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“VENITE DIETRO A ME” Il Signore sta passando e vi chiama

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“VENITE DIETRO A ME” Il Signore sta passando e vi chiama
“VENITE DIETRO A ME”
Il Signore sta passando e vi chiama!
Afferrato dalla freschezza del Vangelo, sant’Agostino diceva: Quando sentite queste cose (si riferiva alle parole della Scrittura) ricordatevi che il Signore sta ancora passando: passa sempre il Signore, e vi chiama!”.
Vorrei che cominciassimo la nostra riflessione proprio da questa grande certezza, una bella provocazione che ci scuote e ci rallegra: il Signore sta passando, qui ora, e vi chiama! Lo fa attraverso la contemplazione di
questa icona, la cui iscrizione dice l’imperativo d’amore che Egli sussurra ancora oggi: “Venite dietro a me!”.
Leggiamo il testo a cui l’icona si riferisce:
16Passando
lungo il mare di Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in
mare; erano infatti pescatori. 17Gesù disse loro: "Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini". 18E subito lasciarono le reti e lo seguirono. 19Andando un poco oltre, vide Giacomo, figlio di Zebedeo,
e Giovanni suo fratello, mentre anch'essi nella barca riparavano le reti. 20E subito li chiamò. Ed essi lasciarono il loro padre Zebedeo nella barca con i garzoni e andarono dietro a lui. (Mc 1,16-20)
Il mare di Galilea, un lago neppure tanto grande. E’ qui che si svolge la scena della chiamata dei discepoli. Un’indicazione geografica su cui l’evangelista Marco insiste per ben tre volte puntualizzando come Simone e
Andrea, poi Giacomo e Giovanni ed infine Levi (Matteo) siano stati chiamati proprio mentre Gesù passava, ‘faceva
strada’ presso il lago. Che significa? Il lago di Galilea è il luogo in cui questi uomini lavorano e vivono. Gesù li va a
cercare proprio lì, nella ferialità ordinaria della loro esistenza, mentre fanno il lavoro d’ogni giorno, nella loro situazione concreta: tra le reti e una barca o, come per Matteo, al banco delle imposte. Non sono dentro le mura religiose di una sinagoga, né intenti a leggere i salmi o a fare digiuni e pellegrinaggi: stanno pescando, rassettando
le reti, facendo il loro mestiere, sudando e sperando di trarre guadagno dal loro lavoro. Che è sempre una sfida –
oggi diremmo, una sfida drammatica – perché la pesca non è mai sufficiente e il lavoro è precario o, se c’è, non
basta ed è malpagato.
Il mare, nell’immaginario biblico, è un luogo drammatico, minato da forze oscure e minacciose. P. Pino Stancari lo
definisce “deserto liquido”, il luogo verso cui Gesù ha come una necessità vitale di avvicinarsi. Le sue acque sono
la nostra storia nella quale s’alternano tempeste e bonaccia, conflitti e momenti di quiete. In questo mare si può
pescare, ma si può anche calare a picco: sono le gioie e i dolori della vita, tra successi e fallimenti. Per questo
l’Apocalisse indica nel segno del mare che sparisce l’inizio dei cieli nuovi e della terra nuova: "Vidi un nuovo cielo
e una nuova terra perché il cielo e la terra di prima erano scomparsi e il mare non c'era più". (21,1)
Il blu del mare di Galilea occupa gran parte dell’icona, ne è il fondale più ampio. Le sue acque sono agitate. C’è
una turbolenza di vento che lo scuote. E il passaggio di Gesù che s’incunea tra le onde, è una chiamata alla fedefiducia, una totale consegna alla sua signoria, come si coglierà chiaramente nell’episodio della tempesta sedata:
“Taci, calmati!” dirà al mare, minacciando il vento, mentre i discepoli, presi da timore per la grande bonaccia subito sopraggiunta, “si dicevano l’un l’altro: "Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?"”
(cfr. Mc 4,39-41).
Al centro dell’icona, Gesù nell’atto di chiamare, volgendosi a destra con
il capo, Simone e Andrea, e puntando il dito, Giacomo e Giovanni. Un’unica
scena che raccoglie due momenti nella simultaneità di un evento,
nell’unicità di un mandato: “vi farò diventare pescatori di uomini” (v.17).
Non c’è fissità nel suo portamento. Egli passa, fa strada, nell’agile corsa
verso la meta: l’uomo e il suo desiderio di pienezza.
Come non pensare, in preghiera, alle parole del profeta Isaia che proclama
la liberazione imminente di Gerusalemme, la gratuità della salvezza, il
nuovo esodo annunciato dai messaggeri di bene?
Come sono belli sui monti
i piedi del messaggero che annuncia la pace,
del messaggero di buone notizie che annuncia la salvezza,
che dice a Sion: "Regna il tuo Dio". (Is 52,7)
La statura di Gesù, più elevata rispetto a quella degli uomini, dice la
l’autorevolezza del suo essere uomo-Dio tra noi. L’eleganza della postura
ne esalta la bellezza, la trascendenza, ma anche la forza imperativa della
parola che seduce i pescatori di Galilea: “Venite dietro a me!” (v.17).
Così l’icona annuncia la chiamata di Gesù ad ogni uomo: là dove siamo, egli
ci viene incontro, entra nelle nostre vite e c’invita a seguirlo con il suo
sguardo penetrante, con la parola autorevole, facendoci una proposta radicale che non ammette ritardi, dilazioni, compromessi: tutto e per sempre! – è il leit motiv della vocazione cristiana.
A destra dell’icona, Simone e Andrea. Il testo evangelico dice
che stavano gettando le reti in mare. L’icona li rappresenta nell’atto di pescare e, contemporaneamente, di interloquire con il Maestro. Un quadro
simbolico che allude non solo e non tanto alla pesca dei pesci del mare, ma
annuncia già la pesca degli uomini, che Gesù indica loro come prospettiva
di vita, quasi la riconversione di un mestiere a loro già noto. Come dire:
non dovete cambiare pelle per seguirmi, non dovete sottrarvi dal mondo,
ma affrontare la traversata della vita gettando le reti dell’annuncio per
riempire la barca di pesci, nuovi cristiani nella Chiesa: “Andate dunque e
fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e
dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato (Mt 28,19-20).
Per i due pescatori, in quel momento rimane, certo, una prospettiva criptica, misteriosa, incomprensibile. Per noi no! Noi conosciamo il succedersi
degli eventi che li vedrà con il Maestro lungo le strade della Palestina e
poi, ancora avanti, dilatati d’ardore missionario lungo le vie del mondo
allora conosciuto, per annunciare il vangelo.
Il giacchio. Vorrei per un momento che tornassimo indietro nel tempo per scoprire la tecnica con cui i pescatori
gettavano le loro reti. Ci sarà utile perché è un’immagine coloratissima, utile a comprendere lo stile stesso
dell’evangelizzazione, come Gesù la intende.
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A quel tempo, per pescare si usava per lo più il giacchio, una rete circolare,
ampia circa 5 m, munita di zavorre ai bordi. Pietro e Andrea stavano pescando proprio con il giacchio quando furono chiamati da Gesù.
Al centro vi era legata una fune abbastanza lunga. I pescatori, dalla barca,
tenevano d’occhio il fondale marino, si guardavano attorno vigilando sui
movimenti dell’acqua. Appena veniva avvistato un branco di pesci, subito
vi si gettava sopra la rete. Le zavorre spingevano sul fondo la rete e i pesci
vi rimanevano imprigionati e poi trascinati con la rete fino a riva. Certo, il
giacchio raccoglieva tutto ciò che trovava nel fondale, pesci buoni e pesci cattivi. Ecco perché, giunti a riva, i primi
venivano raccolti nelle ceste, i secondi ributtati in acqua.
Innanzi tutto bisogna lasciare “la riva sicura”, come dice papa Francesco nell’Evangelii gaudium, e appassionarsi alla missione di comunicare la vita. Il mestiere di pescatore o ce l’hai nel sangue o non lo fai! E’ una vita dura, senza certezze: puoi pescare poco, molto o niente. Non è un lavoro che fai a tavolino: se t’impegni, guadagni.
Non è neanche un semplice commercio: se fiuti l’affare, fai soldi a palate. No, il pescatore deve affidarsi alle condizioni del tempo, al ritmo delle stagioni, e non può manipolarle o soggiogarle a piacimento.
Così per la trasmissione della fede: “Non possiamo rimanere tranquilli, in attesa passiva, dentro le nostre chiese”,
dicono i Vescovi latinoamericani nel Documento di Aparecida (2007). Siamo chiamati ad un’uscita missionaria,
“uscire dalla propria comodità e avere il coraggio di raggiungere tutte le periferie che hanno bisogno della luce
del Vangelo” (EG 21).
L’evangelizzazione, poi, “ usa molta pazienza e conosce le lunghe attese” (EG 24).
Senza l’ossessione dei risultati immediati (EG 123).
A volte ci sembra di non aver ottenuto con i nostri sforzi alcun risultato, ma la missione non è un affare o un progetto
aziendale, non è neppure un’organizzazione umanitaria, non è uno spettacolo per contare quanta gente vi ha partecipato grazie alla nostra propaganda; è qualcosa di molto più profondo, che sfugge ad ogni misura.
Lo Spirito Santo opera come vuole, quando vuole e dove vuole; noi ci spendiamo con dedizione ma senza pretendere
di vedere risultati appariscenti. Sappiamo soltanto che il dono di noi stessi è necessario. Impariamo a riposare nella
tenerezza delle braccia del Padre in mezzo alla nostra dedizione creativa e generosa. Andiamo avanti, mettiamocela
tutta, ma lasciamo che sia Lui a rendere fecondi i nostri sforzi come pare a Lui (EG 279).
E, infine, come i pescatori, bisogna distinguere i pesci buoni da quelli cattivi, il grano dalla zizzania. Bisogna
afferrare i buoni, trattenerli nella cesta, prendersene cura, e buttare nell’acqua i cattivi senza reagire lamentandosi. Insomma, mai perdere la pace a causa della zizzania che spunta, mai allarmarsi, ma cernere e discernere,
con sistematica pacatezza e incrollabile tenacia.
L’icona lo annuncia con la freschezza dei suoi segni: quei pesci vivi che guazzano dentro il giacchio sono gli uomini afferrati da Cristo attraverso la spinta missionaria della Chiesa che getta ancora le sue reti grazie ai cristiani
coerenti, testimoni credibili che annunciano il kerigma con parresia, uomini e donne che hanno obbedito alla
chiamata nella molteplicità dei colori con cui essa si esprime.
Quei pesci vivi sono coloro che hanno preso sul serio la vocazione battesimale, a partire dalla quale si radica ogni
altra vocazione (matrimonio, sacerdozio, consacrazione religiosa…).
E poi – racconta l’icona - ci sono i pesci che ancora devono entrare nella rete, sono vicini ad essa, ma guizzano di
qua e di là, un po’ recalcitranti e libertini. Sembrano essere, da un lato, attratti dal branco che è ormai raccolto
dentro la rete ma, dall’altro, pare che sguscino via sedotti dai mille colori dell’ambiente marino. E’ un’immagine
simpatica, se volete, per citare non soltanto i cristiani buontemponi, quelli lunatici, i distratti, i timorosi, gli pseudo indifferenti (dico ‘pseudo’ perché, in fondo in fondo, nessuno è totalmente chiuso alle grandi domande della
vita!).
Quest’immagine mi richiama tanto i giovani, l’inquietudine dei loro anni esuberanti: da una parte sono desiderosi
di fare scelte coraggiose, radicali, di impegnarsi con entusiasmo nella vita della comunità perché sentono
l’attrazione del bello che scaturisce dall’essere autenticamente cristiani. Dall’altra parte, però, mancano di stabilità e fanno in fretta a sgattaiolare all’invito della sirena di turno che promette loro piaceri immediati e orizzonti
virtuali di amicizie anonime.
Ma torniamo ai discepoli sulla barca. Nei loro volti leggiamo lo stupore e forse anche un po’ d’imbarazzo
e smarrimento. Non dimentichiamo che Simon Pietro, in Lc 5,8, nel frangente sinottico della chiamata, dirà a Gesù: "Signore, allontànati da me, perché sono un peccatore".
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Eusebio di Cesarea, meditando questo brano dell’evangelista Marco, metterà sulla loro bocca tante domande: “Come sarà possibile per noi
tutto questo? Su quale abilità nel parlare potremo confidare per attuare tutto ciò? Su quali aiuti e su quale forza potremo contare per superare le difficoltà?” (Dimostrazione evangelica, 3,7).
In effetti, aggiunge ancora il famoso Vescovo di Cesarea, “come potevano questi uomini parlare e istruire una moltitudine, loro che erano privi
di una qualsiasi istruzione?” In tal modo, chiosa l’autore antico, si dimostrerebbe il carattere divino del progetto e la forza divina che agiva in loro.
Ecco il punto: qui non si tratta di apprendere una dottrina per poi
presentarla ad altri, ma di seguire una persona, amando e sentendosi amati. La chiamata è un progetto di Dio, è il
suo agire in noi, a patto che lo vogliamo, che ci fidiamo di Lui, che abbandoniamo ogni presunzione arrogante e
individualismo cieco. Quando Dio ci chiama, è Lui stesso che rende possibile ciò che ci chiede!
La scena sobria ed essenziale dell’icona rimanda a quest’intrecciarsi di prospettive: quelle di Dio e quelle
degli uomini. Con un epilogo straordinario: “subito lasciarono le reti e lo seguirono” (v.18). Sguardi intensi e gesti
semplici lo attestano: la mano destra di Simon Pietro tesa verso il Maestro, il suo stare dritto, dignitoso e deciso
dinanzi a Lui; gli occhi di Andrea, che con il capo è tutto proteso verso Gesù, mentre continua a stringere le reti
tra le mani, come a dire: sì, Signore, continuerò a fare il pescatore, ma a modo tuo; cercherò ancora di trarre pesci
dal mare, ma non per la mia barca. Lo farò per il Regno, per la Chiesa, in tuo nome.
Un’immediata intimità dunque trasuda dall’icona, una familiarità profonda tra Gesù e i suoi, una stabile e
pronta decisione, motivate dalla novità di Dio che irrompe e fa nuove le cose, attraverso il Figlio che “non soltanto annuncia un messaggio nuovo, ma s’impegna ad educare dall’interno il cuore degli uomini” (Stancari).
A sinistra dell’icona, Giacomo, Giovanni e, sulla barca, il loro padre
Zebedeo. Giacomo e il padre Zebedeo sono rappresentati nell’atto di riparare le reti. Solitamente le reti si riparavano a fior d’acqua, tra la riva e il
mare. Nell’icona abbiamo voluto posizionare la scena più nella terraferma,
quasi a voler mettere in evidenza, anche visivamente, come non ci sia possibilità alcuna di pescare, di stare persino nel mare se le reti sono lacerate.
Le reti lacerate: un’immagine ricorrente nella pesca con il giacchio o la
sciabica. Ma anche un’immagine forte per noi. Lì dove la rete è lacerata, la
pesca è infruttuosa. Se i pesci rimangono per un momento raccolti in essa,
presto scappano via. Fuor di metafora, per noi e le nostre comunità: lì dove
si squarcia il tessuto della fraternità cristiana, dove dominano divisioni, antagonismi, rivalità, lotte intestine, la Chiesa cessa di essere feconda e la missione si sgretola tra i meandri delle consorterie. Non ci si prende più cura
l’uno dell’altro. Anzi, l’altro, che dovrebbe essermi fratello, è colui che insidia il mio ruolo, minaccia il mio narcisismo. Insomma, una rete di rapporti sfilacciati è la negazione stessa del Vangelo, la rinuncia dichiarata alla causa
del Regno, il rifiuto di seguire Cristo per crogiolarsi nell’autoreferenzialità sterile e controproducente.
Giovanni trattiene in grembo una cesta ricolma di pesci. E’ l’immagine diametralmente opposta alle reti disfatte. Lì cresce e matura il frutto della comunione ad oltranza che stringe
le maglie della corresponsabilità e fa corpo unico, ad immagine del corpo di cui parla san
Paolo nella Prima Lettera ai cristiani di Corinto: “se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui. Ora voi siete
corpo di Cristo e, ognuno secondo la propria parte, sue membra” (12,26-27).
Ed infine Zebedeo, il padre che vedrà i figli allontanarsi da lui per seguire
il Signore. Scrive san Girolamo: “La realtà è che essi lasciano un padre secondo la carne per seguire un padre secondo lo spirito; non è che lascino
il padre, ma piuttosto che il padre lo trovano” (Omelie sul Vangelo di Marco, 9).
Forse, per un padre, una madre le parole di san Girolamo suonano gravi nel cuore: un figlio che
esce di casa si porta via sempre un pezzo di cuore. Ma c’è anche del vero nel pensiero
dell’asceta: il rapporto con una paternità più grande, quella dei cieli, che non sminuisce quella
della terra, anzi la eleva ancora più in alto.
L’icona vuole raccontare di Zebedeo come di un padre chino sul lavoro, intento a ritessere le
smagliature della rete. Un padre assorto. La sua laboriosità non s’interrompe neanche alla vista
di Gesù. In realtà, Zebedeo sembra meditare nel cuore gli avvenimenti che ha appena visto ad
un tiro di schioppo: la venuta di Gesù fin sulla riva del lago, proprio lì dove la gente comune
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s’impegna a sbarcare il lunario con la pesca; e poi l’incontro di Gesù con i due pescatori, con i suoi amici, quelli
con cui suda a tirare la sciabica quando vanno in mare insieme a pescare, e infine la sequela immediata di Simone
e Andrea. Ancora: le notizie ricevute dai compaesani che avevano ascoltato la parola del Maestro: “"Il tempo è
compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo" (Mc 1,15). Ed infine: la chiamata ai suoi
figli, a Giacomo e Giovanni. Un sussulto nel cuore. Dio chiama. Dio benedice. Egli sa che Dio è prima di tutto, proprio come un giorno disse mamma Margherita a don Bosco.
Giunto il momento di fare una scelta definitiva, Giovanni confida il suo dubbio alla mamma: Entrare in un convento di
Francescani o nel Seminario Diocesano?
Mamma Margherita gli rispose: “Esamina bene il passo che vuoi fare e poi segui la tua vocazione senza guardare ad
alcuno. La prima cosa è la salute della tua anima. Il parroco vorrebbe che io ti dissuadessi dal farti religioso, in vista del
bisogno che potrei avere in avvenire del tuo aiuto. Ma io ti dico: in queste cose io non c’entro, perché Dio è prima di
tutto. Ricordati bene: sono nata povera, sono vissuta povera e voglio morire povera. Anzi ti giuro che, se per sventura
tu diventassi ricco, io non verrò a farti una sola visita. Ricordalo bene! ”. Giovanni Bosco, dopo aver chiesto consiglio a
dei buoni sacerdoti, decise di entrare nel Seminario di Torino. Il giorno della vestizione clericale, mamma Margherita
così parlò al suo figlio ventenne: “Giovanni mio, tu hai vestito l’abito ecclesiastico; io ne provo tutta la consolazione
che una madre può provare per la fortuna di suo figlio. Ma ricordati che non è l’abito che onora il tuo stato, ma la pratica della virtù. Se mai tu venissi a dubitare della tua vocazione, per carità !, non disonorare quest’abito. Deponilo subito. Preferisco avere un figlio contadino, che un prete trascurato nei suoi doveri”.
Dalla vita di S. Giovanni Bosco
PER LA PREGHIERA
Signore Gesù, chiamaci ancora
Signore Gesù, missionario del Padre,
incrollabile viandante della lieta notizia,
sappiamo che tu sei il vivente
e continui a passare tra noi per annunciare il Regno.
Ogni Galilea è il terreno delle Tue chiamate,
ogni quotidianità, anche la nostra,
può far risuonare la Tua voce.
Nel marasma dei nostri giorni,
Tu passi ancora, Signore,
e chiami noi a seguire Te, a camminare con Te.
Tu ci sai guardare in modo penetrante e fiducioso,
Tu pronunci i nostri nomi con autorità e dolcezza.
Tu ci ami, Signore.
Aiutaci a non fuggire dal mare delle vicende umane,
ma a rimanervi, con Te.
Fa’ che impariamo da Te
a non appartenere più a noi stessi
ma a tutti, specialmente agli ultimi
per la cui salvezza Tu sei venuto nel mondo.
Signore,
Ti ringraziamo per averci presi così come ci hai trovati,
senza lasciarti condizionare
né dalle nostre doti né dai nostri limiti.
Chiamaci ancora, ogni giorno, Signore Gesù:
che noi possiamo udire la Tua voce
inconfondibile e autorevole
pronunciare i nostri nomi con amore;
che noi possiamo davvero seguirti
ed essere quelli che stanno con Te, sempre.
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