità Landolfi Il tesoro sotto sequestro di un genio “scandaloso” FOTO DI GRUPPO CURZIO MALTESE Repubblica Nazionale 36 08/05/2005 FOTO EFFIGIE F dine, oltre che ammirazione, per il do- mille inciampi burocratici. no riottosamente amoroso che offre». L’immagine concreta dell’eredità Alberto Moravia si spinse a immagina- Landolfi è il castello di Pico, la casa di fare lo scrittore di Pico come il potenzia- miglia dove lo scrittore ha trascorso le «Bulgakov italiano». tutta la vita. Con più o meno lunghi inLandolfi non divenne il Bulgakov ita- tervalli fra Firenze, Roma, Milano che liano: gli mancava la fede o una fede non amava (Milano non esiste, un suo qualsiasi. Rimase un «tipico minore» bel racconto) e soprattutto a Sanremo come si descrive con la consueta auto- e Venezia, naturalmente per i casinò. È denigrazione nei diari, uno scrittore un luogo magico per il lettore perché dal talento e dalla fantasia portentosi qui sono ambientati alcuni racconti. ma votati all’annullamento. Soltanto Ma ora la magia bisogna andarsela a negli ultimi anni, con l’arrivo di un edi- cercare fra rovi e travi annerite e scontore nuovo, adatto come Adelphi, il te- nesse, cataste di rami secchi, mura fatisoro letterario stava per incontrare il scenti, cantine dantesche. L’interno successo, soprattutto del palazzo conserva per l’interesse e la ancora un’aura lansorpresa delle giovadolfiana, una specie di ni generazioni, cattusilenziosa macchina rate nella luciferina del tempo. Basta chiuseduzione del mondo dere il portone e si vielandolfiano. ne proiettati fuori dalMa proprio la contemporaneità. quand’era sul punto Alle pareti sopravvivodi uscire dall’ombra, no i disegni di Landoll’opera di Landolfi è fi, figure di donne mostata ricacciata nelstruose eppure senl’oscurità da un’itasuali. Il resto è macerie lianissima battaglia o quasi. legale per l’eredità Anni fa qui doveva che vede da una parte nascere una fondaziola figlia Idolina, indine letteraria che in menticabile «minor» fondo avrebbe onoradei diari, teneramento l’unica gloria cultute amata, e dall’altra rale della zona e offerla vedova e il figlio to anche una sede Landolfo capaci di adatta ai manoscritti ibernare l’opera omdi Landolfi, un tesoro nia dello scrittore in che ora giace in una attesa di un miglior stanza dell’Archivio di guadagno che come Stato a Roma, in attesa la vincita finale al cadi miglior destinaziosinò non arriva mai. ne. Naturalmente non Una guerra di avvocaci si mise d’accordo ti e carte bollate che neppure su quella. infuria da anni, senza L’assurdo è che il camai placare i risentistello Landolfi è segnada DES MOIS menti e le ferite lalato per tutto il paese di 1967 sciate da un padre e Pico, salvo che una da un marito imposvolta arrivati all’insibile, attutita soltangresso, in fondo alla to ormai dai torpidi ritmi del tribunale salita, il portone della rocca è serrato. di Cassino, statistiche alla mano il più Non esiste scena più malinconica lento d’Italia e quindi probabilmente per chi ha amato Landolfi e quello che del pianeta. forse è il suo capolavoro, Racconto Persa ogni speranza di ottenere lo d’Autunno, scritto di getto nel ‘47, dove svincolo dell’intera opera landolfiana, la casa, ispirata al palazzo di Pico, è la Idolina sembra decisa a ottenere alme- vera protagonista, il «ricettacolo dei sono la separazione di un terzo, in modo gni» stuprato dalla guerra. È un persoda poter continuare a diffondere i libri naggio vivente, anzi uno dei più bei del padre. Ma gli altri due eredi e so- personaggi «femminili» della letteratuprattutto i tempi della magistratura ra italiana del dopoguerra. Per capirne rendono di fatto Landolfi uno scrittore la genesi occorre forse ricordare la traproibito. Negli ultimi mesi sono anda- gedia che ha segnato per sempre Tomte in fumo due traduzioni antologiche maso Landolfi, la morte della giovanisin tedesco e francese. È stato cancella- sima madre. «Io ero un bambino che a to un progetto di film americano da La un anno e mezzo avevano portato daMoglie di Gogol, racconto di un altro vanti a sua madre morta, colla vana amore impossibile fra il grande scritto- speranza che i lineamenti di lei gli rire e una bambola gonfiabile, finito manessero impressi nella memoria; e chissà come sul tavolo di un produtto- che aveva detto: lasciamola stare, dorre hollywoodiano. Per vie altrettanto me». inconsuete, Le Due Zittelle, travolgenNel ricordo dello scrittore adulto i lite novella di due vecchie frustrate e di neamenti della madre svaniscono, souna scimmia, ha fatto innamorare An- stituiti dal luogo, dalle stanze della cana Marchesini, ex del Trio, che l’ha tra- sa. Nel Racconto d’Autunno la casa è lei, dotto in un monologo di raffinato umo- ogni descrizione è una carezza su un rismo e bel successo. Mentre le vere corpo di donna. Fino alla confessione opere teatrali di Landolfi, dal Landolfo disperata: «Ma perché mi attarderei a VI alle Scene dalla Vita di Cagliostro, descriverne i menomi particolari e i non si possono più rappresentare. La menomi oggetti, di nessuna importanstessa pubblicazione della narrativa da za per gli altri, ciascuno dei quali parlaparte di Adelphi procede a rilento, fra va invece al mio cuore? Basti dire che ‘‘ FOTO MASSIMO ARCESE ra tanti letterati da premio ministeriale, Tommaso Landolfi ha rappresentato l’ultimo dei grandi scrittori personaggi, ironicamente romantico, inafferrabile e scandaloso. Inventore di una delle più lucenti e musicali lingue del Novecento italiano e di storie surreali, diarista di spietata sincerità, Landolfi si portava nella vita un’anima russa. Come l’amatissimo Dostoesvki, scriveva per giocare e giocava per scrivere, annichilendo infine al tavolo della roulette due patrimoni, il personale e quello familiare dei nobili Landolfi, signori di Pico. Nei termini psicanalitici, che l’avrebbero fatto sorridere, era come molti giocatori un sadico autopunitivo, ovvero in pratica la più gentile e innocua persona di questo mondo. Ora la dissipazione che in vita è stata la sua principale attività ne segna pure la fortuna a ventisei anni dalla morte. È un mistero come uno dei pochi grandi scrittori italiani del secolo sia scomparso dalle antologie, cancellato dai calendari delle celebrazioni, che pure non si negano a nessuno, ignorato dalla critica. Lo spazio bianco che Landolfi pretendeva sui risvolti di copertina di romanzi e racconti al posto delle note biografiche («quel trafiletto d’imbonimento…»), è diventato un destino. Accolto come un classico fin dagli esordi giovanili, con Dialogo dei Massimi Sistemi del 1937, Landolfi ha sempre sofferto una fortuna alterna. Un po’ per la sua sfrontata ricerca d’impopolarità e molto per la sfiducia dei suoi editori, prima il fiorentino Vallecchi e poi Rizzoli, che l’hanno sempre considerato scrittore per pochi eletti, dalla lingua troppo ricca e con una felicità narrativa indiscussa ma impossibile da classificare nelle categorie riconoscibili. Landolfi non apparteneva alla scuola dei neorealisti, più o meno socialmente impegnati, ma era altrettanto lontano dalle retoriche dello sperimentalismo e dall’intruppamento avanguardistico. È un grande vantaggio agli occhi del lettore di oggi, che può scoprire l’intatta anomalia dell’opera landolfiana. Ma non lo era all’epoca, se non appunto per gli eletti. Ch’erano davvero tali ed entusiasti. Eugenio Montale, per esempio, ammirato tanto dalla lingua di Landolfi quanto dal personaggio («che magnifico attore sarebbe stato Tommaso, se soltanto avesse voluto» scrive in una lettera). Andrea Zanzotto ha lasciato un saggio memorabile su Pietra Lunare, e a dieci anni dalla morte dell’autore scriveva: «Un ritorno di Landolfi, anche con uno qualsiasi dei suoi libri, è sempre da considerare un avvenimento. E verso questo grande autore non si può non provare gratitu- A sinistra, uno scatto degli anni ’50 al caffè “Le giubbe rosse” di Firenze: si riconoscono, al centro, Mario Luzi, Eugenio Montale e Tommaso Landofli. Qui sotto il castello di Pico Ridicola mania Meglio penetrare la varia vita con cui venivo occasionalmente e fugacemente a contatto: far provvista di fuggevoli esperienze è stata sempre la mia ridicola mania DOMENICA 8 MAGGIO 2005 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37 LE OPERE L’ESORDIO I DIARI I RACCONTI IL RITRATTO GLI ARTICOLI Il libro si intitola “Dialogo dei massimi sistemi” e fu pubblicato nel ‘37; è il racconto di uno scherzo linguistico fatto da un capitano inglese Sono tre: “La bière du peûcheur” (‘53) di doppia traduzione: “La bara del peccatore”, la “Birra del pescatore”, “Rien va” (‘63) e “Des mois” (‘67) La raccolta “Ombre” (1954), contiene racconti fantastici di Landolfi, come “La moglie di Gogol” o “Lettere dalla provincia” “Ottavio di SaintVincent” è una specie di favola, la vita di un giovane poeta povero e annoiato che non si suicida perché attende qualcosa “Gogol a Roma”, del 1971 è un insieme di micro saggi, riflessioni irriverenti, aperture a temi extraletterari come “la metafisica della roulette” Piccola antologia su Pico Solo, nella casa che crolla un poco al giorno TOMMASO LANDOLFI ederico rientrava: nel cortile gli saltò incontro a festeggiarlo la vecchia cagnetta da caccia, lasciata a guardia. Il cortile, chiuso da tre lati, si apriva dall’altro sull’orto sottostante, e, oltre una fila di case basse, su una stretta valle che, risalendo dolcemente, si conchiudeva all’orizzonte alto e lontano in una fila di colli rotondi; una luna coperta lo illuminava di luce blanda e ombrosa. Federico viveva completamente solo nella sua grande casa abbandonata e, per semplificare le cose, usciva ed entrava da una porta di servizio donde, dopo un certo giro attraverso due umidi ripostigli e una dispensa, si raggiungeva finalmente la cucina, prima stanza fornita d’una lampadina elettrica. F da MANI, in Dialogo dei massimi sistemi, 1937 *** Ultimo forse rappresentante genuino della gloriosa nobiltà meridionale, io sto da solo in questa casa crollata più che per metà, e che seguita a crollare un poco ogni giorno, in cui il vento si insinua gemendo, sufolando, facendo garrire le pendule tappezzerie. [...] Oggi pioveva forte e insistente, non solo fuori, ma dentro da molte parti. Pioveva per la scala a chiocciola, dalla volta sotto la scala esterna, in alcune stanze; sulle pareti si espandevano grandi macchie, altre sulle tele delle soffitte, acqua grondava lungo il filo delle pareti, s’infiltrava di sotto e di tra le imposte. E penetrava fino a me sguazzante il grande scroscio, il rombo delle piene. Questa pioggia non era purificante, era corrompente; non scioglieva i pensieri, li inzuppava e appesantiva. Essa macerava fin nel midollo, scommetteva pietra per pietra quanto resta di questa vecchia casa. La quale un giorno non lontano si fenderà a mezzo e lentamente rovinerà seppellendo il suo solitario abitatore; e di tra la fenditura si sarà mostrata una luna rossa; insomma, come della casa di Roderigo Usher. Ebbene? Non è bello che io muoia con lei, o lei con me? Repubblica Nazionale 37 08/05/2005 da LA BIERE DU PEÛCHEUR, 1953 ogni cosa, il più piccolo ninnolo, le cortine del letto, le babbucce ricamate a piè di questo, lo sgabello imbottito davanti alla toeletta, e cento altre, ogni cosa serbava viva la di lei impronta ed era rimasta, lo si vedeva bene, come quando ella aveva lasciato quel luogo l’ultima volta; e potevano essere passati tanti anni!». Più del gioco e della morte, del surrealismo o dell’affinità elettiva con i grandi russi che ha tradotto splendidamente, da Gogol a Puskin a Dostoevski, più ancora che nella ricerca di un Dio irraggiungibile («Oh Signore, inventato dai poeti…»), il cuore dell’opera di Lan- *** Nel cortile della mia casa ci sono, o meglio c’erano, quattro acace, vulgo casce, grandi e fiorenti. Verso il mio venticinquesimo anno di età, senza causa apparente, una di esse morì. In tale occasione a mio padre scappò detto con un sorriso: «Queste casce rappresentano la tua vita: il suo primo quarto se n’è andato». Era un augurio, era anche una triste constatazione paterna, era soprattutto una frase imprudente, che legava con nodi indissolubili il mio destino a quello dei quattro alberi. [...] Da qui, da questa casa, è passata la guerra, lasciandovi vaste piaghe aperte, lasciandovi in ispecie, nell’aria, le tracce della sua insolenza. Quando vi tornammo, poco dopo, non solo due quartieri erano crollati, e le mura, un tempo così gelose del loro vetusto segreto, si scosciavano al sole, ma, quel che era peggio, esse avevano dato ricetto a molta gente straniera, a Tedeschi prima, poi a Francesi o Algerini, infine a torme di “sfollati”. Noi contemplavamo quello squallore e quella rovina, ma il peggio, come ho detto, era che non riconoscevamo l’aria di casa nostra. Eppure, anche allora, lo sguardo mi corse subito ai miei tre alberi. da QUATTRO CASCE, in Ombre, 1954 dolfi, come scrive Monique Baccelli, risiede «nel suo rapporto con la figura femminile, e con l’amore in generale». Nel disperato bisogno di un amore che si sa inarrivabile, negato fin dal principio. E per questo si rovescia in fantasia mostruosa e sadica, incubo erotico, ripulsa difensiva, rabbia e ambivalenza, incarnata dal personaggio di Pietra Lunare, per metà donna bellissima e per l’altra capra. Per poi tornare alla fine della vita, nelle poesie degli ultimi anni, ormai senza più gioco o finzione letteraria, nel puro dolore. La casa madre di Racconto d’Autunno ha resistito alle offese del tempo e della storia, alla profanazione degli eserciti durante la guerra e perfino ai bombardamenti che hanno trasformato la zona di Cassino in un paesaggio davvero lunare. Rischia di non resistere invece alla tragedia minima e quotidiana dell’indifferenza, della burocrazia. Ci vorrebbe magari un intervento politico o di qualche istituzione culturale. Ma Landolfi non è oggetto di appartenenze né a destra né a sinistra. Scriveva «per non essere incluso», avrebbe detto Flaiano, riuscendo benissimo in vita e in morte a star fuori, libero di cercare un altrove, un tempo giusto nel passato o forse nel futuro. *** Ho affermato che avevo ed ho un’unica passione, ed è vero, solo che non ho nominato la giusta. In realtà delle corse e del gioco, come vedi, posso fare a meno. E invece non posso fare a meno di... di che? Forse di questa cadente casa piena degli ululati del vento, col suo orizzonte di montagne calve? [...] Ero in città, una volta d’autunno, e d’un tratto fui preso da una furiosa nostalgia: sai tu di cosa? Ma di nient’altro che di questo cortile cosparso delle foglie gialle e marce di queste acace, veduto di dentro a questa sala, traverso i vetri di questa porta, come ora lo vediamo. E dovetti prendere un treno e venirci. da IL VILLAGGIO DI X E I SUOI ABITANTI, in Se non la realtà, 1960 Repubblica Nazionale 38 08/05/2005 DOMENICA 8 MAGGIO 2005 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39 cultura Lo scrittore australiano legge i suoi versi, intimi e colloquiali, davanti al pubblico del Lingotto: “So di essere un cattolico strano ma la religiosità è al centro del mio lavoro e per me le liriche sono come visioni” La Fiera del Libro di Torino La poesia sognata del grande Les Murray A LUCIANA SICA TORINO rriva in una delle sale della Fiera torinese, immenso come un elefante, col faccione rubicondo di un contadino e il passo traballante di un gigante buono alla Shrek. Una mole boteriana che contrasta con il volto segnato da una malinconica mitezza. Una specie di ossimoro vivente. Leslie Allan Murray si siede al tavolo, si guarda intorno forse un po’ stupito dalla gran folla che l’osserva, si concentra ma senza nessuna affettazione, e legge le sue poesie: ispirato ma disinvolto, rapidissimo, a tratti tagliente, sempre provvisto di una sicurezza assoluta. Legge versi magnifici, molto intimi e colloquiali, di una forza espressiva abbagliante, di un’inventività linguistica che incanta: sono versi tratti da Un arcobaleno perfettamente normale, l’antologia pubblicata lo scorso anno da Adelphi che ripercorre la sua intera opera poetica, dal 1965 alle “poesie formato foto” del 2002. «Sarebbe miope considerare Les Murray un poeta australiano, così come lo sarebbe dire che Yeats è un irlandese», ha scritto di lui Iosif Brodskij, e certamente — come nel caso di Seamus Heaney e Derek Walcott — siamo di fronte a un autore tra i più emblematici della vitalità che esprimono le aree “periferiche” della cultura letteraria inglese e se è vero anche che Murray è il cantore della cultura aborigena, degli antenati, che la sua esperienza poetica nasce dall’incontro con i luoghi più sacri della tradizione nativa, è altrettanto vero che il lettore di Murray scopre nell’Australia un “luogo” universale, uno specchio dove è possibile rintracciare ogni mondo dell’anima. Claudio Gorlier e Luigi Sampietro, LA RACCOLTA Le poesie lette da Les Murray (nella foto sopra) alla Fiera del libro di Torino erano tratte dal volume “Un arcobaleno perfettamente normale”, pubblicato lo scorso anno in Italia da Adelphi che lo presentano al pubblico torinese, fanno più volte riferimento agli altri libri di Murray usciti da Giano Editore: dal poema-romanzo Freddy Nettuno, più di ottocento pagine per raccontare in un modo assai stravagante il Novecento, alle più recenti Lettere dalla Beozia — così Murray chiama il mondo remoto e dimenticato dell’Australia rurale, in una raccolta di saggi in cui contrappone alla fretta indifferente della civiltà occidentale i valori del mondo contadino da cui egli stesso proviene. Murray dice di sentirsi lontanissimo dal disincanto degli intellettuali e per questa ragione sembra che nel suo Paese sia considerato un conservatore, se non proprio un reazionario. «Accuse idiote», dice lui, «che nascono dal mio approccio anti-elitario alla cultura. Io voglio scrivere per tutti: non sono sperimentale né intellettualistico. E non faccio politica. Non faccio battaglie, e neppure crociate. Semplicemente non mi piace il disprezzo e lo snobismo di certa gente». Non è la politica che interessa Murray, ma piuttosto la religiosità, il senso profondo del sacro nell’esistenza. «So di essere un cattolico strano, ma lo sono senz’altro, da un punto di vista molto intimo e anche sacramentale», dice. «Un mio amico musulmano mi ripete che sono piuttosto un mistico sufi e magari sarà anche così. In ogni caso la religiosità sta profondamente dentro al mio lavoro, al modo che ho di esprimermi. I versi mi giungono così, come visioni, perché una cosa è certa: la poesia va sognata». Tra le liriche brevi che legge ce n’è una intitolata Il significato dell’esistenza. Eccola: Ogni cosa tranne il linguaggio/ conosce il significato dell’esistenza./ Gli alberi, i pianeti, i fiumi, il tempo/ non conoscono altro. Lo esprimono/ momento per momento come universo./ Perfino questo stupido corpo/ lo vive almeno in parte,/ e vi avrebbe piena dignità/ non fosse per l’ignorante libertà/ della mia mente parlante. controsalone I dati elaborati dagli editori Gli “Inizi” di Baricco e il mistero delle cifre I lettori italiani ultimi in Europa Repubblica Nazionale 39 08/05/2005 MASSIMO NOVELLI I G TORINO l silenzio è d’oro. Gli organizzatori della Fiera hanno deciso ieri di non comunicare più giorno per giorno il numero dei visitatori. «Basta con lo stillicidio delle cifre, hanno proclamato d’imperio, le presenze si conosceranno soltanto domani sera, quando il salone chiuderà i battenti». Perché questa “omertà”? Ecco la risposta di Rolando Picchioni, segretario generale: «Siccome ci accusavano di fornire numeri a capocchia, e dato che siamo invece persone serie, daremo soltanto il rendiconto finale». Ma che cosa cambia? Se le percentuali sugli afflussi fossero inventate di sana pianta (ma non ci crediamo), anche il totale lo sarebbe, no? Americanate. Per alcune questioni burocratiche tutte americane, lo scrittore marocchino Abdellah Hammoudi, che si trova negli Stati Uniti, non ha potuto ottenere il visto d’espatrio per l’Italia. È stato così costretto a disertare l’incontro odierno, previsto nell’ambito di “Lingua Madre”. Vivaci proteste di Tahar Ben Jelloun, che avrebbe dovuto dialogare con il suo connazionale. Arriva Baricco. Con buona probabilità, a sorpresa Alessandro Baricco comparirà oggi a mezzogiorno al Salone. Lo farà per partecipare alla presentazione di Inizi, il libro con cui la Fandango Libri ha raccolto gli incipit di romanzi e sceneggiature prossime venture (da Margaret Atwood a J. M. Coetzee, da Claudio Magris a Ian McEwan, da Stephen King allo stesso Baricco), il cui ricavato delle vendite è destinato a finanziare un progetto di aiuto per le popolazioni colpite dallo Tsunami. Lo scopo, in particolare, è dare una mano ai bambini dello Sri Lanka. IL SALONE Tra gli appuntamenti di ieri alla Fiera del Lingotto, il Forum del libro e l’incontro “Lingua Madre” che ha avuto come protagonista il poeta Les Murray TORINO li italiani finalmente ricominciano (o cominciano tout court) a leggere, ma la crescita è talmente lieve da apparire quasi impalpabile. Tradotto in numeri, significa un aumento di lettori del 2,5 per cento rispetto alle rilevazioni precedenti. In sostanza poco più di 29 milioni di persone, con un età superiore ai sei anni, leggono almeno un libro non scolastico all’anno. Rappresentano il 41,4 per cento della popolazione del Paese. Nel complesso, un italiano su due (il 53,2 per cento del totale) legge annualmente un libro, però quasi la metà di questi lettori sporadici dichiara di non leggerne più di tre in dodici mesi. E soltanto il 12,3 per cento ne leggerebbe uno al mese. Sono i dati elaborati dall’ufficio studi dell’Associazione Italiana Editori, che il linguista Tullio De Mauro ha citato ieri mattina, al Lingotto, nel corso dell’incontro con Marino Sinibaldi, curatore del programma Fahrenheit di Radiotre, promosso dall’Associazione Presìdi del Libro guidata da Giuseppe Laterza. Di fronte a uno scenario del genere, che ci colloca agli ultimi posti in Europa nel mercato editoriale dopo Portogallo e Grecia, pertanto non deve illudere troppo la leggera ripresa in materia di lettura e il proliferare dei festival letterari sul modello di quello di Mantova, così come il consolidarsi della Fiera del Libro torinese. «I festival letterari — ha ricordato infatti De Mauro — assomigliano un po’ ai famosi aerei che Mussolini spostava da un posto all’altro per far credere che ce ne fossero tanti. Sono frequentati, insomma, dalle stesse persone». (m. nov.) 40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8 MAGGIO 2005 L’anno prossimo cadono i 250 anni dalla nascita del grande compositore e i festeggiamenti sono cominciati con la rilettura, da parte di Abbado, Kentridge e Muti, dell’opera in cui Amadeus espresse al meglio la sua cultura progressista. Ma anche le atmosfere esoteriche che grazie alla New Age, due secoli dopo, continuano ad affascinare l’Occidente L’ultimo gioco di specchi di Mozart il giacobino Il flauto magico I LEONETTA BENTIVOGLIO l Flauto Magico è tra noi. Cammino di sapienza, gioco geometrico di coppie (male e bene, passione e ragione, uomo e donna, corpo e anima), ricchezza di registri simbolici e narrativi. Il Flauto Magico ci insegue, interroga temi del presente, disegna il cerchio della creazione, conduce chi ascolta ai confini del tutto con grazia e anche con estrema crudeltà, specchio dell’imprendibilità di Mozart, dell’infinitezza densa di colorazioni opposte del suo genio. Il Flauto Magico non dà pace. Perché può contenere il mondo (numerosi pensieri del mondo) e diventare metafora dell’essenza stessa della musica, intesa come rito assoluto e straordinaria formula alchemica. Il Flauto Magico sta invadendo i nostri palcoscenici. Questa sua forte presenza è solo un annuncio delle prossime celebrazioni mozartiane: Wolfgang Amadeus nacque nel 1756, sicché l’anno venturo cade il duecentocinquantesimo anniversario della sua miracolosa venuta al mondo. La ragione del miracolo, lo sappiamo, sta nella facoltà di conciliare una facilità avvolgente con insondabili abissi espressivi. Mozart è giocoso e metafisico come nessun altro, e il conturbante fondersi di questi aspetti gli consente (o almeno così sembra) la percezione dell’universo: la capacità di proporcela come se niente fosse, illudendoci o cullandoci nella gradevolezza dell’ascolto, gli ha regalato una popolarità senza confronti. Andato in scena a Vienna nel 1791, nel mese di settembre, dunque non molto tempo prima della morte del compositore, che avvenne il 5 dicembre, Il Flauto Magico, ridente opera testamentaria di Mozart, ha appena debuttato a Reggio Emilia con la direzione di Claudio Abbado, che l’affronta dal podio per la prima volta, collaborando in quest’occasione con il figlio Daniele, regista colto e sensibile, autore di un allestimento ricco di spunti e riflessivo, già passato con successo per Ferrara e atteso a fine maggio in Germania, in autunno a Modena e nei mesi successivi in un tour europeo. Si sta rappresentando (con molte repliche a venire: dureranno fino a settembre) un Flauto Magico anche a Bruxelles, al teatro dell’opera della Monnaie, in una nuova, importante produzione. Dirige René Jacobs, grande specialista della musica barocca, anch’egli al suo primo incontro con l’opera mozartiana. La regia è dell’artista sudafricano William Kentridge, bizzarro inventore di affreschi trompe-l’oeil e appassionato cultore di metafore sul contrasto avvincente tra luce e tenebre, come dire il nucleo stesso del Flauto Magico: per l’opera ha architettato una scatola di illusioni ottiche che accoglie e sovrappone le diverse ambientazioni del libretto. C’è ancora un Flauto in arrivo, di cui quest’estate si parlerà molto: lo dirigerà Riccardo Muti, a fine luglio, in apertura del Festival di Salisburgo, con la regia di un campione del teatro lirico come Graham Vick. Sono in molti a ricordare il suono trasparente e le profondità vertiginose del Flauto che Muti diresse alla Scala nel ‘95, con ripresa nel ‘98. Vi erano coinvolti alcuni degli stessi interpreti che canteranno nell’allestimento programmato a Salisburgo, come il baritono londinese Simon Keenlyside, il più irresistibile Papageno che si possa immaginare, e Michael Schade nel nobile ruolo di Tamino. Perché tanta attrazione per questa vivida mistura di tragico e comico, trivia- È il capolavoro che affranca l’autore dal cliché tramandatoci dalla letteratura e dal cinema: quello dell’artista rozzo, infantile e soavemente animalesco LA PRIMA “Il flauto magico” fu rappresentato per la prima volta a Vienna nel 1791. In alto, il primo libretto Qui sopra, una scenografia di David Hockney per la messa in scena alla Scala nel 1985 lità burlesca e spazi del «meraviglioso»? Premesso che non si può parlare di renaissance — l’amore per Il Flauto Magico non si è mai estinto — è chiaro che incalza, con speciale ostinazione, il sogno della rilettura. Eppure la vicenda, sviluppata in forma di Singspiel, e cioè comprensiva anche di dialoghi parlati, è stata giudicata spesso faticosa e pasticciona: «Nient’altro che un’accozza- glia di banalità massoniche adattate al gusto barocco e per di più oscuro», scrisse impietosa Marguerite Yourcenar, mentre il compositore Richard Strauss non esitò a definire il libretto, firmato dall’impresario e cantante Emanuel Schikaneder, alquanto confuso e strampalato, riscattato solo dalla sublime partitura mozartiana. Il Flauto Magico parte dalla storia del DOMENICA 8 MAGGIO 2005 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41 GLI ALLESTIMENTI ABBADO MUTI KENTRIDGE Ha diretto di recente “Il Flauto Magico” a Reggio Emilia. Lo spettacolo, che a fine maggio sarà in Germania, è firmato da suo figlio Daniele, regista affermato, con cui il grande direttore d’orchestra ha collaborato per la prima volta nella sua carriera Dirigerà un nuovo “Flauto Magico” a Salisburgo, in apertura del festival, a fine luglio, con la regia di Graham Vick. Il cast include Simon Keenlyside, irresistibile nel ruolo di Papageno, e Michael Schade che si calerà nel nobile ruolo di Tamino L’originalissimo artista sudafricano firma la regia del “Flauto Magico” che è attualmente programmato a Bruxelles. La scena è una scatola di illusioni ottiche che accoglie e sovrappone i vari ambienti del libretto. Dirige l’orchestra René Jacobs ‘‘ Ingmar Bergman Nel “Flauto magico” arriva, come tra parentesi, un messaggio: l’amore è la cosa migliore della vita. L’amore come significato segreto del vivere COPYRIGHT TEATRO ALLA SCALA/COSTUMI: ODETTE NICOLETTI Dal libro LA LANTERNA MAGICA Repubblica Nazionale 41 08/05/2005 principe Tamino, inseguito da un serpente e salvato da tre dame civettuole, al servizio di una regina notturna e fiammeggiante, eroica e metastasiana, che all’inizio pare buona ma che si rivelerà cattiva, furente nelle arie prodigiose, di virtuosistico splendore artificiale. In scena irrompe il buon selvaggio Papageno, prodigo di battute e di lazzi, e costantemente in cerca di una Papagena con cui ha una gran desiderio di figliare: un clown fantastico, ispirato dal Kasperl del teatro popolare viennese, e imparentabile all’uccellatore Truffaldino del Re Cervo di Carlo Gozzi (sicuramente noto all’esperto capocomico Schikaneder). Non manca la consueta bella principessa delle fiabe, che qui si chiama Pamina, rapita da Sarastro, fedele al culto di Iside e Osiride, che in una metamorfosi opposta a quella della sua tremenda antagonista (la Regina della Notte) pare cattivo all’inizio e finirà per dimostrarsi buono. Innamorato di Pamina, Tamino viaggia e lotta per la salvezza dell’amata, armato di un flauto d’oro dai poteri magici. Tenace nell’affrontare le prove che lo introdurranno nella schiera degli iniziati, consentendogli le nozze con Pamina, I PERSONAGGI Sotto, i figurini di Papageno (a destra) e Papagena (a sinistra) tratti dall’allestimento del 1816 alla Scala. Nell’illustrazione a centro pagina, il costume di scena della Regina della notte realizzato per la messa in scena alla Scala diretta da Roberto De Simone il principe conquisterà il suo obiettivo dopo un succedersi convulso di azioni e discussioni, interventi di fanciulli dalle aeree voci bianche (in numero di tre, cifra massonica, la stessa delle dame dell’inizio) e apparizioni prodigiose, porte di templi che si aprono e si chiudono e vasti mondi ieratici e cerimoniali. Il finale è un trionfo che precipita i cattivi nella notte eterna, compone felicemente le due coppie (quella nobile, formata da Tamino e Pamina, e quella popolare, che unisce Papageno a Papagena), festeggia la vittoria del sole sulle tenebre. L’iniziazione, la ricerca di sapienza superiore, il senso dell’amore comune: è la chiave fondante. Al di là delle fonti spesso segnalate da cui attinsero i due autori (dalla fiaba Lulu oder Zauberflöte, Lulu ovvero Il Flauto magico, di August Jakob Liebeskind, fino al dramma Thamos, König in Ägypten, di Tobias Philipp von Gebler, già musicato da Mozart anni addietro, e al romanzo anch’esso orientaleggiante Séthos, dell’abate Terrasson), contano soprattutto, nel disegnare la trama del Flauto, le ragioni profonde dell’ade- sione di Mozart alla massoneria, parte integrante di un densissimo universo culturale che affranca il compositore dal più diffuso cliché — quello dell’artista rozzo, infantile, sporcaccione e soavemente animalesco — tramandatoci dalla letteratura romantica e, in tempi più recenti, dal brillante film di Milos Forman, Amadeus, tanto spassoso quanto inattendibile. Viaggia invece nella direzione di una sua piena consapevolezza intellettuale molta moderna musicologia, come giungerà presto a testimoniarci, con un apporto di folta documentazione originale, anche il libro Mozart massone e rivoluzionario, della musicologa Lidia Bramani, che uscirà in giugno pubblicato da Bruno Mondadori: ritratto di un musicista colto, impegnato, curioso, inserito nei circuiti di diffusione creativa e nelle cerchie dell’intellighenzia più aperta del suo tempo, oltre che immerso negli ideali progressisti degli Illuminati di Baviera, adepti di un ordine che veniva definito «comunista». Vi appartenevano tra gli altri Sonnenfels, il fondatore del Giornale dei Massoni, e il poeta Aloys Blumauer, autore di una parodia dell’Eneide, Virgils Aeneis travestiert, che fu messa all’indice in Austria, e che conteneva una dura denuncia della politica ecclesiastica, con corollario di dileggio del bigottismo e di sparate sull’Inquisizione. Il Flauto s’alimenta di nessi molto saldi con questo filone della massoneria settecentesca: una sorta di fede non ortodossa, piena di influssi pagani e attinti dalle religioni orientali, che vive in sintonia coi presupposti ideali delle rivoluzioni americana e francese. Accanto a questo pensiero massonico critico, illuministico e giacobino, emerge, dall’opera, un altro aspetto legato alla massoneria, più pedagogico, edificante e costruttivo (Mozart sa moralizzare senza mai imporci delle prediche), che ci conduce a guardare l’itinerario del Flauto come un percorso, psicoanalitico ante-litteram, di costruzione strutturata del sé. Ma a rendere l’opera nostra contemporanea non c’è soltanto tutto questo. Segna la sua singolare e preveggente fisionomia anche l’elemento alchemico ed esoterico, molto diffuso al tempo di Mozart, con la sua lettura simbolica della natura e dell’uomo e la ricerca della pietra filosofale attraverso la nascita, più che mai anticipatrice, dell’uomo artificiale (in provetta!), e col suo opporsi alla scissione tra materia e spirito, percezione soggettiva e realtà oggettiva. Tutte prospettive rifiorite nel Novecento con il movimento New Age, il moltiplicarsi delle medicine alternative, le varie scuole di meditazione e teosofiche. In realtà c’è ancora molto di più: il Flauto mozartiano è un pozzo senza fondo. Però un cuore del discorso forse lo si rintraccia. Come scrisse Sergio Sablich, limpido narratore di cose musicali, le prove del fuoco e dell’acqua, affrontate da Tamino, sono l’affermazione di una legge universale, trascendente, che riguarda l’umanità tutta: il compimento dell’amore nel mondo degli uomini. Non è soltanto l’ideale massonico nella sua più alta accezione settecentesca, ovvero quella sposata dal saggio e birichino Mozart: lo spirito della solidarietà e della fratellanza rappresentato da Sarastro e dalla casta dei sacerdoti. Ma è anche, e forse soprattutto, qualcosa che si realizza nella coppia unita nell’amore. A confermarlo c’è il momento in cui Tamino e Pamina si riconoscono, al primo sguardo. Come Romeo e Giulietta: all’improvviso e per sempre. A Mozart basta una cadenza per dire che il riconoscimento è totale, e che il teatro può inventare la felicità. Lo storico della musica Rosen “Un capolavoro dell’illuminismo” «A l di là delle sue apparenze di opera comica, il Flauto Magico è l’opera più morale e politica di Mozart, che era uomo intelligente e ambizioso, portatore di una visione del mondo condizionata dal pensiero massonico e violentemente anti-cattolica. Quando parlo di politica in Mozart, penso soprattutto alla sua visione ecumenica dell’amore e della fratellanza, a partire dalla costruzione della coppia: uomo e donna, maschile e femminile, congiunti da un legame che è donazione, scambio e generazione. Mozart appartiene all’illuminismo austriaco, dove a una prospettiva dogmatica della religione si contrapponeva una concezione religiosa appunto di tipo ecumenico, orientata verso la fusione con l’armonia della natura e l’accettazione di pulsioni naturali». Giudica così l’identità del Flauto lo storico della musica Charles Rosen, che ha scritto uno dei massimi testi di riferimento sul classicismo: The Classical Style — Haydn, Mozart, Beethoven. Compositore e pianista, interessato anche alla matematica, alla filosofia e alla letteratura, l’americano Rosen è autore di saggi densi e multitradotti. L’amore che lo lega a Mozart e al Flauto Magico affiora prepotentemente dal suo vasto volume sul classicismo. Ed è proprio in nome di quell’amore, racconta, che egli evita ormai come la peste qualsiasi realizzazione teatrale del capolavoro mozartiano: «Odio i registi odierni, che pensano solo a sovrapporre le loro idee personali alle partiture. Solitamente le messe in scena operistiche del nostro tempo sono ridicole, gratuite e non hanno niente a che vedere con la musica». Dal suo studio di New York, il musicologo espone allegramente la sua prospettiva originale sul Flauto Magico, «considerata — dice — la più viennese delle opere viennesi, in contrapposizione alla trilogia delle opere italiane di Mozart, quelle su libretto di Da Ponte: Le Nozze di Figaro, Don Giovanni e Così fan tutte. Secondo me invece, proprio nel Flauto è fortissimo l’influsso italiano. Il modello e l’ispirazione della sua forma giungono dalle opere del veneziano Carlo Gozzi, che influenzò lo stile delle commedie magiche viennesi. Popolare in Germania nell’ultimo venticinquennio del Settecento, Gozzi costruì un’alternativa di successo alla commedia razionale e borghese del suo nemico Goldoni, molto segnato dalla tradizione francese». Quando Gozzi, riferisce ancora Rosen, nelle sue memorie si avventura nella descrizione delle proprie «fiabe drammatiche», secondo la denominazione che dava ai suoi lavori, «sembra che parli del Flauto Magico. Le caratteristiche sono le stesse: maestosità, senso del mistero, sorprese, eloquenza, sentimenti di filosofia morale, nutriente capacità critica, dialoghi che sgorghino dal cuore e una magia ammaliante, capace di condurre lo spirito e la mente degli spettatori alla convinzione della verità dell’impossibile». Fondato su una combinazione di avventure fiabesche e di tradizione farsesca derivata dalla Commedia dell’Arte, quello di Gozzi, prosegue Rosen, «era un teatro che concedeva ampio spazio all’improvvisazione. L’azione del Flauto Magico ne dimostra l’influsso non solo nella farsa popolaresca di Papageno, ruolo in gran parte improvvisato dall’impresario e librettista Schikaneder, che lo interpretò nelle prime rappresentazioni viennesi dell’opera, ma anche nell’illusionismo fiabesco e nella spettacolarizzazione dei rituali religiosi». Quanto alle forme musicali, mille sono gli spunti di novità, si entusiasma Rosen. Tanto per fare un esempio: «Nel ruolo di Sarastro e nel coro dei sacerdoti, Mozart introduce una forma di inno classico che si sarebbe rivelata di estrema importanza negli sviluppi della musica di Beethoven. Inoltre il Flauto, come corollario dell’inno, introduce una concezione della musica come veicolo di essenziali verità morali: qui, più che mai, il raggio d’azione espressivo della musica appare ampliato in direzione intellettuale». Ma il tema centrale, il più importante e forse anche il più moderno del Flauto, insiste Rosen, è una moralità fondata sull’amore universale e sulla più serena fiducia nei sentimenti della vita: «È l’amore, sembra suggerirci Mozart attraverso la sua musica ricchissima, proprio l’amore umano, terreno e anche sensuale, la forza che conduce a una più alta consapevolezza dell’esistenza. Non è l’amore del potere, ma è il potere dell’amore, ispirato dalla fedeltà e dalla coesione della coppia, a dettare il finale dell’opera». (l. b.) Repubblica Nazionale 42 08/05/2005 DOMENICA 8 MAGGIO 2005 Miti del jazz GIACOMO PELLICCIOTTI on è solo l’ultimo divo del pianoforte, ma anche un uomo sofferto, che ha scelto una vita ascetica e solitaria, scandita da regole ferree, per custodire il suo bene più prezioso. È l’ispirazione musicale che Keith Jarrett, principe dell’improvvisazione, va regalando con generosa prodigalità in giro per il mondo da 40 anni. Oggi festeggia il sessantesimo compleanno, sfoggiando con orgoglio il dono più luminoso che si è potuto fare: un nuovo doppio album di pianosolo, Radiance, improvvisato «da zero a zero», come dice lui. Per Jarrett è la ciclopica rivincita, catturata nell’ottobre 2002 dai concerti giapponesi di Osaka e Tokyo. Una rinnovata voglia di creare quando, prostrato dalla malattia (sindrome da fatica cronica), credeva di non poter più sopportare lo sforzo supremo del “solo-concert”. E invece a luglio l’imprevedibile Keith ritorna in tour con Gary Peacock e Jack DeJohnette: il 9 a Macerata, il 12 a Napoli e il 15 a Roma. E a settembre il suo secondo figlio lo fa diventare nonno. Happy birthday, Keith. Come reagisce al passare del tempo, ne ha paura o ha trovato un antidoto per resistere? «Al momento non ho nessun timore, perché sono così felice del mio nuovo album. Comunque non ho l’impressione di essere vecchio, almeno fino a che posso fare il mio lavoro. Quando comincerò a suonare male, allora sì che avrò paura della mia età». Specie dopo la malattia, lei dedica molta attenzione alla cura del corpo. Che tipo di disciplina segue? «È come prepararsi alle Olimpiadi. Devo spingere il mio intero corpo, mente compresa ovviamente. Seguo per la parte superiore una speciale terapia che sviluppa il metabolismo e la capacità di resistenza. E ogni giorno, ogni singolo giorno senza eccezione, devo esercitarmi al piano. È molto diverso dal passato, quando pensavo di non averne bisogno. Continuo anche a prendere molte vitamine e medicine per il mio male. E mangio normalmente, evitando alcool, derivati del latte, zucchero e carne rossa, una dieta che seguo ormai da anni». Oltre alle ore per lo studio e la pratica del piano, come usa il tempo libero? Ha Repubblica Nazionale 43 08/05/2005 N IL DISCO L’ultima fatica di Keith Jarrett si chiama “Radiance”. Si tratta di un doppio cd di improvvisazioni per piano-solo registrato dal vivo durante i concerti di Tokyo e Osaka nel 2002. All’uscita seguirà un tour. Le date italiane: il 9 a Macerata, il 12 a Napoli e il 15 a Roma IL DVD In autunno la Ecm, pubblicherà un Dvd, intitolato “The Art of Improvisation”, con materiale inedito relativo anche ai concerti degli anni Sessanta quando Jarrett militava nella band di Miles Davis o quando guidava il suo quartetto europeo con Jan Garbarek Keith Jarrett.La vita ascetica mi ridà la gioia di suonare FOTO JACQUES MUNCH/AFP spettacoli LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43 una vita sociale? «Sono per lo più un essere solitario. Ho pochi amici fuori dall’ambiente della musica, che incontro quando sono in tour. A casa non li vedo, vivo molto solo». E non pensa di cambiare? «Non sono sicuro di poterlo fare, è una questione di età. Da giovane era diverso, ora credo di aver bisogno dei miei spazi. Perché se voglio restare ancora a lungo nel mondo della musica, ci vuole ancora più concentrazione. E se invitassi i Il pianista compie sessant’anni. E torna sulla scena, dopo la malattia, con un disco e una tournée miei amici a casa, finirei col guardare l’orologio in attesa che se ne vadano, per tornare ad esercitarmi al piano». Il piano-solo è un modo molto impegnativo di creare musica ogni volta dal nulla. Una pratica talmente stressante, che lei sospetta all’origine del suo male. Come si è preparato al ritorno ai concerti? «Ho provato più volte nel mio studio, continuando a ripetermi: no, ferma, non è quello che sento adesso, è solo un’abitudine riproporre suoni vecchi, cose che conosco già. Ho cercato perciò di pulire la mente, eliminando i miei suoni favoriti, i climi prediletti. Nessuna indulgenza. Ma ci ho lavorato su per mesi a casa, non è stato facile, ci vuole molta disciplina. È qualcosa di nuovo: non suonare quello che ti piace, ma quello che le mani ti spingono a fare. Non dev’essere sempre il cervello, ma anche il corpo a fare musica. Nel jazz è la mano sinistra a disegnare gli accordi, le linee di basso. È una convenzione che ho voluto cambiare. Quando mi ascoltavo a casa, la mia sinistra suonava cose incredibili che non le avevo chiesto. E allora l’ho lasciata libera, ho lasciato il mio corpo libero di prendere decisioni al posto della mente. Che effetto le ha fatto rivedersi 35 anni dopo sul palco dell’Isola di Wight, nel dvd di Miles Davis? «Grande. Di solito dico no ai commenti su episodi del passato, ma Miles suonò così bene quella sera che non ho potuto non accettare di essere intervistato. Ma c’è un altro suo inedito travolgente, che la Sony pubblicherà l’inverno prossimo. Oltre alla session già uscita su Live-evil, suonammo con la stessa band, ma senza John McLaughlin, al Cellar Door di Washington: Miles, Airto, Jack DeJohnette, Gary Bartz, Mike Henderson ed io. Quattro cd completamente inediti, molto, molto buoni». Non è strano che i suoi paesi preferiti siano l’Italia e il Giappone? I giapponesi così precisi e massificati, mentre gli italiani sono anarcoidi e individualisti. «Sono come un pranzo di due diverse portate. In Giappone suono sempre al chiuso con un pubblico molto paziente e quieto, mentre in Italia suono soprattutto all’aperto davanti a un’audience attenta ed emozionale. È una buona combinazione». Il suo bestseller The Koln Concert risale al 1975. Non si sente ossessionato dal confronto con quell’antico capolavoro? «No, anzi decido ora che Radiance sarà l’antidoto al Koln Concert». Lei non è un americano facile. Che cosa ama e cosa odia del suo paese? «Odio la naïveté e la amo. Posso dire che l’America è il miglior paese del mondo per essere liberi di esprimere le proprie idee. Ma purtroppo la gente qui non è troppo intelligente». 44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8 MAGGIO 2005 i sapori Cinque anni fa nascevano i Presìdi con l’intento di tutelare prodotti alimentari della nostra tradizione in pericolo. Venerdì in Sicilia i responsabili di quei progetti tirano le somme di un successo clamoroso Qualità vincente Liguria CASTAGNA ESSICCATA NEI TECCI Secondo tradizione, in alta Val Bormida l'essiccatura delle castagne avviene nei cosiddetti tecci, piccole costruzioni di pietra con tetti di scandole (piccole assi). Un broker milanese, Federico Santamaria, scelto Calizzano come buen retiro, ha promosso il recupero di castagneti ed essiccatoi. Oltre all'affumicatura, con i frutti disposti a strati (e ruotati, per rendere il processo omogeneo , sui soffitti a graticcio per due mesi), le castagne Gabbine vengono lavorate per produrre confetture e sciroppi Toscana AGNELLO DI ZERI Nel cuore della Lunigiana, una ragazza, Cinzia Angiolini, ha ripristinato l’allevamento della pecora zerasca, lasciata al pascolo (sopra gli 800 metri) e ritirata solo in inverno. Il latte — il più ricco di proteine di tutte le razze ovine presenti in Italia — è destinato alla produzione di un eccellente pecorino e all’alimentazione degli agnelli. Grazie alle caratteristiche della carne, profumata, morbida, la produzione è assorbita quasi esclusivamente da ristoratori di qualità SlowFood La miniera dei cibi perduti l’Italia ritrova 200 gioielli LICIA GRANELLO aglia il melone! Gridò mia madre. Incisi la forte scorza e il coltello subito affondò. Mia madre intanto aveva portato vino e bicchieri. E il vino era povera cosa, ma il popone era aperto in mezzo alla tavola e bevemmo profumo invernale di popone». Elio Vittorini racconta così, nel suo Conversazione in Sicilia il rapporto quasi carnale tra i commensali e il frutto golosamente offerto. Il melone d’inverno è uno dei 200 Presìdi Slow Food che venerdì 13 maggio sfileranno a Patti, in Sicilia, nella prima edizione degli Stati Generali. Come per gli altri 199 (a cui vanno aggiunti una settantina di esteri), si tratta di un prodotto pressoché scomparso, ingoiato da importazioni più o meno esotiche e quasi mai all’altezza, da speculazioni spietate, da rassegnazione mista a oblio. Cinque anni dopo la messa in opera e dieci dopo la prima teorizzazione, forti di uno studio della Bocconi che ne ha decretato il successo a suon di numeri e verifiche sociologiche, i 400 responsabili dei Presìdi si confronteranno davanti al loro mentore e pigmalione Carlo Petrini. Che racconta: «Nel 1996, con la metafora dell’Arca abbiamo delineato geografia e contenuti di un patrimonio in erosione. Ma si trattava di una denuncia senza ricadute pratiche. Da qui, l’esigenza di intervenire in maniera mirata: obbiettivo, non farli scomparire dalla faccia della terra. E siccome le parole sono pietre, abbiamo battezzato il progetto con un termine difensivo come Presidio». Chiunque abbia assaggiato il melone di Vittorini, il provolone del monaco, la fagiolina del lago Trasimeno, la focaccia classica di Genova, sa di che cosa si tratta: piccoli tesori, frutto di una sapienza antica e di una microeconomia fragile, così indeboliti e così a rischio da non essere in grado di alzare la voce. Le cifre dicono che dove sono arrivati i Presìdi, i cambiamenti sono stati incredibili: tessuti sociali ricostituiti, tradizioni recuperate, fatturati incrementati con percentuali addirittura imbaraz- Repubblica Nazionale 44 08/05/2005 «T Formaggi, verdure, salumi dimenticati sono tornati ad essere apprezzati per il loro gusto zanti. Vero è che si partiva da situazioni al limite della disperazione: quattro forme di formaggio Montebore, poche centinaia di vacche modicane sarde, radi filari di Nosiola trentina. Alle spalle, una storia radicata e benevola, davanti un futuro impossibile. Per effetto opposto, dopo l’attivazione del programma di aiuti, alcune produzioni sono andate così oltre il salvataggio da squilibrare il rapporto domanda-offerta. Errori e limiti fisiologici di un esperimento rivoluzionario. In compenso, Slow Food è stato catapultato nell’empireo delle associazioni di statura mondiale. «Se abbiamo avuto un merito, è stato mirare i progetti alle diverse merceologie: in alcuni casi migliorare il valore aggiunto, in altri preservare le modalità, in altri ancora promuovere la conoscenza, giù giù fino agli interventi strutturali (campi da comprare, stalle da riattare), utilizzando le risorse arrivate da semplici cittadini, aziende, istituzioni. Ci siamo riusciti toccando corde molto sentite nel nostro paese: identità, me- moria, e una cultura alimentare da difendere fino all’ultima coltivazione di radicchio». Ben lo sanno i dirigenti della Lufthansa, che hanno chiesto a Slow Food di proporre una selezione di Presìdi sui voli AirDolomiti: l’accordo, annunciato proprio qualche giorno fa, prevede che i pasti serviti a bordo siano una sorta di vetrina per le produzioni sotto tutela, scelte in armonia con i diversi eventi che l’associazione organizza in Italia. Se questa golosa levata di scudi era facilmente pronosticabile da Alessandria a Ustica, molto meno scontata era lo spostamento del modello fuori dai nostri confini. E invece, le 1.300 comunità arrivate da 130 nazioni all’appuntamento di Terra Madre a Torino, sei mesi fa, hanno dato un seguito tale all’evento che la Rete, fatta di condivisione di conoscenze, trasmissione di saperi, confronto di metodologie e risultati, sta costringendo Petrini a un tour de force planetario, dalla comunità tibetana che lavora il latte di yak alle produttrici marocchine di olio d’argan. Obbiettivo, conoscere e accedere in maniera collegata e trasversale alle nuove tecnologie, capaci di supportare la «globalizzazione virtuosa». Guai a definirla un’utopia, anche se la strada è lunghissima. Se le parole sono pietre, la prima da scagliar via è “consumatore”. Consumare è un errore che non ci possiamo più permettere, dicono a Slow Food: meglio chiamarci coproduttori, diventando parte attiva nel determinare le produzioni di qualità. Del resto, «mangiare è il primo atto agricolo — sostiene il poeta-contadino americano Wendel Berry — e l’autoresponsabilizzazione è un processo che può muovere le montagne». Senza aver paura di spendere qualche euro in più (la spesa per il cibo negli ultimi trent’anni è scesa dal 32 al 17%). Perché sotto certi prezzi, i risultati sono mucca pazza, l’ingiustizia sociale, l’ambiente devastato da pesticidi e inquinanti, la salute dimenticata. «Meno gioielli e più cipolle di Tropea», ride amaro Petrini. Chi ancora dubita, passi dalle parti di Patti, il prossimo fine settimana: scoprirà che una forma di Maiorchino e un pane di Castelvetrano sono quasi meglio di un collier. Veneto CARCIOFO VIOLETTO DI SANT’ERASMO Pensare a Venezia come a un orto è insolito e affascinante. La cultura del carciofo in laguna è stata introdotta dalla comunità ebraica, avendo un’intera isola dedicata alla coltivazione di ortaggi, a cominciare proprio dagli articiochi, il cui primo germoglio, la castraura, è alla base di alcune ricette-culto della cucina veneziana. Il terreno salino, l’aria ventosa, la concimatura con conchiglie e gusci di granchio, rendono particolare il sapore LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45 200 Il numero dei Presìdi Slow Food in Italia 1999 È l’anno di nascita dei Presìdi italiani 1.480 Tante le aziende coinvolte nel progetto di valorizzazione 4.000 È il numero degli addetti ai lavori nei Presìdi 93% Repubblica Nazionale 45 08/05/2005 L’incremento medio di prezzo dei cibi dei Presìdi ILLUSTRAZIONE DI FRANCO MATTICCHIO "L'ITALIA A TAVOLA" PER GENTILE CONCESSIONE DELLA GALLERIA DELL'INCISIONE BRESCIA DOMENICA 8 MAGGIO 2005 Cinque Terre Appennino romagnolo Acciughe di Monterosso e Sciacchetrà sono i simboli di una terra ruvida e bellissima, dove nulla riesce facile. Quattro pescatori e altrettanti viticultori proseguono la tradizione delle due produzioni, tra il bel mare spezzino e i terrazzamenti dell’entroterra L’entroterra della riviera è un alternarsi di pascoli e boschi, coltivazioni di foraggio e frutteti. Sotto osservazione le piante di pera cocomerina, dalla polpa rossa, dolce, profumata, e la produzione di raviggiolo, formaggio a latte crudo, da consumare freschissimo DOVE DORMIRE DOVE DORMIRE IL VIGNETO Via Pasubio 6 Volastra (Riomaggiore) Tel. 0187-762053 Camera doppia da 75 euro LOCANDA AL GAMBERO ROSSO Via Giuseppe Verdi 5 San Piero in Bagno Tel. 0543-903405 Doppia da 50 euro, con colazione DOVE MANGIARE DOVE MANGIARE TRATTORIA GIANNI FRANZI (con camere) Piazza Matteotti 5 - Vernazza Tel. 0187-821003 Chiuso il mercoledì, menù da 25 euro OSTERIA DEI FRATI (con camere) Via Comandini 149 - Roncofreddo Tel. 0541-949649. Chiuso lunedì e martedì, menù da 30 euro DOVE COMPRARE DOVE COMPRARE NON SOLO VINO Via Colombo 180 - Riomaggiore Tel. 0187-760558 MACELLERIA CAMILLINI Piazza Santa Maria 5 - Bagno di Romagna - Tel. 0543-911219 Gargano Madonie Grano e olio, vino e mozzarelle: la miscellanea di mare, sole e terra fertile firma tutto l’agroalimentare del promontorio, in provincia di Foggia. I presìdi proteggono le produzioni di agrumi, caciocavallo e delle vacche podoliche allevate allo stato brado Un’area scoscesa e boschiva a ridosso del mare: ovvero quanto di meglio per favorire e preservare la biodiversità. Un esempio su tutti, quello della manna, la resina biancastra dei frassini, dolcificante e leggermente lassativa. Protezione anche per la provola a latte crudo DOVE DORMIRE DOVE DORMIRE LA CHIUSA DELLE MORE Valle dello Schiaffo/SS.89 Peschici Tel. 347-0577272 Camera doppia da 35 euro, colazione inclusa AZIENDA AGRITURISTICA BERGI SS. 286 per Geraci Siculo Castelbuono Tel. 0921-672045 Doppia da 70 euro, con colazione DOVE MANGIARE DOVE MANGIARE AL TRABUCCO Località Monte Pucci Peschici Tel. 0339-3810142 Sempre aperto da aprile a ottobre, menù da 25 euro NANGALARRUNI Via Alberghi 5 Castelbuono Tel. 0921-671428 Chiuso mercoledì, menù da 30 euro DOVE COMPRARE DOVE COMPRARE ENOTECA VESTE Via Duomo 14 Vieste Tel. 0884-70641 TUDIA – ANTICHE RICETTE MADONITE Contrada Tudia - Petralia Sottana Tel. 0934-676054 Sicilia MELONE D’INVERNO La cooperativa Placido Rizzotto, impegnata nella coltivazione delle terre confiscate alla mafia, all’interno del progetto Libera Terra di Don Ciotti, esibisce tra i suoi fiori all’occhiello la ripresa della coltivazione di una vecchia varietà di meloni, i Purceddi d’Alcamo, dalla buccia rugosa e verde, capaci di conservarsi a lungo, tanto da migliorare in bontà e dolcezza fino a oltre Natale, malgrado la raccolta cominci a giugno. Tra Palermo e Trapani, sono sotto tutela anche i meloni Cartucciani di Paceco Abruzzo LENTICCHIA DI S. STEFANO DI SESSANIO Nel parco del Gran Sasso, l’intero paese di Sessanio lavora al recupero di questa minuscola tipologia di legume, dalla buccia tenerissima e molto saporita, coltivata in zona da oltre mille anni Crescendo su alture che vanno dai 1.000 ai 1.600 metri, la maturazione avviene in tempi diversi e la raccolta è manuale. Uno sforzo vanificato dall’esistenza sul mercato di finte lenticchie di Santo Stefano, di qualità inferiore Molise SIGNORA DI CONCA CASALE È un salame buonissimo e prezioso (da cui il nome), tradizionalmente confezionato dalle donne di questa micro comunità (400 abitanti) sopra Venafro e utilizzato come regalo “in natura” ai notabili del paese nelle occasioni importanti. Carla Rambaldi ha deciso di avviare un’attività di norcineria, ripartendo da lì. Sono state le anziane a insegnarle la ricetta,dall’allevamento biologico dei suini alla lavorazione, interamente manuale 46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8 MAGGIO 2005 le tendenze Impronte di donna Corda, sughero, cuoio, fibbie, plastica, tessuto multicolore: tornano gli zatteroni, scarpe cult del dopoguerra “rimodernate” negli anni Settanta e oggi riproposte in versioni hi-tech con materiali diversi. Mille i modelli per ragazze di vecchie e nuove generazioni che affronteranno la stagione con qualche centimetro in più sotto i piedi LAURA ASNAGHI n’estate sulle zeppe. La moda è ciclica, ha dei tormentoni che riemergono magari dopo anni e fanno boom. Stavolta tocca alle scarpe con il doppio fondo, che già adesso spopolano in tutte le vetrine. Girare nei centri città per credere. Ma le zeppe sono scarpe particolari. Fanno discutere e, da sempre, dividono il pubblico, maschile e femminile, su due fronti. Favorevoli o contrari. C’è chi, guardandole, inorridisce e le considera il massimo della volgarità e chi, all’opposto, ne va pazzo e le esalta come «piccoli capolavori fetish». Ma non c’è da stupirsi. Le zeppe, da sempre, sono amate o avversate. Sarà perché portano in eredità, una connotazione trasgressiva e peccaminosa? Tutta colpa (o forse merito) del fatto che, tra la fine del 1400 e la metà del 1600, su questi trampoli (alti anche 50 centimetri) calzati con l’aiuto della servitù, si esibivano sia integerrime signore preoccupate di proteggersi dal fango delle strade, che donne di piacere che volevano, invece, mettersi in bella mostra, emergere sulle altre dame e calamitare così l’attenzione dei maschi conquistatori e, magari, paganti. Ma oggi è un’altra storia, con qualche centimetro in più sotto le suole le ragazze hanno imparato perfino a ballare. Potenza della moda che va e ritorna? Donatella Versace non crede alla fugacità stagionale delle zeppe: «Io le ho sempre usate perché sono sexy e glamour. E in più regalano alle donne l’altezza, senza sottoporsi alla schiavitù di un tacco a spillo, bello ma spesso sfiancante. Ecco perché mi auguro che questa estate molte signore possano scoprire il piacere di stare sulle zeppe». Un piacere diverso da quello provato da mamme e nonne negli anni duri e grami della seconda guerra mondiale, quando Salvatore Ferragamo nobilitò le zeppe «per cause di forza maggiore». Negli anni Quaranta, infatti, con l’acciaio che veniva destinato a scopi bellici, riuscire a fare scarpe con tacchi resistenti era impossibile. E così, «il calzolaio dei sogni», l’uomo che, per primo, ha prodotto scarpe per le dive di Hollywood, reinventò la zeppa: con sughero sardo, materiale autarchico, come imponeva il regime. Ferragamo fece di necessità virtù e trasformò gli zatteroni in oggetti del desiderio, belli e colorati, capaci di esaltare la bellezza femminile. Ma chi ha dato la spettacolarizzazione massima alle zeppe sono state alcune rock star, note per la loro stravaganza e originalità. Negli anni Settanta, Elton John si conquistava in un sol colpo dai 20 ai 30 centimetri in più di altezza, con scarpe “sopraelevate” e decorate con perline e strass. Stessa mania per David Bowie che, pur essendo altissimo, andava pazzo per le zeppe “glitterate” e adottate, in discoteca, dai suoi fan. Modelli stravaganti che Roberto Cavalli ricorda bene. «È un tuffo negli anni Settanta. Quando ero giovane le ragazze portavano gonnellone fiorite e sandali alti, come sospesi su zattere. Queste scarpe hanno un pregio enorme. Quello di allungare magicamente le gambe delle donne sfidando ad ogni passo la legge dell’equilibrio. Sono belle e racchiudono in sé tante cose: la gioventù, l’energia, la libertà e la voglia di divertirsi». E il tormentone continua. Sempre presenti nelle collezioni di stilisti amanti della provocazione come Jean Paul Gaultier, John Galliano, Alexander McQueen, Vivienne Westwood e Fiorucci, gli “zatteroni” ora rinascono, grazie alle griffe del made in Italy, in versione lusso, ironica o più semplicemente pratica. Il tutto per una estate (ma non è escluso un prolungamento invernale), in cui le donne dovranno imparare a camminare agilmente sui trampoli, per evitare dolorose ma modaiole slogature. Repubblica Nazionale 46 08/05/2005 U 2 1 3 1. Il sexy-glamour della linea “flora” di Gucci, la scarpa di culto per l’estate 2. Tacco grosso tessuto rigato e fibbia quadrata per il sandalo Paciotti 3. Leggera e confortevole, ecco la Campermarinera - 4. È degli anni Quaranta il capolavoro di Salvatore Ferragamo, il “calzolaio delle stelle” 5. Zeppa Dior in sughero e pelle pregiata 6. Versione espadrillas, con fiore, per Sisley 4 5 6 Zeppe Quest’estate tutte sui trampoli 9 8 10 7 7. Pois in bianco e nero per il sandalo “pin up” di Fiorucci - 8. Oro e logo in vista, da Versace la zeppa è da vera star hollywoodiana - 9. Una farfalla e lacci sottili intorno alla caviglia. Da Emporio Armani il sandalo mantiene una impronta chic - 10. Verde e viola, un perfetto mix di colori per Etro DOMENICA 8 MAGGIO 2005 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47 Così cambia il portamento femminile Sollevate da terra come eleganti Masai CARLA SOZZANI Repubblica Nazionale 47 08/05/2005 IMMAGINI FASHION Sandalo multicolore in satin di cotone, tacco 8 centimetri (R.Vivier 1971). La foto è stata tratta dal libro “Elle style” di Francois Baudot-Jean Demachy (Edizioni Filipacchi) È una delle immagini fashion degli anni Settanta C’è chi ne ha tante paia e non ne può fare a meno e chi inorridisce soltanto a guardarle Ecco la moda che divide i clienti davanti alle vetrine dei negozi 12 13 e scarpe con la zeppa sono una tradizione orientale mai abbandonata nelle abitudini familiari e quotidiane; tradizione che attraversa anni, ceti sociali, valori culturali, attitudini ed educazione, rapporti tra i sessi, codici e modalità di comunicazione. Le scarpe con zeppa (è interessante ricordare che in termini retorici il principio della zeppa si definisce ad iectio = aggiunta), che sottolineano l’elegante incedere delle ieratiche icone femminili in kimono durante le cerimonie religiose e di corte, ma anche nei ritrovi contraddistinti dalle lanterne rosse, sono prepotentemente ricomparse nelle vetrine di tutto il mondo. Ad Hanoi, Vietnam: le più incredibili, vertiginose e sicuramente inaspettate. Anche nella Venezia del 1600 si era vissuto il frivolo tripudio delle famose chopine ai piedi delle nobildonne, delle intellettuali e delle cortigiane. Dopodiché, nel mondo occidentale, delle calzature con la zeppa si perdono le tracce: scomparse, per secoli addirittura, fino alla fine degli anni ‘30, quando Salvatore Ferragamo e André Perugia creano e realizzano le più fantasiose ed avventurose scarpe con zeppe di tutti i tempi. Le zeppe si decorano, si disegnano, per prendere e proporre forme nuove, inedite. Così il costume e la moda della calzatura voltano pagina. Ferragamo e Perugia, con David Evins e Beth Levine, preparano gusto e mercato alla rivoluzione della moda degli anni ‘70 quando la “platform” viene compresa e omologata tra i simboli di libertà di scelta antiborghese per donne (e uomini). Ne faranno il loro emblema Fiorucci e Biba. Manolo Blahnik (non ancora famoso per il suo stiletto heels) ne crea una esclusiva per Paloma Picasso: un serpente stringe la caviglia. Così l’autorevole eleganza riconosciuta alla zeppa, assume riferimenti sensuali. Legittimata e consacrata da Vivienne Westwood e Azzedine Alaïa, nelle loro sfilate, come simbolo sexy negli anni ‘80. Oggi la zeppa vive un’ulteriore evoluzione verso la solidità dell’immagine accettata. Si è adeguata ai ritmi globali, fino a toccare i margini di utilità nel dinamismo delle attività del tempo libero, dello sport e della salute. E così la vera ultima grande novità di moda è la zeppa più nuova e meno ortodossa di tutti i tempi. La zeppa del 2000 è la MBT (Masai Barefoot Technology): inventata da Karl Muller (ingegnere) e ispirata dalla postura eretta dei mitici Masai, alti, eleganti e dritti, dà la piacevole impressione di camminare a piedi nudi sulla sabbia. La nuova zeppa, affascinante nella sua semplicità, allunga la figura, fa camminare sui talloni, obbliga naturalmente ad un’andatura dondolante, rialza i glutei, rende la postura corretta, favorisce e sollecita l’elasticità muscolare. Vero e proprio strumento sorprendente di allenamento. Per le strade di Londra le modelle e non, sedotte dalle MBT, si riconoscono da lontano; non camminano, sembrano sollevate da terra, leggerissime, quasi danzanti, vera e propria avanguardia di una femminilità sempre più gioiosa, ammirevole e salvifica. L 14 11 11. Logomania per le zeppe di Guess - 12. L’azzurro dei Caraibi per Geox- 13. Sandali da gran sera firmati Dolce e Gabbana con strass e paillettes - 14. Fascia rossa per Louis Vuitton - 15. I decori di Christian Lacroix 15 48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8 MAGGIO 2005 l’incontro Caratteri opposti Ha iniziato “da giovane e sconsiderato” ridendo in faccia al regista e facendosi cacciare dal set di uno dei film più sfortunati di Hollywood: “I cancelli del cielo”. Poteva essere la fine immediata della sua carriera, invece il cinema americano ha trovato in lui uno degli attori più versatili: il diabolico carnefice capace di trasformarsi nella vittima più innocente. Tanto da arrivare ad interpretare Gesù con Martin Scorsese Willem Dafoe a cominciato la sua carriera di attore in un capolavoro sfortunato, e la sua prima apparizione sullo schermo venne bloccata sul nascere da una risata lunga e irrefrenabile. Non si trattava neanche di un vero e proprio ruolo, e la sceneggiatura non prevedeva per lui alcuna battuta, ma Willem Dafoe era entusiasta di lavorare con il regista del Cacciatore in un western che avrebbe raccontato uno degli episodi più drammatici e inquietanti della storia americana. Il perfezionismo estenuante di Michael Cimino e le lentezze infinite sul set dei Cancelli del Cielo avevano sfiancato tutti i componenti della troupe, e in una notte di ripetizioni e cambiamenti impercettibili Dafoe sfogò la propria stanchezza con uno scoppio di risate, che dapprima sconcertò il regista, e quindi lo mandò su tutte le furie. Cimino lo aveva fortissimamente voluto per il suo volto da angelo caduto, e si era reso immediatamente conto di un talento che meritava ben più di una comparsata, però quella risata offendeva non soltanto il suo orgoglio ma il film che stava tentando di completare contro l’intera Hollywood, e con il quale avrebbe voluto ridefinire il genere western. Dafoe venne cacciato dal set tra le urla, ed oggi, a venticinque anni di distanza, ricorda ancora quell’episodio con un misto di imbarazzo e ironia: «Non posso dire che mi sia comportato con grande professionismo, ma ero giovane, inesperto e un po’ sconsiderato. Su quel set si respirava un’aria che non ho mai più visto: un misto di tensione e sacralità, di perfezionismo e ossessione, e Cimino era l’unico a sapere cosa volesse, ma si guardava bene dal parlarne con gli altri». Chi pensa che questa ricostruzione sia solo un alibi deve ricordare che stiamo malriposte ambizioni artistiche. «Mi resi conto che non si trattava di un qualunque film di genere quando lessi il modo in cui era presentato il mio personaggio, chiamato Rick Master — racconta come se dovesse ancora studiare il ruolo —. In una delle scene iniziali incendio un quadro subito dopo averlo completato. Viene spontaneo da chiedersi: Rick è consapevole di non avere talento? O c’è qualcosa di perfino più profondo e inquietante: è consapevole della fallacia del talento? Si tratta di un personaggio complesso, che nasconde una voragine di tormento dietro la sua spietatezza e la sua perversione». Con quel film Dafoe rubò la scena al protagonista William Petersen ma il grande successo, e la prima candidatura all’oscar, arrivarono l’anno successivo quando Oliver Stone ebbe l’intuizione di scritturarlo finalmente against type in Platoon. Furono in molti ad obiettare che era impensabile prendere un attore con un volto così diabolico per un personaggio assolutamente positivo come il sergente Elias, ma Stone Da Oliver Stone a David Lynch: sono fortunato, ho lavorato con registi bravissimi, capaci, ognuno con il suo stile, di metterti nella situazione migliore per tirar fuori il massimo FOTO K.B./GAMMA H NEW YORK parlando di un film che causò il fallimento di una major gloriosa come la United Artists, e che sul set il regista invitò le attrici che interpretavano il ruolo di prostitute ad esercitarsi realmente nel mestiere più antico del mondo. Oggi Dafoe ha la serenità sufficiente per sorriderne, ma quell’avvio traumatico ha pesato non poco su una prima parte di carriera in cui veniva scritturato perennemente per ruoli da “villain”, meglio se sadico e senza la minima ombra di scrupolo o pentimento. Da quando è arrivato a New York dalla cittadina di Appleton nel Wisconsin (è il luogo che ha dato i natali a Joe McCarthy e Harry Houdini) ha espresso tenacemente la volontà di sperimentare nuovi linguaggi recitativi, privilegiando in un primo momento il teatro sul cinema: è uno dei fondatori di un’istituzione di culto come il Wooster Group, ed è riuscito a conquistare un pubblico estremamente variegato con spettacoli che vanno da The Hairy Ape di Eugene O’Neill, nel quale si esibiva nudo, a To you birdie!, basato sulla Fedradi Racine. Ancora adesso dedica molto tempo al teatro d’avanguardia, e tra gli attori statunitensi è quello che alterna con maggiore efficacia il lavoro nelle grandi produzioni mainstream a memorabili interpretazioni nel cinema indipendente. Dopo l’incidente dei Cancelli del Cieloha interpretato un piccolo ruolo in The Hungerdi Tony Scott, ma la scoperta della qualità della sua recitazione si deve a due tra i registi più interessanti tra quelli nati negli anni Ottanta: Kathryn Bigelow, che lo volle come protagonista in The Loveless, e Walter Hill, che lo scritturò come perfido antagonista in Streets of fire, nel ruolo di un personaggio chiamato Raven, il corvo. In questi giorni Dafoe ha rivisitato i diversi momenti della carriera per preparare l’appuntamento all’Auditorium di Roma per il Viaggio nel cinema americano. Di fronte alle clip dei primi film tende a notare soprattutto il passaggio inesorabile del tempo: «Mi fa impressione vedere quanto eravamo giovani. La prima cosa che mi viene in mente rivedendo questi film sono i ricordi relativi alla lavorazione. Il risultato viene sempre in un secondo momento. Mi succede lo stesso anche di fronte a Vivere e morire a Los Angeles: mi trovavo di fronte a William Friedkin, uno dei registi che avevano rivoluzionato Hollywood dopo il crollo dello studio system, e ricordo che rimasi colpito dalla sua assoluta padronanza del mezzo cinematografico. Friedkin aveva realizzato Il braccio violento della legge e L’Esorcista, ma nell’ambiente era noto in particolare per le scene di inseguimento. Il film ne prevedeva un paio, e ricordo il disappunto nello scoprire che non partecipavo a nessuna delle due». In Vivere e morire a Los Angeles, Dafoe interpreta la parte di un falsario perverso e leggendario, che sfoga nel crimine le frustrazioni procurate da si ricordò della descrizione di «angelo caduto» dell’amico Cimino e dimostrò quanto possa essere efficace sorprendere le aspettative dello spettatore. Tre anni più tardi, Martin Scorsese portò questa intuizione alle estreme conseguenze, e lo chiamò ad interpretare addirittura Gesù. Le infinite polemiche che accolsero L’ultima tentazione di Cristo non intaccarono la reputazione dell’attore e, a rivederla oggi, l’interpretazione di questo Cristo umano, troppo umano, riesce a trasmettere tutte le angosce di un regista che sente il richiamo del messaggio evangelico mentre vive il tormento di una natura violenta e dalle passioni incontrollabili. «Lavorare con Scorsese è una gioia ed un privilegio: è sorprendente vedere come riesca ad ottenere delle interpretazioni straordinarie dando una quantità minima di informazioni ai propri attori», racconta Dafoe mentre ricorda la complicata lavorazione di un film considerato ad Hollywood come low-budget: «Nella mia vita mi sarei aspettato di tutto, ma non di interpretare Gesù, specie in quel momento della carriera». La scelta di Scorsese cambiò radicalmente la sua immagine, e nel giro di pochi mesi venne chiamato in Mississippi Burning da Alan Parker per un ruolo di poliziotto probo che cerca di calmare gli eccessi del partner Gene Hackman. E poi in una serie di ruoli positivi, addirittura di vittime: un uomo internato in un campo di concentramento in Triumph of the spirit, un reduce del Vietnam in Nato il 4 di Luglio ancora una volta con Oliver Stone. Per tornare ad interpretare ruoli diabolici ci volle l’ironia di John Waters in Cry Baby (il credit di Dafoe nei titoli di testa è «guardia odiosa»), e quindi il genio visionario di David Lynch che in Cuore Selvaggio gli affidò il personaggio malefico di Bobbi Peru dopo averlo truccato con denti marci e sopracciglia cespugliose. «Un altro grande regista che sa ottenere il meglio dando poche indicazioni», racconta di fronte alle immagini di uno dei suoi personaggi preferiti. «Io ricordo solo che continuava a sorridere, e che quando si divertiva significava che era buon segno. Una volta, in una scena di prova con Laura Dern, mi misi a cantare le mie battute e fui bloccato da un urlo. Per un attimo mi venne in mente quanto era successo con Cimino, ma David invece era assolutamente entusiasta: decise di girare la scena, ed è un peccato che poi non l’abbia montata». L’alternanza tra ruoli diabolici e messianici convinse molti altri cineasti della duttilità del suo talento, e da quel momento ha cominciato ad interpretare personaggi segnati sempre da forti personalità, ma certamente meno estremi, come il Thomas Stearn Eliot di Tom & Viv, lo scrittore della Notte e il momento ed il personaggio denominato Caravaggio nel Paziente inglese. «Minghella appartiene a quella razza di registi che ti mettono la mano sulla spalla e parlano nell’orecchio» racconta di fronte alla scena del film in cui gli vengono amputati i pollici, «è l’opposto dei cineasti che urlano, ma non per questo è meno motivato o competente. È un uomo tenero e gentile, in particolare con le attrici». In questi ultimi anni Dafoe ha preso gusto nei cammei di lusso (l’ultimo in The Aviator, ma ha una partecipazione indimenticabile in Affliction) e perfino nel prestare la voce per grandi animazioni (Finding Nemo), ma forse la scelta più sorprendente è quella della commedia: nelle Avventure acquatiche di Steve Zissou di Wes Anderson ha l’intelligenza di interpretare un personaggio totalmente privo di carisma, che tuttavia dimostra una commovente abnegazione nei confronti del suo capo. Gli appassionati di aneddotica cinematografica sanno che questo attore dai lineamenti estremi e dal corpo incredibilmente agile (pratica lo yoga quotidianamente) è il primo ad essere mai stato candidato all’Oscar per aver interpretato un vampiro (Shadow of the Vampire) ed è probabilmente la star che ha collezionato sullo schermo il maggior numero di morti violente: oltre ai film citati, la lista si può estendere a Speed 2, eXistenz, Spiderman, C’era una volta in Messico. Prima dell’appuntamento romano ha alternato ancora una volta una grande produzione hollywoodiana (xXx: State of the Union) con un film squisitamente d’autore come Manderlay di Lars von Trier, che sarà presentato al Festival di Cannes. L’incontro con il cineasta danese è una delle esperienze che lo hanno maggiormente entusiasmato negli ultimi tempi, e all’ennesimo richiamo delle sirene hollywoodiane (è uno dei protagonisti di una nuova avventura del personaggio di Ripley creato da Patricia Highsmith) ha risposto con l’interpretazione di The Black Widow un film indipendente e assolutamente low budget scritto insieme alla moglie Giada Colagrande e girato da quest’ultima nella loro casa di campagna vicino New York. ‘‘ ANTONIO MONDA