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cenni storici - Diocesi di Alessandria

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cenni storici - Diocesi di Alessandria
Parrocchia Beata Vergine Assunta
L’origine dell’attuale località conosciuta sotto il nome di
Valmadonna è da porre in relazione alla nascita delle città di
Alessandria e Valenza e, in particolare, alle vicende delle comunità
di Borgoglio e di Astigliano.
Se tutti sono concordi nell’affermare che Borgoglio fosse una delle
terre più antiche della zona, aride e scarse sono, di contro, le
notizie a noi pervenute in proposito. Circa il nome l’opinione più
accreditata è quella dello storico alessandrino Ghilini il quale fa
derivare il motto “Borgoglio” da una corruzione di “borgo” con cui,
secondo le usanze locali, si soleva denominare un piccolo territorio;
è quasi certo che l’antico quartiere si trovasse ai piedi della collina
lungo la strada per Valenza ma risulta difficile ritrovarne la
collocazione precisa.
Anche potenti e ricche famiglie vi avevano residenza fissa; dal
momento, però, in cui furono terminate le fondamenta di
Alessandria nel XII secolo, le stesse, seguite più lentamente dalla
popolazione meno agiata, demolirono le loro antiche case e
contribuirono a fondare più nobile patria sulla sponda sinistra del
Tanaro dove ancora oggi sorge la cittadella fortificata. Poco o nulla
abbiamo appreso dalle cronache se non che ai tempi della Lega
anche gli abitanti di Borgoglio trascinati nel momento storico
proclamarono la riconquistata libertà.
Potremmo quindi immaginare che l’antica Valmadonna facesse
parte dell’antico quartiere, anche se certamente l’origine
dell’odierna configurazione del paese è di più recente epoca. Nei
primi secoli da noi trattati esso riveste quindi solo un carattere di
sobborgo o, meglio, di cascine sparse che corrispondevano alle
prerogative del tempo feudale.
Anticamente la località ove sorge Valmadonna era d’altra parte
chiamata col nome di “Astigliano”, denominazione che mantenne
sino al XV secolo.
Parlando di Artigliano occorre rifarsi alla storia della città di Valenza
suddivisa in origine nei tre sorti (borgo, quartiere) di Artigliano,
Bedogno e Monasso; nomi questi di località preesistenti a Valenza
stessa.
Astigliano era verosimilmente un borgo molto antico, posto in
direzione sud-ovest, che successivamente, per le stesse ragioni
viste a proposito di Borgoglio, si sistemò verso le rive del fiume Po.
In epoca più recente esso venne a far parte integrante della città do
Valenza, ma il nome rimase a denominare la valle ai piedi del
monte di Valenza, oggi chiamata Valmadonna. Di Artigliano, infatti,
parlano gli statuti di Borgoglio quando si trattò di ampliare una
strada, come pure quando si dovette costruire un fossato e si
ordinò che arrivasse “… sino alla via che va ad Astigliano …”.
Si può quindi pensare che la prima congregazione che in futuro
avrebbe dato origine al paese qual è oggi sia stata formata da
componenti dai ceti più disagiati di Artigliano e Borgoglio i quali,
non essendo in grado di trasferirsi nelle nuove città, vi presero
dimora sostenendosi principalmente con la coltura delle viti.
In quanto alla determinazione dell’epoca di origine siamo propensi a
collocarla attorno al XI e XII secolo sempre convinti, però, che il
trasferimento non fu netto e immediato, bensì lento e costante nei
tempi.
Le città-repubblica e i Marchesi di Monferrato
Nel XII e XIII secolo l’Italia vide l’avvento delle città-stato
politicamente indipendenti. Troppo spesso, però, si sono considerati
i comuni come i rappresentanti degli interessi mercantili della
nascente borghesia, dimenticandosi che essi, come un qualunque
signore, cercavano di affermare sul vicinato la loro potenza e il loro
dominio.
L’imposizione dell’autorità comunale sul contado (dal latino
comitatus) aveva, per lo più, un’ovvia frontiera da raggiungere: il
confine diocesano. I movimenti che spinsero i comuni ad una simile
politica furono essenzialmente due: in primo luogo, l’esigenza di
imporre tributi a na più grande popolazione e di reclutare nuove
truppe, in secondo luogo, la volontà di assicurarsi incette di
granaglie e viveri per la città.
Tuttavia l’apparente vittoria del comune nei confronti della società
feudale non fu certamente una “conquista militare” a opera delle
milizie civiche. È vero che sovente si assisteva all’assedio vero e
proprio dei castelli, ma la sottomissione del feudatario normalmente
si otteneva per effetto delle minacce e delle azioni intimidatorie e
forse, più che sottomissione, si dovrebbe meglio parlare di trattato
di alleanza. Inoltre, la struttura medievale del castello visto come
centro delle cellule sociali non venne del tutto abbandonata e in
alcune regioni, quali il Piemonte, essa rimase viva e attiva per
molto tempo ancora.
Non bisogna dimenticare, poi, che la potenza e la ricchezza di una
famiglia cittadina era in gran parte dovuta alle terre che possedeva.
Il fenomeno di acquisizione su larga scala delle terre da parte degli
abitanti della città fu, più che “un ritorno alla terra” come qualcuno
affermò, un accrescimento di potere all’interno delle mura.
La popolazione della campagna era giuridicamente posta ad un
livello inferiore dei cittadini optimo iure. I comitatini (così venivano
spesso appellati) prestavano fedeltà in perpetuum alla città,
sottostavano ai bandi, agli editti, agli statuti, alle ordinanze, alle
decisioni, ai decreti e agli ordini del comune. Le alte autorità
giurisdizionali potevano risiedere solo in città e solamente ad esse i
comitatini potevano rivolgersi per chiedere giustizia.
L’antica e radicata struttura sociale del vassallaggio danneggiava e
in un certo qual modo contraddiceva le pretese del comune che
mirava a scalzare il potere politico del signore feudale. Per questa
ragione nel XIII secolo le città-repubbliche iniziarono la loro
campagna di liberazione dei servi della gleba che incise
profondamente sul modo di conduzione delle terre.
Nonostante il mobilissimo intento, però, il fenomeno non contribuì a
migliorare la situazione delle classi sociali inferiori; anzi, tale
liberazione poneva i contadini alla mercè di un proprietario ben più
esigente del precedente: il mercante cittadino che produce per il
mercato. Giuridicamente emancipati, essi avrebbero avuto bisogno
di una autonomia economica che non possedevano per tentare di
risalire la china dell’affermazione sociale.
L’amministrazione comunale sulle aree rurali si realizzò
suddividendo le zone in dipartimenti a capo delle quali venne posto
un funzionario municipale. I comitatini avevano l’obbligo di fornire
alla città la fanteria per la difesa e i prodotti dell’agricoltura per
l’approvvigionamento.
“ … Normalmente ciascun comune prescriveva che le varie aree del
contado consegnassero il grano entro una certa data. Questa
impositio grave si applicava a tutti i territori coltivati a frumento, ed
era calcolata in base alla resa media delle singole comunità rurali (o
talvolta in base al numero delle coppie di bestie da giogo) … Il
marchese di Monferrato stabilì sul Piemonte una signoria (…) che
può servire ad illustrare definitivamente il tipo di stato che intorno
alla metà del XIII secolo sostituì l’indipendenza municipale in gran
parte dell’Italia settentrionale. La dinastia di cui si tratta in questo
caso era potente e antica, storica, famosa per le sue imprese alle
Crociate, e il nucleo principale delle sue terre era nel Piemonte
meridionale, tra la pianura e la Liguria. Alessandria (…) era stata
sotto la protezione di questi marchesi (sin dalle origini); già prima
del 1200 uno di essi ebbe il titolo di dominus della città, avendolo
investito Enrico VI della metà dei diritti imperiali su di essa. Ma la
prima estensione della signoria a un certo numero di comuni fu
attuata dal marchese Guglielmo nei tre decenni dopo il 1260. Più
che una vera e propria signoria egli fondò un estesissimo dominio
feudale. Dopo aver cominciato come capitano e “signore” di
Alessandria, Tortona e Acqui (1260), egli annettè Ivrea nel 1266.
(…) Persa Alessandria nel 1262, la riebbe solo nel 1278 (come
capitano, per quattro anni) insieme a varie altre città, tra cui
Vercelli che lo nominò ‘capitano di guerra’ per dieci anni (…). A
partire dal 1278 fu per cinque ani capitano di una grande coalizione
che andava da Torino a Genova a Como, Mantova e anche Verona.
Continuò a fare collezione di signorie: Milano; nuovamente
Alessandria, che gli conferì plenum arbitrium in perpetuum; Como e
Vercelli che lo nominarono entrambe capitano a vita; e vari altri
paesi minori …”.
Durante questi secoli la nostra storia è caratterizzata e influenzata
dai marchesi del Monferrato. Un documento del 1202 (25 agosto) ci
conferma che essi vennero in possesso della terra di Astigliano che
conservarono con alterne vicende fino al 1290.
Una alleanza discussa
Lo storico G. A. Chenna afferma che “ … se la Valle Gratiae in cui fu
stipulato a dì 25 agosto un istrumento (…) tra il marchese di
Monferrato e gli alessandrini, fosse stata questa medesima (cioè di
Valmadonna), antica certo strenne la sua denominazione …”. Si
farebbe con ciò risalire a tale epoca l’appellativo de Valle delle
Grazie dato a questo territorio; occorre però elevare tutte le nostre
riserve a tal proposito visto che già lo stesso Chenna si confessa
dubbioso della sua affermazione.
Agli inizi del 1200 cresceva di giorno in giorno la potenza degli
alessandrini, rafforzata maggiormente dalle numerose alleanze
condotte a termine con le potenze vicine, in special modo con
Milano, Piacenza e Vercelli. Non ultimo l’accordo sottoscritto con il
marchese Bonifacio di Monferrato l’8 marzo 1202.
L’anno seguente lo stesso marchese partì per la crociata in Terra
santa e ad amministrare le sorti del marchesato rimase il figlio
Vermo, il quale, non pago della precedente alleanza con gli
alessandrini e timoroso del continuo aumento della potenza
comunale, volle riconfermare l’amicizia con nove donazioni che si
possono così sintetizzare:
a. donazione di metà di Sezzé, di Ritorto, di Castelnuovo, dei due
Carpenti e Tremolino unitamente ai beni di pesca e di caccia
che il marchese possedeva in quei luoghi;
b. rinuncia a tutti i diritti sopra gli antichi territori su cui venne
fondata Alessandria con promessa di far confermare tale
rinuncia mediante giuramento dei rispettivi marchesi Bonifacio
di Clavesana, Manfredo di Saluzzo e Ottone del Bosco e dagli
esponenti della sua curia che Alessandria avesse desiderato;
c. rinuncia a qualunque diritto sugli alessandrini e riguardo delle
regalie (spina nel fianco del comune), per l’elezione dei consoli
e dei podestà;
d. impegno del marchese ad esercitare pressioni sul vescovo che
risiedeva ancora ad Acqui contro la volontà dello stesso
Pontefice.
L’atto formale fu stipulato dal marchese Vermo, da Guidone da
Piovera console di Alessandria e Ghisulfo Acerbo, ambasciatore
della stessa città. Le condizioni furono certamente favorevoli ad
Alessandria che in quel periodo cercava soprattutto la pace per
poter consolidare la posizione politica conquistata.
Il nostro problema rimane comunque la località in cui si concluse
formalmente l’accordo. Il Ghilini afferma che al pace si ratificò nella
“Valle della Grana” dove Vermo dimorava nella stagione estiva del
1203. Successivamente lo stesso Ghilini all’anno 1645 indica che
nella Valle della Grana è situato Montemagno da cui concludiamo
che tale località trovasi a nord della odierna città di Asti. Anche
ammettendo, il che è del tutto fantastico, che la regione di
Artigliano si estendesse fino alla località di Montemagno, la
denominazione di “Valle Gratiae” è del tutto inverosimile.
Può darsi che il Chenna si confonda con la presenza al confine sudovest della città di Valenza di una località denominata “Motta di
Grana” come risulta da una cartina de 1656 completamente
estranea al luogo in cui fu firmata l’alleanza.
La battaglia dell’inferno
Durante tutto il XIII secolo la regione dell’alessandrino fu
travagliata dalle lotte tra la fazione guelfa fedele al Sommo
Pontefice e la fazione ghibellina sostenitrice dell’Imperatore.
In linea generale i due partiti erano rispettivamente spalleggiati dai
duchi di Milano e dai marchesi del Monferrato, impegnati entrambi
per il controllo delle signorie. In realtà le più importanti e ricche
famiglie del luogo erano equamente divise e di volta in volta gli
indirizzi politici cambiavano di orientamento. Valenza confessava,
inoltre, un debole per il partito guelfo anche se di li a poco si
sarebbe ribellata all’amministrazione milanese.
Tra il 1284 e il 1289 Alessandria godette di un periodo di relativa
calma e di discreto benessere; furono introdotte riforme e nuove
leggi in particolar modo per ciò che concerne i costumi e la morale
che andavano via via degenerando. Dopo alcuni anni di abbondanza
comunque la città dovette affrontare momenti difficili di carestie e
di peste. Il 3 aprile 1287 Alessandria ottiene il privilegio di
rappresentare il proprio capitolo al concilio provinciale di Ottone
Visconti in Milano.
Nel giugno del 1289 Guglielmo marchese di Monferrato cominciò
rapidamente ad estendere il suo territorio grazie anche all’aiuto di
numerosi fuoriusciti alessandrini. I guelfi della città venuti al
corrente della situazione si fortificarono in Bosco coscienti che non
avrebbero potuto instaurare una difesa tra le mura della città se
non dopo una lotta cittadina contro le famiglie ghibelline favorevoli
a Guglielmo. Quest’ultimo, dopo aver inutilmente cinto di assedio il
Bosco, ripiegò sopra Alessandria e riuscì ad entrarvi coadiuvato dai
ghibellini rimasti. Da essi ottenne la sottomissione della città.
Le forze fedeli al Papa non rimasero però inattive. I Visconti
strinsero alleanza con le città di Cremona, Piacenza ed Asti contro
la prepotenza del marchese. La città di Asti strinse
contemporaneamente un accordo con gli alessandrini del Bosco
mediante il quale questi ultimi avrebbero ricevuto 35.000 fiorini se
avessero permesso agli artigiani di sorprendere alle spalle il
nemico; e così avvenne. Appena il marchese fu informato della
trama ordita ai suoi danni mosse il suo esercito contro la città al
fine di ridurla all’obbedienza per la seconda volta. Gli alessandrini
organizzarono di conseguenza un esercito comunale capeggiato da
Alberto Guasco d’Alice uomo di grande esperienza militare ed
amato da gran parte dei suoi cittadini. Egli entrò animosamente nel
Monferrato saccheggiando e rovinando le coltivazioni con “libertà
militare”.
Le due armate si scontrarono nei pressi di Castelletto e San
Salvatore mentre, in rispetto dell’accordo, gli artigiani e gli altri
alleati giunsero alle spalle del marchese. Dopo una cruenta
battaglia l’esercito monferrino ebbe la peggio e lo stesso Guglielmo
cercò scampo nella fuga, ma inseguito dal Guasco venne catturato
due giorni dopo (il 12 settembre 1290) e portato in prigione nella
città ove rimase rinchiuso e abbandonato fino alla morte.
La storia della sua cattura risulta controversa e leggendaria. Il
Ghilini narra che egli fu catturato per mezzo di una catena d’oro che
lanciata dal Guasco lo strinse al collo e, rinchiuso in una cava di
legno situata sotto il Pretorio di Alessandria, vi rimase diciassette
mesi. Altri autori lo vollero appeso ad una gabbia all’alto del Palazzo
dei Governatori. Guglielmo Ventura e Benvenuto di S. Giorgio
affermano infine che il marchese non fu catturato dopo la fuga,
bensì dopo essere entrato, volontariamente e noncurante del
pericolo, in città.
A parte la meccanica della morte del marchese sta di fatto che,
sconfitto Guglielmo, Alessandria poté cominciare a consolidare la
propria potenza con più libertà. Con Guglielmo termina anche la
prima fase della nostra storia, una fase caratterizzata dall’influenza
preponderante del Monferrato, dalle lotte intestine per l’espansione
cittadina e dalla nascita embrionale delle cascine di Valmadonna.
Nel 1347, infatti, S. Salvatore e Pietramarazzi passarono sotto
Alessandria e con essi anche il territorio di Artigliano.
Concludiamo soffermandoci sul giudizio negativo che speso e
volentieri si è dato al marchese di Monferrato limitandoci a riportare
i versi che dante Alighieri sentenzia nel canto VII del Purgatorio:
“ … Quel che più basso tra costor s’atterra,
guardando in suso, è Guglielmo Marchese,
per cui Alessandria e la sua guerra
fa pianger Monferrato e Canadese”.
La configurazione del territorio
Una domanda che possiamo porci è questa: il territorio di
Valmadonna apparteneva ad Alessandria o a valenza? Occorre
subito premettere che si trattava di terra di confine, ragion per cui
il nostro lavoro riguarderà la storia di entrambe le città. Quasi
certamente essa rientrava nel territorio di Borgoglio confinante con
Valenza e San Salvatore.
La linea di frontiera fra le due maggiori città fu per molto tempo
questione delicata e difficile da risolvere. Con Alessandria, Valenza
non ebbe problemi politici, in quanto dal XIV secolo entrambe
appartenevano ai Visconti di Milano, bensì di natura giuridica per
l’accertamento del diritto di esigere le taglie comunali, d’imporre
obblighi comunali, ecc. Gli alessandrini sostennero per lungo tempo
che il limite fosse segnato dalla strada detta “della Serra”. Di contro
il comune di Valenza disconosceva tale confine asserendo che il loro
territorio si spingeva oltre la Serra, in una via appunto chiamata
“via oltre Serra”.
Intorno al 1561 per risolvere la questione fu persino chiamato da
Milano un commissario delegato a fare una ispezione oculare, il
quale si pronunciò a favore degli alessandrini. I valenzani
rifiutarono la decisione e il 2 giugno dello stesso anno furono riunite
le deputazioni dei due comuni per la ricognizione dei veri confini e
ciò che fu rogato dal notaio Paolo Del Pero ci interessa
direttamente: “Super territorio oppidi valentie videlicet super strata
serre dicti Territorii ubi dicitur ultra serram ad astilianum prope
confinia loci S. Salvatoris cui coherent a parte versus alexandriam
ultra dictam serram heredes condam n; Dominaci Bombelli seu
habentes ius et causam ad eis et citra ipsam stratam versus
valentiam iura prepositure S. Mariae Maioris dicti oppidi valentiae et
continuatio dicte strate serre siue ect.”.
Problema più difficile per l’ubicazione di Valmadonna si presenta
nell’affrontare le delimitazioni di S. Salvatore con Valenza a nordest, poiché in questo caso si trattava di confini di stato, in quanto
S. Salvatore appartenne, in un primo momento, al territorio del
Monferrato.
Nel 1442 si dibatteva una grossa vertenza per i limiti territoriali. Si
erano accordati il duca di Milano e il marchese per risolvere
pacificamente la controversia. Milano aveva nominato suo
commissario Agapito di Lanfranchi, Guglielmo di Montiglio fu vicario
della controparte.
Lo storico Gasparolo afferma, sulla base di una testimonianza
contenuta in un volume sull’operato dei commissari, che a
designare i confini vennero poste delle croci, e che una di esse fu
insalata al bivio che dava per una parte alla pieve di Astigliano (il
che conferma le veridicità del nome antico di Valmadonna) e per
l’altra al poggio di Primo.
Nel XV secolo esisteva dunque la pieve di Artigliano e, come
afferma il Chenna, tale chiesa parrocchiale, forse insieme ad altre,
apparteneva alla diocesi di Pavia come si apprende da una Bolla
dell’11 maggio 1217 di Onorio III nella quale si confermavano a S.
Folco vescovo di quella città parecchi monasteri e varie chiese e
parrocchie fra cui quelle “ … verso Alessandria con gli abitanti del
territorio di Artigliano con le chiese annesse …”. Delle antiche
chiese di Astigliano, comunque, non abbiamo altre notizie
documentate.
Il convento dei padri Serviti in Borgoglio
I “Servi di Maria” giunsero ad Alessandria nell’anno 1280 e si
ricoverarono nel quartiere di Borgoglio in una casa vicina alla porta
del ponte sul fiume Tanaro. Lo stesso anno fu loro concessa una
piccola chiesa con il titolo di San Bernardo. Le maggiori fonti
riguardanti i padri Serviti sono contenute nei loro annali, curati per
un periodo di tempo dall’annalista padre Giani che avremo
occasione di citare altre volte.
Il 25 febbraio 1287 la gentildonna Marzia Gallina dopo “ … aver
preso l’abito di Maria Vergine dei Padri dell’ordine dei Servi …” donò
loro un terreno attiguo alla chiesa di Santo Stefano per fabbricarvi
un convento; rivestiva la carica di priore Uberto Crista.
Nel 1295 i parrocchiani di Santo Stefano pregarono l’Arcidiacono ed
il Capitolo della Cattedrale di concedere la loro chiesa ai Servi
unitamente agli edifici annessi e ai fondi ed essa appartenenti, al
fine di erigervi un convento (da ciò si comprende che il terreno loro
ceduto nel 1287 non era ancora stato utilizzato per lo scopo) e
provvedere alle funzioni religiose.
Della vecchia chiesa di S. Stefano si fa menzione in una Bolla di
Alessandro III del 14 aprile 1162; indi, unitamente a quelle di S.
Maria e di S. Pietro, dovette essere trasferita nel nuovo Borgoglio
più vicino al Tanaro. La chiesa fu poi assegnata dal vescovo Ottone
al Capitolo della Cattedrale nel 1178.
L’arcidiacono Ascherio accolse l’istanza dei parrocchiani e, col
consenso del Capitolo, trasferì S. Stefano ai padri Serviti nella
persona del priore provinciale Percivallo sotto condizione di non
permutarla, alienarla o sottometterla ad altro ordine.
I Serviti si stabilirono dunque in Borgoglio dove esplicarono il loro
operato; successivamente, come vedremo, in Valmadonna verrà
creato un ulteriore piccolo convento nel XV secolo.
L’assedio di Valenza del 1370 e i fatti di Beccaria
Nell’anno 1347 in una chiesina di S. Giorgio di Monasso, Valenza si
sottomise al marchese di Monferrato disconoscendo la tutela della
famiglia Visconti di Milano che aveva avuto inizio nel XIII secolo; in
effetti i valenzani non avevano gradito molto la dominazione
viscontea e preferirono il governo del più vicino Monferrato. Milano,
però, non rimase a guardare e nel 1370 alla guida di Giov. Galeazzo
cinse d’assedio la città e, come sempre in questi casi, i terreni
circostanti subirono le conseguenze nefaste dell’impresa. Dopo dieci
mesi di disperata resistenza la città si arrese “ … per non morire di
fame …”.
Quando, successivamente, al trono ducale salì Gian Galeazzo,
Alessandria e Valenza si trovarono sempre più in una situazione
disperata per le troppe onerose gabelle milanesi che non
permettevano loro nessun investimento in campo civile. Nel mese
di luglio del 1392, gli alessandrini impugnarono le armi e
saccheggiarono il Duomo della città per protesta contro il Governo
finendo, poi, per bruciare sulla stessa piazza documenti e libri tra i
più importanti della storia cittadina. Di lì a poco l’esempio venne
seguito dai valenzani, mentre Gian Galeazzo, per timore che la cosa
potesse provocare una sommossa più generale, inviò cinquecento
cavalieri a ristabilire l’ordine. Ma se, ricordandosi ancora dell’aiuto
da essa dato contro i francesi, fu disposto a perdonare Alessandria,
condannò invece Valenza a fabbricare a sue spese, nel mese di
agosto dello stesso anno, una rocca che dominasse il territorio
circostante.
Ricordiamo, infine, che negli anni dal 1413 al 1415, Panzarotto
Beccaria, signore di S. Salvatore, si ribellò al duca di Milano
portando nuove guerre ai territori vicini. In quello stesso periodo
veniva ultimata la torre del paese la cui costruzione era iniziata nel
1409.
La chiesa campestre di S. Maria delle Grazie
Le attività e le vicende storiche di Valmadonna si intensificarono
durante il XV secolo grazie soprattutto alla costruzione di una
chiesa campestre adibita in un primo tempo a convento, che iniziò
gli abitanti alle funzioni spirituali: la chiesa sorse sotto la
“protezione” materiale e morale dei padri Serviti.
Da alcune fonti abbiamo appreso che essa si trovava al centro
dell’antico paese ove agli inizi del nostro secolo sorgeva la casa
Binelli. Dall’inventario del terzo parroco di Valmadonna don
Ambrogio Bottazzi (1731-35) siamo venuti a conoscenza, a grandi
linee, della sua composizione: la porta principale sovrastata da una
finestra a mezza luna si ergeva a mezzogiorno, verso est, altre due
finestre dello stesso tipo completavano l’esterno, mentre il
campanile armato di una campana era situato dietro il coro.
Il permesso di edificare la chiesa fu concesso dal vicario generale
Galvagno Firuffini alle famiglie Mantelli e Panza, come da sue
lettere del 13 agosto 1454 indirizzate “egregiis viris, amicis
carissimis, Angelino Mantello, Blasio Pantia, et toti communitati
Astilliani”.
La famiglia Mantelli (di origine Milanese) fu inviata da Visconti, con
molte altre, in Alessandria dove come d’uopo fu registrata fra le
famiglie guelfe della città. Nel 1450 la famiglia partecipò alla
edificazione della chiesa e del convento di S. Bernardino. Alla
costruzione di Artigliano, oltre ad Angelino, parteciparono i familiari
Baudolino, Bonifacio e la vedova di Giorgio. L’A-Valle parlando delle
famiglie alessandrine ritiene che i Mantelli discendessero dai
“Metalli” di Roma.
L’altro grande nome a cui si deve l’iniziativa della costruzione di S.
Maria delle Grazie è Biagio Panza, romano, di fazione ghibellina,
che nel 1458 fu deputato in Alessandria per la riforma del registro,
per la riorganizzazione, cioè, delle tariffe d’estimo degli stabili del
comune.
I due fondatori si riservarono il diritto di eleggere un frate per la
gestione della nuova chiesa e, poiché l’amministrazione delle chiese
campestri spettava al parroco competente per il territorio in cui si
trovavano, fu facile ai padri Serviti di S. Stefano intromettersi nella
faccenda e, giacché faceva parte dello stesso convento un
esponente della famiglia Mantelli, padre Lorenzo, fu affidato a lui il
compito di posare la prima pietra; operazione che avvenne il 1
agosto 1458. La chiesa prese il nome di “Beata Vergine delle
Grazie”.
Il Clari ne dà notizia ma solo all’anno 1459 ed il Lumelli all’anno
1458.
Ne parla anche il Ghilini, come il Clari, all’anno 1459.
Ne parlò ovviamente anche padre Giani, annalista dei padri Serviti,
perché si pensò di erigere quella chiesa a convento dell’ordine, ma
egli ignorò i meccanismi dei quali ci era rimasta traccia nel Clari
(1458) e nel Ghilini: “Erano anziani di Alessandria il giureconsulto
Matteo Bisgiazza, Viviano Pupino, Nicolò Robutti, Fabio Guerci e
Sebastiano Panza ed amministrava quella podesteria Carriocolo
Spinola genovese, quando il vescovo di essa città Marco Capitani
concesse nel principio di quest’anno il titolo di priorato alla chiesa di
S. Maria delle Grazie fuori delle mura di essa città e primo priore fu
Clemente Gariboldi milanese, frate servita; onde il convento di S.
Stefano ha poi mantenuto sempre il possesso di suddetto priorato,
mediante il consenso della famiglia Mantelli alla quale per ragione
ereditaria spetta l’elezione di esso priore, in luogo di Biagio Panza
fondatore della detta chiesa …”.
L’esclusione che il Ghilini fa del Panza dal diritto sopra la chiesa non
è però convincente, tanto più che con una transazione del 20
giugno 1598 (rogato dal notaio Ottiglio) fu convenuto, dopo
disaccordi tra le due famiglie (quindi anche Panza) e i padri Serviti,
che i patroni nominassero tre religiosi ed uno di costoro fosse eletto
dal Capitolo di S. Stefano a reggere la chiesa; per contro i Mantelli
e Panza rinunciavano a tutti i diritti che possedevano sulla chiesa
stessa a favore dei padri Serviti alla condizione, però, che i redditi e
gli introiti derivanti dai fondi annessi alla gestione ecclesiastica
venissero organizzati a vantaggio della chiesa di Artigliano.
I problemi della prima chiesa di Valmadonna furono inerenti,
dunque, ai passaggi, più o meno chiari, di responsabilità e di
gestione tra le famiglie laiche ed il convento di S. Stefano. Di lì a
poco anche gli ecclesiastici regolari interverranno avanzando
pretese su S. Maria delle Grazie non vedendo troppo
favorevolmente la permanenza dei padri Serviti nella parrocchia di
S. Stefano.
Importante resta comunque il fatto che a partire da tale momento,
la località fino ad ora variamente denominata Artigliano assume
definitivamente il nome di Valle delle Grazie, che resterà immutato
fino al 1858 circa.
I francesi a Valenza
Nel 1449 e nel 1557 Valenza venne nuovamente cinta d’assedio. Il
primo fu opera dell’esercito francese al comando di Eberardo
d’Aubigny e si concluse rapidamente per il tradimento del castellano
della rocca; tutta la guarnigione valenzana fu passata a fil di spada
e i territori vennero abbandonati al saccheggio.
Ben più terribile fu l’assedio del 1557 che vide nuovamente i
francesi nelle nostre terre. Le chiese, i campi coltivati, persino le
case private subirono la ferocia della soldatesca che si perpetrò
anche nei periodi successivi l’assedio stesso.
Le famiglie di Milano
Durate la dominazione viscontea, nell’anno 1417, il duca Filippo
Maria istituì nella provincia di Alessandria la nuova nobiltà. Tra
queste famiglie erano i Porzelli e i Porcellana; i primi verranno
investiti nel 1734 del contado di Valle delle Grazie che terranno
ininterrottamente fino alla creazione delle strutture amministrative
dello stato sabaudo, i secondi si stabilirono nel palazzo signorile
nella zona del territorio della “del Ponte rosso”.
Furono due, dunque, le famiglie che portarono in Valmadonna lo
stemma della nobiltà milanese; ad entrambe fu concesso dal
Visconti di scegliersi una piazza dove riunirsi per discutere e
ritrovarsi.
Il 1600 di S. Maria delle Grazie
Nel 1602 la chiesa della Beata Vergine delle Grazie, priorato dal
1478, fu riconosciuta campestre dalla visita pastorale dello stesso
anno ad opera del Vescovo. Da alcuni documenti ritrovati ci risulta,
inoltre, che venne eletto cappellano il padre servita Tommaso Gatti.
Deduciamo, quindi, che malgrado l’elezione della chiesa in priorato,
la stessa rimase sempre una succursale del convento di S. Stefano,
il quale vi eleggeva un religioso per l’assistenza degli abitanti di
Valmadonna.
Nel 1611 il padre Provinciale, non riconoscendo l’accordo del 1589
intercorso tra i padri Serviti e i patroni, pretese di essere in diritto
per l’elezione del padre priore della chiesa. Poco dopo, in
esecuzione della Bolla pontificia del 15 ottobre 1624 di Innocenzo
X, fu soppresso il piccolo convento della Valle delle Grazie. La Bolla
ordinava, inoltre che i vescovi convertissero i beni e i frutti di tali
conventi in opere di carità.
I padri Serviti, però, ricorsero per l’occasione alla Sacra
congregazione dei vescovi e regolari di Roma sostenendo la tesi
che, nel caso di S. Maria delle Grazie, non si trattava di un piccolo
convento vero e proprio, bensì di una “grangia” (filiale) di quello di
S. Stefano.
Il loro ricorso fu accolto ed essi ottennero nuovamente i diritti ed il
possesso della chiesa. Fu concesso loro di celebrare le messe in
memoria della fondazione per mezzo di un sacerdote regolare
nominato dai patroni laici secondo l’accordo, purché lo stesso si
astenesse dal pernottare nella casa parrocchiale.
La presenza di un regolare durante il periodo successivo è
comunque negata negli appunti del parroco Bottazzi del 1735
ritrovati nell’archivio parrocchiale, soprattutto perché, nello stesso
anno, i patroni e sovrintendenti Mantelli e Panza pretesero che
dovesse risiedervi un ecclesiastico secolare. Si può immaginare
come i padri Serviti accettarono volentieri l’idea che li favoriva,
visto che l’edificio risiedeva nel territorio della parrocchia di S.
Stefano di loro giurisdizione.
Dalla seconda metà del XVII secolo, dunque, risedette nella valle un
secolare che ricoprì anche la carica di vicecurato ed ebbe il
permesso, dietro consenso del convento, di impartire i sacramenti
in caso di necessità.
La terribile guerra dei trent’anni
Nel 1635 la città di Valenza fu nuovamente cinta d’assedio, primo
episodio dell’aspra guerra scatenata sulle nostre contrade per la
successione di Mantova e Monferrato (1628-1659) che seminò
rovina e distruzione.
L’armata francese, al comando del duca di Crequi, pose l’assedio il
giorno nove del mese di settembre. Grazie alla buona
organizzazione della difesa ad opera del mastro di campo spagnolo
marchese di Calada valenza resistette alle truppe transalpine,
cosicché dopo 49 giorni i francesi furono costretti a desistere
dall’impresa.
Il Ghilini narra che nella notte tra il 31 marzo ed il primo aprile
1641, subito dopo pasqua, il presidio di Casale, forte di 1500 fanti e
500 cavalli, fiancheggiati da 1000 monferrini e 12 carri carchi di
attrezzi adatti, si dislocò con precauzione sotto le mura di Valenza
con l’intenzione di scalarle e sorprendere la città. Il calpestio dei
cavalli attrasse l’attenzione delle sentinelle, le quali avvertirono il
governatore Gabriele de Cardenas. Questi fece subito dare l’allarme
tanto al presidio quanto agli abitanti, perché si armassero per la
difesa della patria; scoperto, il nemico si ritrasse.
La guerra continuò e nel 1656, al secondo tentativo, i francesi
espugnarono la città dopo tre mesi di assedio. Il duca di Modena,
alleato dei francesi, si recò nel duomo di Valenza ove, per
l’occasione, venne cantato un solenne Te Deum.
Nel 1659 valenza, dopo la pace con la Francia, fu restituita agli
spagnoli in cambio di Vercelli, benché 37 anni dopo, nel 1697, per
la terza volta i francesi tentassero nuovamente di riprendersi la
città. L’assedio fu breve ma violento. (Anche le terre vicine
soffrirono le scorrerie dei francesi. Il paese di Pietra Marazzi fu,
infatti, raso al suolo. A titolo di cronaca, ricordiamo, infine, che nel
1630 lo stesso paese fu colpito da una terribile epidemia che
falcidiò gran parte della popolazione).
La questione religiosa e la nuova chiesa
La costruzione della nuova cittadella nel quartiere di Borgoglio
obbligò fin da principio i padri Serviti a sloggiare dal loro convento.
Nel mese di maggio del 1728 le operazioni di demolizione dello
stesso quartiere iniziarono nella parte in cui, appunto, erano posti il
convento e la chiesa di S. Stefano. Le 30.000 lire di Piemonte
assegnate dalla Camera regia ai Servi di Maria furono impiegate
nell’acquisto di una casa in città ove fu allestita provvisoriamente
una piccola chiesa benedetta il 7 settembre della stesso anno
dall’allora mons. Ferreri.
Il 22 maggio, quest’ultimo riunì una congregazione della quale
faceva parte anche il padre provinciale Rattazzi ed il padre Repatta
priore del convento di S. Stefano ed entrambi dell’ordine dei Serviti
al fine di decidere sul futuro della parrocchia. Fu stabilito che la
stessa si fissasse nella chiesa campestre di S. Maria delle Grazie
con decreto di edificarvi un nuovo cimitero e avvisare prontamente i
parrocchiani. In tale occasione l’abate Borgonzio, possessore del
canonicato della cattedrale sotto il titolo di S. Filippo, insorse contro
la decisione; e, poiché in quel periodo egli dimorava a Torino in
qualità di auditore dell’Arcivescovo di quella città, fu incaricato della
faccenda il dottor Cervelli suo procuratore, che sostenne la
pretensione di S. Filippo sulla chiesa e parrocchia di S. Stefano (14
maggio 1728).
Il 29 dello stesso mese anche il capitolo della cattedrale sostenne
qualche diritto sulla medesima in vigore della cessione da lui posta
in essere nel 1295 a favore dei padri Serviti.
La congregazione si riunì nuovamente il 6 giugno e, poiché la chiesa
non era ancora stata demolita, fu concessa temporaneamente ai
Servi di Maria l’amministrazione della parrocchia di S. Stefano con
l’assegnazione di un termine di sei mesi entro cui gli stessi
avrebbero dovuto presentare le prove delle loro ragioni; in realtà i
padri non si interessarono molto della cosa e le prove non venero
mai prodotte. Intanto il dottor Cervelli, rappresentante dell’abate
Borgonzio, riuscì tre giorni dopo a far riconoscere valida la sua
istanza dal provicario di quel periodo. Al capitolo della cattedrale
furono ugualmente concessi sei mesi per esporre le prove a proprio
favore; nel frattempo il canonico di S. Filippo abate Bergonzio riuscì
a formulare un documento riassuntivo dei suoi diritti e a farlo
comprovare dal conte della Gravera, dal presidente della
Giurisprudenza della Università regia Carlo Amedeo Sevale e dal
Cottalorda. L’attestato può essere così riassunto:
- la chiesa in discussione fu assegnata dal vescovo Ottone nell’anno
1178 non al capitolo della cattedrale bensì a uno dei sette
canonicati antichi di Alessandria;
- il capitolo non era in potestà di alienare la chiesa di S. Stefano ai
padri serviti, quindi l’accordo del 1295 è valido solo se si considera
come contratto di locazione e non come vera e propria vendita;
- anche in caso di distruzione dell’edificio le ragioni della chiesa
restano legate con gli altri canonicati designati da Ottone;
- S. Filippo è uno dei canonicati più antichi della città e quindi più
verosimilmente deve essere unito a S. Stefano.
Il 14 settembre 1729 il cardinale Ferrei rovesciò completamente le
carte in tavola. Avendo deciso per la costruzione nel centro di una
nuova chiesa di S. Stefano, restava il problema della chiesa
campestre di S. Maria delle Grazie; per provvedere alla cura delle
anime di Valmadonna egli elesse un ecclesiastico nella persona del
primo parroco Antonio Maria Francesco Volpini nativo di Quargnento
che, però, già dal giugno del precedente anno vi risiedeva come
incaricato dello stesso vescovo; per tutta la questione egli si
rimetteva alla volontà del nuovo vescovo di Alessandria.
In realtà l’atto di mons. Ferreri non fu riconosciuto dai padri Serviti,
i quali, in questo periodo, cambiarono completamente politica:
mentre prima avevano insistito sull’affidamento della parrocchia
sostennero, poi, che la chiesa campestre non dovesse più servire a
tali fine bensì dovesse diventare di diritto e di arbitrio del loro
convento senza obblighi alcuni di celebrazione di messe. Tale il loro
pensiero e le loro proteste durante la prima visita pastorale e al
paese del 15 agosto 1731.
Iniziò così un periodo oscuro per gli abitanti di Valle delle Grazie e
riguardo della loro chiesa. I padri fecero il possibile per ostacolare
l’operato dei primi parroci i quali spesso e sovente erano costretti
ad accettare l’ospitalità delle famiglie visto che i Servi di Maria non
permettevano al sacerdote di risiedere nella adiacente casa
parrocchiale.
Il nuovo vescovo Gian Mercurio Gattinara e tutta la curia vescovile
si pronunciò il 10 marzo 1733 a favore del canonico di S. Filippo al
fine di permettere al sacerdote secolare di poter regolarmente
accedere a S. Maria delle Grazie. Ma nell’anno 1737 i padri Serviti
ricorsero a Roma sostenendo che i parrocchiani della località
potevano comodamente essere assistiti da altre chiese vicine e
ottennero a loro favore la sentenza della Metropolitania di Milano
del 3 marzo 1738.
Si pensò allora seriamente alla costruzione di una nuova chiesa
vista l’impossibilità di stabilirsi in S. Maria delle Grazie. Con atto del
vescovo Gattinara del 22 aprile 1739 Valle delle Grazie fu eretta
parrocchia.
Molto si è discusso sul fatto, visto che alcuni sostennero che la
parrocchia ebbe inizio nel 1729. Noi sappiamo come in quell’anno
l’atto di mons. Ferreri non fu in effetti applicato e soprattutto esso
riguardava non già la nuova chiesa di cui ora tratteremo, bensì
ancora quella del XV secolo.
Per qualche tempo durò l’incertezza sulla scelta del luogo ove
dovesse sorgere la fabbrica, poiché alcuni volevano fosse edificata
alla cascina Pavaranza, altri nel suo sito attuale. Prevalse la
seconda opinione e venne acquistato il terreno sufficiente con
permuta dalle Madri di S. Chiara che ne erano le proprietarie ed
abitavano nella masseria “La Mantella” situata nella villa che agli
inizi del nostro secolo veniva chiamata Maldini o Cora, mentre si
provvedeva alla designazione di due massari o fabbricieri nell
persone di Baudolino Brusone e Battista Riposio che avrebbero
coordinato il lavoro. Si gettò la prima pietra l’8 novembre del 1739;
in essa era scolpita l’iscrizione: “Deo, et Mariae 4 novembris 1739”.
Essa segnava il giorno 4 poiché la funzione dovette essere differita;
la costruzione fu, comunque, lenta e frammentaria.
In un primo momento venne terminato solo il coro e la parte ove è
collocato l’altare maggiore. La vigilia di Natale dell’anno 1740,
benché mancasse la volta ed il tetto fosse costituito da tavole di
legno, il quarto parroco don Stefano Amelotti, processionalmente
accompagnato dalla località Colla, entrò a celebrare nella nuova
chiesa, dopo averla benedetta. In quello stesso periodo fu
terminata la casa parrocchiale che sarà riedificata nel 1815 e
notevolmente ampliata dopo il 1830.
I lavori di costruzione ripresero sotto la spinta del vescovo di
Alessandria Giuseppe Tommaso De Rossi investito della carica il 18
luglio 1757; si provvide così a fabbricare il presbiterio mentre lo
stesso vescovo mandava la sua benedizione alla nuova chiesa. Con
vicende alterne, il lavoro riprese agli inizi degli anni ’70 rimanendo
ancora: “ … ad arricciarsi, ad intonacarsi, a dar la coperta di calcina
alle mura, acconciarsi le due cappelle, e a farsi il pavimento del
corpo della chiesa …”. Nell’anno 1754 fu eletta la confraternita di S.
Filippo Neri che durò fino al 1903.
Con la dominazione dei Savoia giunsero anche le nuove cariche
politiche e amministrative. Valle delle Grazie che fu per un periodo
della sua storia Corpo Santo di Alessandria divenne contado
nell’anno 1734. Fu investito del titolo di conte Sebastiano de’
Porzelli il giorno 14 del mese di gennaio.
La cittadella fortificata
Abbiamo già accennato come l’odierna configurazione del paese
abbia avuto origini nel XVIII secolo. Il primo fatto importante per la
nostra storia si verifica agli inizi del 1700 con l’abbattimento di
Borgoglio.
Lo stato maggiore dell’esercito savoiardo fece comprendere al re
Vittorio Amedeo II come la guerra con gli spagnoli fosse stata così
difficile e lunga anche per la mancanza ad Alessandria di una
cittadella militare che sapesse resistere agli assalti nemici. Il re
accettò il progetto dell’ingegner Bertola sulla costruzione di una
nuova fortezza. Il problema maggiore rimaneva lo sgombero del
quartiere ove avrebbe dovuto sorgere: la scelta cadde su Borgoglio.
I nobili e le ricche famiglie si trasferirono nel centro della città; il
problema ecclesiastico del convento dei padri Serviti e della
parrocchia di S. Stefano fu risolto nel modo che abbiamo visto;
della plebe e della gente più misera nessuno tenne conto. Sentiamo
cosa disse al proposito lo studioso Santagostino: “ … molti degli
abitatori di Bergoglio preesistente alla fondazione di Alessandria e
cofondatrice al pari di altri quartieri, trasferirono i ‘domestici lari’
nelle valli di Santa Maria delle Grazie e di S. Bartolomeo
concorrendo in tal modo ad una diminuzione della popolazione
urbana”. L’A-Valle registra questo avvenimento: “Bergoglio aveva
belle chiese, bei palagi, in cui risiedevano molte, ricche e nobili
famiglie alessandrine: ma queste considerazioni non prevalsero
all’utile pubblico e allo scopo generoso di innalzare un antemurale
al paese e all’intera penisola, quindi fu compiuta la distruzione.
Degli abitanti del quartiere i più agiati si trasferirono in città, al di là
del fiume; la plebe, o perché si trovasse maggior vantaggio a
collocarsi con meno dispendio e senza suggestione all’aperto, o
allietata dall’amenità delle ubertose campagne e tranquille valli
vicine, recatasi a stanza alla Madonna delle Grazie e S. Bartolomeo,
fondando e dilatando quelle due borgate …”.
Questi due paesi aumentarono dunque di popolazione e
acquistarono via via le fisionomie attuali. D’altro canto l’aumento di
popolazione è confermato anche nei libri parrocchiali visto che
verso il 1730 il paese potè contare 750 abitanti e l’incremento
continuò costante nel tempo fino a raggiungere i 1600 alla fine del
secolo. Da una lettera ritrovata tra gli appunti del parroco don
Bottazzi abbiamo potuto individuare il nome delle famiglie
valmadonesi.
La costruzione della cittadella ebbe del resto proprio anche
motivazioni di tipo sociale. Si prese al balzo l’occasione per
evacuare dalla città gran parte dei ceti sociali più miseri che si
videro costretti a ripopolare i paesi vicini. Potremmo dunque
affermare che il nucleo primordiale di Alessandria si disperse per le
campagne d’intorno e il centro della città rimase appannaggio dei
nobili e della borghesia. Il fenomeno sociale a cui si andò incontro
diede origine a problemi molto gravi che il governo stentò a
risolvere.
La miseria attanagliava gran parte della popolazione della
provincia: non era infatti raro incontrare sulle strade che portavano
in città numerosi mendici che, espulsi dalla cittadella, non erano
riusciti nemmeno a collocarsi nei paesi. Un primo tentativo di porre
rimedio al triste fenomeno si formulò affidando ai braccianti
disoccupati il lavoro della costruzione della cittadella stessa, che
impegnò per anni numerosa mano d’opera.
Come inevitabile conseguenza della miseria e delle ristrettezze
economiche, si dilatò enormemente il fenomeno del brigantaggio e
non solo quello più organizzato e più valido storicamente di Maino
della Spinetta, ma anche quello degli agguati improvvisati, delle
rapine. La strada che collegava Valenza con Alessandria venne
presa di mira dai fuoriusciti, banditi di ogni genere. Ne subivano le
conseguenze i numerosi mercanti e uomini d’affari che
abbisognavano di collegarsi con le due città.
D’altro canto tendeva ad espandersi in molti paesi della provincia il
fenomeno completamente nuovo della “villeggiatura” delle ricche
famiglie; Valle delle Grazie fu uno di questi. Abbiamo rintracciato
alcune ville che furono adibite a residenza estiva per famiglie
ducali, nobili, esponenti del clero e persino vescovi.
Dunque l’ossatura della popolazione cominciava a spaccarsi
nettamente in due. Da una parte la gente dedita all’agricoltura che
risiedeva stabilmente in Valle e dall’altro alcune famiglie benestanti
che vi dimoravano solo nei periodi estivi o in casi particolari.
La battaglia di Bassignana
Nell’anno 1742 la Spagna e la Francia tentarono di occupare i
domini in alta Italia di Maria Teresa d’Austria. Con l’esercito
asburgico, in difesa dei territori, si schierarono anche le forze
piemontesi che nel 1745, tra le altre operazioni, perdettero il
confronto diretto nella battaglia che si svolse tra le campagne di
Bassignana. La città di Valenza in conseguenza di ciò cadde in
mano ai franco-spagnoli.
L’anno successivo al comando del barone Leutrum e agli ordini del
principe Carlo di Baden Durlach, la casa Savoia riconquistò Valenza
che si arrese all’alba del 2 maggio dopo tredici giorni di assedio e
prima che le forze francesi del maresciallo Maillebois potessero
giungere a soccorrere il governatore spagnolo D. Giovanni Scoques.
Se quest’ultimo avesse previsto l’arrivo del soccorso, avrebbe
certamente fatto un estremo sforzo per attendere il Mallebois.
Questi dopo poche ore dalla sua resa compariva sulla collina di S.
Salvatore; era ormai troppo tardi.
La rivolta e i fatti del 1799
Sul finire del XVIII secolo il generale francese Napoleone Bonaparte
discese in Italia per la sua prima campagna. Sappiamo bene come
in quel periodo, vuoi per le idee giacobine ed illuministiche che
ormai dalla Francia si diffondevano per tutta l’Europa, vuoi per le
difficoltà economiche e la miseria di molti strati della popolazione,
gli animi di tutti fossero in subbuglio. La conquista ad opera di
Napoleone dei territori piemontesi fu la scintilla decisiva.
Nella provincia come in altre zone si venne a creare una difficile
situazione politica: da un lato gran parte degli intellettuali, dei
borghesi, degli esponenti dell’alto clero si schierarono a favore del
nuovo governo d’oltr’alpe; dall’altro le forze contadine dei paesi,
aizzate dal piccolo clero (parroci rettori) insorsero in un moto
reazionario contro la Francia. Le motivazioni di tale non felice
periodo della nostra storia sono simili a quelle che avevano mosso
le insurrezioni francesi della Vandea sei ani prima.
Certamente si trattò del tentativo aristocratico di strumentalizzare
le masse insoddisfatte dei contadini al fine di conservare un potere
fortemente attaccato dai nuovi ceti borghesi. Il brigantaggio che già
imperversava andò ad ingrossare le fila dei problemi che la nuova
Comune di Alessandria dovette affrontare.
Anche Valle delle Grazie visse la sua esperienza di rivolta. Mentre in
un primo tempo le forze giacobine ebbero la meglio e fu eletto un
sindaco come rappresentante comunale, successivamente agli inizi
del 1799, grazie all’intervento del parroco e degli esponenti della
aristocrazia che allora erano in paese, la popolazione contadina fu
aizzata contro la Repubblica francese.
Reggeva allora la carica di rettore della parrocchia don I. A. Bosio.
Le famiglie si armarono mentre le campane suonavano a martello.
Alla fine del mese di febbraio l’azione contadina reazionaria si
concretizzò impedendo ad una staffetta del comune della città di
raggiungere Valenza e “sequestrando” alcuni carri in transito carichi
di legna. In effetti la situazione di Valle delle Grazie (nel documento
relativo per la prima volta troviamo il nome di Valle della Madonna)
era simile a quella della maggior parte dei paesi.
L’insurrezione che interessò notevolmente le terre di Acqui, fu
momentaneamente contenuta ma non certamente domata. Mentre
il governo francese alimentava il malcontento popolare con i suoi
eccessi, il partito “realista” dei monarchici lavorava attivamente
nella clandestinità. Una tale situazione politica permetteva inoltre al
brigantaggio di stabilirsi indisturbato nella zona, di organizzarsi e di
prendere coloriture politiche. Sulle vie pubbliche della provincia i
cittadini andavano incontro a grassazioni organizzate dai briganti in
grado di camuffarsi da custodi della legge e imporre le loro rapine.
Tutto ciò obbligò il generale Gruochy l’8 gennaio e il 1 febbraio a
ordinare a tutti i cittadini la consegna dei lunghi coltelli da fodero e
degli stiletti sotto pena di fucilazione per chiunque fosse trovato in
possesso di tali armi. Parole al vento! La situazione continuò a
surriscaldarsi soprattutto quando lo stesso Gruochy si mise “ … alla
testa di una formazione imponente per domare gli insorti che
spuntavan come funghi …”. Il 4 marzo il “cittadino vescovo” di
Alessandria inviò con scarsi risultati una lettera a tutti i parroci della
zona per tentare di calmare gli animi.
La lotta contro il clero e la religione si ingigantì fino a raggiungere i
limiti estremi di carcerazione per gli ecclesiastici e di deportazione
per tutti coloro che potessero infastidire il regime. In realtà le belle
e oneste intenzioni di uguaglianza, fratellanza, libertà stavano per
essere soffocate dagli interessi economici dei facoltosi borghesi che
escludevano dai vantaggi non solo l’aristocrazia ma anche la
maggior parte della popolazione. In Valle delle Grazie i più accesi
esponenti della rivolta monarchica furono arrestati, fra cui lo stesso
parroco don Bosio sostituito in fretta e furia da don Giuseppe
Spazzola che rimarrà in carica fino al 1825.
Gli arrestati nel paese di nobile famiglia furono rei confessi
condannati, privati di ogni loro ricchezza ed esiliati in Francia. Tra
essi siamo propensi a sostenere che vi fossero alcuni componenti
della famiglia De’ Porzelli. La continua tensione durò fino a quando
le truppe austro-russe della Ii coalizione guidate dal generale
Suvarov ebbero la meglio sulle repubbliche giacobine.
In aprile anche il comune di Alessandria dovette arrendersi. Il
bilancio di quell’ano per Valmadonna si può riassumere osservando
che dai registri parrocchiali risulta che gli atti di morte del 1799
superarono tristemente la soglia del centinaio.
L’ottocento politico e sociale
Dopo l’avventura napoleonica di cui la eco maggiore certamente
giunse in paese l’anno 1800 con la battaglia di Marengo,
Valmadonna passò per l’ennesima volta sotto la dominazione dei
Savoia. Il regno sabaudo riusciva allora ad avanzare timide pretese
di unità d’Italia, ma soprattutto cercava di migliorare e di
sviluppare nuove tecnologie, nuove industrie.
Valmadonna visse così una propria “rivoluzione industriale”
intendendo con ciò non tanto lo sviluppo delle fabbriche che non
toccherà mai il paese, quanto la costruzione di nuove strade e il
miglioramento delle vecchie, l’edificazione della ferrovia, la nascita
di alcune istituzioni sociali.
La linea ferroviaria Alessandria-Milano che interessò il sobborgo fu
attuata alla fine degli anni cinquanta. Tra il 1853 ed il 1857 venne
eseguita la galleria Valmadonna-Valenza con l’impiego di sterratori
provenienti dal biellese e di muratori svizzeri. Il lavoro incontrò,
però, numerose difficoltà per la natura del terreno che diede luogo
sa numerosi smottamenti e a numerose polle d’acqua.
Le prime imprese, a causa di alcune vittime, si videro costrette ad
interrompere ed abbandonare l’opera. Il cambio di gestione
determinò tentativi di riduzione di salari che provocarono dei
fermenti tra gli operai con relative minacce di sciopero. Intervenuta
la forza d’ordine per sedare gli animi, fu arrestato uno dei
dipendenti che venne condotto dal delegato del sobborgo Giovanni
Amelotti. L’atto accese la miccia: tutta la maestranza iniziò uno
sciopero in segno di protesta. Il delegato, di fronte alla posizione
degli operai, comprese la pericolosità della situazione e ottenne la
liberazione dell’arrestato rendendosi garante e responsabile della
ripresa del lavoro: la contestazione fu placata, i salari non
diminuirono e l’opera venne ultimata senza ulteriori intoppi visto
che ormai il lavoro più duro e pericoloso degli scavi era stato
ultimato.
Risale a quell’epoca, e cioè al 1857, la costruzione della stazione
ferroviaria.
Le ragioni della spinta data dal primo ministro torinese Cavour
all’ingrandimento della rete ferroviaria sono note a tutti: di lì a
poco, due anni, sarebbe iniziata la guerra contro l’Austria che portò
alla cessione della Lombardia alla Savoia. Proprio nel 1859 le colline
di Valmadonna e di Valenza videro le truppe austriache in rotta
verso il milanese.
Il XIX secolo fu per gli abitanti del sobborgo un secolo di evoluzione
tecnica e sociale; il complesso economico, legato strettamente alla
coltura della vite, si perfezionò ed il commercio intensificò
notevolmente i propri scambi.
Nell’anno 1872 sorse la “Società di mutuo soccorso” la cui attività
fu determinante per alcune conquiste sociali quali la condotta
medica, la scuola serale, la fiera bovina, la cooperativa di consumo
e la biblioteca sociale. L’apertura nell’anno 1896 del ponte sul
Tanaro, in località degli Orti, contribuì a facilitare l’opera di
comunicazione.
Negli anni dal 1898 al 1901 il paese fu colpito dalla distruzione
quasi totale dei suoi vigneti a causa dell’epidemia della filossera. Fu
un Tamburelli della regione Quattremola che, per avere consigli sul
grave problema che rischiava di distruggere completamente
l’economia del paese, inviò al comizio agrario uno dei ceppi di vite
che intristivano, ed essendo rivelata dal professor Berti, reggente
della cattedra di agraria al regio istituto tecnico, l’infezione della
filossera, venne disposto il rimedio del trapianto che danneggiò
gravemente i viticoltori del paese a causa dei prezzi di
ristrutturazione molto elevati ma che permise finalmente la ripresa
della produzione.
Infine, durante l’ultimo scorcio del secolo, si vissero i problemi
politici ed economici del secondo governo Crispi che fecero
scoppiare manifestazioni di protesta per tutta la regione;
emblematica e più cruenta di tutte fu quella di S. Salvatore.
L’ottocento religioso
Dalla seconda metà del 1700 la chiesa campestre di S. Maria delle
Grazie passò alle dipendenze della parrocchia del paese ma,
purtroppo, dell’edificio non ci sono rimaste tracce. Da una visita
pastorale del 1767 apprendiamo ancora la sua esistenza; con molta
probabilità essa fu abbattuta alla fine del XVIII secolo, visto che nel
1799 si provvedette alla fusione di due nuove campane che
vennero unite a quella antica della chiesa campestre.
Nell’anno 1813 fu ultimata la costruzione del campanile attuale.
Da alcune relazioni annuali alla curia del parroco don Spazzola,
risulta d’altra parte che la chiesa “vecchia” di S. Maria delle Grazie
sarebbe stata abbattuta per ampliare nel 1816-1817 la casa
adiacente di proprietà di una famiglia francese, ma non abbiamo
ulteriori conferme.
Un’altra importantissima data per la chiesa è il 1885, quando, cioè,
la contessa Costanza De’ Porzelli moriva a Torino lasciando, come
risultò dal testamento, lire 20.000 per la costruzione della facciata e
la ristrutturazione interna dell’edificio sacro. I lavori iniziarono sotto
la guida del parroco don Andrea Vescovi e l’opera fu data in appalto
all’impresa Rosati Cerfetti di Alessandria.
Lo stesso anno i lavori si conclusero con la realizzazione del
prolungamento della chiesa, la costruzione della cupola centrale, il
rifacimento del tetto e del pavimento in pianelle in cemento. La
facciata, realizzata dalla stessa impresa, fu ideata su un progetto
dell’ingegner Ferrarsi conte di Orsara. L’interno della chiesa venne
ridipinto ad opera del pittore Pessina. Di maggior valore artistico
furono comunque gli affreschi dell’Assunta e dei quattro Evangelisti
nella nuova cupola ad opera del Morgari.
Per tutto il secolo, i lavori di ripristino continuarono; citeremo i più
importanti. Nel 1888 fu rifatta l’orchestra, nel 1890 il vecchio
organo, che presumibilmente risaliva al secolo precedente, venne
sostituito da un nuovo modello di fabbricazione della ditta Mentasti
di Barese, composto da 992 canne. Anche il campanile nel 1899
ebbe il suo restauro e fu accresciuto di due nuove campane con
castello di ghisa.
Nel campo sociale ricordiamo, grazie all’intervento della parrocchia,
la costituzione nel 1896 della “Società cattolica di mutuo soccorso e
cassa rurale di Valmadonna”. Soprattutto da citare nel 1892 la
creazione dell’asilo infantile che cominciò a funzionare in locali
provvisori l’anno seguente.
Altre chiese e cappelle sul territorio
Sul territorio di Valmadonna sorsero e, in parte, sorgono tutt’ora
numerose chiese e cappelle minori che possono interessare per
approfondire il nostro discorso, e per meglio comprendere le
abitudini degli abitanti.
Il Chenna fece riferimento ad alcune costruzioni di cui, però, si è
perso completamente ogni traccia. Egli parla di una “… cappella dei
SS. Francesco da Paola e Teresa, alla Panza edificata nel 1747” e
“… della Assunta alla Colla …”. Antichissima, inoltre, sarebbe quella
“… di S. Vittore che trovasi registrata nei cataloghi del 1350:
Ecclesia S. Victoris de Bergoglio, di cui fu eretto un canonicato nella
erezione della collegiata di S. Pietro …” ma che, purtroppo, non è
giunta sino a noi. Acquista rilevanza storica la chiesa oggi chiamata
della Madonna di Lourdes nella località Valmilana presso il
campeggio; già il Chenna la indicò con il suo nome primitivo: “S.
Bernardo alla Milana”.
Una piccola chiesa gotica è adiacente alla villa Scrivana già di
proprietà dei conti Cavasanti e dei visconti Prasca; è interessante
sottolineare che la chiesa fu adibita, durantel aguerra del 1915-18,
ad ospedale di riserva.
Sulla strada Costanza, dal nome della contessa De’ Porzelli, esiste
una cappella gentilizia a cui fu aggiunto un pilone dedicato
all’Immacolata che risale al 1826, indi restaurato nel 1926 ad opera
di Bartolomeo Cova. La villa in cui si trova la cappella è l’odierna
villa Moraschi, residenza dei conti Porzelli che per oltre un secolo
ressero le sorti del paese.
Nel 1860 il canonico Berta di Alessandria fece costruire una cappella
personale dedicata a S. Domenico adiacente alla propria villa nella
località di Valle Quarta. La stessa cappella prese poi il nome della
Madonna del Carmine.
Di maggiore interesse storico è la chiesa della “Madonnina del
freddo”. Il suo vero nome è Madonna di Loreto; eretta nell’anno
1882 è posta sulla strada per Valenza. Prima di tale data trovava
ubicazione nello stesso punto un pilone su cui era stata dipinta, in
un tempo che non possiamo precisare e probabilmente da un
domenicano di passaggio, la Madonna di Loreto.
Intorno al 1850 Valmadonna fu colpita da un’infezione di febbre
malarica che era preceduta da un forte attacco di brividi. Si
consolidò la leggenda che chiunque affetto dal male macinasse un
poco di calce o di sabbia del pilastro e possibilmente di quella in cui
era dipinta l’immagine sacra e quindi, dopo averla raccolta in un
sacchetto di tela, la portasse al collo per alcuni giorni, sarebbe
miracolosamente guarito. Di qui il soprannome “del freddo”; era poi
d’uso riportare lo stesso involucro intorno alla colonna come voto.
Nell’anno 1882 il canonico Lorenzo Garrone della collegiata di S.
Lorenzo in Alessandria acquistò il terreno su cui si trovava l’effigie
della Madonna e vi edificò una piccola chiesa che doveva servire per
le funzioni estive. Il pilone, in origine rivolto verso oriente, fu
spostato e girato verso mezzogiorno per poter creare il sedime
necessario alla nuova fabbrica.
Il 2 agosto 1886 il vescovo di Alessandria mons. Giocondo Salvaj
benedisse la chiesa e presiedette, con la collaborazione del parroco,
alla Via Crucis. La cosa, comunque, non piacque molto alla
popolazione e quando il 18 ottobre 1887 lo stesso vescovo tentò
per la seconda volta di intromettersi, tutti lo disertarono. Il
canonico Garrone organizzò per quella data una cresima generale,
ma tutto il paese rifiutò di mandare i propri figli per essere
cresimati; il vescovo dovette accontentarsi di due ragazzi di
Alessandria chiamati appositamente dallo stesso canonico.
Il 9 marzo 1889 moriva in Alessandria il Garrone e con suo
testamento olografo del 21 ottobre 1887 stabilì che il santuario
venisse goduto per il futuro dai padri Passionisti e, in mancanza di
costoro, che venissero sostituiti dai padri Cappuccini, ed infine,
pure in mancanza dei secondi, in eterno da un padre sacerdote
designato dal vescovo ordinario pro-tempore. La disposizione del
testamento fu però giudicata nulla e gli eredi legittimi si disposero
ad alienarla. Il diciassettesimo parroco di Valmadonna don Andrea
Vescovi (1881-1905) intimo della famiglia, appoggiò la tesi che la
chiesa fosse destinata al culto pubblico in quanto edificata in parte
con le elemosine del paese.
All’anno 1929 la chiesa con l’annessa casa ottocentesca appartenne
al signor Guerci ma non sappiamo in che maniera possa essere a lui
pervenuta. Al signor Guerci successe la famiglia Bue.
Ricordiamo infine che sulla statale che collega valenza con
Alessandria, poco distante dalla casa detta “croce bianca”, sorge un
pilone dedicato all’Assunta, della quale porta l’effigie sul lato
anteriore; sul lato sinistro ospitava una pittura di S. Domenico e sul
destro la figura di S. Carlo; queste ultime due sono state coperte da
un restauro. Tutti e tre i dipinti sono stati attribuiti al pittore
Gambini.
Al centro dell’abitato, all’imbocco della strada della chiesa, si erge
una cappella la cui costruzione risale circa al 1860. Ebbe origine da
un voto fatto da Andrea Ponzano in favore di suo figlio che fu
dichiarato disperso nella guerra di Crimea; l’affresco che
rappresenta l’Addolorata è stato restaurato da Piergiorgio Amelotti.
Antonello Zaccone
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