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1 Maddalena Betti Recentemente, mi sono occupata della ripresa

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1 Maddalena Betti Recentemente, mi sono occupata della ripresa
Maddalena Betti
LE DONNE INVISIBILI NEGLI EPISTOLARI PAPALI DELLA SECONDA METÀ DEL IX SECOLO
Recentemente, mi sono occupata della ripresa della politica missionaria romana nella
seconda metà del IX secolo. A questo proposito, ho indagato le specificità del vocabolario
politico delle numerose lettere che papa Giovanni VIII (872-882) compilò con lo scopo di
allacciare rapporti con i neo-convertiti protagonisti politici dell’Europa centrale e sudorientale e dunque garantirsi un ruolo di primo piano nell’organizzazione episcopale delle
nuove Chiese. In occasione di un seminario incentrato su tema del gender negli epistolari, mi
sono naturalmente posta il problema dell’assenza di destinatari donne all’interno del vasto
corpus di lettere missionarie prodotte specialmente durante il pontificato di Giovanni VIII.
Tale problematica necessiterebbe un’ampia trattazione. Soprattutto, si dovrebbe procedere a
un’investigazione che considerasse non solo fonti scritte, particolarmente avare nel descrivere
la variante femminile dell’universo barbarico del IX secolo, ma soprattutto fonti
archeologiche, con lo scopo di valutare più precisamente il ruolo femminile nelle prime
società slave e bulgare. In questa sede, tuttavia, mi sono riproposta di limitarmi a una prima
riflessione sui motivi per cui papa Giovanni VIII non selezionò né contattò le consorti dei
capi politici slavi e bulgari per rafforzare le ragioni della Sede Romana presso le corti
barbariche dell’Europa centrale e sud-orientale.
Innanzitutto, è bene tentare di definire l’apporto dei pontefici della seconda metà del IX
secolo nell’ambito della ridefinizione della figura morale della regina carolingia e della sua
posizione nel regno. Secondo Delogu 1, il processo della ridefinizione dell’autorità regia
femminile scaturisce dalla polemica innescata da Ludovico il Pio che, revocando le
disposizione dell’817, aveva cancellato le prerogative imperiali di Lotario I a favore dei figli
di Giuditta. Tale polemica si era sollevata in particolare a denunciare il ruolo disordinante
della seconda moglie che, scontando il suo ruolo attivo nella vita politica del regno, si era
trovata a incarnare un «point de cristallisation des conflits» 2. Tra i partigiani della nuova
politica di successione di Ludovico il Pio, Rabano Mauro aveva scelto a sua volta di
accendere i riflettori su Giuditta. In risposta agli innumerevoli testi che ne screditavano
l’immagine per colpirne l’autorità, Rabano Mauro proponeva per lei il modello biblico di
1
P. DELOGU, «Consors regni»: un problema carolingio? “Bullettino dell’Istituto storico italiano” 76 (1964), pp.
47-98.
2
G. BÜHRER-THIERRY, Reines adulteres et empoisonneuses, reines injustement accusée: La confrontation de
deux modèles aux VIIIe-Xe siècles, in Agire da donna. Modelli e pratiche di rappresentazione (secoli VI-X
secolo), a cura di C. LA ROCCA, Turnhout, 2007, pp. 151-70.
1
Maddalena Betti
Ester, la seconda moglie di Assuer che si era battuta presso il marito per la salvezza del
popolo eletto. Alla tipizzazione biblica, di cui non godettero le prime regine carolinge, si
diffuse inoltre l’uso di definire nei diplomi regi la regina come consors regni. L’espressione,
molto in voga presso la cancelleria del regno d’Italia ai tempi dell’imperatrice Engelberga, si
limitava tuttavia a essere titolo onorifico che indicava sì la correggenza ma non sanciva
giuridicamente una reale condivisione della potestas. Nell’866 papa Niccolò I, permeabile
alle nuove tendenze in Occidente, in materia di autorità regià femminile e, persino, al
vocabolario al femminile formalizzato dalla cancelleria di Ludovico II per la regina
Engelberga, indirizzò una lettera all’imperatrice bizantina Eudocia, nella quale, ampiamente,
ufficializzava l’importanza politica e spirituale della regina come consors regni 3. Esaminata
la lettera alla luce delle lettere indirizzate da Gregorio Magno alle imperatrici d’Oriente,
dominae e augustae, va subito segnalata l’originalità della lettera di Niccolò I, nei toni, nei
concetti e nel vocabolario. Gregorio Magno si appellava alla presunta devozione che le
imperatrici riservavano a San Pietro e alle virtù cristiane di cui erano ornate per chiedere
interventi a beneficio dell’Italia bizantina. Niccolò I, invece, per assicurarsi l’appoggio di
Eudocia nella vicenda della deposizione irregolare del patriarca Ignazio, a favore di Fozio
(moechus, neophytus e invasor Constantinopolitanorum ecclesiae), compila una sorta di
speculum della sovrana ideale. La gloriosa augusta, filia karissima e dilecta, non è stata
scelta da Dio come consors imperii del suo coniuge senza particolari motivi. L’imperatrice ha
un compito da svolgere sulla terra e per questo, insieme all’imperatore, sarà giudicata nel
giorno del giudizio. A lei Dio ha affidato il suo popolo (ecclesia): perciò essa dovrà
proteggere i deboli e consolare gli oppressi, ma soprattutto dovrà vigilare sull’operato del suo
consorte aiutandolo (adiutrix) fattivamente perché non venga sconvolto l’ordine stabilito dal
piano divino in origine. L’imperatrice di Niccolò I è la donna che supera i limiti del suo sesso
per assumere virtù maschili e adoperarsi perché il maligno non possa pervertire la politica
dell’imperatore. Perciò l’imperatrice è la regina Ester degli intellettuali carolingi che si batte
per il popolo eletto ma è anche la donna di fede che salva il marito infedele: tanto più potrà
allora, secondo Niccolò I, Eudocia al cospetto del basileus Michele III, cristianissimo e
religiosissimo! Nello specifico, il papa chiedeva all’imperatrice sostegno effettivo al primato
della sede romana su tutte le altre sedi. Perciò, con una mossa da abile adulatore, indicava a
Eudocia il modello dell’imperatrice Gallia Placidia che si era spesa in prima persona contro i
presunti abusi del concilio di Efeso ai danni dell’autorità del vescovo di Roma. In
3
Nicolai I. papae epistolae, a cura di E. PERELS, in Epistolae Karolini Aevi, IV, pp. 257-690 (MGH, Epistolae,
VI), Berlino, 1925, pp. 549-52.
2
Le donne invisibili negli epistolari papali
conclusione, pare che Niccolò I abbia fatto suo il dibattito carolingio sulla figura morale e sul
ruolo della regina, adottando e rivestendo di nuovi contenuti la formula consors regni e
riesumando la memoria di potenti imperatrici romane. Al fine di rafforzare la sua posizione a
corte, il papa tentava di far leva sull’ambizione politica dell’imperatrice sollecitandola a
rivestire un ruolo politico attivo e influente. L’operazione di Niccolò I, ben esplicitata dalla
lettera all’imperatrice greca Eudocia, legittimava il ruolo politico della regina in quanto
alleata particolare del vescovo di Roma, a tutela dell’operato del marito e dunque dell’ordine
divino in terra.
Qualche anno più tardi, papa Giovanni VIII seguì le linee generali indicate dal
predecessore quando si accinse a compilare lettere indirizzate alle imperatrici carolinge.
Lasciando da parte la corrispondenza con l’imperatrice Engelberga, vedova di Ludovico II,
che sottende un rapporto più maturo, un riconoscimento concreto del suo ruolo politico e una
tutela effettiva dei suoi beni e del suo operato, rivolgiamo piuttosto l’attenzione alle lettere
indirizzate a Richilde, seconda moglie di Carlo il Calvo (2), e a Riccarda, moglie di Carlo il
Grosso (1). Le lettere in questione costituiscono messaggi papali non sollecitati, ma
spontanei, attraverso i quali il pontefice tenta di conquistare la fiducia delle consorti regali
per aumentare la cassa di risonanza delle sue richieste presso la corte dei re dei Franchi
occidentali. Va subito detto che il concetto di consors regni di Niccolò I, così come la
formula, non compare nelle lettere di Giovanni alle imperatrici carolinge, né si fanno
riferimenti a modelli di imperatrici romane da imitare. Più modestamente, Giovanni VIII
aveva conservato il tema del tipo biblico di Ester che indicava come modello alla
neoimperatrice Richilde. Proprio perché novella Ester, il papa si rivolgeva a lei come
protettrice della sancta mater ecclesia di fronte al marito. Tuttavia la libertà d’azione di
Richilde sembra davvero ridotta rispetto a quella che Niccolò I attribuiva a Eudocia.
Giovanni VIII le chiedeva infatti di farsi «pro nobis ostium, lingua et manus» e di essere
advocator della causa romana (immo totum pro nobis sitis, advocatoris fungentes officiis…);
le suggeriva dunque di essere sostenitrice discreta, a corte, delle disposizioni papali. In
cambio, Giovanni VIII offriva preghiere a Pietro e Paolo per la sua salute spirituale e
garanzia per il suo buon nome in praesenti saeculo. In conclusione, pare di poter affermare
che Giovanni VIII non ritenga nei doveri di un’imperatrice la tutela del popolo di Dio
attraverso l’influenza sul consorte. Più semplicemente, il successore di Niccolò I sembra
interessato a guadagnarsi il favore personale della regina, assicurandole che in cambio
3
Maddalena Betti
veglierà sulla sua posizione, già minacciata dalle insinuazioni di Incmaro di Reims 4. La
seconda lettera a Richilde 5 e l’unica lettera a Riccarda 6, compilate nel momento del bisogno,
quando cioè Roma era minacciata dai Saraceni, rappresentano disperate richieste di soccorso
dove è ribadito il concetto secondo cui la regina deve agire al cospetto del re come portavoce
della Sede Apostolica (ut vice nostra). Non solo. Quasi si trattasse di un commonitorium a un
proprio legato, il papa segnala anche gli argomenti sui cui la regina dovrebbe oportune
importune insistere per convincere l’imperatore a fornire soccorso militare a Roma.
In conclusione, l’impressione che se ne ricava è che Giovanni VIII abbia ridimensionato la
figura morale della regina e abbia sminuito la sua posizione nel regno rispetto al suo
predecessore, ritagliando per la regina un ruolo più circostanziato: non più vigile garante
dell’ordine universale, come aiutante ma anche censore del proprio consorte, ma più
semplicemente fida advocator della Sede Apostolica alla corte del sovrano. Tale ruolo
sembrerebbe spendibile anche in ambito missionario, specialmente nella fase in cui Giovanni
VIII tentava di guadagnarsi il favore nei nuovi capi politici, slavi e bulgari, in concorrenza
con la chiesa di Costantinopoli (per le cristianità dalmatiche e per la chiesa di Bulgaria) e con
la chiesa di Salisburgo (per le cristianità pannoniche). Tuttavia, come già anticipato in
apertura dell’intervento, non esiste traccia di lettere indirizzate alle sovrane barbare (morave,
slavo-pannoniche, croate, serbe o bulgare) all’interno del fitto corpus di lettere missionarie
compilate durante il pontificato di Giovanni VIII. Perché dunque il papa non eleva nessuna
delle regine barbare a possibile intermediario delle relazioni diplomatiche tra la Sede
Apostolica e i nuovi soggetti politici? Perché, in altre parole, nella seconda metà del IX
secolo la curia, seguendo la strada tracciata nel VI secolo da Gregorio Magno, non tenta di
intrecciare contatti con le regine come possibili «Queens as Converters» e come garanti
romane delle nuove organizzazioni episcopali in Europa centrale e sud-orientale? A questo
proposito, basti rammentare Gregorio Magno che aveva scritto a regine, in particolare Berta e
Teodolinda, per chiedere il loro impegno perché la cristianità o l’ortodossia trionfasse tra la
gente dei loro popoli e l’influenza della Chiesa Romana continuasse a prevalere sulle chiese
di recente fondazione. Tuttavia, come suggerito da Janet Nelson, le regine selezionate da
Gregorio Magno non sono certo numerose. Inoltre sempre si trattò di figlie di sovrani ormai
cristiani, trasferite, in seguito al matrimonio, in contesti scarsamente cristiani e addirittura
4
Iohannis VIII. Papae epistolae, a cura di E. CASPAR e G. LAHER, in Episolae Karolini Aevi, V, pp. 313-29
(MGH Epistolae VII), Berlino, 1928, pp. 26-27; 876 Novembre 16 (ep. 28).
5
Iohannis VIII. Papae epistolae, pp. 32-33; 877 Febbraio 10 (ep. 33).
6
Iohannis VIII. Papae epistolae, pp. 267.8; 882 Marzo (ep. 309); la lettera è indirizzata anche al vescovo di
Vercelli, Liutvardo.
4
Le donne invisibili negli epistolari papali
pagani 7: questo è il caso della regina Berta, nipote della merovingia Clotilde e data in sposa a
Æthelbert, re del Kent 8. L’universo barbarico che Giovanni VIII inizia a frequentare nella
seconda metà del IX secolo sembra non presentare tali opportunità: non mi pare infatti che le
fonti a nostra disposizione testimonino la pratica di matrimoni misti tra i membri delle recenti
dinastie dei nuovi capi politici dell’area pannonica, medio-danubiana e balcanica e membri
delle dinastie regnanti occidentali e orientali. Alle nuove corti mancava, come prima cosa,
una regina di origine franca, bavarese o bizantina, certamente cristiana, che avrebbe potuto
ricevere la corrispondenza papale e di conseguenza tentare una qualche forma di influenza
sulla politica del marito.
In alternativa, il papa avrebbe potuto coinvolgere una regina di origine slava o bulgara, di
testata cristianità. Del resto, le lettere di Giovanni VIII ai nuovi capi politici celebrano i
progressi della conversione con toni entusiastici; inoltre negli anni Settanta, quando cioè il
papa avvia le sue attività diplomatiche con i nuovi barbari, molte sono le attestazioni di una
certa maturità delle nuove cristianità. I vescovi bavaresi, nella Conversio Bagoariorum et
Carantanorum, vero e proprio manifesto dei diritti missionari della sede salisburghese,
rivendicano la loro attività presso gli Slavi carantani e pannonici sin dall’inizio del IX secolo.
L’evidenza archeologica inoltre mostra come i centri fortificati moravi, a nord del Danubio,
fossero provvisti di edifici ecclesiastici in muratura già dalla prima metà del IX secolo. A tale
opzione, che cioè il papa osasse contattare direttamente le sovrane barbare, si potrebbe
opporre l’obiezione secondo cui tale pratica non era stata mai sperimentata in precedenza.
Nelson afferma che la lettera di Gregorio Magno a Berta, merovingia e cristiana, è
immaginabile soltanto in un contesto di grave difficoltà, quando cioè venne messa in dubbio
l’autorità della chiesa romana sulla chiesa degli Angli. La ricca produzione di lettere
missionarie durante il pontificato di Giovanni VIII risponde a sua volta a una situazione
d’emergenza, quando cioè la chiesa bulgara e le chiese dalmate oscillavano pericolosamente
verso la chiesa di Costantinopoli e la sopravvivenza della chiesa morava veniva
costantemente minacciata dalle autorità ecclesiastiche bavaresi. Nonostante l’emergenza,
Giovanni VIII non chiese la collaborazione e l’intervento di regine barbare di cui tuttavia
doveva pur avere ampia informazione. Il pontefice infatti era riuscito a intessere relazioni
continue e prolungate con le corti dei capi slavi e bulgari, grazie all’attività di legati
specializzati nei rapporti con i nuovi barbari e vescovi missionari operanti sul campo. Spicca
7
J. L. NELSON, Queens as Converters of Kings in the Earlier Middle Ages, in LA ROCCA, Agire da donna, p. 97.
GREGORIO I PAPA, Registrum Epistolarum, I, a cura di P. EWALD e L. M. HARTMANN (MGH Epistolae, I),
Berlino, 1891, XI, 35, pp. 304-5.
8
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tra i legati specializzati, ad esempio, il prete Giovanni da Venezia, messo che cura con
continuità i rapporti tra la Sede Apostolica e le corti bulgara, morava e dei principi slavi
dalmatici, risiedendo personalmente prima presso la corte dello slavo Domagoj e poi presso
la corte di Branimir e informando dettagliatamente il papa di vicende di politica interna. Se,
come trapela dalle lettere, papa Giovanni VIII è ad esempio informato della pena capitale
inflitta con l’inganno dal dux Domagoj a nemici pubblici che avevano chiesto protezione
proprio al prete Giovanni 9, pare piuttosto improbabile che non conoscesse i nomi delle spose
dei suoi nuovi partners politici e la posizione che esse rivestivano nel regno.
L’assoluta assenza delle sovrane barbare, neanche una volta destinatarie delle lettere
papali né mai menzionate indirettamente nelle missive, corrisponde a un completo silenzio
delle altre tipologie di fonti scritte, latine, che descrivono le nuove società esclusivamente al
maschile. Infatti, sia nella Conversio Bagoariorum et Carantanorum, sia negli Annali di
Fulda, non solo gli autori non citano mai il nome delle spose dei capi politici di cui, pur con
difficoltà, riescono a trascrivere i nomi slavi, ma mai riportano episodi in cui spose anonime
rivestano un qualsiasi tipo di ruolo, sia pur semplicemente di parentela (madre di, sorella di,
figlia di). Tuttavia, le donne barbare sembrano rivestire un ruolo significativo nelle società
barbariche della seconda metà del IX secolo se si consultano in particolare i dati archeologici
a disposizione. Spicca ad esempio, nei siti moravi, l’alto numero di sepolture di donne, con
ricchi corredi di tipo femminile e la posizione delle tombe femminili, ravvicinata o persino
interna rispetto alle fondamenta degli edifici ecclesiastici rinvenuti. Inoltre, una fonte
d’eccezione, l’evangeliario di Cividale (V-VI secolo) conserva ai margini, nei più disparati
fogli, i nomi dei capi slavi e bulgari, trascritti per motivi devozionali, accompagnati dai nomi
delle mogli e delle figlie 10. L’assoluto silenzio delle fonti esterne, compilate dagli osservatori
delle società barbariche, a mio giudizio, non è il risultato di una esclusione di genere
intenzionale. Piuttosto deriva da una difficoltà interpretativa dei sistemi di parentela praticati
che scaturivano da forme familiari estranee alla tradizione occidentale. Tale difficoltà
probabilmente non consentiva l’individuazione delle figure femminili chiave nella
trasmissione, ad esempio, del potere all’interno delle famiglie dominanti. Avanzo questa
ipotesi, tutta da verificare, perché ho notato una certa insistenza, che mi pare specifica della
seconda metà metà del IX secolo, a denunciare persistenze di forme di poligamia nelle
9
Fragmenta registri Iohannes VIII. Papae, in Episolae Karolini Aevi, V, pp. 273-312, ep. 38, p. 295.
C. SCALON, Il «Codex Forojuliensis» e la sua storia, in Il Vangelo dei principi: la riscoperta di un testo
mitico tra Aquileia, Praga e Venezia, a cura di G. BRUNETTIN, Udine, 2001, pp. 13-28; B. LOMAGISTRO, A
margine della cultura libraria carolina: manifestazioni scrittorie slave ai confini orientali delle Alpi, in Le Api
porta d’Europa. Scritture, uomini, idee da Giustiniano al Barbarossa, a cura di L. PANI e C. SCALON, Spoleto,
449-522.
10
6
Le donne invisibili negli epistolari papali
società slave e bulgare ormai cristianizzate. Nella Vita paleoslava di Costantino-Cirillo,
l’autore pretende che Costantino contesti i metodi dei concorrenti missionari bavaresi proprio
per la loro presunta tolleranza verso la persistenza di costumi matrimoniali non cristiani
(«Non impedivano di compiere sacrifici secondo le antiche usanze, né di sposarsi
innumerevoli volte» 11). Lo stesso Giovanni VIII, forse informato dal vescovo Metodio o
addirittura direttamente interpellato in materia dagli stessi barbari, chiedeva al principe
pannonico Kocel di impedire che gli uomini si sposassero nuovamente dopo aver
abbandonato le spose ancora viventi. Il papa denunciava il ripudio (divorcium), previsto e
ammissibile dal diritto canonico in caso di adulterio o incesto da parte della moglie,
ascrivendo tale pratica al costume pagano (pessima consuetudo ex paganorum more)! 12 I
frammenti delle lettere di Giovanni VIII che condannano i costumi matrimoniali difformi
rispetto a quelli formalizzati in Occidente poco rivelano della reale organizzazione dei
rapporti di parentela nelle società slave, ma senz’altro denunciano il riconoscimento di
un’alterità che viene rifiutata secondo gli schemi che la chiesa aveva sino ad allora elaborato.
Lo stesso Niccolò I era stato consultato sulla materia, direttamente dai Bulgari che, senza
mezzi termini, lo avevano interpellato sulla liceità di avere due mogli allo stesso tempo (Si
liceat uno tempore habere duas uxores, exquiritis) 13. Dal modo in cui la domanda viene
trasmessa nella risposta di Niccolò I ai 106 quesiti dei Bulgari, emerge che i Bulgari non
ripudiavano le mogli ma praticavano una qualche forma di poliginia. Inoltre, il fatto che i
Bulgari di Boris-Michele tornassero a porre il quesito al vescovo di Roma, dopo averlo
senz’altro già posto all’attenzione dei prelati greci, significava che la questione era di grande
rilevanza per il funzionamento stesso della società bulgara. Niccolò I, a mio avviso, si trovò
leggermente spiazzato. Per rispondere ai 106 quesiti dei Bulgari, infatti, aveva fatto
affidamento, e non ne faceva mistero, alle risposte che Gregorio Magno aveva suggerito al
missionario Agostino, impegnato a evangelizzare gli Angli 14. Non risulta però che Agostino
abbia dovuto spiegare agli Angli i motivi per cui non fosse lecito praticare la poliginia. A
11
Vita di Costantino Cirillo, traduzione a cura di M. GARZANITI, in Cirillo e Metodio. Le radici cristiane della
cultura slava, a cura di A. E. TACHIAOS, Milano, 2005, p. 198.
12
Fragmenta registri Iohannes VIII., epp. 17 e 19.
13
Nicolai I. papae epistolae, Consultum 61, p. 586.
14
Il cosiddetto Libellus responsionum non è conservato nella collezione lateranense delle lettere di Gregorio
Magno ma in nell’Historia Ecclesiastica di Beda, I, 27 (BEDA, Historia Ecclesiastica Gentis Anglorum,
Historia Ecclesiastica Gentis Anglorum, in, Bede’s Ecclesiastical History of the English people, a cura di B.
COLGRAVE e R. A. B. MYNORS, Oxford, 1969). Sull’autenticità del testo, vedi R. MEENS, A background to
Augustine’s mission to Anglo-Saxon England, “Anglo-Saxon England” 23 (1994), pp. 5-17, qui alle pp. 6-11.
Sull’influenza del testo gregoriano nelle Responsa ad Consulta Bulgarorum, vedi C. LEYSER, Charisma in the
archive: Roman Monasteries and the Memory of Gregory the Great, c. 870-c. 940, in Le scritture dei monasteri:
atti del II Seminario Internazionale di Studio “I Monasteri nell'Alto Medioevo”, Roma, 9 - 10 maggio 2002, a
cura di F. DE RUBEIS e W. POHL, Roma, 2003, pp. 207-26.
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Maddalena Betti
Niccolò I non restava che escludere la pratica appellandosi all’origo humanae conditionis e
dunque proponendo un’esegesi elementare del racconto della genesi 15.
La difficoltà di stabilire la posizione della donna in sistemi di parentela di non chiara
leggibilità agli occhi degli osservatori esterni può essere all’origine del silenzio che oscura le
sovrane slave e bulgare della seconda metà del IX secolo; può essere inoltre uno dei
deterrenti che trattenne Giovanni VIII dall’identificare e selezionare le consorti dei capi
politici come «advocatrices» delle ragioni della Sede Romana presso le corti barbariche
dell’Europa centrale e sud-orientale.
Sull’esclusione dell’intermediario-donna nella politica romana missionaria della seconda
metà del IX secolo, bisogna inoltre prendere in considerazione un altro aspetto. Le lettere
missionarie di Giovanni VIII rivelano lo sforzo di garantire alla Sede Apostolica un ruolo
centrale nella fondazione delle chiese sui territori delle formazioni politiche che
progressivamente si delineano in area pannonica, dalmatica e balcanica. Per riuscire nel suo
intento, Giovanni VIII si premurava di instaurare un rapporto diplomatico di successo con i
leaders emergenti, contribuendo al rafforzamento della loro supremazia interna e alla loro
piena integrazione nel novero delle autorità cristiane riconosciute. Tuttavia, il pontefice era
consapevole della debolezza della sua posizione. In primo luogo, Giovanni VIII doveva
neutralizzare le lusinghe dei prelati bavaresi e greci che, operando in loco, tentavano di
accaparrarsi il favore dei nuovi capi politici, in competizione con la Sede Apostolica. In
secondo luogo, il papa instaurava con dispendio di energie (in termini di lettere e di legazioni
apostoliche) rapporti con capi politici che spesso si rivelavano fragilissimi dal punto di vista
politico; infatti, turbolente vicende militari, ma anche ribellioni interne provocavano
avvicendamenti repentini di capi, come nel caso “croato” che in pochi anni vide salire al
trono Traimi, Domagoj, Sedesclavus e Branimir 16, o addirittura la cancellazione di un
dominio politico dalla mappa, come nel caso del principato della Bassa Pannonia di Kocel.
15
Nicolai I. papae epistolae, ep. 99, cap. 51, p. 586: “Si liceat uno tempore habere duas uxores, exquiritis; quod
si non licet scire cupitis, apud quem inventum fuerit, quid exinde facere debeatis. Duas tempore uno habere
uxores nec ipsa origo humanae conditionis admittit nec lex Christianorum ulla permettit. Nam Deus, qui fecit
hominem, ab initio masculum unum fecit et unam feminam tantum, cui potuit utique si vellet duas uxores
tribuere, sed noluit; scriptum quippe est: ‘Propter hoc relinquet homo patrem et matrem et adherebit uxori suae’.
Non dixit: uxoribus. Et iterum: ‘Erunt duo’, masculus scilicet et femina, ‘in carne una’, et non: tres aut plures.
Itaque apud quem uno tempore duae uxores inveniuntur, interim priori retenta posteriorem cogatur amittere,
insuper et poenitentiam, quam loci sacerdos praeviderit, compellatur suscipere. Denique hoc tam immane scelus
est, ut homicidii quidem peccatum, quod Cain in Abel fratrem suum commisit, septima generazione cataclysmo
vindicatum fuerit, adulterii autem flagitium, quod Lamech omnium primus in duabus uxoribus perpetravit,
nonnisi sanguine Christi abolitum extiterit, qui septima et septuagesima generatione secundum evangelium
Lucae venit in mundum. ”.
16
F. BORRI, Francia e Chroatia nel IX secolo. Storia di un rapporto difficile, “Mélanges de l’Ecole française de
Rome. Moyen Âge”, 120/1 (2008), pp. 87-103.
8
Le donne invisibili negli epistolari papali
L’eccezionalità del contesto spinse Giovanni VIII a selezionare intermediari uomini che il
pontefice riteneva potessero influenzare positivamente le scelte dei capi. Nelle lettere, infatti,
il papa citava, a volte nominalmente, a volte, più genericamente sotto l’etichetta nobiles viri,
consiliarii, optimates o principes i membri dell’entourage del capo politico ufficiale con cui
in modo più o meno esplicito tentava un approccio. In alcuni casi, gli si rivolgeva
direttamente per usare la loro influenza sul capo politico riconosciuto. A questo riguardo sono
significative le lettere di Giovanni VIII al bulgaro Pietro comes, familiare di Boris-Michele, a
cui il papa delegava il compito di portavoce delle ragioni di Roma, pregandolo di dissuadere
il re dai suoi errori 17. Bisogna subito segnalare che il vocabolario adottato da Giovanni per
rivolgersi ai nobiles viri prescelti come portavoce è decisamente analogo a quello da lui
elaborato per le imperatrici carolinge a cui ricorreva per chiedere un intervento
dell’imperatore a favore di Roma. Tuttavia, la scelta dell’intermediario in ambito barbarico è
decisamente tutta al maschile. A mio giudizio, la ragione è connessa all’eccezionalità del
contesto. Il pontefice, infatti, indirizzando le sue lettere ai nobiles viri che dovevano fungere
da intermediari, faceva molto di più. Nella previsione che l’ordine politico potesse essere
rovesciato repentinamente – Giovanni VIII aveva sperimentato più volte questa eventualità –,
il papa si tutelava intrecciando rapporti e dunque legittimando una più stabile elite che un
domani, forse, avrebbe espresso un altro capo rispetto a quello attuale. Tra gli intermediari
prescelti, inoltre, il papa poteva aver selezionato il leader che avrebbe sostituito il capo
politico che rispondeva solo parzialmente alle sollecitazioni della Sede Apostolica. In
conclusione, non resta che registrare l’assenza di spazio per un discorso al femminile. Il
pontefice infatti, con lo scopo di salvaguardare la continuità dei suoi progetti ecclesiastici e,
dunque, la stabilità del suo controllo sulle regioni dell’Europa centrale e sud-orientale, era
pronto a salvaguardare, con tutti i mezzi e nonostante la turbolenza dell’ordinamento politico,
la costanza e l’efficacia del dialogo con i nuovi soggetti politici. Ogni contatto, perciò,
persino quello con un “intermediario” a cui si chiedeva di sostenere le ragioni del papa di
fronte al leader ufficiale, si caricava di un notevole peso politico.
17
Iohannis VIII. Papae epistolae, pp. 61-62; 878 ottobre 16 (ep. 67).
9
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