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cenni storici - Diocesi di Alessandria
Parrocchia Beata Vergine Assunta L’origine dell’attuale località conosciuta sotto il nome di Valmadonna è da porre in relazione alla nascita delle città di Alessandria e Valenza e, in particolare, alle vicende delle comunità di Borgoglio e di Astigliano. Se tutti sono concordi nell’affermare che Borgoglio fosse una delle terre più antiche della zona, aride e scarse sono, di contro, le notizie a noi pervenute in proposito. Circa il nome l’opinione più accreditata è quella dello storico alessandrino Ghilini il quale fa derivare il motto “Borgoglio” da una corruzione di “borgo” con cui, secondo le usanze locali, si soleva denominare un piccolo territorio; è quasi certo che l’antico quartiere si trovasse ai piedi della collina lungo la strada per Valenza ma risulta difficile ritrovarne la collocazione precisa. Anche potenti e ricche famiglie vi avevano residenza fissa; dal momento, però, in cui furono terminate le fondamenta di Alessandria nel XII secolo, le stesse, seguite più lentamente dalla popolazione meno agiata, demolirono le loro antiche case e contribuirono a fondare più nobile patria sulla sponda sinistra del Tanaro dove ancora oggi sorge la cittadella fortificata. Poco o nulla abbiamo appreso dalle cronache se non che ai tempi della Lega anche gli abitanti di Borgoglio trascinati nel momento storico proclamarono la riconquistata libertà. Potremmo quindi immaginare che l’antica Valmadonna facesse parte dell’antico quartiere, anche se certamente l’origine dell’odierna configurazione del paese è di più recente epoca. Nei primi secoli da noi trattati esso riveste quindi solo un carattere di sobborgo o, meglio, di cascine sparse che corrispondevano alle prerogative del tempo feudale. Anticamente la località ove sorge Valmadonna era d’altra parte chiamata col nome di “Astigliano”, denominazione che mantenne sino al XV secolo. Parlando di Artigliano occorre rifarsi alla storia della città di Valenza suddivisa in origine nei tre sorti (borgo, quartiere) di Artigliano, Bedogno e Monasso; nomi questi di località preesistenti a Valenza stessa. Astigliano era verosimilmente un borgo molto antico, posto in direzione sud-ovest, che successivamente, per le stesse ragioni viste a proposito di Borgoglio, si sistemò verso le rive del fiume Po. In epoca più recente esso venne a far parte integrante della città do Valenza, ma il nome rimase a denominare la valle ai piedi del monte di Valenza, oggi chiamata Valmadonna. Di Artigliano, infatti, parlano gli statuti di Borgoglio quando si trattò di ampliare una strada, come pure quando si dovette costruire un fossato e si ordinò che arrivasse “… sino alla via che va ad Astigliano …”. Si può quindi pensare che la prima congregazione che in futuro avrebbe dato origine al paese qual è oggi sia stata formata da componenti dai ceti più disagiati di Artigliano e Borgoglio i quali, non essendo in grado di trasferirsi nelle nuove città, vi presero dimora sostenendosi principalmente con la coltura delle viti. In quanto alla determinazione dell’epoca di origine siamo propensi a collocarla attorno al XI e XII secolo sempre convinti, però, che il trasferimento non fu netto e immediato, bensì lento e costante nei tempi. Le città-repubblica e i Marchesi di Monferrato Nel XII e XIII secolo l’Italia vide l’avvento delle città-stato politicamente indipendenti. Troppo spesso, però, si sono considerati i comuni come i rappresentanti degli interessi mercantili della nascente borghesia, dimenticandosi che essi, come un qualunque signore, cercavano di affermare sul vicinato la loro potenza e il loro dominio. L’imposizione dell’autorità comunale sul contado (dal latino comitatus) aveva, per lo più, un’ovvia frontiera da raggiungere: il confine diocesano. I movimenti che spinsero i comuni ad una simile politica furono essenzialmente due: in primo luogo, l’esigenza di imporre tributi a na più grande popolazione e di reclutare nuove truppe, in secondo luogo, la volontà di assicurarsi incette di granaglie e viveri per la città. Tuttavia l’apparente vittoria del comune nei confronti della società feudale non fu certamente una “conquista militare” a opera delle milizie civiche. È vero che sovente si assisteva all’assedio vero e proprio dei castelli, ma la sottomissione del feudatario normalmente si otteneva per effetto delle minacce e delle azioni intimidatorie e forse, più che sottomissione, si dovrebbe meglio parlare di trattato di alleanza. Inoltre, la struttura medievale del castello visto come centro delle cellule sociali non venne del tutto abbandonata e in alcune regioni, quali il Piemonte, essa rimase viva e attiva per molto tempo ancora. Non bisogna dimenticare, poi, che la potenza e la ricchezza di una famiglia cittadina era in gran parte dovuta alle terre che possedeva. Il fenomeno di acquisizione su larga scala delle terre da parte degli abitanti della città fu, più che “un ritorno alla terra” come qualcuno affermò, un accrescimento di potere all’interno delle mura. La popolazione della campagna era giuridicamente posta ad un livello inferiore dei cittadini optimo iure. I comitatini (così venivano spesso appellati) prestavano fedeltà in perpetuum alla città, sottostavano ai bandi, agli editti, agli statuti, alle ordinanze, alle decisioni, ai decreti e agli ordini del comune. Le alte autorità giurisdizionali potevano risiedere solo in città e solamente ad esse i comitatini potevano rivolgersi per chiedere giustizia. L’antica e radicata struttura sociale del vassallaggio danneggiava e in un certo qual modo contraddiceva le pretese del comune che mirava a scalzare il potere politico del signore feudale. Per questa ragione nel XIII secolo le città-repubbliche iniziarono la loro campagna di liberazione dei servi della gleba che incise profondamente sul modo di conduzione delle terre. Nonostante il mobilissimo intento, però, il fenomeno non contribuì a migliorare la situazione delle classi sociali inferiori; anzi, tale liberazione poneva i contadini alla mercè di un proprietario ben più esigente del precedente: il mercante cittadino che produce per il mercato. Giuridicamente emancipati, essi avrebbero avuto bisogno di una autonomia economica che non possedevano per tentare di risalire la china dell’affermazione sociale. L’amministrazione comunale sulle aree rurali si realizzò suddividendo le zone in dipartimenti a capo delle quali venne posto un funzionario municipale. I comitatini avevano l’obbligo di fornire alla città la fanteria per la difesa e i prodotti dell’agricoltura per l’approvvigionamento. “ … Normalmente ciascun comune prescriveva che le varie aree del contado consegnassero il grano entro una certa data. Questa impositio grave si applicava a tutti i territori coltivati a frumento, ed era calcolata in base alla resa media delle singole comunità rurali (o talvolta in base al numero delle coppie di bestie da giogo) … Il marchese di Monferrato stabilì sul Piemonte una signoria (…) che può servire ad illustrare definitivamente il tipo di stato che intorno alla metà del XIII secolo sostituì l’indipendenza municipale in gran parte dell’Italia settentrionale. La dinastia di cui si tratta in questo caso era potente e antica, storica, famosa per le sue imprese alle Crociate, e il nucleo principale delle sue terre era nel Piemonte meridionale, tra la pianura e la Liguria. Alessandria (…) era stata sotto la protezione di questi marchesi (sin dalle origini); già prima del 1200 uno di essi ebbe il titolo di dominus della città, avendolo investito Enrico VI della metà dei diritti imperiali su di essa. Ma la prima estensione della signoria a un certo numero di comuni fu attuata dal marchese Guglielmo nei tre decenni dopo il 1260. Più che una vera e propria signoria egli fondò un estesissimo dominio feudale. Dopo aver cominciato come capitano e “signore” di Alessandria, Tortona e Acqui (1260), egli annettè Ivrea nel 1266. (…) Persa Alessandria nel 1262, la riebbe solo nel 1278 (come capitano, per quattro anni) insieme a varie altre città, tra cui Vercelli che lo nominò ‘capitano di guerra’ per dieci anni (…). A partire dal 1278 fu per cinque ani capitano di una grande coalizione che andava da Torino a Genova a Como, Mantova e anche Verona. Continuò a fare collezione di signorie: Milano; nuovamente Alessandria, che gli conferì plenum arbitrium in perpetuum; Como e Vercelli che lo nominarono entrambe capitano a vita; e vari altri paesi minori …”. Durante questi secoli la nostra storia è caratterizzata e influenzata dai marchesi del Monferrato. Un documento del 1202 (25 agosto) ci conferma che essi vennero in possesso della terra di Astigliano che conservarono con alterne vicende fino al 1290. Una alleanza discussa Lo storico G. A. Chenna afferma che “ … se la Valle Gratiae in cui fu stipulato a dì 25 agosto un istrumento (…) tra il marchese di Monferrato e gli alessandrini, fosse stata questa medesima (cioè di Valmadonna), antica certo strenne la sua denominazione …”. Si farebbe con ciò risalire a tale epoca l’appellativo de Valle delle Grazie dato a questo territorio; occorre però elevare tutte le nostre riserve a tal proposito visto che già lo stesso Chenna si confessa dubbioso della sua affermazione. Agli inizi del 1200 cresceva di giorno in giorno la potenza degli alessandrini, rafforzata maggiormente dalle numerose alleanze condotte a termine con le potenze vicine, in special modo con Milano, Piacenza e Vercelli. Non ultimo l’accordo sottoscritto con il marchese Bonifacio di Monferrato l’8 marzo 1202. L’anno seguente lo stesso marchese partì per la crociata in Terra santa e ad amministrare le sorti del marchesato rimase il figlio Vermo, il quale, non pago della precedente alleanza con gli alessandrini e timoroso del continuo aumento della potenza comunale, volle riconfermare l’amicizia con nove donazioni che si possono così sintetizzare: a. donazione di metà di Sezzé, di Ritorto, di Castelnuovo, dei due Carpenti e Tremolino unitamente ai beni di pesca e di caccia che il marchese possedeva in quei luoghi; b. rinuncia a tutti i diritti sopra gli antichi territori su cui venne fondata Alessandria con promessa di far confermare tale rinuncia mediante giuramento dei rispettivi marchesi Bonifacio di Clavesana, Manfredo di Saluzzo e Ottone del Bosco e dagli esponenti della sua curia che Alessandria avesse desiderato; c. rinuncia a qualunque diritto sugli alessandrini e riguardo delle regalie (spina nel fianco del comune), per l’elezione dei consoli e dei podestà; d. impegno del marchese ad esercitare pressioni sul vescovo che risiedeva ancora ad Acqui contro la volontà dello stesso Pontefice. L’atto formale fu stipulato dal marchese Vermo, da Guidone da Piovera console di Alessandria e Ghisulfo Acerbo, ambasciatore della stessa città. Le condizioni furono certamente favorevoli ad Alessandria che in quel periodo cercava soprattutto la pace per poter consolidare la posizione politica conquistata. Il nostro problema rimane comunque la località in cui si concluse formalmente l’accordo. Il Ghilini afferma che al pace si ratificò nella “Valle della Grana” dove Vermo dimorava nella stagione estiva del 1203. Successivamente lo stesso Ghilini all’anno 1645 indica che nella Valle della Grana è situato Montemagno da cui concludiamo che tale località trovasi a nord della odierna città di Asti. Anche ammettendo, il che è del tutto fantastico, che la regione di Artigliano si estendesse fino alla località di Montemagno, la denominazione di “Valle Gratiae” è del tutto inverosimile. Può darsi che il Chenna si confonda con la presenza al confine sudovest della città di Valenza di una località denominata “Motta di Grana” come risulta da una cartina de 1656 completamente estranea al luogo in cui fu firmata l’alleanza. La battaglia dell’inferno Durante tutto il XIII secolo la regione dell’alessandrino fu travagliata dalle lotte tra la fazione guelfa fedele al Sommo Pontefice e la fazione ghibellina sostenitrice dell’Imperatore. In linea generale i due partiti erano rispettivamente spalleggiati dai duchi di Milano e dai marchesi del Monferrato, impegnati entrambi per il controllo delle signorie. In realtà le più importanti e ricche famiglie del luogo erano equamente divise e di volta in volta gli indirizzi politici cambiavano di orientamento. Valenza confessava, inoltre, un debole per il partito guelfo anche se di li a poco si sarebbe ribellata all’amministrazione milanese. Tra il 1284 e il 1289 Alessandria godette di un periodo di relativa calma e di discreto benessere; furono introdotte riforme e nuove leggi in particolar modo per ciò che concerne i costumi e la morale che andavano via via degenerando. Dopo alcuni anni di abbondanza comunque la città dovette affrontare momenti difficili di carestie e di peste. Il 3 aprile 1287 Alessandria ottiene il privilegio di rappresentare il proprio capitolo al concilio provinciale di Ottone Visconti in Milano. Nel giugno del 1289 Guglielmo marchese di Monferrato cominciò rapidamente ad estendere il suo territorio grazie anche all’aiuto di numerosi fuoriusciti alessandrini. I guelfi della città venuti al corrente della situazione si fortificarono in Bosco coscienti che non avrebbero potuto instaurare una difesa tra le mura della città se non dopo una lotta cittadina contro le famiglie ghibelline favorevoli a Guglielmo. Quest’ultimo, dopo aver inutilmente cinto di assedio il Bosco, ripiegò sopra Alessandria e riuscì ad entrarvi coadiuvato dai ghibellini rimasti. Da essi ottenne la sottomissione della città. Le forze fedeli al Papa non rimasero però inattive. I Visconti strinsero alleanza con le città di Cremona, Piacenza ed Asti contro la prepotenza del marchese. La città di Asti strinse contemporaneamente un accordo con gli alessandrini del Bosco mediante il quale questi ultimi avrebbero ricevuto 35.000 fiorini se avessero permesso agli artigiani di sorprendere alle spalle il nemico; e così avvenne. Appena il marchese fu informato della trama ordita ai suoi danni mosse il suo esercito contro la città al fine di ridurla all’obbedienza per la seconda volta. Gli alessandrini organizzarono di conseguenza un esercito comunale capeggiato da Alberto Guasco d’Alice uomo di grande esperienza militare ed amato da gran parte dei suoi cittadini. Egli entrò animosamente nel Monferrato saccheggiando e rovinando le coltivazioni con “libertà militare”. Le due armate si scontrarono nei pressi di Castelletto e San Salvatore mentre, in rispetto dell’accordo, gli artigiani e gli altri alleati giunsero alle spalle del marchese. Dopo una cruenta battaglia l’esercito monferrino ebbe la peggio e lo stesso Guglielmo cercò scampo nella fuga, ma inseguito dal Guasco venne catturato due giorni dopo (il 12 settembre 1290) e portato in prigione nella città ove rimase rinchiuso e abbandonato fino alla morte. La storia della sua cattura risulta controversa e leggendaria. Il Ghilini narra che egli fu catturato per mezzo di una catena d’oro che lanciata dal Guasco lo strinse al collo e, rinchiuso in una cava di legno situata sotto il Pretorio di Alessandria, vi rimase diciassette mesi. Altri autori lo vollero appeso ad una gabbia all’alto del Palazzo dei Governatori. Guglielmo Ventura e Benvenuto di S. Giorgio affermano infine che il marchese non fu catturato dopo la fuga, bensì dopo essere entrato, volontariamente e noncurante del pericolo, in città. A parte la meccanica della morte del marchese sta di fatto che, sconfitto Guglielmo, Alessandria poté cominciare a consolidare la propria potenza con più libertà. Con Guglielmo termina anche la prima fase della nostra storia, una fase caratterizzata dall’influenza preponderante del Monferrato, dalle lotte intestine per l’espansione cittadina e dalla nascita embrionale delle cascine di Valmadonna. Nel 1347, infatti, S. Salvatore e Pietramarazzi passarono sotto Alessandria e con essi anche il territorio di Artigliano. Concludiamo soffermandoci sul giudizio negativo che speso e volentieri si è dato al marchese di Monferrato limitandoci a riportare i versi che dante Alighieri sentenzia nel canto VII del Purgatorio: “ … Quel che più basso tra costor s’atterra, guardando in suso, è Guglielmo Marchese, per cui Alessandria e la sua guerra fa pianger Monferrato e Canadese”. La configurazione del territorio Una domanda che possiamo porci è questa: il territorio di Valmadonna apparteneva ad Alessandria o a valenza? Occorre subito premettere che si trattava di terra di confine, ragion per cui il nostro lavoro riguarderà la storia di entrambe le città. Quasi certamente essa rientrava nel territorio di Borgoglio confinante con Valenza e San Salvatore. La linea di frontiera fra le due maggiori città fu per molto tempo questione delicata e difficile da risolvere. Con Alessandria, Valenza non ebbe problemi politici, in quanto dal XIV secolo entrambe appartenevano ai Visconti di Milano, bensì di natura giuridica per l’accertamento del diritto di esigere le taglie comunali, d’imporre obblighi comunali, ecc. Gli alessandrini sostennero per lungo tempo che il limite fosse segnato dalla strada detta “della Serra”. Di contro il comune di Valenza disconosceva tale confine asserendo che il loro territorio si spingeva oltre la Serra, in una via appunto chiamata “via oltre Serra”. Intorno al 1561 per risolvere la questione fu persino chiamato da Milano un commissario delegato a fare una ispezione oculare, il quale si pronunciò a favore degli alessandrini. I valenzani rifiutarono la decisione e il 2 giugno dello stesso anno furono riunite le deputazioni dei due comuni per la ricognizione dei veri confini e ciò che fu rogato dal notaio Paolo Del Pero ci interessa direttamente: “Super territorio oppidi valentie videlicet super strata serre dicti Territorii ubi dicitur ultra serram ad astilianum prope confinia loci S. Salvatoris cui coherent a parte versus alexandriam ultra dictam serram heredes condam n; Dominaci Bombelli seu habentes ius et causam ad eis et citra ipsam stratam versus valentiam iura prepositure S. Mariae Maioris dicti oppidi valentiae et continuatio dicte strate serre siue ect.”. Problema più difficile per l’ubicazione di Valmadonna si presenta nell’affrontare le delimitazioni di S. Salvatore con Valenza a nordest, poiché in questo caso si trattava di confini di stato, in quanto S. Salvatore appartenne, in un primo momento, al territorio del Monferrato. Nel 1442 si dibatteva una grossa vertenza per i limiti territoriali. Si erano accordati il duca di Milano e il marchese per risolvere pacificamente la controversia. Milano aveva nominato suo commissario Agapito di Lanfranchi, Guglielmo di Montiglio fu vicario della controparte. Lo storico Gasparolo afferma, sulla base di una testimonianza contenuta in un volume sull’operato dei commissari, che a designare i confini vennero poste delle croci, e che una di esse fu insalata al bivio che dava per una parte alla pieve di Astigliano (il che conferma le veridicità del nome antico di Valmadonna) e per l’altra al poggio di Primo. Nel XV secolo esisteva dunque la pieve di Artigliano e, come afferma il Chenna, tale chiesa parrocchiale, forse insieme ad altre, apparteneva alla diocesi di Pavia come si apprende da una Bolla dell’11 maggio 1217 di Onorio III nella quale si confermavano a S. Folco vescovo di quella città parecchi monasteri e varie chiese e parrocchie fra cui quelle “ … verso Alessandria con gli abitanti del territorio di Artigliano con le chiese annesse …”. Delle antiche chiese di Astigliano, comunque, non abbiamo altre notizie documentate. Il convento dei padri Serviti in Borgoglio I “Servi di Maria” giunsero ad Alessandria nell’anno 1280 e si ricoverarono nel quartiere di Borgoglio in una casa vicina alla porta del ponte sul fiume Tanaro. Lo stesso anno fu loro concessa una piccola chiesa con il titolo di San Bernardo. Le maggiori fonti riguardanti i padri Serviti sono contenute nei loro annali, curati per un periodo di tempo dall’annalista padre Giani che avremo occasione di citare altre volte. Il 25 febbraio 1287 la gentildonna Marzia Gallina dopo “ … aver preso l’abito di Maria Vergine dei Padri dell’ordine dei Servi …” donò loro un terreno attiguo alla chiesa di Santo Stefano per fabbricarvi un convento; rivestiva la carica di priore Uberto Crista. Nel 1295 i parrocchiani di Santo Stefano pregarono l’Arcidiacono ed il Capitolo della Cattedrale di concedere la loro chiesa ai Servi unitamente agli edifici annessi e ai fondi ed essa appartenenti, al fine di erigervi un convento (da ciò si comprende che il terreno loro ceduto nel 1287 non era ancora stato utilizzato per lo scopo) e provvedere alle funzioni religiose. Della vecchia chiesa di S. Stefano si fa menzione in una Bolla di Alessandro III del 14 aprile 1162; indi, unitamente a quelle di S. Maria e di S. Pietro, dovette essere trasferita nel nuovo Borgoglio più vicino al Tanaro. La chiesa fu poi assegnata dal vescovo Ottone al Capitolo della Cattedrale nel 1178. L’arcidiacono Ascherio accolse l’istanza dei parrocchiani e, col consenso del Capitolo, trasferì S. Stefano ai padri Serviti nella persona del priore provinciale Percivallo sotto condizione di non permutarla, alienarla o sottometterla ad altro ordine. I Serviti si stabilirono dunque in Borgoglio dove esplicarono il loro operato; successivamente, come vedremo, in Valmadonna verrà creato un ulteriore piccolo convento nel XV secolo. L’assedio di Valenza del 1370 e i fatti di Beccaria Nell’anno 1347 in una chiesina di S. Giorgio di Monasso, Valenza si sottomise al marchese di Monferrato disconoscendo la tutela della famiglia Visconti di Milano che aveva avuto inizio nel XIII secolo; in effetti i valenzani non avevano gradito molto la dominazione viscontea e preferirono il governo del più vicino Monferrato. Milano, però, non rimase a guardare e nel 1370 alla guida di Giov. Galeazzo cinse d’assedio la città e, come sempre in questi casi, i terreni circostanti subirono le conseguenze nefaste dell’impresa. Dopo dieci mesi di disperata resistenza la città si arrese “ … per non morire di fame …”. Quando, successivamente, al trono ducale salì Gian Galeazzo, Alessandria e Valenza si trovarono sempre più in una situazione disperata per le troppe onerose gabelle milanesi che non permettevano loro nessun investimento in campo civile. Nel mese di luglio del 1392, gli alessandrini impugnarono le armi e saccheggiarono il Duomo della città per protesta contro il Governo finendo, poi, per bruciare sulla stessa piazza documenti e libri tra i più importanti della storia cittadina. Di lì a poco l’esempio venne seguito dai valenzani, mentre Gian Galeazzo, per timore che la cosa potesse provocare una sommossa più generale, inviò cinquecento cavalieri a ristabilire l’ordine. Ma se, ricordandosi ancora dell’aiuto da essa dato contro i francesi, fu disposto a perdonare Alessandria, condannò invece Valenza a fabbricare a sue spese, nel mese di agosto dello stesso anno, una rocca che dominasse il territorio circostante. Ricordiamo, infine, che negli anni dal 1413 al 1415, Panzarotto Beccaria, signore di S. Salvatore, si ribellò al duca di Milano portando nuove guerre ai territori vicini. In quello stesso periodo veniva ultimata la torre del paese la cui costruzione era iniziata nel 1409. La chiesa campestre di S. Maria delle Grazie Le attività e le vicende storiche di Valmadonna si intensificarono durante il XV secolo grazie soprattutto alla costruzione di una chiesa campestre adibita in un primo tempo a convento, che iniziò gli abitanti alle funzioni spirituali: la chiesa sorse sotto la “protezione” materiale e morale dei padri Serviti. Da alcune fonti abbiamo appreso che essa si trovava al centro dell’antico paese ove agli inizi del nostro secolo sorgeva la casa Binelli. Dall’inventario del terzo parroco di Valmadonna don Ambrogio Bottazzi (1731-35) siamo venuti a conoscenza, a grandi linee, della sua composizione: la porta principale sovrastata da una finestra a mezza luna si ergeva a mezzogiorno, verso est, altre due finestre dello stesso tipo completavano l’esterno, mentre il campanile armato di una campana era situato dietro il coro. Il permesso di edificare la chiesa fu concesso dal vicario generale Galvagno Firuffini alle famiglie Mantelli e Panza, come da sue lettere del 13 agosto 1454 indirizzate “egregiis viris, amicis carissimis, Angelino Mantello, Blasio Pantia, et toti communitati Astilliani”. La famiglia Mantelli (di origine Milanese) fu inviata da Visconti, con molte altre, in Alessandria dove come d’uopo fu registrata fra le famiglie guelfe della città. Nel 1450 la famiglia partecipò alla edificazione della chiesa e del convento di S. Bernardino. Alla costruzione di Artigliano, oltre ad Angelino, parteciparono i familiari Baudolino, Bonifacio e la vedova di Giorgio. L’A-Valle parlando delle famiglie alessandrine ritiene che i Mantelli discendessero dai “Metalli” di Roma. L’altro grande nome a cui si deve l’iniziativa della costruzione di S. Maria delle Grazie è Biagio Panza, romano, di fazione ghibellina, che nel 1458 fu deputato in Alessandria per la riforma del registro, per la riorganizzazione, cioè, delle tariffe d’estimo degli stabili del comune. I due fondatori si riservarono il diritto di eleggere un frate per la gestione della nuova chiesa e, poiché l’amministrazione delle chiese campestri spettava al parroco competente per il territorio in cui si trovavano, fu facile ai padri Serviti di S. Stefano intromettersi nella faccenda e, giacché faceva parte dello stesso convento un esponente della famiglia Mantelli, padre Lorenzo, fu affidato a lui il compito di posare la prima pietra; operazione che avvenne il 1 agosto 1458. La chiesa prese il nome di “Beata Vergine delle Grazie”. Il Clari ne dà notizia ma solo all’anno 1459 ed il Lumelli all’anno 1458. Ne parla anche il Ghilini, come il Clari, all’anno 1459. Ne parlò ovviamente anche padre Giani, annalista dei padri Serviti, perché si pensò di erigere quella chiesa a convento dell’ordine, ma egli ignorò i meccanismi dei quali ci era rimasta traccia nel Clari (1458) e nel Ghilini: “Erano anziani di Alessandria il giureconsulto Matteo Bisgiazza, Viviano Pupino, Nicolò Robutti, Fabio Guerci e Sebastiano Panza ed amministrava quella podesteria Carriocolo Spinola genovese, quando il vescovo di essa città Marco Capitani concesse nel principio di quest’anno il titolo di priorato alla chiesa di S. Maria delle Grazie fuori delle mura di essa città e primo priore fu Clemente Gariboldi milanese, frate servita; onde il convento di S. Stefano ha poi mantenuto sempre il possesso di suddetto priorato, mediante il consenso della famiglia Mantelli alla quale per ragione ereditaria spetta l’elezione di esso priore, in luogo di Biagio Panza fondatore della detta chiesa …”. L’esclusione che il Ghilini fa del Panza dal diritto sopra la chiesa non è però convincente, tanto più che con una transazione del 20 giugno 1598 (rogato dal notaio Ottiglio) fu convenuto, dopo disaccordi tra le due famiglie (quindi anche Panza) e i padri Serviti, che i patroni nominassero tre religiosi ed uno di costoro fosse eletto dal Capitolo di S. Stefano a reggere la chiesa; per contro i Mantelli e Panza rinunciavano a tutti i diritti che possedevano sulla chiesa stessa a favore dei padri Serviti alla condizione, però, che i redditi e gli introiti derivanti dai fondi annessi alla gestione ecclesiastica venissero organizzati a vantaggio della chiesa di Artigliano. I problemi della prima chiesa di Valmadonna furono inerenti, dunque, ai passaggi, più o meno chiari, di responsabilità e di gestione tra le famiglie laiche ed il convento di S. Stefano. Di lì a poco anche gli ecclesiastici regolari interverranno avanzando pretese su S. Maria delle Grazie non vedendo troppo favorevolmente la permanenza dei padri Serviti nella parrocchia di S. Stefano. Importante resta comunque il fatto che a partire da tale momento, la località fino ad ora variamente denominata Artigliano assume definitivamente il nome di Valle delle Grazie, che resterà immutato fino al 1858 circa. I francesi a Valenza Nel 1449 e nel 1557 Valenza venne nuovamente cinta d’assedio. Il primo fu opera dell’esercito francese al comando di Eberardo d’Aubigny e si concluse rapidamente per il tradimento del castellano della rocca; tutta la guarnigione valenzana fu passata a fil di spada e i territori vennero abbandonati al saccheggio. Ben più terribile fu l’assedio del 1557 che vide nuovamente i francesi nelle nostre terre. Le chiese, i campi coltivati, persino le case private subirono la ferocia della soldatesca che si perpetrò anche nei periodi successivi l’assedio stesso. Le famiglie di Milano Durate la dominazione viscontea, nell’anno 1417, il duca Filippo Maria istituì nella provincia di Alessandria la nuova nobiltà. Tra queste famiglie erano i Porzelli e i Porcellana; i primi verranno investiti nel 1734 del contado di Valle delle Grazie che terranno ininterrottamente fino alla creazione delle strutture amministrative dello stato sabaudo, i secondi si stabilirono nel palazzo signorile nella zona del territorio della “del Ponte rosso”. Furono due, dunque, le famiglie che portarono in Valmadonna lo stemma della nobiltà milanese; ad entrambe fu concesso dal Visconti di scegliersi una piazza dove riunirsi per discutere e ritrovarsi. Il 1600 di S. Maria delle Grazie Nel 1602 la chiesa della Beata Vergine delle Grazie, priorato dal 1478, fu riconosciuta campestre dalla visita pastorale dello stesso anno ad opera del Vescovo. Da alcuni documenti ritrovati ci risulta, inoltre, che venne eletto cappellano il padre servita Tommaso Gatti. Deduciamo, quindi, che malgrado l’elezione della chiesa in priorato, la stessa rimase sempre una succursale del convento di S. Stefano, il quale vi eleggeva un religioso per l’assistenza degli abitanti di Valmadonna. Nel 1611 il padre Provinciale, non riconoscendo l’accordo del 1589 intercorso tra i padri Serviti e i patroni, pretese di essere in diritto per l’elezione del padre priore della chiesa. Poco dopo, in esecuzione della Bolla pontificia del 15 ottobre 1624 di Innocenzo X, fu soppresso il piccolo convento della Valle delle Grazie. La Bolla ordinava, inoltre che i vescovi convertissero i beni e i frutti di tali conventi in opere di carità. I padri Serviti, però, ricorsero per l’occasione alla Sacra congregazione dei vescovi e regolari di Roma sostenendo la tesi che, nel caso di S. Maria delle Grazie, non si trattava di un piccolo convento vero e proprio, bensì di una “grangia” (filiale) di quello di S. Stefano. Il loro ricorso fu accolto ed essi ottennero nuovamente i diritti ed il possesso della chiesa. Fu concesso loro di celebrare le messe in memoria della fondazione per mezzo di un sacerdote regolare nominato dai patroni laici secondo l’accordo, purché lo stesso si astenesse dal pernottare nella casa parrocchiale. La presenza di un regolare durante il periodo successivo è comunque negata negli appunti del parroco Bottazzi del 1735 ritrovati nell’archivio parrocchiale, soprattutto perché, nello stesso anno, i patroni e sovrintendenti Mantelli e Panza pretesero che dovesse risiedervi un ecclesiastico secolare. Si può immaginare come i padri Serviti accettarono volentieri l’idea che li favoriva, visto che l’edificio risiedeva nel territorio della parrocchia di S. Stefano di loro giurisdizione. Dalla seconda metà del XVII secolo, dunque, risedette nella valle un secolare che ricoprì anche la carica di vicecurato ed ebbe il permesso, dietro consenso del convento, di impartire i sacramenti in caso di necessità. La terribile guerra dei trent’anni Nel 1635 la città di Valenza fu nuovamente cinta d’assedio, primo episodio dell’aspra guerra scatenata sulle nostre contrade per la successione di Mantova e Monferrato (1628-1659) che seminò rovina e distruzione. L’armata francese, al comando del duca di Crequi, pose l’assedio il giorno nove del mese di settembre. Grazie alla buona organizzazione della difesa ad opera del mastro di campo spagnolo marchese di Calada valenza resistette alle truppe transalpine, cosicché dopo 49 giorni i francesi furono costretti a desistere dall’impresa. Il Ghilini narra che nella notte tra il 31 marzo ed il primo aprile 1641, subito dopo pasqua, il presidio di Casale, forte di 1500 fanti e 500 cavalli, fiancheggiati da 1000 monferrini e 12 carri carchi di attrezzi adatti, si dislocò con precauzione sotto le mura di Valenza con l’intenzione di scalarle e sorprendere la città. Il calpestio dei cavalli attrasse l’attenzione delle sentinelle, le quali avvertirono il governatore Gabriele de Cardenas. Questi fece subito dare l’allarme tanto al presidio quanto agli abitanti, perché si armassero per la difesa della patria; scoperto, il nemico si ritrasse. La guerra continuò e nel 1656, al secondo tentativo, i francesi espugnarono la città dopo tre mesi di assedio. Il duca di Modena, alleato dei francesi, si recò nel duomo di Valenza ove, per l’occasione, venne cantato un solenne Te Deum. Nel 1659 valenza, dopo la pace con la Francia, fu restituita agli spagnoli in cambio di Vercelli, benché 37 anni dopo, nel 1697, per la terza volta i francesi tentassero nuovamente di riprendersi la città. L’assedio fu breve ma violento. (Anche le terre vicine soffrirono le scorrerie dei francesi. Il paese di Pietra Marazzi fu, infatti, raso al suolo. A titolo di cronaca, ricordiamo, infine, che nel 1630 lo stesso paese fu colpito da una terribile epidemia che falcidiò gran parte della popolazione). La questione religiosa e la nuova chiesa La costruzione della nuova cittadella nel quartiere di Borgoglio obbligò fin da principio i padri Serviti a sloggiare dal loro convento. Nel mese di maggio del 1728 le operazioni di demolizione dello stesso quartiere iniziarono nella parte in cui, appunto, erano posti il convento e la chiesa di S. Stefano. Le 30.000 lire di Piemonte assegnate dalla Camera regia ai Servi di Maria furono impiegate nell’acquisto di una casa in città ove fu allestita provvisoriamente una piccola chiesa benedetta il 7 settembre della stesso anno dall’allora mons. Ferreri. Il 22 maggio, quest’ultimo riunì una congregazione della quale faceva parte anche il padre provinciale Rattazzi ed il padre Repatta priore del convento di S. Stefano ed entrambi dell’ordine dei Serviti al fine di decidere sul futuro della parrocchia. Fu stabilito che la stessa si fissasse nella chiesa campestre di S. Maria delle Grazie con decreto di edificarvi un nuovo cimitero e avvisare prontamente i parrocchiani. In tale occasione l’abate Borgonzio, possessore del canonicato della cattedrale sotto il titolo di S. Filippo, insorse contro la decisione; e, poiché in quel periodo egli dimorava a Torino in qualità di auditore dell’Arcivescovo di quella città, fu incaricato della faccenda il dottor Cervelli suo procuratore, che sostenne la pretensione di S. Filippo sulla chiesa e parrocchia di S. Stefano (14 maggio 1728). Il 29 dello stesso mese anche il capitolo della cattedrale sostenne qualche diritto sulla medesima in vigore della cessione da lui posta in essere nel 1295 a favore dei padri Serviti. La congregazione si riunì nuovamente il 6 giugno e, poiché la chiesa non era ancora stata demolita, fu concessa temporaneamente ai Servi di Maria l’amministrazione della parrocchia di S. Stefano con l’assegnazione di un termine di sei mesi entro cui gli stessi avrebbero dovuto presentare le prove delle loro ragioni; in realtà i padri non si interessarono molto della cosa e le prove non venero mai prodotte. Intanto il dottor Cervelli, rappresentante dell’abate Borgonzio, riuscì tre giorni dopo a far riconoscere valida la sua istanza dal provicario di quel periodo. Al capitolo della cattedrale furono ugualmente concessi sei mesi per esporre le prove a proprio favore; nel frattempo il canonico di S. Filippo abate Bergonzio riuscì a formulare un documento riassuntivo dei suoi diritti e a farlo comprovare dal conte della Gravera, dal presidente della Giurisprudenza della Università regia Carlo Amedeo Sevale e dal Cottalorda. L’attestato può essere così riassunto: - la chiesa in discussione fu assegnata dal vescovo Ottone nell’anno 1178 non al capitolo della cattedrale bensì a uno dei sette canonicati antichi di Alessandria; - il capitolo non era in potestà di alienare la chiesa di S. Stefano ai padri serviti, quindi l’accordo del 1295 è valido solo se si considera come contratto di locazione e non come vera e propria vendita; - anche in caso di distruzione dell’edificio le ragioni della chiesa restano legate con gli altri canonicati designati da Ottone; - S. Filippo è uno dei canonicati più antichi della città e quindi più verosimilmente deve essere unito a S. Stefano. Il 14 settembre 1729 il cardinale Ferrei rovesciò completamente le carte in tavola. Avendo deciso per la costruzione nel centro di una nuova chiesa di S. Stefano, restava il problema della chiesa campestre di S. Maria delle Grazie; per provvedere alla cura delle anime di Valmadonna egli elesse un ecclesiastico nella persona del primo parroco Antonio Maria Francesco Volpini nativo di Quargnento che, però, già dal giugno del precedente anno vi risiedeva come incaricato dello stesso vescovo; per tutta la questione egli si rimetteva alla volontà del nuovo vescovo di Alessandria. In realtà l’atto di mons. Ferreri non fu riconosciuto dai padri Serviti, i quali, in questo periodo, cambiarono completamente politica: mentre prima avevano insistito sull’affidamento della parrocchia sostennero, poi, che la chiesa campestre non dovesse più servire a tali fine bensì dovesse diventare di diritto e di arbitrio del loro convento senza obblighi alcuni di celebrazione di messe. Tale il loro pensiero e le loro proteste durante la prima visita pastorale e al paese del 15 agosto 1731. Iniziò così un periodo oscuro per gli abitanti di Valle delle Grazie e riguardo della loro chiesa. I padri fecero il possibile per ostacolare l’operato dei primi parroci i quali spesso e sovente erano costretti ad accettare l’ospitalità delle famiglie visto che i Servi di Maria non permettevano al sacerdote di risiedere nella adiacente casa parrocchiale. Il nuovo vescovo Gian Mercurio Gattinara e tutta la curia vescovile si pronunciò il 10 marzo 1733 a favore del canonico di S. Filippo al fine di permettere al sacerdote secolare di poter regolarmente accedere a S. Maria delle Grazie. Ma nell’anno 1737 i padri Serviti ricorsero a Roma sostenendo che i parrocchiani della località potevano comodamente essere assistiti da altre chiese vicine e ottennero a loro favore la sentenza della Metropolitania di Milano del 3 marzo 1738. Si pensò allora seriamente alla costruzione di una nuova chiesa vista l’impossibilità di stabilirsi in S. Maria delle Grazie. Con atto del vescovo Gattinara del 22 aprile 1739 Valle delle Grazie fu eretta parrocchia. Molto si è discusso sul fatto, visto che alcuni sostennero che la parrocchia ebbe inizio nel 1729. Noi sappiamo come in quell’anno l’atto di mons. Ferreri non fu in effetti applicato e soprattutto esso riguardava non già la nuova chiesa di cui ora tratteremo, bensì ancora quella del XV secolo. Per qualche tempo durò l’incertezza sulla scelta del luogo ove dovesse sorgere la fabbrica, poiché alcuni volevano fosse edificata alla cascina Pavaranza, altri nel suo sito attuale. Prevalse la seconda opinione e venne acquistato il terreno sufficiente con permuta dalle Madri di S. Chiara che ne erano le proprietarie ed abitavano nella masseria “La Mantella” situata nella villa che agli inizi del nostro secolo veniva chiamata Maldini o Cora, mentre si provvedeva alla designazione di due massari o fabbricieri nell persone di Baudolino Brusone e Battista Riposio che avrebbero coordinato il lavoro. Si gettò la prima pietra l’8 novembre del 1739; in essa era scolpita l’iscrizione: “Deo, et Mariae 4 novembris 1739”. Essa segnava il giorno 4 poiché la funzione dovette essere differita; la costruzione fu, comunque, lenta e frammentaria. In un primo momento venne terminato solo il coro e la parte ove è collocato l’altare maggiore. La vigilia di Natale dell’anno 1740, benché mancasse la volta ed il tetto fosse costituito da tavole di legno, il quarto parroco don Stefano Amelotti, processionalmente accompagnato dalla località Colla, entrò a celebrare nella nuova chiesa, dopo averla benedetta. In quello stesso periodo fu terminata la casa parrocchiale che sarà riedificata nel 1815 e notevolmente ampliata dopo il 1830. I lavori di costruzione ripresero sotto la spinta del vescovo di Alessandria Giuseppe Tommaso De Rossi investito della carica il 18 luglio 1757; si provvide così a fabbricare il presbiterio mentre lo stesso vescovo mandava la sua benedizione alla nuova chiesa. Con vicende alterne, il lavoro riprese agli inizi degli anni ’70 rimanendo ancora: “ … ad arricciarsi, ad intonacarsi, a dar la coperta di calcina alle mura, acconciarsi le due cappelle, e a farsi il pavimento del corpo della chiesa …”. Nell’anno 1754 fu eletta la confraternita di S. Filippo Neri che durò fino al 1903. Con la dominazione dei Savoia giunsero anche le nuove cariche politiche e amministrative. Valle delle Grazie che fu per un periodo della sua storia Corpo Santo di Alessandria divenne contado nell’anno 1734. Fu investito del titolo di conte Sebastiano de’ Porzelli il giorno 14 del mese di gennaio. La cittadella fortificata Abbiamo già accennato come l’odierna configurazione del paese abbia avuto origini nel XVIII secolo. Il primo fatto importante per la nostra storia si verifica agli inizi del 1700 con l’abbattimento di Borgoglio. Lo stato maggiore dell’esercito savoiardo fece comprendere al re Vittorio Amedeo II come la guerra con gli spagnoli fosse stata così difficile e lunga anche per la mancanza ad Alessandria di una cittadella militare che sapesse resistere agli assalti nemici. Il re accettò il progetto dell’ingegner Bertola sulla costruzione di una nuova fortezza. Il problema maggiore rimaneva lo sgombero del quartiere ove avrebbe dovuto sorgere: la scelta cadde su Borgoglio. I nobili e le ricche famiglie si trasferirono nel centro della città; il problema ecclesiastico del convento dei padri Serviti e della parrocchia di S. Stefano fu risolto nel modo che abbiamo visto; della plebe e della gente più misera nessuno tenne conto. Sentiamo cosa disse al proposito lo studioso Santagostino: “ … molti degli abitatori di Bergoglio preesistente alla fondazione di Alessandria e cofondatrice al pari di altri quartieri, trasferirono i ‘domestici lari’ nelle valli di Santa Maria delle Grazie e di S. Bartolomeo concorrendo in tal modo ad una diminuzione della popolazione urbana”. L’A-Valle registra questo avvenimento: “Bergoglio aveva belle chiese, bei palagi, in cui risiedevano molte, ricche e nobili famiglie alessandrine: ma queste considerazioni non prevalsero all’utile pubblico e allo scopo generoso di innalzare un antemurale al paese e all’intera penisola, quindi fu compiuta la distruzione. Degli abitanti del quartiere i più agiati si trasferirono in città, al di là del fiume; la plebe, o perché si trovasse maggior vantaggio a collocarsi con meno dispendio e senza suggestione all’aperto, o allietata dall’amenità delle ubertose campagne e tranquille valli vicine, recatasi a stanza alla Madonna delle Grazie e S. Bartolomeo, fondando e dilatando quelle due borgate …”. Questi due paesi aumentarono dunque di popolazione e acquistarono via via le fisionomie attuali. D’altro canto l’aumento di popolazione è confermato anche nei libri parrocchiali visto che verso il 1730 il paese potè contare 750 abitanti e l’incremento continuò costante nel tempo fino a raggiungere i 1600 alla fine del secolo. Da una lettera ritrovata tra gli appunti del parroco don Bottazzi abbiamo potuto individuare il nome delle famiglie valmadonesi. La costruzione della cittadella ebbe del resto proprio anche motivazioni di tipo sociale. Si prese al balzo l’occasione per evacuare dalla città gran parte dei ceti sociali più miseri che si videro costretti a ripopolare i paesi vicini. Potremmo dunque affermare che il nucleo primordiale di Alessandria si disperse per le campagne d’intorno e il centro della città rimase appannaggio dei nobili e della borghesia. Il fenomeno sociale a cui si andò incontro diede origine a problemi molto gravi che il governo stentò a risolvere. La miseria attanagliava gran parte della popolazione della provincia: non era infatti raro incontrare sulle strade che portavano in città numerosi mendici che, espulsi dalla cittadella, non erano riusciti nemmeno a collocarsi nei paesi. Un primo tentativo di porre rimedio al triste fenomeno si formulò affidando ai braccianti disoccupati il lavoro della costruzione della cittadella stessa, che impegnò per anni numerosa mano d’opera. Come inevitabile conseguenza della miseria e delle ristrettezze economiche, si dilatò enormemente il fenomeno del brigantaggio e non solo quello più organizzato e più valido storicamente di Maino della Spinetta, ma anche quello degli agguati improvvisati, delle rapine. La strada che collegava Valenza con Alessandria venne presa di mira dai fuoriusciti, banditi di ogni genere. Ne subivano le conseguenze i numerosi mercanti e uomini d’affari che abbisognavano di collegarsi con le due città. D’altro canto tendeva ad espandersi in molti paesi della provincia il fenomeno completamente nuovo della “villeggiatura” delle ricche famiglie; Valle delle Grazie fu uno di questi. Abbiamo rintracciato alcune ville che furono adibite a residenza estiva per famiglie ducali, nobili, esponenti del clero e persino vescovi. Dunque l’ossatura della popolazione cominciava a spaccarsi nettamente in due. Da una parte la gente dedita all’agricoltura che risiedeva stabilmente in Valle e dall’altro alcune famiglie benestanti che vi dimoravano solo nei periodi estivi o in casi particolari. La battaglia di Bassignana Nell’anno 1742 la Spagna e la Francia tentarono di occupare i domini in alta Italia di Maria Teresa d’Austria. Con l’esercito asburgico, in difesa dei territori, si schierarono anche le forze piemontesi che nel 1745, tra le altre operazioni, perdettero il confronto diretto nella battaglia che si svolse tra le campagne di Bassignana. La città di Valenza in conseguenza di ciò cadde in mano ai franco-spagnoli. L’anno successivo al comando del barone Leutrum e agli ordini del principe Carlo di Baden Durlach, la casa Savoia riconquistò Valenza che si arrese all’alba del 2 maggio dopo tredici giorni di assedio e prima che le forze francesi del maresciallo Maillebois potessero giungere a soccorrere il governatore spagnolo D. Giovanni Scoques. Se quest’ultimo avesse previsto l’arrivo del soccorso, avrebbe certamente fatto un estremo sforzo per attendere il Mallebois. Questi dopo poche ore dalla sua resa compariva sulla collina di S. Salvatore; era ormai troppo tardi. La rivolta e i fatti del 1799 Sul finire del XVIII secolo il generale francese Napoleone Bonaparte discese in Italia per la sua prima campagna. Sappiamo bene come in quel periodo, vuoi per le idee giacobine ed illuministiche che ormai dalla Francia si diffondevano per tutta l’Europa, vuoi per le difficoltà economiche e la miseria di molti strati della popolazione, gli animi di tutti fossero in subbuglio. La conquista ad opera di Napoleone dei territori piemontesi fu la scintilla decisiva. Nella provincia come in altre zone si venne a creare una difficile situazione politica: da un lato gran parte degli intellettuali, dei borghesi, degli esponenti dell’alto clero si schierarono a favore del nuovo governo d’oltr’alpe; dall’altro le forze contadine dei paesi, aizzate dal piccolo clero (parroci rettori) insorsero in un moto reazionario contro la Francia. Le motivazioni di tale non felice periodo della nostra storia sono simili a quelle che avevano mosso le insurrezioni francesi della Vandea sei ani prima. Certamente si trattò del tentativo aristocratico di strumentalizzare le masse insoddisfatte dei contadini al fine di conservare un potere fortemente attaccato dai nuovi ceti borghesi. Il brigantaggio che già imperversava andò ad ingrossare le fila dei problemi che la nuova Comune di Alessandria dovette affrontare. Anche Valle delle Grazie visse la sua esperienza di rivolta. Mentre in un primo tempo le forze giacobine ebbero la meglio e fu eletto un sindaco come rappresentante comunale, successivamente agli inizi del 1799, grazie all’intervento del parroco e degli esponenti della aristocrazia che allora erano in paese, la popolazione contadina fu aizzata contro la Repubblica francese. Reggeva allora la carica di rettore della parrocchia don I. A. Bosio. Le famiglie si armarono mentre le campane suonavano a martello. Alla fine del mese di febbraio l’azione contadina reazionaria si concretizzò impedendo ad una staffetta del comune della città di raggiungere Valenza e “sequestrando” alcuni carri in transito carichi di legna. In effetti la situazione di Valle delle Grazie (nel documento relativo per la prima volta troviamo il nome di Valle della Madonna) era simile a quella della maggior parte dei paesi. L’insurrezione che interessò notevolmente le terre di Acqui, fu momentaneamente contenuta ma non certamente domata. Mentre il governo francese alimentava il malcontento popolare con i suoi eccessi, il partito “realista” dei monarchici lavorava attivamente nella clandestinità. Una tale situazione politica permetteva inoltre al brigantaggio di stabilirsi indisturbato nella zona, di organizzarsi e di prendere coloriture politiche. Sulle vie pubbliche della provincia i cittadini andavano incontro a grassazioni organizzate dai briganti in grado di camuffarsi da custodi della legge e imporre le loro rapine. Tutto ciò obbligò il generale Gruochy l’8 gennaio e il 1 febbraio a ordinare a tutti i cittadini la consegna dei lunghi coltelli da fodero e degli stiletti sotto pena di fucilazione per chiunque fosse trovato in possesso di tali armi. Parole al vento! La situazione continuò a surriscaldarsi soprattutto quando lo stesso Gruochy si mise “ … alla testa di una formazione imponente per domare gli insorti che spuntavan come funghi …”. Il 4 marzo il “cittadino vescovo” di Alessandria inviò con scarsi risultati una lettera a tutti i parroci della zona per tentare di calmare gli animi. La lotta contro il clero e la religione si ingigantì fino a raggiungere i limiti estremi di carcerazione per gli ecclesiastici e di deportazione per tutti coloro che potessero infastidire il regime. In realtà le belle e oneste intenzioni di uguaglianza, fratellanza, libertà stavano per essere soffocate dagli interessi economici dei facoltosi borghesi che escludevano dai vantaggi non solo l’aristocrazia ma anche la maggior parte della popolazione. In Valle delle Grazie i più accesi esponenti della rivolta monarchica furono arrestati, fra cui lo stesso parroco don Bosio sostituito in fretta e furia da don Giuseppe Spazzola che rimarrà in carica fino al 1825. Gli arrestati nel paese di nobile famiglia furono rei confessi condannati, privati di ogni loro ricchezza ed esiliati in Francia. Tra essi siamo propensi a sostenere che vi fossero alcuni componenti della famiglia De’ Porzelli. La continua tensione durò fino a quando le truppe austro-russe della Ii coalizione guidate dal generale Suvarov ebbero la meglio sulle repubbliche giacobine. In aprile anche il comune di Alessandria dovette arrendersi. Il bilancio di quell’ano per Valmadonna si può riassumere osservando che dai registri parrocchiali risulta che gli atti di morte del 1799 superarono tristemente la soglia del centinaio. L’ottocento politico e sociale Dopo l’avventura napoleonica di cui la eco maggiore certamente giunse in paese l’anno 1800 con la battaglia di Marengo, Valmadonna passò per l’ennesima volta sotto la dominazione dei Savoia. Il regno sabaudo riusciva allora ad avanzare timide pretese di unità d’Italia, ma soprattutto cercava di migliorare e di sviluppare nuove tecnologie, nuove industrie. Valmadonna visse così una propria “rivoluzione industriale” intendendo con ciò non tanto lo sviluppo delle fabbriche che non toccherà mai il paese, quanto la costruzione di nuove strade e il miglioramento delle vecchie, l’edificazione della ferrovia, la nascita di alcune istituzioni sociali. La linea ferroviaria Alessandria-Milano che interessò il sobborgo fu attuata alla fine degli anni cinquanta. Tra il 1853 ed il 1857 venne eseguita la galleria Valmadonna-Valenza con l’impiego di sterratori provenienti dal biellese e di muratori svizzeri. Il lavoro incontrò, però, numerose difficoltà per la natura del terreno che diede luogo sa numerosi smottamenti e a numerose polle d’acqua. Le prime imprese, a causa di alcune vittime, si videro costrette ad interrompere ed abbandonare l’opera. Il cambio di gestione determinò tentativi di riduzione di salari che provocarono dei fermenti tra gli operai con relative minacce di sciopero. Intervenuta la forza d’ordine per sedare gli animi, fu arrestato uno dei dipendenti che venne condotto dal delegato del sobborgo Giovanni Amelotti. L’atto accese la miccia: tutta la maestranza iniziò uno sciopero in segno di protesta. Il delegato, di fronte alla posizione degli operai, comprese la pericolosità della situazione e ottenne la liberazione dell’arrestato rendendosi garante e responsabile della ripresa del lavoro: la contestazione fu placata, i salari non diminuirono e l’opera venne ultimata senza ulteriori intoppi visto che ormai il lavoro più duro e pericoloso degli scavi era stato ultimato. Risale a quell’epoca, e cioè al 1857, la costruzione della stazione ferroviaria. Le ragioni della spinta data dal primo ministro torinese Cavour all’ingrandimento della rete ferroviaria sono note a tutti: di lì a poco, due anni, sarebbe iniziata la guerra contro l’Austria che portò alla cessione della Lombardia alla Savoia. Proprio nel 1859 le colline di Valmadonna e di Valenza videro le truppe austriache in rotta verso il milanese. Il XIX secolo fu per gli abitanti del sobborgo un secolo di evoluzione tecnica e sociale; il complesso economico, legato strettamente alla coltura della vite, si perfezionò ed il commercio intensificò notevolmente i propri scambi. Nell’anno 1872 sorse la “Società di mutuo soccorso” la cui attività fu determinante per alcune conquiste sociali quali la condotta medica, la scuola serale, la fiera bovina, la cooperativa di consumo e la biblioteca sociale. L’apertura nell’anno 1896 del ponte sul Tanaro, in località degli Orti, contribuì a facilitare l’opera di comunicazione. Negli anni dal 1898 al 1901 il paese fu colpito dalla distruzione quasi totale dei suoi vigneti a causa dell’epidemia della filossera. Fu un Tamburelli della regione Quattremola che, per avere consigli sul grave problema che rischiava di distruggere completamente l’economia del paese, inviò al comizio agrario uno dei ceppi di vite che intristivano, ed essendo rivelata dal professor Berti, reggente della cattedra di agraria al regio istituto tecnico, l’infezione della filossera, venne disposto il rimedio del trapianto che danneggiò gravemente i viticoltori del paese a causa dei prezzi di ristrutturazione molto elevati ma che permise finalmente la ripresa della produzione. Infine, durante l’ultimo scorcio del secolo, si vissero i problemi politici ed economici del secondo governo Crispi che fecero scoppiare manifestazioni di protesta per tutta la regione; emblematica e più cruenta di tutte fu quella di S. Salvatore. L’ottocento religioso Dalla seconda metà del 1700 la chiesa campestre di S. Maria delle Grazie passò alle dipendenze della parrocchia del paese ma, purtroppo, dell’edificio non ci sono rimaste tracce. Da una visita pastorale del 1767 apprendiamo ancora la sua esistenza; con molta probabilità essa fu abbattuta alla fine del XVIII secolo, visto che nel 1799 si provvedette alla fusione di due nuove campane che vennero unite a quella antica della chiesa campestre. Nell’anno 1813 fu ultimata la costruzione del campanile attuale. Da alcune relazioni annuali alla curia del parroco don Spazzola, risulta d’altra parte che la chiesa “vecchia” di S. Maria delle Grazie sarebbe stata abbattuta per ampliare nel 1816-1817 la casa adiacente di proprietà di una famiglia francese, ma non abbiamo ulteriori conferme. Un’altra importantissima data per la chiesa è il 1885, quando, cioè, la contessa Costanza De’ Porzelli moriva a Torino lasciando, come risultò dal testamento, lire 20.000 per la costruzione della facciata e la ristrutturazione interna dell’edificio sacro. I lavori iniziarono sotto la guida del parroco don Andrea Vescovi e l’opera fu data in appalto all’impresa Rosati Cerfetti di Alessandria. Lo stesso anno i lavori si conclusero con la realizzazione del prolungamento della chiesa, la costruzione della cupola centrale, il rifacimento del tetto e del pavimento in pianelle in cemento. La facciata, realizzata dalla stessa impresa, fu ideata su un progetto dell’ingegner Ferrarsi conte di Orsara. L’interno della chiesa venne ridipinto ad opera del pittore Pessina. Di maggior valore artistico furono comunque gli affreschi dell’Assunta e dei quattro Evangelisti nella nuova cupola ad opera del Morgari. Per tutto il secolo, i lavori di ripristino continuarono; citeremo i più importanti. Nel 1888 fu rifatta l’orchestra, nel 1890 il vecchio organo, che presumibilmente risaliva al secolo precedente, venne sostituito da un nuovo modello di fabbricazione della ditta Mentasti di Barese, composto da 992 canne. Anche il campanile nel 1899 ebbe il suo restauro e fu accresciuto di due nuove campane con castello di ghisa. Nel campo sociale ricordiamo, grazie all’intervento della parrocchia, la costituzione nel 1896 della “Società cattolica di mutuo soccorso e cassa rurale di Valmadonna”. Soprattutto da citare nel 1892 la creazione dell’asilo infantile che cominciò a funzionare in locali provvisori l’anno seguente. Altre chiese e cappelle sul territorio Sul territorio di Valmadonna sorsero e, in parte, sorgono tutt’ora numerose chiese e cappelle minori che possono interessare per approfondire il nostro discorso, e per meglio comprendere le abitudini degli abitanti. Il Chenna fece riferimento ad alcune costruzioni di cui, però, si è perso completamente ogni traccia. Egli parla di una “… cappella dei SS. Francesco da Paola e Teresa, alla Panza edificata nel 1747” e “… della Assunta alla Colla …”. Antichissima, inoltre, sarebbe quella “… di S. Vittore che trovasi registrata nei cataloghi del 1350: Ecclesia S. Victoris de Bergoglio, di cui fu eretto un canonicato nella erezione della collegiata di S. Pietro …” ma che, purtroppo, non è giunta sino a noi. Acquista rilevanza storica la chiesa oggi chiamata della Madonna di Lourdes nella località Valmilana presso il campeggio; già il Chenna la indicò con il suo nome primitivo: “S. Bernardo alla Milana”. Una piccola chiesa gotica è adiacente alla villa Scrivana già di proprietà dei conti Cavasanti e dei visconti Prasca; è interessante sottolineare che la chiesa fu adibita, durantel aguerra del 1915-18, ad ospedale di riserva. Sulla strada Costanza, dal nome della contessa De’ Porzelli, esiste una cappella gentilizia a cui fu aggiunto un pilone dedicato all’Immacolata che risale al 1826, indi restaurato nel 1926 ad opera di Bartolomeo Cova. La villa in cui si trova la cappella è l’odierna villa Moraschi, residenza dei conti Porzelli che per oltre un secolo ressero le sorti del paese. Nel 1860 il canonico Berta di Alessandria fece costruire una cappella personale dedicata a S. Domenico adiacente alla propria villa nella località di Valle Quarta. La stessa cappella prese poi il nome della Madonna del Carmine. Di maggiore interesse storico è la chiesa della “Madonnina del freddo”. Il suo vero nome è Madonna di Loreto; eretta nell’anno 1882 è posta sulla strada per Valenza. Prima di tale data trovava ubicazione nello stesso punto un pilone su cui era stata dipinta, in un tempo che non possiamo precisare e probabilmente da un domenicano di passaggio, la Madonna di Loreto. Intorno al 1850 Valmadonna fu colpita da un’infezione di febbre malarica che era preceduta da un forte attacco di brividi. Si consolidò la leggenda che chiunque affetto dal male macinasse un poco di calce o di sabbia del pilastro e possibilmente di quella in cui era dipinta l’immagine sacra e quindi, dopo averla raccolta in un sacchetto di tela, la portasse al collo per alcuni giorni, sarebbe miracolosamente guarito. Di qui il soprannome “del freddo”; era poi d’uso riportare lo stesso involucro intorno alla colonna come voto. Nell’anno 1882 il canonico Lorenzo Garrone della collegiata di S. Lorenzo in Alessandria acquistò il terreno su cui si trovava l’effigie della Madonna e vi edificò una piccola chiesa che doveva servire per le funzioni estive. Il pilone, in origine rivolto verso oriente, fu spostato e girato verso mezzogiorno per poter creare il sedime necessario alla nuova fabbrica. Il 2 agosto 1886 il vescovo di Alessandria mons. Giocondo Salvaj benedisse la chiesa e presiedette, con la collaborazione del parroco, alla Via Crucis. La cosa, comunque, non piacque molto alla popolazione e quando il 18 ottobre 1887 lo stesso vescovo tentò per la seconda volta di intromettersi, tutti lo disertarono. Il canonico Garrone organizzò per quella data una cresima generale, ma tutto il paese rifiutò di mandare i propri figli per essere cresimati; il vescovo dovette accontentarsi di due ragazzi di Alessandria chiamati appositamente dallo stesso canonico. Il 9 marzo 1889 moriva in Alessandria il Garrone e con suo testamento olografo del 21 ottobre 1887 stabilì che il santuario venisse goduto per il futuro dai padri Passionisti e, in mancanza di costoro, che venissero sostituiti dai padri Cappuccini, ed infine, pure in mancanza dei secondi, in eterno da un padre sacerdote designato dal vescovo ordinario pro-tempore. La disposizione del testamento fu però giudicata nulla e gli eredi legittimi si disposero ad alienarla. Il diciassettesimo parroco di Valmadonna don Andrea Vescovi (1881-1905) intimo della famiglia, appoggiò la tesi che la chiesa fosse destinata al culto pubblico in quanto edificata in parte con le elemosine del paese. All’anno 1929 la chiesa con l’annessa casa ottocentesca appartenne al signor Guerci ma non sappiamo in che maniera possa essere a lui pervenuta. Al signor Guerci successe la famiglia Bue. Ricordiamo infine che sulla statale che collega valenza con Alessandria, poco distante dalla casa detta “croce bianca”, sorge un pilone dedicato all’Assunta, della quale porta l’effigie sul lato anteriore; sul lato sinistro ospitava una pittura di S. Domenico e sul destro la figura di S. Carlo; queste ultime due sono state coperte da un restauro. Tutti e tre i dipinti sono stati attribuiti al pittore Gambini. Al centro dell’abitato, all’imbocco della strada della chiesa, si erge una cappella la cui costruzione risale circa al 1860. Ebbe origine da un voto fatto da Andrea Ponzano in favore di suo figlio che fu dichiarato disperso nella guerra di Crimea; l’affresco che rappresenta l’Addolorata è stato restaurato da Piergiorgio Amelotti. Antonello Zaccone