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I° Quadro 1956 Una fotografia che racchiude una storia come tante

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I° Quadro 1956 Una fotografia che racchiude una storia come tante
I° Quadro
1956
Una fotografia che racchiude una storia come tante, due giovani sorridenti che si baciano all’uscita
da una chiesa o da una sala comunale. Chi non ne ha una nel cassetto dei ricordi o nell’album di famiglia?
Lei è sorridente e felice avvolta nel suo cappotto di cammello. Il mazzo di fiori adagiato sul braccio esalta
la sua naturale bellezza e le dona un tocco di signorilità. I guanti neri, la borsetta in pelle, le scarpe con i
tacchi e una sottile fibbia, oltre a mostrare una certa eleganza nella cura dei particolari, sono un chiaro
indizio che si tratta di un giorno speciale. Non le fanno da ornamento né orecchini, né collana. La sua
figura mi appare leggera e delicata.
Anche lui è elegante e signorile con il suo cappotto grigio scuro. È alto e magro; la sua postura,
lievemente inclinata per adagiare le sue labbra sulle fresche guance, non è né volgare né invasiva, ma
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impalpabile e carezzevole. Il movimento della mano che si posa leggera sul braccio di lei rende equilibrio
e armonia all’insieme.
Giorgio e Marisa, i miei genitori, si sono appena sposati. Guardo e interrogo quest’unica
fotografia in mio possesso, cerco risposte nei pochi indizi che contiene. La esploro minuziosamente, cerco
di penetrarla nell’impellente bisogno di rintracciarvi ciò che è stato.
Di mio padre posso osservare solo il profilo; l’espressione del suo sguardo, la luminosità dei suoi
occhi, sono per me una irrecuperabile assenza. Non potrò mai più avere l’interezza del suo volto in quel
preciso istante. Era felice?
La cosa che più mi colpisce è che mia madre non ha un abito da sposa. Perché? Forse non avevano
abbastanza soldi per comperarlo, o molto probabilmente è stato un matrimonio consumato in fretta, senza i
normali preparativi. Certo il risultato è migliore, sono molto più eleganti, ma trattandosi del 1956 è una
stranezza.
Non ho mai visto il volto di mia madre così sorridente e felice. È veramente mia madre? Quel
sorriso io non lo conosco, appartiene ad una Storia che non è la mia Storia con lei. Semplicemente, io non
ero ancora nato. Ma tutto ciò lo avverto in maniera drammatica: come si fa a pensare che la donna che ti
ha dato la vita abbia vissuto un suo tratto di Storia che non ti appartiene? Vorrei quel sorriso e quella
felicità tutta per me, me ne vorrei abbeverare a sazietà. Faccio un ulteriore sforzo: l’abbraccio
teneramente, affondo il mio viso nel suo caldo cappotto, le sfioro le guance, l’accarezzo, ma non c’è nulla
da fare, nulla di quella persona mi appartiene.
Le due persone che osservo in questa fotografia mi sono estranee. Per quanto mi sforzi di
appropriarmi dell’interezza del loro essere sento che ciò è impossibile. Posso tentare di farle mie soltanto
attraverso un’operazione intellettuale, interpretativa, che non risolve affatto il dramma di fondo
dell’estraneità.
Dunque siamo nel 1956 e, visto che indossano i cappotti, deve essere inverno o l’inizio della
primavera. Faccio qualche calcolo. Mia sorella Patrizia nascerà il 22 dicembre e considerando i novi mesi
di gravidanza dovrebbe essere marzo o al massimo aprile. C’è un bel sole e quindi non è da escludere che
sia già entrata la primavera. Mia madre è nata il 21 luglio 1938 quindi avrebbe compiuto 18 anni il 21
luglio 1956. Ha solo 17 anni, dalla foto non si direbbe, sembra una donna matura. Mio padre è del 1934,
il mese non lo ricordo, quindi ha solo 22 anni. Sono veramente giovani per pensare di provvedere ad una
famiglia, anche per quei tempi.
È vero che mio padre, rimasto orfano a soli dieci anni, era già impiegato al Ministero della Difesa,
ma è anche vero che non aveva ancora una casa. La famiglia di mia madre possedeva l’essenziale; mio
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nonno lavorava a giornata, possedeva la sua piccola vigna all’Agnese e un altro pezzo di terra a Pancallo,
aveva una casa a Monte Falcone ma piccola, verrà ampliata che io ero già grandicello.
I primi anni andranno ad abitare in affitto. Sfumano lontani e nebulosi ricordi di piccole case in
via Monte Falcone. Nella prima casa che mi appare, all’inizio della via, la porta dà direttamente sulla
strada, rivedo mio padre con una valigia mentre parte per Piacenza per una trasferta di lavoro; avverto una
sensazione di buio, un lampione acceso, forse è molto presto, la corriera per Roma partiva sicuramente
alle 6 o alle 6,30, poi da Castro Pretorio di corsa alla Stazione Termini. L’atmosfera è più di stupore che di
gioia; senz’altro si tratta di una curiosa novità che ci lascia tutti inebetiti. La seconda casa è quasi alla fine
della via, dà sul retro, ci sono delle scale, sul ballatoio un piccolo bagno esterno buio e freddo: rivedo mia
madre piangente e disperata. Ecco, questo è il primo indistinto ricordo che ho di lei, e il sorriso che ora sto
osservando, nella sua estraneità, mi manca ancora di più. Avverto un leggero senso di nausea al pensiero
che porto dentro di me quel pianto disperato.
La foto non inquadra la chiesa, ma dalle scale che sembrano di marmo estrapolo che debba
trattarsi della chiesa nuova nell’attuale piazza Giovanni XXIII. È così? Quando è stata costruita? E come
si chiamava allora la piazza?
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