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L`Unione europea e il terrorismo
Istituto di Politica, Amministrazione, Storia, Territorio - PAST PAST Monografie n. 2 Febbraio 2013 L'Unione europea e il terrorismo (1970-2010) Storia, concetti, istituzioni Stefano Quirico UNIVERSITA’ DEL PIEMONTE ORIENTALE “Amedeo Avogadro” Dipartimento di Giurisprudenza e Scienze Politiche, Economiche e Sociali Stefano Quirico L'Unione europea e il terrorismo. Storia, concetti, istituzioni ISBN 978-88-907893-1-1 Tutti i manoscritti pubblicati in questa collana sono sottoposti a peer review Istituto di Politica, Amministrazione, Storia, Territorio – PAST Via Cavour 84 15121 Alessandria http://past.unipmn.it Indice Introduzione 4 Elenco delle principali sigle e abbreviazioni 14 1. I prodromi della lotta europea al terrorismo (1970-1989) 1.1 Le origini della cooperazione politica europea 15 1.2 La nascita della cooperazione operativa e il fallimento dello spazio giudiziario europeo 24 1.3 La crisi degli ostaggi in Iran e i tentativi di riformare la Comunità 31 1.4 La svolta del 1985-86: le nuove competenze della CPE in materia di antiterrorismo 39 2. La fine della guerra fredda e i primi passi dell’Unione europea (1990-2001) 2.1 La vittoria del blocco occidentale e il Trattato di Maastricht: l’Unione politica 50 2.2 I conflitti religiosi, etnici e nazionali: la lotta al terrorismo nell’epoca delle “nuove guerre” 58 2.3 L’evoluzione dell’Unione europea dopo Amsterdam: politica estera e politica interna 70 2.3.1 Excursus sul concetto di “spazio” 76 3. L’11 settembre, la reazione europea e lo spirito atlantico (2001-2002) 3.1 La “scoperta” di Al Qaeda: la politica di fronte al terrorismo globale e fondamentalista 88 3.2 Il dibattito sulla guerra in Afghanistan e sull’uso della forza contro il terrorismo 94 3.3 Il rilancio della cooperazione giudiziaria: una nuova nozione di terrorismo 108 4. Gli Stati Uniti, l’Europa e le spaccature sulla guerra in Iraq (2002-2003) 4.1 La guerra al terrorismo fra politica e morale: la “dottrina Bush” 123 4.2 L’intervento in Iraq nel dibattito euroamericano 137 4.3 La “dottrina Solana”: un’alternativa al bellicismo messianico 148 5. Il ritorno del terrorismo in Europa: il difficile equilibrio tra sicurezza e diritti (2004-2010) 5.1 La strage di Madrid e il terrorismo come problema “interno” 157 5.2 Lo status dei prigionieri di Guantánamo e l’ambigua concezione del terrorismo 164 5.3 La lotta al terrorismo dalla “Costituzione europea” al Trattato di Lisbona 169 Conclusione 179 Bibliografia 184 3 Introduzione La radice etimologica del termine “terrorismo” va ricercata nell’esperienza storica del “Terrore” nella Francia rivoluzionaria. Secondo la lettura più diffusa, il lemma appare per la prima volta nel supplemento del Dictionnaire de l’Académie française del 17981. Alcuni studiosi, tuttavia, retrodatano di qualche anno il suo utilizzo: sarebbero J.-L. Tallien in un discorso pronunciato il 23 agosto 1794 e Babeuf in un intervento dell’11 settembre 1794 a introdurre nel lessico politico le rispettive nozioni di terrorisme e terroristes2, che discendono dal verbo terroriser ed esprimono «la volontà determinata di ispirare il terrore»3. Nel 1795, inoltre, al termine inglese terrorists fa ricorso Edmund Burke per qualificare i rivoluzionari francesi4. L’elemento fondamentale, condiviso da tutte le ricostruzioni, è che il concetto di terrorismo trae la propria origine da una manifestazione di violenza dei detentori del potere a danno di una parte della popolazione civile. Il Terrore si configura dunque come una forma di violenza interna allo Stato moderno, che si affianca alla – e si distingue con nettezza dalla – guerra, intesa come esercizio della forza verso l’esterno, nel conflitto con altri Stati5. La premessa concettuale di questa divaricazione risiede nel pensiero politico di Thomas Hobbes, la cui dottrina dello Stato si fonda sul presupposto che la paura (fear), propria degli uomini allo stato di natura, riveli il proprio lato “creatore” e giustifichi la costruzione razionale di un potere politico artificiale dotato del monopolio della violenza. Il Leviatano così istituito è chiamato a svolgere – insindacabilmente – una duplice funzione: mantenere la pace sociale all’interno dello Stato, garantendo l’obbedienza alla legge mediante il terrore (terror); difendere la comunità dalle minacce esterne attraverso la guerra contro gli altri Stati6. Questo impianto si conserva sostanzialmente intatto lungo la linea prevalente del pensiero politico della modernità europea, in cui peraltro emergono 1 Si veda L. Bonanate, Terrorismo internazionale, Firenze, Giunti, 2001, p. 9. Cfr. A. Colombo, La guerra ineguale. Pace e violenza nel tramonto della società internazionale, Bologna, Il Mulino, 2006, p. 55. 3 B. Lerat, Le terrorisme rivolutionnaire. 1789-1799, Paris, Editions France-Empire, 1989, p. 13. Traduzione del redattore. 4 G. Chaliand e A. Blin, L’invenzione del terrore moderno, in Iid. (a cura di), Storia del terrorismo. Dall’antichità ad Al Qaeda (2006), Torino, Utet Libreria, 2007, p. 96. 5 Cfr. A. Cavarero, Orrorismo. Ovvero della violenza sull’inerme, Milano, Feltrinelli, 2007, pp. 107-108. 6 Per le recenti letture del binomio paura-terrore nella filosofia politica hobbesiana, si rinvia a S. Quirico, Paura, terrore, ordine. Note sul pensiero politico di Thomas Hobbes, «Il Pensiero Politico», a. XLIII, n. 2, 2010, pp. 253-264. Per un’analisi storico-concettuale del termine “paura”, non sovrapponibile a “terrore”, cfr. la sezione monografica dedicata al lessico politico europeo da «Filosofia politica», a. XXIV, n. 1, aprile 2010. 2 istanze volte a limitare il dispiegamento della violenza pubblica sia all’interno (costituzionalismo liberale) che all’esterno (giuridificazione dei rapporti internazionali) dello Stato. Al culmine della diffusione dei principi liberali e poi democratici, è Max Weber a precisare che lo Stato è detentore di una forza “legittima”, espellendo definitivamente il terrore dall’alveo della violenza propria degli ordinamenti liberaldemocratici7. Come conseguenza di questa svolta dottrinale, nel Novecento la categoria del terrore viene sempre più associata all’azione degli Stati autocratici e in particolare alla loro variante totalitaria. È nota la riflessione con cui Hannah Arendt individua nel “terrore”, inteso come violenza che i totalitarismi rovesciano sulla società e su alcune sue parti in particolare – i nemici “oggettivi” –, uno dei tratti distintivi del nazionalsocialismo e del comunismo sovietico rispetto ad altri sistemi politici genericamente autoritari8. Nell’età contemporanea, tale filone della violenza statale descrive una traiettoria che si declina in varie forme9, ma di norma separate dal percorso storico e concettuale intrapreso dal termine “terrorismo”. A partire dalla metà dell’Ottocento, quest’ultimo finisce per indicare in modo pressoché esclusivo alcune forme di violenza politica utilizzate da individui o gruppi “contro” lo Stato. Sono considerati esempi di questa seconda e ormai prevalente accezione alcune correnti dell’anarchismo10 e i gruppi antizaristi in Russia a cavallo fra XIX e XX secolo11. Questi soggetti armati e quelli destinati a comparire nel corso del Novecento si relazionano con lo Stato in modo decisamente peculiare. Non sono riconducibili alla figura del “nemico esterno”, che è in genere un altro Stato sovrano con cui si entra in guerra, ricorrendo al contributo di eserciti regolari. Né sono avvicinabili, anche e soprattutto per loro espressa volontà, ai criminali ordinari, che violano le leggi interne dello Stato, 7 Cavarero, Orrorismo, cit., pp. 110-111. Cfr. H. Arendt, Ideologia e terrore (1958), in Ead., Le origini del totalitarismo, Torino, Comunità, 1999, pp. 630-656. In termini più generali, Ead., Sulla violenza (1968), Parma, Guanda, 2001, ammonisce circa i rischi legati a una spirale innescata dalla degenerazione del «potere» statale in «violenza», in risposta a quella esercitata dal basso (pp. 83-84). 9 Interessanti panoramiche sulla violenza di massa esercitata dagli Stati sono offerte da M. Flores, Tutta la violenza di un secolo, Milano, Feltrinelli, 2005 e J. Semelin, Purificare e distruggere. Usi politici dei massacri e dei genocidi (2005), Torino, Einaudi, 2007. 10 O. Hubac-Occhipinti, I terroristi anarchici del XIX secolo, in Chaliand e Blin (a cura di), Storia del terrorismo, cit., pp. 112-130, che attira l’attenzione sulla “propaganda del fatto” cara agli anarchici italiani. Su questo aspetto, proprio del pensiero di Carlo Pisacane e poi di Errico Malatesta, cfr. G. Berti, Il pensiero anarchico dal Settecento al Novecento, Manduria, Laicata, 1998, pp. 388 e ss. 11 Y. Ternon, Il terrorismo russo (1878-1908), in Chaliand e Blin (a cura di), Storia del terrorismo, cit., pp. 131-175. Sulla fase “terroristica” vissuta dal populismo russo a partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento, si veda F. Venturi, Il populismo russo (1952), 3 voll., Torino, Einaudi, 1972 (seconda edizione, con un nuovo saggio introduttivo), vol. III, Dall’andata nel popolo al terrorismo. 8 5 mettendone a repentaglio il clima di pace e sicurezza, e vengono puniti secondo le procedure e le sanzioni stabilite dall’autorità pubblica. Almeno nelle intenzioni, i terroristi non sono semplicemente fattori di turbamento dell’ordine pubblico, attori che negano solo con i fatti il principio secondo cui lo Stato è l’unico detentore della forza e, in tale veste, impegnato a neutralizzare i conflitti e proteggere i cittadini12. I terroristi si ritengono portatori di una critica più radicale, che colpisce le fondamenta teorico-politiche dello Stato e delle sue istituzioni. Se la delinquenza comune, per quanto cruenta e organizzata sul territorio, ricorre alla violenza per finalità economiche, patrimoniali e dunque “private”, il terrorismo strettamente inteso rivendica scopi propriamente “politici”, nel senso di “pubblici”13. La lotta armata dichiara infatti di perseguire obiettivi come il cambiamento di un regime politico-istituzionale, il superamento di un assetto economico-sociale, la ridefinizione dei confini di uno Stato o di una regione, l’attribuzione di territori contesi e così via. Il terrorismo lancia alle autorità statali una “sfida” sul terreno della politica e non dei rapporti fra privati. Per queste ragioni, i terroristi hanno l’ambizione di presentarsi come “nemici pubblici interni” e chiedono allo Stato di essere riconosciuti come tali. Così facendo, tuttavia, le autorità statali ammetterebbero l’esistenza di una frattura interna alla società, di una guerra civile tra “parti” o “fazioni” di rilevanza pubblica, determinando il crollo dell’impalcatura ideale e istituzionale su cui si regge la propria legittimazione. Questo ragionamento spiega la tendenza dello Stato a equiparare i terroristi a criminali comuni, considerandoli soggetti da perseguire penalmente e processare nei tribunali, interpretando le loro azioni nei termini di reati e infrazioni della legge. I detentori del potere rifiutano in tal modo di concedere ai terroristi la dignità di attori politici animati da una causa legittima. In modo un po’ paradossale, capita talvolta che la dimensione politica, negata in termini di status, riemerga come strumento giuridico utile ad accrescere l’entità delle pene. Alcune legislazioni contemplano in effetti la finalità politica come aggravante per i reati 12 Per questa immagine dello Stato, cfr. P.P. Portinaro, Stato, Bologna, Il Mulino, 1999, p. 49, che trae spunto dal paradigma elaborato da Charles Tilly, che paragona le funzioni dello Stato a quelle tipiche di un’organizzazione criminale dedita al protection racket: l’eliminazione dei rivali esterni che minacciano il territorio (war making), la neutralizzazione dei rivali all’interno del territorio (state making), la neutralizzazione dei nemici dei clienti dell’organizzazione (protection) e l’acquisto imperativo dei mezzi per esercitare tali compiti (extraction). Cfr. C. Tilly, War Making and State Making as Organisation Crime, in P. Evans, D. Rueschmeyer and T. Skocpol (eds.), Bringing the State Back In, Cambridge, Cambridge University Press, 1985, pp. 170-186. 13 Su tutto ciò si veda P. Gilbert, Il dilemma del terrorismo. Studio di filosofia politica applicata (1993), Milano, Feltrinelli, 1997, pp. 55-60 in particolare. Cfr. anche F. Furet, Terrorisme et démocratie, in Id., A. Liniers et P. Raynaud (sous la direction de), Terrorisme et démocratie, Paris, Fayard, 1985, pp. 7-33, che insiste sulla volontà terrorista di colpire il potere come costruzione giuridica astratta emersa nella modernità e poi evolutasi in senso democratico (pp. 10-17). 6 che possono essere compiuti sia per fini terroristici, sia per ragioni “ordinarie”14. Il corollario a questa impostazione è il rigetto di ogni richiesta di trattativa, negoziato, accordo con i rappresentanti di un gruppo terroristico15. La “criminalizzazione” del terrorismo accompagna peraltro il fenomeno fin dalle origini: risale infatti alla normalizzazione termidoriana della Rivoluzione francese l’uso della categoria di terroristes nell’ambito di una strategia retorica volta a escludere «retroattivamente dal campo politico legale e legittimo» i vinti, cioè i protagonisti della fase del Terrore appena conclusa16. Tra le varie forme di violenza dal basso affiorate nella storia europea e occidentale (la rivoluzione di massa, il tirannicidio, ecc.), il terrorismo si caratterizza per alcuni elementi fondamentali. Pur avendo a che fare con un fenomeno decisamente eterogeneo al proprio interno, al punto da rendere arduo non solo il tentativo di darne una definizione, ma anche quello di classificarne le varianti17, la letteratura politologica sottolinea in particolare il carattere “strumentale” insito nell’agire terroristico. Ogni attentato è indirizzato contro un bersaglio, ma contestualmente produce effetti che lo trascendono. Questo tratto è messo abilmente in luce dalla figura del “triangolo”18: oltre al soggetto che agisce e a quello che subisce, l’azione terroristica – per essere tale – coinvolge un terzo partecipante. È lo spettatore che assiste all’operazione o ne è informato a costituire il vero interlocutore dell’attore. Mentre il bersaglio sconta le conseguenze fisiche dell’azione, il 14 Gilbert, Il dilemma del terrorismo, cit., pp. 79-84 e pp. 207-208. Ivi, p. 217. 16 Si veda la riflessione di S. Wahnich, La liberté ou la mort. Essai sur la Terreur et le terrorisme, Paris, La Fabrique, 2003, pp. 96-97 in particolare. Traduzione del redattore. 17 Alcune proposte, più o meno elaborate, sono avanzate da: L. Bonanate, Terrorismo politico, in N. Bobbio, N. Matteucci e G. Pasquino, (a cura di), Il Dizionario di Politica, Torino, Utet Libreria, 2004, pp. 980-984, che riprende gli spunti offerti in Id., Dimensioni del terrorismo politico, in Id. (a cura di), Dimensioni del terrorismo politico, Milano, Angeli, 1979, pp. 99-179; M. Crenshaw (ed.), Terrorism in Context, University Park (PA), Pennsylvania State University Press, 1995; D. Della Porta e L. Pellicani, Terrorismo, in AAVV, Enciclopedia delle scienze sociali, vol. VIII, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1998, pp. 590-605; E. Greblo, Terrorismo, in R. Esposito e C. Galli (a cura di), Enciclopedia del pensiero politico. Autori, concetti, dottrine, Roma-Bari, Laterza, 2005, pp. 489-491; P.L. Griset, Terrorism in Perspective, Thousand Oaks, Sage, 2003; J.M. Lutz e B.J. Lutz, Global Terrorism, London-New York, Routledge, 2004, pp. 14-16 e Iid., Terrorism. Origins and Evolution, New York-Basingstoke, Palgrave Macmillan, 2005, pp. 11-13; D. Rapoport (ed.), Terrorism. Critical Concepts in Political Science, 4 voll., London-New York, Routledge, 2006, dove la ripartizione dei tomi fotografa le successive “ondate” del terrorismo; V. Ruggiero, La violenza politica. Un’analisi criminologica, Roma-Bari, Laterza, 2003; D. Tosini, Terrorismo e antiterrorismo nel XXI secolo, Roma-Bari, Laterza, 2007, in particolare pp. 23-51; C. Townshend, La minaccia del terrorismo (2002), Bologna, Il Mulino, 2004; P. Wilkinson, Why Modern Terrorism? Differentiating Types and Distinguishing Ideological Motivations, in C.W. Kegley Jr. (ed.), The New Global Terrorism. Characteristics, Causes, Controls, Upper Saddle River, Prentice Hall, 2003, pp. 106-138. 18 Si veda in particolare Colombo, La guerra ineguale, cit., pp. 40-43. 15 7 soggetto terzo è chiamato a coglierne il senso profondo e il rimando simbolico19. La storia del pensiero politico e la scienza politica paiono concordare, in altri termini, sul fatto che le operazioni terroristiche contengano un messaggio, inviato alle istituzioni o all’opinione pubblica, ai governanti o ai governati20, che ha in ogni caso l’obiettivo di mettere in moto un meccanismo volto a perseguire obiettivi politici. Va peraltro precisato che questa lettura del fenomeno terroristico, sia dal punto di vista dinamico che definitorio, poggia sull’assunto che, nella maggior parte dei casi, i suoi strateghi perseguano un disegno definito e almeno parzialmente indagabile, in quanto rispondente a un rapporto razionale tra mezzi e fini21. È noto, d’altra parte, che alcuni comportamenti tendono a sfuggire a questo modello, esprimendo invece visioni nichiliste o apocalittiche, figlie di un mero cupio dissolvi22. Senza entrare nel merito di questo dibattito, occorre piuttosto porre l’accento sul fatto che, in termini storico-politici, la concezione del terrorismo delineata nelle pagine 19 Il carattere “simbolico” dell’azione terroristica, in quanto evento destinato ad avere un impatto superiore agli effetti prodotti sul bersaglio, è esplorato da J. Baudrillard, Lo spirito del terrorismo (2001), Milano, Cortina, 2002, pp. 39-41, da L. Bonanate, Il terrorismo come prospettiva simbolica, Torino, Aragno, 2006 e da P.P. Portinaro, Violenza, in Id. (a cura di), I concetti del male, Torino, Einaudi, 2002, p. 362. 20 J.C. Alexander, Dagli abissi della disperazione: l’11 settembre come performance culturale (2001), in Id., La costruzione del male. Dall’Olocausto all’11 settembre, Bologna, Il Mulino, 2006, pp. 193-222, legge gli attacchi dell’11 settembre 2001 come una rappresentazione messa in scena da Al Qaeda e rivolta a un pubblico di spettatori. Sull’attentato come performance si veda anche R. Eyerman, L’assassinio come performance pubblica: l’omicidio di Theo Van Gogh, «Studi culturali», a. IV, n. 1, aprile 2007, pp. 27-53. 21 Questa tesi è sostenuta con chiarezza da P.R. Neumann e M.L.R. Smith, The Strategy of Terrorism. How It Works and Why Does It Fails, London-New York, Routledge, 2008, p. 6 e pp. 31-55, e da Tosini, Terrorismo e antiterrorismo nel XXI secolo, cit., pp. 94-111, che mette in luce – weberianamente – la razionalità “strumentale” denotata dai pianificatori delle azioni. Una commistione tra quest’ultima e la razionalità “rispetto al valore” spiegherebbe invece l’atteggiamento di sostenitori e simpatizzanti. Da un punto di vista strategico, dunque, non è rilevante che un esecutore materiale come Mohammed Atta, capo del commando responsabile dell’11 settembre, esprima una personalità disturbata (in questa luce lo ritrae M. Ruthven, Il seme del terrore. L'attacco islamista all'America (2002), Torino, Einaudi, 2003, pp. 141-147). 22 Si veda in generale J.F. Rinehart, Apocalyptic Faith and Political Violence, New York-Basingstoke, Palgrave Macmillan, 2006. Il terrorismo è considerato sostanzialmente in questi termini nei più recenti scritti di W. Laqueur (Il nuovo terrorismo. Fanatismo e armi di distruzione di massa (1999), Milano, Corbaccio, 2002; No End to War. Terrorism in the Twenty-First Century, New York-London, Continuum, 2003). Una lettura nichilista del jihadismo contemporaneo è proposta da: A. Glucksmann, Dostoevskij a Manhattan (2002), Firenze, Liberal libri, 2002; M. Ignatieff, Il male minore. L'etica politica nell'era del terrorismo globale (2004), Milano, Vita e Pensiero, 2006, pp. 170-192; S. Givone, Nichilismo e terrorismo, ovvero: i quattro cavalieri dell’Apocalisse, «Iride», a. XIX, n. 47, gennaio-aprile 2006, pp. 69-75, che legge in questa luce il terrorismo di sinistra italiano (tesi ribadita in forma narrativa, e un po’ surreale, in Id., Non c’è più tempo, Torino, Einaudi, 2008). U. Beck, Un mondo a rischio (2002), Torino, Einaudi, 2003 accenna alla categoria della “banalità del male” per sottolineare il relativismo morale che caratterizzerebbe l’agire terroristico, il quale sembra però distinguersi per un volontarismo – talvolta ossessivo – che impedisce di apparentarlo alla lettura arendtiana della Shoah (H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme (1963), Milano, Feltrinelli, 2001). Rapportarsi alla sfera dei valori con una dose di relativismo o di scetticismo laico è anzi considerato da alcuni intellettuali un antidoto al fondamentalismo, cfr. rispettivamente V. Mura, Il relativismo dei valori e gli squilibri del terrore, in M. Bovero ed E. Vitale (a cura di), Gli squilibri del terrore. Pace, democrazia e diritti alla prova del XXI secolo, Torino, Rosenberg & Sellier, 2006, pp. 193210 e A. Asor Rosa, La guerra. Sulle forme attuali della convivenza umana, Torino, Einaudi, 2002, pp. 217233. 8 precedenti si basa su alcune premesse dottrinarie e istituzionali associate alla modernità europea. Per un verso, l’idea che i terroristi muovano all’assalto del monopolio della violenza statale presuppone che la loro minaccia sia considerata interna ai confini dello Stato. Questo assunto perde consistenza nella seconda metà del Novecento. La diffusione del terrorismo internazionale, che ha la sua punta di diamante nell’azione dei vari gruppi collegati alla causa della popolazione palestinese, e, successivamente, del terrorismo globale di Al Qaeda, dimostra che il fenomeno tende a sfuggire – dal punto di vista delle modalità operative, ma anche da quello delle strategie, degli obiettivi e dunque del suo significato complessivo – alla logica politica moderna e territoriale, fondata sull’esistenza di frontiere rigide e sulla compartimentazione fra Stati nazionali. Per altro verso, la considerazione secondo la quale il terrorismo mira a mettere in causa il ruolo delle autorità legittime si accompagna per lo più all’idea dello Stato come soggetto politico scaturito da un processo di “autorizzazione” tipicamente hobbesiano, nel quale prendono vita un potere unitario, una sovranità monista e un assetto istituzionale centralizzato23. È all’interno di questa “forma politica”, prevalente nella modernità europea, che le autorità sono detentrici delle competenze necessarie tanto alla tutela dell’ordine pubblico, quanto alla difesa militare, e possono ricorrervi senza difficoltà, optando per quelle più coerenti con la prospettiva da cui guardano il terrorismo. Nella tradizione politico-istituzionale di derivazione hobbesiana, l’agire dei terroristi rappresenta un pericolo ambiguo e controverso, che richiede di scegliere fra strumenti civili/di polizia o militari, ma si trova in ogni caso di fronte un soggetto unitario. Questo modello di Stato, e la corrispondente idea di sovranità24, non sono però gli unici presenti nella storia occidentale moderna. La situazione si complica decisamente, infatti, se ci si pone dal punto di vista del pensiero federalista, che rifiuta la visione monolitica della sovranità su cui si regge l’intera costruzione hobbesiana. L’impostazione dottrinaria di un’opera come il Federalist di Hamilton, Madison e Jay precede storicamente l’emergere del terrorismo come fenomeno politico riconosciuto, ma contiene comunque elementi destinati a influenzare il modo in cui le autorità statali e federali si pongono nei suoi confronti. La premessa logica del disegno di Hobbes è la necessità di creare le condizioni della pace tra gli uomini, che 23 Per questa lettura del pensiero hobbesiano si veda G. Duso, La logica del potere, Roma-Bari, Laterza, 1999, pp. 67-74. 24 Cfr. in proposito N. Matteucci, Sovranità (1976), in Bobbio, Matteucci e Pasquino (a cura di), Il Dizionario di Politica, cit., pp. 709-717, poi rifusa in Id., Lo Stato moderno. Lessico e percorsi, Bologna, Il Mulino, 1993, pp. 81-99, che si caratterizza per l’ipostatizzazione della concezione hobbesiana della sovranità. Su tale nozione, si veda in generale D. Quaglioni, La sovranità, Roma-Bari, Laterza, 2004. 9 giustifica la cessione al sovrano, tra gli altri, del diritto dei sudditi di farsi giustizia autonomamente. Viceversa, il discorso hamiltoniano si muove in larga misura sul piano dei rapporti fra gli Stati, che, tramite la costituzione, rinunciano alla possibilità di dichiararsi reciprocamente la guerra, trasferendo alla Federazione le competenze inerenti alla difesa da attacchi esterni, ma conservano il potere di governare il proprio territorio. Il Federalist si riconosce in effetti nel filone della teoria delle relazioni internazionali che, ponendo al centro il problema dell’anarchia internazionale, tende a enfatizzare la dimensione della politica estera su quella interna. E anche laddove si occupano del rischio della guerra civile – il tema che, nella fase storica che accompagna la genesi dell’opera, anticipa in certa misura il terrorismo otto-novecentesco –, i suoi autori non teorizzano un apporto continuativo della Federazione nel mantenimento della sicurezza interna degli Stati. Si ammette infatti che una «salda unione sarà di grandissima importanza per la pace e la libertà degli Stati, quale barriera contro la faziosità interna e le insurrezioni»25 e come «protezione contro la violenza intestina»26. Si rileva inoltre che l’«esistenza di un diritto di intervento generalmente preverrà la necessità di esercitarlo»27, fungendo da deterrente nei confronti dello scoppio di rivolte e violenze dal basso. Ma la Federazione si mobiliterebbe solo a patto che «il numero delle persone che vi [prendessero] parte [fosse] di una certa rilevanza rispetto a quello degli amici del governo»28. È difficile immaginare che la minaccia del terrorismo, perpetrata per lo più da individui o piccoli gruppi, possa rientrare in tale casistica. Nei suoi confronti, viceversa, sarebbero con tutta probabilità utilizzati gli strumenti della giustizia penale, la cui titolarità, per lo meno nell’idea originaria, resta «quasi completamente [nelle mani] dei singoli governi»29. Il contesto politico-istituzionale che fa da sfondo al terrorismo è dunque un fattore decisivo per comprendere in quali termini l’autorità ne percepisce l’azione e con quali mezzi cerca di ostacolarla. Il presente lavoro assume come quadro di riferimento il processo di integrazione europea, ponendosi l’obiettivo di esaminare in quale modo le istituzioni europee trattino il problema del terrorismo dal punto di vista concettuale e istituzionale. Le considerazioni svolte in questa introduzione hanno dunque lo scopo di fornire le coordinate indispensabili per esaminare i documenti prodotti dalle istituzioni europee nell’arco di un quarantennio (dal 1970 ai giorni nostri). È l’analisi dei testi – 25 A. Hamilton, J. Madison e J. Jay, Il Federalista (1788), a cura di M. d’Addio e G. Negri, con un saggio di L. Levi, Bologna, Il Mulino, 1988, p. 183. 26 Ivi, p. 407. 27 Ivi, p. 408. 28 Ibidem. 29 Ivi, p. 237. 10 trattati, documenti strategici o d’indirizzo, atti legislativi, relazioni, documenti di lavoro, comunicati stampa, discussioni parlamentari – e delle condizioni storico-politiche che concorrono alla loro elaborazione il filo conduttore di questa ricerca, che si concentra in modo particolare sull’evoluzione del lessico politico e dell’impianto istituzionale propri del processo di costruzione europea. Pur distinguendosi sia dal modello dello Stato hobbesiano, sia dall’ortodossia federale incarnata dal Federalist, è a questa seconda variante istituzionale che la Comunità e poi l’Unione europea, in modo ibrido e attraverso un’elaborazione funzionalisticocomunitaria, tendono ad approssimarsi. Il progetto di integrazione prende le mosse da una concezione della sovranità che rifiuta l’elemento dell’“esclusività” e teorizza la divisione verticale delle competenze e dei poteri fra gli Stati membri e le istituzioni sovranazionali30. A caratterizzare l’esperienza europea, rendendola un unicum nella storia delle dottrine e delle istituzioni politiche occidentali, è l’idea che l’attribuzione delle competenze fra i diversi livelli di governo non sia data una volta per tutte, ma destinata a evolversi nel tempo. Il disegno dei padri fondatori prevede che il raggio d’azione degli organi sovranazionali, inizialmente molto limitato, si estenda progressivamente, abbracciando nuovi campi d’intervento. Questa impostazione contribuisce a spiegare il motivo per cui il tema del terrorismo si affaccia solo negli anni Settanta, punto di partenza dell’analisi qui condotta31. Ma l’esito di tale avvicinamento non è affatto scontato, alla luce di quanto prescritto in tema di sicurezza interna dal Federalist hamiltoniano, dalla cui lettura trae ispirazione l’anima più ambiziosa e istituzionalmente consapevole dell’europeismo novecentesco. Non è casuale che i primi e forse prematuri tentativi di dotare le comunità di competenze politiche – si pensi per esempio al progetto della Comunità politica europea degli anni Cinquanta – privilegino il settore della politica estera rispetto a quello degli affari interni32, il cui sviluppo è viceversa fondamentale per intraprendere una lotta organica al terrorismo. 30 Per questa lettura della sovranità moderna si vedano C. Malandrino, Sovranità nazionale e pensiero critico federalista. Dall’Europa degli Stati all’unione federale possibile, «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», n. 31, tomo I, 2002, pp. 169-244, Id., Federalismo. Storia, idee, modelli, Roma, Carocci, 1998, pp. 12-19 e pp. 40-43, e M. Fioravanti, La forma politica europea (2008), in Id., Costituzionalismo. Percorsi della storia e tendenze attuali, Roma-Bari, Laterza, 2009, pp. 134-148 (in particolare pp. 143-148). 31 Il problema del terrorismo, in verità, è affrontato anche prima dell’avvio dell’avventura comunitaria, come dimostrano le convenzioni adottate in proposito dalla Società delle Nazioni nel novembre del 1937, il cui testo è riprodotto in appendice a N. Ronzitti (a cura di), Europa e terrorismo internazionale. Analisi giuridica del fenomeno e Convenzioni internazionali, Milano, Angeli, 1990, pp. 147-163 ed è commentato da M.R. Marchetti, Istituzioni europee e lotta al terrorismo, Padova, Cedam, 1986, pp. 117-131. 32 Cfr. D. Preda, Sulla soglia dell’unione. La vicenda della Comunità politica europea (1952-1954), Milano, Jaca Book, 1994, pp. 169-180 e pp. 321-332. 11 Questo studio si trova quindi ad abbracciare un approccio diacronico, che si sforza di tenere presenti gli effetti delle trasformazioni avvenute nei decenni presi in considerazione. Si tratta ovviamente dei mutamenti dei caratteri propri dei vari “terrorismi” che interessano l’Europa a cavallo tra XX e XXI secolo. Del pari, non si può trascurare l’evoluzione politico-istituzionale del processo di integrazione, fisiologicamente caratterizzato da continui adattamenti e correzioni. Queste dinamiche vanno tuttavia ricondotte ai più generali cambiamenti politici, sociali e ideologici intervenuti nel contesto in cui il concreto operare degli individui e delle istituzioni è immerso. Un conto è osservare il fenomeno terroristico e la risposta europea nell’ambito della guerra fredda, del confronto tra blocchi di Stati, in cui il pericolo dominante è costituito dal ricorso all’arma nucleare. Vigente il “terrore” paralizzante dello scontro atomico, che assicura un equilibrio precario, una stabilità frutto della deterrenza, i “terrorismi” – interni agli Stati o transfrontalieri – si ritagliano uno spazio autonomo nella misura in cui il loro dispiegarsi non interseca le linee di funzionamento fondamentali del sistema internazionale bipolare. Ben diverso è lo scenario seguito alla dissoluzione del mondo sovietico, che pone fine a quel modello e apre le porte a una rinnovata conflittualità regionale, in cui l’esperienza del terrorismo si contamina con altre forme di violenza politica, a partire dalla guerra. Il processo di globalizzazione rende anacronistiche alcune distinzioni e categorie politiche sulle quali fanno perno la versione più tradizionale del terrorismo e le sue modalità d’azione. La ripartizione e la sequenza dei capitoli in cui si articola questo libro risponde dunque alla necessità di rendere conto, sul piano storico, ideale e istituzionale, del passaggio dalla politica territoriale e Stato-centrica della modernità europea, nella quale la nozione di terrorismo vede la luce, a quella “globale” e deterritorializzata che si manifesta tra il XX e il XXI secolo. La presente ricerca è stata realizzata nell’ambito del Corso di Dottorato di ricerca in «Istituzioni, idee, movimenti politici nell’Europa contemporanea» (curriculum in «Storia del federalismo e dell’integrazione europea») presso l’Università di Pavia. La traduzione di quel lavoro pluriennale dapprima nella dissertazione finale e poi in questo volume è stata possibile grazie alla guida, al sostegno e alle indicazioni di Corrado Malandrino, cui mi lega la riconoscenza dell’allievo. In questa veste ho avuto l’opportunità di esporre i risultati della ricerca all’interno delle attività della cattedra «Jean Monnet» in Storia dell’integrazione europea, dapprima presso la Facoltà di Scienze Politiche di Alessandria e 12 poi nel Dipartimento di Giurisprudenza e Scienze Politiche, Economiche e Sociali (DIGSPES) dell’Università del Piemonte Orientale. Un generale e sentito ringraziamento ho il piacere di esprimere, accanto a familiari e amici, ai membri del DIGSPES e soprattutto alla sua anima storico-politica – riunita nell’Istituto di Politica, Amministrazione, Storia e Territorio (PAST) –, sui cui libri mi sono formato e i cui consigli ho cercato di assimilare, inizialmente come studente e quindi come giovane ricercatore. Esprimo inoltre la mia gratitudine nei confronti dei componenti del Collegio Docenti del dottorato pavese, del Comitato direttivo dell’Associazione Universitaria di Studi Europei (AUSE), del Centro Studi sul Federalismo (CSF) di Moncalieri, e in particolare del suo Direttore, prof. Umberto Morelli, e dello staff del Centro di Ricerca sull’Integrazione Europea (CRIE) dell’Università di Siena per le numerose e interessanti occasioni di studio e confronto promosse negli ultimi anni. Non avrei potuto svolgere la mia ricerca prescindendo dalla cortesia e dalla disponibilità del personale della Biblioteca interdipartimentale «Norberto Bobbio» dell’Università del Piemonte Orientale (con una speciale citazione per il dott. Paolo Amici, che ho vessato con le richieste di prestito interbibliotecario), della Biblioteca interdipartimentale «Gioele Solari» dell’Università di Torino, dell’Istituto Universitario di Studi Europei di Torino e dell’Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea in provincia di Alessandria «Carlo Gilardenghi». 13 Elenco delle principali sigle e abbreviazioni APE Archivio on-line del Parlamento europeo AUE Atto Unico Europeo BdCE Bollettino delle Comunità europee BR Brigate rosse CIG Conferenza intergovernativa CPE Cooperazione politica europea CSCE Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa ETA Euskadi Ta Askatasuna GAI Giustizia e affari interni GU Gazzetta ufficiale delle Comunità europee IRA Irish Republican Army LTTE Liberation Tigers of Tamil Eelam MAE Mandato di arresto europeo NSCT 2003 National Strategy on Combating Terrorism 2003 NSCT 2006 National Strategy on Combating Terrorism 2006 NSS 2002 National Security Strategy 2002 NSS 2006 National Security Strategy 2006 PESC Politica estera e di sicurezza comune PESD Politica europea di sicurezza e difesa PPE Partito popolare europeo PSE Partito socialista europeo RAF Rote Armee Fraktion RCE Registro on-line della Commissione delle Comunità europee RCUE Registro on-line del Consiglio dell’Unione europea SLSG Spazio di libertà, sicurezza e giustizia TCE Trattato sulla Comunità europea TREVI Terrorisme, radicalisme, extrémisme et violence internationale TUE Trattato sull’Unione europea WMDs Armi di distruzione di massa (weapons of mass destruction) 1. I prodromi della lotta europea al terrorismo (1970-1989) 1.1 Le origini della cooperazione politica europea Al termine di un decennio contraddittorio, scandito dalla progressiva realizzazione del mercato comune, ma segnato profondamente dalla crisi istituzionale del 1965-661, la Comunità europea trova nella conferenza dell’Aia (1-2 dicembre 1969) un’occasione di rilancio. Il Comunicato emesso al termine del vertice risveglia antiche speranze di unificazione politica: nel paragrafo 15, infatti, i capi di Stato e di governo conferiscono ai ministri degli Esteri l’incarico di studiare il modo migliore per avventurarsi al di fuori dell’integrazione meramente economica, anche nella prospettiva del primo allargamento2. La relazione dei ministri degli Esteri – nota anche come Rapporto Davignon, dal nome del ministro belga chiamato a presiedere il comitato che elabora il testo – viene presentata nell’autunno del 1970. Il documento precisa che l’invito a ragionare sull’unione politica è declinato in termini di relazioni esterne, dedicando quindi tutte le energie disponibili ai «grandi problemi di politica internazionale» e alle «questioni importanti di politica estera»3. Prende il via in questo modo la cooperazione politica europea (CPE), che prevede riunioni semestrali dei ministri degli Esteri (o dei capi di Stato e di governo, se necessario) e la possibilità di convocare vertici straordinari. Il lavoro di raccordo e preparazione delle diverse riunioni è affidato a un comitato politico, composto dai direttori degli affari politici, che può formare gruppi di lavoro incaricati di compiti particolari. Il rapporto Davignon incontra un certo successo anche grazie al profilo non ambizioso delle sue proposte. Fatto tesoro dell’esperienza dei piani Fouchet, gli europei rinunciano all’ambizione di creare un “direttorio politico” sovraordinato alla CEE e si limitano ad avviare una cooperazione intergovernativa, parallela rispetto al piano in cui si muovono le istituzioni comunitarie. La nuova iniziativa si mantiene inoltre distante da 1 Per le premesse dello scontro istituzionale e le modalità del suo svolgimento, cfr. C. Malandrino, «Tut etwas Tapferes»: compi un atto di coraggio. L’Europa federale di Walter Hallstein (1948-1982), Bologna, Il Mulino, 2005, pp. 143-203. Per un inquadramento generale della storia dell’integrazione europea, che fa da sfondo alla presente ricerca, si vedano B. Olivi, L’Europa difficile, Bologna, Il Mulino, 2001, Id. e R. Santaniello, Storia dell’integrazione europea. Dalla guerra fredda alla costituzione dell’Unione, Bologna, Il Mulino, 2010, P. Cacace e G. Mammarella, Storia e politica dell’Unione europea (1926-2005), Roma-Bari, Laterza, 2005, M. Gilbert, European Integration. A Concise History, Lanham, Rowman & Littlefield, 2012. 2 Comunicato finale della conferenza, L’Aia, 2 dicembre 1969, riportato in «Bollettino delle Comunità europee», a. III, n. 1, 1970, pp. 11-18 (il paragrafo 15 è a p. 16). D’ora in poi indicherò questa fonte come «BdCE». 3 Relazione dei ministri degli Esteri degli Stati membri sul problema dell’unificazione politica, in «BdCE», a. III, n. 11, 1970, pp. 9-14. Le espressioni citate sono a p. 11 e a p. 12. questioni delicate come la politica economica, la cultura e il settore della sicurezza e della difesa strettamente inteso4. In realtà, i vertici della CPE saranno usati anche per programmare i lavori dei capi di Stato e governo e, dal 1974, del Consiglio europeo, finendo per occuparsi di materie che non sarebbero di loro formale competenza5. Al di là del significato attribuitole da Davignon, la nozione di “cooperazione politica” esprime un’ambivalenza di fondo, alludendo sia al tentativo di elaborare una politica estera comune, sia al più generale progetto di coordinare il dibattito sulle principali questioni politiche che emergono all’interno dei confini della Comunità6. Fin dall’inizio, insomma, la separazione fra CEE e CPE si presenta fittizia e artificiosa, ma comunque necessaria per non urtare le sensibilità dei governi più scettici verso la rilettura in chiave politica dell’integrazione comunitaria. Nelle loro riunioni periodiche, che avvengono spesso a margine del Consiglio CEE7 o di eventuali consessi internazionali, i ministri degli Esteri discutono per lo più dei rapporti Est-Ovest – in preparazione della Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa (CSCE) che porterà agli accordi di Helsinki del 1975 –, della situazione in Medio Oriente e delle dinamiche interne alla regione mediterranea. Il terrorismo irrompe sulla scena europea nel settembre 1972, con l’attacco del gruppo filopalestinese “Settembre Nero” alla delegazione israeliana alle Olimpiadi di Monaco. L’immediata reazione delle istituzioni comunitarie è affidata al telegramma di condoglianze inviato all’ambasciatore israeliano presso la CEE da Sicco Mansholt, presidente della Commissione: La Commissione delle Comunità europee ha appreso con profonda emozione la notizia dell’attentato perpetrato contro la squadra israeliana ai giochi olimpici di Monaco. I miei colleghi ed io condividiamo la costernazione del mondo intero di fronte a quest’atto atroce e preghiamo Sua Eccellenza di porgere al governo israeliano e alle famiglie delle vittime le nostre più vive condoglianze8. Come si può notare, il telegramma non fa alcun riferimento diretto al terrorismo, 4 S. Nuttall, European Political Cooperation, Oxford, Clarendon Press, 1992, pp. 37-55. Si veda per esempio il resoconto della riunione CPE di Roma del 5 novembre 1971, in «BdCE», a. IV, n. 12, 1971, pp. 23-27. 6 C. Hill, European Preoccupations with Terrorism, in A. Pijpers, E. Regelsberger and W. Wessels (eds.), European Political Cooperation in the 1980s. A Common Foreign Policy for Western Union?, Dordrecht, Martinus Nijhoff Publishers, 1988, pp. 166-167. 7 È celebre, in quanto sintomatico della volontà di tenere formalmente distinti i lavori del Consiglio dagli incontri in ambito di cooperazione politica, il caso del vertice di Copenaghen del settembre 1973, che precede la riunione del Consiglio avvenuta a Bruxelles nel pomeriggio dello stesso giorno, con i medesimi partecipanti. 8 Il testo del telegramma (6 settembre 1972) è riportato in «BdCE», a. V, n. 10, 1972, p. 220. 5 16 limitandosi a descrivere l’episodio come «attentato» o «atto atroce», senza tra l’altro formulare una condanna decisa: si parla solo di emozione e costernazione, come se si trattasse di una calamità naturale. Di lì a poco, l’11-12 settembre 1972, si svolge a Frascati una riunione dei ministri degli Esteri, che ha il compito principale di preparare la conferenza al vertice (capi di Stato e governo) prevista a Parigi nel mese di ottobre, ma non può esimersi dall’intervenire sul fenomeno terroristico. I ministri concordano quindi un comunicato relativo alla prospettiva di collaborazione nella lotta al terrorismo, novità assoluta nella storia della costruzione europea: Avendo il ministro degli affari esteri della Repubblica federale di Germania richiamato l’attenzione dei suoi colleghi su alcuni recenti atti di terrorismo perpetrati in territorio tedesco, la conferenza dei ministri degli affari esteri si è soffermata sul grave problema costituito dagli atti di terrorismo e dagli atti di rappresaglia, che tante vittime innocenti mietono in varie parti del mondo. Essi concerteranno la loro posizione al momento della discussione all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, quando tale punto figurerà all’ordine del giorno come è stato suggerito dal Segretario generale, sig. Waldheim. Per quanto riguarda i problemi della sicurezza interna dei rispettivi paesi, i ministri hanno deciso d’incaricare il Comitato politico di elaborare proposte per una concertazione tra i servizi nazionali responsabili9. Il testo concordato a Frascati non dà una definizione precisa del terrorismo, ma è interessante per vari motivi. A proposito della genesi della discussione, il documento spiega che il ministro degli Esteri tedesco ha sollevato il problema non solo in relazione all’attentato di Monaco, bensì a una pluralità di episodi verificatisi sul territorio della Repubblica Federale. Si è così indotti a ritenere che, in questa fase storica, al centro dell’attenzione non sia solo il terrorismo internazionale, ma anche quello di matrice interna, in considerazione delle frequenti azioni compiute in Germania dalla Rote Armee Fraktion (RAF). Merita un approfondimento anche l’accostamento fra «atti di terrorismo» e «atti di rappresaglia», con cui gli europei sembrano voler scongiurare il rischio che il proprio intervento sia percepito come una condanna inappellabile della causa palestinese. Nel mirino finisce dunque anche la reazione militare israeliana, concretizzatasi in alcuni raid aerei sui campi profughi palestinesi in Libano e Siria. Sul piano propositivo, la prima idea esplorata è la concertazione di una posizione europea condivisa in sede ONU, cioè il luogo d’elezione per un dibattito a tutto campo sul terrorismo internazionale, che inevitabilmente finirà per sfociare in una discussione sulla 9 Il testo è riportato in «BdCE», a. V, n. 10, 1972, pp. 220-221. 17 situazione mediorientale, a proposito della quale sono note e radicate le divisioni all’interno dell’Assemblea Generale. Nella parte finale del documento si affaccia inoltre l’ipotesi di studiare forme di cooperazione operativa fra le autorità nazionali investite del compito di contrastare il terrorismo. Tale proposta lascia da parte i grandi scenari internazionali e si pone dal punto di vista del contenimento delle conseguenze degli attentati, prefigurando una collaborazione fra le forze responsabili della «sicurezza interna» e affidandone l’elaborazione al comitato politico della CPE. Il primo abbozzo di risposta concreta alla minaccia terroristica, dunque, ha carattere tecnico e reca lo stigma istituzionale della cooperazione politica appena varata, benché sia difficilmente presentabile come un’iniziativa coerente con l’accezione di politica estera sposata dal rapporto Davignon. Il progetto non ha un seguito apprezzabile nel periodo successivo. Il tema del terrorismo è assente dalla Conferenza dei Capi di Stato e di governo di Parigi (ottobre 1972) e dalla prassi della CPE, che continua a privilegiare altre questioni, eludendo il problema anche laddove esisterebbero le condizioni per affrontarlo. Eclatante è il caso della Dichiarazione sul Medio Oriente, adottata il 13 ottobre 1973 in seguito alla recrudescenza del conflitto israelo-palestinese e allo scoppio della guerra dello Yom Kippur. Il testo contiene i princìpi fondamentali – l’inammissibilità dell’acquisizione di territori con la forza, la necessità che Israele ponga fine all’occupazione dei territori iniziata con la guerra del 1967, il rispetto dei diritti di tutti gli Stati della regione a conservare la propria integrità territoriale e a vivere in pace, la tutela dei diritti legittimi dei palestinesi al momento di stabilire una pace giusta e duratura10 – a cui gli europei ispireranno negli anni seguenti la loro politica verso l’area mediorientale. Non trova spazio, viceversa, la considerazione che le ragioni della popolazione palestinese sono invocate, strumentalmente o meno, da iniziative di stampo terroristico che trovano nell’Europa occidentale uno dei teatri più frequentati. Almeno nei documenti politici ufficiali, dunque, gli Stati CEE rinunciano a tracciare un collegamento esplicito fra la questione palestinese e il ricorso a forme di violenza politica da parte di soggetti che a essa si richiamano. Tale scelta, che risponde con tutta probabilità a valutazioni di ordine diplomatico11, è coerente anche con una più generale tendenza ad accendere i riflettori della CPE sulle 10 Dichiarazione dei Nove sul Vicino Oriente, 13 ottobre 1973, in «BdCE», a. VI, n. 10, 1973, p. 115. Non si trascuri inoltre la tendenza di alcuni governi europei a tollerare le azioni palestinesi una volta ricevuta l’assicurazione che esse non colpirebbero i loro paesi. 11 18 relazioni fra Stati sovrani. In questo senso si muove la Dichiarazione sull’identità europea, documento di ampio respiro che tenta di individuare le basi su cui costruire una visione condivisa della politica estera europea, in una fase decisamente turbolenta delle relazioni transatlantiche, a causa delle divergenze sulla guerra arabo-israeliana e sulla crisi energetica. Il paragrafo 8 riguarda la dimensione della sicurezza: I Nove, uno scopo essenziale dei quali è il mantenimento della pace, non vi perverranno mai trascurando la loro sicurezza. Quelli che sono membri dell’Alleanza atlantica ritengono che non vi sia attualmente alternativa alla sicurezza che viene garantita dalle armi nucleari degli Stati Uniti e dalla presenza delle forze dell’America del Nord in Europa; sono, insieme, convinti che, data la sua relativa vulnerabilità militare, l’Europa deve, se intende preservare la sua indipendenza, mantenere i propri impegni e vigilare, con uno sforzo costante, allo scopo di disporre di una difesa adeguata12. Segnali analoghi si ricavano anche degli interventi del Parlamento europeo, l’istituzione che più rapidamente delle altre sa prendere coscienza dei mutamenti politici e sociali, e che tuttavia in una risoluzione del luglio 1975 non si distacca da un approccio Stato-centrico, esprimendo la volontà di «combattere risolutamente ogni causa di conflitto o di tensione, onde contribuire al mantenimento della pace nella libertà» e di «partecipare agli sforzi tendenti a ridurre le tensioni e a comporre le vertenze nel mondo per via pacifica, e, in Europa, a sviluppare la cooperazione e la sicurezza tra gli Stati»13. Si considerino infine gli accenti dedicati al tema della sicurezza dal Rapporto Tindemans del 29 dicembre 1975, in cui il premier belga risponde all’invito – formulato dai capi di Stato e di governo nel vertice di Parigi del 1974 – a sondare il consenso verso la prospettiva di un’unione politica14. In una prima e dominante accezione, la sicurezza è presentata come il settore delle relazioni esterne della nuova (possibile) Unione che incarna il profilo più tradizionale della politica estera, a cui si affiancano i rapporti commerciali15. L’attenzione si concentra sulla «sicurezza verso l’esterno», che riguarda cioè il piano dell’interazione fra gli Stati ed è associata a concetti come «blocchi», «vita internazionale», «mondo esterno», «Alleanza atlantica», «difesa comune», «distensione»16. In secondo luogo, in relazione all’«Europa 12 Dichiarazione sull’identità europea, 14 dicembre 1973, paragrafo 8, in «BdCE», a. VI, n. 12, 1973, p. 131. Parlamento europeo, Risoluzione sull’Unione europea, Strasburgo, 10 luglio 1975, in «BdCE», a. VIII, supplemento n. 9, 1975, pp. 11-13. I passi citati sono a p. 11. 14 L’Unione europea. Rapporto di Leo Tindemans, primo ministro del Belgio, al Consiglio europeo, in «BdCE», a. IX, supplemento n. 1, 1976. 15 Ivi, pp. 17-18 in particolare. 16 Ivi, p. 12, p. 13, p. 17, p. 18. 13 19 dei cittadini», si affaccia l’idea di «sicurezza sociale» come obiettivo di politiche collegate a lavoro, salari, pensioni, questione femminile, ecc. nella sezione sulla sensibilità sociale della Comunità17. L’analisi di questi testi fondamentali induce a concludere che, fatta eccezione per il fugace accenno al terrorismo nei giorni immediatamente successivi alla strage di Monaco ’72, nelle istituzioni comunitarie e nella CPE prevale una visione della sicurezza che ne enfatizza quasi esclusivamente la componente “esterna”: “sicurezza nazionale” sarebbe probabilmente la formula più evocativa, se il suo accostamento all’esperienza comunitaria non apparisse fuori luogo e paradossale. In un’ottica che ammette le categorie di guerra e pace, di conflitto e cooperazione, solo in riferimento al sistema degli Stati, e che è spesso impregnata della logica della deterrenza nucleare, i pericoli dipendono innanzi tutto dal possibile attacco militare di una potenza nemica su un territorio chiaramente definito, per fronteggiare il quale la protezione della NATO appare la soluzione più efficace. Non è presa in esame, invece, l’ipotesi che il concetto di sicurezza debba essere aggiornato alla luce degli ultimi avvenimenti internazionali, dilatandosi fino a comprendere insidie provenienti da attori non statali, come i gruppi terroristici che operano a cavallo delle frontiere nazionali. Ciò accade anche perché la dimensione del terrorismo domestico, che alcuni degli Stati membri stanno sperimentando ormai da qualche anno, in questa fase resta al di fuori del processo di integrazione europea, non essendo la sicurezza interna dei singoli paesi materia di competenza della Comunità, né della CPE. Esiste – in verità – un fronte delle relazioni esterne in cui lo spettro del terrorismo fa la sua apparizione, seppur in forma indiretta e discussa. Si tratta dei rapporti fra l’Europa comunitaria e la Spagna, che a metà degli anni Settanta assiste all’estinzione naturale del regime franchista e all’avvio del processo di transizione verso la democrazia. Il crepuscolo della dittatura militare richiama l’attenzione degli europei per l’elevato numero di condanne a morte sancite dalle autorità spagnole18. Particolarmente discussa è la pena capitale a carico di Salvador Puig Antich, giovane catalano coinvolto nelle azioni armate di una formazione antifranchista rivoluzionaria. In un clima politico reso incandescente dal quasi contemporaneo attentato mortale ai danni del primo ministro spagnolo, Carrero Blanco, da parte dell’Euskadi Ta Askatasuna (ETA), Puig Antich è giustiziato, ignorando gli appelli alla clemenza provenienti da più parti. Fra questi va menzionato quello del 17 Ivi, pp. 25-26. Sulla violenza terroristica esplosa in Spagna a partire dagli ultimi anni del franchismo si veda F. Reinares, Dittatura, democratizzazione e terrorismo: il caso spagnolo, in R. Catanzaro (a cura di), La politica della violenza, Bologna, Il Mulino, 1990, pp. 117-172. 18 20 Parlamento europeo, che il 14 marzo 1974 vota una risoluzione in cui rifiuta di ricorrere al termine “terrorismo”, manifestando invece la propria «riprovazione per il ricorso all’assassinio anche per motivi politici sia da parte degli Stati che dei singoli cittadini»19. Con tale formula le autorità politiche spagnole sono poste sullo stesso piano dei movimenti rivoluzionari. Dall’utilizzo della categoria di «avversari del regime imperante» processati dai tribunali speciali introdotti dalle «dittature» traspare addirittura un sentimento di umana vicinanza al condannato – ulteriormente testimoniato dalla scelta dell’aggettivo «commosso» per connotare l’atteggiamento del Parlamento – contrapposto alla condanna del regime franchista, le cui «reiterate violazioni […] contro i diritti fondamentali dell’uomo e del cittadino e il disprezzo dei diritti democratici delle minoranze in un’Europa che cerca la sua via libera e democratica verso l’unità, impediscono l’adesione della Spagna alla Comunità europea»20. La priorità avvertita dai parlamentari europei appare quindi la denuncia dell’autoritarismo franchista, di fronte al quale l’eventuale uso della violenza politica dal basso – pur criticata dalla risoluzione – passa in secondo piano. La decisione di non attribuire al condannato l’etichetta di terrorista, e anzi di accentuarne i tratti di perseguitato politico, è figlia del particolare contesto nazionale con cui l’azione del suo gruppo eversivo deve fare i conti. La vicenda compare nell’agenda della Commissione per impulso di Altiero Spinelli, in quel frangente titolare dei portafogli dell’Industria e della Ricerca, che nel Diario dimostra di assumere una posizione analoga a quella della maggioranza parlamentare: Chiedo alla Commissione di fare un intervento presso il governo spagnolo perché faccia un atto di clemenza verso l’anarchico Puig Antich condannato a morte pochi giorni fa. Soames resiste, dice che non si tratta di persecuzione politica ma di un crimine punito dalla legge e secondo la legge spagnola. Gli rispondo che non è a un inglese che devo spiegare che un processo fatto da un tribunale militare e con le procedure dubbie impiegate in Spagna è sheer persecution. Simonet è troppo sotto elezioni belghe per lasciarsi andare al suo penchant conservatore e mi sostiene. Così gli altri, e infine Soames cede21. 19 Parlamento europeo, Risoluzione sugli avvenimenti in Spagna, 14 marzo 1974, in «BdCE», a. VII, n. 3, 1974, p. 98. 20 Ibidem. 21 A. Spinelli, Diario europeo, 3 voll., Bologna, Il Mulino, 1989-1992, vol. II, 1970-1976, p. 569. L’annotazione è del 20 febbraio 1974. Christopher Soames, conservatore britannico, è commissario alle relazioni esterne e vice-presidente della Commissione. Spinelli annota l’assenza del presidente Ortoli e dei commissari Haferkamp e Cheysson. 21 L’uso del termine «anarchico» e le considerazioni sulla situazione politico-istituzionale spagnola sono segnali della preoccupazione del grande europeista nei confronti di un uso estensivo della categoria di “terrorismo” come strumento retorico funzionale alla repressione del dissenso interno al regime. La questione si ripropone sul finire dell’estate del 1975 a proposito delle condanne a morte comminate ad alcuni terroristi baschi. In quest’occasione i ministri degli Esteri valutano l’ipotesi di assumere una posizione comune, impresa resa tuttavia complessa dalle divergenze fra gli Stati dell’Europa settentrionale, sensibili all’istanza dei diritti umani, e quelli mediterranei, più attenti agli sviluppi del ruolo della Spagna nell’equilibrio regionale. Per queste ragioni, la riunione CPE di Venezia dell’11-12 settembre non trova l’accordo su una dichiarazione condivisa. Gli europei raggiungono un principio di intesa il 24 settembre, ma solo tre giorni più tardi le condanne vengono eseguite. Di fronte a tale accelerazione, la diplomazia olandese non attende una reazione concertata dei Nove e richiama il proprio ambasciatore da Madrid: la cooperazione politica finisce così per denunciare i limiti strutturali legati alla sua natura intergovernativa22. Nella seduta parlamentare del 25 settembre va in scena un dibattito segnato da momenti di tensione, nel quale si profilano posizioni differenti. Da un lato, democristiani, liberali e conservatori chiedono espressamente di scindere la richiesta di carattere umanitario – sospendere la condanna a morte – da valutazioni di ordine politico, che andrebbero rimandate a un secondo momento. I gollisti, per bocca dell’on. de la Malène, invocano il rispetto del principio di non interferenza nelle questioni interne di un paese terzo. Dall’altro lato, i socialisti denunciano il ricorso alla tortura come sintomo di debolezza delle ragioni del governo spagnolo e chiedono la sospensione dell’accordo commerciale; il gruppo comunista afferma che le condanne hanno colpito uomini e donne in lotta per la libertà. La linea socialista, più “politica” rispetto a quella di centro-destra, si impone nella votazione plenaria. Nella risoluzione adottata23, il Parlamento europeo non si accontenta di dirsi «indignato» per una serie di «processi svoltisi nel disprezzo dei diritti dell’uomo e dei principi giuridici fondamentali», né di ricordare che il rispetto di diritti e libertà fondamentali è l’unica via attraverso cui la Spagna può raggiungere «pace» e «libertà», ma aggiunge che le nuove ferite inferte alla sfera dei diritti umani e civili sono frutto di leggi promulgate «sotto il pretesto della lotta contro il terrorismo» e si unisce alla 22 Per una ricostruzione della vicenda, si veda Nuttall, European Political Cooperation, cit., pp. 125-127. Parlamento europeo, Risoluzione sulla situazione spagnola, Strasburgo, 25 settembre 1975, in «BdCE», a. VIII, n. 9, 1975, pp. 64-65. 23 22 lotta del mondo democratico che vuole «salvare la vita dei condannati e […] ottenere la revisione dei processi politici». A tale scopo, chiede a Commissione e Consiglio di congelare i rapporti commerciali tra Comunità e Spagna. Lungi dal limitarsi a una supplica di carattere umanitario, la maggioranza del Parlamento muove un’accusa neppure troppo velata di uso strumentale dell’antiterrorismo a fini di repressione di oppositori e non allineati, processati al di fuori delle regole dello Stato di diritto, sulla base delle opinioni politiche più che di comportamenti documentabili. Incisiva si rivela anche la proposta di rispondere con una rappresaglia concreta, cioè l’interruzione dei negoziati commerciali, che invece i gruppi di centro-destra chiedevano di lasciare in sospeso. A mobilitarsi è anche la Commissione europea, che il 10 settembre rivolge al governo spagnolo un appello imperniato su motivi umanitari e, a esecuzioni avvenute, attira l’attenzione sulla «profonda emozione» suscitata dalla notizia delle esecuzioni e «deplora» – con un linguaggio tipicamente diplomatico – la condotta delle autorità spagnole, sorde ai numerosi appelli fondati su «principi di giustizia e umanità»24. La conseguenza quasi inevitabile è la richiesta di sospensione delle relazioni tra Comunità e Spagna, annunciata il 1° ottobre dal portavoce della Commissione25. Sul punto intervengono i ministri degli Esteri, riuniti a Lussemburgo il 6-7 ottobre 1975. Sotto le vesti della CPE, viene emesso un comunicato di condanna nei confronti del comportamento spagnolo26. L’accento è posto sui «diritti dell’uomo», sui «principi dello Stato di diritto e, in particolare, dei diritti della difesa» e su «considerazioni umanitarie». Nel contempo, si auspica che alla popolazione spagnola sia risparmiato «un processo di scalata della violenza». In formazione di Consiglio, invece, si annuncia che i colloqui con la Spagna non possono riprendere, accogliendo la proposta della Commissione. Complice la morte di Franco, le relazioni CEE-Spagna torneranno alla normalità già nel gennaio 1976, con una serie di incontri fra rappresentanti della Commissione e del governo spagnolo, utili a instaurare un clima di reciproca fiducia in cui svolgere i futuri negoziati sull’ingresso della Spagna nella Comunità27. Quanto emerso suggerisce due ordini di riflessioni. Nel merito della discussione, si contrappongono due linee chiaramente alternative. L’una, maggioritaria in Parlamento, 24 Cfr. «BdCE», a. VIII, n. 9, 1975, p. 64. Ibidem. 26 Il testo è riportato ivi, p. 65. 27 Sui rapporti tra la Spagna post-franchista e le istituzioni comunitarie si veda J.C. Pereira Castañares e A. Moreno Juste, Il movimento per l’unità europea e il processo di transizione e consolidamento democratico in Spagna (1975-1986), in A. Landuyt e D. Preda (a cura di), I movimenti per l’unità europea 1970-1986, Bologna, Il Mulino, 2000, tomo I, pp. 346-348. 25 23 affronta la dimensione politica dei problemi ed evoca il delicato piano del terrorismo per denunciarne l’uso improprio a fini di repressione del dissenso interno. L’altra, condivisa dalla Commissione, dal Consiglio e dai parlamentari di centro-destra, riconduce tutta la questione all’intervento umanitario. Questa seconda linea sposa il tradizionale principio di non ingerenza negli affari interni di uno Stato sovrano, evitando inoltre di stabilire automatismi fra condanna di un comportamento e adozione di sanzioni o misure punitive da parte della CEE. Dal punto di vista istituzionale, invece, è interessante notare come le istituzioni comunitarie finiscano per esprimersi su temi evidentemente politici, benché nascondendoli sotto il velo dei rapporti commerciali. Tale considerazione ricorda quanto sia difficile distinguere con chiarezza il piano economico da quello politico: per salvare le forme è necessario ricorrere a un escamotage come la scelta di attribuire ai ministri degli Esteri – e dunque alla CPE – una dichiarazione elaborata nel corso di un’ordinaria sessione del Consiglio, come quella del 6 ottobre. Questo aspetto, che solleva perplessità sulla reale consistenza della separazione fra Consiglio e riunioni CPE, si aggiunge alle difficoltà incontrate della cooperazione politica, a lungo paralizzata da divergenze che impongono agli Stati membri di muoversi individualmente attraverso le diplomazie nazionali. 1.2 La nascita della cooperazione operativa e il fallimento dello spazio giudiziario europeo Nella seconda metà degli anni Settanta il terrorismo è ormai un fenomeno diffuso in molti paesi europei. Ai gruppi che rivendicano con le armi l’indipendenza dei Paesi Baschi dalla Spagna o dell’Ulster dalla Gran Bretagna si aggiungono le formazioni terroristiche di matrice ideologica e rivoluzionaria, tra cui si distinguono la RAF in Germania e le Brigate Rosse (BR) in Italia. Su pressione del governo britannico, alle prese con l’offensiva dell’Irish Republican Army (IRA), che ha prodotto 245 morti negli ultimi 12 mesi, il Consiglio europeo di Roma del dicembre 1975 prende in considerazione l’ipotesi di dare vita a un coordinamento fra le forze dell’antiterrorismo: «Il Consiglio europeo ha approvato una proposta del primo ministro del Regno unito [sic] perché i ministri dell’Interno della Comunità (o i ministri aventi responsabilità analoghe) si riuniscano per discutere materie di loro responsabilità, particolarmente nel campo dell’ordine pubblico»28. 28 Consiglio europeo, Conclusioni della presidenza, Roma, 1°-2 dicembre 1975, in «BdCE», a. VIII, n. 10, 1975, pp. 7-11. Il passo citato è a p. 9. Cfr. in proposito P. de Schoutheete, La coopération politique européenne, Bruxelles, Labor, 1986, pp. 173-174. 24 Si creano così i presupposti per una nuova forma di cooperazione, che si distingue sia dal piano dell’integrazione comunitaria, a causa del contenuto politico che travalica le previsioni dei Trattati, sia dalla più recente esperienza della CPE, che riguarda – almeno nominalmente – solo la politica internazionale e si dispiega attraverso la concertazione fra i ministri degli Esteri. La cooperazione introdotta alla fine del 1975, che assumerà la denominazione TREVI29, è finalizzata invece alla tutela dell’ordine pubblico e, in coerenza con tale obiettivo, coinvolge i ministri dell’Interno o, per gli Stati i cui ordinamenti costituzionali non prevedono tale figura (Danimarca, Lussemburgo, Irlanda), i ministri della Giustizia. Si tratta quindi di un settore di cooperazione politica non riducibile al quadro della CPE, rispetto alla quale manterrà a lungo un inferiore livello di formalizzazione e perfino di notorietà, anche fra gli addetti ai lavori30. La prassi TREVI è in effetti circondata da un alone di opacità e mistero che induce lo studioso britannico Simon Nuttall a dipingerla come la «zona grigia» della cooperazione politica fra gli Stati membri31. L’aspetto centrale, in ogni caso, è che proprio nel filone TREVI vanno ricercate le principali iniziative europee in chiave antiterroristica. Fino agli anni Ottanta, infatti, la lotta al terrorismo occuperà in ambito CPE una posizione defilata, limitata a occasionali pour parler32. Quale approccio seguono i ministri degli Interni e della Giustizia nella loro 29 Più fonti interpretano tale sigla come l’acronimo della formula francese “Terrorisme, Radicalisme, Extrémisme et Violence Internationale”, ma de Schoutheete, La coopération politique européenne, cit., p. 174, sostiene che si tratta di un semplice omaggio all’omonima fontana romana, nei pressi del luogo in cui il nuovo filone della cooperazione europea è stato inaugurato. 30 Si pensi alle risposte che Aldo Moro, presidente della Dc, ex presidente del Consiglio ed ex ministro degli Esteri, fornisce ai carcerieri brigatisti durante gli “interrogatori” che si susseguono nei 55 giorni di prigionia nella primavera del 1978. Ricevuta una richiesta di ragguagli circa le forme di contrasto del terrorismo praticate a livello internazionale, lo statista pugliese spiega di essere vagamente a conoscenza di una «collaborazione intereuropea o, se si vuole, intergovernativa e non in forma intercomunitaria», dal momento che «la collaborazione intergovernativa in ogni campo è preferita per la sua facilità e mobilità, mentre quella che si chiama intercomunitaria è molto più impegnativa, segue regole precise» (cfr. il cosiddetto Memoriale, che raccoglie le risposte di Moro alle Br, ritrovato in circostanze controverse e pubblicato in diverse sedi e occasioni, fra le quali S. Flamigni, «Il mio sangue ricadrà su di loro». Gli scritti di Aldo Moro prigioniero delle Br, Milano, Kaos, 1997, pp. 301-304). Tale accenno – inserito in una più ampia trattazione che potrebbe velatamente alludere all’attività di “Gladio”, programma militare segreto e volto a predisporre strumenti di guerriglia da utilizzare in caso di invasione sovietica, la cui esistenza sarà confermata dalle autorità italiane solo un decennio più tardi – è inteso da alcuni studiosi come un richiamo alla Convenzione europea sulla repressione del terrorismo del 1977 (cfr. M. Clementi, La pazzia di Aldo Moro, Milano, BUR, 2008, pp. 249251 e Id., Storia delle Brigate rosse, Roma, Odradek, 2007, p. 219 e nota 53 a p. 224), di cui si dirà fra breve. In realtà, accennando ai «viaggi del Ministro in alcuni Paesi» e alle «collaborazioni selettive di antiguerriglia, realisticamente, allo stato sperimentale», è più probabile che il leader democristiano si riferisca proprio agli incontri fra i ministri dell’Interno e della Giustizia, in corso già da alcuni anni. 31 Nuttall, European Political Cooperation, cit., p. 300. Cfr. anche Hill, European Preoccupations with Terrorism, cit., pp. 172-173 e A. de Guttry, La circolazione transnazionale delle informazioni tra organi inquirenti su fatti di terrorismo: problemi di coordinamento e tutela dei diritti umani con speciale riguardo alla realtà europea, in Ronzitti (a cura di), Europa e terrorismo internazionale, cit., pp. 46-47. 32 Hill, European Preoccupations with Terrorism, cit., pp. 167-168. 25 attività? Una risposta giunge dalla prima riunione, tenuta il 29 giugno 1976 a Lussemburgo, che istituisce due gruppi di lavoro, costituiti da funzionari ed esperti posti alle dipendenze dei ministri degli Interni: l’uno è dedicato specificamente al terrorismo, mentre l’altro ha per oggetto le tecniche di polizia e l’addestramento del personale. Dal comunicato stampa emesso al termine della riunione emerge una visione del terrorismo come fenomeno sostanzialmente ricondotto a forma particolare di criminalità organizzata («lutte contre la criminalité internationale organisée, en particulier contre le terrorisme»33), da fronteggiare attraverso la consultazione e la collaborazione fra le autorità competenti dei diversi Stati membri. Il programma concordato – incentrato su scambio di informazioni ed esperienze, su equipaggiamento e formazione delle forze di polizia, sull’ipotesi di prestarsi reciproca assistenza in caso di attacchi – restituisce una concezione meramente tecnicooperativa della minaccia terroristica e delle possibili risposte in termini di ordine pubblico, scelta perfettamente in linea con il profilo istituzionale dei soggetti riuniti, cioè i ministri dell’Interno34. Non deve quindi stupire l’assenza di una riflessione che esplori cause, moventi, scopi del fenomeno. Pur pura coincidenza, l’incontro di Lussemburgo si svolge mentre è in corso la crisi di Entebbe (Uganda), dove un aereo della compagnia Air France, diretto da Tel Aviv a Parigi, è stato dirottato da un gruppo armato palestinese (27 giugno). I passeggeri israeliani o di origine ebraica sono tenuti in ostaggio fino all’intervento risolutivo delle forze militari israeliane nella notte fra il 3 e 4 luglio. Si tratta di un avvenimento che non lascia insensibili i leader europei, che in occasione del Consiglio europeo del 12-13 luglio concordano una Dichiarazione sul terrorismo. Nel testo si legge che gli Stati giudicano «totalmente inaccettabile il metodo inumano consistente nel prendere ostaggi al fine di esercitare pressioni sui governi per qualsiasi scopo, politico o meno, o per qualsiasi altra ragione»35. I capi di Stato e di governo, dunque, si spingono più in là di quanto fatto poche settimane prima dai ministri TREVI. Da un lato, essi negano qualsiasi legittimazione alle azioni terroristiche, comprese quelle presentate come finalizzate a realizzare i più nobili ideali. Nel contempo, i governi europei lasciano trasparire la consapevolezza che il terrorismo non può essere ridotto a mero esercizio della violenza, dal momento che trae spesso origine dalla sfera dei rapporti politici e in tale contesto occorre individuare le 33 Communiqué de presse public lors de la première réunion des ministres de l’Interieur, Luxembourg, 29 june 1976, in de Schoutheete, La coopération politique européenne, cit., p. 184. 34 Ivi, pp. 185-186. Cfr. su questo Hill, European Preoccupations with Terrorism, cit., p. 168. 35 Consiglio europeo, Dichiarazione sul terrorismo internazionale, Bruxelles, 13 luglio 1976, in «BdCE», a. IX, n. 7-8, 1976, pp. 132-133. Corsivo del redattore. 26 chiavi di lettura per interpretarlo. Poco oltre, si stabilisce un’interessante associazione tra «atti di terrorismo», «sequestri di persone» e «atti di pirateria», che riflette le modalità dell’azione palestinese di Entebbe e pare voler porre l’accento sullo status di irregolari che accomuna i terroristi ai pirati, categoria che si affaccia ripetutamente nelle concezioni della guerra elaborate nella storia del pensiero politico occidentale36. Benché non sufficiente per consentire l’inserimento di un richiamo alla pratica terroristica palestinese nei documenti sul Medio Oriente37, l’intervento è significativo perché affianca la cooperazione giudiziaria a quella operativa avviata con TREVI. Il Consiglio europeo incarica infatti i ministri della Giustizia di preparare una convenzione che consenta di processare o estradare i soggetti considerati responsabili delle azioni compiute ai danni di ostaggi. Invitati finora a prendere in esame le sole materie contemplate dal diritto comunitario o chiamati a discutere di ordine pubblico in vece di un ministro dell’Interno classico, ai ministri della Giustizia è per la prima volta affidato un compito di un certo rilievo nell’ambito del diritto penale. Questo nuovo aspetto dell’integrazione europea è destinato a intrecciarsi con il lavoro svolto in parallelo dai membri del Consiglio d’Europa, che nel gennaio del 1977 firmano la Convenzione europea per la repressione del terrorismo38. Vale dunque la pena soffermarsi brevemente sui contenuti di tale documento. L’obiettivo fondamentale è la semplificazione della procedura di estradizione, istituto particolarmente sollecitato dal modus operandi del terrorismo internazionale. Catturare e processare i soggetti sospettati degli attentati è particolarmente difficile nel momento in cui sono coinvolti territori, cittadini e interessi di una pluralità di Stati e ordinamenti giuridici. Secondo una tendenza comune a quasi tutti gli accordi internazionali relativi a queste materie, anche il testo redatto dal Consiglio d’Europa rinuncia a proporre una definizione compiuta del terrorismo. L’ostacolo viene superato elencando una serie di reati comunemente associati alla condotta terroristica (art. 1), alcuni dei quali trattati da precedenti convenzioni internazionali ad hoc: «illecita cattura di un aeromobile», «atti illeciti compiuti contro la sicurezza dell’aviazione civile», «reato grave che comporta un 36 Cfr. E. Di Rienzo, «Bellum piraticum» e guerra al terrore. Qualche considerazione problematica, «Filosofia politica», a. XIX, n. 3, dicembre 2005, pp. 459-470. 37 Si veda in particolare Consiglio europeo, Dichiarazione sul Medio Oriente, Londra, 29 giugno 1977, in «BdCE», a. X, n. 6, 1977, pp. 71-72. 38 Convenzione europea per la repressione del terrorismo, Strasburgo, 27 gennaio 1977. Il testo è disponibile in italiano, nella traduzione ufficiale effettuata dalla Cancelleria federale svizzera, all’indirizzo: http://conventions.coe.int/Treaty/ita/Treaties/Html/090.htm. Si vedano in proposito D. Freestone, The EEC Treaty and Common Action on Terrorism (1984), ora in E. Moxon-Browne (ed.), European Terrorism, Aldershot, Darmouth, 1993, pp. 413-416 e Marchetti, Istituzioni europee e lotta al terrorismo, cit., pp.14-57. 27 attentato alla vita, all’integrità fisica o alla libertà di persone che godono di protezione internazionale, ivi inclusi gli agenti diplomatici», «un rapimento, la cattura di un ostaggio o un sequestro arbitrario», «ricorso a bombe, granate, razzi, armi automatiche, o plichi o pacchi contenenti esplosivi ove il loro uso rappresenti un pericolo per le persone», oltre al tentativo di commettere uno dei precedenti reati o parteciparvi come coautori o complici. In sostanza, sono riassunte le principali azioni cui ricorrono i terroristi, senza poterle tuttavia qualificare esplicitamente come terroristiche. Dal punto di vista concettuale, l’aspetto più rilevante è l’affermazione che precede l’elenco: «Ai fini dell’estradizione tra gli Stati contraenti, nessuno dei reati che seguono verrà considerato come reato politico o reato connesso a un reato politico, o reato ispirato da ragioni politiche». L’idea di fondo è che il meccanismo giuridico dell’estradizione possa funzionare correttamente solo a condizione che ai reati in questione e ai soggetti che li commettono venga negato un movente politico, che consentirebbe loro di presentarsi come perseguitati politici e chiedere asilo a uno Stato europeo39. Per ottenere risultati concreti sul piano giudiziario-processuale, il documento si trova a dover parificare, dal punto di vista formale, gli atti terroristici ai crimini commessi da delinquenti comuni. Ciò non di meno, la realizzazione dell’auspicio che gli Stati rinuncino a rintracciare una dimensione politica in tali azioni rischia di essere inficiata da due articoli della convenzione stessa. A tutela del diritto di asilo, minacciato dai nuovi accordi, l’art. 5 precisa che gli Stati hanno la facoltà di rifiutare l’estradizione a carico di soggetti realmente vessati per motivi religiosi, razziali, nazionali o politici. Portando all’estremo questa eventualità, l’art. 13 riconosce a ciascun contraente il diritto di allegare una dichiarazione in cui si riserva di considerare come reato politico uno o più reati elencati dall’art. 1, ponendosi dunque nelle condizioni di rifiutare le richieste di estradizione relative a quei casi. Tale clausola, che discende dalla consapevolezza di non poter aggirare lo scoglio della sovranità nazionale in queste materie, è evidentemente suscettibile di rendere la Convenzione poco incisiva sul piano operativo, benché resti in carico agli Stati che rifiutano l’estradizione l’obbligo di processare i responsabili, alla luce del principio aut dedere aut judicare40. Questo decisivo corollario non sminuisce tuttavia la portata che il documento assume in termini politico-ideali, dal momento che l’intenzione di espungere i comportamenti terroristici dall’alveo di quelli ritenuti politicamente legittimi rimane carica 39 Cfr. B. Nascimbene, Terrorismo e diritti dell’uomo, in Ronzitti (a cura di), Europa e terrorismo internazionale, cit., p. 110. 40 Ivi, p. 111. 28 di significati. Nel dicembre del 1977 è la Francia a fornire un ulteriore stimolo alla discussione in atto. Il presidente della Repubblica Giscard d’Estaing avanza al Consiglio europeo di Bruxelles la proposta di creare uno spazio giuridico europeo41, che avrebbe una portata di carattere generale e conterrebbe potenzialità non trascurabili soprattutto nella lotta contro i terroristi e la loro tendenza ad annidarsi nelle pieghe della legislazione sull’estradizione. Gli europei si trovano a questo punto a esaminare varie proposte, la cui compatibilità dev’essere ancora verificata. Ad accelerare il processo in corso sono il sequestro e l’omicidio dello statista italiano Aldo Moro a opera delle Br, nella primavera del 1978. Nel mese di aprile, con Moro ancora prigioniero dei brigatisti, il Consiglio europeo di Copenaghen diffonde un testo che traccia le linee guida dell’impegno europeo contro il terrorismo. In termini analitici, i leader europei mettono a fuoco la minaccia che l’inquietante diffondersi di tale fenomeno arreca ai «diritti degli individui e [alle] fondamenta delle istituzioni democratiche», evocando indirettamente il carattere pacifico e non violento su cui poggia l’intera costruzione teorica e istituzionale della democrazia occidentale42. Sul piano propositivo, il Consiglio europeo riconosce «un’assoluta priorità al proseguimento degli sforzi volti ad intensificare la cooperazione dei Nove per la difesa delle nostre società dalla violenza terroristica». Questo obiettivo si concretizza nella richiesta ai «ministri responsabili» di trarre le conclusioni dal dibattito sullo spazio giuridico europeo. La logica conseguenza di tutto ciò è la dichiarazione dei ministri della Giustizia, riuniti a Lussemburgo il 9-10 ottobre 197843 per fare il punto sulle proposte sul tavolo. Due sono i filoni di lavoro indicati per i mesi successivi. In primo luogo, si tratta di siglare un accordo fra gli Stati membri al fine di garantire l’applicazione coerente della Convenzione europea per la repressione del terrorismo adottata dal Consiglio d’Europa nel 1977, scelta che per taluni accorda implicitamente una sorta di primato alle iniziative promosse dal Consiglio d’Europa rispetto alla cooperazione politica dei Nove44. In secondo luogo, viene 41 Cfr. «BdCE», a. X, n. 11, 1977, p. 112. Il testo è riprodotto in «BdCE», a. XI, n. 4, 1978, p. 91. Cfr. anche M. Dell’Omodarme, L’Europa dei Nove, in R.H. Rainero (a cura di), Storia dell’integrazione europea, vol. II, L’Europa dai Trattati di Roma alla caduta del muro di Berlino, Settimo Milanese-Roma, Marzorati-Editalia, 1997, p. 107 e de Schoutheete, La coopération politique européenne, cit., p. 178. 43 Sui contenuti del vertice, condotto il 9 come sessione del Consiglio dedicata a questioni di diritto CEE e il 10 come conferenza dei Ministri della Giustizia volta a esaminare temi politici, cfr. «BdCE», a. XI, n. 10, 1978, pp. 11-13. Sul testo adottato in merito alla lotta al terrorismo attraverso la cooperazione giudiziaria, cfr. Recommandations de la Conférence des ministres de la Justice, Luxembourg, 10 Octobre 1978, in de Schoutheete, La coopération politique européenne, cit., pp. 188-190. 44 Si veda per es. Hill, European Preoccupations with Terrorism, cit., pp. 170-171. 42 29 preso in esame il progetto francese di spazio giuridico europeo, a partire dal tema dell’estradizione in generale ed estendendo in seguito l’integrazione ad altri ambiti del diritto penale, allo scopo di perseguire «les actes de violence grave en général et le terrorisme en particulier»45. A complicare ulteriormente il quadro istituzionale, è la circostanza per cui le trattative sull’applicazione della Convenzione sono di fatto gestite da esperti legali indicati dai ministeri degli Esteri, che affiancano ed esautorano i ministri della Giustizia, mentre lo spazio giuridico è di competenza esclusiva di questi ultimi46. Le iniziative così abbozzate giungono a maturazione nel corso del 1979. Il primo passo concreto è compiuto dai ministri della Giustizia a Dublino il 4 dicembre, con la firma dell’accordo fra gli Stati membri per l’applicazione della Convenzione del 1977, in attesa della ratifica di quest’ultima. In tal modo, i Nove anticipano l’impegno a estradare o processare gli autori di reati terroristici assunto con la Convenzione, fatta eccezione per le riserve formulate a livello nazionale47. La ratifica dell’accordo di Dublino si arena però in pochi mesi. La data cruciale, in cui la situazione degenera, è il 19 giugno 1980, quando a Roma si riuniscono informalmente i ministri della Giustizia. Il dibattito verte, fra l’altro, sul progetto francese di spazio giuridico europeo, nel cui ambito si cerca di individuare un approccio condiviso al tema complessivo dell’estradizione. Adducendo la propria preoccupazione per il rispetto del diritto d’asilo, i rappresentanti olandesi rifiutano di procedere su quella strada. L’immediata reazione francese è l’annuncio della mancata ratifica dell’accordo di Dublino48. A un passo dall’introduzione di innovazioni fondamentali per lotta al terrorismo, dopo accanite discussioni anche all’interno del Parlamento europeo49, i Nove si trovano improvvisamente a mani vuote, per effetto della rappresaglia dello Stato inizialmente più dinamico sul fronte dell’integrazione giudiziaria. Il governo francese contribuisce in tal modo a innescare una spirale distruttiva alimentata negli anni Ottanta dal nuovo presidente, François Mitterrand, destinato a dare il nome a una dottrina fondata sulla concessione dell’asilo politico ai soggetti accusati di reati terroristici, che pregiudicherà a lungo ogni tentativo di rilanciare la cooperazione giudiziaria50. 45 Recommandations de la Conférence des ministres de la Justice, cit., p. 188. Nuttall, European Political Cooperation, cit., p. 295. 47 Hill, European Preoccupations with Terrorism, cit., p. 171 e nota 6 a p. 190. 48 Cfr. «BdCE», a. XIII, n. 6, 1980, pp. 100-101. In argomento, si veda Nuttall, European Political Cooperation, cit., p. 296, che sottolinea anche il peso crescente dell’opposizione socialista alla maggioranza giscardiana. 49 Marchetti, Istituzioni europee e lotta al terrorismo, cit., pp. 90-93. 50 Freestone, The EEC Treaty and Common Action on Terrorism, cit., pp. 214-215. Sulla linea mitterrandiana si vedano anche M. Gervasoni, François Mitterrand. Una biografia politica e intellettuale, Torino, Einaudi, 46 30 Se le iniziative in tal senso vengono abbandonate, non scompare, invece, l’esigenza oggettiva che le ispira, vale a dire la crescente permeabilità delle frontiere, di cui possono avvalersi criminali e terroristi, ma non le autorità giudiziarie chiamate a perseguirne i reati51. A imbrigliare l’azione dei magistrati sono le insidie nascoste in ogni tentativo di definizione o elaborazione intellettuale sul terrorismo, che non casualmente il gruppo TREVI – l’unica forma di cooperazione europea coronata finora da un relativo successo, anche se rimasta nell’ombra52 – continua a evitare, limitandosi a un’opera di contrasto fondata sulla collaborazione pratica. Proprio alla luce di questa esperienza, non sembra del tutto fondata la tesi secondo cui le iniziative a sfondo giuridico falliscono anche perché realizzate al di fuori del quadro istituzionale formale della CPE53. A fine 1979 è anzi il presidente di turno, il ministro degli Esteri irlandese O’Kennedy, a rilevare che «la parte centrale della cooperazione politica è rivolta verso l’esterno ed il suo campo d’applicazione è essenzialmente all’estero», ma «lo sforzo di elaborare posizioni comuni su problemi esterni ha avuto il naturale effetto, con l’andare del tempo, di promuovere relazioni più strette ed una comprensione tra i Nove» anche in politica interna54. Tale dinamica, che incarna in modo quasi paradigmatico il principio funzionalista dello spill-over55, agisce comunque con maggiore successo sulla cooperazione operativa finalizzata alla gestione dell’ordine pubblico che sulla assai più complessa integrazione in materia di giustizia. 1.3 La crisi degli ostaggi in Iran e i tentativi di riformare la Comunità All’inizio degli anni Ottanta cominciano a intravedersi i segnali della trasformazione che interesserà l’approccio europeo al terrorismo a partire dalla metà del decennio. A fornirli non è tanto l’esperienza TREVI, che procede sui binari consolidati nel periodo precedente. La riunione di Londra del dicembre del 1981 conferma che al centro 2007, p. 104 e soprattutto Id., La sinistra italiana, i socialisti francesi e le origini della «dottrina Mitterrand», in M. Lazar e M.-A. Matard-Bonucci (a cura di), Il libro degli anni di piombo. Storia e memoria del terrorismo italiano (2010), Milano, Rizzoli, 2010, pp. 349-365. 51 De Schoutheete, La coopération politique européenne, cit., pp. 178-179. 52 Si vedano i risultati della riunione di Londra del 31 maggio 1977 («BdCE», a. X, n. 5, 1977, pp. 86-87) e, in generale, R. Clutterbuck, Terrorism, Drugs and Crime in Europe after 1992, London, Routledge, 1990, pp. 121-122. 53 Nuttall, European Political Cooperation, cit., p. 298. 54 Si veda la comunicazione sulla CPE presentata al Parlamento europeo il 24 ottobre 1979, riprodotta integralmente in «BdCE», a. XII, n. 10, 1979, pp. 127-136. I passi citati sono a p. 127. 55 Su tale concetto cfr. E.B. Haas, The Uniting of Europe. Political, Social and Economical Forces. 19501957, London, Steven&Sons Limited, 1958, che lo sviluppa a partire dai primi anni di vita delle Comunità europee, e Id., Beyond the Nation-State. Functionalism and International Organization, Stanford, Stanford University Press, 1964, che si muove su un terreno teorico più generale. 31 dell’attenzione è il settore della «sécurité intérieure»56, al cui interno la «menace du terrorisme» si caratterizza per l’uso della «violence à motif politique»57. Al terrorismo è dunque riconosciuta quella specificità politica che, per vari motivi, i testi di matrice squisitamente giuridica – per esempio la Convenzione del 1977 – sono costretti a negargli. Nel corso del vertice di Londra del 1985, i ministri TREVI si soffermeranno per lo più sul «terrorisme international»58, affrontando comunque le esigenze di repressione pratica e non gli interrogativi diplomatici che tale fenomeno solleva. Questi ultimi sono tradizionalmente competenza dei ministeri degli Esteri e dei loro apparati. Perché la CPE, che ne è l’espressione sul piano europeo, sia interpellata in proposito bisognerà attendere il 1985-86. Ciò non toglie che già un avvenimento del 197980 lambisca il tema della risposta diplomatica al terrorismo internazionale. Il 4 novembre 1979 le forze del neonato regime khomeinista occupano l’ambasciata americana a Teheran, sequestrandone il personale e dando il via a una crisi destinata a protrarsi per più di un anno. L’episodio è rilevante dal momento che la dichiarazione sul terrorismo adottata dal Consiglio europeo del luglio 1976, dopo l’episodio di Entebbe, accostava chiaramente la presa di ostaggi alle pratiche terroristiche e di pirateria. È quindi comprensibile che, intervenendo sulle tensioni fra Iran e USA, i ministri CPE ricordino che «il Consiglio europeo ha espressamente condannato la presa di ostaggi per esercitare una pressione sui governi», facendo riferimento al documento del 197659. Dando prova di equilibrismo diplomatico, tuttavia, gli europei evitano di indirizzare una formale accusa di terrorismo al regime iraniano, limitandosi a sottolineare la violazione del diritto internazionale e a chiedere la liberazione degli ostaggi. In questo caso la CPE si muove su un crinale delicatissimo. Dal punto di vista delle vittime, il sequestro a fini di ricatto rimane tale sia che lo promuovano gruppi di individui irregolari – i terroristi classici dell’immaginario collettivo occidentale – sia che ne siano responsabili soggetti che eseguono gli ordini di un governo o di un’autorità pubblica internazionalmente riconosciuta. Sul piano politico, invece, addossare a uno Stato sovrano l’accusa di terrorismo rischia di metterne in discussione lo status di detentore di un potere legittimo. La scelta di giustapporre, in altri documenti di quel periodo, «la crescente ondata 56 Communiqué de presse public à l’issue de la 5me réunion ministérielle TREVI, Londre, 8 décembre 1981 (traduction libre de l’anglais), in de Schoutheete, La coopération politique européenne, p. 190. 57 Ivi, p. 191. 58 Déclaration de la 7me réunion ministérielle TREVI, Rome, 21 june 1985, in de Schoutheete, La coopération politique européenne, p. 194. 59 Si veda la dichiarazione dei ministri degli Esteri riuniti a Bruxelles il 20 novembre 1979, riportata in «BdCE», a. XII, n. 11, 1979, p. 80. L’impostazione è ribadita dalla dichiarazione sull’Iran concordata dal Consiglio europeo di Dublino del 29-30 novembre 1979, ivi, pp. 10-11. 32 di terrorismo che si è scatenata a livello internazionale» e «gli attentati diretti contro le missioni diplomatiche, nonché contro l’integrità fisica, la libertà e la dignità dei diplomatici»60 è interpretata da alcuni studiosi come segno del lento emergere della prospettiva del terrorismo di Stato61. Non sarebbe casuale inoltre il passaggio della dichiarazione sulla presa di ostaggi pronunciata in sede di Vertice economico occidentale (antesignano del G8, in cui la CEE è rappresentata dalla Commissione), nel quale si esprime preoccupazione «per i recenti fatti di terrorismo, con prese di ostaggi e assalti a sedi e a personale diplomatico e consolare» e si ricorda che «ogni Stato ha il dovere di astenersi dall’organizzare, istigare, fornire assistenza o partecipare ad atti terroristici in altri Stati e dal tollerare nel proprio territorio attività organizzate allo scopo di commettere tali atti»62. Resta però il fatto che il termine “terrorismo” non viene menzionato in nessuno degli interventi della CPE sulla crisi iraniana63. Quanto agli strumenti da utilizzare per favorire la liberazione dei sequestrati, gli europei devono fare i conti con le pressioni americane per adottare sanzioni condivise e minacciare, in ultima istanza, un intervento militare. In proposito si crea una divergenza fra le istituzioni europee. Il Parlamento dà vita a un vivace dibattito che sfocia nell’adozione di una risoluzione secondo la quale «il persistere della violazione degli obblighi che derivano dai trattati internazionali provoca il rischio di un ricorso alla forza per perseguire obiettivi legittimi» e impone di «adottare tutte misure necessarie e possibili […] per obbligare le autorità iraniane a liberare gli ostaggi»64, avallando di fatto la prospettiva di un attacco americano. Dal canto loro, i ministri degli Esteri, riuniti in formazione CPE a Lussemburgo il 22 aprile 1980, prospettano esclusivamente una ritorsione di tipo economico e diplomatico, indicando nel 17 maggio la data limite entro la quale gli iraniani dovranno porre fine al sequestro65. La crisi precipita due giorni dopo, quando l’amministrazione Carter, dopo aver 60 Si tratta della dichiarazione congiunta pronunciata dalla CEE e dal Gruppo Andino il 5 maggio 1980, riprodotta integralmente in «BdCE», a. XIII, n. 5, 1980, pp. 103-106. Il passo citato è a p. 104, paragrafo 15. 61 Hill, European Preoccupations with Terrorism, cit., p. 175. Per una lettura di matrice americana, che pone la vicenda iraniana alle origini del terrorismo di Stato e ne analizza gli sviluppi negli anni successivi, cfr. N.C. Livingstone e T.E. Arnold, The Rise of State-Sponsored Terrorism, in Iid. (eds.), Fighting Back. Winning the War against Terrorism, Lexington, Lexington Books, 1986, pp. 11-24. Cfr. anche D. Byman, Deadly Connections. States that Sponsor Terrorism, Cambridge, Cambridge University Press, 2005. 62 Il testo della dichiarazione è riportato in «BdCE», a. XIII, n. 6, 1980, p. 20. Sull’apporto dei vertici occidentali alla lotta al terrorismo, si veda A. Massai, La cooperazione europea nella lotta al terrorismo, in N. Ronzitti (a cura di), Europa e terrorismo internazionale, cit., pp. 85-93. 63 Cfr. anche la dichiarazione dei ministri degli Esteri sull’Iran, Lisbona, 10 aprile 1980, in «BdCE», a. XIII, n. 4, 1980, p. 20. 64 Parlamento europeo, Risoluzione sull’Iran, Strasburgo, 17 aprile 1980, ivi, pp. 22-23. 65 Cfr. la dichiarazione sull’Iran adottata a Lussemburgo il 22 aprile 1980, ivi, pp. 23-24. 33 annunciato di voler rimandare all’estate il possibile intervento armato e dato così la sensazione di accogliere l’invito europeo a temporeggiare, tenta un blitz militare per liberare gli ostaggi, programmato da tempo, senza sortire risultati concreti66. Preso atto di tale fallimento, gli europei mantengono fede alle promesse e nella riunione CPE di Napoli del 17 maggio decidono di dare seguito unilateralmente al regime di sanzioni predisposto, ma non approvato, in sede ONU nei mesi precedenti67. La procedura istituzionale necessaria per approdare a tale risultato è oltremodo complessa, poiché coinvolge almeno tre piani differenti: a) quello degli Stati nazionali, che adottano le sanzioni individualmente e in modo differenziato; b) quello della CPE, che si sforza di coordinare le diverse misure, inserendole in un quadro che consenta di applicarle «di concerto»68; c) quello comunitario, dal momento che occorre evitare che i provvedimenti assunti producano distorsioni del mercato comune, del cui funzionamento è custode la Commissione69. Le sanzioni saranno ritirate in seguito alla liberazione degli ostaggi, nel gennaio 198170. Su un piano più generale, la prima metà degli anni Ottanta è la fase in cui si affacciano diversi progetti di riforma istituzionale delle Comunità, con alcune ricadute anche sul terreno della sicurezza e del terrorismo. Il processo prende il via con l’iniziativa assunta il 6 gennaio 1981 dal ministro degli Esteri tedesco Hans-Dietrich Genscher, che mira a fondere in un unico trattato le norme relative all’ambito comunitario, alla CPE e al Consiglio europeo, secondo un’ottica prevalentemente intergovernativa. A manifestare interesse è soprattutto il suo omologo italiano Emilio Colombo, che tuttavia persegue un disegno più orientato verso lo sviluppo degli aspetti economico-monetari e l’adozione di una dichiarazione politica, in luogo di un testo giuridicamente vincolante71. Dopo un lungo lavoro di armonizzazione fra le due proposte, a metà novembre i ministri Genscher e Colombo sono in grado di presentare all’attenzione delle istituzioni comunitarie un testo condiviso sull’Unione europea, denominato Progetto di Atto europeo e affiancato da una breve dichiarazione dedicata all’integrazione economica72. Rispetto ai documenti analoghi degli anni Settanta, la nozione di sicurezza che si 66 Hill, European Preoccupations with Terrorism, cit., p. 181 e Nuttall, European Political Cooperation, cit., pp. 268-271. 67 Si veda la dichiarazione sull’Iran concordata a Napoli il 17 maggio 1980, in «BdCE», a. XIII, n. 4, 1980, p. 25. 68 Cfr. la dichiarazione sull’Iran adottata a Lussemburgo il 22 aprile 1980 cit. 69 Cfr. «BdCE», a. XIII, n. 5, 1980, pp. 26-28 e Nuttall, European Political Cooperation, cit., pp. 261-262. 70 Si veda la dichiarazione sull’Iran approvata dai ministri CPE il 20 gennaio 1981, in «BdCE», a. XIV, n. 1, 1981, pp. 39-40. 71 Nuttall, European Political Cooperation, cit., pp. 184-186. 72 Progetto di Atto europeo e Progetto di dichiarazione sui temi dell’integrazione economica, entrambi in «BdCE», a. XIV, n. 11, 1981, pp. 95-99. 34 ricava dal piano Genscher-Colombo è piuttosto articolata. Da un lato, si individua l’obiettivo di «coordinare la politica di sicurezza ed adottare posizioni comuni europee in questo campo, al fine di preservare l’indipendenza dell’Europa, proteggere i suoi interessi vitali e rafforzare la sua sicurezza», che risponde a una logica classica di difesa dalle minacce esterne di tipo militare. Dall’altro lato, tuttavia, l’Atto si sofferma sulla volontà di «rafforzare ed ampliare le attività comuni degli Stati membri per far fronte, mediante azioni concertate, ai problemi internazionali dell’ordine pubblico, agli atti di violenza grave, al terrorismo e, in genere, alla criminalità transnazionale», che dimostra una visione consapevole dell’intersezione fra sicurezza esterna e interna in cui opera il terrorismo. Benché l’accostamento alla criminalità finisca per negare al fenomeno terroristico una vera componente politica, il documento ha il merito di allargare l’orizzonte alle minacce non riconducibili all’azione degli Stati e delle loro forze armate. In termini istituzionali, l’Atto auspica che la CPE sia dotata di un segretariato e diventi materia di formale competenza del Consiglio dei ministri, eliminando l’artificiosa distinzione su cui più volte si è posto l’accento. Nel dettaglio, si prospetta l’eventualità che il Consiglio assuma «una composizione diversa» se chiamato ad affrontare l’ambito della sicurezza e dell’indipendenza dell’Europa con una lente molto specialistica, formula che allude probabilmente all’opportunità di coinvolgere i ministri della Difesa accanto a quelli degli Esteri73. Per l’ottica qui adottata, è tuttavia più rilevante l’accenno all’istituzione di un Consiglio dei ministri della Giustizia, chiamato a sviluppare il fronte della cooperazione giudiziaria e quindi contribuire – nonostante il testo non lo precisi espressamente – anche alla lotta al terrorismo. Su questa base di partenza si sviluppa un dibattito dominato dall’opposizione fra i difensori dell’ortodossia comunitaria, animati dal timore che la nuova architettura politicoistituzionale proposta finisca per deviare il percorso funzionalista verso lidi intergovernativi, e coloro che sono a disagio di fronte alla richiesta di avviare la cooperazione anche nel delicato settore della sicurezza. A sbloccare lo stallo registrato nei semestri belga e danese è l’arrivo alla presidenza dello stesso Genscher, che nei primi mesi del 1983 imprime un’accelerazione in grado di produrre un accordo al Consiglio europeo di Stoccarda del giugno 198374. La Dichiarazione solenne sull’Unione europea approvata 73 74 Nuttall, European Political Cooperation, cit., pp. 186-187. Ivi, pp. 187-189. 35 in tale occasione delude molte aspettative75. Sul fronte delle istituzioni, sopravvive la formale separazione fra il piano CEE e quello CPE, attraverso la sottile differenza fra «il Consiglio», che si occupa delle materie comunitarie, e «i suoi membri», che discutono di «qualsiasi altra materia dell’Unione europea», a partire dalla politica estera (paragrafo 2.2.1). Nel merito delle questioni politiche, il Preambolo ricorda i «pericoli della situazione mondiale» e il contributo della cooperazione politica per l’elaborazione di una politica estera condivisa, che dovrebbe consentire all’Europa di «contribuire al mantenimento della pace». In tema di sicurezza “esterna”, si segnala l’invito al «coordinamento delle posizioni degli Stati membri sugli aspetti politici ed economici della sicurezza» (paragrafo 3.2, quinto punto), con la speranza che la concertazione fra le politiche estere degli Stati non arretri di fronte alle minacce presenti sulla scena internazionale. Nel contempo, si propone di effettuare «un’analisi comune ed azioni concertate per far fronte ai problemi internazionali dell’ordine pubblico, alle manifestazioni di grave violenza, alla criminalità internazionale organizzata e, in generale, alla delinquenza internazionale» (paragrafo 1.4.3, terzo trattino). A differenza dell’Atto del 1981, la Dichiarazione del 1983 fa i conti con il fenomeno terroristico senza nominarlo direttamente, ma alludendovi con un lessico curiosamente generico e seguitando a porlo sul medesimo piano della criminalità organizzata. A ciò si aggiunge il ridimensionamento della cooperazione giudiziaria, che nel testo iniziale era individuata come nuovo settore dell’azione del Consiglio, e ora si riduce all’«identificazione dei settori del diritto penale e della procedura in cui una cooperazione tra Stati membri potrebbe essere auspicabile» (paragrafo 3.4.3, terzo punto). Un secondo prodotto dello spirito riformista degli anni Ottanta è il Progetto di Trattato che istituisce l’Unione europea, adottato dal Parlamento europeo il 14 febbraio 198476 e altrimenti noto come “Progetto Spinelli”, in omaggio al suo principale fautore. Dal punto di vista privilegiato in questa analisi, il testo è rilevante nella misura in cui tratta le questioni legate all’ambito della sicurezza e del terrorismo. Va dunque posto l’accento sull’inserimento dell’impegno per la pace e la sicurezza internazionale tra gli obiettivi dell’Ue. Secondo l’art. 9, accanto ai tradizionali scopi rappresentati dallo sviluppo della 75 Consiglio europeo, Dichiarazione solenne sull’Unione europea, Stoccarda, 19-21 giugno 1983, in «BdCE», a. XVI, n. 6, 1983, pp. 24-29. 76 Il testo integrale è riportato in «BdCE», a. XVII, n. 2, 1984, pp. 7-27. Si vedano in argomento N. Antonetti, I progetti costituzionali europei: caratteri storici e istituzionali (1953-1994), in U. De Siervo (a cura di), Costituzionalizzare l’Europa ieri ed oggi, Bologna, Il Mulino, 2001, pp. 55-65; F. Capotorti, M. Hilf, F. Jacobs e J.-P. Jacqué, Le Traité d’Union européenne. Commentaire du projet adopté par le Parlement européen, Bruxelles, Éditions de l’Université de Bruxelles, 1985; P.V. Dastoli e A. Pierucci, Verso una costituzione democratica dell’Europa, Casale Monferrato, Marietti, 1984. 36 società europea (in termini di piena occupazione, eliminazione degli squilibri regionali e territoriali, tutela dell’ambiente, progresso scientifico e culturale), dalla realizzazione del progresso economico (mercato interno, crescita economica, stabilità monetaria, adeguamento solidale alle trasformazioni economiche) e dal contributo al pieno sviluppo politico, economico, sociale e culturale dei popoli e degli Stati più arretrati, è necessario «promuovere nelle relazioni internazionali la sicurezza, la pace, la cooperazione, la distensione, il disarmo e la libera circolazione delle persone e delle idee». Questa dichiarazione d’intenti è ripresa dal Titolo III della Parte IV del Progetto, attraverso cui è sancito il formale riconoscimento dell’esperienza della CPE, integrandola nell’Ue. In tale sezione si precisa che saranno affrontate attraverso il metodo della cooperazione le «questioni relative agli aspetti politici ed economici della sicurezza» (art. 66). Il Consiglio europeo è l’istituzione responsabile della cooperazione, mentre il Consiglio dell’Unione dovrebbe assicurare lo svolgimento effettivo (art. 67). Nel complesso, i concetti menzionati dall’art. 9 a proposito degli obiettivi dell’Ue – pace, distensione, disarmo – suggeriscono che la sicurezza sia qui intesa in senso tradizionale, ponendosi cioè al livello in cui operano gli Stati e le organizzazioni internazionali di cui essi fanno parte. L’attività di gruppi, individui, formazioni che ricorrono alla violenza politica su un piano distinto da quello delle relazioni interstatali non trova uno spazio autonomo in questa concezione, come testimonia la scelta di non inserire alcun riferimento al terrorismo internazionale nella sezione dedicata alla politica estera. Ciò non significa però che il Progetto ignori completamente il problema. Il documento precisa che deve essere perseguito anche l’obiettivo di costruire uno spazio giuridico omogeneo, mediante il coordinamento delle legislazioni nazionali con il metodo della cooperazione. E prosegue spiegando che questa attività produrrebbe benefici alla lotta contro «le forme internazionali di criminalità, ivi compreso il terrorismo» (art. 46). Pur confinandola nella sfera della cooperazione, cioè in quel settore dell’integrazione in cui l’Ue non avrebbe competenze esclusive o anche solo concorrenti per intervenire con un’azione comune, e dovrebbe limitarsi a coordinare le politiche nazionali, il Progetto recupera in parte l’esperienza dei tentativi di cooperazione giudiziaria falliti negli anni precedenti77. Tuttavia, designare il metodo della cooperazione come strumento privilegiato per questo settore significa assegnare il ruolo centrale al Consiglio europeo (cfr. l’art. 10 77 La letteratura sottolinea a questo proposito la distinzione tra gli aggettivi “giuridico” e “giudiziario”, precisando che l’uno attiene al coordinamento delle legislazioni nazionali e l’altro riguarda la dimensione esplicitamente processuale. Il “Progetto Spinelli” appare più linea con il primo che con il secondo. Cfr. Capotorti, Hilf, Jacobs e Jacqué, Le Traité d’Union européenne, cit., pp. 177-178. 37 che illustra il funzionamento di tale meccanismo). I capi di Stato e governo e il presidente della Commissione, che lo compongono (art. 31), si troverebbero a essere le uniche figure formalmente investite di un compito legato all’antiterrorismo, senza riconoscere invece un ruolo definito ai ministri degli Interni, della Giustizia e degli Esteri, che se ne stanno occupando – con differente intensità – da alcuni anni. Come noto, il “Progetto Spinelli” è di fatto accantonato a favore di una riforma istituzionale assai più limitata, di matrice classicamente intergovernativa. Una delle basi per realizzarla è la relazione presentata al Consiglio europeo del 29-30 marzo dal comitato Dooge, che elenca fra gli obiettivi prioritari «uno spazio giuridico omogeneo», precisando che ne trarrebbe beneficio «la lotta contro il crimine organizzato su vasta scala e contro il terrorismo, attraverso una maggiore collaborazione tra gli stati membri»78. Il concetto di sicurezza è declinato invece esclusivamente sul piano della politica estera e di difesa, in relazione alle «minacce esterne», alle «dottrine strategiche», al «controllo degli armamenti», al «disarmo», al «potenziale difensivo»79, cioè a settori che rimandano alla sfera militare tradizionale. Il risultato finale del percorso è l’Atto Unico Europeo (AUE), siglato a Lussemburgo il 17 febbraio 198680. Dopo vari tentativi, la CPE viene riconosciuta ufficialmente e dotata di un segretariato permanente, che le conferisce un volto più strutturato. Il principio fondamentale, sancito dall’articolo 30, prevede che le consultazioni fra i governi si svolgano «prima che le Alte parti contraenti stabiliscano la loro posizione definitiva», cui si aggiunge l’invito affinché ogni Stato membro, nel prendere posizione, «[tenga] pienamente conto delle posizioni degli altri partner e [prenda] in debita considerazione l’interesse che presentano l’adozione e l’attuazione delle posizioni europee comuni». Soffermandosi sull’obiettivo di «una più stretta cooperazione in merito ai problemi della sicurezza europea» e sullo «sviluppo di un’identità dell’Europa in materia di politica esterna», disquisendo dell’«esistenza di una più stretta cooperazione nel settore della sicurezza fra talune Alte parti contraenti nel quadro dell’Unione europea occidentale e dell’Alleanza atlantica», l’AUE privilegia senza dubbio una visione della sicurezza dominata dalle relazioni interstatali. La dimensione del terrorismo è evocata solo da due dichiarazioni allegate al testo. La prima, nel ricordare l’obiettivo dell’abbattimento delle 78 Si veda la relazione riportata in «BdCE», a. XVIII, n. 3, 1985, p. 106. Ivi, p. 107. 80 Atto Unico Europeo – Trattato, Lussemburgo-L’Aja, 17 febbraio-28 febbraio 1986, in GU n. L 169 del 29 giugno 1987. Cfr. anche R.A. Cangelosi, Dal progetto di Trattato Spinelli all’Atto Unico Europeo. Cronaca di una riforma mancata, Milano, Angeli, 1987. 79 38 frontiere che la Comunità si è data, afferma che gli Stati membri conservano il diritto «di adottare le misure che essi ritengano necessarie in materia di controllo dell’immigrazione da paesi terzi nonché in materia di lotta contro il terrorismo, la criminalità, il traffico di stupefacenti e il traffico delle opere d’arte e delle antichità». La seconda contiene un generico riferimento al fatto che gli Stati «cooperano anche per quanto riguarda la lotta contro il terrorismo, la criminalità, gli stupefacenti e il traffico delle opere d’arte e delle antichità». La lotta al terrorismo, insomma, pare essere letta come un’esigenza potenzialmente in conflitto con la crescente di libertà di movimento accordata a cose e persone sul territorio degli Stati membri, a cui è dunque riconosciuta la facoltà di adottare misure restrittive alla circolazione per ragioni di ordine pubblico81. Accanto a queste misure di contrasto, che dipendono da scelte autonome dei singoli governi, è auspicata una cooperazione fra di essi, senza tuttavia precisare quali forme possa assumere. L’AUE, in altri termini, finisce per ignorare il coordinamento fra i ministri dell’Interno/della Giustizia e i risultati del gruppo TREVI, che restano al di fuori dall’integrazione comunitaria82. 1.4 La svolta del 1985-86: le nuove competenze della CPE in materia di antiterrorismo Nel secondo semestre del 1985, le ricadute internazionali del terrorismo assumono un’eco tale da indurre il premier britannico Thatcher a ipotizzare di sollevare il tema in occasione del Consiglio europeo di Milano, ma le urgenze legate alle riforme istituzionali hanno il sopravvento83. Il crescente numero di dirottamenti aerei spinge comunque i ministri degli Esteri a considerare l’eventualità di ricorrere agli strumenti della CPE per garantire la sicurezza dei trasporti aerei e degli aeroporti, troppo spesso teatro di attentati84. Assai elevato è l’impatto dell’affaire Achille Lauro, che incarna in modo paradigmatico la dimensione transnazionale in cui si muove il terrorismo. Alcuni militanti del Fronte per la Liberazione della Palestina dirottano la nave italiana al largo della costa egiziana, uccidendo brutalmente un cittadino americano di origine ebraica. La mediazione condotta dalle autorità egiziane e dall’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) convince i responsabili alla resa in cambio dell’immunità, ma l’intervento delle forze 81 Non si dimentichi che ha da poco visto la luce, con un’iniziativa congiunta franco-tedesca (cfr. il testo comune riportato in «BdCE», a. XVII, n. 7-8, 1984, pp. 117-119), il processo che porterà agli accordi di Schengen sulla soppressione dei controlli di polizia alle frontiere interne. 82 Hill, European Preoccupations with Terrorism, cit., p. 172. 83 Nuttall, European Political Cooperation, cit., p. 303. 84 Si veda la dichiarazione su terrorismo e dirottamenti diffusa al termine del vertice CPE svolto a margine del Consiglio di Bruxelles del 22-23 luglio, in «BdCE», a. XVIII, n. 7-8, 1985, p. 103. 39 americane impedisce di dare seguito agli accordi raggiunti fra le parti. L’aereo che trasporta terroristi e mediatori è costretto ad atterrare nella base siciliana di Sigonella, dove si apre un contenzioso fra Italia e Stati Uniti circa il destino dei dirottatori, risolto a favore delle ragioni italiane. Al di là del caso specifico, nessuno può più nascondere che i metodi di azione dei gruppi terroristici che si riconoscono nella causa palestinese costituiscono un problema che la comunità internazionale – e gli europei al suo interno – devono affrontare. Il passo definitivo viene compiuto in seguito agli attentati perpetrati dal gruppo Abu Nidal negli aeroporti di Roma e Vienna il 27 dicembre del 1985, che sono diretti contro uffici delle compagnie aeree israeliane ma producono inevitabilmente vittime europee. La linea tenuta per anni a proposito del conflitto mediorientale, rafforzata dalla Dichiarazione di Venezia del 1980, che sorvolava ancora una volta fra terrorismo e questione palestinese85, non è più sostenibile dopo gli ultimi avvenimenti. I Dieci, insieme a Spagna e Portogallo, ormai prossimi all’ingresso nella Comunità, decidono allora di diramare una dichiarazione per molti versi “rivoluzionaria”: Simili atti terroristici, lungi dal servire gli interessi del popolo palestinese, non fanno che ritardare il riconoscimento dei suoi diritti legittimi. Soltanto una soluzione globale, equa e duratura della questione medio-orientale, di cui i Dieci, la Spagna e il Portogallo hanno più volte sottolineato la necessità, potrà porre fine al clima di tensione imperante nella regione, che è all’origine delle numerose manifestazioni di violenza e di terrorismo. […] I Dieci, la Spagna e il Portogallo chiedono a tutti i governi, senza eccezione alcuna, di cooperare attivamente alla ricerca degli organizzatori degli atti criminali di Roma e di Vienna e di fare in modo che, una volta arrestati, siano consegnati alla giustizia e debitamente giudicati, senza che possano trovare appoggio in nessuna parte86. Sembra avviarsi alla conclusione l’epoca in cui gli interventi delle istituzioni europee si riducevano ad auspicare che «il popolo palestinese [potesse] far valere le sue rivendicazioni su basi politiche» e «[fosse] messo in condizioni di far valere le proprie 85 Consiglio europeo, Dichiarazione sul Medioriente, Venezia, 12-13 giugno 1980, il cui testo integrale si trova in «BdCE», a. XIII, n. 6, 1980, pp. 9-10. Il documento è animato soprattutto dalla ricerca di una «giusta soluzione» per il «problema palestinese», attraverso l’ammissione dell’OLP ai negoziati. In questa prospettiva, il problema principale è rappresentato dagli insediamenti israeliani nei territori occupati a partire dal 1967, che la dichiarazione invita a smantellare. Questo appello è accompagnato da un generico richiamo alla «violenza» che si trascina da tempo, per interrompere la quale gli europei invocano «la rinunzia da parte di tutte le parti alla forza ed alla minaccia all’impiego [sic] della forza», dove il ricorso al termine «forza» evoca l’orizzonte della violenza statale. Sul significato di questa presa di posizione nell’ambito della politica occidentale verso il Medio Oriente, cfr. Nuttall, European Political Cooperation, cit., pp. 158-168. 86 Il testo integrale è riportato in «BdCE», a. XVIII, n. 12, 1985, p. 109. 40 richieste con mezzi politici e attraverso i negoziati»87. Tali considerazioni, formulate sulla scia dell’invasione del Libano da parte delle truppe israeliane nel 1982, apparivano coerenti con la tesi per cui, fino a quando i rappresentanti palestinesi fossero stati esclusi dalle trattative di pace, i loro metodi di azione, anche violenti, non sarebbero stati del tutto ingiustificati, proprio perché gli unici disponibili. Ne discendeva, in ultima analisi, una riformulazione dell’atavico cliché del terrorismo come arma dei deboli e dei disperati88. A metà degli anni Ottanta, con un certo ritardo rispetto al Parlamento europeo, che già da qualche tempo cerca di fugare questa impressione e di discutere del terrorismo senza troppe preclusioni89, i governi degli Stati membri riconoscono dunque il ruolo che il fenomeno terroristico riveste anche nelle relazioni internazionali, preparandosi a ospitarlo nell’agenda della CPE. Un’ulteriore spinta in tale direzione arriva nei primi mesi dell’anno successivo, con l’inasprimento dei rapporti tra USA e Libia. La questione libica e la recrudescenza del terrorismo internazionale sono messe in connessione da più parti: il governo di Gheddafi è sospettato di finanziare e sostenere l’attività di vari gruppi armati. Tale tesi è sostenuta con particolare convinzione dagli USA ed è alla base della strategia americana finalizzata all’isolamento e poi al rovesciamento del dittatore arabo, obiettivo dell’amministrazione Reagan fin dal suo insediamento90. Come accaduto con l’Iran nel 1980, gli USA esercitano pressioni sui partner europei per convincerli a condividere una risposta comune ed efficace alla condotta libica e alla minaccia terroristica. Le trattative presentano alcune difficoltà: un primo vertice fra i ministri degli Esteri, convocato per il 21 gennaio allo scopo di discutere dei temi sul tavolo, è rinviato ufficialmente per problemi organizzativi. Tre giorni più tardi, il 24 gennaio, il presidente di turno della CPE – l’olandese Van der Broek – incontra il sottosegretario di Stato USA per 87 Cfr. rispettivamente Consiglio europeo, Dichiarazione sul Medio Oriente, Bruxelles, 28-29 giugno 1982, in «BdCE», a. XV, n. 6, 1982, p. 16 e l’intervento pronunciato all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, a nome dei Dieci, dal ministro degli esteri danese Ellemann-Jensen, 28 settembre 1982, riportato in «BdCE», a. XV, n. 9, 1982, pp. 77-78 in particolare. 88 Su questo aspetto si vedano le considerazioni di M. Ignatieff, Il male minore, cit., pp. 127-167 e R. Young, Political Terrorism as a Weapon of the Politically Powerless, in I. Primoratz (ed.), Terrorism. The Philosophical Issues, New York-Basingstoke, Palgrave MacMillan, 2004, pp. 55-64. Cfr. inoltre la riflessione svolta da Adriana Cavarero in alcuni recenti lavori (Per una storia della distruzione, «Filosofia politica», a. XXI, n. 1, aprile 2007, pp. 13-20; Orrorismo, cit.) per segnalare come si tenda a perdere di vista che, nelle dinamiche della violenza contemporanea, il soggetto più debole è la vittima “inerme”, che resta tale sia quando a colpirla sono azioni belliche tradizionali, sia quando intervengono attentati terroristici. 89 Marchetti, Istituzioni europee e lotta al terrorismo, cit., pp. 75-76, sottolinea come già nel 1975 il Parlamento europeo si soffermi sugli attentati terroristici a Gerusalemme, senza tuttavia raggiungere un accordo sull’inserimento di un accenno all’OLP nei documenti adottati. 90 A. Pardalis, European Political Co-operation and the United States, «Journal of Common Market Studies», vol. XXV, n. 4, June 1987, p. 282. 41 discutere della vicenda libica. Il 27 gennaio, a margine del Consiglio di Bruxelles, si svolge finalmente la riunione dei ministri degli Esteri, che pronuncia una nuova dichiarazione sulla lotta al terrorismo91, ricca di novità. In primo luogo, vengono messi nel mirino «sia gli autori, complici e istigatori, sia i governi che li sostengono», e, in generale, tutti coloro che forniscono «un sostegno ad attacchi terroristici». Questa impostazione, che riconosce il problema del legame tra Stati e formazioni terroristiche, è confermata dall’appello a tutti i paesi mediterranei – tra cui la Libia, non menzionata – affinché rifiutino «ai terroristi qualsiasi appoggio, asilo o rifugio», circostanza verso la quale gli europei non intendono mostrare «tolleranza», anche se non specificano l’entità di eventuali ritorsioni. In secondo luogo, viene elaborata un’embrionale strategia che dovrà governare l’impegno dei Dodici contro il terrorismo, a partire dalla «necessità di colpirlo alla radice». Dall’elenco delle misure assunte nei mesi precedenti nei campi dell’immunità diplomatica e della sicurezza aerea (ambito CPE) e della repressione operativa (ambito TREVI), oltre che da alcuni riferimenti al controllo dello spostamento delle persone e al rilascio dei visti, scaturisce un approccio globale, che fonde competenze dei ministeri degli Interni e degli Esteri, ponendo un’esigenza di coordinamento. A questo scopo, gli Stati membri decidono «di costituire, nell’ambito della cooperazione politica europea, un Gruppo di lavoro permanente». In tal modo la CPE si ritaglia un ruolo ufficiale nella lotta al terrorismo92, affiancando i filoni di cooperazione politica che già se ne occupano, secondo una divisione del lavoro fra diversi ambiti istituzionali93. Il più antico è costituito dal confronto fra i ministri degli Interni o della Giustizia, animato dalla volontà di porre rimedio alle turbolenze sociali e civili causate dal terrorismo, che trova il proprio ambito d’intervento nella cooperazione di polizia (TREVI). Vari tentativi sono stati compiuti per dare vita a forme di integrazione legislativa e giudiziaria, attraverso le consultazioni fra i ministri della Giustizia, che assumono il terrorismo nella sua dimensione di reato, di violazione di codici e leggi, e su quello stesso piano ricercano le soluzioni, con accordi e convenzioni che ne garantiscano il perseguimento penale. Sono stati tuttavia raccolti scarsi risultati, forse anche perché si 91 Il testo è riprodotto in «BdCE», a. XIX, n. 1, 1986, pp. 62-63. Cfr. Nuttall, European Political Cooperation, cit., p. 303, E. Regelsberger, EPC in the 1980s: Reaching Another Plateau?, in Pijpers, Regelsberger e Wessels (eds.), European Political Cooperation in the 1980s, cit., p. 34 e Massai, La cooperazione europea nella lotta al terrorismo, cit., pp. 77-82. 93 Hill, European Preoccupations with Terrorism, cit., p. 167. 92 42 tratta della cooperazione meno strutturata in termini istituzionali94. Dal 1986 si aggiunge il terzo approccio, il più vicino al nucleo fondamentale della CPE, che del terrorismo coglie il tratto internazionale, cioè l’eventualità che i suoi responsabili possano essere in qualche modo collegati a Stati, soggetti o interessi di paesi terzi ma nel contempo minacciare il territorio o i cittadini degli Stati membri, e trova il suo campo d’elezione nella diplomazia. Si tratta tuttavia di capire quanto possa funzionare il raccordo istituzionale fra le loro attività, che si svolgono in parallelo, con strutture amministrative e gradi di formalizzazione diversi. Il rischio è che si possa creare una competizione fra le varie anime della lotta al terrorismo, con eventuali sovrapposizioni fra le rispettive competenze. La crisi legata alla Libia si aggrava nel mese di aprile, in seguito all’attentato nella discoteca «La Belle» di Berlino, che provoca morti e feriti fra i militari americani di stanza nella zona e viene attribuita a un’iniziativa libica95. L’invocazione di una rappresaglia militare da parte americana induce i ministri degli Esteri europei a convocare una riunione straordinaria (L’Aia, 14 aprile 1986), dopo una settimana di colloqui bilaterali fra Vernon Walters, ambasciatore USA all’ONU, e i governi dei cinque maggiori Stati membri della Comunità96. L’incontro CPE produce una dichiarazione significativa sotto numerosi profili97. La rappresentazione del terrorismo è in linea con quella emersa in altri recenti interventi: i ministri rilevano infatti che gli autori di atti terroristici tendono a invocare una «causa politica», che può forse permettere di distinguerne concettualmente le azioni da quelle attribuite ai criminali comuni, ma di certo non comporta alcuna scusante o assoluzione rispetto alla decisione ingiustificabile di ricorrere alla violenza. La vera novità risiede nella decisione di additare esplicitamente la Libia come Stato legato all’attività di gruppi terroristici. Nei confronti delle autorità libiche viene annunciata una serie di ritorsioni diplomatiche – restrizioni alla libertà di movimento del personale diplomatico e consolare, riduzione del personale nelle missioni diplomatiche e consolari, condizioni meno favorevoli per la concessione dei visti – che si somma al divieto di commerciare armi ed equipaggiamento militare, già in vigore da qualche tempo. A queste iniziative dovranno essere affiancate misure che garantiscano la sicurezza europea e l’intensificazione della cooperazione con paesi terzi, e in particolare il mondo arabo, per contrastare il terrorismo e isolare gli Stati che non ne prendano le distanze. 94 Su questo punto si veda de Schoutheete, La coopération politique européenne, cit., p. 180. Hill, European Preoccupations with Terrorism, cit., p. 176. Clutterbuck, Terrorism, Drugs and Crime in Europe after 1992, cit., p. 23, non esclude invece un coinvolgimento siriano. Sull’episodio e sui suoi sviluppi, cfr. anche Nuttall, European Political Cooperation, cit., pp. 303-305. 96 Pardalis, European Political Co-operation and the United States, cit., p. 283. 97 Il testo è riportato in «BdCE», a. XIX, n. 4, 1986, p. 106. 95 43 L’impostazione complessiva è frutto della volontà dei ministri degli Esteri di usare congiuntamente tutta la propria “influenza”98 per indurre la Libia ed eventuali altri Stati ad abbandonare i terroristi al proprio destino. Anche questa sfumatura, che si affianca all’individuazione di mezzi esclusivamente economici e diplomatici, spiega che gli europei hanno intenzione di fare leva sul soft più che sull’hard power99. La conferma definitiva è fornita dall’ultimo paragrafo della dichiarazione, che auspica «una soluzione politica che eviti una nuova escalation delle tensioni militari nella regione». È in questa presa di posizione, coerente con un appello alla moderazione rivolto a tutti gli attori coinvolti, che si possono scovare i motivi delle frizioni con gli USA, i quali – senza essere nominati – rappresentano forse i principali destinatari del messaggio. Il repertorio di strumenti suggeriti dagli europei, infatti, è del tutto incompatibile con l’idea americana di attaccare la Libia, fondata sulla premessa che un’azione militare tradizionale sia adeguata a punire uno Stato accusato di sostenere il terrorismo internazionale. Nel contempo, l’adozione di sanzioni appare in grado di fugare i sospetti circa il carattere declamatorio della CPE100. Il 15 aprile 1986 gli USA rompono gli indugi e bombardano Tripoli e Bengasi, 98 La versione francese contiene un riferimento all’«influence» a cui i ministri degli Esteri dovranno ricorrere nei contatti con il governo libico (cfr. il documento riportato in de Schoutheete, La coopération politique européenne, cit., p. 195), mentre il testo italiano parla semplicemente di agire «di concerto nei […] contatti con la Libia». 99 Tale distinzione è introdotta nel dibattito internazionalistico, in riferimento alla politica estera americana, da J.S. Nye, Bound to Lead. The Changing Nature of American Power, New York, Basic Books, 1990, pp. 188 e sgg., poi sviluppata in Id., Il paradosso del potere americano. Perché l’unica superpotenza non può più agire da sola (2002), Torino, Einaudi, 2002 e Id., Soft power. Un nuovo futuro per l’America (2004), Torino, Einaudi, 2005. Lo studioso ammette apertamente di ispirarsi alla nozione di “egemonia” di Antonio Gramsci, da questi trattata nei Quaderni del carcere (1929-1935), 4 voll., a cura di V. Gerratana, Torino, Einaudi, 2001. Gramsci è considerato il prototipo dell’intellettuale consapevole dell’importanza di «condizionare le preferenze», determinare le modalità di un dibattito, plasmare la volontà altrui (cfr. Nye, Il paradosso del potere americano, cit., p. 13). L’affinità tra il soft power e l’egemonia gramsciana è evidenziata anche da G. Carnevali, Quale egemonia mondiale?, in A. d’Orsi (a cura di), Egemonie, Napoli, Dante & Descartes, 2008, pp. 341-354, cui tuttavia sfugge l’omaggio di Nye al pensatore sardo. Il punto di contatto fra i due concetti è individuato nella ricerca del consenso come componente dell’azione politica, che dunque impedisce di ridurre l’egemonia a mera riedizione della leniniana dittatura del proletariato (tesi invece sostenuta da L. Gruppi, Il concetto di egemonia in Gramsci, Roma, Editori Riuniti, 1977, pp. 9-15). D’altra parte, l’ambivalenza della nozione di egemonia, oscillante – per lo più nelle relazioni internazionali, dove il termine ha una traiettoria autonoma rispetto all’eredità gramsciana e al suo interesse per la “società civile” nazionale – fra i due poli antagonisti e complementari della “forza” e del “consenso” è rimarcata da L. Bonanate e B. Bongiovanni, Egemonia, in AAVV, Enciclopedia delle scienze sociali, vol. III, Roma, Edizioni dell’Enciclopedia Italiana, 1993, pp. 461-478. Negli studi internazionalistici, in effetti, dell’egemonia convivono tanto una lettura soft (cfr. l’accezione di “direzione” in H. Triepel, L’egemonia (1938), Firenze, Sansoni, 1949), quanto un’interpretazione hard, ben testimoniata, per esempio, da L. Dehio, Equilibrio o egemonia. Considerazioni sopra un problema fondamentale della storia politica moderna (1948), Bologna, Il Mulino, 1988, che censisce i tentativi di “dominio” di alcune grandi potenze nella storia europea. A proposito della corrente neogramsciana delle relazioni internazionali si vedano i lavori di R.W. Cox, Production, Power, and World Order, New York, Columbia University Press, 1987 e (with T.J. Sinclair), Approaches to World Order, Cambridge, Cambridge University Press, 1996. 100 R. Rummel, Speaking with One Voice – and beyond, in Pijpers, Regelsberger e Wessels (eds.), European Political Cooperation in the 1980s, cit., pp. 120-121. 44 giovandosi dell’assistenza della Gran Bretagna, che concede l’uso delle proprie basi aeree. Spagna e Francia, invece, negano all’aviazione americana il diritto di transitare nel proprio spazio aereo. Si crea in tal modo una spaccatura non solo tra le due sponde dell’Atlantico, ma anche dentro la CPE, ulteriormente accentuata dalla retromarcia della Grecia sulle sanzioni alla Libia, dovuta all’impossibilità di dimostrarne l’effettivo coinvolgimento nei fatti che le sono contestati101. Nel caso specifico, la letteratura spiega la posizione britannica ricorrendo sia alla special relationship con gli USA, sia al ricordo di un episodio di sangue avvenuto un paio d’anni prima nei pressi dell’ambasciata libica a Londra102. Due ulteriori riunioni CPE (il 17 aprile in occasione del Consiglio OCSE di Parigi e il 21 aprile a margine del Consiglio di Lussemburgo) sono convocate in pochi giorni sulla base del meccanismo di emergenza introdotto dal vertice CPE di Londra del 1981, che conferisce alla cooperazione un grado di flessibilità prima sconosciuto, rendendo più rapida la preparazione e meno ampollosi i lavori103. Oltre che ad aggiungere qualche altra sanzione diplomatica, tali vertici mirano anche a contenere le dimensioni delle divergenze, almeno sul piano dell’immagine. Non è infatti sfuggito, tanto ai ministri quanto agli osservatori, che nell’incontro del 14 aprile il ministro degli Esteri britannico – sir Geoffrey Howe – non ha minimamente accennato alla prospettiva di un bombardamento che si sarebbe svolto appena il giorno dopo e con l’uso delle basi britanniche. La versione ufficiale è che il 14 Howe non aveva notizie certe sulle intenzioni USA104, comunicazione che da un lato salva la forma dei rapporti intereuropei, ma dall’altro – se presa sul serio – solleverebbe dubbi sull’utilità di riunioni fra ministri che appaiono all’oscuro di scelte fondamentali assunte dai loro governi proprio in politica estera. Buona parte della letteratura giudica l’atteggiamento britannico nei termini di una forzatura della procedura, ancor più vistosa alla luce del richiamo alle consultazioni preventive previsto dall’AUE 101 Hill, European Preoccupations with Terrorism, cit., p. 177. Clutterbuck, Terrorism, Drugs and Crime in Europe after 1992, cit., p. 106, pone l’accento sulla tradizionale vicinanza della Grecia alla causa palestinese, che la porta ad avere contatti con la Libia a proposito della consegna di individui appartenenti alla formazione di Abu Nidal e accusati per l’attentato terroristico del 1982 alla sinagoga centrale di Roma. 102 Hill, European Preoccupations with Terrorism, cit., pp. 176-177. Durante una manifestazione organizzata da un gruppo di oppositori del regime di Gheddafi, i dimostranti raggiungevano l’ambasciata libica londinese, da cui provenivano alcuni colpi di pistola che uccidevano una poliziotta britannica impegnata ad assicurare il regolare svolgimento dell’evento (cfr. Clutterbuck, Terrorism, Drugs and Crime in Europe after 1992, cit., p. 91 e Nuttall, European Political Cooperation, cit., pp. 302-303). 103 Report on European Political Co-operation Issued by the Foreign Ministers of the Ten on 13 October 1981 (London Report), in Pijpers, Regelsberger e Wessels (eds.), European Political Cooperation in the 1980s, cit., pp. 321-327, punto 13: si prevede la convocazione entro 48 ore di riunioni d’emergenza, in seguito alla richiesta di almeno tre Stati. Cfr. inoltre Hill, European Preoccupations with Terrorism, cit., pp. 182-183. 104 Cfr. «BdCE», a. XIX, n. 4, 1986, pp. 106-107. 45 appena firmato105. A ciò va aggiunto, peraltro, che neppure Francia, Spagna e forse Germania hanno avvisato i partner della richiesta americana relativa a basi e spazio aereo, da cui si potevano trarre conclusioni sull’imminenza dell’attacco106. Questa vicenda anticipa alcune dinamiche che si verificheranno nel 2002-2003, quando la reazione americana all’11 settembre prenderà una piega controversa. In primo luogo, la crisi libica mostra che i rapporti transatlantici non godono di buona salute: dopo le divergenze emerse a proposito del caso iraniano a inizio decennio, e una distensione fra il 1983 e il 1985, un nuovo conflitto mette in discussione la compattezza dell’alleanza occidentale107. In secondo luogo, la situazione è complicata dalle divisioni fra gli stessi Stati membri, con gli estremi rappresentati da una Gran Bretagna schierata su posizioni filoamericane e la Grecia orientata a rifiutare anche il nucleo minimo di sanzioni alla Libia. In terzo luogo, il principale oggetto del contendere appare l’interpretazione del terrorismo internazionale e del metodo per contrastarlo. Si confrontano infatti le posizioni di chi lo assimila alla guerra e individua in un intervento militare tradizionale una soluzione praticabile, e chi viceversa tiene distinti i piani, prediligendo una lotta al terrorismo condotta con strumenti politici, diplomatici ed economico-commerciali. In quarto luogo, sul piano istituzionale, va rilevata la tendenza generalizzata dei governi europei a stabilire la propria condotta internazionale prescindendo dalla consultazione prescritta dalle procedure della CPE, come testimoniano le scelte di Gran Bretagna, Francia e Spagna sulla concessione delle basi e dello spazio aereo all’aviazione americana. Il tema del terrorismo internazionale resta vivo anche nell’attività della CPE dell’autunno 1986. Due interventi si rendono necessari poiché la compagnia Libyan Arab Airlines è accusata di complicità in azioni terroristiche da svolgere nel Regno Unito108 e i combattenti palestinesi compiono un attentato presso il Muro del pianto di Gerusalemme, stigmatizzato dagli europei109. A questi si aggiunge un nuovo caso decisamente spinoso, legato all’esito del processo Hindawi, dal nome del cittadino giordano condannato in Gran 105 Si vedano Regelsberger, EPC in the 1980s, cit., p. 35 e, in riferimento all’art. 30 dell’AUE, A. Pijpers, The Twelve out-of-Area: A Civilian Power in an Uncivil World?, in Pijpers, Regelsberger e Wessels (eds.), European Political Cooperation in the 1980s, cit., pp. 157-158. 106 Hill, European Preoccupations with Terrorism, cit., pp. 183-184. 107 H. Wyatt-Walter, The European Community and the Security Dilemma, 1979-1992, HoundmillsBasingstoke, MacMillan, 1997, p. 93 e S. Nuttall, Two Decades of EPC Performance, in E. Regelsberger, P. de Schoutheete de Tervarent and W. Wessels (eds.), Foreign Policy of the European Union. From EPC to CSFP and Beyond, Boulder-London, Lynne Rienner, 1997, p. 22. Nuttall, European Political Cooperation, cit., p. 285, ricorda che, proprio in risposta a quei dissidi, viene rapidamente introdotta una procedura più formalizzata di consultazione transatlantica, da cui peraltro gli europei vogliono escludere i gruppi di lavoro. 108 Si veda la dichiarazione diffusa dalla presidenza della CPE il 4 ottobre 1986, in «BdCE», a. XIX, n. 10, 1986, p. 76. 109 Si veda il comunicato pubblicato dalla presidenza CPE il 22 ottobre, ivi, pp. 76-77. 46 Bretagna per aver cercato di far esplodere – nel pieno della crisi libica di aprile – un aereo della compagnia El Al diretto da Londra a Tel Aviv. Le autorità giudiziarie accertano che il terrorista disponeva di un passaporto diplomatico siriano, che gli consentiva una libertà di movimento assai elevata110. Come conseguenza della sentenza, la Gran Bretagna rompe le relazioni con la Siria, ne espelle il personale diplomatico e chiede agli altri Stati membri di votare un pacchetto di misure contro il paese mediorientale, forte anche del fatto di detenere la presidenza semestrale della CPE. Nel vertice di Lussemburgo del 27 ottobre, i ministri degli Esteri discutono le modalità di una risposta comune, raffinata dal vertice CPE di Londra del 10 novembre111. Senza nascondere il dissenso della Grecia, che non accetta di affermare la responsabilità delle autorità siriane, i ministri degli Esteri definiscono «del tutto inaccettabile» l’episodio e concordano alcune misure sanzionatorie (interruzione della vendita di armi, sospensione delle visite ad alto livello in Siria, valutazione delle attività diplomatiche e consolari siriane in Europa), ma non il richiamo degli ambasciatori, invocato dalla Gran Bretagna. All’interno della CPE, dunque, si ripropongono le divisioni già emerse nell’affaire libico. Da un lato, l’oltranzismo del Regno Unito fa proprie alcune argomentazioni americane e propone ritorsioni diplomatiche particolarmente gravi, dovute probabilmente alla consapevolezza di essere bersaglio privilegiato del terrorismo. All’estremo opposto si distingue la Grecia, che dubita del coinvolgimento siriano e sottolinea l’importanza che la Siria riveste nella gestione della questione libanese e mediorientale in generale. A quest’ultima considerazione, condivisa da altri Stati membri112, la Francia aggiunge una valutazione legata al proprio interesse nazionale: il governo siriano è infatti visto come una potenziale risorsa nella lotta che i francesi stanno conducendo contro la campagna terroristica in corso a Parigi. Sarebbe quindi opportuno mantenere buoni rapporti con le autorità siriane per riceverne la preziosa assistenza. Gli studiosi riconducono a due ordini di ragioni le difficoltà incontrate dalla CPE quando viene chiamata a confrontarsi con la piaga del terrorismo. In primo luogo, la lotta al terrorismo internazionale condotta sul piano della diplomazia implica la necessità di 110 Per i dettagli della vicenda, cfr. Clutterbuck, Terrorism, Drugs and Crime in Europe after 1992, cit., pp. 23-24 e p. 91. Si consideri inoltre l’accertamento della complicità di funzionari siriani nel reperimento degli esplosivi utilizzati in un attentato compiuto a Berlino Ovest nel marzo 1986 (cfr. la dichiarazione dei Dodici del 29 novembre 1986, in «BdCE», a. XIX, n. 11, 1986, p. 99). 111 Cfr. il comunicato stampa diffuso dalla presidenza CPE a Londra il 10 novembre 1986, ivi, pp. 98-99. Cfr. inoltre Hill, European Preoccupations with Terrorism, cit., pp. 178-179. 112 Regelsberger, EPC in the 1980s, cit., pp. 32-33. Nuttall, European Political Cooperation, cit., p. 307, riconduce tuttavia la prudenza del documento – come già nel caso della Libia – alla necessità di trovare un compromesso fra posizioni anche molto distanti, più che a una visione omogenea degli Stati membri. 47 urtare la sensibilità e le prerogative di Stati sovrani, prospettiva assai più complicata rispetto alla cooperazione tutta operativa di cui si occupa il settore TREVI113. In secondo luogo, la CPE si rivela incapace di contenere le divergenze fra gli Stati membri, che siano legate al conflitto fra interessi particolari o a quello fra visioni alternative delle relazioni internazionali114. Per la verità, il Consiglio europeo di dicembre si sforza di enucleare tre linee-guida su cui sviluppare una condotta comune contro il terrorismo: rifiuto di fare concessioni ai terroristi e ai loro sostenitori; solidarietà fra gli Stati nelle prevenzione del terrorismo e nella persecuzione giudiziaria dei responsabili delle azioni; risposta concertata ad attacchi portati sul territorio di uno Stato membro115. Si tratta, com’è evidente, di principi talmente generali da non poter produrre un’effettiva armonizzazione degli atteggiamenti nazionali. Nella fase finale degli anni Ottanta, che si annuncia come un periodo di cambiamenti epocali sul piano delle relazioni internazionali, in cui si consuma il superamento della guerra fredda e del paradigma politico-strategico che la caratterizza, la CPE torna a occuparsi di lotta al terrorismo in varie occasioni. L’aggravarsi delle tensioni nello Sri Lanka, che coinvolgono l’India e sono alimentate anche da una serie di attentati terroristici compiuti dalle Liberation Tigers of Tamil Eelam (LTTE), è interpretato in sede CPE come il progressivo avvicinamento a una possibile «guerra civile» su basi etniche116, di cui dunque il terrorismo può rivelarsi il detonatore. Questa lettura presenta curiose assonanze con l’idea propugnata dal terrorismo di sinistra europeo e italiano in particolare, a lungo impegnato a teorizzare la necessità di creare artificialmente, con mezzi violenti, le condizioni per una rivoluzione destinata a travolgere i rapporti di classe nelle società occidentali industrializzate117. Grande impatto in Europa ha, inoltre, l’attentato che il 21 dicembre 1988 colpisce il volo n. 103 della Pan Am, precipitato nella cittadina scozzese di 113 Hill, European Preoccupations with Terrorism, cit., p. 179 Ivi, p. 185. A proposito del rapporto conflittuale tra CPE, da un lato, e politiche estere nazionali e interessi particolari, dall’altro, in relazione ai casi di Libia e Siria, cfr. anche C. Hill, The Actors Involved: National Perspectives, in Regelsberg, De Schoutheete e Wessels (eds.), Foreign Policy of the European Union, cit., p. 90 e S. Bulmer, Analysing European Political Cooperation: The Case for Two-tier Analysis, in M. Holland (ed.), The Future of European Political Cooperation. Essays on Theory and Practice, Houndmills, Macmillan, 1991, p. 70. 115 Consiglio europeo, Conclusioni, Londra, 5 dicembre 1986, in «BdCE», a. XIX, n. 12, 1986, p. 10. 116 Cfr. la dichiarazione sullo Sri Lanka, riportata in «BdCE», a. XX, n. 4, 1987, p. 61. Si vedano inoltre la dichiarazione CPE su India e Sri Lanka del 5 giugno 1987 e la risoluzione del Parlamento europeo (15-19 giugno 1987), in «BdCE», a. XX, n. 6, 1987, p. 100 e p. 110 rispettivamente, e la dichiarazione CPE del 23 ottobre 1990, in «BdCE», a. XXIII, n. 10, 1990, pp. 96-97. 117 Su questo progetto, rivendicato da formazioni terroristiche come le BR italiane, e sulla sua compatibilità con l’ortodossia rivoluzionaria del marxismo-leninismo, rinvio a S. Quirico, Il modello organizzativo delle Brigate rosse in una prospettiva comparata, «Quaderno di storia contemporanea», a. XXXI, n. 44, 2008, pp. 68-69. 114 48 Lockerbie. La condanna espressa dai Dodici si sofferma sulla «solidarietà fra gli Stati membri nel loro impegno per impedire i crimini terroristici e consegnare i colpevoli alla giustizia»118. La questione del terrorismo è sempre al centro del lavoro silenzioso coordinato dai ministri dell’Interno, sulla cui prassi inizia peraltro a filtrare un po’ di luce. Dopo averla spesso trascurata, il «Bollettino delle Comunità europee» contempla dal 1987 una rubrica dedicata alla cooperazione intergovernativa non riconducibile alla CPE, anche se nei resoconti emergono distinzioni, invero bizantine, fra le riunioni dei ministri responsabili di immigrazione, lotta alla droga e antiterrorismo, e i vertici TREVI, che hanno una competenza generale sull’ordine pubblico e la cooperazione di polizia (si veda per esempio la scelta di svolgere due sedute separate a Bruxelles il 28 aprile 1987119). Si tratta in ogni caso del segnale di un avvicinamento tra questa prassi di consultazione interministeriale e l’ambito comunitario, come conferma l’ipotesi di coinvolgimento della Commissione nei vertici TREVI120. È in corso, insomma, un processo di formalizzazione di tale cooperazione, che condurrà alla nascita del terzo pilastro di Maastricht e creerà le condizioni perché l’integrazione europea propriamente detta si accolli l’onere di questa azione, senza delegarla all’oscura opera degli esperti e degli apparati di sicurezza121. Nella medesima ottica si pone un tentativo di rilancio della cooperazione giudiziaria, avviato dalla conferenza dei ministri della Giustizia del 23 maggio 1987, che cerca – fra l’altro – di recuperare l’accordo di Dublino sull’applicazione della Convenzione sul terrorismo del 1977122. Un primo risultato è raggiunto a San Sebastian, il 26 maggio 1989, quando i ministri della Giustizia trovano un’intesa per la semplificazione della trasmissione delle domande di estradizione123, che tuttavia non comporta alcun impegno a facilitare la consegna di ricercati e condannati. Fra molti ostacoli e resistenze, qualche cosa torna a muoversi anche sul fronte giudiziario, emarginato da circa un decennio ma cruciale per la lotta europea al terrorismo. 118 Si veda la dichiarazione CPE del 31 dicembre 1988, riprodotta in «BdCE», a. XXI, n. 12, 1988, p. 138. Cfr. «BdCE», a. XX, n. 4, 1987, pp. 59-60. 120 Cfr. «BdCE», a. XXIII, n. 12, 1990, p. 140. 121 J. Lodge, Internal Security and Judicial Co-operation Beyond Maastricht (1992), in E. Moxon-Browne (ed.), Europan Terrorism, cit., p. 384. Alla fine degli anni Ottanta, TREVI conta su quattro gruppi di lavoro: 1) TREVI I, che si occupa di terrorismo; 2) TREVI II, dedicato a varie questioni di ordine pubblico (es. hooligans); 3) TREVI III, che combatte la criminalità organizzata di particolare gravità, in particolare il traffico di droga; 4) TREVI ’92, che è nato da poco per affrontare i problemi di polizia e sicurezza sollevati dalla prospettiva di libera circolazione delle persone. 122 Cfr. «BdCE», a. XX, n. 5, 1987, p. 79. 123 Cfr. «BdCE», a. XXII, n. 5, 1989, p. 73. 119 49 2. La fine della guerra fredda e i primi passi dell’Unione europea (1990-2001) 2.1 La vittoria del blocco occidentale e il Trattato di Maastricht: l’Unione politica La caduta del muro di Berlino e la disgregazione del sistema sovietico, tra il 1989 il 1991, aprono una fase di transizione nelle relazioni internazionali. Conclusa l’epoca del bipolarismo, il mondo occidentale e la Comunità al suo interno devono fare i conti con un cambio di paradigma, che rischia di rendere obsoleti gli strumenti e le procedure che negli ultimi decenni dominavano la scena. L’esigenza di rinnovamento è avvertita innanzi tutto dalla Conferenza per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa, come testimonia la Carta di Parigi adottata nel vertice del 19-21 novembre 1990. Dopo aver operato per più di un decennio con l’intento di salvaguardare la pace e la stabilità politica nell’Europa divisa dalla cortina di ferro, tale organizzazione deve ridefinire i termini del proprio impegno, delineando i futuri scenari della sicurezza europea. È molto rilevante che la Carta approvata alla fine del 1990 inserisca nelle previsioni sullo sviluppo della cooperazione di sicurezza un paragrafo sulla minaccia del terrorismo: «Condanniamo senza riserve come criminosi tutti gli atti, i metodi e le pratiche del terrorismo ed esprimiamo la nostra determinazione ad adoperarci per eliminarlo sia bilateralmente sia mediante la cooperazione multilaterale»1. L’idea che sia in atto un mutamento interno alla concezione europea e occidentale della sicurezza è suffragata, negli stessi giorni, da due dichiarazioni congiunte firmate dalla CEE con Stati Uniti e Canada, in cui si tracciano le linee programmatiche per la cooperazione transatlantica in ambito politico, economico, culturale, militare2. In entrambi i documenti, accanto alla nozione di sicurezza, declinata in senso tradizionale e quindi in connessione con «l’aggressione e la coercizione» o «la composizione dei conflitti nel mondo», si trova un catalogo di «sfide transnazionali che incidono sul benessere dell’intera umanità», fra le quali «lotta e prevenzione del terrorismo». Il fenomeno terroristico è dunque indicato come una minaccia di portata universale, che richiede – al pari dell’azione della criminalità organizzata, della protezione dell’ambiente e della proliferazione di armi 1 Il testo della Carta di Parigi è riprodotto integralmente in «BdCE», a. XXIII, n. 11, 1990, pp. 124-130. Il passo citato è a p. 127. 2 Si vedano le dichiarazioni siglate dalla Comunità e dagli Stati membri con Stati Uniti e Canada, 22 novembre 1990, ivi, pp. 87-89 e pp. 89-91 rispettivamente. nucleari – un impegno transatlantico comune. Il documento concordato da europei e Stati Uniti, in particolare, è significativo perché cerca di porre fine a un periodo di incomprensioni, esplose nella gestione della crisi libica a metà degli anni Ottanta. Il testo enuncia una collaborazione nella lotta al terrorismo senza specificare con precisione quali casi siano contemplati in tale formulazione. Tuttavia, la volontà di istituzionalizzare le consultazioni transatlantiche che si svolgono a vari livelli (capi di Stato, ministri degli Esteri, funzionari di gabinetto) testimonia la consapevolezza che l’epoca dei dissidi debba essere superata nell’interesse generale3. Da un punto di vista concettuale, il dato più interessante è la convinzione che la comunità internazionale dovrà fronteggiare insidie decisamente meno definite rispetto al pericolo di un’invasione da parte delle truppe sovietiche (in opposizione alla quale sarebbe intervenuta la NATO), ma comunque in grado di turbare la vita quotidiana dei cittadini. Il riferimento alle sfide ambientali e a possibili disastri nucleari, in particolare, evoca indirettamente la nozione di “rischio” usata a metà degli anni Ottanta dal sociologo tedesco Ulrich Beck per descrivere i caratteri delle minacce a cui sono sottoposte le società industriali nella “seconda modernità”. I possibili disastri atomici e ambientali, su cui Beck pone l’accento, rappresentano le conseguenze di lungo periodo dello sviluppo industriale – cioè della modernità euro-occidentale – che si riflettono sui soggetti che ne hanno favorito l’emergere4. Pur senza contemplare espressamente la prospettiva del terrorismo, che sarà al centro di successivi interventi5, il sociologo tedesco sottolinea come, in uno scenario del genere, la domanda di sicurezza diventi uno dei moventi fondamentali dell’agire umano6. Si tratta però di un concetto di sicurezza molto esteso, che travalica la sfera degli affari militari dello Stato e si pone sul piano degli individui, caratterizzandosi come sicurezza “umana” o “globale”, poiché si rapporta con le minacce politiche, sociali, economiche, ambientali, ecc. che affliggono i cittadini del mondo sviluppato7. Quest’evoluzione della nozione di sicurezza, di cui i documenti europei del 1990 si 3 Si vedano C. Monteleone, Le relazioni transatlantiche e la sicurezza internazionale, Milano, Giuffrè, 2003, pp. 139-144 e, in generale, G. Mammarella, Destini incrociati. Europa e Stati Uniti 1900-2003, Roma-Bari, Laterza 2003. 4 U. Beck, La società del rischio. Verso una seconda modernità (1986), Roma, Carocci, 2000. 5 Id., Un mondo a rischio cit. e Id., Conditio humana. Il rischio nell’età globale (2007), Roma-Bari, Laterza, 2008, pp. 233-253 in particolare, che risentono in modo evidente di quanto avvenuto a partire dall’11 settembre 2001. 6 Id., La società del rischio, cit., pp. 64-65. 7 Cfr. in proposito E. Rothschild, What is Security?, «Daedalus», vol. CXXXV, n. 3, pp. 53-98; O. Wæver, European Security Identities, «Journal of Common Market Studies», vol. XXXIV, n. 1, March 1996, pp. 103-132 e C. Zwierlein, R. Graf and M. Ressel (eds), The Production of Human Security in Premodern and Contemporary History. Die Produktion von Human Security in Vormoderne und Zeitgeschichte, «Historical Social Research. Historische Sozialforschung», Special Issue, vol. XXXV, n. 4, 2010. 51 mostrano consapevoli, ha una delle ragioni principali nella scomparsa dell’URSS come nemico credibile sul piano strategico-militare. L’estinzione della tensione Est-Ovest innesca un ampio dibattito sullo sviluppo delle relazioni internazionali, in cui si confrontano differenti elaborazioni teorico-politiche8. Fra le più note è la tesi dello studioso americano Francis Fukuyama sulla “fine della storia”, che legge la vittoria dell’Occidente e dei suoi valori di fondo sull’alternativa comunista come una cesura epocale, ben più significativa della semplice conclusione della guerra fredda9. Declinando in chiave liberale la filosofia hegeliana e soprattutto la sua rivisitazione a opera di Alexandre Kojève10, Fukuyama ritiene che il crollo sovietico ponga fine al rapporto dialettico tra regimi alternativi, presentato sotto forma della hegeliana lotta per il riconoscimento e terminato con l’incoronazione della miglior forma di governo: la democrazia liberale. La proliferazione di Stati democratici, tra loro tradizionalmente in rapporti pacifici, determinerebbe l’estinzione del confronto violento come motore del corso storico11. Anche nella visione del politologo americano, peraltro, è contemplata la possibilità che appaiano turbolenze orientate a mettere in discussione il nuovo ordine, dal momento che la storia intesa come flusso di fatti ed eventi non si arresterà, ma nessuna di esse sarebbe in grado di invertire il senso di marcia imboccato dopo il 1989. In linea con questa convinzione, declinata su un terreno meno filosofico e più strettamente politologico, nel 1990 Charles Krauthammer teorizza la nascita di un sistema “unipolare” delle relazioni internazionali, che trova il proprio fulcro negli Stati Uniti, la cui forza politica, economica e militare è inavvicinabile da parte degli altri attori12. Meno ottimistiche sono invece le previsioni di altri studiosi che, nei primi anni Novanta, attirano l’attenzione sui risvolti più problematici del nuovo assetto internazionale. 8 Si veda in generale la panoramica condotta da V. Coralluzzo, Oltre il bipolarismo. Scenari e interpretazioni della politica mondiale a confronto, Perugia, Morlacchi, 2007. 9 F. Fukuyama, The End of History, «The National Interest», n. 16, 1989, pp. 3-18, poi sviluppato da Id., La fine della storia e l’ultimo uomo (1992), Milano, BUR, 2007. 10 Per una critica a questo utilizzo del pensiero di Kojève, cfr. G. Barberis, Il regno della libertà. Diritto, politica e storia nel pensiero di Alexandre Kojève, Napoli, Liguori, 2003, pp. 129-132. 11 La tesi sulla “fine della storia” è accostata alla teoria della “pace democratica” (secondo cui le democrazie non combattono guerre fra loro), di ispirazione kantiana e abbozzata da C. Streit nel 1938 ed elaborata per successive approssimazioni da D. Babst, M. Doyle e R. Rummel tra gli anni Settanta e Ottanta. Entrambe le interpretazioni sono infatti espressione di una visione liberale delle relazioni internazionali. Su tutto questo, cfr. A. Panebianco, Guerrieri democratici. Le democrazie e la politica di potenza, Bologna, Il Mulino, 1997, pp. 94-114 e pp. 266-272, e A. Gamble, Dalla pace liberale al ritorno della storia: l’Unione europea e l’ordine mondiale in trasformazione, in G. Laschi e M. Telò (a cura di), L’Europa nel sistema internazionale. Sfide, ostacoli e dilemmi nello sviluppo di una potenza civile, Bologna, Il Mulino, 2009, pp. 54-64. La teoria di Fukuyama non contiene alcun riferimento alla dimensione della sovranità e porge il fianco alla classica obiezione federalista all’internazionalismo democratico (si veda per esempio L. Levi, Globalizzazione, crisi della democrazia e ruolo dell’Europa nel mondo, «Il Federalista», a. LI, n. 1, 2009, pp. 32-35). 12 C. Krauthammer, The Unipolar Moment, «Foreign Affairs», vol. LXIX, n. 1, 1990, pp. 23-33. 52 Celebre è la formula dello “scontro di civiltà” con cui Samuel P. Huntington riassume – prima in forma dubitativa e poi in termini più assertivi13 – la dinamica per cui la comunità internazionale tenderà a raccogliersi in nuovi blocchi macroregionali, definiti in termini prevalentemente religioso-culturali, per nulla rassegnati ad accettare la supremazia e l’espansione progressiva della superpotenza uscita vincitrice dalla guerra fredda. Pur con accenti assai differenti, il rischio di un conflitto tra la vocazione omologatrice del modello occidentale, fondato su libero mercato e consumismo, e la reazione identitaria e localistica dei soggetti e delle comunità che si sentono minacciate dalla globalizzazione è presa in esame da Benjamin Barber14. Preoccupato dalla prospettiva di una rinnovata tensione internazionale è anche Zbigniew Brzezinski, che individua l’area cruciale nell’«Eurasia», vale a dire la regione che comprende l’Europa e il Medio Oriente, nei confronti della quale gli Stati Uniti dovrebbero mantenere un’attenzione privilegiata anche dopo il crollo sovietico15. In realtà, in quest’epoca di transizione, l’Europa comunitaria, prima ancora che a ridiscutere i termini del proprio ruolo nel mondo, è impegnata in una complessa rivisitazione della propria struttura politico-istituzionale. Il Trattato di Maastricht, firmato il 7 febbraio 1992 ed entrato in vigore il 1° novembre 1993, ridisegna l’architettura del processo di integrazione europea. Le Comunità nate nell’epoca della guerra fredda, e cresciute al riparo dell’ombrello atlantico, lasciano spazio alla più complessa Unione europea, che non nasconde le proprie ambizioni politiche. Il nuovo soggetto raccoglie i frutti della cooperazione intergovernativa svolta prevalentemente al di fuori del quadro comunitario e li valorizza inserendoli in un edificio istituzionale modellato secondo la metafora dei “pilastri”, rigidamente separati per competenze e meccanismi di funzionamento. Quello dedicato alla “Politica estera e di sicurezza comune” (PESC), disciplinato dal titolo V del Trattato ed erede della CPE16, si pone come obiettivi «il rafforzamento della sicurezza dell’Unione e dei suoi Stati in tutte le sue forme», «il mantenimento della pace e il rafforzamento della sicurezza internazionale» (art. J.1), 13 S.P. Huntington, The Clash of Civilization?, «Foreign Affairs», vol. LXXII, n. 3, 1993, pp. 22-49 e Id., Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale (1996), Milano, Garzanti, 1997. 14 B. Barber, Guerra santa contro McMondo. Neoliberismo e fondamentalismo si spartiscono il pianeta (1995), Milano, Pratiche, 1998. Si noti che, nel ricorrere al temine “jihad” per qualificare le pulsioni antioccidentaliste, Barber precisa di volerlo utilizzare in modo estensivo, fino a ricomprendere tutte le pulsioni particolaristiche e nazionalistiche, per esempio quella serba (p. 17). 15 Z. Brzezinski, La grande scacchiera. Il mondo e la politica nell’era della supremazia americana (1997), Milano, Longanesi, 1998. Di Brzezinski cfr. anche il precedente Il mondo fuori controllo. Gli sconvolgimenti planetari all’alba del XXI secolo (1993), Milano, Tea, 1995. 16 Cfr. Regelsberger, de Schoutheete de Tervarent and Wessels (eds.), Foreign Policy of the European Union, cit. 53 concentrandosi anche sull’eventualità di una «difesa comune» (art. J.4). L’accezione di “sicurezza” che qualifica la PESC è dunque molto tradizionale, senza risvolti che ne consentano l’utilizzo a fini antiterroristici, come testimoniano anche i primi documenti strategici elaborati in questi anni: La politica estera e di sicurezza abbraccia tutti gli aspetti della sicurezza. La sicurezza europea sarà in particolare intesa a ridurre i rischi e le incertezze che possono compromettere l’integrità territoriale e l’indipendenza politica dell’Unione e degli Stati membri, il loro carattere democratico, la loro stabilità economica, nonché la stabilità delle regioni vicine17. Benché il ricorso alla categoria dei «rischi» possa alludere alla riflessione di Beck, il linguaggio che pone l’accento sull’«integrità territoriale» e sull’«indipendenza politica dell’Unione e degli Stati membri» è ancora fortemente intriso di una logica Stato-centrica, che fatica a concentrarsi su minacce sfuggenti e informali come quelle terroristiche. Una delle rare eccezioni è la relazione sullo sviluppo della PESC esaminata dal Consiglio europeo di Lisbona del giugno 1992, che cita il terrorismo fra i temi al centro della cooperazione internazionale, in particolare nei rapporti dell’Europa con Maghreb e Medioriente18. Più promettente sul fronte della lotta al terrorismo appare invece il terzo pilastro, denominato “Giustizia e Affari Interni” (GAI) e regolato dal titolo VI del Trattato di Maastricht, nel quale confluiscono la cooperazione operativa fra le forze dell’ordine (TREVI) e gli abbozzi di integrazione fra gli ordinamenti giudiziari19. A coronamento di una rincorsa iniziata negli anni Settanta, la prevenzione e la repressione del terrorismo sono indicate fra gli obiettivi della cooperazione di polizia (art. K.1). Una delle forme concrete in cui tale principio si traduce è l’attività dell’agenzia Europol, chiamata a favorire lo scambio di informazioni nelle materie relative alla tutela dell’ordine pubblico. Il modo di procedere è quello classico della tradizione Ue e, in generale, delle organizzazioni internazionali: si effettuano analisi e si concertano posizioni, ma non si svolge alcun 17 Consiglio europeo, Conclusioni della presidenza, Bruxelles, 29 ottobre 1993, in «BdCE», a. XXVI, n. 6, 1993, p. 8. 18 Id., Conclusioni della presidenza, Lisbona, 26-27 giugno 1992, allegato I, in «BdCE», a. XXV, n. 6, 1992, pp. 17-21. 19 Su genesi e sviluppi del pilastro GAI si vedano D. Bigo, Polices en réseaux. L’expérience européenne, Paris, Presses de la Fondation National de Sciences Politiques, 1996, C. Chevallier-Govers, De la coopération à l’intégration policière dans l’Union européenne, Bruxelles, Bruylant, 1999, W. de Lobkowicz, L’Europe et la sécurité intérieure. Une élaboration par étapes, Paris, La documentation française, 2002, J.D. Occhipinti, The Politics of EU Police Cooperation: Towards a European FBI?, Boulder, Lynne Rienner, 2003 54 intervento congiunto. Il potere di polizia resta saldamente nelle mani degli Stati20. Nella convenzione istitutiva, firmata formalmente nel giugno 1995, tra le competenze assegnate c’è anche quella relativa ai «crimini commessi nel corso di attività terroristiche contro la vita, l’incolumità fisica, la libertà personale o la proprietà»21. In realtà, il contesto nel quale Europol vede la luce è dominato dal problema della lotta al traffico di stupefacenti. Su pressione della Germania, si stabilisce fin dal 1991-92 che i primi sforzi del nuovo soggetto dovranno essere destinati alla lotta alla droga, creando al proprio interno un’unità specializzata in tale materia, congelando per qualche tempo l’apporto alla lotta al terrorismo22. Solo al momento dell’entrata in vigore della convenzione, il 1° ottobre 1998, preoccupato per l’azione dell’ETA, il Consiglio riterrà necessario precisare che Europol deve dedicarsi fin dall’inizio anche alle mansioni antiterroristiche23. Un ulteriore contributo è fornito dalla “nuova agenda transatlantica”, concordata da Ue e Stati Uniti in attuazione della dichiarazione del 1990. Accanto alla collaborazione volta a promuovere la pace e la stabilità mondiale, l’espansione del commercio e lo sviluppo culturale e scientifico, i partner individuano alcune “sfide mondiali” che necessitano di risposte condivise. Vengono accostati la criminalità internazionale e il traffico di droga, il terrorismo e i bisogni dei rifugiati, la protezione dell’ambiente e la difesa da malattie come la malaria. La cooperazione di polizia transatlantica è espressamente indicata come il repertorio di mezzi ed esperienze cui attingere per combattere la minaccia terroristica24. Grazie ai nuovi strumenti legislativi previsti dal Trattato sull’Unione europea (TUE), nell’ottobre del 1996 il Consiglio è in grado di adottare un’azione comune in base alla quale ciascuno Stato è tenuto a creare e ad aggiornare periodicamente un inventario di conoscenze, competenze e specializzazioni acquisite nella propria attività di contrasto del terrorismo, mettendole a disposizione degli altri paesi Ue25. Questo è uno dei pochi casi in 20 Cfr. in proposito M.C. Bassiouni, Strumenti giuridici per il contrasto del terrorismo internazionale: un’analisi di carattere politico, in Id. (a cura di), La cooperazione internazionale per la prevenzione e la repressione della criminalità organizzata e del terrorismo, Milano, Giuffrè, 2005, pp. 109-110. 21 La versione consolidata della Convenzione di Europol è disponibile sul sito: www.europol.europa.eu. Il passo citato si trova nell’art. 2, p. 5 (traduzione del redattore). 22 Consiglio europeo, Conclusioni della presidenza, Lussemburgo, 28-29 giugno 1991, in «BdCE», a. XXIV, n. 6, 1991, pp. 9-10 e pp. 14-15, Id., Conclusioni della presidenza, Maastricht, 9-10 dicembre 1991, in «BdCE», a. XXIV, n. 12, 1991, p. 9, Id., Conclusioni della presidenza, Lisbona, 26-27 giugno 1992, in «BdCE», a. XXV, n. 6, 1992, p. 12 e Id., Conclusioni della presidenza, Edimburgo, 11-12 dicembre 1992, in «BdCE», a. XXV, n. 12, 1992, p. 12. 23 Si veda la decisione pubblicata in GUCE C 26 del 30 gennaio 1999. 24 Il testo del Piano d’azione transatlantico si trova in Consiglio europeo, Conclusioni della presidenza, Madrid, 15-16 dicembre 1995, in «BdCE», a. XXVIII, n. 12, 1995, allegato 10. 25 Si veda l’azione comune 96/610/JAI del 15 ottobre 1996 in GUCE L 273, del 25.10.1996. 55 cui le iniziative di cooperazione fra le polizie nazionali sono specificamente finalizzate alla lotta al terrorismo. In linea di massima, infatti, tendono a prevalere altri ambiti d’intervento. C’è una forte carica simbolica nel fatto che, riuniti finalmente nelle vesti di Consiglio Giustizia e Affari Interni, dopo decenni di acrobazie istituzionali e distinzioni formali per non sconfinare nel terreno comunitario, i ministri dell’Interno e della Giustizia delineano nel 1993 un piano d’azione per il settore GAI che si sofferma su asilo, immigrazione, pubblica sicurezza, traffico di droga, lotta alla criminalità internazionale, senza concedere spazio autonomo al terrorismo, a parte un riferimento incidentale all’interno di una dichiarazione sul tema dell’estradizione26. La situazione non è molto diversa quattro anni dopo, quando il Consiglio stabilisce le nuove priorità del terzo pilastro. La lotta al terrorismo guida la lista dei settori GAI di interesse europeo, ma il testo precisa che nei mesi seguenti la maggior parte delle energie dovranno essere destinate a creare le condizioni per l’integrazione degli accordi di Schengen nei trattati27. Questa osservazione si inserisce nella più generale dinamica per la quale, in seguito all’abbattimento delle frontiere fisiche fra gli Stati membri, la gestione dell’ordine pubblico nell’Ue impone di affrontare una serie di fenomeni tra loro in parte intrecciati. La libertà di circolazione delle persone aumenta in modo esponenziale la capacità di movimento di migranti e delinquenti, perseguitati politici e terroristi, turisti e lavoratori, senza che le differenze fra tali categorie – ovvie in termini astratti – siano immediatamente percepibili sul piano concreto. Si crea, almeno in potenza, un “continuum delle minacce” nel quale è arduo enucleare misure assunte in chiave esclusivamente antiterroristica28. A ciò si aggiunge la circostanza per cui, nei documenti relativi alla cooperazione di polizia, il terrorismo è costantemente associato alla criminalità organizzata. Ne è una dimostrazione il passo della relazione del gruppo ad alto livello sulla 26 Si veda la bozza di Piano d’azione elaborata a Bruxelles dal Consiglio GAI del 29-30 novembre 1993, in «BdCE», a. XXVI, n. 11, 1993, pp. 97-99. Lo stimolo proviene da Consiglio europeo, Conclusioni della presidenza, Bruxelles, 29 ottobre 1993, in «BdCE», a. XXVI, n. 10, 1993, p. 9. 27 Cfr. la risoluzione del Consiglio riportata in «BdCE», a. XXX, n. 12, 1997, punto 1.4.2. 28 Bigo, Polices en réseaux, cit., che declina tale espressione in due sensi: l’esito del processo di deterritorializzazione delle dinamiche politiche, economiche, sociali e di transnazionalizzazione dei flussi, che rende i controlli alle frontiere sempre più complessi, ma anche la retorica che si serve di quella pretesa indistinzione per giustificare politiche securitarie onnicomprensive (pp. 258-266). Si veda anche Id., L’impact des mesures anti-terroristes sur l’équilibre entre liberté et securité et sur la cohésion sociale, in E. Bribosia et A. Weyembergh (sous la direction de), Lutte contre le terrorisme et droits fondamentaux, Bruxelles, Bruylant, 2002, che accenna al continuum d’(in)sécurité (p. 234). La sostanza del concetto, benché talvolta espressa con un lessico alternativo, è ripresa da altri studiosi, per es. M. Anderson, What Future for CounterTerrorism as an Objective of European Police Co-operation?, in Id. and J. Apap (eds.), Police and Justice Co-operation and the New European Borders, The Hague-London-New York, Kluver Law International, 2002, p. 229. Sull’eventualità che i terroristi approfittino delle disposizioni di Schengen, si veda il grido dall’allarme lanciato dal Parlamento europeo con una risoluzione del 21 settembre 1995 (GUCE C 269 del 16.10.1995). 56 criminalità organizzata che inserisce il terrorismo, a fianco di traffico di droga, tratta, corruzione e riciclaggio, fra le attività delle «organizzazioni criminali» che «minacciano l’integrità di tutta la società»29. Dal punto di vista dell’azione di polizia, dunque, non sembra avere grande rilevanza la componente di rivendicazioni politiche o ideologiche da cui le formazioni terroristiche sono in genere animate. A conclusioni analoghe approda anche la cooperazione in campo giudiziario, che a metà degli anni Novanta vive una stagione di apparente rilancio. Il Consiglio si fa infatti promotore di due convenzioni tese a facilitare le procedure di estradizione, conclamato tallone d’Achille della lotta europea contro il terrorismo negli anni precedenti. Il 10 marzo 1995 viene firmato un accordo che mira a ridurre i tempi dell’estradizione tra gli Stati membri, conferendo maggiore incisività alla convenzione generale sull’estradizione del 1957. Nel settembre dell’anno successivo segue un’altra convenzione Ue, che individua nel terrorismo una delle fattispecie che gli Stati membri non potranno trattare come “reati politici”, depotenziando quindi la clausola sopravvissuta, seppur in termini residuali, anche nella convenzione del Consiglio d’Europa del 1977 sulla repressione del terrorismo30. Come già accaduto in passato, tali accordi non saranno ratificati, lasciando inalterato il problema dell’estradizione dei terroristi31. Coerente con l’impostazione delle convenzioni è la Dichiarazione sul terrorismo approvata dai ministri della Giustizia nel corso del vertice di La Gomera del 23 novembre 1995. Il testo conferma che il terrorismo «mette in opera strategie e assume forme della criminalità organizzata internazionale» e si presenta come «una delle forme più gravi di criminalità»32. La sensazione complessiva è che, anche dopo l’ingresso a pieno titolo nel perimetro Ue, l’impostazione della cooperazione giudiziaria e di polizia contro il terrorismo conservi come elemento decisivo il rifiuto di esaminarne la dimensione strettamente politica, che si traduce nell’equiparazione con la criminalità spoliticizzata. Tale scelta certifica l’esistenza di alcune analogie riscontrate dagli apparati di sicurezza e dai responsabili delle indagini nel modo in cui terroristi e criminali costruiscono le proprie strutture organizzative o reperiscono finanziamenti. Ma la ragione fondamentale di questa impostazione sta nella premessa per cui interpretare il terrorismo come un reato ordinario, 29 Cfr. in proposito le conclusioni del Consiglio di Lussemburgo del 28 aprile 1997, riprodotte in «BdCE», a. XXX, n. 4, 1997, punto 1.5.1. 30 Si vedano i testi delle due convenzioni pubblicati rispettivamente in GUCE C 78 del 30.3.1995 e C 313 del 21.10.1996. 31 Su questo mancato sviluppo, cfr. J. Friedrichs, Fighting Terrorism and Drugs. European and International Police Cooperation, London-New York, Routledge, 2008, pp. 99-100. 32 Il testo della dichiarazione è riportato in «BdCE», a. XXVIII, n. 11, 1995, punto 1.5.10. 57 punibile sulla base del codice penale, consente di scansare l’insidia rappresentata dall’asilo politico, sotto il cui ombrello i responsabili di atti terroristici tendono eternamente a rifugiarsi. Rivendicare il diritto di arrestare, processare e condannare tali individui secondo le modalità valide per qualsiasi tipo di infrazione della legge è un modo per rafforzare la posizione delle autorità degli Stati membri, detentrici del monopolio della forza legittima e fortemente interessate a distinguere la propria posizione da coloro che ricorrono alla violenza al di fuori del processo di legittimazione del potere. 2.2 I conflitti religiosi, etnici e nazionali: la lotta al terrorismo nell’epoca delle “nuove guerre” Nonostante la PESC sia concentrata su altre minacce, al di fuori dell’Ue il terrorismo è ancora un fenomeno discretamente diffuso. Nell’area mediterranea, la posizione della Libia torna a farsi critica quando la magistratura britannica accerta il coinvolgimento di alcuni agenti e funzionari libici nell’attentato di Lockerbie (1988), chiamando ancora una volta in causa il regime di Gheddafi, non tanto per la sua acquiescenza verso il terrorismo, ma piuttosto per la fattiva partecipazione alla realizzazione delle azioni33. Su queste basi, gli europei varano nel 1993 un programma di sanzioni che durerà fino al 1999, quando il governo libico aderirà alla proposta di processare i presunti responsabili in Olanda secondo il diritto scozzese, a garanzia di tutte le parti coinvolte34. Si noti peraltro che proprio a proposito della Libia (e dell’Iran) si consuma nell’estate del 1996 una frizione tra Ue e Stati Uniti. Allo scopo di punire i due paesi, ritenuti ancora legati al terrorismo internazionale, l’amministrazione Clinton decide infatti di colpire con un piano di sanzioni i soggetti che vi investono più di 40 milioni di dollari, indipendentemente dalla loro nazionalità, finendo per penalizzare gli interessi economici europei in quegli Stati35. La vera novità degli anni Novanta, tuttavia, è l’emergere di un terrorismo con caratteristiche differenti da quelle del recente passato, in cui la parabola della Libia è invece inscritta. Un fenomeno inedito, per la politica estera europea, è la violenza a sfondo religioso che si manifesta in Algeria anche attraverso attentati terroristici. In realtà, la dimensione terroristica del fondamentalismo islamista era nota agli osservatori per lo meno 33 Si vedano la dichiarazione CPE del 2 dicembre 1991 in «BdCE», a. XXIV, n. 12, 1991, p. 115 e la dichiarazione CPE del 17 febbraio 1992 in «BdCE», a. XXV, n. 1-2, 1992, p. 110, che invocano la consegna dei responsabili. 34 Cfr. la dichiarazione della presidenza Ue del 28 agosto 1998 («BdCE», a. XXXI, n. 7-8, punto 1.4.25), quella del 5 aprile 1999 («BdCE», a. XXXII, n. 4, punti 1.4.9) e la posizione comune 1999/261/PESC del Consiglio del 16 aprile 1999 (GUCE L 103 del 20 aprile 1999). 35 Cfr. la dichiarazione della presidenza sulla legislazione d’Amato, Dublino-Bruxelles, 21 agosto 1996, in «BdCE», a. XXIX, n. 7-8, punto 1.4.14. 58 dal 1981, data dell’uccisione del presidente egiziano Sadat da parte di un gruppo estremista. La connessione fra integralismo e terrorismo fatica però a trovare spazio negli interventi dei ministri degli Esteri europei, compresi quelli sulla situazione algerina. In regime di CPE, dopo l’annullamento delle elezioni favorevoli ai gruppi fondamentalisti, la dichiarazione del 17 febbraio 1992 si limita a invocare «il ripristino del processo democratico» e il «rispetto dei diritti dell’uomo, della tolleranza e del pluralismo politico»36. Quella del 27 ottobre 1993 esprime una netta e reiterata condanna per «violenza» e «terrorismo», ma non fa menzione dell’ispirazione fondamentalista di quelle azioni37. Nel giugno del 1994, il Consiglio europeo di Corfù «condanna tutti gli atti di terrorismo e le violazioni dei diritti dell’uomo che siano commessi contro algerini o contro stranieri»38. Solo nei documenti dei mesi successivi, a cavallo tra la fine del 1994 e l’inizio del 1995, si trova qualche riferimento più esplicito: per un verso, si accenna favorevolmente alle disposizioni assunte dal governo algerino «per associare al dialogo i dirigenti politici del movimento islamista»; per l’altro, si afferma che «il rispetto dei diritti dell’uomo s’impone a ogni forza politica e a ogni individuo, indipendentemente da convinzioni politiche o credenze religiose»39. La situazione algerina è tra i fattori che suggeriscono ai leader europei di dare vita a una politica regionale nel Mediterraneo. In occasione del Consiglio europeo di Cannes (giugno 1995) viene concordata una linea comune in vista dell’apertura di un dialogo con i paesi dell’area mediterranea. Il progetto prevede una cooperazione articolata su tre livelli: politico e di sicurezza, economico e commerciale, sociale e umano40. La questione del terrorismo è affrontata nel primo e nel terzo settore. Il documento spiega infatti che le azioni terroristiche possono essere contrastate sia diffondendo lo Stato di diritto e l’adesione dei partner alle convenzioni internazionali che regolano la materia (punto 1), sia intensificando lo scambio di informazioni, migliorando la formazione del personale dell’antiterrorismo, studiando l’organizzazione e il funzionamento dei gruppi terroristici (punto 3). Se ne ricava l’idea che la lotta al terrorismo debba essere condotta su due fronti 36 Cfr. la dichiarazione CPE sull’Algeria del 17 febbraio 1992, in «BdCE», a. XXV, n. 1-2, 1992, p. 109. Si veda la dichiarazione CPE del 27 ottobre 1993, in «BdCE», a. XXVI, n. 10, 1993, pp. 93-94. 38 Consiglio europeo, Conclusioni della presidenza, Corfù, 24-25 giugno 1994, in «BdCE», a. XXVII, n. 6, 1994, punto I.10. 39 Si vedano le dichiarazioni della presidenza Ue sull’Algeria del 23 settembre 1994 («BdCE», a. XXVII, n. 9, 1994, punto 1.3.3) e del 23 gennaio 1995 («BdCE», a. XXVIII, n. 1-2, 1995, punto 1.4.6). Molto più diretto è invece il Parlamento europeo, come dimostrano le risoluzioni adottate 17 settembre 1993 (GUCE C 268 del 4 aprile 1993), il 16 dicembre 1993 (GUCE C 20 del 24 gennaio 1993), del 16 marzo 1995 (GUCE C 89 del 10 aprile 1995) e del 6 aprile 1995 (GUCE C 109 del 1° maggio 1995). 40 Consiglio europeo, Conclusioni della presidenza, Cannes, 26-27 giugno 1995, in «BdCE», a. XXVIII, n. 6, 1995, punto I.48. 37 59 paralleli: quello della “politica” nel senso più alto, che riguarda le riforme interne ai regimi politici e gli accordi internazionali, e si muove attraverso i canali della diplomazia, e quello della “polizia”, intesa come insieme di strumenti a disposizione delle autorità per ordinare e regolare la società41. L’aspetto innovativo – già esperito dagli Stati membri nei loro rapporti reciproci – è la volontà di trasferire alcuni profili di questa seconda attività, nata nel contesto degli Stati territoriali dell’Europa moderna come risorsa tipica della politica interna, sul piano delle relazioni internazionali. Il progetto diventa operativo in seguito alla conferenza di Barcellona del 27-28 novembre 1995, che conferma l’impianto appena visto. La lotta al terrorismo passa attraverso il «dialogo politico» fra gli Stati, che cerca di favorire la stipulazione di accordi internazionali. Ma non si può nel contempo trascurare la società civile, in cui entrano in contatto «le culture e le religioni», e proprio per questo motivo il suo sviluppo deve conformarsi alle misure necessarie per «prevenire e combattere insieme» il terrorismo42. Il programma di lavoro approvato contestualmente chiarisce che quest’ultimo impegno impone, in concreto, un’azione che favorisca la cooperazione giudiziaria e di polizia, a partire da ambiti classici dell’esperienza europea: lo scambio di informazioni e la procedura di estradizione43. Oltre alle minacce terroristiche relative all’area del Maghreb44, il partenariato euromediterraneo può rivelarsi utile anche a proposito del conflitto mediorientale, dal momento che Israele e l’Autorità nazionale palestinese sono tra i 12 soggetti inseriti nel progetto. A cavallo degli anni Ottanta e Novanta, il terrorismo di matrice palestinese, responsabile di alcuni degli attentati più sconvolgenti per l’opinione pubblica europea, cambia natura. L’Europa cessa di essere il proscenio preferito già a partire dal 198545 e dal decennio successivo le azioni tendono a localizzarsi stabilmente nell’area descritta da Israele e dai territori occupati. La violenza politica resta uno strumento cui le formazioni palestinesi, al di là delle promesse46, non rinunciano, ma assume contorni differenti rispetto 41 Sulla nozione di “polizia” cfr. P. Schiera, Stato di polizia, in Bobbio, Matteucci e Pasquino (a cura di), Il Dizionario di Politica, cit., pp. 947-950. 42 Conferenza euro-mediterranea, Dichiarazione sul partenariato euro-mediterraneo, Barcellona, 27-28 novembre 1995, in «BdCE», a. XXVIII, n. 11, 1995, punto 2.3.1. 43 Ead., Programma di lavoro, Barcellona, 27-28 novembre 1995, ivi, punto 2.3.2. 44 F. Faria e A. Vasconcelos, Security in Northern Africa: Ambiguity and Reality, Paris, Institute for Security Studies, Chaillot Paper n. 25, September 1996. 45 Si veda l’analisi sviluppata in L. Weinberg and L. Richardson, Conflicting Theory and the Trajectory of Terrorist Campaigns in Western Europe, in A. Silke (ed.), Research on Terrorism. Trends, Achievements and Failures, London-New York, Frank Cass, 2004, pp. 147-150. 46 Consiglio europeo, Conclusioni della presidenza, Madrid, 26-27 giugno 1989, in «BdCE», a. XXII, n. 6, 1989, p. 16. 60 al passato, come testimoniano anche i documenti delle istituzioni europee. Discutendo del problema, il Consiglio europeo di Dublino del 25-26 giugno si rammarica per «i mezzi violenti», «lo spargimento di sangue» e «la violenza contro la popolazione civile» senza indicarne i responsabili47. Quello di Roma, nel mese di ottobre, denuncia i «tragici atti di violenza contro i cittadini israeliani»48, ma non li qualifica come terroristici. Solo nel successivo vertice, sempre a Roma, i leader europei tornano a pronunciarsi con precisione contro «i ripetuti atti di terrorismo e di violenza»49. Le oscillazioni lessicali dipendono con tutta probabilità dalla tendenza a interpretare le azioni palestinesi come reazioni all’atteggiamento israeliano, che si presenta come il «ricorso ad una forza eccessiva per reprimere le manifestazioni dell’insurrezione palestinese nei territori occupati»50 e «l’uso eccessivo della forza da parte delle truppe d’occupazione»51. Nel momento in cui si considera la condotta palestinese finalizzata all’insurrezione contro l’invasore, si delinea una lettura politica dello scontro in atto che consiglia di ricorrere al termine “terrorismo” con prudenza. A causa della connotazione negativa che il lemma ha acquisito, la scelta di accostare con frequenza la lotta palestinese ai repertori terroristici rischierebbe di screditare la stessa rivendicazione di indipendenza e autodeterminazione che viceversa gli europei dimostrano di considerare più che legittima, pur conservando obiezioni su certi metodi. La tendenza si conferma anche in occasione del successivo picco di violenza, toccato dal terrorismo palestinese tra il 1994 e il 1996, dopo la strage di Hebron compiuta da un colono ebraico52. In questa fase, per la verità, si affaccia un nuovo protagonista – Hamas, sigla che si richiama all’islamismo fondamentalista – ma gli interventi europei tendono a leggerne le azioni sulla falsa riga dei gruppi laici: [Questo] attentato e gli altri atti di violenza commessi in questi ultimi tempi da terroristi sotto il nome di Hamas, in particolare il rapimento e l’assassinio del caporale Nachshon Wachsman, oltre che l’attentato con armi da fuoco perpetrato il 9 ottobre a Gerusalemme Ovest, che ha fatto numerosi morti e feriti, mostrano che il loro scopo principale è la neutralizzazione del processo 47 Id., Conclusioni della presidenza, Dublino, 25-26 giugno 1990, in «BdCE», a. XXIII, n. 6, 1990, p. 21. Id., Conclusioni della presidenza, Roma, 27-28 ottobre 1990, in «BdCE», a. XXIII, n. 10, 1990, p. 12. 49 Id., Conclusioni della presidenza, Roma, 14-15 dicembre 1990, in «BdCE», a. XXIII, n. 12, 1990, p. 16. 50 Si veda la dichiarazione adottata in sede CPE il 22 maggio 1990, riportata in «BdCE», a. XXIII, n. 5, 1990, p. 84. 51 Cfr. la dichiarazione approvata dalla CPE il 9 ottobre 1990, riprodotta in «BdCE», a. XXIII, n. 10, 1990, p. 96. 52 Si veda la dichiarazione diffusa in proposito dalla presidenza Ue il 27 febbraio 1994, in «BdCE», a. XXVII, n. 1-2, 1994, punto 1.4.15. 48 61 di pace53. Secondo gli europei, Hamas non introduce il problema religioso come nuova dimensione del conflitto, ma opera nel quadro delle rivendicazioni territoriali che dal 1967 sono al centro delle ostilità fra Israele e la popolazione palestinese, sostenuta dai paesi arabi della regione. Dal punto di vista Ue, dunque, ogni iniziativa terroristica promossa in Medio Oriente è da ricondursi a quel dissidio fondamentale, che ha ricadute politiche, economiche e sociali54. La lotta contro l’occupante muove infatti anche dalle condizioni materiali cui è ridotta la popolazione palestinese, verso le quali i governi europei non hanno mai nascosto la propria solidarietà. La conseguenza di tale approccio è duplice. Da un lato, si tratta di condannare gli attentati terroristici che sviliscono la causa palestinese, vestendola di abiti “criminali” che non rendono merito all’impegno profuso dalla maggior parte dei dirigenti e dei militanti a vantaggio del dialogo con Israele e della pacificazione della regione55. Dall’altro, occorre trovare una soluzione concordata che risolva il problema della spartizione dei territori, disinnescando anche il crescente terrorismo di matrice ebraica56. Al conflitto si può porre fine solo attraverso negoziati che abbiano per oggetto l’attribuzione delle aree contese, lasciando sullo sfondo gli argomenti e le ragioni che gli opposti fondamentalismi religiosi cercano di introdurre nella vicenda e che difficilmente possono essere al centro di trattative orientate a individuare un compromesso57. È con i nazionalismi secolari e con gli interessi concreti da essi agitati che l’Unione europea intende confrontarsi. Anche di fronte agli attentati suicidi in cui si esplica il contributo dell’integralismo religioso alla seconda Intifada, avviata nel 2000, gli europei prendono posizione contro gli atti «odiosi e ripugnanti», ribadendo la linea tradizionale, cioè un invito alla moderazione rivolto a entrambe le parti come premessa per il dialogo che, attraverso un percorso laico, razionale e condiviso, le porti verso un accordo politico58. 53 Dichiarazione della presidenza Ue sugli attentati in Israele adottata il 20 ottobre 1994, in «BdCE», a. XXVII, n. 10, 1994, punto 1.3.11. 54 Cfr. su questo punto Consiglio europeo, Conclusioni della presidenza, Firenze, 21-22 giugno 1996, in «BdCE», a. XIX, n. 6, 1996, punto I.22. 55 Si rintracciano accenti analoghi in numerosi interventi, tra cui la dichiarazione dell’Ue sull’attentato a Netanya (23 gennaio 1995, in «BdCE», a. XXVIII, n. 1-2, 1995, punto 1.4.15), quella sugli attentati a Gerusalemme e Ashkelon (25 febbraio 1996, in «BdCE», a. XXIX, n. 1-2, 1996, punto 1.4.13), quella sull’attentato a Gerusalemme (3 marzo 1996, in «BdCE», a. XXIX, n. 3, 1996, punto 1.4.10) e quella sull’adozione della Carta palestinese (26 aprile 1996, in «BdCE», a. XXIX, n. 4, 1996, punto 1.4.13). 56 Si veda lo studio di L. Ozzano, Fondamentalismo e democrazia. La destra religiosa alla conquista della sfera pubblica in India, Israele e Turchia, Bologna, Il Mulino, 2009, pp. 133-220. 57 Cfr. a questo proposito B. Tibi, Il fondamentalismo religioso (1995), Torino, Bollati Boringhieri, 1997, pp. 108-116 in particolare. 58 Si vedano le dichiarazioni concordate dall’Unione europea il 20 novembre 2000 «BdCE», a. XXXIII, n. 11, 2000, punto 1.6.15), il 14 febbraio 2001 («BdCE», a. XXXIV, n. 1-2, 2001, punto 1.6.26), il 29 marzo 62 Giova a questo punto esaminare quale atteggiamento assume l’Ue in relazione ad alcuni altri conflitti locali o regionali che, in questa fase storica, fanno spesso da sfondo ad azioni terroristiche. È, per esempio, il caso dell’Afghanistan, abbandonato a se stesso dopo il crollo dell’URSS e il ritiro dell’Armata rossa, che lascia spazio a un conflitto fra le diverse etnie presenti nel paese, cui si somma l’elemento islamista incarnato dai talebani. Risale al 1991 l’intervento europeo che sollecita l’istituzione a Kabul di «un governo pienamente rappresentativo», aperto ai «rappresentanti della resistenza» e accompagnato da «un accordo sulla sospensione delle forniture ai combattenti»59. Solo nel 1996, la crisi, che non accenna a risolversi, viene messa in connessione con la sfera del terrorismo: «L’Unione europea rileva con inquietudine che il proseguire del conflitto in Afghanistan aumenta il potenziale di terrorismo internazionale e di traffico di stupefacenti con effetti destabilizzanti nella regione e oltre i suoi confini. L’Unione europea invita pertanto tutte le parti in causa a cessare tali attività in Afghanistan»60. Due anni dopo, tornando sull’argomento, l’Unione nota che la «guerra civile favorisce […] pratiche contrarie alle norme internazionali: traffico e abuso di stupefacenti, favoreggiamento ed esportazione del terrorismo. Essa minaccia la stabilità e lo sviluppo economico dell’intera regione»61. Le citazioni contengono due passaggi che sembrerebbero anticipare gli scenari dello jihadismo globale resi evidenti dagli eventi dell’11 settembre 2001. L’ipotesi che il terrorismo possa produrre conseguenze oltre i confini regionali, rendendosi protagonista dell’«esportazione» della violenza rispetto a un’area spazialmente determinata, rivela che alcune delle dinamiche qaediste sono forse intuibili già a metà degli anni Novanta. Tuttavia, l’ottica con cui gli europei guardano al problema afghano è ancora prevalentemente regionale, in linea con quanto già sottolineato nel caso del conflitto mediorientale. Lo spauracchio che turba i sonni degli osservatori europei è innanzi tutto la deflagrazione delle tensioni tra Afghanistan e Iran62. Ciò non toglie che, tra il 1999 e il 2000, i rapporti tra il regime talebano e Osama Bin 2001 («BdCE», a. XXXIV, n. 3, 2001, punto 1.6.25), il 18 aprile («BdCE», a. XXXIV, n. 4, 2001, punto 1.6.14) e il 13 agosto 2001 («BdCE», a. XXXIV, n. 8, 2001, punto 1.6.24). 59 Cfr. la dichiarazione CPE sull’Afghanistan del 10 giugno 1991, in «BdCE», a. XXIV, n. 6, 1991, pp. 104105. Si vedano inoltre le dichiarazioni CPE del 16 e del 30 aprile 1992, in «BdCE», a. XXV, n. 4, 1992, pp. 82-83, e del 14 agosto 1992, in «BdCE», a. XXV, n. 7-8, 1992, p. 110. 60 Consiglio dell’Unione europea, Dichiarazione sull’Afghanistan, Lussemburgo, 28 ottobre 1996, in «BdCE», a. XXIX, n. 10, 1996, punto 1.4.7. 61 Dichiarazione della presidenza Ue sull’Afghanistan del 16 aprile 1998, in «BdCE», a. XXXI, n. 4, 1998, punto 1.3.7. 62 Si vedano le dichiarazioni della presidenza Ue dell’11 settembre 1998, relativa all’uccisione di alcuni diplomatici iraniani in terra afghana («BdCE», a. XXXI, n. 9, 1998, punto 1.3.2) e del 23 settembre 1998, che mette in guardia circa il pericolo rappresentato dalla destabilizzazione della regione, con particolare attenzione per il ruolo dell’Iran («BdCE», a. XXXI, n. 9, 1998, punto 1.3.3). 63 Laden – la cui figura e le cui azioni sono peraltro più note alle autorità americane che a quelle europee – destino qualche preoccupazione anche presso l’Ue. Lo suggeriscono due posizioni comuni PESC con cui vengono introdotte sanzioni a carico del governo talebano, che si rifiuta di consegnare il miliardario saudita, accusato di vari attentati compiuti negli anni precedenti. In tali occasioni si accenna al fatto che il territorio afghano è utilizzato per addestrare terroristi e si pongono particolari restrizioni ai collegamenti aerei tra il territorio europeo e l’Afghanistan63. Non ci sono però elementi sufficienti per affermare che questi documenti contengano – in nuce – le riflessioni sulla deterritorializzazione del terrorismo che saranno una componente fondamentale del dibattito politico successivo al crollo delle torri gemelle. Si può infatti supporre che tali prese di posizione siano frutto della volontà di adeguarsi alle richieste dell’alleato occidentale e soprattutto alla linea affermatasi in sede ONU, nei confronti della quale l’Ue si pone sempre con grande deferenza. Un conflitto ormai di lungo corso è quello che mette di fronte, nello Sri Lanka, il governo e la minoranza tamil, la quale ricorre con frequenza all’opzione del terrorismo. Si tratta di una vertenza di origine etnico-nazionale non molto diversa da quella che oppone israeliani e palestinesi in Medio Oriente e ispira l’azione della minoranza basca in Spagna. Come noto, tuttavia, queste situazioni sono trattate in modo assai differente dalle istituzioni europee, pronte a riconoscere la legittimità delle rivendicazioni palestinesi ma decisamente meno aperte nei confronti delle istanze autonomiste o indipendentiste presenti all’interno degli Stati membri dell’Ue. I leader europei non sono neppure sfiorati dall’idea che il governo spagnolo debba trattare su un piano di parità con l’ala politica dell’ETA, come prevede invece il modello di negoziato lungamente sostenuto in relazione al conflitto mediorientale. La simmetria tra le “parti” in lotta è uno dei requisiti indispensabili per avviare il processo di pace e tale metodo viene esteso anche allo Sri Lanka: L’Unione europea esprime la sua profonda soddisfazione di fronte all’entrata in vigore l’8 gennaio 1995 di un accordo di cessazione delle ostilità tra il governo cingalese e il LTTE. […] Essa manifesta la viva speranza che questa tappa significativa sarà seguita dall’apertura rapida di negoziati per la ricerca di una soluzione politica al conflitto attuale64. La scena del governo di Madrid che tratta con i capi dell’ETA una sorta di tregua, 63 Cfr. la posizione comune 1999/727/PESC adottata dal Consiglio il 15 novembre (GUCE L 294 del 16.11.1999) e quella 2000/55/PESC approvata dal Consiglio il 24 gennaio 2000 (GUCE L 21 del 26.1.2000). 64 Dichiarazione della presidenza Ue sulla situazione in Sri Lanka del 30 gennaio 1995, in «BdCE», a. XXVIII, n. 1-2, 1995, punto 1.4.19. 64 ricevendo le congratulazioni delle ambasciate di mezzo mondo, non è neppure immaginabile. Per quale motivo, allora, le istituzioni europee non provano imbarazzo a pronunciare queste parole sulle autorità dello Sri Lanka? Una risposta si può arguire dal ragionamento svolto in una dichiarazione dell’agosto 1995: Dall’inizio, l’Unione europea ha appoggiato il governo dello Sri Lanka nei suoi sforzi per trovare una soluzione pacifica al problema etnico. L’Unione europea ha già condannato la violazione, da parte del LTTE il 19 aprile, dell’accordo sulla cessazione delle ostilità. Una reale occasione di pervenire a una soluzione negoziata è stata così perduta. Dopo i bombardamenti che hanno avuto luogo il 7 agosto, l’Unione europea deplora una volta di più le perdite di vite umane e le distruzioni provocate dalla guerra e invita sia il governo che il LTTE a fare di tutto per evitare di fare vittime civili. L’Unione europea si felicita delle assicurazioni date dal governo cingalese, secondo cui il suo obiettivo risiede in una soluzione politica duratura e onorevole, e invita tutte le parti a riconoscere rapidamente che è il solo mezzo per pervenire a una pace duratura. In questo contesto, l’Unione europea si felicita vivamente degli sforzi compiuti dal governo per elaborare una serie di proposte di decentramento volto a rispondere alle aspirazioni di tutti i cingalesi. L’Unione europea spera che le proposte saranno esaminate da tutte le parti in modo attento e costruttivo. Ciò potrà aprire la via a un ritorno rapido alla pace, alla normalità e allo sviluppo complessivo del paese65. Il punto davvero dirimente è che – agli occhi degli europei – la violenza in atto nel paese, anche nelle sue versioni indubitabilmente terroristiche, assume le fattezze di una guerra civile, nella quale è difficile distinguere compiutamente le autorità legittime da quelle che non lo sono. Per questo, fatta salva la presa di distanza dal terrorismo e dalla violenza in generale come strumenti di lotta politica, le istituzioni europee si spingono su terreni che in altre occasioni sono loro preclusi. Nel caso in questione, la dichiarazione europea arriva perfino a sbilanciarsi sul merito delle riforme istituzionali attorno alle quali sarebbe possibile riscontrare il consenso della minoranza. La premessa per cui lo Sri Lanka non presenta tutti i requisiti dello Stato sovrano per antonomasia consente all’Unione europea, in successivi interventi, di ricordare che i negoziati «dovranno tener conto in maniera sostanziale delle aspirazioni della minoranza tamil nel rispetto della diversità culturale e religiosa dello Sri Lanka senza tuttavia ledere il principio intangibile dell’integrità territoriale e dell’unità del paese»66. Ugualmente, l’Ue non ha esitazioni nel biasimare in 65 Dichiarazione della presidenza sullo Sri Lanka del 9 agosto 1995, in «BdCE», a. XXVIII, n. 8, 1995, punto 1.4.15. Il corsivo è del redattore. 66 Dichiarazione della presidenza sullo Sri Lanka del 9 novembre 2000, in «BdCE», a. XXXIII, n. 11, 2000, punto 1.6.15. 65 modo speculare le «ripetute violazioni dei diritti dell’uomo perpetrate da elementi dell’esercito, della polizia e delle organizzazioni paramilitari nei territori controllati dal governo», chiedendo che «i responsabili di questi crimini siano arrestati e processati», e gli «atti di terrorismo e [le] violazioni dei diritti dell’uomo nonché del diritto umanitario internazionale perpetrate dall’LTTE»67. Un’altra situazione controversa si verifica nel conflitto in Cecenia, che si manifesta tramite scontri fra l’esercito russo e il movimento indipendentista locale. I documenti europei si pongono anche qui in una posizione di sostanziale equidistanza, rallegrandosi per il cessate-il-fuoco concordato fra le parti ma rapidamente superato dalla ripresa dei combattimenti68. A questo profilo della vicenda, già di per sé complicato perché contrappone uno Stato sovrano a una sua regione intenzionata a distaccarsene, si aggiunge a un certo punto il problema del terrorismo. Il Consiglio Affari Generali del 25 marzo 1996 annota che da parte cecena si tende a ricorrere a tattiche (es. la presa di ostaggi) tipicamente terroristiche, che comportano la violazione dei diritti umani. A queste tuttavia Mosca risponde con bombardamenti di entità tale da sollevare altrettanti dubbi e polemiche, attirandosi la censura dell’Ue69. Si viene così a determinare un conflitto nel quale una delle parti continua a mettere in campo l’esercito e strategie di combattimento più o meno tradizionali, mentre l’altra alterna metodi di guerriglia ad azioni terroristiche. Di fronte alle difficoltà incontrate nel dare una precisa definizione di quanto sta accadendo, l’Unione decide infine di chiedere «risolutamente ad entrambe le parti di desistere da ulteriori azioni militari»70, con una formula che tuttavia non sembra in grado di esprimere la complessità della questione, a maggior ragione dal momento in cui il terrorismo ceceno assumerà anche un volto religioso. Si consideri ora il caso della Colombia, la cui stabilità interna è da tempo sconvolta da fenomeni prevalentemente criminali – il narcotraffico – e fratture di tipo politico. Da quest’ultimo punto di vista va segnalata l’attività di gruppi guerriglieri, come l’Esercito di Liberazione Nazionale (ELN) e le Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia (FARC), il cui repertorio di azioni contempla un elevato numero di rapimenti, attentati e sabotaggi, 67 Dichiarazione della presidenza sullo Sri Lanka del 18 dicembre 2000, in «BdCE», a. XXXIII, n. 12, 2000, punto 1.6.22. 68 Si vedano le dichiarazioni della presidenza Ue sulla Cecenia del 17 e del 23 gennaio 1995 («BdCE», a. XXVIII, n. 1-2, 1995, punti 1.4.20 e 1.4.21) e quella del 1° aprile 1995 («BdCE», a. XXVIII, n. 4, 1995, punti 1.4.14). 69 Consiglio dell’Unione europea, Dichiarazione sulla Cecenia, Bruxelles, 25 marzo 1996, riportata in «BdCE», a. XXIX, n. 3, 1996, punto 1.4.12. 70 Cfr. la dichiarazione della presidenza Ue sulla Cecenia del 22 agosto 1996, riportata in «BdCE», a. XXIX, n. 7-8, 1996, punto 1.4.22. 66 sconfinando dunque nel terrorismo. Come accaduto in altre circostanze già esaminate, il lessico utilizzato dalle dichiarazioni dell’Unione europea è orientato a favorire l’avvicinamento fra il governo colombiano e i gruppi rivoluzionari, che, nella miglior tradizione della guerriglia latinoamericana71, controllano alcune porzioni di territorio. È questa condizione di fatto, incompatibile con il modello di Stato e di sovranità familiare agli europei, che spiega perché i negoziati politici, le trattative formali e gli accordi umanitari tra le parti in lotta sono soluzioni percorribili nel contesto colombiano72. Esiste una distanza incolmabile, insomma, fra soggetti e movimenti che mirano dichiaratamente a obiettivi politici, cercano il consenso della popolazione e in sostanza amministrano una parte del territorio, e organizzazioni criminali anche molto potenti, come i cartelli della droga colombiani. Se con gli uni si può prendere in considerazione di dialogare, purché pongano fine alle campagne terroristiche, le altre sono composte da individui che si devono catturare e processare. È curioso che a stabilire questa distinzione – il processo negoziale con i guerriglieri-terroristi, l’«arresto» dei narcotrafficanti73 – sia proprio l’Unione europea, che al suo interno tende a ricondurre anche il terrorismo a fattispecie criminali, come si è rilevato descrivendo l’evoluzione del terzo pilastro. Le incertezze palesate dall’Unione europea nel tematizzare i “terrorismi” degli anni Novanta sono la spia di una trasformazione della violenza politica che, nel corso del Novecento, vive diverse tappe. Il secolo si apre con la codificazione del diritto internazionale bellico, elaborato dalla consuetudine nel corso del tempo. Con le Conferenze dell’Aia del 1899 e del 1907, la comunità internazionale intende riconoscere giuridicamente i lineamenti caratteristici della guerra. Essa si mostra sotto le vesti di un conflitto fra Stati, animato da eserciti titolari in via esclusiva dello status di combattenti legittimi, negato in linea di massima ai soggetti irregolari (insorti, resistenti, civili in armi, ecc.). Nel giro di qualche decennio, l’ecatombe di civili nelle guerre mondiali e coloniali, e il loro coinvolgimento come parte attiva nella lotta (si pensi ai movimenti di resistenza), inducono un ripensamento dell’impianto giuridico, che si traduce nella firma delle Convenzioni di Ginevra del 1949 e dei Protocolli aggiuntivi del 197774. 71 Si vedano E. Guevara, Guerra per bande (1961), Milano, Mondadori, 2005 e Id., Diario del Che in Bolivia (1968), Milano, Feltrinelli, 2005. 72 Si vedano le dichiarazioni della presidenza Ue sulla Colombia del 25 ottobre 2000 («BdCE», a. XXXIII, n. 10, 2000, punto 1.6.10), del 19 gennaio 2001 («BdCE», a. XXXIV, n. 1-2, 2001, punto 1.6.17) e dell’8 giugno 2001 («BdCE», a. XXXIV, n. 6, 2001, punto 1.6.12). 73 Cfr. l’entusiamo europeo per la cattura di Gilberto Rodriguez Orejuela nel giugno del 1995 («BdCE», a. XXVIII, n. 6, 1995, punto 1.4.12). 74 Per una sintesi dell’evoluzione del diritto bellico si veda A. Cassese, Il diritto internazionale nel mondo contemporaneo, Bologna, Il Mulino, 1984, pp. 283-320. 67 Questo primo passaggio evidenzia una tendenza destinata ad accentuarsi nella seconda metà del Novecento: il paradigma della guerra moderna, intesa sostanzialmente come metodo estremo di risoluzione delle controversie internazionali, regolata da norme condivise e nata nel ricordo delle sanguinose guerre di religione europee75, lascia gradualmente spazio a forme di conflitto meno lineari, tanto nelle cause scatenanti, quanto nelle modalità di svolgimento. Il concetto di “nuove guerre”, utilizzato da più parti alla fine del XX secolo76, sintetizza alcuni mutamenti decisivi. In primo luogo, gli Stati non sono più i soli attori in grado di esercitare la violenza sulla scena internazionale. Una serie di soggetti non statali, che agiscono autonomamente o su mandato statale77, sono in grado di produrre danni consistenti e, in generale, effetti non trascurabili per gli analisti. Le guerre civili, tra cui quelle prese in considerazione nelle pagine precedenti, sono forse i casi più evidenti di privatizzazione della violenza, perpetrata da milizie mercenarie, fazioni, formazioni paramilitari, guerriglieri che non disdegnano – come si è visto – il ricorso al terrorismo. In secondo luogo, il movente etnico-nazionale diviene uno dei maggiori fattori di instabilità e violenza, come dimostrato anche dalle esperienze balcaniche e dai massacri consumati in alcune aree africane (es. Ruanda) negli anni Novanta. In terzo luogo, la centralità della dimensione identitaria rende meno praticabile l’individuazione di compromessi e il rispetto di limiti nell’esercizio della violenza, diversamente da quanto accade nel momento in cui la discussione riguarda per lo più gli interessi materiali delle parti. La matrice etnica innesca una spirale di brutalità testimoniata dal numero delle vittime occorse. In quarto luogo, nei casi in cui si verifica, la reazione della comunità internazionale implica la nascita di vastissime coalizioni guidate dagli Stati maggiori, impegnati a reprimere – con un intervento “umanitario” improntato a una spinta etica – una controparte neppure paragonabile per risorse e influenza, enfatizzando l’asimmetria del 75 Sulla versione ottocentesca della guerra moderna, teorizzata in particolare dal generale prussiano Carl von Clausewitz, cfr. G.E. Rusconi, Clausewitz, il prussiano, Torino, Einaudi, 1999. Un bilancio sulla validità di tale modello a cavallo tra XX e XXI secolo è tracciato da L. Bonanate, È ancora attuale Clausewitz? e M. Kaldor, Clausewitz e le guerre di oggi, interventi ospitati da un dibattito sulla rivista «Contemporanea», a. XI, n. 2, aprile 2008, pp. 305-309 e pp. 310-314 rispettivamente. Per un’introduzione al tema della guerra in generale, si veda L. Bonanate, La guerra, Roma-Bari, Laterza, 1998. 76 Si vedano in particolare: M. Kaldor, Le nuove guerre. La violenza organizzata nella società globale (1999), Roma, Carocci, 2001, la cui analisi è ripresa esplicitamente da V. Coralluzzo, Nuovi nomi per nuove guerre, in A. d’Orsi (a cura di), Guerre globali. Capire i conflitti del XXI secolo, Roma, Carocci, 2003, pp. 54-63 e G. De Luna, Il corpo del nemico ucciso. Violenza e morte nella guerra contemporanea, Torino, Einaudi, 2006, pp. 253-282; P. Gilbert, New Terror, New Wars, Washington, Georgetown University Press, 2003; H. Münckler, The New Wars (2002), Cambridge-Malden, Polity Press, 2005 (cfr. in lingua italiana un articolo su temi affini: Id., Politica e guerra. Le nuove sfide della decomposizione di stati, del terrore e delle economie di guerra civile, «Filosofia politica», a. XVI, n. 3, dicembre 2002, pp. 435-456). 77 In questo secondo caso si tratta della cosiddetta “guerra per procura”, cui gli Stati Uniti fanno frequentemente ricorso secondo J.K. Cooley, Una guerra empia. La CIA e l'estremismo islamico (1999), Milano, Eleuthera, 2000. 68 confronto e trasgredendo ai dettami del canonico calcolo realista sul bilanciamento della potenza78. Per effetto di queste dinamiche entrano in crisi alcune distinzioni sulla base delle quali il pensiero politico moderno ha lungamente elaborato la dimensione della violenza politica79. Si determinano infatti situazioni di guerra civile o “strisciante” che sono irriducibili tanto al concetto di guerra tradizionale, combattuta fra Stati che riconoscono la comune appartenenza allo jus publicum Europaeum, quanto al suo opposto, rappresentato dalla pace come assenza di ostilità80. Allo stesso modo, viene messa in discussione la rigida separazione fra la dimensione civile e quella militare, come conferma la constatazione che i soldati di professione sono ormai solo una delle categorie di combattenti che prendono parte alla guerra e spesso trovano di fronte a sé avversari improvvisati, volontari, partigiani o mercenari81. Si pensi inoltre al tentativo di presentare come azione di polizia o intervento umanitario – e dunque in fondo “civile” – una guerra condotta con mezzi e tattiche squisitamente militari come quella della NATO contro la Serbia nel 1999, in seguito alle violenze in Kosovo82. Questo è, in sintesi, l’orizzonte politico e concettuale con cui l’Unione europea deve confrontarsi allorché si esprime sulla conflittualità degli anni Novanta. I suoi interventi 78 Ciò non significa che le guerre del passato fossero sempre combattute fra avversari del medesimo livello. Tuttavia, lo scarto rilevabile in quelle più recenti, decisamente elevato, è uno dei profili del modello di guerra “asimmetrica” reso celebre da L. Qiao e X. Wang, Guerra senza limiti. L’arte della guerra fra terrorismo e globalizzazione (1999), Gorizia, Leg, 2004, che gli autori ricavano dalla guerra del Golfo del 1991. Da tale volume prende spunto anche il concetto di “guerra ineguale” (cfr. Colombo, La guerra ineguale, cit.). 79 Un utile strumento per ripercorrerne le tappe è l’antologia di C. Galli (a cura di), Guerra, Roma-Bari, Laterza, 2004. 80 Sui significati assunti dalla guerra civile nel XX secolo cfr. P.P. Portinaro, L’epoca della guerra civile mondiale?, «Teoria politica», a. VIII, n. 1-2, 1992, pp. 65-77. Per la nozione di “guerra strisciante” si veda Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, cit., p. 318. L’individuazione dello jus publicum Europaeum come paradigma delle relazioni internazionali nella modernità eurocentrica risale a C. Schmitt, Il nomos della terra. Nel diritto internazionale dello «jus publicum Europeaum» (1950), Milano, Adelphi, 2003, pp. 163-173 in particolare. Sull’estinzione tendenziale del binomio oppositivo guerra-pace, cfr. anche U. Beck, Lo sguardo cosmopolita (2004), Roma, Carocci, 2005, pp. 171-210, che recupera lo slogan orwelliano «la guerra è pace», e A. Appadurai, La civiltà degli scontri (2002), in Id. Sicuri da morire. La violenza nell'epoca della globalizzazione, Roma, Meltemi, 2005, pp. 86-88, che dichiara decaduta la distinzione fra pace come condizione ordinaria e guerra come eccezione. 81 La figura del “partigiano” è al centro della riflessione di C. Schmitt, Teoria del partigiano. Integrazione al concetto di politico (1963), Milano, Adelphi, 2005. Sulle diverse categorie di combattenti irregolari, cfr. M.C. Fowler, Amateur Soldiers, Global Wars. Insurgency and Modern Conflict, Westport-London, Praeger, 2005 e R.A. Shultz e A.J. Dew, Insurgents, Terrorists and Militias. The Warrior of Contemporary Combat, New York, Columbia University Press, 2006. Su questa evoluzione si vedano anche le prospettive adottate da F. Heisbourg, Il futuro della guerra (1997), Milano, Garzanti, 1999 e F. Gros, États de violence. Essai sur la fin de la guerre, Paris, Gallimard, 2006. 82 Circa il dibattito fra gli intellettuali europei sulle nuove forme di guerra e il linguaggio utilizzato per legittimarle di fronte all’opinione pubblica, cfr. Asor Rosa, La guerra, cit., A. d’Orsi, I chierici alla guerra. La seduzione bellica degli intellettuali da Adua a Baghdad, Torino, Bollati Boringhieri, 2005, pp. 181-214 e R. Gherardi, Il futuro, la pace, la guerra. Problemi della politica moderna, Roma, Carocci, 2007, pp. 108136. 69 prendono atto dell’esistenza dell’articolato e inedito intreccio fra guerra civile e terrorismo, violenza etnica e religiosa, motivazioni politiche e identitarie, che si registra, seppur con accentuazioni differenti, nei numerosi scontri armati esplosi o radicalizzatisi con il venir meno della guerra fredda e della sua carica stabilizzatrice. Ciò che preme sottolineare in questa sede è la tendenza dei documenti Ue a leggere questi conflitti in chiave regionale, cioè come crisi che rispondono a logiche locali e che in quei contesti sono destinate a svilupparsi e, possibilmente, a risolversi. Il discorso vale anche per un dissidio, come quello israelo-palestinese, che solo pochi anni prima ha mostrato una propensione fortemente transnazionale, o per il disfacimento delle istituzioni afghane, le cui potenziali ricadute in Occidente non allarmano più di tanto gli europei. Ancora parzialmente immersa nell’ottica della politica territoriale, degli spazi delimitati, della rigida distinzione fra “interno” ed “esterno” che connota la modernità83, e impreparata all’irruzione sulla scena della globalizzazione a tutti i livelli, l’analisi dell’Ue non sembra concepire l’eventualità che la violenza – anche terroristica – apparsa in molte parti del mondo possa costituire una minaccia diretta per l’Europa, il suo territorio, la sua popolazione. 2.3 L’evoluzione dell’Unione europea dopo Amsterdam: politica estera e politica interna La prova più evidente della persistenza di un’impostazione ancora poco “globale” dell’azione dell’Unione è fornita dalla sua struttura istituzionale, che continua a riflettere la separazione ideale fra l’ambito della politica estera e quello degli affari interni. L’immagine dei “pilastri” costituisce la bussola con cui affrontare l’esame dei progressi realizzati dal processo di integrazione europea in materia di sicurezza prima dell’11 settembre 2001. L’assetto istituzionale subisce alcune variazioni in seguito alla conferenza intergovernativa (CIG) programmata per il 1996, che prende il via con il Consiglio europeo di Torino del 29-30 marzo. Le conclusioni dei capi di Stato e di governo lasciano intendere che l’impostazione della lotta al terrorismo decisa a Maastricht è ancora attuale: nella classificazione delle sfide che l’Ue dovrà affrontare in futuro, il terrorismo è affiancato al traffico di droga e alla criminalità organizzata internazionale. Le istituzioni europee hanno il compito di arginare tali minacce e garantire «una migliore tutela dei cittadini dell’Unione»84. Nella sezione dedicata alla PESC, viceversa, del terrorismo non c’è traccia. Sulla medesima scia si pone il Consiglio europeo di Firenze di giugno, che è 83 Si vedano le considerazioni di C. Galli, Spazi politici. L’età moderna e l’età globale, Bologna, Il Mulino, 2001. 84 Consiglio europeo, Conclusioni della presidenza, Torino, 29-30 marzo 1996, in «BdCE», a. XXIX, n. 3, 1996, punto I.4. 70 particolarmente limpido nel distinguere due concezioni della “sicurezza”. Esiste, da un lato, quella relativa alla sfera della cittadinanza, che esige «un sostanziale potenziamento dei mezzi e degli strumenti di lotta al terrorismo, alla criminalità organizzata e al traffico di droga, nonché delle politiche in materia di asilo in tutte le sue forme, di visti e di immigrazione nella prospettiva di uno spazio giudiziario comune in questo ambito»85. Si tratta insomma della sicurezza “interna”, che è attualmente materia del terzo pilastro ed eredita il corpus di iniziative e risultati raggiunti dalla cooperazione di polizia, oltre ai classici obiettivi per cui si spendono da sempre i sostenitori dell’armonizzazione dei sistemi giuridici/giudiziari europei. Allo sviluppo di questi settori dell’integrazione la lotta al terrorismo ha ampiamente contribuito in passato, conservando ancora una posizione di rilievo, anche se meno centrale rispetto ai decenni precedenti. I leader europei si concentrano poi sulla seconda accezione di sicurezza, che concerne la politica estera: Il Consiglio europeo sottolinea la crescente importanza dell’aspetto “sicurezza” nelle iniziative dell’Unione europea nell’ambito della PESC, nota con soddisfazione il sempre maggior rilievo che viene di conseguenza attribuito alla sicurezza nel dialogo con i suoi partner e accoglie con favore l’impulso dato di recente alle relazioni UE-UEO, che devono essere ulteriormente sviluppate. Si rallegra per la decisione presa a Berlino dal Consiglio dell’Atlantico del Nord tenutosi in giugno di sviluppare l’identità europea in materia di sicurezza e di difesa86. Nel settore delle relazioni internazionali classiche, che coniugano la dimensione della sicurezza con la difesa militare, il fenomeno terroristico gode di scarsa attenzione. Se ne trae la sensazione che l’Ue operi una separazione concettuale fra due categorie di minacce, dedicando gli strumenti PESC a quelle classiche della politica internazionale – la guerra, l’invasione straniera, i conflitti fra forze armate – che sono rivolte contro lo Stato e le sue istituzioni. Per converso, è significativa la scelta di discutere di terrorismo e criminalità nel capitolo sui cittadini e sulle loro esigenze, come se tali insidie condividessero la peculiarità di agire esclusivamente nell’ambito della società civile, nella sfera degli interessi privati e dei rapporti interpersonali. Le azioni dei terroristi sono parificate a quelle di criminali, o anche di immigrati irregolari, poiché non costituirebbero un pericolo effettivo per l’esistenza dello Stato, per le sue fondamenta, ma semplici turbolenze che rendono problematico l’ordinato fluire della vita comunitaria. Sul piano istituzionale questo discorso si traduce nella tendenza a combattere il terrorismo con i tradizionali strumenti 85 86 Id., Conclusioni della presidenza, Firenze, 21-22 giugno 1996, in «BdCE», a. XXIX, n. 6, 1996, punto I.7. Ivi, punto I. 19. 71 con cui le autorità, e in particolare i ministri dell’Interno e della Giustizia, assicurano la tutela dell’ordine pubblico. La minaccia terroristica può servirsi anche di canali internazionali: Il Consiglio europeo condanna incondizionatamente tutti gli attentati terroristici e continua a seguire con grande attenzione la minaccia costituita dal terrorismo interno ed esterno. L’Unione europea coopera pertanto strettamente con altri partner e organizzazioni internazionali per riesaminare ed aggiornare le misure già prese contro tale minaccia e, ove necessario, adottare ulteriori misure. Questa è la ragione per cui gli Stati membri ribadiscono la loro volontà di cooperare strettamente in questo settore; il Consiglio europeo sottolinea la necessità di tale cooperazione87. Lo scambio di informazioni e la stipulazione di convenzioni sono i terreni privilegiati su cui realizzare la collaborazione ordinaria con i paesi terzi. L’adozione di sanzioni, restrizioni o altre misure punitive rappresenta invece una soluzione eccezionale, che coinvolge le diplomazie e può intaccare gli svariati interessi economici e commerciali degli stessi Stati membri. In ogni caso, anche questo secondo piano di intervento si presenta come un intervento di natura “civile”. Nonostante il terrorismo abbia ripetutamente mostrato la tendenza a intrecciarsi con le guerre civili, i conflitti etnici e la violenza di massa, i documenti del Consiglio europeo finiscono per escludere che la necessità di contrastarlo imponga il ricorso a strumenti, risorse o strategie di tipo militare. Dopo aver raggiunto un accordo sostanziale nel mese di giugno, i capi di Stato e governo firmano il 2 ottobre 1997 ad Amsterdam un nuovo Trattato che modifica alcune parti del testo del 1992. Le sezioni relative al secondo e al terzo pilastro sono interamente riscritte. Il Titolo V istituisce la figura dell’Alto Rappresentante PESC e sancisce un ulteriore avvicinamento tra l’Ue e l’Unione dell’Europa Occidentale (UEO). Grazie agli strumenti mutuati da quest’ultima, l’Ue acquisisce le competenze per trattare «le missioni umanitarie e di soccorso, le attività di mantenimento della pace e le missioni di unità di combattimento nella gestione delle crisi, ivi comprese le missioni tese al ristabilimento della pace» (art. 17.2 del testo consolidato del TUE). Si tratta delle cosiddette “missioni di Petersberg”, adottate dall’UEO nel 1992 nel corso di un vertice svolto nell’omonima località situata nei pressi di Bonn88. In tal modo l’Unione europea promuove la creazione 87 Id., Conclusioni della presidenza, Dublino, 13-14 dicembre 1996, in «BdCE», a. XXIX, n. 12, 1996, punto I.12. 88 Western European Union – Council of Ministers, Petersberg Declaration, Bonn, 19 June 1992, p. 6 (documento reperibile all’indirizzo web: http://www.weu.int/index.html). 72 di unità militari poste sotto la responsabilità dall’autorità UEO e impegnate in operazioni umanitarie, di peacekeeping e di gestione di crisi (tra cui il peacemaking). Benché nella pratica i due ultimi compiti tendano a confondersi, con il riferimento al peacekeeping si pone l’accento sull’interposizione di forze neutrali, di natura civile o militare, per separare i belligeranti e ricercare condizioni favorevoli alla conciliazione diplomatica; il peacemaking, invece, contempla l’uso di mezzi non militari per indurre le parti a deporre le armi e negoziare89. Non si fa alcun cenno all’eventualità che queste nuove risorse – decisamente utili nel periodo dominato dai conflitti regionali – siano utilizzate in funzione antiterroristica. Il Titolo VI cambia addirittura denominazione. Ciò non dipende solo dall’integrazione degli accordi di Schengen nei Trattati, con un apposito protocollo. L’ampia nozione di “Giustizia e Affari Interni” viene ridotta a “Cooperazione di polizia e giudiziaria in materiale penale” perché i settori relativi alla circolazione delle persone (asilo, immigrazione, controllo delle frontiere) e alla cooperazione giudiziaria in materia civile sono trasferiti nel primo pilastro. Il nuovo orizzonte istituzionale di riferimento è lo «spazio di libertà, sicurezza e giustizia» (d’ora in poi indicato con l’acronimo SLSG), la cui costruzione diventa l’obiettivo primario di questo versante dell’integrazione europea, da perseguire «prevenendo e reprimendo la criminalità, organizzata o di altro tipo, in particolare il terrorismo, la tratta degli esseri umani ed i reati contro i minori, il traffico illecito di droga e di armi, la corruzione e la frode» (art. 29). Secondo la lettura ormai consolidata, il terrorismo non è altro che una variante della criminalità, seppur fra quelle più gravi90. 89 Cfr. M. Roscini, L’art. 17 del Trattato sull’Unione europea e i compiti delle forze di pace, in N. Ronzitti (a cura di), Le forze di pace dell’Unione europea, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2005, p. 52. Nella classificazione dell’autore, risultano ulteriormente distinti il peacebuilding, relativo all’eliminazione delle cause scatenanti del conflitto e all’introduzione di programmi su diritti umani, elezioni, disarmo, ecc., in funzione della costruzione della pace nel lungo periodo, e il peace enforcement, insieme di misure coercitive assunte per imporre e mantenere il cessate-il-fuoco. 90 Si veda anche Commissione europea, Verso uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia, Bruxelles, 14 luglio 1998, doc. COM (1998) 459, che associa in modo sistematico terrorismo e criminalità: «Il trattato di Amsterdam fornisce piuttosto un quadro istituzionale nel cui ambito sviluppare un’azione comune fra gli Stati membri in settori indissociabili dalla cooperazione in materia di polizia e di giustizia penale. L’obiettivo dichiarato è prevenire e combattere, al livello appropriato, la criminalità organizzata o di altro tipo, in particolare il terrorismo, la tratta degli esseri umani e i reati contro i minori, il traffico illecito di droga e di armi, la corruzione e la frode. […] Parallelamente ai progressi registrati nel settore giudiziario, la cooperazione a livello dell'Unione europea ha consentito la creazione di reti europee fra le autorità operative incaricate dell’applicazione della legge negli Stati membri, consentendo loro di condurre operazioni comuni di vigilanza, nonché di consolidare l’esperienza e la formazione specializzata in un certo di numero di settori quali la tossicodipendenza, il riciclaggio di denaro, il terrorismo, il furto di autovetture, la violenza negli stadi, la criminalità legata alle nuove tecnologie e la violenza urbana. […] Concretamente, ciò significa anzitutto adottare la stessa impostazione di fronte ai comportamenti criminali in tutta l’Unione. Fenomeni come terrorismo, corruzione, tratta degli esseri umani e crimine organizzato devono costituire oggetto di 73 Dal nostro punto di vista, l’aspetto più rilevante del Trattato di Amsterdam è la messa a fuoco di un nuovo filone di sviluppo dello SLSG. Se la cooperazione di polizia e quella giudiziaria restano fattori imprescindibili, la lotta al terrorismo potrà avvalersi anche del “ravvicinamento” fra le legislazioni degli Stati membri, che passa attraverso «la progressiva adozione di misure per la fissazione di norme minime relative agli elementi costitutivi dei reati e alle sanzioni, per quanto riguarda la criminalità organizzata, il terrorismo e il traffico illecito di stupefacenti» (art. 31, paragrafo e). Si creano dunque i presupposti per una definizione europea comune di reato terroristico, impresa che a livello internazionale non è stata ancora coronata dal successo91. Non si trascuri infine la riforma della procedura decisionale, che prevede ora la partecipazione della Commissione, chiamata ad avanzare proposte e a verificare l’attuazione delle misure assunte, e del Parlamento, l’incisività del cui contributo dipende tuttavia dalla materia su cui si legifera. In attesa della ratifica del Trattato, Consiglio e Commissione elaborano un piano d’azione che fissa i criteri per la realizzazione dello SLSG92, fornendo anche alcune preziose indicazioni sul modo in cui gli architetti dell’integrazione concepiscono i tre valori che qualificano il nuovo progetto. La “libertà” ha un duplice significato: accanto alla «libera circolazione delle persone attraverso le frontiere interne», risultato di quarant’anni di progressi in ambito comunitario, si pone anche «la “libertà” di vivere in un contesto di legalità, consapevoli che le autorità pubbliche utilizzano tutti i mezzi in loro potere […] per combattere e limitare l’azione di chi cerca di negare tale libertà o di abusarne»93. Coesistono dunque una libertà “di” movimento e una libertà “dal” pericolo, l’una garantita dall’abolizione di norme e restrizioni, l’altra assicurata da interventi attivi delle istituzioni. È la seconda ad avere attinenza con la lotta al terrorismo. Quanto alla “sicurezza”, il documento precisa che essa non esprime la volontà di sottrarre agli Stati membri la competenza di «far rispettare la legge, mantenere l’ordine e garantire la sicurezza interna», ma solo l’esigenza di rafforzare la cooperazione fra di essi nei settori fondamentali per i cittadini e l’Unione nel suo complesso94. I governi nazionali conservano dunque la misure che istituiscano regole minime per quanto riguarda gli elementi costituitivi delle violazioni penali e dovrebbero essere perseguiti ovunque con lo stesso vigore». 91 Nell’alveo delle Nazioni Unite sono in vigore numerose convenzioni che affrontano diversi profili del fenomeno terroristico – tra cui finanziamento, dirottamento, uso di esplosivi – ma manca un testo che se ne occupi nella sua globalità. Per una panoramica dell’attività svolta e dei problemi emersi, cfr. P.J. Van Krieken, Terrorism and the International Legal Order. With Special Reference to the UN, the EU and CrossBorder Aspects, The Hague, T. M. C. Asser Press, 2002, pp. 111-304. 92 Il documento è adottato dal Consiglio GAI di Vienna del 3 dicembre 1998 ed è pertanto noto anche come Piano d’azione di Vienna. Il testo è pubblicato in GUCE C 19 del 21 gennaio 1999. 93 Ivi, punto 6. 94 Ivi, punti 10 e 11. 74 responsabilità primaria nell’opera di pacificazione della società, restando sovrani nella gestione dei propri affari interni. Con il termine “giustizia”, infine, si intende l’obiettivo di «facilitare la vita quotidiana dei cittadini e far sì che quanti mettono a repentaglio la libertà e la sicurezza dei singoli e della società rendano conto dei loro atti»95, rispecchiando l’equilibrio fra certezza della pena e garanzie individuali che caratterizza ogni Stato di diritto. Dal punto di vista istituzionale, il piano d’azione auspica che la struttura dei gruppi di lavoro sia oggetto di una revisione che ne assicuri la razionalizzazione, la semplificazione, la specializzazione, la responsabilizzazione, la coerenza, la trasparenza e la flessibilità96. Lo SLSG si trova in effetti a ereditare la selva di organismi creati a partire dalla metà degli anni Settanta e dall’esperienza TREVI, confluiti con Maastricht nella sfera amministrativa del Consiglio. In quest’ambito è da tempo attivo un gruppo di lavoro sul terrorismo, che deve ridefinire il proprio raggio d’azione97. Il lavoro dei vari gruppi è coordinato dal “Comitato dell’articolo 36” (o CATS), previsto dal nuovo art. 36 TUE ed erede del comitato K4 istituito a Maastricht. Come il predecessore, il CATS ha il compito di preparare le discussioni del Consiglio in tema di cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale, contribuendo anche con opinioni e proposte, e si distingue dal COREPER per la competenza tecnica dei suoi membri, funzionari appartenenti ai ministeri degli Interni e della Giustizia degli Stati membri98. Allo SLSG fa riferimento anche Europol, di cui il piano d’azione ricorda il contributo allo scambio di informazioni e alla cooperazione operativa fra gli Stati membri nella lotta al terrorismo99. Nella medesima direzione sono ribaditi gli impegni a facilitare l’estradizione e raggiungere entro due anni dall’entrata in vigore del Trattato un’intesa sulla definizione comune dei reati tipicamente terroristici100. Ratificato il Trattato, l’Ue può dare il via all’operazione di costruzione dello SLSG. L’architrave di tale edificio è il Programma di Tampere, che prende il nome dal Consiglio 95 Ivi, punto 15. Ivi, punto 23. 97 A testimonianza della permeabilità dei settori, si veda per esempio la proposta di riassetto avanzata dalla Francia, che attribuisce al gruppo di lavoro sul terrorismo non solo i compiti di valutare la minaccia e individuare nuovi strumenti di cooperazione, ma anche – in ipotesi – quello di tracciare un bilancio degli atti di razzismo e xenofobia. Cfr. Consiglio dell’Unione europea, Nota della delegazione francese, Bruxelles, 25 febbraio 1999, in Registro on-line del Consiglio dell’Unione europea (d’ora in poi: RCUE, disponibile all’indirizzo web: http://register.consilium.europa.eu/servlet/driver?typ=&page=Simple&lang=IT&cmsid=638), doc. 6350/99, p. 2. 98 Cfr. F. Hayes-Renshaw and H. Wallace, The Council of Ministers, New York-Basingstoke, Palgrave Macmillan, 2006, pp. 86-100. 99 Piano d’azione di Vienna, cit., punto 42.iv. 100 Ivi, punti 45.c e 46.a rispettivamente. 96 75 europeo dell’ottobre del 1999 in cui è varato, durante il semestre di presidenza finlandese101. Il testo si apre con un’introduzione incaricata di chiarire come lo “spazio” di cui si parla debba essere inteso in senso inclusivo, in particolare nei confronti dei «cittadini di Paesi terzi», accordando loro – nei limiti del possibile – quella “libertà” che per i cittadini europei è viceversa scontata102. Secondo elemento cardine è la “giustizia”, che riassume l’esigenza di migliorare l’efficacia dei vari ordinamenti giudiziari e soprattutto di raccordarli, nella prospettiva di dare esecuzione uniforme ai provvedimenti assunti dalle autorità nazionali103. L’ultimo tassello è costituito dalla necessità di fronteggiare il crimine, nelle sue diverse forme, e garantire così la “sicurezza”, premessa essenziale per le altre due dimensioni menzionate104. 2.3.1 Excursus sul concetto di “spazio” L’uso del termine “spazio” merita un approfondimento perché appare emblematico di un lessico giuridico e politico che si sforza di illustrare caratteristiche e funzionamento di un soggetto dotato di istituzioni autonome, senza tuttavia poter ricorrere alle categorie e al linguaggio propri della statualità euro-occidentale. Il processo di costruzione europea è costantemente associato alla dimensione della spazialità, benché i Trattati ne prendano atto solo negli ultimi decenni. Il progetto di mercato comune avviato negli anni Cinquanta configura l’esistenza di uno spazio europeo-comunitario, anche se limitato alla sfera economica105. L’abolizione delle frontiere interne, come effetto combinato dell’azione 101 Il testo è contenuto in Consiglio europeo, Conclusioni della presidenza, Tampere, 16 ottobre 1999, in «BdCE», a. XXXII, n. 10, 1999. D’ora in poi farò riferimento a questo documento come Programma di Tampere. Sulla nascita e sullo sviluppo dello SLSG si vedano in generale N. Walker (ed.), Europe’s Area of Freedom, Security and Justice, New York, Oxford University Press, 2004 e S. Garcia-Jourdan, L’émergence d’un espace européen de liberté, de securité et de justice, Bruxelles, Bruylant, 2005. 102 Programma di Tampere, cit., punto 3. Sull’accoglienza connaturata allo spazio Ue, cfr. M. Abélès, Politica gioco di spazi, Roma, Meltemi, 2001. L’autore, antropologo attento ai caratteri delle istituzioni europee (in particolare Parlamento e Commissione), rileva che l’Unione si presenta come uno «spazio aperto […] e non centrato», perché sempre suscettibile di allargamento e privo di una vera capitale (Bruxelles la è più di altre, ma non unanimemente riconosciuta come tale, soprattutto in una fase in cui il Consiglio europeo tende a riunirsi sul territorio dello Stato che a rotazione svolge la funzione di Presidenza), e nel contempo «inglobante e indeterminato», in opposizione alla rigida separazione territoriale su cui fonda il sistema degli Stati moderni (p. 36). 103 Programma di Tampere, cit., punto 5. Per approfondire questo profilo dello SLSG, che qui sarà trattato solo nella misura in cui si riveli pertinente alla lotta al terrorismo, si veda A. Weyembergh, L’harmonisation des législations: condition de l’espace pénal européen et révélateur de ses tensions, Bruxelles, Editions de l’Université de Bruxelles, 2004. 104 Programma di Tampere, cit., in particolare punto 6. 105 B. De Giovanni, L’ambigua potenza dell’Europa, Napoli, Guida, 2002, pp. 25-26. Cfr. su questo anche P. Bonavero, E. Dansero e A. Vanolo, Geografie dell’Unione europea, Novara, Utet, 2006. 76 riformatrice di Jacques Delors106 e dell’avvio della cooperazione di Schengen al di fuori dei Trattati107, è il segnale che le dinamiche di integrazione comunitaria non sono inscrivibili entro la sfera dei rapporti economici, ma hanno inevitabili ricadute sul piano politico. Se l’esistenza dei confini fra gli Stati rappresenta la cifra della modernità europea, il superamento – anche solo parziale – della ripartizione territoriale su base statal-nazionale proietta l’Europa in una nuova e inesplorata dimensione spaziale e istituzionale. La svolta impostata a Maastricht, sancita ad Amsterdam e concretizzatasi a Tampere, con la creazione dello SLSG, pone le fondamenta per la realizzazione di uno spazio politico in senso proprio, destinato a sostanziare le istituzioni europee che vi operano e a caratterizzarsi come «spazio dei diritti», o regolato dal diritto, e come embrione di «società civile europea»108. Non è affatto detto che questo percorso si concluda con l’approdo a un «territorio» europeo, cui il Programma di Tampere accenna senza ulteriori approfondimenti109. Ancor meno probabile è l’ipotesi che la dimensione “territoriale” dell’Unione politica ricalchi la scia tracciata nella storia europea dal modello di Stato hobbesiano. Più promettente sembra invece un’elaborazione politico-istituzionale che sviluppi il concetto di “spazio a matrice”, differenziato al proprio interno sulla base dei compiti e degli obiettivi (difesa, fisco, istruzione, ecc.), affidati a diversi livelli istituzionali110. In questa direzione si muovono le riflessioni sulla riformulazione di alcuni assunti del federalismo hamiltionano alla luce del recupero dell’impianto filosoficopolitico di un autore moderno come Johannes Althusius, anche sulla scorta della sua rilettura a opera di Daniel J. Elazar111. Con l’intenzione di rimarcare le profonde differenze esistenti fra l’assetto istituzionale dell’Ue e l’archetipo statale, alcuni studiosi ricorrono alla suggestiva immagine dell’“impero”. Lungi dal richiamarsi all’eredità storica dell’imperialismo ottonovecentesco, o a recenti e fortunate teorie tese a interpretare la natura politica, economica 106 Sul pensiero politico e sul contributo dello statista francese all’evoluzione del processo di costruzione europea si veda C.G. Anta, Il rilancio dell’Europa. Il progetto di Jacques Delors, Milano, Angeli, 2004. 107 Su questo punto attira in particolare l’attenzione F. Longo, Unione europea e scienza politica. Teorie a confronto, Milano, Giuffrè, 2005, pp. 68-72. 108 De Giovanni, L’ambigua potenza dell’Europa, cit., pp. 19-30 e pp. 123-127. 109 Ivi, pp. 100-110 e Programma di Tampere, cit., punto 3, dove si fa esplicito riferimento al «nostro territorio». 110 Cfr. Galli, Spazi politici, cit., pp. 70-73. 111 Si vedano in proposito il saggio introduttivo di C. Malandrino all’edizione critica latino-italiana di J. Althusius, La politica. Elaborata organicamente con metodo, e illustrata con esempi sacri e profani, 2 voll., a cura di C. Malandrino, Torino, Claudiana, 2009, vol. I, pp. 9-121, e il dibattito cui danno vita i contributi ospitati in G. Duso e A. Scalone (a cura di), Come pensare il federalismo? Nuove categorie e trasformazioni costituzionali, Monza, Polimetrica, 2010. 77 e sociale dell’età globale112, l’utilizzo della metafora imperiale ha in questo caso la funzione di evidenziare le peculiarità del soggetto politico scaturito dal processo di integrazione europea. Per un verso, esso può riportare alla memoria la complessa vicenda del Sacro Romano Impero di nazione tedesca, con cui condivide la flessibilità decisionale e la vocazione a mantenere la pace interna attraverso il diritto113. Il sistema “neo-medievale” proprio dell’Ue si distinguerebbe tuttavia dal SRI per la dimensione dichiaratamente “civile” dell’azione internazionale: per quanto abbozzata e in parte ambigua, la politica estera europea è estranea a ogni intento di sopraffazione, tipico invece del SRI, immerso nella realtà permanentemente conflittuale del suo tempo114. Per altro verso, l’Ue è descritta in termini di impero «cosmopolitico» e «postmoderno», in quanto struttura spazialmente aperta, socialmente ed etnicamente plurale e orientata alla costruzione della pace internazionale mediante la diffusione del diritto e dell’ideale repubblicano kantiano115. La soluzione cosmopolitica, in alcune sue declinazioni, si pone in alternativa alla dottrina federalista classica, rifiutando la prospettiva di un governo centrale formalizzato e titolare di un potere coercitivo di ultima istanza116. Per il punto di vista qui adottato – la lotta al terrorismo – non è indifferente l’osservazione di matrice realista, secondo cui l’approccio cosmopolitico, portando all’estremo l’intento di affermare valori universali, indurrebbe i soggetti che vi si riconoscono a compiere ingerenze, presentate come “umanitarie”, a danno degli interlocutori che non li condividono. Come reazione a tale processo potrebbe in ultima analisi fare la propria comparsa un «terrorismo anti-cosmopolitico»117, impegnato a rivendicare con la violenza l’autonomia delle periferie rispetto a un centro percepito come interventista e leviatanico, per quanto i teorici del cosmopolitismo si sforzino di smussarne gli spigoli più autoritari. Anziché una soluzione alla minaccia terroristica118, l’impero 112 Il riferimento è soprattutto a A. Negri e M. Hardt, Impero (2000), Milano, BUR, 2005. Sui concetti di “impero” e “imperialismo” cfr. in generale G.M. Bravo (a cura di), Imperi e imperialismo. Modelli e realtà imperiali nel mondo occidentale, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2009. 113 Uno spunto in questo senso è fornito da J. Zielonka, Europe as Empire. The Nature of the Enlarged European Union, Oxford, Oxford University Press, 2006. Si veda in proposito P.P. Portinaro, Il labirinto delle istituzioni nella storia europea, Bologna, Il Mulino, 2007, p. 104 e pp. 184-185. 114 Un confronto puntuale fra i due modelli è tracciato da E. Gallo, Verso un impero europeo?, «Teoria politica», a. XXI, n. 1, 2005, pp. 63-76. 115 U. Beck ed E. Grande, L’Europa cosmopolita. Società e politica nella seconda modernità (2004), Roma, Carocci, 2006, pp. 71-122 in particolare. Cfr. l’analisi di Portinaro, Il labirinto delle istituzioni nella storia europea, cit., pp. 128-133. 116 Si veda per esempio D. Archibugi, Cittadini del mondo. Verso una democrazia cosmopolitica (2008), Milano, Il Saggiatore, 2009, pp. 105-107. 117 D. Zolo, Cosmopolis. La prospettiva del governo mondiale, Milano, Feltrinelli, 1995, p. 182. 118 In questi termini ragiona M. Kaldor, L’altra potenza. La società civile. Diritti umani, democrazia, globalizzazione (2003), Milano, Bocconi, 2004, pp. 170-173, che articola la sua proposta in cinque punti: a) 78 cosmopolitico – e più in generale il tentativo di ridurre le divisioni e i particolarismi, in cui si inserisce la logica che governa la costruzione di un possibile “spazio europeo” – potrebbe fornire al terrorismo nuovi motivi e argomenti. Tornando allo specifico apporto del Programma di Tampere, va detto che uno dei principali obiettivi da esso indicati è lo “spazio di giustizia europeo”, in cui sono accostati i due principi destinati a dominare la futura evoluzione della cooperazione giudiziaria europea. Da un lato, emerge l’intenzione di armonizzare o ravvicinare il più possibile le legislazioni degli Stati membri; dall’altro, si introduce il meccanismo del reciproco riconoscimento delle decisioni assunte dalle autorità giudiziarie, indicando come prioritaria la sua applicazione nei casi di estradizione, sequestro probatorio o confisca di beni e raccolta delle prove119. In termini concettuali, i due principi esprimono la contraddittorietà propria dell’intera costruzione europea: da un lato, si manifesta la volontà di uniformare ciò che appare eterogeneo, assecondando la spinta verso l’unità; dall’altro, si prende atto di un’irriducibile diversità, di una particolarità nazionale attenuabile solo attraverso correttivi tecnico-giuridici (come il riconoscimento delle decisioni). Tale situazione, che denuncia una condizione quasi schizofrenica per cui un principio prevale sull’altro a seconda delle circostanze120, è in realtà la conseguenza inevitabile della difformità di vedute che contraddistingue i maggiori Stati membri, con la Francia incline a sostenere l’impegno per il ravvicinamento e la Gran Bretagna favorevole al reciproco riconoscimento come massima concessione ipotizzabile da parte di un paese che non intende vedere pregiudicata la propria sovranità121. In ottemperanza a quanto stabilito a Tampere, il bienno 1999-2001 risulta particolarmente prolifico di iniziative nei campi della cooperazione in materia di polizia e giustizia. Nel primo settore va segnalata l’esistenza di una task force dei capi di polizia, rafforzamento del diritto internazionale umanitario, rendendolo vincolante anche per gli USA; b) costruzione di una forza multilaterale per il rispetto del diritto umanitario e per la protezione dei civili; c) risoluzione delle «guerre locali al terrorismo» (Medioriente, Kashmir, Cecenia) attraverso l’applicazione imparziale della legge internazionale, il sostegno agli attori moderati e democratici e la garanzia della sicurezza; d) incentivo a sostituire i leader illegittimi o criminali a favore di gruppi alternativi; e) impegno a favore della giustizia sociale globale. 119 Programma di Tampere, cit., sezione B. 120 A. Weyembergh, L’impact du 11 septembre sur l’équilibre sécurité/liberté dans l’espace pénal européen, in Bribosia et Weyembergh (sous la direction de), Lutte contre le terrorisme et droits fondamentaux, cit., secondo cui le fortune di un principio dipendono quasi esclusivamente delle sconfitte subite dall’altro (p. 187). 121 Su questo punto, cfr. Occhipinti, The Politics of EU Police Cooperation, cit., pp. 82-83 e Friedrichs, Fighting Terrorism and Drugs, cit., pp. 101-105. 79 con il compito essenziale di rendere più fluidi i rapporti fra Europol e le forze dell’ordine degli Stati membri. Nel 2000 viene istituita l’Accademia europea di polizia (CEPOL), i cui allievi frequenteranno negli anni successivi anche corsi finalizzati ad acquisire competenze in chiave antiterroristica122. Nell’ambito della giustizia penale, è in funzione dal 1998 la rete giudiziaria europea, volta a favorire la cooperazione contro la criminalità organizzata e dunque anche il terrorismo123. Su questa impalcatura si innestano nel 2000 la convenzione sull’assistenza giudiziaria in materia penale124 e Pro-Eurojust, versione provvisoria di un’agenzia destinata a coordinare le indagini e le azioni delle autorità giudiziarie degli Stati membri, invitati a designare un proprio funzionario come componente del nuovo organismo125. Nel dibattito che accompagna la nascita dell’agenzia e i suoi primi mesi di vita, la lotta al terrorismo riveste un ruolo abbastanza residuale, concedendo spazio a preoccupazioni giudicate più urgenti – si pensi per esempio ai timori legati alla falsificazione dell’euro, la cui introduzione è ormai imminente126. Negli stessi anni, l’Unione europea compie progressi anche sul piano della politica estera127, che tuttavia, prima dell’11 settembre 2001, non riguardano specificamente il terrorismo. Quella più appariscente è l’enucleazione della PESD, sulla spinta dell’iniziativa di Francia e Gran Bretagna, che nella Dichiarazione di Saint Malo del dicembre 1998 122 Cfr. Consiglio dell’Unione europea, Nota dell’Accademia europea di polizia (CEPOL), Bruxelles, 9 dicembre 2003, in RCUE, doc. 15722/03, p. 39 e p. 42 in particolare. 123 Si veda l’azione comune 98/428/GAI del 29 giugno 1998 in GUCE L 191 del 7 luglio 1998. In concreto, l’attività riguarda la procedura delle rogatorie internazionali, le informazioni sul diritto di altri Stati e, in misura minore, l’estradizione e il trasferimento temporaneo di detenuti. 124 Il testo è riportato in Consiglio dell’Unione europea, Atti legislativi e altri strumenti, Bruxelles, 22 maggio 2000, in RCUE, doc. 7846/1/00 REV 1. I contenuti spaziano dallo scambio di informazioni alla restituzione dei beni provenienti da reati, dal trasferimento di detenuti all’istituzione di squadre investigative comuni, ponendo quindi in relazione aspetti giudiziari e di polizia 125 Id., Atti legislativi ed altri strumenti, Bruxelles, 28 novembre 2000, in RCUE, doc. 13282/00. 126 È significativo che, fra i da documenti presentati dalla Commissione, dalla Germania e, congiuntamente, da Francia, Danimarca, Portogallo e Svezia per concorrere alla creazione dell’agenzia, solo quest’ultimo si sofferma sulle sue eventuali funzioni antiterroristiche (Id., Nota di trasmissione, Bruxelles, 13 luglio 2000, in RCUE, doc. 10355/00, p. 6). Cfr. inoltre Id., Nota di trasmissione, Bruxelles, 25 maggio 2000, in RCUE, doc. 8777/00 (compresa la Nota esplicativa, in RCUE, doc. 8777/00 ADD 1), che riporta l’iniziativa tedesca, e Commissione delle Comunità europee, Comunicazione della Commissione in merito alla costituzione di Eurojust, Bruxelles, 22 novembre 2000, doc. COM (2000) 746. 127 Si vedano F. Bordonaro, La politica comune europea di sicurezza e difesa: un bilancio storico (19902004), in M.R. Allegri, G. Anzera e F. Bordonaro, La potenza incompiuta. Scenari di sicurezza europea nel XXI secolo, Milano, Franco Angeli, 2005.; L. Bonanate, Politica e diritto nella formazione della politica estera dell’Unione europea, Torino, Giappichelli, 2002; M. Clementi, L’Europa e il mondo. La politica estera, di sicurezza e di difesa europea, Bologna, Il Mulino, 2004; J. Howorth, From Security to Defence: The Evolution of the CFSP, in C. Hill e M. Smith (eds.), International Relations and the European Union, Oxford, Oxford University Press, 2005, pp. 179-204; A. Missiroli, La difesa europea: politica, obiettivi, strumenti, in Id. e A. Pansa, La difesa europea, Genova, Il Melangolo, 2007, pp. 13-87; P. Rosa, La politica estera e di sicurezza comune, in S. Fabbrini e F. Morata (a cura di), L’Unione europea. Le politiche pubbliche, Roma-Bari, Laterza, 2002, pp. 276-305; W. Wallace, Foreign and Security Policy. The Painful Path from the Shadow to Substance, in H. Wallace, W. Wallace and M.A. Pollack (eds.), Policy-Making in the European Union, Oxford, Oxford University Press, 2005, pp. 429-456. 80 esprimono con chiarezza l’esigenza di dotare l’Ue di «forze armate credibili» e «appropriate strutture e capacità» di difesa e pianificazione strategica128. Alla fine del 1999 lo spirito dell’iniziativa è raccolto dal Consiglio europeo di Helsinki, che individua l’obiettivo principale della PESD. Gli Stati membri stabiliscono infatti di creare entro il 2003 una forza di reazione rapida (attivabile in 60 giorni), composta da 50-60 mila uomini, in grado di dare attuazione alle missioni di Petersberg129. In occasione del Consiglio europeo di Nizza e della firma dell’omonimo Trattato, sono poi introdotti nuovi organismi titolari di funzioni cruciali: il Comitato politico e di sicurezza (COPS), composto da alti funzionari; il Comitato militare, che riunisce i Capi di Stato maggiore degli Stati membri; lo Staff militare, formato da esperti nominati dai governi nazionali130. I tre nuovi attori si aggiungono a quelli già attivi in ambito PESD, tra cui Consiglio, presidenza di turno, COREPER, Alto Rappresentante, oltre agli Stati membri individualmente intesi, che mantengono comunque il potere decisionale di ultima istanza e le competenze operative per agire in concreto131. Si consideri infine che afferisce al secondo pilastro anche il COTER, evoluzione del gruppo di lavoro permanente creato dalla CPE nel 1986 in risposta alla crisi libica. Il moltiplicarsi di crisi e conflitti dopo la fine della guerra fredda, di cui si è dato conto, spinge inoltre l’Ue a rafforzare i propri sforzi in chiave preventiva. Il principale risultato di tale impostazione è il Programma di Göteborg sulla prevenzione dei conflitti, approvato dal Consiglio europeo nel giugno del 2001132, che individua varie categorie di strumenti utili allo scopo prefissato: in campo strettamente militare, l’attenzione si concentrata sugli sviluppi della PESD, a partire dall’opera di profilassi svolta con i compiti di Petersberg. A essi sono tuttavia stati accostati interventi di natura politica, economica e diplomatica, fra i quali la stipulazione di accordi commerciali, l’adeguamento di Paesi terzi a normative comunitarie, la cooperazione regionale, gli aiuti umanitari e allo sviluppo, le sanzioni di vario genere, il dialogo politico, la mediazione dell’Alto Rappresentante, la co128 British-French Summit, Joint Declaration, Saint Malo, 3-4 December 1998, in M. Rutten (ed.), From StMalo to Nice. European Defence: Core Documents, Paris, Institute for Security Studies, Chaillot Paper n. 47, May 2001, pp. 8-9. 129 Consiglio europeo, Conclusioni della Presidenza, Helsinki, 10-11 dicembre 1999, in «BdCE», a. XXXII, n. 12, 1999. 130 Id., Conclusioni della Presidenza, Nizza, 7-9 dicembre 2000, in «BdCE», a. XXXIII, n. 12, 2000. 131 In merito si vedano le considerazioni di A. Missiroli, L’Unione fa la forza: l’evoluzione della Pesd, in G. Vacca (a cura di), L’unità dell’Europa. Rapporto 2003 sull’integrazione europea, Roma, Nuova Iniziativa Editoriale, 2003, pp. 258-259 e V.E. Parsi, L’alleanza inevitabile. Europa e Stati Uniti oltre l’Iraq, Milano, Egea, 2003, pp. 175-176. 132 Per il testo del Programma, cfr. Consiglio dell’Unione europea, Nota di trasmissione al Segretariato, Bruxelles, 7 giugno 2001, in RCUE, doc. 9537/1/01 REV 1. 81 operazione nell’ambito di giustizia e affari interni, fino a comprendere gli incentivi collegati alla politica di allargamento dell’Unione, praticabili – evidentemente – solo nei confronti di alcuni particolari Stati terzi133. Si crea così la prospettiva della coesistenza fra mezzi civili e militari, suscettibile di tradursi nella nascita di una “potenza civile”, per usare l’espressione coniata negli anni Settanta da François Duchêne e più recentemente ripresa e approfondita da Mario Telò134. Occorre però intendersi sul significato di tale locuzione. I suoi propugnatori assegnano particolare importanza alla possibilità di ricorrere a strumenti anche militari per svolgere mansioni prevalentemente civili, come nel caso delle missioni di pace (peacekeeping, peace enforcement, ecc.). Avvalorando questa interpretazione, l’Ue sfuggirebbe alla necessità di schierarsi apertamente sul versante della politica di potenza in senso classico o, in alternativa, su quello del soft power, vale a dire la capacità di ottenere dagli interlocutori ciò che si vuole attraverso la forza dell’esempio, sfruttando il proprio carisma, facendo leva su fascino e capacità di attrazione, senza attingere alle risorse militari in senso stretto (legate invece all’hard power). Il successo della formula ibrida, insomma, dipende dalla capacità di eludere i vincoli teorici posti dal realismo politico, secondo il quale l’Unione dovrebbe decidere se attrezzarsi per far prevalere la dimensione della “potenza”, trasformandosi in uno Stato dotato di una politica estera e di un esercito di tipo tradizionale, o – più verosimilmente – favorire l’affermazione della componente ideale e “civile”, con l’appiattimento su un soft power del tutto privo di ambizioni militari135. In nessun passo dei testi europei che discutono di questo potenziale sviluppo dell’integrazione si trovano però considerazioni sulle agevolazioni che ne trarrebbe la lotta al terrorismo. 133 Per una panoramica sui mezzi di prevenzione disponibili, si veda C. Monteleone, L’Unione europea tra prevenzione dei conflitti e intervento militare, in S. Giusti e A. Locatelli (a cura di), L’Europa sicura. Le politiche di sicurezza dell’Unione europea, Milano, Egea, 2008, pp. 141-163. 134 M. Telò, L’Europa potenza civile, Roma-Bari, Laterza, 2004, poi aggiornato in lingua inglese da Id., Europe: A Civilian Power? European Union, Global Governance, World Order, New York-Basingstoke, Palgrave-Macmillan, 2006, in particolare pp. 50-58. Il termine “potenza” è associato all’evoluzione dell’Unione europea anche da altri autori, che tuttavia sembrano sottolineare principalmente l’acquisizione di un peso rilevante nel sistema economico mondiale (si legga in questo senso, per esempio, il discorso condotto da C. Saint-Étienne, L’Europa forte (2003), Milano, Egea, 2004). 135 Non casualmente, secondo P.P. Portinaro, L’Europa civile davanti alle sfide del XXI secolo, in Laschi e Telò (a cura di), L’Europa nel sistema internazionale, cit., il concetto di potenza civile corrisponde «con accettabile approssimazione» a quello di soft power (pp. 322-323, in particolare nota 7). In argomento, si vedano nella medesima raccolta le repliche di M. Telò, L’Unione europea nel mondo: scenari alternativi tra declino, impero e potenza inedita, pp. 40-45 e S. Lucarelli, L’Ue potenza civile: ossimoro o animale bicefalo?, pp. 253-272. In riferimento al possibile rafforzamento militare della PESD, che non snaturerebbe i tratti “civili” dell’Ue, cfr. anche Ead., La politica di sicurezza e difesa: fine della potenza civile?, in G. Laschi e M. Telò (a cura di), Europa potenza civile o entità in declino? Contributi ad una nuova stagione degli studi europei, Bologna, Il Mulino, 2007, pp. 237-253. Sul tema generale si veda infine H.G. Ehrhart, What Model for CFSP?, Paris, Institute for Security Studies, Chaillot Paper n. 55, October 2002. 82 L’elaborazione teorico-strategica diventa uno dei tratti caratterizzanti della PESC/PESD con la creazione dell’Istituto per gli Studi sulla Sicurezza. Si tratta, per la verità, di un centro studi con sede a Parigi già da tempo attivo, ma riconosciuto come agenzia Ue solo nell’estate del 2001 e reso operativo in questa veste dal 1° gennaio 2002. Nonostante gli analisti dell’Istituto attirino da tempo l’attenzione sul terrorismo come problema delle relazioni internazionali136, l’opinione prevalente nelle istituzioni europee è che tale fenomeno sia in questa fase territorialmente localizzato. Il discorso vale per i terrorismi emersi nei conflitti regionali, che l’Unione osserva con un certo distacco, e per il terrorismo interno all’Europa, che pare tornare d’attualità per iniziativa dell’ETA137. Qualche spunto di segno parzialmente differente proviene dal dibattito sul terrorismo del 5 settembre 2001 nel Parlamento europeo, che – proprio in virtù della collocazione temporale – può rappresentare una fotografia abbastanza fedele di quale sia la concezione del terrorismo in Europa prima degli attacchi di Al Qaeda agli Stati Uniti. L’Assemblea è chiamata a pronunciarsi sulla Relazione sul ruolo dell’Unione europea nella lotta al terrorismo, preparata dalla Commissione per le libertà e diritti dei cittadini, la giustizia e gli affari interni, presieduta dal liberale britannico Graham Watson138. In virtù della natura istituzionale di tale organismo, che ha competenze relative allo SLSG, il documento e la discussione vertono soprattutto sul terrorismo interno all’Unione, che coinvolge alcuni Stati membri e in particolare la Spagna. Si riscontrano tuttavia alcuni elementi che distinguono questo contributo da quelli esaminati finora. L’aspetto centrale è sicuramente la decisione di adottare, limitatamente al testo in questione, una definizione di terrorismo, mutuata dai lavori del Consiglio d’Europa, che considera terroristico 136 Cfr. per esempio: R. Aliboni, European Security across the Mediterranean, Paris, Institute for Security Studies, Chaillot Paper n. 2, March 1991, p. 20; R. Zadra, European Integration and Nuclear Deterrence after the Cold War, Paris, Institute for Security Studies, Chaillot Paper n. 5, November 1992, p. 13; D. Mahncke, Parameters of European Security, Paris, Institute for Security Studies, Chaillot Paper n. 10, September 1993, pp. 13-14; S. Silvestri, The Ramifications of War, in N. Gnesotto (ed.), War and Peace: European Conflict Prevention, Paris, Institute for Security Studies, Chaillot Paper n. 11, October 1993, p. 39; A. Politi, European Security: The New Transnational Risks, Paris, Institute for Security Studies, Chaillot Paper n. 29, October 1997; Id., Why Is European Intelligence Policy Necessary, in Id. (ed.), Towards a European Intelligence Policy, Paris, Institute for Security Studies, Chaillot Paper n. 34, December 1998, p. 11; S.R. Sloan, The United States and European Defence, Paris, Institute for Security Studies, Chaillot Paper n. 39, April 2000, p. 54. 137 Cfr. per esempio Consiglio europeo, Conclusioni della presidenza, Santa Maria de Feira, 19-20 giugno 2000, in «BdCE», a. XXXIII, n. 6, 2000, punto I.40. 138 Commissione per le libertà e diritti dei cittadini, la giustizia e gli affari interni, Relazione sul ruolo dell’Unione europea nella lotta al terrorismo, Bruxelles, 12 luglio 2001, relatore on. G. Watson, in Archivio on-line del Parlamento europeo (APE, disponibile all’indirizzo http://www.europarl.europa.eu/activities/ archives/staticDisplay.do;jsessionid=1BBE64ABAD1BF61B3E3174F14D1C179A.node2?id=120&language=i t), Relazioni, doc. A5-0273/2001. 83 qualsiasi crimine commesso da individui o da gruppi che ricorrono o minacciano di ricorrere alla violenza nei confronti di un paese, delle sue istituzioni, della sua popolazione in generale o di individui specifici, e che, motivati da aspirazioni separatiste, da concetti ideologici estremisti, dal fanatismo o ispirati da moventi irrazionali e soggettivi, mirano a sottomettere il potere pubblico, taluni individui o gruppi della società, o in modo generale l’opinione pubblica, a un clima di terrore139. Il terrorismo è visto come una minaccia rivolta non solo verso la società e gli individui, la popolazione, l’opinione pubblica o una sua parte – elementi riassumibili nella nozione di “cittadini” sui cui insistono i documenti istitutivi dello SLSG –, ma anche verso un «paese», le sue «istituzioni», il «potere pubblico»140. La relazione, dunque, ammette che le azioni terroristiche non restano confinate nella sfera dei rapporti fra privati, ma mirano a «modificare le strutture politiche, economiche, sociali e ambientali dello Stato di diritto»141. In alcuni casi esse intendono «destabilizzare i sistemi politici», in altri, addirittura, rappresentano «una minaccia per la democrazia, le istituzioni parlamentari e l’integrità territoriale degli Stati»142. Nel dipingere l’immagine del terrorismo, le istituzioni Ue paiono confrontarsi con l’orizzonte teorico e concettuale che ruota intorno all’opposizione “società civile-Stato”, elaborata nell’ambito del pensiero politico di scuola hegeliana e riformulata dalle analisi marxiane e gramsciane143. Le definizioni di terrorismo che pongono l’accento sui risvolti penali del fenomeno, individuandone i bersagli nei cittadini e nelle persone (o in loro specifici gruppi), finiscono per considerare l’azione dei terroristi contenuta entro il perimetro della società civile. Il Parlamento europeo dimostra invece di avere una visione più “politica” del terrorismo, nella misura in cui ne sottolinea la tendenza a indirizzarsi contro le forme organizzative, gli organi rappresentativi e l’universo simbolico della comunità politica di riferimento. D’altra parte, le iniziative dei terroristi restano «criminali» perché colpiscono le istituzioni di paesi democratici, civili e garantisti, «distinguendosi pertanto dalle azioni di resistenza compiute nei paesi terzi contro strutture 139 Ivi, p. 14, che si ispira alla raccomandazione 1426 (1999) del Consiglio d’Europa. Questa impostazione è raccolta in particolare dal “considerando” M della relazione. 141 Ivi, “considerando” T. 142 Ivi, p. 14. 143 Su tutto ciò si veda N. Bobbio, Stato, governo, società. Frammenti di un dizionario politico, Torino, Einaudi, 1995, pp. 23-42. Il volume raccoglie voci enciclopediche stese originariamente tra il 1978 e il 1981. 140 84 statali caratterizzate esse stesse da una dimensione terroristica»144. La relazione parlamentare separa così il piano della violenza utilizzata dai movimenti che si oppongono a governi autoritari, su cui il giudizio deve essere più articolato e tenere conto delle ragioni scatenanti, e quello del terrorismo messo in atto in Europa e in Occidente, che non trova alcuna giustificazione. Questo è il motivo per cui il testo enfatizza il carattere pretestuoso delle rivendicazioni avanzate dai gruppi terroristici europei, ricordando che – «vista la struttura democratica e costituzionale del processo decisionale degli Stati membri» – i moti di violenza che vi si svolgono «vanno perseguiti in sede penale»145. La relazione Watson non nega la possibilità che anche in Europa sorgano dissensi politici o sociali, ma essi vanno affrontati e risolti con mezzi pacifici, tramite un impegno alla nonviolenza da parte dei contestatori e l’apertura delle autorità alle riforme eventualmente necessarie. Questo passo del documento si rivela particolarmente delicato nel corso del dibattito parlamentare, poiché alcuni deputati di origine basca manifestano la volontà di inserire un riferimento esplicito alla necessità che il governo spagnolo si mostri ricettivo verso le istanze autonomiste-indipendentiste. Si vorrebbe insomma veder riconosciuta l’esistenza di un «conflitto» da neutralizzare attraverso il «dialogo democratico fondato sul reciproco rispetto» fra le parti146. La maggioranza dell’Aula si dichiara però contraria a questa opzione, che costituirebbe un riconoscimento europeo dei movimenti politici che si battono pacificamente per la causa basca, e non certo dell’ETA, ma rischierebbe di tratteggiare pericolose analogie fra il caso spagnolo e quello delle regioni del mondo in cui l’Ue assume una posizione di terzietà rispetto ai contendenti. La relazione formula dunque a tutti gli Stati membri la generale raccomandazione «di elaborare, nel contesto della prevenzione del terrorismo, politiche sociali e di altro tipo volte a combattere l’esclusione sociale, economica e culturale»147, ma si astiene da considerazioni in merito alle questioni identitarie, sub-nazionali e territoriali, che sarebbe interpretato come un avviso per il governo spagnolo. Vince dunque la linea dei parlamentari iberici – protagonisti assoluti della discussione – che sottolineano con vigore la necessità di arginare, isolare e delegittimare l’ETA e i suoi obiettivi148. 144 Commissione per le libertà e diritti dei cittadini, la giustizia e gli affari interni, Relazione sul ruolo dell’Unione europea nella lotta al terrorismo, cit., “considerando” T. 145 Ivi, “considerando” AA. 146 Parlamento europeo, Discussioni, in APE, seduta del 5 settembre 2001, intervento dell’on. Ortuondo Larrea. Si vedano anche i toni assai meno concilianti dell’on. Gorostiaga Atxalandabaso. 147 Commissione per le libertà e diritti dei cittadini, la giustizia e gli affari interni, Relazione sul ruolo dell’Unione europea nella lotta al terrorismo, cit., “considerando” Q. 148 Parlamento europeo, Discussioni, in APE, seduta del 5 settembre 2001, in particolare il durissimo intervento della on. Díez González (basca) che non accenna minimamente al contenuto delle rivendicazioni e 85 Il contributo in esame mostra un profilo innovativo anche nella misura in cui si sofferma sul «profondo cambiamento della natura del terrorismo nell’Unione europea»149, espressione dell’«attività di reti organizzate su scala internazionale, aventi sedi in vari paesi»150. Viene quindi esplorata anche la dimensione transnazionale del fenomeno, che richiede «sanzioni sul piano diplomatico, politico ed economico nonché misure di dissuasione contro i paesi terzi che sostengono, apertamente o meno, atti e gruppi terroristici»151. Tale aspetto è ulteriormente sviluppato dal dibattito parlamentare, per effetto di due interventi peraltro assai diversi fra loro. Da un lato, il popolare austriaco Hubert Pirker, muovendo dal ricordo degli scontri verificatisi in estate nelle manifestazioni dei gruppi no-global in occasione del Consiglio europeo di Göteborg e del G8 di Genova, paventa la nascita di «un terrorismo internazionale, globalizzato, che in realtà non è interessato al dibattito sulla globalizzazione, che va portato avanti, bensì lo utilizza soltanto come veicolo per compiere atti di terrore contro governi e Stati, ovvero contro i nostri sistemi democratici»152. Egli immagina un moto di violenza transnazionale, ma sostanzialmente interno al mondo occidentale e sviluppato, che ne prenda di mira strumentalmente l’assetto politico, economico e sociale. Dall’altro lato, il socialista turcotedesco Ozan Ceyhun pone l’accento sul terrorismo come «fenomeno con strutture organizzate su scala mondiale», avendo in mente soprattutto quello «internazionale, sostenuto da dittatori o da regimi islamici fondamentalisti, [che] può essere combattuto in misura adeguata solo a livello europeo»153. Il pericolo descritto in astratto da Ceyhun si adatta per molti versi ad Al Qaeda, le cui azioni di lì a pochi giorni traumatizzeranno l’opinione pubblica mondiale. Al momento, tuttavia, questo genere di terrorismo è considerato una minaccia periferica dalla maggior parte degli europei. Anche le principali misure suggerite dalla relazione approvata dal Parlamento – l’enucleazione di una definizione condivisa di reato terroristico e la sostituzione della procedura di estradizione con il mandato di arresto europeo – sono ritagliate innanzi tutto sul modello di terrorismo che l’Europa conosce in questa fase, cioè quello dell’ETA e degli altri gruppi armati storici. È un fenomeno dotato di un evidente carattere transfrontaliero, ma nel contempo inscritto quasi per intero entro i confini accusa i terroristi baschi di violare «i diritti umani» e commettere «crimini xenofobi», di attuare la «pulizia ideologica» e di presentare echi «fascisti», essendo «l’ultimo strascico del franchismo». 149 Commissione per le libertà e diritti dei cittadini, la giustizia e gli affari interni, Relazione sul ruolo dell’Unione europea nella lotta al terrorismo, cit., “considerando” F. 150 Ivi, “considerando” G. 151 Ivi, “considerando” DD. 152 Parlamento europeo, Discussioni, in APE, seduta del 5 settembre 2001, intervento dell’on. Pirker. 153 Ivi, intervento dell’on. Ceyhun. 86 dell’Unione. Dopo che l’azione palestinese si è localizzata in Medio Oriente, il terrorismo che preoccupa le istituzioni europee può certamente avere dei collegamenti internazionali di tipo operativo154, ma le sue cause e i suoi obiettivi sono logicamente e territorialmente situati in Europa. Anche per questa ragione gli eventi dell’11 settembre rappresentano un shock di notevoli proporzioni. 154 È lo stesso Watson a rammentare la scoperta di contatti tra terroristi nordirlandesi e colombiani, ivi, intervento dell’on. Watson. 87 3. L’11 settembre, la reazione europea e lo spirito atlantico (2001-2002) 3.1 La “scoperta” di Al Qaeda: la politica di fronte al terrorismo globale e fondamentalista La violenza distruttrice che si abbatte su New York e Washington la mattina dell’11 settembre 2001 ha un impatto dirompente sull’opinione pubblica mondiale. Il fatto stesso che un’organizzazione, con base in Afghanistan, sia in grado di colpire la costa orientale del continente americano suggerisce che la minaccia del terrorismo non è inquadrabile all’interno della classica ripartizione fra competenze di politica interna e di politica estera. Al Qaeda svela, anzi, il volto più sanguinoso del processo di globalizzazione, che mina alle fondamenta la distinzione interno-esterno cui l’Ue appare ancora affezionata1. Alcune delle dinamiche già intuibili nel corso degli anni Novanta – la commistione tra violenza politica e religiosa, la convergenza fra guerra e terrorismo, la difficoltà nel definire con esattezza il volto e gli obiettivi degli attori che minacciano la sicurezza – diventano plasticamente evidenti nel modo di agire di Al Qaeda. Tale formazione si inserisce nel solco ormai pluridecennale del fondamentalismo islamico2 e si caratterizza per un’organizzazione a rete, che garantisce collegamenti fra unità operanti in luoghi assai distanti fra loro3. Non per questo Al Qaeda è priva di una struttura per certi aspetti gerarchica, composta da un leader assistito da un nucleo di consiglieri ed esperti (tra le 10 e le 15 persone) e da quattro comitati specializzati in questioni militari, finanziarie, 1 Si vedano le riflessioni svolte da D. Held e A. McGrew, Globalismo e antiglobalismo (2002), Bologna, Il Mulino, 2003, p. 29, che aggiorna – alla luce degli eventi del settembre 2001 – l’edizione pubblicata nel 2000, e T. Delpech, Politique du chaos. L'autre face de la mondialisation, Paris, La République des IdéesSeuil, 2002, p. 6. La letteratura sulla globalizzazione è sterminata: per un’introduzione agli aspetti politicodottrinali sviluppati dagli autori che se ne sono occupati nel periodo immediatamente precedente all’11 settembre, cfr. – oltre a Galli, Spazi politici, cit., pp. 131-172 – R. Gherardi, I concetti della politica nell’era della globalizzazione, «Il Pensiero Politico», a. XXXIV, n. 3, 2001, pp. 494-501 e alcuni dei saggi raccolti in G. Cavallari (a cura di), Comunità, individuo e globalizzazione. Idee politiche e mutamenti dello Stato contemporaneo, Roma, Carocci, 2001. 2 Tra i numerosi volumi relativi alla storia di Al Qaeda e dei suoi rapporti con il fondamentalismo islamico, si segnalano: G. Kepel, Jihad. Expansion et décline de l’islamisme, Paris, Gallimard, 2003 (in lingua italiana è stata pubblicata in più occasioni l’edizione francese del 2000); P.L. Bergen, Holy War, Inc. (2001), Milano, Mondadori, 2001; J.L. Esposito, Guerra santa? Il terrorismo nel nome dell’islam (2002), Milano, Vita e Pensiero, 2004; R. Gunaratna, Inside Al Qaeda. Global Network of Terror, London, Hurst, 2002; Ruthven, Il seme del terrore, cit.; P. Migaux, Le radici dell’islamismo radicale e Al Qaeda, in Chaliand e Blin (a cura di), Storia del terrorismo, cit., pp. 265-327 e pp. 328-367 rispettivamente. 3 La metafora della rete è largamente prevalente tra gli studiosi: si veda per esempio Beck, Un mondo a rischio, cit., che per il profilo organizzativo assimila Al Qaeda alle ONG. A questa ipotesi – tratta da M. Castells, La nascita della società in rete (1996), Milano, Bocconi, 2002 – Appadurai, La civiltà degli scontri, cit., pp. 77-86, oppone quella alternativa della conformazione cellulare. dottrinali e mediatiche4. Nell’organizzazione, dunque, convivono a un tempo un volto strutturato e un blando coordinamento di movimenti esterni ai confini formali, legati talvolta da una mera spinta ideale, ma decisivi per comprendere le modalità d’azione del gruppo5. L’impianto organizzativo è decisivo nella preparazione dell’11 settembre, avvenuta in territorio afghano, dove Al Qaeda può contare quanto meno sulla compiacenza delle autorità talebane, allestendo campi di addestramento e pianificando con tranquillità la strategia. Una prevalente destrutturazione caratterizzerà viceversa la fase in cui all’organizzazione verrà a mancare il santuario prediletto – l’Afghanistan – e la costruzione di un movimento volatile, unito da vincoli virtuali come internet, diventerà una necessità6. La forma reticolare di Al Qaeda si dimostra utile sotto diversi profili. In termini operativi, i terroristi qaedisti sono in grado di dividersi in varie unità, concordare il luogo d’azione, comparire all’improvviso, convergere sul bersaglio e dileguarsi rapidamente7. Dal punto di vista dei finanziamenti, l’organizzazione beneficia dei proventi di attività criminali collaterali a quella terroristica e attira finanziamenti da parte di enti, fondazioni e persone fisiche (i “simpatizzanti”), raccogliendo un flusso di denaro e risorse che scorre in larga parte attraverso canali apparentemente legali (elemosina, enti assistenziali o religiosi, ecc.) e attraversa le giurisdizioni di diversi Stati8. 4 Cfr. Gunaratna, Inside Al Qaeda, cit., pp. 54-58, ripreso da V. Pisano e A. Piccirilli, Aggregazioni terroristiche contemporanee. Europee, mediorientali e nordafricane, Roma, Adnkronos libri, 2005, p. 179, e M. Sageman, Understanding Terror Networks, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 2004, pp. 137-173. 5 La natura organizzativa spuria di Al Qaeda è evidenziata da J. Stern, Terrore nel nome di Dio. Perché i militanti religiosi uccidono (2003), Roma, Luiss University Press, 2005, pp. 391-454, secondo cui sono combinati due modelli: quello comandante-quadri, rigido e preponderante in occasione delle azioni più rilevanti, e quello del «network di network», più leggero e flessibile. Con questa visione complessiva concordano Gunaratna, Inside Al Qaeda, cit., p. 95 e B. Hoffman, Inside Terrorism, New York, Columbia University Press, 2006, pp. 282-295, che affianca alla leadership altri tre livelli: gruppi affiliati, gruppi debolmente collegati, gruppi che traggono solo ispirazione. 6 In questo ambito si collocano le analisi che enfatizzano l’immaterialità dell’organizzazione: R. Gunaratna, Il nuovo volto di Al Qaeda: la minaccia del terrorismo islamista dopo l’11 settembre, in Chaliand e Blin (a cura di), Storia del terrorismo, cit., afferma che Al Qaeda si trasforma progressivamente in «un’ideologia» o «uno stato d’animo» (p. 447); M. Sageman, Leaderless Jihad. Terror Networks in the Twenty-First Century, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 2008, spiega che il versante del «movimento sociale», che collega il centro declinante alla periferia, è ormai più pericoloso del gruppo strutturato (pp. 29-32 e pp. 109146); Z. Bauman, Paura liquida (2006), Roma-Bari, Laterza, 2008, attira l’attenzione sulla dimensione «liquida» di Al Qaeda, la cui struttura appare assai più flessibile, leggera, sinuosa e inafferrabile rispetto a quella delle organizzazioni tipiche del «passato solido-moderno» (pp. 127-138). Sul ruolo di internet, inteso tanto come strumento per accentuare l’impatto “pubblicitario” dell’azione, quanto come canale di comunicazione interna, cfr. D. Tosini, Terrorismo online. Internet e violenza politica nel XXI secolo, «Equilibri», a. XII, n. 2, agosto 2008, pp. 193-206. 7 Sul punto interviene B. Berkovitz, The New Face of War. How War Will Be Fought in the 21st Century, New York, The Free Press, 2003, pp. 100-118, che qualifica tale tattica con il termine swarming, traducibile in italiano con “brulicare”, “pullulare”. 8 Su questi temi, cfr. D. Masciandaro, La finanza internazionale, la criminalità e il terrorismo, in B. Biancheri (a cura di), Il nuovo disordine globale. Dopo l’11 settembre, Milano, Università Bocconi, 2002, pp. 129-137 e L. Napoleoni, Terrorismo S.p.a. (2005), Milano, Il Saggiatore, 2008. Sugli ostacoli che 89 La formazione di Osama Bin Laden costituisce una minaccia alla sicurezza occidentale per vari motivi. In primo luogo, essa coniuga la rivendicazione di una visione fondamentalista della religione islamica con l’esercizio della violenza su scala internazionale. Questo approccio la distingue non solo dalla schiera di fedeli musulmani moderati, che hanno operato una sintesi tra tradizione religiosa e modernità, ma anche dal generico filone del salafismo (da salaf, termine che indica gli antenati pii), che difende le origini e i fondamenti dell’Islam dalla corruzione del tempo e dalla contaminazione con altre culture, ma senza per questo abbracciare le armi9. Il richiamo alla religione esercita peraltro un notevole fascino sui potenziali seguaci, sedotti dalle immagini vivide, dalla narrazione di scontri epocali, dal confronto fra opposizioni assolute10. In secondo luogo, in linea con la tradizione dell’estremismo islamico mediorientale, gli strateghi qaedisti indirizzano la propria lotta contro nemici definiti sul piano politico-statuale. Oltre al patrimonio di valori e costumi riconducibili all’astratta nozione di “Occidente”, bersaglio delle azioni terroristiche sono – in termini assai più concreti – alcuni Stati e regioni del mondo. Per il tramite di Ayman al-Zawahiri, Al Qaeda eredita lo schema duale proprio del fondamentalismo egiziano, elaborato da Mohammed Abd al-Salam Faraj tra gli anni Settanta e Ottanta. Secondo questa impostazione, esistono due tipi di nemici: quello “vicino”, rappresentato dai governi moderati dell’area mediorientale, accusati di “empietà” per aver sacrificato l’unità della comunità musulmana sull’altare del nazionalismo arabo e aver consentito la diffusione di ideali occidentali, nonché l’insediamento israeliano in Medio Oriente; quello “lontano”, individuato nello Stato d’Israle e, in un secondo momento, nelle potenze occidentali, e negli Stati Uniti in particolare, che sostengono i regimi giudicati corrotti11. concretamente si frappongono alle autorità che perseguono il finanziamento del terrorismo, si veda in particolare S. Dambruoso, Milano-Bagdad. Diario di un magistrato in prima linea nella lotta al terrorismo islamico in Italia, Milano, Mondadori, 2004, pp. 108-112. 9 La terminologia varia a seconda degli autori: B. Lewis, Il suicidio dell'islam. In che cosa ha sbagliato la civiltà mediorientale (2002), Milano, Mondadori, 2002, si concentra sulla polemica tra fondamentalisti e moderati; O. Roy, Global muslim. Le radici occidentali nel nuovo islam (2002), Milano, Feltrinelli, 2003, ritaglia all’interno del salafismo la categoria del jihadismo, connotata dell’accostamento di tradizionalismo e violenza (pp. 103-111); R. Guolo, Il partito di Dio. L’Islam radicale contro l’Occidente, Milano, Guerini, 2004, parla di un generico islamismo, in cui sono compresi i neotradizionalisti, che sposano la via pacifica e il parlamentarismo, e i radicali, che puntano a conquistare il potere con le armi (pp. 65-69); Migaux, Le radici dell’islamismo radicale, cit., separa il fondamentalismo, ispirato al rispetto letterale dei testi sacri, dall’islamismo, che ne teorizza le conseguenze politiche (p. 269). 10 Questa specifica funzione della religione è posta in rilievo da M. Juergensmeyer, Terroristi in nome di Dio. La violenza religiosa nel mondo (2000), Roma-Bari, Laterza, 2003, pp. 159-163. 11 F.A. Gerges, The Far Enemy. Why Jihad Went Global, Cambridge, Cambridge University Press, 2005, pp. 43-79. Sul fondamentalismo egiziano cfr. G. Kepel, Il profeta e il faraone. I fratelli musulmani alle origini del movimento islamista (1984), Roma-Bari, Laterza, 2006. Sulla sua confluenza in Al Qaeda e sulle ragioni 90 In questo senso, l’emergere della dimensione transnazionale del terrorismo qaedista sarebbe determinato dall’alleanza fra vari gruppi jihadisti (egiziani, sauditi, afghani, ecc.) che condividono il progetto di superare il frazionamento della Umma islamica in Stati nazionali, attraverso la ricostruzione dell’antico califfato che riunisca l’intera comunità dei fedeli. La difficoltà di raggiungere l’obiettivo rovesciando dall’interno i governi filooccidentali, riscontrata negli anni Novanta, indurrebbe Al Qaeda a colpire gli Stati Uniti per indebolire i regimi moderati. Una lettura alternativa, per la verità, assegna una funzione meno strumentale al cambio di strategia. L’attacco all’America, realizzato con un’escalation che va dagli attentati alle ambasciate in Kenya e Tanzania del 1998 all’11 settembre, sarebbe l’effetto di una reazione contro il paese che ha osato violare i confini della terra consacrata all’Islam. Nel corso della guerra del Golfo del 1991, infatti, l’Arabia Saudita ha acconsentito a ospitare sul proprio territorio truppe statunitensi, rifiutando invece l’offerta di protezione avanzata dalle milizie di Bin Laden. In quest’ottica, gli Stati Uniti non sono semplicemente un partner del nemico principale, ma assumono le fattezze della potenza occupante, come lo stesso sceicco saudita li descrive nei propri interventi12. L’interpretazione di Al Qaeda richiama elementi diversi e per certi versi antinomici, dal cui intreccio scaturisce un’immagine complessa del terrorismo contemporaneo. L’appartenenza all’universo fondamentalista implica la condivisione di una battaglia condotta sul piano dei princìpi e dei costumi, della cultura e della società, che ha come bersaglio lo stile di vita dell’Occidente secolarizzato e in particolare i suoi tratti più libertari, consumistici, edonistici13. Con questo motivo si interseca un ragionamento più propriamente politico, collegato ai rapporti fra i governi laici del mondo arabo e gli Stati Uniti. In una prima e più moderata accezione, questi ultimi sono nemici del fondamentalismo nella misura in cui concorrono a sostenere e a mantenere in vita i regimi che impediscono la riunificazione della comunità musulmana. Secondo una tesi più della leadership del saudita Bin Laden, si veda D. Cook, Storia del jihad. Da Maometto ai giorni nostri (2005), Torino, Einaudi, 2007, pp. 205-209. 12 Si vedano gli interventi di Bin Laden raccolti in O. Saghi, Osama Bin Laden, l’icona di un tribuno, in G. Kepel e J.-P. Milelli (a cura di), Al-Qaeda. I testi (2005), Roma-Bari, Laterza, 2006, pp. 5-84. Secondo Esposito, Guerra santa?, cit., per Bin Laden l’episodio del 1991 è tanto significativo da «trasformare completamente la sua vita» (p. 12). 13 Cfr. I. Buruma e A. Margalit, Occidentalismo. L’occidente agli occhi dei suoi nemici (2004), Torino, Einaudi, 2004, che – specularmente a quanto fatto dal celebre E. Said, Orientalismo (1978), Torino, Bollati Boringhieri, 1991 – denuncia l’opera di manipolazione subita dall’immagine occidentale, mistificata da parte orientale sulla scia di stereotipi coniati in passato da pensatori antilluministi occidentali (per una critica a questa lettura, cfr. C. Pasquinelli, Occidentalismi, introduzione a Ead. (a cura di), Occidentalismi, Roma, Carocci, 2005, pp. 10-11). A. Appadurai, La globalizzazione dal basso nell’epoca dell’ideocidio (2002), in Id., Sicuri da morire, cit., pp. 111-133, legge l’11 settembre attraverso la categoria dell’«ideocidio» e dunque come tentativo di annullamento della diversità, del pluralismo, dei valori occidentali. 91 radicale, gli Stati Uniti sono direttamente responsabili dell’oppressione delle masse islamiche, perpetrata attraverso un’effettiva occupazione militare di parte del territorio in cui esse vivono e, più in generale, con politiche imperialistiche verso il mondo arabo14. L’ideologia e l’azione qaedista recano i segni di una visione fortemente globale delle dinamiche politiche, sociali, economiche, militari15. Gruppi armati nati in contesti territorialmente localizzati, come le guerre civili e regionali scoppiate dopo il 1989, sono ora in condizione di esportare la violenza al di fuori dei confini entro cui la si credeva contenuta16. Il modo in cui Al Qaeda opera e recluta militanti denuncia l’anacronismo del “partigiano”, inteso schmittianamente come figura esemplare del combattente delle “nuove guerre” degli anni Novanta, guerriero irregolare ma pur sempre portatore di un elemento “tellurico” (tellurisch) che lo connette a un territorio17. Coerenti con questa caratterizzazione del fenomeno qaedista, irrispettoso delle frontiere geografiche e ideali, sono anche il ricorso a mezzi ipertecnologici e concepiti nei paesi avanzati per diffondere il terrore18, e la prossimità del jihadismo con alcuni concetti tipici del pensiero politico occidentale (“avanguardia”, “totalitarismo”, “fascismo”, ecc.), su cui insistono alcuni 14 Con questa opinione convergono di fatto gli intellettuali occidentali che, con toni e argomenti differenti, accusano l’amministrazione americana di aver provocato la reazione jihadista: C. Johnson, Gli ultimi giorni dell'impero americano (2000), Milano, Garzanti, 2001 elabora la nozione di «contraccolpo» (blowback), ribadita in Id., Le lacrime dell’impero. L’apparato militare industriale, i servizi segreti e la fine del sogno americano (2004), Milano, Garzanti, 2005, e su cui tornano P.M. Thornton e T.F. Thornton, Contraccolpo, in J. Collins e R. Glover (a cura di), Linguaggio collaterale. Retoriche della «guerra al terrorismo» (2002), Verona, Ombre corte, 2006, pp. 56-63 e, criticamente, Sageman, Understanding Terror Networks, cit., pp. 56-59; S. Zunes, La scatola esplosiva. La politica americana in Medio Oriente e le radici del terrorismo (2003), Milano, Jaca Book, 2003; M. Crenshaw, Why Is America the Primary Target? Terrorism as a Globalized Civil War?, in Kegley (ed.), The New Global Terrorism, cit., pp. 165-172. Cfr. anche la nozione di “sindrome autoimmunitaria” sviluppata da J. Derrida, Fede e sapere. Le due fonti della «religione» nei limiti della semplice ragione, in Id. e G. Vattimo (a cura di), La religione, Roma-Bari, Laterza, 1995, pp. 3-72, e rievocata dal filosofo francese nell’ottobre del 2001, sottolineando come l’11 settembre appaia doppiamente suicida: per il sacrificio degli attentatori, ma anche per i danni prodotti agli Stati Uniti da militanti islamisti addestrati, armati, finanziati, sfruttati per anni dalle autorità americane (G. Borradori, La filosofia del terrore. Dialoghi con Jurgen Habermas e Jacques Derrida, Roma-Bari, Laterza, 2003, pp. 102-108). Si veda infine M. Scheuer, L'arroganza dell'impero (2004), Milano, Tropea, 2005, che viceversa – da “falco” – imputa alla hybris statunitense la sottovalutazione del nemico e gli errori nella politica mediorientale, eccessivamente prudente. Il medesimo concetto utilizza L. Bazzicalupo, Superbia. La passione dell’essere, Bologna, Il Mulino, 2008, pp. 116-117, per qualificare la “superbia” della superpotenza americana dopo l’11 settembre. 15 Cfr. in argomento C. Galli, Guerra globale, Roma-Bari, Laterza, 2002, Roy, Global Muslim, cit., pp. 118125, Id., L’impero assente. L’illusione americana e il dibattito strategico sul terrorismo (2002), Roma, Carocci, 2004, pp. 57-73 e F. Khosrokhavar, I nuovi martiri di Allah (2002), Milano, B. Mondadori, 2003, pp. 177-250. 16 Allo shock che questa scoperta produce nell’opinione pubblica occidentale, abituata a ragionare in termini di spazi chiusi e protetti e a disinteressarsi di ciò che accade al di fuori del proprio vicinato, dedica alcune considerazioni D. Gregory, The Colonial Present. Afghanistan, Palestine, Iraq, Oxford, Blackwell, 2004, pp. 248-262. 17 Schmitt, Teoria del partigiano, cit. 18 R. Scruton, L'Occidente e gli altri. La globalizzazione e la minaccia terroristica (2002), Milano, Vita e Pensiero, 2004, p. 99. 92 studiosi19. La deterritorializzazione che la logica globale porta con sé sembra tuttavia attenuata dalla presenza, nel linguaggio qaedista, di retoriche politiche imperniate sull’idea di sovranità su un territorio e di liberazione dall’occupante20. Si tratta di una lettura che, applicando disinvoltamente le categorie tipiche della modernità europea alla cultura politica islamista, corre il rischio di produrre effetti distorcenti, ma si rivela comunque preziosa poiché ammonisce circa la scarsa linearità del processo di globalizzazione del terrorismo. Per completezza, è opportuno dare conto della tesi dell’economista Loretta Napoleoni, che declina il motivo della lotta di liberazione in chiave prevalentemente economica. L’islamismo violento di gruppi come Al Qaeda sarebbe il veicolo attraverso cui una neonata classe imprenditoriale mediorientale, a lungo vessata dalla dominazione coloniale, cercherebbe di rovesciare i rapporti economici internazionali. Attraverso il finanziamento delle formazioni terroristiche, essa tenterebbe di costruire un sistema economico alternativo e competitivo con quello occidentale. Si assisterebbe cioè alla saldatura fra una nuova e spregiudicata élite economica e le masse, agli occhi delle quali il riferimento religioso appare un potente fattore identitario, sfruttato come strumento di propaganda e reclutamento da parte della leadership21. 19 Sulle analogie con la teoria rivoluzionaria marxista-leninista attirano l’attenzione G. Kepel, The War for Muslims Minds. Islam and the West, London, Belknap Press of Harvard University Press, 2004, p. 5; Beck, Lo sguardo cosmopolita, cit., pp. 148-149; Roy, Global Muslim, cit., pp. 21-24. Di «totalitarismo senza stato» parla V.E. Parsi, Introduzione a Townshend, La minaccia del terrorismo, cit., p. 9. Il parallelismo fra islamismo e fascismo è tracciato da P. Berman, Terrore e liberalismo. Perché la guerra al fondamentalismo è una guerra antifascista (2003), Torino, Einaudi, 2004. Secondo J. Gray, Al Qaeda e il significato della modernità (2003), Roma, Fazi, 2004, questo accostamento ha senso solo a patto di non di ridurre il fascismo a espressione di interessi conservatori, cogliendone anzi la componente rivoluzionaria e collocandolo in continuità con il nucleo della modernità – la fiducia incondizionata nella capacità del soggetto di intervenire sul mondo e adeguarlo alla propria visione della realtà – che si rintraccia anche nel fondamentalismo qaedista (pp. 23-28). 20 Su questo tasto batte R. Pape, Morire per vincere. La logica strategica del terrorismo suicida (2005), Bologna, Il Ponte, 2007, che assimila l’esperienza di Al Qaeda a quella di tutte le altre formazioni terroristiche che utilizzano l’arma del suicidio per indurre il nemico ad allontanarsi da un territorio (pp. 73-81 e pp. 135-163). Sul punto concordano nella sostanza: D. Zolo, Le ragioni del «terrorismo globale», «Iride», a. XVIII, n. 46, settembre-dicembre 2005, pp. 487-489; S. Holmes, Al Qaeda, in D. Gambetta (ed.), Making Sense of Suicide Missions, Oxford, Oxford University Press, 2005, p. 164; G. Kepel, Fitna. Guerra nel cuore dell’Islam (2004), Roma-Bari, Laterza, 2006, secondo cui gli islamisti accusano l’Occidente di occupazione materiale o simbolica (p. 135); B. Lewis, La crisi dell’islam. Le radici dell’odio contro l’Occidente (2003), Milano, Mondadori, 2005, a giudizio del quale una parte dei militanti di Al Qaeda uscirebbe di scena una volta respinto l’invasore, non avendo altri obiettivi da perseguire (pp. 147-148). La solidarietà verso la condizione dei palestinesi – popolazione oppressa per antonomasia – si riscontra massicciamente nelle parole dei qaedisti maghrebini intervistati da F. Khosrokhavar, Quand al-Qaïda parle. Témoignages derrière les barreaux, Paris, Grasset, 2006. 21 Napoleoni, Terrorismo S.p.a., cit., pp. 138-147 e pp. 162-183. 93 3.2 Il dibattito sulla guerra in Afghanistan e sull’uso della forza contro il terrorismo Questo è l’inedito e sfaccettato scenario di fronte al quale la comunità internazionale si ritrova quasi improvvisamente nel settembre del 200122. In un sistema tanto interdipendente da indurre alcuni commentatori a sviluppare il concetto di “politica interna del mondo”23, la circostanza che l’attacco sia geograficamente limitato agli Stati Uniti non mette al riparo gli altri attori dalle conseguenze imprevedibili che esso è suscettibile di determinare. Si comprende facilmente la solerzia con cui le istituzioni dell’Unione europea intervengono sul tema. La prima occasione utile è il dibattito parlamentare straordinario tenuto all’indomani degli attentati. È il ministro degli Esteri belga Louis Michel, presidente di turno del Consiglio, a leggere in aula a Bruxelles la dichiarazione adottata dall’Unione: Il Consiglio dell’Unione europea, riunitosi oggi in sessione straordinaria alla presenza del Segretario generale dell’Alleanza atlantica, ha espresso orrore per gli attentati terroristici perpetrati ieri ai danni degli Stati Uniti. Il Consiglio ha ribadito al governo degli Stati Uniti e al popolo americano la sua piena e totale solidarietà in questi tragici momenti e ha espresso la sua più sentita partecipazione a tutte le vittime e alle loro famiglie. Noi chiediamo a tutti gli europei di osservare tre minuti di silenzio venerdì 14 settembre alle 12.00, dichiarando inoltre il 14 settembre 2001 giornata di lutto. Questi atti esecrabili costituiscono un attacco non solo contro gli Stati Uniti, ma contro tutta l’umanità ed i valori e le libertà che tutti ci accomunano. La vita e il funzionamento delle nostre società aperte e democratiche proseguiranno senza vacillare. L’Unione condanna con la massima fermezza gli autori e i mandanti di questi atti di barbarie. L’Unione e i suoi Stati membri si impegneranno al massimo per contribuire ad identificare, portare dinanzi alla giustizia e punire i responsabili. I terroristi e i loro mandanti non troveranno rifugio in alcun luogo. L’Unione agirà in stretta collaborazione con gli Stati Uniti e con tutti coloro che li appoggiano per combattere il terrorismo internazionale. Dovranno partecipare a tale lotta tutte le organizzazioni internazionali, ed in particolare le Nazioni Unite. Devono altresì trovare pieno impiego tutti gli strumenti internazionali pertinenti, compresi quelli che affrontano la questione del finanziamento del terrorismo. La Comunità e i suoi Stati membri hanno offerto agli Stati Uniti tutta l'assistenza possibile nelle operazioni di ricerca e salvataggio. Sono in corso 22 Secondo Z. Sardar e M.W. Davies, Perché il mondo detesta l’America? (2002), Milano, Feltrinelli, 2003, la scoperta che sulla scena internazionale si muovono attori portati a disprezzare a tal punto gli Stati Uniti e i loro valori è sconvolgente innanzi tutto per i cittadini americani, infatuati dell’idea che il modello USA si concili senza attriti con l’esigenza della pacifica convivenza umana. Essi non coglierebbero la natura artificiale di tale costruzione ideologica. 23 L’espressione è introdotta nel dibattito pubblico dal fisico e filosofo tedesco Carl Friedrich von Weiszäcker e divulgata da J. Habermas, L’inclusione dell’altro. Studi di teoria politica (1996), Milano, Feltrinelli, 1998, p. 139, p. 163 e p. 169 e Id., La costellazione postnazionale. Mercato globale, nazioni e democrazia (1998), Milano, Feltrinelli 2000, pp. 24-26 e pp. 90-101. Si veda in proposito la discussione ospitata sulla rivista «Teoria politica» nel 2001-2002 (L. Bonanate, 2001: la politica interna del mondo, a. XVII, n. 1, 2001, pp. 3-25; L. Ferrajoli, Per una sfera pubblica del mondo, a. XVII, n. 3, 2001, pp. 3-21; A. Caffarena, Considerazioni sulla politica interna del mondo, a. XVIII, n. 2, 2002, pp. 85-103). 94 discussioni per stabilire quali forme di aiuto siano più utili. Ricordando i forti legami che da lungo tempo uniscono l’Unione europea e gli Stati Uniti, il Consiglio ha chiesto alla Presidenza di restare in stretto contatto con il governo americano per trasmettergli questo messaggio di solidarietà24. Il testo concordato dai leader europei è rilevante soprattutto nel passaggio in cui interpreta le azioni di Al Qaeda come «atti di barbarie» rivolti contro «tutta l’umanità» e «i valori e le libertà» in cui tutti si riconoscono. L’idea di fondo, rafforzata dagli interventi dei capigruppo delle principali forze politiche, è che con gli Stati Uniti sia stato contemporaneamente sfregiato il «mondo civile» in cui i popoli si sforzano di vivere pacificamente, attraverso istituzioni democratiche. Lungi dal ricercare motivazioni politiche o cause strutturali che possano spiegarli, gli europei si trovano sostanzialmente concordi sulla “mostruosità” degli avvenimenti. Quanto ai rimedi, va sottolineato il riferimento di Michel alla necessità di «identificare», «portare dinanzi alla giustizia» e «punire» i responsabili degli attentati, secondo un’impostazione chiaramente giudiziaria della lotta al terrorismo. Anche su questo punto assentono i rappresentanti dei partiti europei, alcuni dei quali – per lo più a sinistra – precisano di considerare fuori luogo e addirittura controproducente l’eventualità che gli Stati Uniti decidano di «rispondere al terrore con il terrore»25, attaccare paesi sospetti «aggiungendo torto a torto»26 o reagire «con una risposta folgorante, ma dalle conseguenze incalcolabili»27. Lo spettro che si aggira per l’Europa, su cui i gruppi di centro-destra non prendono una posizione esplicita, è la possibilità che l’amministrazione Bush – convinta che i vertici di Al Qaeda non si potranno catturare con tradizionali operazioni di polizia – decida di rispondere all’azione dei terroristi sferrando un attacco militare contro l’Afghanistan (base logistica dell’organizzazione di Bin Laden), come pare suggerire l’accenno di Michel alla presenza del segretario generale della NATO al vertice europeo. Un’indicazione nella medesima direzione viene dalle analisi che individuano nell’attacco dell’11 settembre un atto di “guerra”, intendendo con tale termine una forma inedita di violenza, esercitata da un soggetto non statale ma di portata così elevata (si pensi ai 3000 morti delle torri gemelle) da non potersi classificare come un qualsiasi atto di terrorismo28. 24 Parlamento europeo, Discussioni, in APE, seduta del 12 settembre 2001, intervento di Louis Michel. Ivi, intervento dell’on. Barón Crespo (PSE). 26 Ivi, intervento dell’on. Hautala (Verdi). 27 Ivi, intervento dell’on. Wurtz (Sinistra europea). 28 Ivi, intervento dell’on. Cox (liberaldemocratici). Sul piano scientifico-accademico, cfr. A. Panebianco, Di fronte alla guerra, «Il Mulino», a. L, n. 6, novembre-dicembre 2001, pp. 1000-1001, che ribadisce una definizione inclusiva di guerra – confronto fra «organizzazioni politico-militari» – già proposta altrove 25 95 Un intervento più articolato è il Piano d’azione adottato in occasione del Consiglio europeo straordinario del 21 settembre, che costituisce una pietra miliare nella storia della lotta europea al terrorismo, benché la lettura dell’11 settembre, in linea con quella emersa a caldo, non ne esplori le ragioni politiche: la minaccia del terrorismo fondamentalista è inaccettabile innanzi tutto sul piano etico, poiché tocca «la coscienza di ciascun essere umano» e ricorre ad «atti inumani»29. È tuttavia significativo che i capi di Stato e governo, raccogliendo spunti affacciatisi nei documenti degli anni precedenti ma rimasti sulla carta, riconoscano di fatto i limiti dell’ingessata struttura istituzionale a pilastri e sanciscano l’esigenza che l’Ue «intensifich[i] il suo impegno contro il terrorismo mediante un approccio coordinato e interdisciplinare che abbracci tutte le politiche dell’Unione», nel «rispetto delle libertà fondamentali su cui si fonda la nostra civiltà»30. Il Piano d’azione comprende i settori della cooperazione giudiziaria e di polizia e l’azione esterna, affianca strumenti giuridici ed economici, postula la convivenza di mezzi civili e militari, grazie allo sviluppo della PESC e della PESD per «prevenire e stabilizzare i conflitti regionali»31. Pur eludendo formalmente l’ostacolo della definizione del terrorismo, l’approccio del Consiglio europeo lascia intendere di considerarlo sia come minaccia “interna”, sia come pericolo per la sicurezza “esterna”. Si rendono quindi indispensabili misure operative, giudiziarie, di polizia sul territorio dell’Unione, ma anche una forma di profilassi di tipo diplomatico e – se necessario – di carattere militare nei confronti di alcune aree del mondo, da cui possono partire offensive contro gli Stati membri e la loro popolazione. Sul piano istituzionale, in virtù della complessità del compito e forse dell’idea che al momento sia preminente la dimensione esterna della minaccia, è il Consiglio Affari Generali – che riunisce i ministri degli Esteri – a ricevere l’incarico «di svolgere un ruolo di coordinamento e di impulso in materia di lotta contro il terrorismo»32. (sezione politologica di A. Cassese, A. Panebianco e M. Silvestri, Guerra, in AAVV, Enciclopedia delle scienze sociali, vol. IV, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1994, p. 466), e W. Sofsky, Rischio e sicurezza (2005), Torino, Einaudi, 2005, p. 10. 29 Consiglio europeo, Conclusioni della Presidenza e Piano d’azione, Bruxelles, 21 settembre 2001, doc. SN 140/01, p. 1 (http://www. consilium.europa.eu/cms3_applications/applications/newsroom/LoadDocument.asp ?directory=it/ec/&filename=concl-bxl.i1.pdf). Sviluppo in questa sede alcune considerazioni svolte in S. Quirico, Il Consiglio europeo e la lotta al terrorismo. L’evoluzione politico-istituzionale (2001-2005), in F. Di Sarcina, L. Grazi e L. Scichilone (a cura di), Res Europae. Attori, politiche e sfide dell’integrazione europea, Firenze, CET, 2010, pp. 229-240. 30 Consiglio europeo, Conclusioni della Presidenza e Piano d’azione, cit., p. 1 31 Ivi, p. 3. 32 Ibidem. Sul rilancio dell’azione antiterroristica europea a partire dall’autunno del 2001, si vedano in generale: D. Spence (ed.), The European Union and Terrorism, London, J. Harper, 2007; J. Monar, The European Union as an International Security Actor: Challenge and Response in the Fight against Terrorism, in U. Morelli (ed.), A Constitution for the European Union: Sovereignty, Representation, Competences, Constituent Process. Proceedings of the International Conference, Torino, November 22nd and 23nd, 2002, 96 A livello interno il Piano d’azione fa riferimento ai progetti di provvedimenti sulla definizione di reato terroristico e sul mandato di arresto europeo, già annunciati dal commissario Vitorino il 5 settembre, di cui si dirà nel prossimo paragrafo. In termini di relazioni internazionali la scena è dominata dalla sempre più probabile guerra in Afghanistan. Il Consiglio europeo decide di rifarsi alla risoluzione delle Nazioni Unite del 12 settembre 2001, che richiede un impegno comune per assicurare i responsabili alla giustizia e annuncia la disponibilità a compiere i «passi necessari» per rispondere agli attacchi, con una formula che pare ammettere l’eventualità dell’intervento armato33. I leader europei riconoscono che «[in] base alla risoluzione 1368 del Consiglio di sicurezza una reazione americana è legittima», offrendo l’appoggio degli Stati membri per «azioni […] mirate e […] dirette anche contro gli Stati che aiutassero, sostenessero o ospitassero terroristi»34. Pur facendosi scudo con un linguaggio generico, gli europei non si oppongono alla prospettiva di un’azione militare in Afghanistan, di cui le autorità americane parlano da giorni e a cui i singoli paesi europei sono disponibili a prendere parte, «ciascuno secondo i propri mezzi»35. Attorno ai valori comuni e sotto l’egida delle Nazioni Unite, si tratta inoltre di dare vita a una coalizione con gli altri Stati che si assumano l’onere di lottare a tutto campo contro il terrorismo. A questo scopo, già enunciato dall’Alto Rappresentante PESC Javier Solana in un articolo del 13 settembre36, le istituzioni europee si prodigano senza sosta. Accanto a Solana, il presidente della Commissione Romano Prodi, il commissario alle Relazioni esterne Chris Patten e il ministro degli Esteri belga Michel sono protagonisti di una serie di viaggi e incontri con gli interlocutori interessati a partecipare alla lotta al terrorismo, in cui si esprime la componente «volontaristica» dell’impegno europeo37. Su pressione dei Milano, Giuffrè, 2005, pp. 207-233, poi aggiornato in Id., Anti-Terrorism Law and Policy: the Case of the European Union, in V.V. Ramraj, M. Hor e K. Roach (eds.), Global Anti-Terrorism Law and Policy, Cambridge, Cambridge University Press, 2005, pp. 425-452; M. Den Boer, 9/11 and the Europeanisation of AntiTerrorism Policy: a Critical Assessment, Groupement d’Études et de Recherches «Notre Europe», Policy Paper n. 6, September 2003 (http://www.notre-europe.eu). Il lettore italiano può consultare anche i preziosi Rapporti sull’integrazione europea curati annualmente dalla Fondazione Istituto Gramsci e dal Centro Studi di Politica Internazionale (CeSPI). 33 United Nations – Security Council, Resolution 1368 (2001), 12 September 2001, doc. S/RES/1368 (2001), disponibile all’indirizzo web: http://www.studiperlapace.it/view_news_ html?news_id=20050122123225. 34 Consiglio europeo, Conclusioni della Presidenza e Piano d’azione, cit., p. 1. 35 Ibidem. 36 J. Solana, A Broad Consensus against Terrorism, «Financial Times», 13 September 2001, ora in M. Rutten (ed.), From Nice to Laeken. European Defence: Core Documents. Volume II, Paris, Institute for Security Studies, Chaillot Paper n. 51, April 2002, pp. 145-146. 37 L’espressione è utilizzata al cospetto del Parlamento europeo dal ministro belga Annemie NeytsUyttenbroek, cfr. Parlamento europeo, Discussioni, in APE, Strasburgo, seduta del 24 ottobre 2001. Si vedano inoltre Consiglio dell’Unione europea, Nota di trasmissione del Comitato dei Rappresentanti Permanenti, Bruxelles, 5 ottobre 2001, in RCUE, doc. 12515/01 e Id., Nota di trasmissione del Comitato dei 97 governi europei, gli Stati Uniti accettano inoltre di applicare, per prima volta nella storia atlantica, le disposizioni previste dall’articolo 5 del Trattato NATO, relativo all’assistenza da parte di tutti gli alleati a favore dello Stato colpito da un attacco armato sul proprio territorio. Il che non è irrilevante, poiché implica l’assimilazione tra l’azione di Al Qaeda e gli atti di guerra, avvenuta su richiesta dei paesi europei38. In cambio, l’amministrazione Bush ottiene dagli alleati l’adozione di alcune misure operative, grazie alle quali i mezzi NATO potranno trovare ospitalità sul territorio europeo, varcarne liberamente lo spazio aereo e accedere a porti e aeroporti39. Preso atto dell’armonia regnante nelle relazioni transatlantiche, anche il Parlamento fornisce il proprio avallo all’iniziativa militare. La risoluzione approvata il 4 ottobre si premura solo di ricordare come «tutte le azioni debbano essere adeguate e mirate, onde evitare danni a civili innocenti e ai loro beni»40. Ancor più significativa risulta la sostanziale assenza – anche a sinistra – di un reale dissenso nei confronti dell’ormai imminente attacco. Nel gruppo socialista, il presidente Barón Crespo si dichiara soddisfatto del clima collaborativo in sede NATO; il deputato greco Katiforis definisce addirittura «scontato» il sostegno del PSE alla linea complessiva scelta dal Consiglio europeo; l’olandese Van den Berg si accontenta di auspicare una reazione «proporzionata» all’offesa41. A nome dei Verdi, l’on. Lannoye si compiace per l’ampiezza della coalizione42. I dubbi sollevati nella seduta parlamentare del 12 settembre sembrano superati, una volta ricevute garanzie sulle modalità dell’azione. L’unico intervento critico è svolto dal greco Alyssandrakis, deputato della sinistra radicale, che, distinguendosi dalla maggior parte dei suoi stessi compagni, si scaglia contro la scelta americana di ricorrere alla guerra, attingendo tuttavia a una serie di argomentazioni – tra cui le accuse di terrorismo di Stato e imperialismo – più compatibili con un aprioristico antiamericanismo Rappresentanti Permanenti, Bruxelles, 15 ottobre 2001, in RCUE, doc. 12853/01. Nella coalizione così costituita il sociologo americano Amitai Etzioni intravede l’embrione di una possibile Autorità globale per la sicurezza (Global Security Authority), in grado di affrontare con successo le minacce transnazionali (From Empire to Community. A New Approach to International Relations, New York-Basingstoke, Palgrave Macmillan, 2004, p. 109 e p. 123 in particolare). 38 Si noti che, in documenti stilati negli anni precedenti, i due livelli erano considerati distinti: il summit atlantico del 1999 indicava infatti le azioni terroristiche come fattispecie differenti dagli attacchi armati cui si riferivano gli accordi del 1949, e considerava le forze NATO un potenziale bersaglio del terrorismo, anziché uno strumento per combatterlo. Cfr. North Atlantic Council Summit, Final Comuniqué, Washington (DC), 24 April 1999, in M. Rutten (ed.), From St-Malo to Nice. European Defence: Core Documents, Paris, Institute for Security Studies, Chaillot Paper n. 47, May 2001, p. 28 e p. 36. 39 Statement to the Press by NATO Secretary-General, Lord Robertson, Brussels, 4 October 2001, in Id. (ed.), From Nice to Laeken, cit., p. 155. 40 Parlamento europeo, Risoluzione del Parlamento europeo sulla riunione straordinaria del Consiglio europeo del 21 settembre 2001 a Bruxelles, in APE, Strasburgo, 4 ottobre 2001. 41 Id., Discussioni, in APE, seduta del 3 ottobre 2001. 42 Ivi, intervento dell’on. Lannoye. 98 che con una valutazione circostanziata della vicenda43. L’azione da tempo programmata ha inizio il 7 ottobre 2001 con una serie di bombardamenti aerei del territorio afgano44. A dispetto dell’evidenza, i documenti ufficiali Ue conservano una certa ritrosia nell’impiegare il termine “guerra”, preferendogli locuzioni più sfumate, come «operazioni militari»45. Tale tendenza risponde probabilmente alla volontà di non urtare, per lo meno sul piano lessicale, la suscettibilità dei settori dell’opinione pubblica europea assestati su posizioni pacifiste, figlie della speranza che il XX secolo si sia congedato trascinando con sé, nella pattumiera della storia, gli orrori che lo hanno segnato, a partire dai lutti provocati dalle (o associati alle) due guerre mondiali46. L’appoggio delle istituzioni europee alla condotta americana non è tuttavia in discussione, come confermerà il Parlamento nel settembre 2002, con una risoluzione che rimarcherà il carattere «necessario» dell’intervento in Afghanistan47. In realtà, nella società civile europea e occidentale il dibattito sulla guerra afghana è assai articolato e destinato a trascinarsi per mesi, delineando uno spettro di posizioni più ampio e plurale rispetto a quello delle istituzioni Ue. Problematica, agli occhi di numerosi osservatori, si presenta infatti l’espressione “guerra al terrorismo”, adottata dall’amministrazione Bush nella fase successiva agli attentati per mobilitare la popolazione contro il nuovo pericolo, dipinto come piaga sociale da combattere senza tregua e con strumenti complementari (di politica estera, di politica interna e di carattere ideologico48). In questo senso, la formula appare sì una metafora modellata sulla nixoniana “guerra alla 43 Ivi, intervento dell’on. Alyssandrakis. Cfr. la parziale consonanza di queste osservazioni con quelle di A. Burgio, Guerra. Scenari della nuova grande trasformazione, Roma, DeriveApprodi, 2004, pp. 37-81. 44 M. Shaw, L'occidente alla guerra. La tentazione dell'interventismo (2004), Milano, Egea, 2006, spiega la scelta della guerra aerea alla luce del nuovo approccio bellico occidentale, volto a minimizzare le perdite umane fra le forze militari (pp. 110-115 in particolare). Le modalità dell’attacco all’Afghanistan forniscono al politologo Christopher Coker lo spunto per discutere la plausibilità di una guerra «senza guerrieri»: si vedano Waging War without Warriors? The Changing Culture of Military Conflict, Boulder-London, Lynner Rienner, 2002 e The Future of War. The Re-Enchantment of War in the Twenty-First Century, Oxford, Blackwell, 2004. 45 Cfr. Dichiarazione dei Capi di Stato e di Governo dell’Unione europea e del Presidente della Commissione. Il seguito degli attentati dell’11 settembre e la lotta contro il terrorismo, Bruxelles, 19 ottobre 2001, doc. 4296/2/01 REV 2, p. 1, disponibile all’indirizzo web: http://www.consulium.europa.eu/cms3_ applications/applications/newsroom/LoadDocument.asp?directory=it/ec/&filename=ACF7C2.pdf. 46 Sulla volontà di “uscire dal Novecento”, motivata innanzi tutto dalla memoria della violenza che lo ha dominato e orientata alla ricerca delle tracce di una nuova solidarietà umana, si veda M. Revelli, Oltre il Novecento. La politica, le ideologie e le insidie del lavoro, Torino, Einaudi, 2001, in particolare la parte I. 47 Parlamento europeo, Risoluzione del Parlamento europeo sulla situazione in Afghanistan, Strasburgo, 5 settembre 2002, in APE, doc. P5_TA (2002) 0407, punto A. 48 Si veda la tripartizione tra «guerra interna», «guerra esterna» e «guerra delle idee» teorizzata da D. Frum e R. Perle, Estirpare il male. Come vincere la guerra contro il terrore (2003), Torino, Lindau, 2004. 99 droga”49, ma possiede nel contempo una consistenza reale, testimoniata dalle operazioni compiute principalmente in Afghanistan50. Suscita perplessità la decisione di attaccare un’organizzazione terroristica ricorrendo a un repertorio di azioni tipicamente militari, la cui potenza di fuoco, per quanto chirurgico possa risultarne l’uso, si rovescia sull’Afghanistan e sulla sua popolazione più che sulle strutture e i responsabili di Al Qaeda. Nella lettura dello studioso Benjamin Barber, la strategia statunitense pare ridursi alla sostituzione dei bersagli «appropriati ma invisibili», i terroristi, con quelli «impropri ma visibili», vale a dire Stati come l’Afghanistan o, in modo ancora meno giustificato, l’Iraq nel 200351. Secondo il sociologo Zygmunt Bauman, l’impossibilità di collegare la minaccia a un territorio definito, effetto del processo di globalizzazione, indurrebbe l’amministrazione Bush a compiere il tentativo estremo – la guerra a uno Stato – di radicare e ingabbiare in una logica locale e territoriale un nemico che a quel giogo intende sfuggire52. Altre critiche sono rivolte al linguaggio che accompagna la preparazione e lo svolgimento del conflitto. L’utilizzo del termine “crociata”, di cui Bush è costretto a scusarsi attraverso i propri collaboratori53, e di una retorica particolarmente assertiva lasciano trasparire l’impressione che il governo USA veda nella guerra non tanto il mezzo per punire i responsabili di un atto specifico, quanto l’occasione per affermare la superiorità di un modello sociale, di uno stile di vita, di una tradizione culturale rispetto a cui il nemico – proprio come i barbari nell’immaginario della polis greca o della Roma imperiale – è 49 R. Glover, Guerra a…, in Collins e Glover, Linguaggio collaterale, cit., pp. 119-132. In tutt’altro contesto, l’espressione è ripresa dal magistrato Gian Carlo Caselli per designare l’attività svolta dalle autorità italiane contro il terrorismo di sinistra negli anni Settanta e Ottanta (Le due guerre. Perché l’Italia ha sconfitto il terrorismo e non la mafia, Milano, Melampo, 2009). 50 L’ambivalenza del concetto – in parte metafora, in parte guerra in senso stretto – è evidenziata da K. Roth, The Law of War in the War on Terror, «Foreign Affairs», vol. LXXXIII, n. 1, January-February 2004, pp. 27, M. Bovero, Introduzione. Pensare gli squilibri del terrore, in Id. e Vitale (a cura di), Gli squilibri del terrore, cit., pp. 18-19 e A.M. Macleod, The War against Terrorism and The «War» against Terrorism, in S.P. Lee (ed.), Intervention, Terrorism, and Torture. Contemporary Challenger to Just War Theory, Dordrecht, Springer, 2007, pp. 187-202. Mezzi e risorse militari sono utilizzati anche in altre aree del mondo, attraverso missioni svolte nel Mediterraneo orientale (dal 2001), nelle Filippine (2002), in Georgia (20022004), nel Corno d’Africa (dal 2002), oltre a pattugliamenti lungo le frontiere con Canada e Messico (dal 2001). Cfr. A. Politi, Gli aspetti strategico-militari della lotta al terrorismo, in A. Colombo e N. Ronzitti (a cura di), L’Italia e la politica internazionale. Edizione 2005, Bologna, Il Mulino, 2005, pp. 62-67. Ho volutamente espunto dall’elenco il caso iracheno, di cui mi occuperò più avanti. 51 B. Barber, L’impero della paura. Potenza e impotenza dell’America nel nuovo Millennio (2003), Torino, Einaudi, 2004, p. 11. 52 Z. Bauman, La società sotto assedio (2002), Roma-Bari, Laterza, 2003, pp. 97-101. 53 B. Woodward, La guerra di Bush (2002), Milano, Sperling & Kupfer, 2003, p. 88. Il volume, che rievoca in chiave giornalistica le prime fasi della “guerra al terrorismo”, è giudicato da parte della critica oltremodo benevolo nei confronti dell’operato delle autorità americane. 100 inevitabilmente estraneo e in condizione di minorità e soggezione54. L’attivismo internazionale americano, in cui tale orientamento si traduce, pare smentire l’impressione suscitata dai primi mesi di presidenza repubblicana, durante i quali il gruppo dirigente mostrava scarsa attenzione per la politica estera, se non per svincolarsi da impegni assunti dai predecessori democratici in varie sedi multilaterali (gli accordi di Kyoto, il trattato sulla non proliferazione dei missili balistici, ecc.)55. La trasformazione di Bush in “presidente di guerra”, nonostante le critiche indirizzate in campagna elettorale all’eccessivo internazionalismo di Clinton, è uno degli effetti più evidenti dell’11 settembre56. Oggetto del contendere è, infine, la legittimità stessa dell’intervento armato in Afghanistan. Alcuni giuristi mettono in causa la compatibilità di quella guerra con il diritto internazionale, non essendo intercorsa un’evidente legittimazione da parte dell’ONU e apparendo discutibile la prassi di considerare lo Stato afghano un aggressore57. In quest’ottica, sarebbe stato preferibile un intervento diretto delle Nazioni Unite, immaginato come operazione di polizia internazionale e finalizzato a consegnare gli artefici dell’attentato alla Corte penale internazionale58. Su questa dimensione del problema, pur in 54 Sull’autorappresentazione degli Stati Uniti come campioni della civiltà contrapposta alla barbarie, si veda soprattutto P. Hassner, The United States: The Empire of Force or the Force of Empire, Paris, Institute for Security Studies, Chaillot Paper n. 54, September 2002, p. 12, testo successivamente raccolto nell’antologia La terreur et l’empire. La violence et la paix II, Paris, Seuil, 2003, pp. 160-206. L’argomentazione era già presentata in Id., La violence et la paix. De la bombe atomique au nettoyage ethnique, Paris, Esprit, 1995, p. 15, che rimandava a J.-C. Rufin, L’Empire et les nouveaux barbares, Paris, J.-C. Lattès, 1991. In proposito, cfr. anche M.A. Llorente, Civiltà contro barbarie, in Collins e Glover (a cura di), Linguaggio collaterale, cit., pp. 44-54. 55 Per una sintesi di quel periodo, si veda I.H. Daalder e J.M. Lindsay, America senza freni. La rivoluzione di Bush (2003), Milano, Vita e Pensiero, 2005, pp. 83-103. A cavallo del cambio di amministrazione, si registrava inoltre una certa sottovalutazione del potenziale pericolo terroristico (cfr. R. Clarke, Contro tutti i nemici (2004), Milano, Longanesi, 2004, p. 256). 56 Sulla linea anticlintoniana della campagna repubblicana, cfr. C. Rice, Compaign 2000: Promoting the National Interest, «Foreign Affairs», vol. LXXIX, n. 1, January-February 2000, pp. 45-62. Secondo R. Cagliero, Prefazione a Collins e Glover (a cura di), Linguaggio collaterale, cit., i tratti assunti dal Presidente USA dopo l’11 settembre appartengono più propriamente all’idealtipo del «padre di famiglia» – caratteristico della destra paternalistica e tradizionale che chiede sacrifici alla cittadinanza in cambio di protezione – anziché a quello strettamente militare del «comandante in capo», su cui numerosi interpreti insistono (p. 14 e nota 25 a p. 17). 57 Si vedano i ragionamenti di A. Di Blase, Guerra al terrorismo e guerra preventiva nel diritto internazionale, in L. Bimbi (a cura di), Not in my name. Guerra e diritto, Roma, Editori riuniti, 2003, pp. 142-151; A. De Guttry e F. Pagani, Sfida all’ordine mondiale. L’11 settembre e la risposta della comunità internazionale, Roma, Donzelli, 2002, pp. 55-78; M.R. Allegri, Dopo l’11 settembre: diritto internazionale e Unione Europea, in Ead., G. Anzera e F. Bordonaro, La potenza incompiuta, cit., pp. 103-110, che distingue chiaramente fra giustificazione giuridica e consenso politico (p. 109). 58 L. Ferrajoli, La guerra e il futuro del diritto internazionale, in Bimbi (a cura di), Not in my name, cit., pp. 233-238. Sul punto si mostra critico M. Walzer, Dopo l’11 settembre: cinque domande sul terrorismo (2002), ora in Id., Sulla guerra (2004), Roma-Bari, Laterza, 2006, sottolineando che la celebrazione di un processo penale prima dello smantellamento totale della rete terroristica moltiplicherebbe eccessivamente i rischi di una escalation di attentati, rapimenti e altre azioni cruente (pp. 135-136). 101 presenza di voci dissonanti, tra cui Noam Chomsky59, una rappresentanza consistente del mondo intellettuale americano si schiera a sostegno dell’amministrazione Bush. Sul piano simbolico, l’atto più tangibile è l’elaborazione di un documento firmato da sessanta personalità di differente formazione e orientamento, tra cui Jean B. Elshtain, Amitai Etzioni, Francis Fukuyama, Samuel Huntington, Michael Novak e Michael Walzer60. Il paradigma filosofico-politico di riferimento è quello della “guerra giusta”, all’interno del quale sono individuati i principali argomenti a favore dell’azione militare. Walzer, tra i maggiori esperti della materia, spiega in un breve saggio del 2002 che l’individuazione della responsabilità di Al Qaeda e il legame tra quest’ultima e i talebani rendono la guerra afghana «certamente giusta»61. In un volume del 2003, Elshtain sottopone l’intervento del 2001 alla verifica del modello teorico, traendone confortanti conclusioni. Da un lato, esso rispetta i criteri validi per lo jus ad bellum: l’obiettivo è punire gli ideatori dell’11 settembre e prevenire nuovi attacchi; il Consiglio di Sicurezza dell’ONU è stato avvertito; la guerra si presenta come risorsa estrema, dopo che gli altri mezzi sono stati vagliati – solo sul piano logico-strategico, non essendo obbligatorio esperirli sul campo – e scartati. Dall’altro, in termini di jus in bello, le operazioni in Afghanistan rendono omaggio al principio di proporzionalità e osservano, per quanto possibile, le distinzioni tra civili e militari, combattenti e non combattenti, circostanza che le legittima nel confronto con il terrorismo indiscriminato di Al Qaeda62. Fra queste potenziali obiezioni, l’unica che preoccupa le istituzioni Ue è il rischio che la campagna antiterroristica – a causa di un’eccessiva ruvidezza e semplificazione della comunicazione – finisca per incrinare i rapporti con gli interlocutori arabi e musulmani. Il monito a non demonizzare l’intero mondo islamico, ricorrente nei testi del Consiglio e nelle discussioni parlamentari fin dai primi giorni successivi agli attentati, è teso a evitare che la raffigurazione del terrorismo come forma di “barbarie” possa trasformarsi in un’arma retorica funzionale al temuto “scontro di civiltà”. 59 La produzione del noto linguista e polemista statunitense subisce un’impennata in seguito all’11 settembre, benché le pubblicazioni – in alcuni casi raccolte o riedizioni di singoli interventi – risultino nel complesso ridondanti e ripetitive. Si vedano fra gli altri: N. Chomsky, 11 settembre (2001), Milano, Tropea, 2001, Id., Linguaggio e politica. Riflessioni sul mondo dopo l'11 settembre, Roma, Di Renzo, 2002, Id., Dopo l’11 settembre. Potere e terrore (2003), Milano, Tropea, 2003, Id., Pirati e imperatori. Reagan, Bush I, Bush II, la guerra infinita al terrorismo (2002), Milano, Tropea, 2004 e Id., Egemonia o sopravvivenza (2003), Milano, Tropea, 2005. Altri testi saranno specificamente richiamati in seguito. 60 What We’re Fighting For, New York, Institute for American Values, February 2002, pubblicato anche in appendice a J.B. Elshtain, Just War against Terror. The Burden of American Power in a Violent World, New York, Basic Books, 2003, pp. 193-218. 61 M. Walzer, Dopo l’11 settembre, cit., p. 135. 62 Elshtain, Just War against Terror, cit., pp. 57-70. 102 La conduzione della guerra, che produce una vittoria militare relativamente rapida e forse ingannevole, si rivela meno collegiale del previsto. In virtù del marcato divario tecnologico tra gli alleati, è quasi fisiologico che le decisioni strategiche principali siano assunte dagli USA in sostanziale autonomia, anche nei confronti della Gran Bretagna, la cui aviazione partecipa attivamente ai bombardamenti63. A fronte della tanto celebrata invocazione dell’art. 5 NATO, l’offerta europea di cooperazione militare resta priva di conseguenze pratiche64. A ciò si aggiunge, stando alla denuncia del capogruppo popolare al Parlamento europeo Hans-Gert Pöttering, la tentazione dei grandi Stati membri di convocare vertici ristretti durante la crisi afghana, coinvolgendo anche il presidente del Consiglio di turno, Guy Verhofstadt, e dando così l’idea di favorire una deriva direttoriale della politica europea di difesa65. Nel giro di poche settimane, le potenze occidentali si trovano a dover gestire un complicato dopoguerra. L’iniziale rinuncia a truppe di terra è indicata dagli esperti come uno di vizi di origine di una situazione destinata a divenire nel tempo drammatica: i capi di Al Qaeda, nonché parte delle milizie talebane, riescono a scampare agli attacchi aerei e a riparare in zone meno accessibili, rimaste sotto il loro controllo66. Di conseguenza, il territorio afghano è quasi immediatamente immerso in una guerra non convenzionale, scandita da azioni di guerriglia e terrorismo, in opposizione alle quali le forze occidentali sono chiamate a operazioni di controinsurrezione67. In ottemperanza agli accordi di Bonn 63 Sulle ragioni dell’asimmetria tra i partner atlantici, cfr. A. Locatelli, La Rivoluzione negli Affari Militari e le relazioni transatlantiche: tendenze, problemi, prospettive, in V.E. Parsi, S. Giusti e A. Locatelli (a cura di), Esiste ancora la comunità transatlantica?, Milano, Vita e Pensiero, 2006, pp. 163-185. Sulle sue conseguenze in occasione della guerra afghana, si vedano i rilievi di C. Jean, La guerra in Afghanistan, in Biancheri (a cura di), Il nuovo disordine globale, cit., p. 67 e C. Kupchan, La fine dell’era americana. Politica estera americana e geopolitica nel ventunesimo secolo (2002), Milano, Vita e Pensiero, 2003, pp. 277-278. 64 Cfr. Missiroli, L’Unione fa la forza, cit., p. 255 e R. Menotti e P. Brandimarte, L’iniziativa europea nelle aeree di crisi: l’ora delle decisioni più difficili, in R. Gualtieri e F. Pastore (a cura di), L’Unione europea e il governo della globalizzazione. Rapporto 2008 sull’integrazione europea, Bologna, Il Mulino, 2008, p. 63. 65 Si veda l’intervento di Pöttering in Parlamento europeo, Discussioni, in APE, Bruxelles, seduta del 14 novembre 2001. Per la verità, come emerge nel corso del dibattito, alle riunioni partecipa anche la delegazione dei Paesi Bassi, non esattamente una potenza di rilevanza mondiale. Il presidente Verhofstadt, inoltre, dichiara di aver preventivamente consultato gli altri Stati membri, ricevendo il mandato di accettare l’invito e recarsi agli incontri in compagnia dell’Alto Rappresentante Solana. 66 W. Clark, Vincere le guerre moderne. Iraq, terrorismo e l’impero americano (2003), Milano, Bompiani, 2004, pp. 151-153. Di «capolavoro difettoso» parla M.E. O’Hanlon, A Flawed Masterpiece, «Foreign Affairs», vol. LXXXI, n. 3, May-June 2002, pp. 47-63. 67 Si veda in merito H.S. Rothstein, Afghanistan and the Future of Unconventional Warfare, New Dehli, Manas, 2006, secondo cui il passaggio dalla guerra convenzionale a quella non convenzionale coincide con il crollo talebano a metà del dicembre 2001 (pp. 12-13). Sulla guerra al terrorismo come confronto fra tattiche insurrezionali e controinsurrezionali, cfr. R.M. Cassidy, Counterinsurgency and the Global War on Terror. Military Culture and Irregular War, Stanford, Stanford University Press, 2008. Il medesimo problema è affrontato anche da W. Chin, «Enduring Freedom». A Victory for a Conventional Force Fighting an Uncon- 103 del 5 dicembre 2001, una coalizione di Paesi – che nel corso degli anni supererà le venti unità, annoverando i principali Stati membri dell’Unione europea, tuttavia afferenti uti singuli – invia forze militari nell’ambito della missione denominata ISAF (International Security Assistance Force), finalizzata alla protezione delle amministrazioni locali e internazionali e all’addestramento della nuova polizia e del futuro esercito afghani68. Tale contingente affianca quello a guida americana, incaricato di reprimere i riflussi terroristici e insurrezionali. Si determina così una ripartizione delle mansioni tra le forze ISAF e la rappresentanza militare statunitense69. In questo contesto, il terrorismo assume la forma di violenza territorialmente localizzata e adoperata da fazioni che non riconoscono il governo provvisorio filo-occidentale, il quale a sua volta rifiuta ogni accordo o trattativa con il nemico politico. Dal punto di vista economico, l’Ue stanzia 360 milioni di euro (di cui 106 provenienti dal bilancio CE) per gli aiuti umanitari70. Nel complesso, secondo le prime stime della Banca Mondiale, la ricostruzione del Paese comporterà investimenti per una cifra compresa tra i 14,6 e i 18,1 miliardi di dollari71. A tali previsioni si aggiungono gli scompensi legati alla coltivazione e al commercio di oppio, combattuti dalle autorità talebane per motivi ideologici e rifioriti nella fase di transizione postbellica. Vari osservatori individuano una possibile via di uscita nell’offerta di attività agricole alternative, scenario nell’ambito del quale la PAC comunitaria potrebbe ritagliarsi un certo margine d’azione72. ventional War, in T.R. Mockaitis e P.B. Rich (eds.), Grand Strategy in the War against Terrorism, London, Cass, 2003, pp. 57-76. 68 Consiglio europeo, Conclusioni della Presidenza, Laeken, 14-15 dicembre 2001, doc. SN 300/1/01 REV 1, pp. 4 (http://www.consilium.europa.eu/App/NewsRoom/loadDocument.aspx?id=347&lang=it&directory=it/ ec/&fileName=68836.pdf). 69 Si veda il resoconto dell’Informal Meeting of the Defence Ministers, Wiesbaden, 1º-2 March 2007, in C. Glière (ed.), EU Security and Defence. Core Documents 2007. Volume VIII, Paris, Institute for Security Studies, Chaillot Paper n. 112, October 2008, pp. 54-55. La divisione dei compiti, soprattutto in vista dell’assunzione da parte afghana della responsabilità dell’ordine pubblico, è sostenuta con convinzione da O. Roy, Afghanistan: la difficile reconstruction d’un État, Paris, Institut d’Études de Sécurité, Cahier de Chaillot n. 73, Décembre 2004, pp. 67-69. L’esiguità del contingente americano è rimarcata da R. Redaelli, Iraq e Afghanistan: i due dopoguerra, in Colombo e Ronzitti (a cura di), L’Italia e la politica internazionale, cit., p. 237. Sul tema dello state building in Afghanistan, cfr. M. Ignatieff, Impero light. Dalla periferia al centro del nuovo ordine mondiale (2003), Roma, Carocci, 2003, pp. 89-124. 70 Consiglio europeo, Conclusioni della Presidenza, Laeken, 14-15 dicembre 2001, cit., p. 4. 71 W. Maley, The Reconstruction of Afghanistan, in K. Booth and T. Dunne (eds.), Worlds in Collision. Terror and the Future of Global Order, New York, Palgrave Macmillan, 2002, pp. 185-187. 72 Si vedano Redaelli, Iraq e Afghanistan, cit., pp. 238-239, G. Giacomello, La lotta al terrorismo nell’Unione europea, in S. Giusti e A. Locatelli (a cura di), L’Europa sicura. Le politiche di sicurezza dell’Unione europea, Milano, Egea, 2008, p. 137, che cita una proposta di matrice britannica (A Double Spring Offensive, «The Economist», 24 February 2007, pp. 24-26), e M.S. Navias, Finance Warfare as a Response to International Terrorism, in L. Freedman (ed.), Superterrorism. Policy Responses, Oxford, Blackwell, 2002, pp. 57-79. 104 La ricostruzione del paese e delle sue istituzioni trascende il problema della lotta al terrorismo e impone alcune scelte di valore, tra le quali ha un significato peculiare il ruolo delle donne nella società afghana. Il tema schiude le porte al classico dissidio fra i sostenitori dell’universalità dei diritti, dei principi della democrazia liberale e dei valori faticosamente affermatisi nella cultura occidentale, e i fautori di un’impostazione di fatto relativista. In quest’ultima finiscono per riconoscersi tanto gli approcci sinceramente preoccupati dal carattere imperialistico insito nell’esportazione acritica degli standard occidentali, quanto quelli ispirati a una visione pragmatica e realista dei rapporti internazionali, per definizione poco interessata alla natura e alle dinamiche interne ai singoli regimi. In questo senso, è abbastanza diffuso il convincimento che, di fronte a rischi per la sicurezza e la stabilità collettiva, generati dal tentativo di educare al rispetto della donna un popolo che lo disconosce, tale progetto sarebbe sacrificato sull’altare degli interessi più generali, con buona pace – fra le altre – di Emma Bonino e delle parlamentari europee più entusiaste davanti alla prospettiva di una modifica degli equilibri di genere nel mondo araboislamico73. L’Afghanistan, in altri termini, non elude il principale nodo affrontato da ogni processo di ricostruzione nazionale condotto da potenze occidentali: il dilemma fra l’obiettivo di dare vita a una democrazia plurale, effettiva e riconoscibile, da un lato, e la necessità di assicurare la sopravvivenza e la stabilità del sistema, per esempio attraverso l’esclusione delle fazioni più violente dal governo provvisorio e dalla competizione elettorale, dall’altro74. La situazione afghana costituisce un incentivo affinché le istituzioni europee diano seguito a uno dei propositi più significativi contenuti nel Piano d’azione del settembre 2001, cioè l’utilizzo della PESD a fini antiterroristici. Il collegamento, effettivo o potenziale, fra instabilità regionale e terrorismo globale è uno degli elementi che rende particolarmente minacciosa l’azione di gruppi come Al Qaeda, che si insinuano nelle aree 73 Si veda in particolare Parlamento europeo, Discussioni, in APE, Bruxelles, seduta del 14 novembre 2001, intervento di Emma Bonino. Nella parte finale della seduta, una replica indiretta giunge dal deputato popolare Elmar Brok, presidente della Commissione per gli affari esteri, i diritti dell’uomo, la sicurezza comune e la politica di difesa, che invita genericamente i colleghi a rispettare le scelte operate da un autonomo governo afghano, «senza intrometter[si] nei dettagli», frase che può alludere – per la verità, in modo alquanto brutale – alle rivendicazioni del mondo femminile. Un invito alla prudenza, alla luce delle tradizioni culturali del Paese interessato, arriva anche da Roy, Afghanistan, cit., pp. 7-8. Un po’ provocatoriamente, E. Todd, Dopo l’impero. La dissoluzione del sistema americano (2002), Milano, Tropea, 2003, individua nel disprezzo manifestato dal femminismo anglosassone verso il mondo arabo-musulmano uno dei motivi che indurrebbero gli Stati Uniti a guardare con particolare interesse all’Afghanistan e all’intera regione (pp. 125-127). 74 Tale antinomia, da cui ne discendono svariate altre, è trattata da A.K. Jarstad and T.D. Sisk (eds.), From War to Democracy. Dilemmas of Peacebuilding, Cambridge, Cambridge University Press, 2008: i curatori giungono alla conclusione che l’opzione democratica costituisca il metodo migliore per ottenere una pace duratura nel lungo periodo. 105 critiche del pianeta – Stati in disfacimento, teatri di guerre civili, ecc. – per utilizzarle come covi in cui pianificare le proprie strategie e basi da cui sferrare gli attacchi. La gestione delle crisi locali e la stabilizzazione delle regioni turbolente, cui la PESC/PESD da qualche tempo ha l’ambizione di dedicarsi, non sono più concepiti come obiettivi a se stanti, ma come misure preventive contro l’insorgere del terrorismo75. Secondo quanto affermato da Solana e dal commissario Patten, l’Ue deve saper cogliere le insidie di tipo terroristico che si celano in piaghe come povertà, disuguaglianza, disagio sociale, instabilità, assenza di democrazia e dello Stato di diritto, insorgenza di conflitti76. Si tratta in sostanza di abbracciare una concezione della sicurezza più ampia, multidimensionale, eterodossa rispetto al tradizionale ruolo della difesa77. Per evitare che le riflessioni sulla trasversalità della lotta al terrorismo rispetto alle politiche europee assumano solo carattere declamatorio78, occorre trasporle nel corpus giuridico e procedurale dell’Ue. I leader europei esaminano l’opportunità di aggiornare il catalogo delle missioni di Petersberg, arricchendolo della lotta al terrorismo, come richiesto con insistenza dalla Spagna79. Il Consiglio europeo di Laeken ne prefigura un rafforzamento, senza tuttavia soffermarsi sul terrorismo80. Nell’aprile del 2002, è la proprio la presidenza spagnola a dover prendere atto che le divergenze fra gli Stati membri impongono di mantenere distinto l’ambito di Petersberg da quello dell’antiterrorismo81. Anche grazie alla pervicacia del primo ministro belga Verhofstadt, una delle figure più spiccatamente europeiste di questa fase storica, e al suo appello a recuperare lo «spirito di 75 Consiglio europeo, Conclusioni della Presidenza e Piano d’azione, cit., p. 3. Si vedano gli interventi di Patten in Parlamento europeo, Discussioni, in APE, Strasburgo, sedute del 12 dicembre 2001 e del 23 ottobre 2002 e J. Solana, «CFSP: The State of the Union», Paris, 1 July 2002, discorso alla Conferenza annuale organizzata dall’Istituto per gli Studi sulla Sicurezza, ora in J.-Y. Haine (ed.), From Laeken to Copenhagen. European Defence: Core Documents. Volume III, Paris, Institute for Security Studies, Chaillot Paper n. 57, February 2003, pp. 108-109. Cfr. inoltre Consiglio dell’Unione europea, Nota di trasmissione del Consiglio, Bruxelles, 11 dicembre 2001, in RCUE, doc. 15193/01, in cui anche la presidenza belga rimarca i vantaggi in termini di prevenzione e controllo del terrorismo derivanti da un miglioramento degli strumenti PESC/PESD nella gestione delle crisi (p. 3). 77 Si vedano Clementi, L’Europa e il mondo, cit., pp. 119-125 e R. Menotti, La politica di sicurezza europea tra la prima e la seconda amministrazione Bush: oltre l’alleanza atlantica, in G. Vacca (a cura di), Dalla Convenzione alla Costituzione. Rapporto 2005 della Fondazione Istituto Gramsci sull’integrazione europea, Bari, Dedalo, 2005, pp. 284-287. Cfr. inoltre G. Mounier, Civilian Crisis Management and the External Dimension of JHA: Inceptive, Functional and Institutional Similarities, «Journal of European Integration», vol. XXXI, n. 1, January 2009, pp. 45-64. 78 M. Clementi, L’Unione europea come attore della politica internazionale, in M. Ferrera e M. Giuliani (a cura di), Governance e politiche nell’Unione europea, Bologna, Il Mulino, 2008, pp. 315-317. 79 Cfr. Informal Meeting of Defence Ministers, Brussels, 12 October 2001, in Rutten (ed.), From Nice to Laeken, cit., pp. 156-157. 80 Consiglio europeo, Conclusioni della Presidenza, Laeken, 14-15 dicembre 2001, cit., p. 3 e p. 23. 81 Parlamento europeo, Discussioni, in APE, Strasburgo, seduta del 9 aprile 2002. Si veda anche Id., Risoluzione del Parlamento europeo sull’attuale situazione della politica europea di sicurezza e di difesa (PESD) e le relazioni tra l’UE e la NATO, Strasburgo, 10 aprile 2002, in APE, doc. P5_TA (2002) 0171, che invece chiede l’istituzione di un collegamento formale fra i due aspetti (punto 22). 76 106 Saint-Malo»82, la revisione dei compiti di Petersberg alla luce delle nuove minacce alla sicurezza sarà discussa all’interno della Convenzione chiamata a elaborare il progetto di Trattato costituzionale. Alla fine del travagliato percorso di quel testo, il Trattato di Lisbona firmato nel 2007 preciserà che tali missioni – disarmo, azioni umanitarie, prevenzione dei conflitti, stabilizzazione, ecc. – forniranno un contributo “indiretto” alla lotta al terrorismo, che si affiancherà alla possibilità di aiutare i Paesi impegnati a combattere il terrorismo sul proprio territorio (art. 28 B)83. Dal punto di vista istituzionale, in realtà, a conferire alla PESD un’effettiva competenza in materia di antiterrorismo è la Dichiarazione di Siviglia del giugno 2002. Si tratta infatti del documento che, almeno a livello di principio, scioglie in modo definitivo il nodo del rapporto fra lotta al terrorismo e mezzi militari. In tale occasione il Consiglio europeo autorizza il ricorso alle risorse PESD per combattere il fenomeno terroristico, alla luce dell’idea che «[promovendo] la stabilità […] l’UE contribuisce a impedire alle organizzazioni terroristiche di radicarsi»84. Per il futuro, si indicano sei settori prioritari per la dimensione esterna della lotta al terrorismo: a) la prevenzione dei conflitti; b) il dialogo politico e l’assistenza a Paesi terzi, coinvolgendo i temi del rispetto dei diritti umani, della democrazia e della non proliferazione degli armamenti; c) lo scambio di intelligence; d) la valutazione comune delle minacce; e) la protezione di forze impegnate nella gestione di crisi; f) la protezione delle popolazioni civili85. Il vertice di Siviglia certifica una nuova mutazione nell’approccio europeo al terrorismo: diventata ormai da tempo materia delle relazioni internazionali e della diplomazia, da questo momento in poi l’azione del terroristi è considerata una minaccia che si pone a cavallo degli ambiti civile e militare e che, di 82 Letter from Guy Verhofstadt, Brussels, 18 July 2002, in Haine (ed.), From Laeken to Copenhagen, cit., pp. 112-114. Di Verhofstadt si veda anche il successivo pamphlet Gli Stati Uniti d’Europa. Manifesto per una nuova Europa (2006), Roma, Fazi, 2006 e cfr. in proposito S. Quirico, La spiga più alta: l’idea di Europa di Guy Verhofstadt, «Storia e Politica», a. III, n. 3, 2011, pp. 925-947. 83 Unione europea, Trattato di Lisbona che modifica il Trattato sull’Unione europea e il Trattato che istituisce la Comunità europea, in GU C 306, 17 dicembre 2007, pp. 34-35. Sui principali interventi istituzionali del Trattato di Lisbona in ottica PESC/PESD, cfr. L.S. Rossi, Coerenza ed efficacia dell’azione esterna dell’Unione europea: le innovazioni previste dal Trattato di Lisbona, in Laschi e Telò (a cura di), L’Europa nel sistema internazionale, cit., pp. 289-303. Sull’approccio del Trattato costituzionale del 2004 alle missioni di Petersberg, si vedano: R. Matarazzo, Le strutture istituzionali della PESD, in Ronzitti (a cura di), Le forze di pace dell’Unione europea, cit., p. 43; Menotti, La politica di sicurezza europea fra la prima e la seconda amministrazione Bush, cit., pp. 284-287; Id. e P. Brandimarte, Il difficile cammino della Pesd: sviluppi e prospettive, in G. Vacca (a cura di), Il dilemma euroatlantico. Rapporto 2004 della Fondazione Istituto Gramsci sull’integrazione europea, Roma, Nuova Iniziativa Editoriale, 2004, che rilevano comunque la tendenza del testo a non affrontare in termini specifici le due principali minacce (il terrorismo e le armi di distruzioni di massa), perdendosi in discorsi eccessivamente generici sulla PESD (p. 247). 84 Consiglio europeo, Dichiarazione del Consiglio europeo sul contributo della PESC, compresa la PESD, alla lotta contro il terrorismo, allegato a Id., Conclusioni della Presidenza, in Consiglio dell’Unione europea, Nota di trasmissione alla Presidenza, Bruxelles, 24 ottobre 2002, in RCUE, doc. 13463/02, p. 33. 85 Ivi, pp. 33-34. 107 conseguenza, deve essere fronteggiata con strumenti che appartengono a entrambe le dimensioni. L’ultimo tassello necessario per completare il mosaico è il reperimento dei mezzi materiali con cui realizzare i progetti così tratteggiati. Negli ultimi mesi del 2002, Javier Solana – in passato segretario generale NATO – è incaricato di negoziare con l’Alleanza atlantica un accordo che consenta di utilizzare strumenti atlantici per le missioni PESD. L’intesa, che prende il nome di Berlin Plus, è ratificata dal Consiglio europeo di Copenaghen di dicembre, una volta chiarita la posizione di Paesi come la Turchia, membri a pieno titolo della comunità atlantica ma esterni all’Ue e protagonisti di un processo di adesione dagli esiti incerti86. A facilitare in qualche misura l’operazione è il parallelo allargamento delle due realtà: in occasione del vertice di Praga del novembre 2002, la NATO sollecita l’ingresso di Bulgaria, Estonia, Lituania, Lettonia, Romania, Slovacchia e Slovenia, ampliando la rappresentanza dell’Europa dell’Est e finendo per tracciare, su quel fronte, un confine identico a quello dell’Ue, ridisegnata fra il 2004 e il 200787. In concreto, all’Unione europea è garantito l’accesso alle capacità di pianificazione NATO, con cui potrà assumere il controllo e la direzione strategica dei dispositivi nel corso delle missioni. Al contrario, il comando formale di tali strumenti è posto presso il Supreme Headquarter Allied Powers Europe (SHAPE), rimanendo così espressione dell’autorità atlantica88. Ue e NATO avviano contestualmente forme di consultazione e coordinamento specifiche sulla lotta al terrorismo, che si concretizzano nelle riunioni fra comitati di funzionari ed esperti nel 2002-200389. 3.3 Il rilancio della cooperazione giudiziaria: una nuova nozione di terrorismo Sul fronte interno della lotta al terrorismo, che si inquadra nello SLSG, i governi 86 Consiglio europeo, Conclusioni della Presidenza, in Consiglio dell’Unione europea, Nota della Presidenza, Bruxelles, 29 gennaio 2003, in RCUE, doc. 15917/02, allegato II. Sul piano politico, la trattativa è sbloccata dalla nascita del governo Erdogan, che guida la Turchia su posizioni meno ostili alla contaminazione fra NATO e Ue (cfr. Missiroli, La difesa europea, cit., pp. 50-51). La denominazione Berlin plus è dovuta alla sede del summit NATO del 1996 che ha dato inizio al progetto. 87 Cfr. S. Frölich, L’Espansione della Comunità euroatlantica, in Parsi, Giusti e Locatelli (a cura di), Esiste ancora la comunità transatlantica?, cit., pp. 182-196 e Clementi, L’Europa e il mondo, cit., pp. 183-184. Sull’Alleanza atlantica in generale, cfr. Id., La NATO, Bologna, Il Mulino, 2002. 88 Si veda Monteleone, L’Unione europea tra prevenzione dei conflitti e intervento militare, cit., pp. 159-160. 89 Si vedano Consiglio dell’Unione europea, Nota di trasmissione del Consiglio, Bruxelles, 22 giugno 2002, in RCUE, doc. 10160/2/02 REV 2, p. 7, Id., Nota di trasmissione del Consiglio, Bruxelles, 18 dicembre 2002, in RCUE, doc. 15428/1/02 REV 1, p. 4 e Id., Nota del Consiglio, Bruxelles, 17 giugno 2003, in RCUE, doc. 10598/03, p. 5. Di terrorismo si tratta anche nei periodici vertici ministeriali Ue-NATO, cfr. per esempio NATO-EU Ministerial Meeting, Madrid, 3 June 2003, in A. Missiroli (ed.), From Copenhagen to Brussels. European Defence: Core Documents. Volume IV, Paris, Institute for Security Studies, Chaillot Paper n. 67, December 2003, pp. 97-98. 108 europei rispondono all’11 settembre proseguendo nello sviluppo del versante “operativo”, cioè il filone che – da TREVI in poi – si presenta come settore consolidato della cooperazione europea. Rientra in questo ambito l’opera di contrasto del finanziamento dei gruppi terroristici90, discussa nel corso del Consiglio GAI-Ecofin del 16 ottobre 2001: vertice la cui ibrida natura istituzionale dimostra la trasversalità della questione rispetto alla separazione fra politica ed economia su cui si regge l’Ue91. Accanto all’utilizzo a scopo di antiterrorismo della Task Force Azione Finanziaria (Financial Action Task Force, FATF), la principale misura è costituita dalla redazione e dal periodico aggiornamento di liste contenenti i nomi di persone fisiche e giuridiche sottoposte al congelamento dei beni collocati sul territorio dell’Unione92. Vale la pena precisare che l’approccio scelto prevede una differenziazione fra i gruppi prevalentemente attivi al di fuori dell’Ue, per cui le sanzioni finanziarie sono automatiche, e quelli “interni” – come l’ETA o l’IRA – nei confronti dei quali l’ultima parola resta agli Stati membri. La motivazione risiede con ogni probabilità nella volontà di concedere ai governi nazionali una certa libertà d’azione nei confronti degli esponenti del terrorismo domestico, a testimonianza della riluttanza a trasferire all’Ue le quote di sovranità legate alla sicurezza interna93. Il “metodo delle liste” sarà ben presto sottoposto a contestazione per la segretezza che, almeno nella prima fase, circonda la compilazione degli elenchi94 e per i ridotti strumenti detenuti dai soggetti coinvolti per dimostrare la propria estraneità95. Negli anni successivi saranno introdotti nuovi provvedimenti, tra cui si segnaleranno l’enucleazione di “un potere esteso di 90 Cfr. in generale: K.E. Davis, The Financial War on Terrorism, in Ramraj, Hor e Roach (eds.), Global AntiTerrorism Law and Policy, cit., pp. 179-198; M. Fiocca, Il terrorismo islamico come emergenza complessa: quali risposte e O. Cucuzza, Criminalità e terrorismo: l’impatto sull’economia, entrambi in Iid. e C. Jean, Terrorismo: impatti economici e politiche di prevenzione, Milano, F. Angeli, 2006, pp. 127-171 e pp. 173206 rispettivamente; V. FitzGerald, Global Financial Information, Compliance Incentives and Terrorist Funding, in T. Brück (ed.), The Economic Analysis of Terrorism, London-New York, Routledge, 2007, pp. 246-261; Napoleoni, Terrorismo S.p.a., cit. 91 Occhipinti, The Politics of EU Police Cooperation, cit., p. 157 e F. Pastore, The Asymmetrical Fortress: The Problem of Relations between Internal and External Security Policies in the European Union, in Anderson e Apap (eds.), Police and Justice Co-operation and the New European Borders, cit., p. 68. 92 Si vedano le posizioni comuni 2001/930/PESC e 2001/931/PESC, il regolamento 2580/2001 e la decisione 2001/927/CE del 27 dicembre 2001, tutti pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale del 28 dicembre 2001. 93 L’unica eccezione è rappresentata dall’Hofstadgroep, cellula islamista olandese autrice dell’assassinio del regista Theo Van Gogh (su tale episodio cfr. L. Vidino, Al Qaeda in Europe. The New Battleground of International Jihad, Amherst, Prometheus Books, 2006, pp. 337-364), inserita nella lista che comprende le formazioni extra-Ue. 94 Occhipinti, The Politics of EU Police Cooperation, cit., pp. 157-160 e pp. 179-180 e J.-C. Paye, La fine dello Stato di diritto (2004), Roma, Manifestolibri, 2005, p. 57. 95 Si vedano le diverse posizioni assunte da P. Bonetti, Terrorismo, emergenza e costituzioni democratiche, Bologna, Il Mulino, 2006, pp. 91-101, S. Dambruoso, Le basi normative della lotta al terrorismo internazionale, in F. Cappè, F. Marelli e A. Zappala (a cura di), La minaccia del terrorismo e le risposte dell'antiterrorismo, Milano, Angeli, 2006, pp. 147-150 e R. Barberini, Il giudice e il terrorista. Il diritto e le sfide del terrorismo globale, Torino, Einaudi, 2008, pp. 121-125. 109 confisca” (che consentirà di sequestrare beni non provenienti da reati, ma comunque funzionali allo svolgimento di attività terroristiche)96 e una più ampia strategia di lotta al finanziamento del terrorismo97. Un campo d’azione classico della cooperazione europea contro il fenomeno terroristico è lo scambio di informazioni. Grazie a decisioni assunte nel corso del decennio precedente, nel 2001-02 l’Unione può contare su due agenzie specializzate in queste funzioni. Europol ed Eurojust, quest’ultima operativa dalla primavera del 2002, contribuiscono a rendere più fluida la circolazione di dati e notizie fra le autorità giudiziarie e di polizia degli Stati membri. Dopo l’11 settembre, Europol – i cui poteri una maggioranza bipartisan del Parlamento europeo vorrebbe estendere98 – rivoluziona l’agenda dei propri impegni e istituisce una task force specializzata nell’antiterrorismo: la percentuale di informazioni relative a tale materia crescerà del 76% nel 200399, ma di lì a pochi mesi la task force sarà curiosamente smantellata. Anche nel caso di Eurojust il terrorismo diventa rapidamente una delle questioni prioritarie per l’agenzia, scontrandosi però con le difficoltà legate agli scarsi poteri di cui i suoi funzionari godono nei confronti dei loro interlocutori nazionali, che tendono talvolta a sottrarsi all’impegno alla condivisione delle informazioni100. L’aspetto da evidenziare è tuttavia un altro. Il grande impatto politico e mediatico degli attentati dell’11 settembre offre alle istituzioni Ue l’occasione per colmare due lacune che da tempo affliggono il processo d’integrazione: l’assenza di una definizione condivisa di terrorismo e l’impossibilità di assicurare l’estradizione dei responsabili di atti terroristici. Si è già notato come le misure destinate a risolvere le due aporie siano inserite 96 Il riferimento è al duplice progetto presentato dalla Danimarca nel giugno del 2002 (Consiglio dell’Unione europea, Nota di trasmissione, Bruxelles, 14 giugno 2002, in RCUE, doc. 9955/02 e Id., Nota di trasmissione, Bruxelles, 17 giugno 2002, in RCUE, doc. 9956/02), adottato – dopo serrate trattative – tra il 2005 e il 2006. 97 Id., Nota del Segretario generale/Alto Rappresentante e della Commissione, Bruxelles, 14 dicembre 2004, in RCUE, doc. 16089/04. 98 Parlamento europeo, Discussioni, in APE, Bruxelles, sedute del 19 settembre 2001, del 12 novembre 2001 e del 12 dicembre 2001. Si noti che il confronto fra forze europeiste (popolari e socialisti) ed euroscettiche fa premio sulle divisioni definite sull’asse destra-sinistra. 99 Consiglio dell’Unione europea, Nota dell’Europol, Bruxelles, 27 aprile 2004, in RCUE, doc. 8858/04, p. 5. 100 Cfr. su questo D. Flore, D’un reseau judiciaire européen à une juridiction pénale européenne: Eurojust et l’émergence d’un système de justice pénale, in G. De Kerchove et A. Weyembergh (éds.), L’espace pénal européen: enjeux et perspectives, Bruxelles, Editions de l’Université de Bruxelles, 2002, pp. 9-30. Nel 2002 la classifica dei reati vede in testa la frode (30%), seguita da traffico di stupefacenti (16%) e terrorismo (9%), cfr. Consiglio dell’Unione europea, Nota del Segretario generale, Bruxelles, 8 maggio 2003, in RCUE, doc. 9124/03, pp. 11-12. L’anno successivo, l’ordine cambia: i casi di traffico di stupefacenti raggiungono quelli di frode (22%) e gli interventi sul riciclaggio (8%) scavalcano quelli legati al terrorismo (6%), in presenza comunque di una crescita notevole (50%) del numero totale di reati trattati dall’agenzia (Id., Nota del Segretario generale, Bruxelles, 26 aprile 2004, in RCUE, doc. 8284/1/04 REV 1, pp. 31-34). 110 in calendario indipendentemente dall’offensiva di Al Qaeda, ma è indubbio che l’irruzione sulla scena del gruppo di Bin Laden abbia l’effetto di accrescerne la desiderabilità e accelerarne l’adozione101. La lotta europea al terrorismo abbandona così la veste di cooperazione prevalentemente tecnico-operativa e prende finalmente di petto alcune ambiguità politiche, giuridiche e ideali che ne hanno a lungo condizionato lo sviluppo. La definizione di terrorismo è oggetto di un progetto di decisione quadro presentata dalla Commissione il 19 settembre 2001, che manifesta l’intenzione di pronunciarsi non solo sugli «atti terroristici diretti contro gli Stati membri», ma anche sui «comportamenti adottati sul territorio dell’Unione europea che possono contribuire alla preparazione o alla realizzazione di atti terroristici in paesi terzi»102. Il terrorismo è introduttivamente tratteggiato come una minaccia per le libertà e i diritti fondamentali, come un «fenomeno antico» che recentemente ha però assunto forme inedite. La «crescente sofisticazione» e l’«ambizione feroce» dei terroristi, «gli sviluppi tecnologici» delle armi di offesa e l’«attività di reti che operano a livello internazionale»103 sono gli assi portanti di un “nuovo terrorismo” responsabile di attentati sempre più cruenti e sconcertanti. L’evoluzione in senso transnazionale del terrorismo mette una volta di più a nudo le «differenze di trattamento giuridico nei diversi Stati membri», dovute a legislazioni nazionali fra loro eterogenee. L’obiettivo essenziale della proposta è «rafforzare le misure di diritto penale relative alla lotta contro il terrorismo» e così «ravvicinare» gli ordinamenti degli Stati membri104. La Commissione procede dunque nel solco tracciato vent’anni prima dagli embrionali tentativi di cooperazione giudiziaria in materia penale, arrestatisi di fronte all’assenza di una volontà politica sufficiente a vincere le resistenze nazionali. Pur dividendosi sostanzialmente in due categorie – quelli che riconoscono il terrorismo come reato autonomo e quelli che lo riconducono a reati comuni –, i sistemi giuridici degli Stati concordano in fondo nell’assegnare un peso decisivo alle «motivazioni» degli attori105. Questo è il punto che la Commissione intende sviluppare per giungere a una definizione condivisa. La decisione quadro riconosce infatti l’esistenza di 101 Si vedano su questo G. De Kerchove, Préface a Bribosia e Weyembergh (éds.), Lutte contre le terrorisme et droits fondamentaux, cit., p. 9, Occhipinti, The Politics of EU Police Cooperation, cit., pp. 182-183 e F. Pastore, L’Europa della sicurezza interna. Sviluppi e problemi, in Vacca (a cura di), L’unità dell’Europa, cit., pp. 225-226. 102 Commissione delle Comunità europee, Proposta di decisione quadro del Consiglio sulla lotta contro il terrorismo, Bruxelles, 19 settembre 2001, in Registro on-line della Commissione europea (RCE, disponibile all’indirizzo web: http://ec.europa.eu/transparency/regdoc/recherche.cfm?CL=it), doc. COM (2001) 521, p. 2. 103 Ivi, p. 3. 104 Ibidem. 105 Ivi, p. 7. 111 una serie di comportamenti che possono essere tenuti a fini terroristici oppure presentarsi come reati comuni: omicidio, lesioni personali, sequestro, estorsione, rapina, vandalismo urbano, possesso o fornitura di armi, diffusione di sostanze pericolose, interruzione di servizi fondamentali, manomissione dei sistemi di informazione (e la minaccia di tutte le precedenti azioni). L’elemento discriminante è la volontà di chi li compie: sono terroristiche le azioni commesse «contro uno o più paesi, contro le loro istituzioni e popolazioni, a scopo intimidatorio e al fine di sovvertire o distruggere le strutture politiche, economiche o sociali del paese». Sono contestualmente enucleati – come reati specifici – la direzione, la creazione, il sostegno e la partecipazione a organizzazioni che mirino a tali obiettivi (art. 3)106. Si opera in tal modo una netta divaricazione fra terrorismo e criminalità ordinaria, fugando le incertezze che viceversa albergavano nelle formulazioni presenti nei Trattati e nei testi sullo SLSG elaborati nel corso degli anni Novanta107. La Commissione non arriva ovviamente a sdoganare l’interpretazione del terrorista come “perseguitato politico”, né a riconoscere o legittimare le ragioni profonde e le cause scatenanti del terrorismo. Ma la presa di coscienza che tale fenomeno si distingue dal crimine comune, proprio perché colpisce – accanto ai cittadini, alle persone, agli interessi privati – le «istituzioni» e punta a rovesciare «le strutture politiche, economiche e sociali», rappresenta in qualche modo un’attestazione della “politicità” dell’agire e degli scopi dei terroristi. In termini penali, però, questo elemento si traduce in un’aggravante, che implica l’adozione di sanzioni più dure di quelle comminate per i corrispondenti reati ordinari108. Riprendendo le considerazioni svolte nel capitolo precedente, si potrebbe affermare che la Commissione propone una nozione di terrorismo posta a cavallo fra società civile e Stato. È nella società civile che il fenomeno vede la luce, per le ragioni più varie, e si consolida fino a sentirsi in grado di sferrare un attacco allo “Stato”, qui inteso genericamente come la sfera politico-istituzionale i cui equilibri i terroristi cercano di alterare o ribaltare. Si noti peraltro come questa prima redazione del testo si muova entro l’orizzonte dominato dallo Stato-nazione: l’accento si posa sui «paesi» e sulle loro «popolazioni», ignorando i soggetti politico-istituzionali, economici e sociali di ordine 106 Ivi, p. 17. C. Fijnaut, Police Co-operation and the Area of Freedom, Security and Justice, in Walker (ed.), Europe’s Area of Freedom, Security and Justice, cit., p. 272. 108 Ciò non toglie che nella pratica la distinzione fra terrorismo e criminalità possa apparire più sfumata. Cfr. su questo: M. Anderson, What Future for Counter-Terrorism as an Objective of European Police Cooperation?, in Id. e Apap (eds.), Police and Justice Co-operation and the New European Borders, cit., p. 237; S. Dambruoso, Le basi normative della lotta al terrorismo internazionale, cit., pp. 143-144; Barberini, Il giudice e il terrorista, cit., pp. XVI e p. 181. 107 112 sovra- o transnazionale. Erigendo una barriera nei confronti del crimine comune, questa definizione di terrorismo scopre il fianco a critiche e rischi di segno opposto, emersi nel corso dell’iter di approvazione del provvedimento. Una casistica così ampia di reati, il cui tratto essenziale è la connessione con obiettivi fondamentalmente politici, potrebbe finire per ricomprendere (e quindi perseguire penalmente) fenomeni politici che con quelli terroristici non vorrebbero essere confusi. Tale scenario è messo in luce nel corso della riunione del CATS del 5-6 novembre 2001: per un verso, appare incerto il confine fra terrorismo e alcune attività belliche inserite in conflitti internazionali; per l’altro, la definizione potrebbe essere riferita anche a certe forme di pressione e contestazione esercitate nei confronti delle istituzioni dai movimenti politici o sociali che, soprattutto nelle loro versioni più estreme, si situano talvolta ai limiti della legalità, ma non per questo sono necessariamente etichettabili come terroristici109. Quanto al primo versante del problema, si affaccia immediatamente l’intenzione di integrare il testo con un passaggio volto a escludere esplicitamente l’accostamento tra terrorismo e operazioni di varia natura tipiche dei conflitti armati o delle aree militarmente occupate. Il secondo aspetto si annuncia più delicato, per di più in un frangente storico segnato dall’espansione dell’antagonismo sociale e dei gruppi che raccolgono e mobilitano il dissenso verso gli squilibri della globalizzazione110. Gli animi sono ulteriormente esacerbati dalla richiesta britannica di inserire un richiamo alla nozione di “dolo terroristico” contenuta nelle convenzioni ONU, che allude al generico «scopo di intimidire o di costringere un governo o un’organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere qualsiasi atto». Alla ricerca di un compromesso, la presidenza belga suggerisce di introdurre avverbi che restringano il campo, contemplando cioè gli obiettivi di «intimidire seriamente la popolazione», «costringere indebitamente i poteri pubblici o un’organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere qualsiasi atto» e 109 Consiglio dell’Unione europea, Risultati dei lavori del Comitato dell’articolo 36, Bruxelles, 8 novembre 2001, in RCUE, doc. 12647/2/01 REV 2, p. 2 e p. 9. 110 Si vedano, pur con accenti diversi: A. Dal Lago, Polizia globale. Guerra e conflitti dopo l’11 settembre, Verona, Ombre Corte, 2003, che contesta il concetto di «netwar», o guerra alle reti, con cui l’autorità costituita esalta un’asserita esigenza di sicurezza, tutelata attraverso l’assimilazione di terrorismo e antagonismo come questioni di ordine pubblico (pp. 71-90); Paye, La fine dello Stato di diritto, cit., pp. 4585; Occhipinti, The Politics of EU Police Cooperation, cit., pp. 133-135, Burgio, Guerra, cit., pp. 133-134; S. De Biolley, Liberté et sécurité dans la construction de l’espace européen de justice pénale, in De Kerchove e Weyembergh (sous la direction de), L’espace pénal européen, cit., p. 172 e pp. 183-186, che insiste sull’uso del diritto penale come strumento di controllo sociale e denuncia il tentativo compiuto nel 2002 dalla presidenza spagnola per connettere le sfere dell’antagonismo sociale e del terrorismo attraverso un formulario comune per lo scambio di informazioni (cfr. Consiglio dell’Unione europea, Nota della Presidenza, Bruxelles, 29 gennaio 2002, in RCUE, doc. 5712/02). 113 «compromettere gravemente, in altro modo o distruggere le strutture politiche, economiche o sociali di un paese o di un’organizzazione di diritto internazionale pubblico», senza eliminare con ciò una certa indeterminatezza di fondo111. Al termine di varie di oscillazioni lessicali, l’impasse è sbloccato da un intervento di carattere politico. Il Consiglio GAI del 16 novembre 2001 raggiunge l’accordo su una dichiarazione da allegare al testo del provvedimento: Il Consiglio dichiara che la decisione quadro sulla lotta contro il terrorismo riguarda atti che tutti gli Stati membri dell'Unione europea reputano essere gravissime violazioni delle loro legislazioni penali perpetrate da persone i cui obiettivi costituiscono una minaccia per le loro società democratiche che rispettano lo stato di diritto e i valori su cui si fondano dette società. Essa deve essere intesa in questo senso e non può essere interpretata in modo da sostenere che i comportamenti di coloro che hanno agito per preservare o ripristinare i suddetti valori democratici, come è avvenuto in particolare in taluni Stati membri durante la seconda guerra mondiale, possano ora essere considerati come atti di terrorismo. E nemmeno si può interpretare nel senso di giungere ad incriminare, per motivi di terrorismo, le persone che esercitano il loro legittimo diritto a manifestare le loro opinioni anche qualora esse commettano reati nell'esercitare detto diritto112. Si persegue così un duplice scopo: da un lato, si distingue il terrorismo dalle operazioni tipiche dei movimenti di resistenza, evocando l’esperienza dell’opposizione europea al nazifascismo113; dall’altro, ci si propone di venire incontro alle ragionevoli obiezioni di chi 111 Consiglio dell’Unione europea, Risultati dei lavori del Comitato dell’articolo 36, Bruxelles, 8 novembre 2001, cit., p. 9 (corsivi del redattore). Cfr. anche A. Weyembergh, L’impact du 11 septembre sur l’équilibre sécurité/liberté dans l’espace pénal européen, in Bribosia e Weyembergh (sous la direction de), Lutte contre le terrorisme et droits fondamentaux, cit., p. 167. 112 Consiglio dell’Unione europea, Risultati dei lavori del Consiglio GAI, Bruxelles, 19 novembre 2001, in RCUE, doc. 12647/4/01 REV 4, p. 3. 113 Dambruoso, Le basi normative della lotta al terrorismo internazionale, cit., voce isolata in un coro di consensi, prende le distanze da questo passaggio, che escluderebbe alcune condotte proprie della guerriglia e della guerra di liberazione che fanno leva sulla paura della popolazione e assumono quindi tratti terroristici (pp. 143-144). Tale considerazione è condivisibile sul piano concettuale, perché ricorda il possibile intreccio fra le tattiche terroristiche e quelle della guerra civile, della resistenza armata, ecc. D’altra parte, si tratta di valutare fino a che punto un’interpretazione di tipo storico-politico debba essere tradotta in termini giuridici: emerge cioè la distanza che separa l’attività dello studioso da quelle del legislatore e del giudice. Questo aspetto è indagato da C. Ginzburg, Il giudice e lo storico. Considerazioni a margine del processo Sofri, Milano, Feltrinelli, 2006 (aggiornamento della precedente edizione: Torino, Einaudi, 1991) che, muovendo dal caso concreto del processo a carico di Adriano Sofri, Giorgio Pietrostefani e Ovidio Bompressi per l’omicidio del commissario Luigi Calabresi, mette autorevolmente in luce le affinità e le divergenze fra il modo di operare della storiografia e quello della giustizia penale nella ricostruzione dei fatti, nella ricerca delle prove, nell’utilizzo delle fonti. Il punto che qui si vuole sottolineare è però un altro, che Ginzburg si limita a sfiorare, rilevando en passant il diritto dello storico a «scorgere un problema là dove un giudice deciderebbe un “non luogo a procedere”» (p. 20) e cioè che le discipline scientifiche individuano nessi di causa ed effetto, registrano dinamiche, raggruppano oggetti, soggetti ed eventi, attribuiscono patenti ed etichette secondo i criteri di valutazione e il linguaggio che paiono meglio descrivere la realtà, senza 114 difende strenuamente il diritto a manifestare il dissenso nell’arena pubblica. Nella medesima ottica devono essere interpretate alcune modifiche o integrazioni linguistiche apportate all’elenco dei reati nel testo finale, approvato formalmente solo nel giugno 2002: le lesioni inflitte devono essere «gravi» e i danneggiamenti a cose si trasformano in «distruzioni di vasta portata» che, al pari della diffusione di sostanze pericolose o degli incendi, devono «mettere a repentaglio vite umane o causare perdite economiche considerevoli»114. Vengono così accolte le considerazioni svolte dal Parlamento europeo sulla necessità di contenere gli effetti potenzialmente dirompenti del progetto iniziale sull’insieme delle libertà civili115. Di fronte alle critiche provenienti dalla Sinistra Europea, il commissario Vitorino difende il provvedimento, sottolineando che, alla luce degli emendamenti, l’impossibilità di ricorrere alla decisione quadro per perseguitare l’antagonismo sociale è ormai di «una chiarezza cartesiana» e intercettando su questa lettura il consenso della maggioranza dei parlamentari europei116. A completare il quadro definitorio arriverà qualche anno dopo una precisazione – implicita nella decisione quadro del 2002, che parla di «singoli individui» e «gruppi di individui» – volta a negare la sussistenza del concetto di “terrorismo di Stato”117. In parallelo con il processo decisionale appena descritto si compie anche la parabola del mandato di arresto europeo (d’ora in poi MAE), cioè lo strumento legislativo individuato come rimedio alla piaga della mancata estradizione dei terroristi. La storia degli ultimi decenni mostra come l’assenza di una definizione comune di reato terroristico abbia ricadute sulla possibilità di estradare i soggetti coinvolti negli attentati, le cui domande di asilo politico fanno leva sulla benevola disponibilità dei governi a riconoscere come dogma inviolabile il principio della “doppia incriminazione”, secondo cui uno Stato preoccuparsi dell’eventualità che le condotte studiate corrispondano o meno a reati punibili sulla base di un certo codice, prospettiva che, al contrario, vincola strettamente il giudice e il legislatore (nel nostro caso, l’Unione europea). Lo studioso, a differenza del giudice, può dunque permettersi di definire “terroristiche” le azioni di un soggetto senza che da ciò discendano conseguenze penali. 114 Consiglio dell’Unione europea, Atti legislativi e altri strumenti. Decisione quadro sulla lotta al terrorismo, Bruxelles, 18 aprile 2002, in RCUE, doc. 6128/02, pp. 6-7. 115 Parlamento europeo, Relazione sulla proposta della Commissione concernente la decisione quadro del Consiglio sulla lotta contro il terrorismo e sulla proposta della Commissione concernente la decisione quadro del Consiglio relativa al mandato d'arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri, Commissione per le libertà e i diritti dei cittadini, Relatore: G. Watson, 14 novembre 2001, in APE, doc. A50397/2001. 116 Id., Discussioni, in APE, Bruxelles, seduta del 28 novembre 2001, si vedano in particolare gli interventi di Vitorino e del deputato italiano Di Lello Finuoli in rappresentanza della Sinistra Unitaria Europea. Cfr. inoltre le valutazioni di taglio eminentemente giuridico, secondo cui occorre discernere fra le previsioni della decisione quadro e dei suoi articoli, e la dichiarazione politica d’indirizzo, il cui valore è decisamente più ridotto se non nullo (Bonetti, Terrorismo, emergenza e costituzioni democratiche, cit., pp. 101-107). 117 Consiglio dell’Unione europea, Nota del Segretariato, Bruxelles, 26 maggio 2003, in RCUE, doc. 9864/03, parzialmente declassificato con il doc. 9864/03 EXT 1 del 14 febbraio 2008, punto 9. 115 può rifiutare l’estradizione per un reato non previsto nel proprio ordinamento. Questo è anche il caso del terrorismo, almeno fino all’entrata in vigore della decisione quadro del 2002. Operando sinergicamente con quest’ultima, il MAE si propone di sottrarre ogni scappatoia ai terroristi e ai governi con loro solidali. Il progetto ha in realtà un raggio d’azione molto più ampio e generale, poiché nasce come misura destinata a intervenire su svariate categorie di reati, la maggior parte dei quali attribuiti alla delinquenza ordinaria. Dopo l’11 settembre, tuttavia, il testo acquisisce inevitabilmente una marcata carica antiterroristica, al punto da essere licenziato dalla Commissione insieme a quello sul reato di terrorismo118. L’elemento-cardine del provvedimento è l’applicazione del principio del reciproco riconoscimento, nel quale da più parti si individua non a torto la «pietra angolare»119 o la «chiave di volta»120 della costruzione dello spazio giuridico europeo all’inizio del nuovo millennio. L’esito di tale impostazione sarebbe la creazione di un canale diretto fra le autorità giudiziarie degli Stati membri, che gestirebbero la posizione degli imputati e dei condannati in autonomia pressoché totale dalle istituzioni politiche o amministrative degli Stati coinvolti. In concreto, la magistratura di uno Stato membro emetterebbe una richiesta di arresto (o consegna, nel caso la persona sia già detenuta) che i colleghi degli altri Stati Ue dovrebbero eseguire obbligatoriamente sul proprio territorio, in virtù dell’impegno generale a riconoscere le decisioni giudiziarie assunte negli altri ordinamenti europei. Il rifiuto dell’esecuzione sarebbe opponibile solo in alcuni casi determinati a priori, tra cui l’intervento di provvedimenti di amnistia, la sussistenza di immunità, il mancato rispetto del principio di competenza territoriale o di non duplicazione del giudicato (ne bis in idem) e la carenza di informazioni tecniche richieste dalla procedura. Nell’idea della Commissione, infine, il MAE sarebbe utilizzabile per tutti i reati, salvo quelli che ciascuno Stato decida di escludere per mezzo di un elenco preventivamente stilato (metodo della lista negativa). Tale possibilità è immaginata soprattutto in riferimento a questioni eticamente sensibili, come aborto o eutanasia, che alcuni paesi considerano reati e altri 118 Commissione delle Comunità europee, Proposta di decisione quadro del Consiglio relativa al mandato d''arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri, Bruxelles, 19 giugno 2001, in RCE, doc. COM (2001) 522. Una bozza di riforma della procedura di estradizione è stata precedentemente redatta dalla Svezia, allo scadere del proprio semestre di presidenza (Consiglio dell’Unione europea, Nota di trasmissione, Bruxelles, 13 giugno 2001, in RCUE, doc. 9750/01), ma ben presto superata dagli eventi. 119 Si veda in particolare l’intervento del commissario Vitorino in Parlamento europeo, Discussioni, in APE, Strasburgo, seduta dell’11 febbraio 2004. 120 Commissione delle Comunità europee, Comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento europeo sul reciproco riconoscimento delle decisioni giudiziarie in materia penale e il rafforzamento della reciproca fiducia tra Stati membri, Bruxelles, 19 maggio 2005, in RCE, doc. COM (2005) 195, p. 2. 116 hanno invece liberalizzato in seguito ad ampi dibattiti pubblici. Fatta salva questa clausola, non è contemplato alcun potere discrezionale per i governi. L’unico modo in cui questi ultimi potrebbero conservare la facoltà di decidere caso per caso sul destino dei terroristi sarebbe la decisione di menzionare il terrorismo tra i reati esclusi dal MAE, ipotesi che – nelle settimane immediatamente successive all’11 settembre – appare politicamente insostenibile. La riforma prospettata è così radicale e ambiziosa che non si può escludere il rischio che, nelle trattative fra istituzioni europee e Stati nazionali, venga fortemente ridimensionata, se non abbandonata, come avvenuto in passato in casi analoghi. Il Consiglio GAI del 20 settembre si sente dunque in dovere di ribadire che – a prescindere dalla sorte che toccherà al progetto del MAE nel suo insieme – esiste una ferma volontà politica «di soprassedere al requisito della doppia incriminabilità per i reati di terrorismo»121, salvando il principio di reciproco riconoscimento per lo meno in relazione all’urgenza del momento. E in effetti il cammino del provvedimento risulta accidentato. Le prime divergenze si registrano a proposito del metodo della lista negativa, sostenuta da Spagna e Gran Bretagna, ma osteggiata dalla Francia, che ottiene di veder rovesciato l’impianto del MAE. La presidenza belga elabora così una lista di reati cui si applicherà il meccanismo automatico sopra descritto, mentre per tutti gli altri resteranno in vigore le tradizionali regole sull’estradizione. A metà novembre 2001, il nuovo elenco arriva a contenere 32 reati, fra cui il terrorismo, per la cui definizione si rimanda alla decisione quadro su cui le istituzioni europee stanno nel frattempo lavorando. Quando lo scoglio sembra aggirato, l’Italia comunica la propria contrarietà, sostenendo che il MAE dovrebbe limitarsi, almeno inizialmente, ai reati più gravi, identificati con i primi sei della lista122. Questa proposta di riformulazione non influisce direttamente sulla possibilità di estradare i terroristi, perché il loro capo di imputazione fa parte anche dell’elenco ristretto. Verrebbero tuttavia espunte alcune condotte potenzialmente collaterali all’azione dei gruppi terroristici (riciclaggio di denaro, omicidio volontario, rapimento, traffico di materie nucleari e radioattive, dirottamento e sabotaggio), che potrebbe essere difficile perseguire avendo a disposizione solo la – pur ampia – nozione di reato terroristico esaminata in precedenza. A ciò si sommano le perplessità sulla retroattività del MAE, proposta dalla Commissione e accolta dalla maggioranza del Consiglio, e che trova tuttavia l’opposizione 121 Consiglio dell’Unione europea, Risultati dei lavori del Consiglio (Giustizia e Affari interni), Bruxelles, 25 settembre 2001, in RCUE, doc. 12156/01, p. 2. 122 Id., Nota del Comitato dei Rappresentati Permanenti, Bruxelles, 4 dicembre 2001, in RCUE, doc. 14867/01. 117 di almeno tre paesi, propensi a stabilire un termine a quo per l’applicazione del nuovo strumento. Francia e Austria suggeriscono di adottarlo solo per reati commessi dopo l’entrata in vigore del Trattato di Maastricht, che definisce l’impalcatura giuridica, procedurale e istituzionale entro cui il MAE si troverebbe a operare. L’Italia ipotizza che tale limite coincida con la data di entrata in vigore del provvedimento stesso. La sostanza è che, se il Consiglio sposasse l’idea di contenere la retroattività, con la prima opzione potrebbero sfuggire al MAE tutti i soggetti attivi nella stagione del terrorismo “storico” (anni Settanta-Ottanta); della seconda, in linea teorica, potrebbero addirittura beneficiare gli attentatori dell’11 settembre. Nell’esporre le ragioni delle proprie richieste, i governi dissenzienti – e in particolare quello italiano – attingono a diversi registri retorici. A un primo livello, le perplessità sul MAE vengono sviluppate attraverso argomenti di carattere politico-ideale, che affondano alternativamente le proprie radici nelle convinzioni euroscettiche o antieuropeiste di alcune forze politiche123, nel richiamo allo scarso rispetto che il nuovo istituto giuridico accorderebbe alle garanzie dei soggetti interessati, oppure nell’affermazione del “primato della politica” e degli organi elettivi rispetto alla magistratura. Si noti peraltro che, mentre l’enfasi sul garantismo raccoglie l’eredità del pensiero costituzionale e liberale, e della sua critica ai possibili abusi da parte dei detentori del potere nei confronti degli individui, i quali trovano nella divisione dei poteri (e di fatto in quello giudiziario) il principale baluardo della propria libertà, la tesi che sostiene la prevalenza dell’autorità politica su quella giudiziaria si muove in direzione diametralmente opposta. Essa dipinge infatti una sorta di “dispotismo elettivo”, assai più vicino alla dottrina di Rousseau che a quella di Montesquieu124. A un secondo livello, sono invece più direttamente invocati alcuni pretesi interessi nazionali. A causa della conclamata eterogeneità dei sistemi giuridici europei e in vista dell’allargamento a Est, cioè a paesi nei quali gli organi politici tenderebbero a controllare quelli giudiziari, il MAE potrebbe diventare uno strumento di persecuzione politica 123 Si pensi alla Lega Nord, particolarmente polemica nel confronti dell’europeismo del ministro degli Esteri Renato Ruggiero, su cui si veda V. Castronovo, L’avventura dell’unità europea, Torino, Einaudi, 2004, pp. 218-220. Sull’atteggiamento leghista verso l’Ue cfr. in generale M. Piermattei, «Più lontani da Roma più vicini all’Europa»: la Lega Nord e l’integrazione europea (1988-1998), in F. Di Sarcina, L. Grazi e L. Scichilone (a cura di), Europa vicina e lontana. Idee e percorsi dell’integrazione europea, Firenze, CET, 2008, pp. 113-124. 124 P. Pasquino, Uno e trino. Indipendenza della magistratura e separazione dei poteri. Perché le maggioranze possono rappresentare una minaccia per la libertà, Milano, Anabasi, 1994, pp. 21-39. Cfr. in argomento i punti di vista di A. Pizzorno, Il potere dei giudici. Stato democratico e controllo della virtù, Roma-Bari, Laterza, 1998 e C. Guarnieri, Giustizia e politica. I nodi della Seconda Repubblica, Bologna, Il Mulino, 2003, pp. 28-44 118 indebitamente utilizzato dal governo di uno Stato membro contro tutti i cittadini Ue125. Le modifiche relative alla lista dei reati e soprattutto sui tempi di applicazione, infine, inducono alcuni osservatori a ritenere che l’atteggiamento italiano risponda anche a interessi personali di alcuni esponenti politici. Il MAE sarebbe inapplicabile, tra gli altri, ai reati di corruzione – settimo della lista, cioè la prima vittima della sforbiciata italiana – e di razzismo e xenofobia, che per motivi diversi appaiono potenzialmente associabili ai comportamenti di alcuni membri del governo126. Che sia soprattutto l’Italia a porre il veto al MAE appare con chiarezza all’inizio di dicembre, quando una nota del Consiglio specifica che quattordici delegazioni e la Commissione sono ormai d’accordo sul testo, scaricando indirettamente su quella italiana le colpe della mancata adozione del provvedimento127. Come spesso accade in questi mesi cruciali, è la presidenza belga a lavorare per ricucire lo strappo, sia nelle sedi istituzionali Ue, sia in occasione della visita del premier Verhofstadt a Roma l’11 dicembre, in preparazione del Consiglio europeo di Laeken128. La soluzione è rappresentata dalla valorizzazione di una proposta formulata nei mesi precedenti dal Lussemburgo, in base alla quale ciascuno Stato membro, al momento della formale adozione della decisione quadro 125 Questo pericolo è ipotizzato dal ministro della Giustizia italiano Roberto Castelli (cfr. R. Polato, Mandato di arresto Ue, l’Italia non cede, «Corriere della Sera», 7 dicembre 2001, p. 11). Per un inquadramento del problema, si vedano V. Grevi, Il «mandato di arresto europeo» tra ambiguità politiche e attuazione legislativa, «Il Mulino», a. LI, n. 1, gennaio-febbraio 2002, pp. 119-130, e – più in generale – P. Borgna e M. Cassano, Il giudice e il principe. Magistratura e potere politico in Italia e in Europa, Roma, Donzelli, 1997, in particolare pp. 107-183. 126 Tracce di razzismo o xenofobia sono da taluni individuati in alcuni passaggi di discorsi pronunciati da personalità affiliate alla Lega Nord e la possibilità che il MAE sia utilizzato per colpirle penalmente è paventata anche dai ministri Castelli (cfr. E. Caiano, Castelli: non svenderò né l’Italia né la Padania, «Corriere della Sera», 9 dicembre 2001, p. 12) e Buttiglione (G. Fregonara, Buttiglione: vogliono ricattarci ma hanno sbagliato i loro calcoli, «Corriere della Sera», 8 dicembre 2001, p. 2). L’ipotesi della corruzione è stata invece sollevata, in anni precedenti, a proposito dell’attività di imprenditore svolta in Spagna dal presidente Silvio Berlusconi, ma a tale scenario le fonti governative non accennano esplicitamente. A distanza di qualche tempo, la questione sarà lambita da B. Garzón, Un mondo senza paura (2005), Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2005, volume in cui il magistrato spagnolo – protagonista di numerose inchieste sulla corruzione della politica spagnola e di un’indagine su società legate al gruppo Fininvest – tratta sia della posizione di Berlusconi, illustrando i motivi tecnico-giuridici che gli consentiranno di evitare la chiamata in giudizio in Spagna (pp. 40-41), sia della vicenda del MAE (pp. 176-177), ma senza stabilire una connessione diretta tra le due. Questo aspetto della vicenda è evocato ripetutamente nel Parlamento europeo, in cui si svolgono animati scontri dialettici tra destra e sinistra (cfr. Parlamento europeo, Discussioni, in APE, Strasburgo, seduta del 12 dicembre 2001, in particolare gli interventi degli onorevoli M. Schulz, socialista tedesco, e A. Tajani, popolare italiano). 127 Consiglio dell’Unione europea, Nota del Consiglio, Bruxelles, 10 dicembre 2001, in RCUE, doc. 14867/1/01 REV 1. Nella relazione Watson su lotta al terrorismo e MAE, più volte citata, il Parlamento europeo avanza la richiesta di prendere in considerazione l’ipotesi della cooperazione rafforzata nel caso l’accordo a 15 non sia praticabile, opzione non esclusa dal commissario Vitorino né, per certi versi sorprendentemente, da alcuni parlamentari del PPE, cioè il gruppo cui fanno riferimento alcuni partiti della coalizione di governo in Italia (Parlamento europeo, Discussioni, in APE, Bruxelles, seduta del 28 novembre 2001). 128 Cfr. De Lobkowicz, L’Europe et la sécurité intérieure, cit., pp. 184-185. 119 sul MAE, avrà la possibilità di allegare una dichiarazione in cui rendere nota l’introduzione di un termine a quo che limiti la retroattività del dispositivo. L’Italia – al pari dell’Austria – sceglie di indicare la data di entrata in vigore del MAE, cioè l’estate del 2002. La Francia opta invece per il 1° novembre 1993129. Lasciando da parte ogni valutazione sul cambio di linea dell’Italia, che baratta l’accettazione della lista completa di 32 reati con la garanzia sulla mancata retroattività, da tutto ciò consegue che – come taluni fin dall’inizio temevano – dal punto di vista dei soggetti accusati o condannati per reati terroristici degli “anni di piombo”, e riparati in Francia, la riforma del regime di estradizione sarà presumibilmente ininfluente. Pur fornendo confortanti garanzie per il futuro, il MAE non è in grado di chiudere i conti con il tormentato passato dell’Europa e della sua lotta armata130. Nello stesso arco temporale, il problema dell’estradizione è oggetto della fattiva collaborazione transatlantica avviata subito dopo l’11 settembre. Sfuggendo alla tentazione dell’unilateralismo, accarezzata nei mesi precedenti e denunciata anche dalla Commissione europea131, l’amministrazione Bush è protagonista di un fitto dialogo con le istituzioni dell’Unione, che ha nella lotta al terrorismo uno dei settori privilegiati. Il 20 settembre il segretario di Stato Colin Powell incontra a Washington una troika europea composta da Solana, dal commissario Patten e dalla presidenza belga, rappresentata dal ministro degli Esteri Michel. La riunione partorisce una dichiarazione congiunta che dedica ampio spazio alle prospettive di cooperazione in ambito di giustizia e affari interni132. Sulla base di queste premesse, nel febbraio 2002 il Consiglio GAI dà mandato alla presidenza di 129 Consiglio dell’Unione europea, Nota del Segretario generale, Bruxelles, 18 giugno 2002, in RCUE, doc. 10085/02 e Id., Nota del Segretario generale, Bruxelles, 18 giugno 2002, in RCUE, doc. 10085/02 ADD 1. Per il testo definitivo del MAE, approvato il 13 giugno 2002, si veda Id., Atti legislativi ed altri strumenti, Bruxelles, 7 giugno 2002, in RCUE, doc. 7253/02 (con l’errata corrige, doc. 7253/02 COR 7 del 12 giugno 2002). 130 L’impossibilità di usufruire del MAE per colpire accusati e condannati per terrorismo latitanti in Francia era in qualche misura messa nel conto dal portavoce del commissario Vitorino già nel corso della presentazione alla stampa della proposta di provvedimento, preventivando che non tutti gli Stati ne avrebbero accettato la retroattività e citando come caso esemplare quello degli ex terroristi italiani fuggiti in Francia (cfr. I. Caizzi, In Europa ci sarà un mandato d’arresto unico, «Corriere della Sera», 20 settembre 2001, p. 13). Il ricorso francese alla deroga è spiegato da Friedrichs, Fighting Terrorism and Drugs, cit., con il riferimento al principio per cui un presidente della Repubblica non assume posizioni tali da incidere sugli effetti di decisioni prese da suoi predecessori (pp. 104-105). Nel caso in questione, la scelta da rispettare è quella operata negli anni Ottanta da François Mitterrand, che ha costantemente rifiutato l’estradizione di persone accusate di azioni terroristiche. 131 Commissione delle Comunità europee, Comunicazione della Commissione al Consiglio. Per un potenziamento delle relazioni transatlantiche imperniate sulla strategia e il conseguimento dei risultati, Bruxelles, 20 maggio 2001, in RCE, doc. COM (2001) 154, pp. 8-9. 132 Joint EU-US Ministerial Statement on Combating Terrorism, Brussels, 20 September 2001, in Rutten (ed.), From Nice to Laeken, cit., p. 149. Gli altri filoni sono la sicurezza dei trasporti, la lotta al finanziamento e ad altre forme di sostegno del terrorismo, il controllo su esportazione/non proliferazione di armi e la sorveglianza su frontiere e documenti. 120 negoziare i contenuti di due convenzioni su estradizione e assistenza giudiziaria con gli Stati Uniti133. Gli accordi, siglati nell’aprile del 2003, permettono di rendere più agevole la formazione di squadre investigative comuni, la richiesta di informazioni, gli accertamenti bancari, ma soprattutto la consegna di soggetti sospettati o condanni per terrorismo134. Le parti conservano il diritto di rigettare la domanda di estradizione per motivi generali – principi costituzionali, interessi essenziali, ordine pubblico – o in virtù di ragioni più specifiche, come il principio della doppia incriminazione. Le convenzioni incontrano un «ampio consenso» all’interno del Consiglio135. Più cauto si rivela il Parlamento, che esprime un giudizio complessivamente favorevole, lamentando tuttavia di essere stato troppo a lungo ignorato nel corso delle trattative e sottolineando la necessità di rendere «veramente reciproca» la cooperazione. Il sospetto è che gli USA possano fare un uso egoistico degli accordi sottoscritti, conservando le informazioni in loro possesso e abusando delle domande di estradizione per potersi occupare direttamente dei sospettati ed evitare che siano indagati e/o processati in Europa136. Questo ipotetico scenario, secondo alcuni commentatori, sarebbe frutto della volontà degli USA di affermare la propria sovranità extraterritoriale, non tanto attraverso la pura esibizione della forza, quanto favorendo la codificazione nel diritto internazionale della propria supremazia. Consentendo la stipulazione di accordi come quelli appena esaminati, in cui le parti contraenti sono caratterizzate da un’oggettiva asimmetria di ambizioni, risorse e potenzialità, l’Ue non farebbe fatto altro che arrendersi alla presunta vocazione imperiale americana, contribuendo a formalizzarla137. 133 Per una discussione sulle competenze a trattare accordi internazionali in ambito GAI si veda S. Marquart, La capacité de l’Union européenne de conclure des accords internationaux dans le domaine de la coopération policière et judiciaire en matière pénale, in G. De Kerchove e A. Weyembergh (sous la direction de), Sécurité et justice: enjeu de la politique extérieure de l’Union européenne, Bruxelles, Editions de l’Université de Bruxelles, 2003, cit., pp. 179-194. La decisione di redigere due testi distinti ma paralleli è assunta solo nel novembre 2002 (Consiglio dell’Unione europea, Declassificazione parziale del documento 6438/1/02 REV 1, Bruxelles, 23 maggio 2002, in RCUE, doc. 6438/1/02 REV 1 EXT 1 e Id., Declassificazione parziale del documento 15726/02, Bruxelles, 13 ottobre 2005, in RCUE, doc. 15726/02 EXT 1). 134 Consiglio dell’Unione europea, Atti legislativi e altri strumenti, Bruxelles, 3 giugno 2003, in RCUE, doc. 9153/03 (e gli errata corrige del 6 giugno 2003 e 17 giugno 2003). Cfr. anche G. Stessens, The EU-US Agreements on Extradition and on Mutual Legal Assistance: How to Bridge Different Approaches, in De Kerchove e Weyemberg (sous la direction de), Sécurité et justice, cit., pp. 263-273. 135 Consiglio dell’Unione europea, Nota della Presidenza, Bruxelles, 2 giugno 2003, in RCUE, doc. 8296/2/03 REV 2, p. 1. 136 Parlamento europeo, Raccomandazione del Parlamento europeo al Consiglio sugli accordi tra UE e USA in materia di cooperazione giudiziaria penale e di estradizione, Strasburgo, 4 giugno 2003, in APE, doc. P5_TA (2003) 0239, punto D. Cfr. anche Id., Discussioni, in APE, Strasburgo, seduta del 14 maggio 2003, interventi dei deputati Hernández Mollar (PPE) e Terrón i Cusí (PSE). 137 È la tesi di Paye, La fine dello Stato di diritto, cit., pp. 141-179. 121 Comunque la si voglia interpretare, la vicenda dà conto di una sostanziale identità di vedute fra le due sponde dell’Atlantico circa gli aspetti giudiziari della lotta al terrorismo, che acquista ancora più valore in una fase in cui i rapporti transatlantici si guastano per altri motivi. A partire dall’estate del 2002 il dibattito sulla lotta al terrorismo cambia natura, concentrandosi su questioni e prospettive che gli europei faticano a condividere, e sfocia nella guerra in Iraq della primavera 2003. Il prossimo capitolo verterà sulle ragioni e sulle modalità attraverso cui si incrina la forte solidarietà umana e politica mostrata dall’Ue verso gli Stati Uniti colpiti duramente da Al Qaeda. 122 4. Gli Stati Uniti, l’Europa e le spaccature sulla guerra in Iraq (2002-2003) 4.1 La guerra al terrorismo fra politica e morale: la “dottrina Bush” L’autunno del 2002 rappresenta un momento di svolta nella lotta internazionale al terrorismo, fino ad allora condotta su binari multilaterali. Un primo segnale si ha nel mese di settembre, con la pubblicazione della nuova Strategia per la sicurezza nazionale (NSS 2002) da parte dell’amministrazione Bush1. Per certi versi, in questo testo trovano una sistematizzazione le mosse compiute nei primi mesi della “guerra al terrorismo” e sono confermati alcuni dei tratti emersi nell’immediata reazione all’attacco: la risposta coinvolge necessariamente mezzi di diversa natura e ha una durata non definibile a priori, come riconosce il presidente Bush nell’introduzione2. Il documento – destinato a porre le fondamenta per la cosiddetta “dottrina Bush” – contiene d’altra parte aspetti innovativi, che riguardano soprattutto l’analisi delle minacce e l’impostazione per affrontarle. Accanto ai conflitti regionali di lungo corso, tra cui quelli israelo-palestinese e indo-pakistano, sono presi in esame con particolare rilievo il terrorismo e l’uso di armi di distruzione di massa (weapons of mass destruction, concetto espresso in seguito con l’acronimo WMDs). Si tratta di due pericoli originariamente indipendenti, l’uno identificando la «violenza premeditata, ispirata a ragioni politiche ed esercitata contro innocenti»3, l’altro richiamando la storia cinquantennale della deterrenza nucleare. L’asse portante dell’intero documento, tuttavia, è costituito dall’eventualità che i due fenomeni si intreccino, a causa di due dinamiche: da un lato, è ritenuta credibile la volontà di acquisire o produrre WMDs espressa da alcuni gruppi terroristici; dall’altro, gli strateghi americani paventano il rischio che la contiguità di alcuni Stati con il terrorismo internazionale, fino a quel momento declinata in termini di sostegno finanziario e logistico, possa contemplare in futuro anche la fornitura di materiali e sostanze utilizzabili per attacchi con armi non convenzionali4. Anche per questo motivo, gli Stati Uniti annunciano 1 The National Security Strategy of the United States of America, Washington, September 2002. D’ora in poi il documento sarà citato tramite la sigla NSS 2002. 2 Ibidem. L’anticipazione dei principali contenuti della NSS 2002 a un uditorio europeo si ha in occasione di un discorso tenuto dal sottosegretario alla Difesa, Paul Wolfowitz, nel febbraio 2002 a Monaco (cfr. Speech by Paul Wolfowitz, Munich, 2 February 2002, in Haine (ed.), From Laeken to Copenhagen, cit., pp. 22-29). 3 NSS 2002, p. 5 («premeditated, politically motivated violence perpetrated against innocents»). La traduzione, come per tutte le citazioni dalla NSS 2002, è del redattore. 4 L’eventualità è presa in considerazione anche in letteratura, cfr. per esempio M. Ignatieff, Libertà e apocalisse, in Id. Il male minore, cit., pp. 209-240 e P. Cotta-Ramusino e M. Martellini, Il terrorismo con armi di distruzione di massa, in Biancheri (a cura di), Il nuovo disordine globale, cit., pp. 79-88. In generale, che non opereranno alcuna distinzione fra i terroristi e chiunque garantisca loro un aiuto5. Dato il carattere inedito della minaccia – l’azione terroristica, compresa la sua potenziale connessione con le WMDs, trascende la dimensione dell’equilibrio del terrore tipico della guerra fredda, fondato sulla premessa di comportamenti razionali da parte di tutti gli attori coinvolti – la strategia deve esplorare strade nuove. Il concetto centrale è l’impegno a prevenire attacchi potenzialmente più sanguinosi dell’11 settembre: in questo senso, il testo esprime con chiarezza l’intento di agire prima che gruppi terroristici o “Stati canaglia” (rogue states) abbiano la possibilità di colpire obiettivi americani. L’opzione della prevenzione (preemption) è da tempo patrimonio della politica estera statunitense6, ma occorre ridefinire il significato di “minaccia imminente” che la giustifica7. Il fatto che i voli di linea, eventualmente corredati di WMDs, possano diventare vettori del terrore sconsiglia di ridurre la nozione di minaccia imminente a un tradizionale attacco militare lanciato contro il proprio territorio. Al contrario, tale categoria deve annoverare anche i semplici tentativi dei nemici di dare vita a un’organizzazione, addestrare i militanti in vista di azioni terroristiche, procurarsi o sviluppare armi di offesa: con le parole di Bush, si tratta di agire contro le minacce emergenti «prima che siano pienamente formate»8. Come preciserà la successiva Strategia nazionale per la lotta al terrorismo, negli obiettivi della prevenzione rientra anche quello di impedire che gruppi terroristici entrino in possesso di WMDs9. Secondo la letteratura specialistica, questa svolta configurerebbe lo slittamento teorico dal concetto di preemption (termine ancora utilizzato nella NSS 2002) a quello di prevention, con il quale si indica appunto un intervento che, in termini temporali, può precedere di molto il presunto attacco10. sul tema delle armi di distruzione di massa si veda C. Stefanachi, La proliferazione di armi di distruzione di massa: calcolo strategico e agenda internazionale, in Colombo e Ronzitti (a cura di), L’Italia e la politica internazionale, cit., pp. 47-58. 5 NSS 2002, p. 5. 6 Cfr. J.L. Gaddis, Attacco a sorpresa e sicurezza. Le strategie degli Stati Uniti (2004), Milano, Vita e Pensiero, 2005, secondo cui la dottrina della prevenzione risale al primo Ottocento e in particolare alle teorie di John Quincy Adams, figlio del secondo presidente degli USA e a sua volta eletto per un mandato fra il 1825 e 1829 (pp. 15-38). L’approccio preventivo rappresenta cioè uno degli elementi di continuità della politica estera americana, con l’eccezione del periodo dominato dalla figura di F.D. Roosevelt (pp. 39-65). In riferimento alla lotta al terrorismo, si veda il precedente costituito da N. Livingstone, Proactive Responses to Terrorism: Reprisals, Preemption, and Retribution, in Id. (ed.), Fighting Back, cit., pp. 109-131, che già negli anni Ottanta ponderava la possibilità di interventi militari chirurgici per rimuovere la fonte della minaccia terroristica (pp. 124-126). 7 NSS 2002, p. 15. 8 Ibidem. 9 National Strategy for Combating Terrorism, Washington, February 2003, p. 15. In seguito farò riferimento a questo documento con la sigla NSCT 2003. 10 Si vedano la voce entusiastica di R. Kagan, Il diritto di fare la guerra. Il potere americano e la crisi di legittimità (2004), Milano, Mondadori, 2004, in particolare la nota 2 a p. 71, e quella assai critica di M.W. Doyle, Striking First. Preemption and Prevention in International Conflicts, Princeton-Oxford, Princeton 124 Sulle forme assunte dalla prevenzione, i testi sono in certa misura evasivi, riferendosi genericamente alla necessità di «fermare» con «decisioni forti» e «tutte le risorse» disponibili i terroristi o gli Stati individuati11. Accennando all’esigenza di dotarsi delle risorse adatte a «condurre operazioni rapide e precise», e spiegando tuttavia che «[gli] Stati Uniti non useranno la forza in tutti i casi»12, si lascia intendere che la soluzione privilegiata è di carattere militare. Lo scenario della guerra preventiva, mai citato esplicitamente nei documenti, inizia così ad aleggiare nel dibattito suscitato dalla nuova strategia dell’amministrazione Bush13. Nel suo classico studio degli anni Settanta sul tema della “guerra giusta”, Michael Walzer dedica un capitolo all’intervento preventivo, subordinandone l’accettabilità a tre condizioni: i) l’intenzione manifesta di arrecare un danno; ii) un certo grado di preparazione attiva che trasformi l’intento in un pericolo imminente; iii) la sussistenza di una situazione in cui assumere una posizione di attesa, o qualsiasi altro atteggiamento diverso dalla guerra, accresca enormemente i rischi14. La NSS 2002 sembra spingersi ben al di là di quanto ipotizzato dal filosofo americano, poiché l’azione preventiva diventa, dopo l’11 settembre, una prassi standardizzabile, la linea prevalente in politica estera, l’architrave di una nuova visione delle relazioni internazionali più che una possibilità residuale cui ricorrere in momenti eccezionali (e condizionata dall’imminenza dell’attacco). Questa impostazione ha inoltre la conseguenza di accentuare l’incertezza in cui operano gli attori della comunità internazionale, riassunta dalla teoria internazionalistica nella locuzione security dilemma. Per definizione, infatti, nessun soggetto è nelle condizioni di stabilire con sicurezza le intenzioni dei propri interlocutori nell’arena internazionale, dovendosi accontentare di raccogliere impressioni e formulare previsioni sul loro comportamento. Su tale base, ogni attore si sforza di enucleare le University Press, 2008, p. 25 e p. 55. In linea con quest’ultimo, Daalder e Lindsay, America senza freni, cit., evidenziano come la “dottrina Bush” si serva del termine preemptive per intendere in realtà preventive (pp. 164-167), resi in italiano rispettivamente dagli aggettivi «precauzionale» e «preventivo» per effetto della scelta del traduttore Andrea Locatelli (cfr. nota 2 a p. 10). 11 NSS 2002, p. 14 e NSCT 2003, p. 18 e p. 29. 12 NSS 2002, pp. 15-16. 13 In tema si vedano le opinioni contrastanti di E.E. Dais, Just War Theory Post-9/11: Perfect Terrorism and Superpower Defense e S.P. Lee, Preventive Intervention, entrambi in Lee (ed.), Intervention, Terrorism, and Torture, cit., pp. 105-118 e pp. 119-133. L’uno promuove l’impostazione della “dottrina Bush”, affermando l’esistenza di un «diritto al primo colpo protettivo» da parte della superpotenza egemone (gli USA), la cui funzione di stabilizzazione del sistema internazionale sia insidiata dal terrorismo dotato di WMDs. L’altro, viceversa, nega ogni legittimità a tale considerazione, poiché fondata essenzialmente su sospetti e ipotesi di minacce e gravida di conseguenze pericolose per la convivenza internazionale. 14 M. Walzer, Guerre giuste e ingiuste. Un discorso morale con esemplificazioni storiche (1977), Napoli, Liguori, 1990, p. 116. 125 minacce potenziali e scegliere gli strumenti più adatti per fronteggiarle15. Lo sdoganamento della guerra preventiva – vale a dire della possibilità teorica che uno Stato decida di attaccarne un altro basandosi esclusivamente sulla presunzione che quest’ultimo stia preparando un’offensiva ai suoi danni – può moltiplicare le variabili di cui tenere conto, essendo a sua volta interpretabile come una minaccia potenziale ai danni degli Stati messi pubblicamente all’indice. In astratto, dunque, non si può escludere il ricorso alla guerra preventiva da parte di uno Stato canaglia, destinato a innescare una spirale di violenza e conflitti fondata sulla labile percezione delle intenzioni della controparte16. Il secondo elemento decisivo della NSS 2002 è la rivendicazione dell’intervento unilaterale degli USA a tutela della propria sicurezza. Il testo chiarisce infatti che, una volta individuato un pericolo, l’amministrazione Bush non esiterà a operare in solitudine per neutralizzarlo. Quanto meno a parole, la prima alternativa è ancora rappresentata dalla ricerca del consenso e dalla costruzione di ampie coalizioni, ma ciò non esclude in alcun modo azioni solitarie in caso di divergenze di opinioni all’interno della comunità internazionale. Benché in parte smorzata da alcuni passaggi volti a enfatizzare la recente solidarietà ricevuta dai tradizionali alleati e da paesi storicamente distanti come Russia e Cina17, la scelta di progettare soluzioni unilaterali è carica di significato, innanzi tutto nei confronti del ruolo rivestito dalle Nazioni Unite. L’appoggio del Consiglio di Sicurezza, pur accolto con favore quando se ne creino i presupposti, è giudicato sostanzialmente ininfluente all’atto di decidere sulla necessità di un’azione. Ne scaturisce un modello secondo cui gli USA, in assoluta autonomia, individueranno una minaccia e gli strumenti per affrontarla, limitandosi a osservare l’atteggiamento degli altri attori: chi concorderà con obiettivi e mezzi indicati potrà partecipare senza preclusioni alla «coalizione dei volenterosi» (coalition of willing nations) impegnata ad agire18. L’idea di costruire alleanze a geometria variabile, determinate dalle caratteristiche di ciascuna missione, è dovuta a una profonda sfiducia nei confronti delle Nazioni Unite e del funzionamento delle loro istituzioni. A causa della spiccata eterogeneità di valori e interessi fra i loro affiliati, esse non sono in grado di raggiungere l’intesa su iniziative mirate a garantire la stabilità internazionale, denunciando tanto un deficit di efficienza, quanto l’assenza di legittimazione 15 Si veda K. Booth and N.J. Wheeler, The Security Dilemma. Fear, Cooperation and Trust in World Politics, New York-Basingstoke, Palgrave Macmillan, 2008, pp. 4-5. 16 Doyle, Striking First, cit., pp. 25-28. 17 NSS 2002, pp. 25-28. Cfr. in proposito Gaddis, Attacco a sorpresa e sicurezza, cit., p. 90, che sottolinea il tentativo di dialogo con le grandi potenze planetarie, contrapponendolo alla decisione dell’amministrazione Clinton di dare il via alla guerra in Kosovo del 1999 senza il consenso della Russia. 18 NSCT 2003, p. 19. 126 democratica, per la presenza di Stati autoritari19. A queste carenze, la “dottrina Bush” oppone la convinzione di abbracciare una «causa giusta»20. Nell’ottica dell’amministrazione americana, il richiamo alla componente morale, che pervade l’intero documento, permette di giustificare una violazione del diritto internazionale e della prassi ONU, espressioni della legalità formale in cui alcuni commentatori situano il centro della tradizione politico-istituzionale occidentale21. Lo stesso concetto di “Stato canaglia” è diretta emanazione di tale visione, peraltro non esclusiva del nuovo gruppo dirigente. È largamente condivisa, infatti, l’idea che paesi come Iraq e Corea del Nord, per limitarsi a quelli citati nella NSS 2002, appartengano a una sorta di ghetto internazionale in ragione dell’inaccettabilità etica e politica del loro comportamento interno ed esterno. I cinque caratteri elencati nel testo per designare uno Stato canaglia – oppressione della popolazione, indifferenza al diritto internazionale, determinazione ad acquisire WMDs, sostegno al terrorismo e rifiuto dei valori fondamentali dell’umanità, incarnati dagli USA22 – colgono i frutti di valutazioni morali già formulate da precedenti amministrazioni, anche democratiche23. Perfino un filosofo non assimilabile all’humus politico e culturale della destra americana, come John Rawls, discute di categorie concettuali per certi versi analoghe. Trasferendo sul piano dei rapporti internazionali il modello elaborato nella sua celebre Teoria della giustizia24, l’intellettuale liberale individua diversi tipi di regime, distinti sulla base del coinvolgimento dei cittadini nell’assunzione delle decisioni politiche, attraverso l’adozione di una costituzione adatta 19 Per una critica al sistema ONU si vedano F. Fukuyama, Does «the West» Still Exist?, in T. Lindberg (ed.), Beyond Paradise and Power. Europe, America and the Future of a Troubled Partnership, London-New York, Routledge, 2005, pp. 137-161, Id., America al bivio. La democrazia, il potere, l’eredità dei neoconservatori (2006), Torino, Lindau, 2006, pp. 171-197 e M.J. Glennon, Why the Security Council Failed, «Foreign Affairs», vol. LXXXII, n. 3, May-June 2003, pp. 16-35. Cfr. inoltre R.J. Lieber, The American Era. Power and Strategy for the XXI Century, New York, Cambridge University Press, 2005, secondo cui, poste tali premesse, l’attivismo USA sulla scena globale diventa «una necessità, non qualche cosa di cui scusarsi» (p. 7). Secondo indagini empiriche riferite al periodo 2002-03, tuttavia, la maggioranza della popolazione americana è tendenzialmente favorevole a ricevere conferme da altri governi sulla bontà delle scelte compiute da quello americano. Tale inclinazione, che sembra negare il sostegno a una prassi integralmente unilaterale, non è però interpretata da tutti gli analisti come apertura al multilateralismo dell’ONU, dal momento che l’agognato riscontro alle decisioni dell’amministrazione Bush può essere fornito anche dai componenti di una “coalizione dei volenterosi”, creata a prescindere dal parere delle Nazioni Unite (cfr. J.M. Grieco, In cerca di un riscontro: gli alleati, l’ONU e l’opinione pubblica americana di fronte alla guerra, in Parsi, Giusti e Locatelli (a cura di), Esiste ancora la comunità transatlantica?, cit., pp. 123-161). 20 NSS 2002, p. 16. 21 Si veda in proposito G. Preterossi, L’Occidente contro se stesso, Roma-Bari, Laterza, 2004, p. 56. 22 NSS 2002, p. 14. 23 Sull’origine della definizione cfr. R.S. Litwak, Rogue States and the U. S. Foreign Policy. Containment after the Cold War, Washington, Woodrow Wilson Center Press, 2000, pp. 47-73, che esamina i contributi delle amministrazioni Carter, Reagan, Bush sr. e Clinton, individuando l’elemento essenziale nel comportamento internazionale minaccioso, a causa del potenziale utilizzo di WMDs o della sponsorizzazione del terrorismo. 24 J. Rawls, Una teoria della giustizia (1971), Milano, Feltrinelli, 1999. 127 allo scopo. I «popoli bene ordinati» assolverebbero a tale requisito con differente grado di soddisfazione (pieno per quelli «liberali», parziale per quelli «decenti»), ma ciò sarebbe sufficiente per renderli oggetto della «teoria ideale» e partecipi del «diritto dei popoli». Su un piano separato, e gerarchicamente inferiore, si porrebbero invece altre tre categorie di attori, per vari motivi non in grado di rispettare il criterio fondamentale: tra queste, figurano gli Stati «fuorilegge» (traduzione dell’inglese outlaw). La loro condotta – esemplificata da alcuni casi storici, tra cui alcune fasi delle vicende spagnola, francese e asburgica nella modernità e l’esperienza della Germania nazista nel XX secolo – non mostrerebbe «il carattere morale e la natura ragionevolmente giusta, o decente» propri dei popoli bene ordinati25. L’elemento dirimente non è rappresentato dalla presenza di istituzioni liberaldemocratiche. Mitigando l’idealismo che ispira la sua teoria, attraverso la nozione di “decenza” Rawls riconosce la legittimità di regimi con tratti autoritari o gerarchici, ma privi di mire aggressive e portati a rispettare un nucleo minimo di diritti fondamentali. L’esistenza di una società internazionale come quella immaginata dal filosofo liberale non presuppone dunque l’esportazione sistematica del modello democratico al di fuori del mondo occidentale. In ogni caso, l’impianto rawlsiano è avvicinabile alla NSS 2002 per la tentazione di avvalorare distinzioni etiche fra gli Stati e per il ricorso alla forza cui i popoli liberali e decenti avrebbero diritto in caso di minaccia portata da uno Stato fuorilegge (guerra di autodifesa) o di una sua palese violazione dei diritti umani ai danni di minoranze interne (diritto di ingerenza)26. Lo scenario cui Rawls allude, affermando la facoltà dei popoli bene ordinati di non tollerare gli Stati fuorilegge27, è implicitamente sviluppato nella strategia bushiana, soprattutto nei punti in cui essa pretende di screditare alcuni attori 25 Id., Il diritto dei popoli (1999), Torino, Comunità, 2001, in particolare pp. 3-5 e pp. 30-38, che mutua da Bodin la locuzione «bene ordinati» (cfr. nota 6 a p. 4) e riprende un saggio dall’omonimo titolo pubblicato in S. Shute e S. Hartley (eds.), On Human Rights, New York, Basic Books, 1993. Sul possibile collegamento tra la dimensione “liberale” descritta dal filosofo americano e i tratti “civili” di una potenza distante dalla prospettiva realista tradizionale, cfr. Portinaro, L’Europa civile davanti alle sfide del XXI secolo, cit., p. 326. Per un inquadramento della riflessione internazionalistica nell’opera complessiva di Rawls, cfr. P.B. Lehning, John Rawls. An Introduction (2006), Cambridge, Cambridge University Press, 2009, pp. 173-208, e S. Maffettone, Introduzione a Rawls, Roma-Bari, Laterza, 2010, pp. 137-160. L’aggettivo “fuorilegge” è utilizzato anche per rendere in italiano l’inglese rogue in N. Chomsky, Egemonia americana e stati fuorilegge (2000), Bari, Dedalo, 2001. Lo stesso Chomsky formula alcune considerazioni sulle intersezioni fra i concetti di failed states, rogue states, outlaw states, terrorist states (Id., Failed States. The Abuse of Power and the Assault on Democracy, London, Penguin Books, 2007, pp. 107-110, trad. it., Stati falliti. Abuso di potere e assalto alla democrazia in America, Milano, Il Saggiatore, 2007). 26 Rawls, Il diritto dei popoli, cit., p. 106 e pp. 121-140. Sulle analogie tra questo ragionamento e la guerra preventiva, si veda L. Baccelli, Rawls e le sfide della globalizzazione, in A. Punzi (a cura di), Omaggio a John Rawls (1921-2002), Quaderni della Rivista internazionale di filosofia del diritto, n. 4, Milano, Giuffrè, 2004, pp. 466-469. 27 Rawls, Il diritto dei popoli, cit., nota 6 a p. 125. 128 «decidendo [della loro] indecenza»28. In altri termini, il documento replica l’atto con cui i detentori del potere, in ogni epoca e luogo, tendono da sempre a designare come “canaglie” i ribelli, i rivoltosi, i terroristi e tutti i contestatori dell’ordine costituito29. Nell’asimmetria morale fra la propria posizione e quella dei nemici, inoltre, gli Stati Uniti rilevano l’antidoto all’uso indiscriminato della guerra preventiva, potenziale strumento di aggressione: solo chi dimostri di agire in vista di scopi e in nome di valori eticamente accettabili avrebbe diritto a intraprenderla30. L’accostamento tra le riflessioni ralwsiane e la “dottrina Bush”, ingeneroso sotto molti altri aspetti, a partire dalla diversa considerazione della Carta delle Nazioni Unite31, permette comunque di cogliere la complessità dei motivi ispiratori della politica estera degli Stati Uniti. L’11 settembre, inoltre, finisce per risvegliare caratteri tipici della società americana, su tutti la peculiare commistione fra dimensione religiosa e secolare. Nella reazione all’offensiva terroristica, incarnata da alcuni gesti altamente simbolici del presidente – i discorsi nelle chiese, la sacralizzazione della bandiera, lo spazio dedicato alla memoria delle vittime, il linguaggio a tratti messianico –, gli Stati Uniti mostrano al mondo la rinnovata vitalità della “religione civile” che ne permea le istituzioni e il dibattito pubblico32. Sul piano internazionale, sembra tornare a nuovo splendore la tesi dell’“eccezionalismo” americano, secondo cui gli USA godrebbero, rispetto alle altre nazioni, di una superiorità morale radicata nella storia mitica della fondazione delle comunità 28 A.C. Amato Mangiameli, Sul diritto dei popoli. A proposito della teoria non ideale di John Rawls, in Punzi (a cura di), Omaggio a John Rawls, cit., pp. 412-413. 29 J. Derrida, Stati canaglia. Due saggi sulla ragione (2003), Milano, Cortina, 2003, pp. 99-107. Dopo aver scavato fra le suggestioni etimologiche insite nel termine francese voyou, il filosofo francese si appoggia ai già citati scritti di Noam Chomsky per evidenziare come l’attore impegnato ad attribuire ad altri l’etichetta della canaglia finisca per ricadere a sua volta nell’atteggiamento contestato, a causa della presunzione di trovarsi al di sopra dell’ordine internazionale (pp. 149-152). 30 NSS 2002, p. 15. 31 J. Ballesteros, El conflicto entre pueblos satisfechos y Estados criminales. Una lectura crítica de The Law of Peoples, in Punzi (a cura di), Omaggio a John Rawls, cit., pp. 484-485. Decisamente ostile alle tesi rawlsiane è invece E. Vitale, Rawls e il «diritto dei popoli», «Teoria politica», a. XIX, n. 2-3, 2003, pp. 285298, che nota in particolare come lo stesso Rawls – dopo aver dichiarato di considerare la procedura illustrata nella Teoria della giustizia intrinseca al mondo occidentale – decida negli anni Novanta di estenderne il dominio di validità ai rapporti fra le culture e le civiltà. Pur senza conoscere Il diritto dei popoli, che uscirà l’anno successivo, in un volume del 1998 Danilo Zolo traccia un parallelismo tra Rawls, Habermas, Bobbio, Lyotard, Dahrendorf e Küng, in quanto appartenenti alla schiera di pensatori politici che ritengono valida la domestic analogy secondo cui l’ordine internazionale può essere garantito trasferendo sul piano globale gli strumenti regolativi emersi nella storia degli Stati nazionali moderni (giurisdizione, polizia, ecc.), cfr. D. Zolo, I signori della pace. Contro il globalismo giuridico, Roma, Carocci, 1998, p. 15 e sgg. 32 Su questi temi si veda E. Gentile, La democrazia di Dio. La religione americana nell’era dell’impero e del terrore, Roma-Bari, Laterza, 2006, in particolare pp. 179-188. Sul concetto di “religione civile” e la sua declinazione americana, come fenomeno distinto rispetto alle chiese e ai culti ufficiali, il punto di riferimento è lo studio di R.N. Bellah, Al di là delle fedi. Le religioni in un mondo post-tradizionale (1970), Brescia, Morcelliana, 1975, pp. 185-209. Si veda in generale anche G. Paganini ed E. Tortarolo (a cura di), Pluralismo e religione civile. Una prospettiva storica e filosofica, Atti del Convegno di Vercelli (Università del Piemonte Orientale), 24-25 giugno 2001, Milano, B. Mondadori, 2004. 129 d’oltreoceano, destinate a confluire nel popolo eletto e costantemente supportato dalla benevolenza divina. La difesa e la promozione dei valori della libertà e della democrazia, trasposizione politica dell’intrinseca vocazione verso il “bene” della società americana, sono la sintesi del messaggio lanciato alla comunità internazionale, come ribadito dalla prima sezione della NSS 2002, da cui traspare con grande evidenza la fusione di suggestioni provenienti dal liberalismo politico e dal puritanesimo33. Come già rilevato a proposito dei toni preparatori della guerra in Afghanistan, esiste il pericolo che la retorica utilizzata sia letta come manifesto di una campagna avviata da un Occidente orgogliosamente cristiano per ricondurre all’ordine una parte di mondo – quella arabo-islamica – che non ne riconosce la superiorità sul piano culturale, né ne accetta l’indubbia preminenza politica, economica e militare. Dichiarando guerra al “male” in quanto tale, con la volontà di portare la luce nei «luoghi di tenebra»34, gli Stati Uniti rischiano di rimanere intrappolati in uno scontro tra opposti fondamentalismi, rispondendo all’islamismo integralista e violento con le sue stesse armi: l’assolutizzazione dei propri valori (che Bush nell’introduzione alla NSS 2002 definisce «non negoziabili»), il disconoscimento delle possibili ragioni altrui35, la negazione di un terreno di confronto veramente laico e neutrale rispetto alle confessioni religiose36. La violenza della 33 NSS 2002, pp. 3-4. Per un inquadramento storico di questo tratto della politica estera americana, cfr. A. Stephanson, Destino manifesto. L’espansionismo americano e l’impero del bene (1995), Milano, Feltrinelli, 2004. Sul senso di “missione” condiviso da classe dirigenti e masse, in contrapposizione al pragmatismo europeo, si veda M. Teodori, L’Europa non è l’America. L'Occidente di fronte al terrorismo, Milano, Mondadori, 2004. Sui legami tra sfera politica e religiosa nella storia e nella cultura americane cfr. inoltre: M. Walzer, La rivoluzione dei santi. Il puritanesimo alle origini del radicalismo politico (1965), Torino, Claudiana, 1996, che indaga sulla venatura radicale insita nel calvinismo europeo e poi americano; T. Bonazzi, Il sacro esperimento. Teologia e politica nell’America puritana, Bologna, Il Mulino, 1970, che illustra le modalità di elaborazione e realizzazione del progetto puritano di rigenerazione umana, politica e sociale nel caso del Massachusetts; C. Malandrino, Teologia federale, «Il Pensiero Politico», a. XXXII, n. 2, 1999, pp. 427-446, che individua nel concetto di foedus l’elemento di continuità fra il covenantalism religioso caratteristico dei primi insediamenti e l’elaborazione politico-dottrinale del federalismo hamiltoniano (p. 430); G. Buttà (a cura di), Politica e religione nell’età della formazione degli Stati Uniti d’America, Torino, Giappichelli, 1998, che presenta le posizioni di alcune fra le principali personalità politiche e intellettuali della nascente Federazione americana. 34 L’espressione è usata da Frum e Perle, Estirpare il male, cit., p. 142. Sul “manicheismo” americano cfr. anche S. Chan, Fuori dal male. Nuove politiche internazionali e vecchie dottrine di guerra (2005), Torino, Einaudi, 2005, pp. 95-132. La strumentalità di tale linguaggio è sottolineata da L.J. Rediehs, Male, in Collins e Glover, Linguaggio collaterale, cit., pp. 146-156: la polarizzazione tra “bene” e “male” sarebbe un mero artificio propagandistico, funzionale alla giustificazione delle operazioni militari e alla neutralizzazione del dissenso interno, anziché l’espressione un po’ ingenua ma autentica di una visione del mondo. 35 Cfr. NSCT 2003, p. 19 e p. 29, dove si ritorna sull’immagine dello scontro fra la civiltà e chi la vuole distruggere, attribuendo così a se stessi il ruolo di paladini del mondo civilizzato e al nemico (chiunque non si allinei alle posizioni americane) un intento nichilista, privo di qualsiasi obiettivo politico o interesse legittimo. 36 Si vedano l’intervista a Jacques Derrida in Borradori, Filosofia del terrore, cit., pp. 125-127, T. Ali, Lo scontro dei fondamentalismi. Crociate, Jihad e modernità (2002), Roma, Fazi, 2006 e D. Losurdo, Il linguaggio dell’Impero. Lessico dell’ideologia americana, Roma-Bari, Laterza, 2007, pp. 43-90. 130 contrapposizione, unita alla richiesta a tutti i soggetti dell’arena internazionale di schierarsi senza incertezze a favore di uno dei contendenti, è tale da suscitare in alcuni commentatori la tentazione di ricorrere alle categorie schmittiane di “amico” e “nemico”37. Altri, nella sottolineatura della specificità della nazione americana e dei suoi valori, oltre che nel fascino esercitato dalla prospettiva bellica, leggono una riscoperta della cultura romantica38. Si tratta di suggestioni per certi versi giustificate. L’elaborazione teorica e l’azione concreta dell’amministrazione Bush sono i prodotti inediti della combinazione di elementi provenienti da filoni politico-culturali differenti e talvolta alternativi. L’enfasi posta sui principi e sulla moralità della politica estera non è sufficiente per collocare il nuovo approccio sul versante esclusivo dell’idealismo, il cui massimo precedente storico è rappresentato dall’internazionalismo liberale e interventista del presidente Wilson a cavallo fra gli anni Dieci e Venti39. Prendere alla lettera l’archetipo wilsoniano, infatti, significherebbe mobilitarsi per porre rimedio a qualunque violazione dei diritti umani, delle libertà fondamentali o delle procedure democratiche si verifichi sulla scena internazionale, con l’inevitabile sacrificio di risorse, tempo ed energie rinfacciato da ampi settori della destra repubblicana all’amministrazione Clinton. L’impressione ricavata dalla NSS 2002 è invece quella di una superpotenza che non si risparmierebbe nel combattere i nemici di libertà e democrazia, guidando la battaglia dalla prima linea, ma lo farebbe solo alla luce di una minaccia diretta alla propria sicurezza, in ossequio all’immagine dello “sceriffo riluttante”40. Accanto allo scarso entusiasmo per le istituzioni internazionali, è questo ancoraggio all’interesse nazionale a mantenere vivo un influsso realista, che porta il gruppo dirigente a selezionare le priorità sulla base di un calcolo razionale di costi e benefici41. 37 A. de Benoist, Terrorismo e «guerre giuste». Sull’attualità di Carl Schmitt, Napoli, Guida, 2007, pp. 2151. 38 G.P. Fletcher, Romantics at War. Glory and Guilt in the Age of Terrorism, Princeton, Princeton University Press, 2002. 39 Secondo la classificazione elaborata da W.R. Mead, Il serpente e la colomba. Storia della politica estera degli Stati Uniti d’America (2001), Milano, Garzanti, 2002, i “wilsoniani” di ogni tempo, pur differenziandosi al loro interno, condividono una vocazione missionaria che si traduce nell’impegno attivo a esportare i valori americani nel mondo (pp. 163-208). 40 R.N. Haass, The Reluctant Sheriff. The United States after the Cold War, New York, Council of Foreign Relations, 1997. Si veda anche Id., Intervention. The Use of American Military Force in the Post-Cold War World, Washington, Brookings Institution, 1999, che aggiorna la precedente edizione del 1994 ribadendo la necessità di un approccio flessibile e discrezionale. 41 La revisione del documento confermerà l’intenzione di essere «idealisti nei fini e realisti nei mezzi» (The National Security Strategy of The United States of America, Washintgton, March 2006, p. 49. D’ora in poi richiamerò questo documento con la sigla NSS 2006). Sulla compresenza di entrambi gli spunti nell’amministrazione Bush, si vedano: L. Bonanate, La politica internazione fra terrorismo e guerra, Roma- 131 Tale intreccio è dovuto alla coesistenza di almeno quattro anime nell’amministrazione Bush42. Le figure del vicepresidente Dick Cheney e del segretario alla Difesa Donald Rumsfeld, già titolari di incarichi in precedenti governi repubblicani, esprimono la posizione dei classici conservatori, nazionalisti e a tratti militaristi, in quanto sostenitori del ricorso alla forza di fronte a minacce per il territorio americano, senza alcuna velleità di convincere il mondo a condividere i propri valori43. Il segretario di Stato Colin Powell, invece, incarna l’istanza moderata dei “realisti manageriali” à la Kissinger, estremamente prudenti nei giudizi e nelle azioni e non insensibili al dialogo multilaterale44. Il sottosegretario alla Difesa Paul Wolfowitz è considerato esponente degli influenti circoli e centri studi neoconservatori (neocon, abbreviazione di neoconservative), che rappresentano l’ala più dinamica ed entusiasta del rinnovato impegno internazionale, al punto da essere definiti “wilsoniani di destra” e associati – ma senza una completa identificazione – alla cerchia dei “Vulcani” (Vulcans) che animano l’amministrazione Bush45. L’ultima componente è rappresentata dalla destra cristiana, che, pur esprimendo il Bari, Laterza, 2004, pp. 87-92, che sviluppa la nozione di «neo/neorealismo»; P. Foradori, Rambo democrazia e politica estera americana. Un contributo al dibattito sulla dimensione internazionale dei processi di democratizzazione, «Teoria politica», a. XXII, n. 3, 2006, pp. 84-88; A. Caffarena, A mali estremi. La guerra al terrorismo e la riconfigurazione dell’ordine internazionale, Milano, Guerini, 2004, pp. 62-70; M. Del Pero, Libertà e impero. Gli Stati Uniti e il mondo. 1776-2006, Roma-Bari, Laterza, 2008, pp. 425-435; T. Carothers, Promoting Democracy and Fighting Terror, «Foreign Affairs», vol. LXXXII, n. 1, January-February 2003, pp. 84-97. Di “realismo egemonico” parlano Daalder e Lindsay, America senza freni, cit., pp. 56-62. Sul concetto di realismo politico, cfr. P.P. Portinaro, Il realismo politico, Roma-Bari, Laterza, 1999, che ne illustra l’accezione tipica delle relazioni internazionali, riconducendola al più ampio e datato uso nella storia del pensiero politico (pp. 119-125) e, in un’ottica prevalentemente americana, K.W. Thompson, Schools of Thought in International Relations. Interpreters, Issues, and Morality, Baton RougeLondon, Louisiana State University Press, 1996. 42 In tema si vedano: M. Del Pero, I neoconservatori e l’Europa, in Vacca (a cura di), Il dilemma euroatlantico, cit., p. 72; W.I. Cohen, Gli errori dell’impero americano. Le relazioni internazionali americane dopo la guerra fredda (2005), Roma, Salerno, 2007, pp. 170-172 in particolare; S. Hoffman, Chaos and Violence. What Globalization, Failed States, and Terrorism Mean for U.S. Foreign Policy, Lanham, Rowman & Littlefield, 2006, pp. 120-121 (in cui è ripubblicato Id., American Exceptionalism – The New Version: «The National Security Strategy of the United States of America», September 2002, in M. Ignatieff (ed.), American Exceptionalism and Human Rights, Princeton, Princeton University Press, 2005, pp. 115-131). 43 Si tratta di un orientamento analogo a quello che, secondo Mead, Il serpente e la colomba, cit., designa la categoria dei “jacksoniani”, nel ricordo dell’esperienza del presidente Andrew Jackson tra il 1829 e il 1837 (pp. 257-305). 44 Si veda P. Hassner e J. Vaïsse, Washington e il mondo. I dilemmi di una superpotenza (2003), Bologna, Il Mulino, 2004, p. 40. 45 In quei termini si autodefiniscono – inizialmente in chiave ironica e poi con crescente convinzione – i principali consiglieri di G.W. Bush durante la campagna elettorale presidenziale del 1999/2000, dipingendo a tinte forti i valori in cui si riconoscono: potenza (power), durezza (toughness), resistenza (resilience) e durata nel tempo (durability), tutti evocati da Vulcano, dio romano del fuoco e forgiatore di metalli, la cui gigantesca statua domina da una collina la città di Birmingham (Alabama), luogo di nascita di Condoleezza Rice (J. Mann, Rise of the Vulcans. The History of Bush’s War Cabinet, New York, Viking, 2004, pp. ix-x). Cfr. anche Daalder e Lindsay, America senza freni, cit., pp. 32-42. L’origine e l’uso della definizione ne impediscono la perfetta sovrapposizione con l’etichetta di neocons, assai più risalente nel tempo e caratterizzante un nucleo più ristretto di persone, come si vedrà fra poco. 132 segretario alla Giustizia (John Ashcroft) e non i responsabili della politica estera, ha una responsabilità non trascurabile nell’adozione del linguaggio messianico dei documenti strategici, anche grazie alla solida fede evangelica esibita frequentemente dal presidente Bush46. A giudizio di alcuni studiosi, peraltro, il comportamento internazionale degli Stati Uniti non è comprensibile sottovalutando l’incidenza di un quinta componente, quella degli “amici di Israele”47, che tuttavia non appare del tutto distinta dalle altre, in particolare dalla posizione di numerosi neocons. Le quattro anime non hanno in realtà la medesima influenza sulle decisioni fondamentali. Il margine d’azione del “moderato” Powell, infatti, si riduce nel tempo, fino alla sua esclusione dalla squadra di governo nominata da Bush per il secondo mandato presidenziale, a favore di Condoleezza Rice, madrina dei “Vulcani”. Si verifica, invece, una saldatura fra gli interessi e i progetti di altre componenti: nella contingenza del post-11 settembre, i nazionalisti “all’antica”, come Cheney e Rumsfeld, si trovano a condividere alcune idee basilari dei neocons, che dunque possono circolare negli ambienti governativi nonostante i loro sostenitori non siano titolari di cariche di primissimo piano48. La visione idealista della politica internazionale propria dei neocons è l’esito di una genealogia politico-intellettuale che vede la luce negli anni Cinquanta, con l’opposizione alla dottrina del contenimento del comunismo, introdotta da George Kennan nella prospettiva realista della necessaria e prolungata convivenza con il mondo sovietico49. A contestarla è James Burnham, secondo il quale il mondo occidentale, anziché limitarsi a conservare gli equilibri esistenti, confidando in una graduale e lenta riforma del sistema politico e sociale 46 Sulla coalizione dei movimenti cristiani e la loro prossimità al partito repubblicano, si vedano G. Paraboschi, Leo Strauss e la destra americana, Roma, Editori Riuniti, 1993, pp. 13-15 e G. Borgognone, La destra americana. Dall’isolazionismo ai neocons, Roma-Bari, Laterza, 2004, pp. 171-180. 47 Hoffman, Chaos and Violence, cit., p. 121. 48 Cohen, Gli errori dell’impero americano, cit., p. 247 e Daalder e Lindsay, America senza freni, cit., pp. 25-26. Che la linea di condotta dell’amministrazione Bush sia assimilabile a quella del tradizionale conservatorismo americano è invece la tesi di: Johnson, Le lacrime dell’impero, cit., che vi riconosce lo stigma guerrafondaio di gran parte dell’élite USA, sorda ai richiami dell’internazionalismo liberale ed eternamente proiettata nella dimensione dei ragionamenti geopolitici, economici e inevitabilmente imperialistici (pp. 255-299); M. Zaborowski, Bush’s Legacy and America’s Next Foreign Policy, Paris, Institute for Security Studies, Chaillot Paper n. 111, September 2008, che pone la personalità del presidente Bush in continuità con l’atavica tendenza statunitense all’unilateralismo e ridimensiona il contributo degli ambienti neocon (pp. 17-42); L. Canfora, Esportare la libertà. Il mito che ha fallito, Milano, Mondadori, 2007, che rilegge l’azione dell’amministrazione secondo la consueta dottrina della politica di potenza (pp. 63-79). Su quest’ultima nozione cfr. J.J. Mearsheimer, La logica di potenza. America, le guerre, il controllo del mondo (2001), Milano, Università Bocconi, 2003. 49 Si veda la citazione di Kennan riportata in S. Hoffman, Introduction: The State of the World and the State of the Discipline, in Id. Chaos and Violence, cit., secondo cui la «politica estera è più una forma di giardinaggio che di ingegneria» (p. 2), in virtù dei tempi lunghi richiesti dalle trasformazioni internazionali. 133 nemico, si dovrebbe attivare per eliminare alla radice l’oppressione totalitaria50. Ulteriori sviluppi si rilevano nel dibattito degli anni Settanta e in particolare nell’evoluzione interna al partito democratico. In questo caso il bersaglio della polemica è duplice. Da un lato, desta preoccupazione la campagna della “nuova sinistra” di matrice sessantottina contro l’autorappresentazione degli Stati Uniti come portatori di pace, diritti e libertà, macchiata dalle notizie sugli orrori della guerra in Vietnam. Dall’altro, risulta inaccettabile il pragmatismo di Henry Kissinger, che conduce la politica estera americana sulla via della distensione con l’antagonista sovietico, ispirata a una visione delle relazioni internazionali favorevole ad assicurare la stabilità del sistema più che ad accertarsi della presentabilità dei suoi attori, al relativismo più che alla promozione dei valori e al senso del limite più che agli slanci ideali e ambiziosi51. Una corrente del partito democratico manifesta la volontà di difendere la limpidezza dell’azione americana dalle accuse di sinistra e il primato del modello liberaldemocratico dal disincanto kissingeriano52. Rispetto alla maggioranza del partito e degli ambienti liberal, quella minoranza si scopre conservatrice, come racconta Irving Kristol – tra i capofila dei neocons – nell’autobiografia. La differenza strategica ed etica rispetto ai repubblicani e ai conservatori tradizionali, tuttavia, spinge quel gruppo di democratici dissidenti a volgere in positivo una sprezzante definizione ricevuta dagli ex compagni, rivendicando la nuova identità di “neoconservatori”53. Si produce così uno scarto incolmabile fra vecchi e nuovi conservatori, destinato a condurre personalità eterodosse della sinistra europea come Christopher Hitchens a condividere lo spirito di alcune campagne dei neocons, a partire dalla condanna morale – prima che politica – dell’operato di Kissinger54. Per converso, alcuni esponenti della destra moderata americana avvertiranno l’esigenza di prendere le distanze dagli scomodi 50 Borgognone, La destra americana, cit., che individua nel teorico della rivoluzione manageriale un precursore dei neocons (p. 132). 51 M. Del Pero, Henry Kissinger e l’ascesa dei neoconservatori. Alle origini della politica estera americana, Roma-Bari, Laterza, 2006, pp. 59-70. 52 H. Kissinger, Between the Old Left and the New Right, «Foreign Affairs», vol. LXXVIII, n. 3, May-June 1999, pp. 99-116. 53 I. Kristol, Memoria autobiografica (1995), in Id., Neoconservatorismo. Autobiografia di un’idea, Roma, Idee Nuove, 2005, traduzione parziale di Neoconservatism: The Autobiography of an Idea, New York, The Free Press, 1975, che raccoglie scritti del periodo 1949-1995. Cfr. anche Del Pero, Henry Kissinger e l’ascesa dei neoconservatori, cit., pp. 107-144. Le differenze con alcuni intellettuali sessantottini sono appianate dal tempo e dagli sconvolgimenti geopolitici: dopo il 1989, numerosi epigoni della contestazione si tramutano in ferventi custodi dell’ortodossia liberaldemocratica, aderendo ad antiche battaglie neoconservatrici (cfr. P. Berman, Sessantotto. La generazione delle due utopie (1996), Torino, Einaudi, 2006). 54 Si vedano per esempio alcune argomentazioni utilizzate in C. Hitchens, Processo a Kissinger (2001), Roma, Fazi, 2005 e, in argomento, C. Rocca, Cambiare regime. La sinistra e gli ultimi 45 dittatori, Torino, Einaudi, 2006. 134 neocons55. Negli anni Ottanta, le diverse posizioni della destra sono oggetto di un tentativo di conciliazione da parte dell’amministrazione Reagan, la cui strategia della confrontation con l’URSS riceve l’imprimatur degli analisti neoconservatori, tra i più accesi esorcisti dell’“Impero del Male”. In seguito alla scomparsa del nemico sovietico, gli interessi dei neocons sono dirottati verso lo studio della nuova conformazione dello scenario internazionale: Charles Krauthammer, Samuel P. Huntington e Francis Fukuyama – le cui tesi sono state illustrate nei capitoli precedenti – sono a vario titolo annoverati fra i teorici neoconservatori56. Nel pantheon del pensiero neocon una posizione centrale è occupata da Leo Strauss, filosofo tedesco di origine ebraica, ma adottato dal mondo accademico americano negli anni Trenta. In qualità di allievi diretti o indiretti, numerosi neocons si abbeverano a entrambe le fonti del sapere occidentale individuate da Strauss: la rivelazione divina, simbolicamente rappresentata dalla città di “Gerusalemme” e posta alla base della cultura giudaico-cristiana, e la filosofia greca, evocata dal riferimento ad “Atene” e destinata a scandire la successiva evoluzione del pensiero politico occidentale57. La familiarità con l’orizzonte religioso, riconosciuta da Kristol58, induce i neoconservatori a rifiutare il relativismo etico, sulla scorta della polemica antistoricista dell’antico maestro, convinto oppositore della tendenza a legare anche i diritti e i valori alla variabile temporale. In tal modo si negherebbe infatti il senso del trascendente e, con esso, la possibilità di compiere scelte morali e di distinguere il giusto dall’ingiusto59. Recuperando questo aspetto, i neocons creerebbero i presupposti per la convergenza con la destra cristiana, trovando nella Bibbia un’ispirazione tanto potente da condurli su posizioni di fatto fondamentaliste60. La guida di Strauss nello studio delle origini della filosofia occidentale, e in 55 C.V. Prestowitz, Stato canaglia. La follia dell'unilateralismo americano (2003), Roma, Fazi, 2003. In generale, trovano terreno fertile le analisi e gli interventi di numerosi think tank e istituti di analisi politica, creati nel corso degli anni dagli intellettuali neoconservatori, una sintesi dei quali è presentata in J. Lobe e A. Olivieri (a cura di), I nuovi rivoluzionari. Il pensiero dei neoconservatori americani, Milano, Feltrinelli, 2003. 57 L. Strauss, Gerusalemme e Atene. Studi sul pensiero politico dell’Occidente, Torino, Einaudi, 1998, raccolta italiana di scritti straussiani, il cui titolo è desunto da un omonimo saggio del 1967 (ivi, pp. 3-36). Sui principali tratti del complesso pensiero dell’autore, si vedano l’Introduzione di R. Esposito (pp. VIIXLIV) e l’ulteriore saggio di G. Giorgini, Leo Strauss: un profilo tematico (pp. XLV-LIX) che accompagnano la pubblicazione. Sulla ricezione di Strauss da parte della cultura italiana, cfr. R. Cubeddu, Strauss in Italia, «Il Politico», a. LXXI, n. 1, 2006, pp. 46-85. 58 Kristol, Memoria autobiografica, cit., p. 59. 59 Paraboschi, Leo Strauss e la destra americana, cit., pp. 64-65. In tema si veda anche F. Monceri, La filosofia politica fra relativismo e nichilismo. La critica di Leo Strauss a Friedrich Nietzsche e Max Weber, «Filosofia politica», a. XVI, n. 2, agosto 2002, pp. 223-247. 60 Losurdo, Il linguaggio dell’Impero, cit., p. 50. 56 135 particolare del Platone della Repubblica, rafforza l’aspirazione a ricercare la “giustizia” nella vita associata e – su un piano più strettamente politico – a scegliere la migliore costituzione, dopo aver analizzato le differenze fra di esse61. L’enfasi posta sulla nozione di “regime”62 contribuisce ad accrescere la distanza dottrinale fra i neoconservatori e la famiglia dei realisti, incline a sostenere la preminenza della politica estera (e dunque dei rapporti “fra” gli attori) rispetto alla natura dei diversi regimi. La rivendicazione del diritto a segnalare l’insopprimibile distanza fra la forma di governo dei paesi liberaldemocratici e il modello del socialismo reale costituisce un elemento irrinunciabile del pensiero neocon durante, ma anche dopo, la guerra fredda63. Per chiudere la parentesi storica e volgere nuovamente lo sguardo alla situazione di inizio millennio, i neocons dell’amministrazione Bush si presentano come i principali artefici dell’impostazione assiologica mostrata dalla NSS 2002. La concezione del terrorismo e della lotta intrapresa per combatterlo risente in modo consistente di una tradizione filosofico-politica incentrata sull’idea che la diffusione di libertà e democrazia implichi un salto di qualità nelle relazioni internazionali, oltre che nella sicurezza nazionale statunitense. Le opzioni del “cambio di regime” e dell’“esportazione della democrazia”, tra loro intimamente correlate ma non menzionate esplicitamente nel documento strategico, occupano dal 2002 il centro della scena. Dal punto di vista dei neoconservatori – e dei loro alleati più tradizionalisti che vedono in quelle teorie un utile appoggio ai propri progetti – il modo migliore per neutralizzare uno Stato canaglia è favorirne la trasformazione in senso democratico. Si tratta di decidere con quali mezzi procedere. Da un lato, si possono scegliere gli strumenti che Condoleezza Rice ricondurrà successivamente al concetto di transformational diplomacy, alludendo alla necessità di agire su uno Stato con incentivi, pressioni e anche ingerenze, per indirizzarne le decisioni 61 Si veda l’intervista a Francis Fukuyama (30 gennaio 2004) realizzata da A. Frachon e D. Vernet, L’Amérique messianique. Les guerres des néo-conservateurs, Paris, Seuil, 2004, p. 67. 62 È la traduzione straussiana della platonica politeia, per designare «quella forma di governo, intesa come forma della città stessa, che conferisce alla città il suo carattere, determinando il fine che la città in questione persegue, o ciò che rispetta, in quanto è la più elevata, e cooriginariamente indica anche il tipo di uomini che la governano» (L. Strauss, Platone, in Id. e J. Cropsey (a cura di), Storia della filosofia politica (1963), 3 voll., Genova, Il Melangolo, 1993-2000, vol. I, p. 140). 63 Si veda N. Tarcov e T.L. Pangle, Leo Strauss e la storia della filosofia politica, capitolo dedicato al filosofo tedesco nella terza edizione americana (1987) di Strauss e Cropsey (a cura di), Storia della filosofia politica, cit., pp. 9-53. Nel testo, i due allievi di Strauss conducono la critica dell’approccio «internazionalistico» che tende a sminuire le differenze ed accentuare i punti di contatto e gli interessi comuni fra i blocchi (pp. 43-47). Il lessico è con tutta probabilità fuorviante: bersaglio della polemica sono infatti i realisti kissingeriani, portati sostanzialmente a ignorare i caratteri dei diversi tipi di regime (e le loro conseguenze sulle relazioni internazionali), e non gli “internazionalisti” in senso tecnico, assai attenti alla matrice ideologica delle varie forme di governo. 136 fondamentali64. Dall’altro, si affaccia l’ipotesi che la guerra possa diventare il canale privilegiato per ottenere un cambiamento di regime, assicurando il trionfo dell’opzione liberaldemocratica e accrescendo nel contempo la sicurezza americana. L’intervento militare può essere dunque interpretato anche come mezzo per diffondere la democrazia, ben al di là da quanto scritto nella NSS 2002 e immaginato qualche decennio prima da Strauss65. La guerra si tramuterebbe così in un’occasione per mostrare la propria moralità in contrapposizione all’immoralità dei nemici, intesi non come soggetti portatori di interessi e mire configgenti con quelli americani, ma veri e propri «mostri da distruggere», per ricorrere a un’espressione usata polemicamente dal futuro presidente John Quincy Adams nel 182166. La prospettiva di esportare i valori con la forza è tanto originale da far guadagnare ai neocons gli epiteti di «neotrockisti» e «neotimocratici»67. Il dibattito sulla crisi in Iraq del 2002-03 è il terreno concreto in cui la “dottrina Bush” è messa in pratica, determinando la rottura fra gli Stati Uniti e una parte dell’Unione europea. 4.2 L’intervento in Iraq nel dibattito euroamericano Il regime di Saddam Hussein è al centro dell’attenzione internazionale almeno dagli anni Ottanta. Nello scontro con l’Iran sciita e integralista, durato otto anni e caratterizzato dal ricorso ad armi chimiche, l’Iraq riceve l’appoggio degli Stati Uniti, inquieti per la carica espansiva della rivoluzione khomeinista. Viceversa, l’amministrazione di Bush sr. è l’architetto della vasta coalizione impegnata nella guerra del Golfo del 1991, combattuta per costringere le forze irachene ad abbandonare il Kuwait (invaso nell’estate precedente) e conclusa dalla decisione di non rovesciare il governo baathista. Nel decennio che precede 64 J. Vaïsse, États-Unis: le temps de la diplomatie transformationelle, Paris, Institute d’études de sécurité, Cahier de Chaillot, n. 95, Décembre 2006. 65 Fukuyama, America al bivio, cit., pp. 38-39 in particolare. Sull’irriducibilità dei neocons contemporanei al pensiero straussiano, cfr. anche R. Cubeddu, Ma l’esportazione della democrazia non faceva per lui, «Reset», n. 81, Gennaio-Febbraio 2004, pp. 29-32 e de Benoist, Terrorismo e «guerre giuste», cit., pp. 7-19. 66 I. Chernus, Monsters to Destroy. The Neoconservative War on Terror and Sin, Boulder-London, Paradigm Publishers, 2006, che descrive l’ideologia neoconservatrice (ma anche quella dell’internazionalismo liberale) nei termini di una “narrazione” (story) di sé, del nemico e del mondo. 67 Si vedano rispettivamente T. Todorov, Il nuovo disordine mondiale. Le riflessioni di un cittadino europeo (2003), Milano, Garzanti, 2003, che accosta la dottrina dell’esportazione della democrazia a quella della rivoluzione permanente di Trockij, rivangando la militanza giovanile nell’estrema sinistra di alcuni neocons (pp. 19-21), e H. Gardner, American Global Strategy in the «War on Terrorism», Aldershot, Ashgate, 2005, che trae spunto dalla riflessione di Socrate-Platone sugli uomini – e sulla corrispondente costituzione, la “timocrazia” – attirati da onore, ricchezze, potere e naturalmente portati alla guerra (pp. 46-49). Cfr. anche Platone, La Repubblica, in Id., Opere complete, vol. VI, Roma-Bari, Laterza, 1996, libro VIII, 543c-550c (pp. 259-267). La definizione, tuttavia, non sembra allontanarsi granché da quella dei “jacksoniani” di Mead, indirizzata invece ai conservatori più tradizionali: non casualmente, lo stesso Gardner ritiene necessario correggere il riferimento all’«uomo timocratico» con l’inserimento di un elemento ideale, tratto dalla tradizione kantiana, che produrrebbe l’originale miscela di cui si nutrono i neocons. 137 l’11 settembre, il paese è oggetto di sanzioni economiche e diplomatiche, nonché di limitazioni alla propria sovranità e di ripetute operazioni militari delle potenze occidentali, che danno vita a una situazione ibrida di pace guerreggiata68. Già dai primi mesi del 2001 l’amministrazione Bush individua nel regime iracheno una delle principali fonti di pericolo. L’idea acquisisce nuovo vigore dopo l’11 settembre, quando i servizi di intelligence sono invitati a prendere in seria considerazione l’ipotesi di un legame tra Saddam Hussein e Al Qaeda69. È da più parti condivisa la tesi che il dittatore si stia adoperando da anni per sviluppare WMDs con cui sferrare attacchi agli USA, progetto che spiegherebbe l’allontanamento dal territorio iracheno degli ispettori ONU incaricati di verificare gli impegni sul disarmo (1998). Per questo motivo, forse a titolo precauzionale e indipendentemente dall’irruzione sulla scena del terrorismo qaedista, i programmi per un eventuale intervento militare in Iraq sono costantemente aggiornati. La decisione di concentrare gli sforzi in Afghanistan congela per qualche mese la questione, che torna ad affacciarsi nel dibattito pubblico nei primi mesi del 2002, allorché il presidente Bush seguita con una certa insistenza a porre l’accento sui paesi costituenti il cosiddetto “asse del Male”70. In tal modo, con largo anticipo rispetto alla pubblicazione della NSS 2002 (avvenuta a settembre), prende il via un’intensa campagna massmediatica che riunisce – quanto meno sul piano concettuale, visto che non esistono riscontri empirici certi – i temi del terrorismo, dell’utilizzo delle WMDs, degli Stati canaglia, della necessità di diffondere i principi liberali e democratici al di là del mondo occidentale. I confini della “guerra al terrorismo” si dilatano fino a racchiudere la generica categoria del “terrore”, che più adeguatamente traduce il bushiano terror e rende conto dell’eterogeneità delle minacce poste in relazione dall’amministrazione. Il passaggio semantico consente di prendere in esame non solo la violenza perpetrata da formazioni non statali nel mondo globalizzato (il “nuovo terrorismo” qaedista), ma anche le dinamiche interne e internazionali legate all’esistenza di modelli statali e istituzionali irriducibili alla democrazia liberale, cui fa riferimento la nozione di “terrore”. Quest’evoluzione risulta problematica per il punto di vista europeo. L’Ue non ha difficoltà a condividere la lista delle priorità americane finché esse rimangono confinate nella sfera del terrorismo in senso stretto, ma fatica ad accettare che la comune lotta perda la sua specificità anti-qaedista e si trasformi, senza troppe discussioni, in una campagna 68 Per una sintetica ricostruzione del periodo precedente all’11 settembre, si veda Gregory, The Colonial Present, cit., pp. 144-179. 69 Clarke, Contro tutti i nemici, cit., pp. 46-49 e pp. 276-279. 70 La prima occasione di un certo livello è il discorso sullo stato dell’Unione pronunciato il 29 gennaio 2002. 138 generosa ma indiscriminata contro ogni potenziale pericolo – diretto o indiretto – per la sicurezza dei paesi occidentali. Ne è testimonianza l’assenza di qualsiasi cenno alla minaccia qaedista nella discussione sull’Iraq svoltasi nel maggio 2002 al Parlamento europeo: tracciando un bilancio a undici anni di distanza dalla guerra del 1991, i rappresentanti delle varie istituzioni e forze politiche si soffermano sulla brutalità del regime di Saddam e perfino sul suo apporto finanziario all’estremismo palestinese, ma in nessun passaggio delineano un collegamento con i problemi sollevati dall’11 settembre71. In quella fase, le autorità dell’Ue si limitano ad appoggiare le risoluzioni sul disarmo iracheno assunte in sede ONU72. A fine estate, mentre si rincorrono voci e indiscrezioni sulle intenzioni americane, la presidenza danese dell’Ue espone al Parlamento europeo la posizione del Consiglio circa le «congetture» della stampa a proposito di «un possibile, imminente attacco americano in Iraq», in seguito alla «richiesta molto precisa» di un cambio di regime formulata da Bush, nel quadro di una consultazione con gli alleati73. Ribadendo la linea adottata nei mesi precedenti e senza poter assumere impegni precisi per il futuro, la presidenza rileva un largo consenso sulla necessità di ripristinare il sistema di ispezioni, poiché Saddam è sospettato di aver ripreso a interessarsi di armi chimiche, biologiche, radiologiche o nucleari (CBRN). Dal canto suo, il commissario Patten confessa le proprie incertezze sulla possibilità che l’Iraq possieda realmente WMDs e solleva dubbi sulla legittimità giuridica e sull’opportunità politica di un’azione militare riparatrice74. Al pari di molti leader europei, Patten non esclude a priori il ricorso alla forza, opzione in astratto praticabile per la classe dirigente europea che pochi anni prima ha in larga parte condiviso l’intervento NATO contro la Serbia75. L’aspetto dirimente è viceversa il significato di una specifica e ipotetica guerra, che, alla luce dell’impianto strategico americano, spazierebbe dal versante dalla lotta al 71 Cfr. Parlamento europeo, Discussioni, in APE, Strasburgo, seduta del 14 maggio 2002 e Id., Risoluzione del Parlamento europeo sulla situazione in Iraq undici anni dopo la guerra del Golfo, Strasburgo, 15 maggio 2002, in APE, doc. P5_TA (2002) 0248, in particolare punto H. 72 Si veda Consiglio dell’Unione europea, Atti legislativi e altri strumenti, Bruxelles, 16 luglio 2002, in RCUE, doc. 11005/02, che aggiorna la posizione comune sull’embargo attuato ai danni dell’Iraq. 73 Cfr. l’intervento del ministro danese degli Affari europei, Bertel Haarder, in Parlamento europeo, Discussioni, in APE, Strasburgo, seduta del 4 settembre 2002. 74 Ibidem, intervento di Patten. 75 Si vedano le due Dichiarazioni sul Kosovo in Consiglio europeo, Conclusioni della Presidenza, Berlino, 24-25 marzo 1999, doc. 100/1/99 (http://www.consilium.europa.eu/uedocs/cms_data/ docs/pressdata/it/ec/ 00100.i9.html), in cui si fa leva sull’«obbligo morale» dell’Europa di fermare la «catastrofe umanitaria al suo interno». Cfr. inoltre il discorso del commissario Patten in Parlamento europeo, Discussioni, in APE, Bruxelles, seduta del 9 ottobre 2002, che tuttavia fornisce un’interpretazione discutibile dell’intervento del 1999, presentato come precedente di guerra umanitaria e “preventiva”, nonostante la pulizia etnica da parte delle milizie serbe fosse già in corso al momento dell’avvio delle operazioni NATO. 139 terrorismo a quello della neutralizzazione preventiva degli Stati canaglia, fino a prefigurare l’utilità della guerra come mezzo di diffusione dei valori occidentali. Nell’autunno del 2002 la partita si trasferisce nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU, dove emergono fratture interne al fronte Ue. Le certezze degli Stati Uniti e, a ruota, della Gran Bretagna, favorevoli a un’azione incisiva contro l’Iraq, si scontrano con le riserve degli altri membri permanenti: Francia, Russia e Cina, dotati di diritto di veto. L’Unione europea, rappresentata in tale frangente anche da Spagna (filo-USA) e Germania (alquanto scettica), si trova così impossibilitata a esprimere una posizione comune sul progetto di una nuova risoluzione76. A fronte di un generale consenso sulla richiesta di riprendere le ispezioni, il punto controverso è la minaccia di ricorso alla forza in caso di inadempienza da parte irachena, che il versante americano vorrebbe esplicitare. Accogliendo l’istanza di numerose delegazioni, tra cui la maggioranza di quelle europee77, l’8 novembre il Consiglio di Sicurezza approva la risoluzione 1441 che prevede il ritorno degli ispettori in Iraq con un ampio mandato, senza tuttavia sancire alcun automatismo – ma solo «gravi conseguenze» – in seguito al prolungarsi dell’ostruzionismo del regime baathista78. La soluzione è accolta positivamente dal Consiglio Ue della settimana successiva, che la interpreta come l’«unico modo in cui l’Iraq può evitare un ulteriore confronto», espressione artatamente concepita per evitare di prendere posizione sulla plausibilità della guerra79. La prospettiva militare resta dunque impregiudicata, ma è la sua plausibilità come “minaccia concreta” a convincere Saddam Hussein ad accogliere gli ispettori ONU per scongiurare conseguenze peggiori80. La missione internazionale inizia il 27 novembre, ma incontra qualche difficoltà 76 Sulle divergenze fra gli Stati Ue all’interno del Consiglio di Sicurezza si vedano M. Farrell, EU Representation and Coordination with the United Nations e C. Hill, The European Powers in the Security Council: Differing Interests, Differing Arenas, entrambi in K.V. Laatikainen and K.E. Smith (eds.), The European Union at the United Nations. Intersecting Multilateralism, New York-Basingstoke, Palgrave Macmillan, 2006, pp. 33-36 e pp. 53-54 rispettivamente. 77 Cfr. l’intervento di Javier Solana in Parlamento europeo, Discussioni, in APE, Bruxelles, 6 novembre 2002, che presenta come successo dell’Ue la momentanea esclusione della guerra come punizione inevitabile per l’Iraq. 78 United Nations – Security Council, Resolution 1441, New York, 8 November 2002, doc. S/RES/1441 (2002), reperibile all’indirizzo web: http://daccess-ods.un.org/TMP/8688477.html, punto 13. 79 Consiglio dell’Unione europea, Nota del Segretariato generale del Consiglio, Bruxelles, 15 novembre 2002, in RCUE, doc. 14341/02, p. 2. Il mese successivo si pronuncerà in tal senso anche il Consiglio europeo di Copenaghen (cfr. Dichiarazione del Consiglio europeo sull’Iraq, in Consiglio dell’Unione europea, Nota della Presidenza, Bruxelles, 29 gennaio 2003, in RCUE, doc. 15917/02, p. 16). Le parole della risoluzione saranno testualmente riprese in occasione del vertice NATO di Praga del 21-22 novembre 2002 (NATO Summit, Statement on Iraq by the Heads of State and Government, Prague, 21-22 November 2002, in Heine (ed.), From Laeken to Copenhagen, cit., p. 164). 80 Su questa particolare dinamica si vedano Beck, Lo sguardo cosmopolita, cit., pp. 156-169 e Walzer, Sì agli ispettori, no alla guerra (2002), in Id., Sulla guerra, cit., pp. 147-148, a giudizio dei quali la minaccia avrebbe molta più credibilità se gli Stati europei la sostenessero compattamente. 140 dovuta alla scarsa collaborazione degli iracheni. Anche in virtù di questi inconvenienti, l’amministrazione Bush rimane ferma sulle proprie posizioni, lasciando intendere di essere pronta a procedere unilateralmente sulla strada dell’intervento, se le Nazioni Unite continueranno a escluderlo. Il dissidio assume contorni sempre più formali dal gennaio del 2003. In una conferenza stampa congiunta del 22 gennaio (40° anniversario della firma del Trattato tra Francia e Germania del 1963), il presidente Jacques Chirac e il cancelliere Gerhard Schröder auspicano il prolungamento delle ispezioni, considerando il disarmo dell’Iraq realizzabile in pochi mesi. Opponendosi alle pressioni americane, essi indicano nel Consiglio di Sicurezza l’unica istituzione legittimata a decidere la guerra, preannunciando un voto contrario di Francia e Germania a qualsiasi nuovo progetto di risoluzione che accenni all’intervento armato81. Si rinverdiscono così i tempi dell’asse franco-tedesco, antico motore dell’integrazione europea ma incrinato dalle divergenze sulla riforma dell’Ue a fine anni Novanta82. La sua ricomposizione in funzione antiamericana è letta come la convergenza fra il ritorno dell’“eurogollismo” francese83 e la volontà tedesca di svincolarsi dalla “tutela” statunitense che dura dal secondo dopoguerra84. Trovandosi a mediare fra posizioni ormai poco conciliabili, il Consiglio Ue trova un punto d’intesa nella precisazione che la «responsabilità del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite nel mantenimento della pace e della sicurezza internazionale deve essere rispettata»85. Per evitare che questa considerazione sia letta come appoggio alla linea franco-tedesca e sconfessione di quella americana, i capi di governo di otto Stati membri (o candidati all’ingresso) – Gran Bretagna, Spagna, Italia, Portogallo, Danimarca, Repubblica Ceca, Polonia e Ungheria – diffondono il 30 gennaio una lettera che sollecita il Consiglio di Sicurezza a non tollerare ulteriormente il comportamento di un dittatore e di uno Stato indifferenti alle risoluzioni che li riguardano. Escludendo nuovi provvedimenti e sfuggendo alle proprie responsabilità, le Nazioni Unite intaccherebbero sensibilmente la 81 Per un resoconto, si veda M. Nava, Francia e Germania, insieme contro la guerra, «Corriere della Sera», 23 gennaio 2003, p. 6. Cfr. inoltre Entretien du Président de la République, M. Jacques Chirac, et du Chancelier de la République Fédérale d’Allemagne, M. Gerhard Schröder, Paris, 22 January 2003, in Missiroli (ed.), From Copenhagen to Brussels, cit., pp. 340-341 (trascrizione parziale dell’intervista a «France 2» e «ARD»). 82 A. Missiroli, L’asse franco-tedesco, l’Iraq e l’Europa, in Vacca (a cura di), Il dilemma euroatlantico, cit., pp. 97-116. 83 T. Garton Ash, Free World. America, Europa e il futuro dell'Occidente (2004), Milano, Mondadori, 2005, pp. 53-91. 84 Si vedano in proposito V.E. Parsi, Europe and America: Still an Inevitable Alliance?, in M. Evangelista e V.E. Parsi (eds.), Partners or Rivals? European-American Relations after Iraq, Milano, Vita e Pensiero, 2005, pp. 23-24 e G. Timmins, Germany: Solidarity Without Adventures, in R. Fawn and R. Hinnebusch (eds.), The Iraq War. Causes and Consequences, Boulder-London, Lynne Rienner, 2006, pp. 62-65. 85 Consiglio dell’Unione europea, Risultati dei lavori del Consiglio «Affari generali» e relazioni esterne, Bruxelles, 28 gennaio 2003, in RCUE, doc. 5798/03, p. 2. 141 propria credibilità86. Leader di questo gruppo di paesi, che offrono sostegno ai progetti di Bush, è la Gran Bretagna, la cui posizione è forzata. Dopo aver aiutato Colin Powell a convincere Bush dell’opportunità di esperire la via dell’ONU, il premier Tony Blair si vede obbligato a rispettare l’impegno preso nel «patto faustiano» di Camp David (settembre 2002) e cioè seguire la scia americana in caso di mancato accordo nel Consiglio di sicurezza87. A questo punto gli schieramenti in campo sono definiti e la rottura fra gli Stati membri è di dominio pubblico, anche se per effetto di interventi esterni al perimetro istituzionale Ue. Alla luce della situazione che si va configurando, Javier Solana è costretto a puntualizzare in Parlamento che «[la] pace e la guerra, la vita e la morte sono decisioni che competono agli Stati e mai uno Stato sarà disposto a permettere che un altro Stato gli imponga di partecipare a una guerra, né al contrario potrà imporre ad altri di prendere parte a una guerra»88. Tale affermazione contiene la più evidente manifestazione di pessimismo sui futuri scenari della politica di difesa europea, poiché esclude ogni possibilità che il metodo sovranazionale arrivi a coinvolgere anche quel settore, indicandolo come il nucleo più intimo e intangibile della sovranità. Quando, il 5 febbraio, il segretario di Stato Powell presenta all’Assemblea generale delle Nazioni Unite le presunte prove raccolte dai servizi di intelligence occidentali sulle responsabilità dell’Iraq nella produzione delle WMDs e sul collegamento con il terrorismo internazionale89, i ministri degli Esteri del gruppo Vilnius, che riunisce i paesi dell’Europa orientale in procinto di entrare nella NATO, adottano una Dichiarazione che riconosce l’«evidenza» degli argomenti e offrono la propria disponibilità a partecipare a una coalizione chiamata a far rispettare le decisioni già assunte dall’ONU90. Tale atto conferma che gli Stati dell’ex blocco sovietico, intravedendo la prospettiva di entrare a far parte del “mondo libero”, si sentono più filo-americani di alcuni fra i fondatori del patto atlantico91. 86 Per il testo, cfr. Missiroli (ed.), From Copenhagen to Brussels, cit., pp. 343-344. In Italia la lettera è pubblicata sul «Il Giornale» del 30 gennaio 2003. 87 A. Romano, The Boy. Tony Blair e i dilemmi della sinistra, Milano, Mondadori, 2005, pp. 192-207. Cfr. anche Id., Tony Blair, la «special relationship» e l’Iraq, in Vacca (a cura di), Il dilemma euroatlantico, cit., pp. 129-135. 88 Si veda la replica finale di Solana in Parlamento europeo, Discussioni, in APE, Bruxelles, seduta del 29 gennaio 2003. 89 Cfr. E. Caretto, «Credetemi, Saddam è colpevole e va fermato», «Corriere della Sera», 6 febbraio 2003, p. 3. 90 Statement of the Vilnius Group Countries, in Missiroli (ed.), From Copenhagen to Brussels, cit., p. 345. 91 Si vedano in proposito: R. Di Leo, Lo strappo atlantico. America contro Europa, Roma-Bari, Laterza, 2004, pp. 42-56; A. Ghecin, When the «New Europeans» Encountered «the Old Continent». Redefinig Europe, Re-imagining the World in the Context of the War against Iraq, in Evangelista e Parsi (eds.), Partners or Rivals?, cit., pp. 71-201; S. Giusti, Le relazioni transatlantiche: la prospettiva dell’Europa 142 Sull’altro versante, gli Stati europei raccolti intorno a Francia e Germania incontrano la solidarietà della Russia, cioè proprio la potenza alla cui influenza le nuove democrazie post-sovietiche cercano di sfuggire92. La posizione franco-tedesca trova un sostegno esplicito nell’opinione pubblica europea, in larga misura contraria alla guerra. La manifestazione pacifista del 15 febbraio, svolta nelle principali metropoli del continente, è immediatamente letta da alcuni intellettuali come segnale incoraggiante verso l’approdo a una coscienza e a un’identità comuni ai popoli europei. Nel ricordo delle tragedie del XX secolo, essi affermerebbero il rifiuto della violenza e la propensione alla cooperazione internazionale e alla giuridificazione dei rapporti fra i gli Stati93. I cittadini europei, dunque, paiono più disinvolti e compatti dei loro governi nell’opposizione all’intervento in Iraq. Non è casuale che l’istituzione deputata a esprimerne gli umori – il Parlamento europeo – ne condivida l’orientamento di fondo, adottando una Risoluzione decisamente critica sulla prospettiva di una guerra. Con il voto contrario del gruppo popolare, convinto sostenitore dell’opzione bellica di fronte alle inadempienze irachene, una maggioranza di centro-sinistra (dai liberali alla Sinistra Europea) riconosce la natura nefasta del regime iracheno, tale da far ipotizzare la consegna del dittatore al Tribunale penale internazionale, ma nel contempo evidenzia la necessità di portare a termine le ispezioni, astenendosi da interventi militari, a maggior ragione se unilaterali94. Seri dubbi affiorano anche negli ambienti culturali americani in precedenza benevoli verso l’azione in Aghanistan. Benché compaia una nuova lettera-manifesto favorevole alla guerra irachena, studiosi di prestigio come Walzer avvertono ora l’esigenza di prendere le distanze dal secondo possibile conflitto95. centro-orientale, in Parsi, Giusti e Locatelli (a cura di), Esiste ancora la comunità transatlantica?, cit., pp. 197-231. 92 Joint Declaration by Russia, Germany and France on Iraq, Paris, 10 February 2003, in Missiroli (ed.), From Copenhagen to Brussels, cit., p. 346. 93 Cfr. in particolare J. Habermas e J. Derrida, «Il 15 febbraio, ovvero: ciò che unisce gli europei» (2003), in seguito raccolto in J. Habermas, L’occidente diviso (2004), Roma-Bari, Laterza, 2005, pp. 19-30, considerato il manifesto culturale per la costruzione di un comune sentire europeo in contrapposizione alla tendenza militarista americana. Nella medesima direzione si muovono Richard Rorty, Umberto Eco, Gianni Vattimo, Fernando Savater e Adolf Muschg. A favore delle ragioni americane si schierano invece A. Glucksmann, Occidente contro Occidente (2003), Torino, Lindau, 2004 e R. Dahrendorf, L’Europa e l’Occidente: vecchie e nuove identità (2003), in Id., La società riaperta. Dal crollo del muro alla guerra in Iraq (2004), RomaBari, Laterza, 2005, pp. 374-390. 94 Si vedano Parlamento europeo, Risoluzione del Parlamento europeo sulla situazione in Iraq, Bruxelles, 30 gennaio 2003, in APE, doc. P5_TA (2003) 0032 e Id., Discussioni, in APE, sedute del 4 settembre 2002 (Strasburgo), 9 ottobre 2002 (Bruxelles), 6 novembre 2002 (Bruxelles), 29 gennaio 2003 (Bruxelles), 12 febbraio 2003 (Strasburgo), 12 marzo 2003 (Strasburgo), 20 marzo 2003 (Bruxelles, seduta straordinaria). 95 L’approvazione alla condotta dell’amministrazione Bush è sancita in Pre-Emption, Iraq, and Just War: a Statement of Principles, 14 November 2002, reperibile all’indirizzo web: http://www.americanvalues.org /html/1b_pre-emption.html, su cui cfr. Elshtain, Just War against Terror, cit., pp. 182-183 e, criticamente, E. Balibar, L’Europa, l’America, la guerra (2003), Roma, Manifestolibri, 2003, pp. 81-86. Sull’atteggiamento 143 Un estremo tentativo di conciliazione è compiuto con il Consiglio europeo straordinario del 17 febbraio, sotto gli auspici della presidenza greca, che sostiene l’esigenza di riportare la politica e la sua arte della mediazione al centro di un dibattito che scivola pericolosamente verso il conflitto96. Le delegazioni degli Stati membri concordano sul fatto che le WMDs costituiscono una minaccia reale, che il rapido e completo disarmo dell’Iraq è l’obiettivo fondamentale, che l’ONU rappresenta la via maestra e la guerra l’ultima, e «non inevitabile», risorsa97. Sfrondate dei tratti più marcati, tra cui la prospettiva di iniziare una guerra per abbattere un regime sgradito, agli europei le richieste degli Stati Uniti non appaiono del tutto irragionevoli o infondate. Il disaccordo riguarda soprattutto la valutazione sul grado di maturazione del processo in atto98. Riunito alle Azzorre a metà marzo, il fronte filoamericano comunica di aver esaurito la pazienza e di considerare “imminente” – nel senso illustrato qualche pagina addietro – la minaccia99. La guerra scoppia il 20 marzo 2003 ed è letta come manifestazione di un contrasto quasi “antropologico” fra europei e americani. Per un verso, giunge a tali conclusioni chi pone l’accento sull’antiamericanismo prodotto da atavici pregiudizi, da una forma di disprezzo verso il nuovo mondo, che le élites europee avrebbero alimentato nell’età moderna e solo recentemente divenuto fattore di mobilitazione delle masse, per la costruzione di un’identità alternativa al modello americano100. Altri rimarcano, specularmente, l’antieuropeismo militante di alcuni neocons, che nasconderebbe sotto un linguaggio maschilista – si pensi all’uso dei rimandi mitologici a Marte e Venere – un risentimento verso l’Ue, potenziale ostacolo al protagonismo americano sulla scena internazionale101. Si di Walzer si vedano Walzer, Sì agli ispettori, no alla guerra, cit., pp. 141-149, Id., Allora, è una guerra giusta? (2003), in Id., Sulla guerra, cit., pp. 159-161 e Id., La libertà e i suoi nemici. Nell’età della guerra al terrorismo, intervista di M. Molinari, Roma-Bari, Laterza, 2003, pp. 44-45 e p. 89. 96 Cfr. l’intervento di Tassos Yannitsis, viceministro greco per gli Affari Esteri, Parlamento europeo, Discussioni, in APE, Strasburgo, seduta del 12 febbraio 2003. 97 Consiglio europeo, Conclusioni della Presidenza, in Consiglio dell’Unione europea, Nota della Presidenza, Bruxelles, 21 febbraio 2003, in RCUE, doc. 6466/03. 98 Si veda l’intervento di Patten in Parlamento europeo, Discussioni, in APE, Bruxelles, seduta straordinaria del 20 marzo 2003. 99 Il vertice delle Azzorre, che si svolge il 15 e 16 marzo e coinvolge Stati Uniti, Gran Bretagna, Spagna e Portogallo, dà all’ONU ventiquattr’ore di tempo per assumere una posizione più energica sull’Iraq. In caso contrario, prenderebbe il via l’azione unilaterale (cfr. R. Fawn, The Iraq War: Unfolding and Unfinished, in Id. and Hinnebusch (eds.), The Iraq War, cit., p. 6). 100 A.S. Markovits, La nazione più odiata. L’antiamericanismo degli europei (2007), Torino, Einaudi, 2007, pp. 267-269 e nota 2 a p. 294. Il titolo adottato per la traduzione italiana, peraltro, travisa parzialmente il messaggio di quello originale, Uncouth Nation. Why Europe Dislikes America, e cioè, alla lettera: “La nazione rozza. Perché all’Europa non piace l’America”. 101 Si vedano Di Leo, Lo strappo atlantico, cit., pp. IX-X e p. 15 e M. Nolan, Antiamericanismo e antieuropeismo, in Vacca (a cura di), Il dilemma euroatlantico, cit., pp. 57-58. Sulla dimensione storica della conflittualità transatlantica cfr. M. Dembinski, Still Hanging Togheter? Reflections on the Harmonious Past, 144 consideri in proposito la nota distinzione di Robert Kagan fra gli americani, depositari della consapevolezza di vivere in un mondo hobbesiano in cui la guerra e le altre “arti marziali” sono ancora necessarie, e gli europei, “venusiani” convinti di trovarsi in un paradiso kantiano e portati a negare la legittimità dell’uso della forza per il solo fatto di non possedere i mezzi per esercitarla102. Quest’ultima interpretazione corre il rischio di veicolare un’immagine eccessivamente irenica dell’Europa e specificamente dell’Unione europea. La mancanza di mezzi e risorse militari sovranazionali – che sarebbero in grado di incidere sui destini del mondo in modo più profondo di quanto sia concesso alle forze armate nazionali – risponde solo in parte alle istanze non violente sedimentate in ampi settori dell’opinione pubblica europea dopo l’epoca delle guerre mondiali. Il profilo “kantiano” dell’Ue è anche il frutto delle logiche che governano il processo di integrazione. Le istituzioni europee hanno scarsa familiarità con la dimensione bellica non tanto per una convinta scelta “pacifista”, che pretenderebbero di estendere su scala globale, quanto piuttosto per la contrarietà degli Stati membri a cedere all’Unione le quote di sovranità relative agli ambiti della politica estera e di sicurezza. Una siffatta esaltazione della dicotomia America-Europa trascura inoltre le divisioni emerse all’interno di quest’ultima, riconosciute invece dal segretario alla Difesa Rumsfeld, teorico della distinzione fra “vecchia” e “nuova” Europa. Prima ancora di entrare in collisione con gli alleati, l’Ue si accartoccia su se stessa, mettendo in discussione i progressi nei campi PESC e PESD, faticosamente maturati nel decennio precedente e tradotti, pur senza particolari entusiasmi, nel progetto di Trattato costituzionale. I problemi non riguardano solo i rapporti con l’Europa centro-orientale, protagonista di un allargamento ormai imminente. A destare inquietudine è soprattutto la distanza – e, in certe fasi, l’incomunicabilità – fra i principali Stati membri, da cui si attenderebbe qualche sacrificio in vista di un avanzamento dell’integrazione. Viceversa, si registra l’arroccamento di ciascuno di essi sulle proprie esigenze e priorità, alle quali il valore dell’unità europea cede decisamente il passo, come conferma il prolungato susseguirsi di documenti e prese di posizione al di fuori delle sedi istituzionali e nel disinteresse per le opinioni degli altri. Il discorso vale tanto per il versante filoamericano, quanto per quello Crisis-ridden Present and Uncertain Future of the Transatlantic Relationship, in Evangelista e Parsi (eds.), Partners or Rivals?, cit., pp. 61-63 in particolare. 102 R. Kagan, Paradiso e potere. America ed Europa nel nuovo ordine mondiale (2003), Milano, Mondadori, 2003, che riprende Id., Power and Weakness, «Policy Review», n. 113, June-July 2002, pp. 13-28. 145 franco-tedesco103. Tale dinamica centrifuga è peraltro favorita dal comportamento degli Stati Uniti, che giudicano conveniente instaurare rapporti bilaterali o a geometria variabile con gli Stati membri anziché riconoscere all’Ue un ruolo effettivo di rappresentanza. Si tratta del metodo cherry picking, letteralmente “cogliere la ciliegina”104. Come nel caso dell’Afghanistan talebano, il rovesciamento del regime baathista in poche settimane apre le porte alla gestione del complesso dopoguerra. Pur non avendo appoggiato la scelta di ricorrere alle armi, l’Ue contribuisce a finanziare la ricostruzione del paese, della sua economia, delle sue istituzioni, stanziando 1,25 miliardi di euro nell’ottobre del 2003 e avviando in seguito la missione Eujust Lex (2005), finalizzata a formare funzionari iracheni incaricati di svolgere indagini penali105. Il mantenimento della sicurezza è affidato alla Coalitional Provisional Authority guidata da Paul Bremer, cui succederà il governo provvisorio di Iyad Allawi (giugno 2004) fino alle elezioni legislative del dicembre 2005, ma proseguono gli scontri fra le milizie locali e le truppe occidentali, che assumono spesso le forme dell’attentato terroristico. Nonostante non abbia timore nel qualificare come «occupanti» le forze della coalizione operante in Iraq106, l’Ue è assai meno esplicita nel riconoscere una funzione di “resistenza” all’azione dei gruppi che le combattono, evitando un linguaggio che contribuirebbe in un certo senso a legittimare lo status degli insorti. Qualche segnale in direzione opposta giunge da parte della compagine socialista al Parlamento europeo, che accenna in più occasioni all’emergere di «qualcosa che si potrebbe paragonare a una resistenza», a «una rivolta popolare» e all’opera dei «resistenti»107. A rendere problematica la lettura della guerriglia e del terrorismo postbellici come forme di lotta di liberazione nazionale è anche la consapevolezza che lo scontro con le truppe di occupazione richiama in Iraq militanti jihadisti di varie nazionalità, poco interessati al futuro del paese in quanto tale e invece animati da pulsioni genericamente antioccidentali. 103 J. Howorth, France: Defender of International Legitimacy, in Fawn and Hinnebusch (eds.), The Iraq War, cit., legge il comportamento francese come sintomo di arroganza nei confronti degli altri Stati membri (pp. 57-58). 104 J.C. Hulsman, «Cogli la ciliegina»: l’America sfrutta la debolezza europea, «Limes», a. XI, n. 1, 2003, pp. 141-150. 105 Cfr. Commissione delle Comunità europee, Comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento europeo. L’Ue e l’Iraq. Quadro per l’impegno, Bruxelles, 9 giugno 2004, in RCE, doc. COM (2004) 417, pp. 2-3 e Consiglio dell’Unione europea, Atti legislativi ed altri strumenti, Bruxelles, 1° marzo 2005, in RCUE, doc. 6328/05, pp. 5-6. 106 Commissione delle Comunità europee, Comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento europeo. Conferenza di Madrid sulla ricostruzione in Iraq, 24 ottobre 2003, Bruxelles, 1° ottobre 2003, in RCE, doc. COM (2003) 575, p. 3 e p. 5. 107 Parlamento europeo, Discussioni, in APE, Strasburgo, seduta del 3 settembre 2003, intervento di Barón Crespo, e Id., Discussioni, in APE, Strasburgo, seduta del 6 luglio 2005, interventi di Véronique De Keyser e Lilli Gruber. 146 Il dopoguerra è anche l’occasione per verificare la consistenza delle accuse rivolte al regime di Saddam. Non serve molto tempo per scoprire che delle WMDs non c’è traccia e che i presunti legami con Al Qaeda – possibile acquirente delle armi non convenzionali irachene – non hanno alcun riscontro effettivo, come sostenuto da tempo da personalità politiche e analisti europei108. Questo insieme di circostanze induce le autorità americane a ridimensionare, fra le molteplici ragioni addotte per giustificare l’intervento, quelle che a posteriori non appaiono più sostenibili. La crescente enfasi sulla natura autoritaria, immorale e criminale del governo iracheno, e sulla necessità di abbatterlo, ha lo scopo di occultare il fallimentare tentativo di dimostrarne responsabilità specifiche. In quest’ottica, che porta all’estremo la filosofia neoconservatrice, l’esistenza di regimi “corrotti” diventa la radice di ogni riflessione sulle dinamiche internazionali. Come suggerirà la revisione strategica americana del 2006109, anziché accertare la sussistenza di comportamenti effettivi dei presunti nemici, è opportuno ragionare in termini di pericoli “potenziali”, i cui principali vettori sono gli Stati canaglia, per definizione ostili all’Occidente liberale. La presenza di dittature e tirannie, che negano alle fondamenta i valori della civiltà democratica, è di per sé motivo di inquietudine per la sicurezza nazionale e ragione sufficiente per provocare un’azione preventiva. Di fronte a queste analisi, che prendono lo spunto dal problema del terrorismo per formulare considerazioni decisamente più generali sulla dimensione della sicurezza e della violenza politica, intrecciando in modo originale piani lessicali fra loro teoricamente distinti (guerra, terrorismo, terrore, armi di distruzione di massa, democrazia, libertà, morale, prevenzione, ecc.), i governi europei si trovano per molti versi spiazzati. Il discorso vale tanto per gli Stati membri che assecondano la condotta americana, quanto per quelli che la contestano. Nessuno di essi ha ritenuto di fondare le proprie scelte su un’elaborazione politico-dottrinale tesa a ridefinire in termini teorici le categorie concettuali e istituzionali evocate un po’ confusamente nel dibattito internazionale. Dal momento che alcune delle incomprensioni interne all’Ue sembrano attribuibili all’assenza di un approccio strategico almeno parzialmente condiviso, è su tale progetto che – 108 Si vedano per esempio l’intervento di Patten in Parlamento europeo, Discussioni, in APE, Bruxelles, seduta del 9 ottobre 2002, che sottolinea l’assenza di «prove pubbliche convincenti», e i contributi di: P. Cornish, P. van Ham and J. Krause (eds.), Europe and the Challenge of Proliferation, Paris, Institute for Security Studies, Chaillot Paper n. 24, May 1996; B. Schmitt (ed.), Nuclear Weapons: A New Great Debate, Paris, Institute for Security Studies, Chaillot Paper n. 48, July 2001; H. Müller, Terrorism, Proliferation: A European Threat Assessment, Paris, Institute for Security Studies, Chaillot Paper n. 58, March 2003, pp. 70-74; G. Lindstrom and B. Schmitt (eds.), Fighting Proliferation – European Perspectives, Paris, Institute for Security Studies, Chaillot Paper n. 66, December 2003. 109 NSS 2006, pp. 23-24. 147 dall’estate del 2003 – le diplomazie europee cominciano a lavorare. 4.3 La “dottrina Solana”: un’alternativa al bellicismo messianico È il Consiglio europeo di Salonicco a innescare la procedura che porterà all’adozione di una strategia europea in materia di sicurezza. Accogliendo l’invito formulato dal vertice informale dei ministri degli Esteri a Kastellorizo e dall’Alto Rappresentante PESC, i capi di Stato e governo avviano i lavori per la preparazione di un testo che non avrà solo il compito di riordinare gli strumenti per la protezione del territorio Ue da attacchi esterni, ma anche l’ambizione di far progredire i rapporti all’interno della comunità internazionale: La nostra Unione è impegnata a far fronte alle sue responsabilità, garantendo un’Europa sicura e un mondo migliore. A tal fine contribuiremo risolutamente a rafforzare e rimodellare le istituzioni di governance mondiale e cooperazione regionale e ad estendere la portata del diritto internazionale. Sosterremo la prevenzione dei conflitti, promuoveremo la giustizia e lo sviluppo sostenibile, contribuiremo ad assicurare la pace e difenderemo la stabilità nella nostra regione e nel mondo110. Benché in questa fase la lotta al terrorismo e le conseguenze della guerra irachena siano senza dubbio i temi cruciali della politica estera europea, il progetto varato a Salonicco ha l’obiettivo più generale di definire un quadro organico delle priorità e delle modalità d’azione dell’Unione sul piano internazionale. La volontà di far convivere nel nuovo documento, approvato nel dicembre del 2003, un richiamo agli interessi fondamentali dell’Ue e una vocazione ideale che dovrebbe guidare le iniziative europee nel mondo è evidente fin dal titolo. La formula Un’Europa sicura in un mondo migliore111 – scelta al termine del paziente lavoro di tessitura svolto dall’Alto Rappresentante, da cui deriva l’uso di indicare la strategia europea come “dottrina Solana” – accenna tanto alle necessità immediate degli Stati membri, quanto alla “qualità” complessiva delle relazioni internazionali, echeggiando peraltro il passo del testo strategico americano che enuncia l’impegno a «contribuire a rendere il mondo non solo più sicuro ma anche migliore»112. Europa e Stati Uniti sembrano dunque concordare sulla tesi secondo cui le relazioni internazionali non possono ridursi a un’arena dominata dalla forza bruta e dagli interessi 110 Consiglio europeo, Conclusioni della Presidenza, in Consiglio dell’Unione europea, Nota di trasmissione della Presidenza, Bruxelles, 1° ottobre 2003, in RCUE, doc. 11638/03, p. 17. 111 Consiglio europeo, Un’Europa sicura in un mondo migliore. Strategia europea in materia di sicurezza, Bruxelles, 12 dicembre 2003 (http://www.consilium.europa.eu/uedocs/cmsUpload/031208ESSIIIT.pdf). 112 NSS 2002, p. 1. 148 egoistici degli attori che la popolano. Il comune riferimento alla sfera dei valori non può tuttavia celare le differenze fra le due strategie. La “dottrina Solana” appare più lucida nel distinguere le minacce alla sicurezza: nonostante il terrorismo, la proliferazione delle armi di distruzione di massa, i conflitti regionali, il fallimento degli Stati, ecc. possano sovrapporsi parzialmente, si tratta di fenomeni concettualmente separati e dovuti a cause complesse. In cima alla lista è il terrorismo: Il terrorismo mette in pericolo la vita delle persone, comporta costi ingenti, cerca di minare l’apertura e la tolleranza delle nostre società e costituisce una minaccia strategica crescente per l'intera Europa. Sempre più, i movimenti terroristici possono contare su risorse finanziarie ingenti, sull’allacciamento in reti telematiche e sono disposti a usare una violenza illimitata per causare un numero enorme di vittime. La più recente ondata di terrorismo ha portata globale ed è connessa all'estremismo religioso violento. Essa scaturisce da cause complesse, tra cui la pressione della modernizzazione, le crisi culturali, sociali e politiche e l’alienazione dei giovani che vivono in società straniere. Questo fenomeno è anche insito nella nostra stessa società. L’Europa è per tale terrorismo un obiettivo e nel contempo una base: i Paesi europei sono degli obiettivi e sono stati attaccati. Basi logistiche di cellule di al Qaeda sono state scoperte nel Regno Unito, in Italia, in Germania, in Spagna e in Belgio. Un’azione europea concertata è indispensabile113. In primo luogo, dunque, la strategia europea prende in esame il terrorismo come fenomeno generale e astratto, che colpisce le «persone» ma nel contempo si accanisce contro il patrimonio ideale e simbolico delle società liberaldemocratiche del mondo occidentale. La possibilità di accedere a tecnologie, finanziamenti e armi di nuova generazione mette l’azione terroristica nelle condizioni di provocare danni sempre più devastanti, alla luce dei quali essa non può più essere considerata un’insidia fastidiosa ma irrilevante per le grandi dinamiche della vita internazionale. Il terrorismo acquisisce dunque lo status di «minaccia strategica», nell’ambito di una trasformazione della sfera della sicurezza secondo cui l’Europa è chiamata sempre meno a confrontarsi con «un attacco su vasta scala contro uno degli Stati membri» e sempre più con «minacce nuove, più svariate, meno visibili e meno prevedibili»114. La loro possibile sovrapposizione metterebbe gli europei «di fronte a una minaccia estremamente grave»115, in grado di eguagliare i danni tipici di un ormai 113 Consiglio europeo, Un’Europa sicura in un mondo migliore, cit., p. 3. Ibidem. 115 Ivi, p. 5. 114 149 improbabile attacco da parte di «Stati dotati di grandi forze armate»116. In secondo luogo, viene posto l’accento sulla più innovativa forma di terrorismo, caratterizzata dalla capacità di muoversi assecondando le dinamiche globali e dallo stretto legame con il fondamentalismo religioso di tipo violento. Questo terrorismo è ricondotto a cause interne ed esterne all’Europa – gli scompensi della modernizzazione, lo sradicamento dei giovani che vivono in paesi diversi da quello d’origine, ecc. – ma comunque di tipo “sociale”. Non c’è alcun cenno alla possibilità che il terrorismo sia alimentato da scelte politico-militari delle potenze occidentali. L’insieme dei territori degli Stati membri offre ai terroristi una duplice opportunità: lo si può scegliere come bersaglio, anche se negli ultimi tempi gli attentati più cruenti lo hanno risparmiato, oppure utilizzare per preparare azioni destinate a colpire altre aree del mondo, come avvenuto nel caso dell’11 settembre. Quanto alle altre sfide, la “dottrina Solana” riconosce che l’uso di armi non convenzionali, eventualmente anche da parte di gruppi terroristici, costituisce «potenzialmente la più importante minaccia alla nostra sicurezza»117. Il documento è altrettanto categorico nello spiegare che la proliferazione di WMDs deve essere combattuta con armi esclusivamente diplomatiche, rafforzando l’Agenzia internazionale per l’energia atomica e i controlli sulla circolazione e sul traffico di materiali sensibili. Lo strumento privilegiato sono i «trattati multilaterali»118 e non certo un intervento militare come quello in Iraq. La ragione di questa posizione, assai distante da quella teorizzata dagli Stati Uniti, risiede in ultima analisi nel rifiuto europeo di porre al centro della propria visione delle relazioni internazionali la nozione di “Stato canaglia”. Attraverso la nuova strategia l’Ue dimostra di non condividere l’idea che il regime illiberale, non democratico, moralmente inaccettabile di uno Stato sia un motivo valido per attribuirgli intenzioni bellicose nei confronti dei paesi “civili” e della comunità internazionale in generale, imboccando una china che conduce fino alla giustificazione di un attacco armato ai suoi danni. Ciò non significa che gli europei pongano tutti i paesi terzi sullo stesso piano. A fare la differenza, tuttavia, non è tanto la natura intrinseca, l’essenza della loro forma di governo, per molti versi insondabile, poiché oggetto di speculazioni filosofiche, quanto il rispetto delle regole minime di convivenza adottate a livello internazionale: 116 Consiglio dell’Unione europea, Nota del Segretariato generale, Bruxelles, 10 giugno 2003, cit., p. 2. Consiglio europeo, Un’Europa sicura in un mondo migliore, cit., p. 3. 118 Ivi, p. 6. 117 150 La qualità della società internazionale dipende dalla qualità dei governi che ne costituiscono le fondamenta. La miglior protezione della nostra sicurezza è un mondo di stati democratici ben amministrati. La diffusione del buon governo, il sostegno alle riforme politiche e sociali, il contrasto della corruzione e dell’abuso di potere, lo stabilimento dello stato di diritto e il rispetto dei diritti dell’uomo rappresentano i mezzi più efficaci per il rafforzamento dell’ordine internazionale. […] Molti paesi si sono collocati al di fuori della società internazionale. Alcuni hanno cercato l’isolamento, altri violano insistentemente le norme internazionali. È auspicabile che questi paesi si riuniscano alla comunità internazionale e l’UE dovrà essere pronta a fornire loro assistenza. Coloro che non lo vogliono dovranno capire che hanno un prezzo da pagare, anche nelle relazioni con l’Unione europea. La diffusione della democrazia, dello stato di diritto, della tutela dei diritti umani sono ovviamente indicatori della «qualità» del sistema internazionale, ma la verifica della loro esistenza effettiva non è affidata alle valutazioni di un singolo Stato, che si arroghi la facoltà di stabilire metafisicamente la distinzione fra bene e male, giusto e ingiusto, morale e immorale, e di punire i soggetti devianti. L’Ue lascia intendere di giudicare i paesi in base all’aderenza alle «norme internazionali», che può portare a considerare un governo “fuorilegge” – per usare il lessico rawlsiano – e farne l’oggetto di ritorsioni, ma tale etichetta dipende da specifici e documentabili comportamenti, e non da antipatie o scarse affinità elettive. Rispetto alla “dottrina Bush”, inoltre, la strategia europea sembra dare più peso alle crisi locali e regionali che portano al dissolvimento delle istituzioni statali e alla lotta senza quartiere tra fazioni armate, cioè a un conflitto di cui fanno immediatamente le spese le popolazioni dell’area ma che, nel lungo periodo, sul modello dell’Afghanistan talebano, può diventare fonte di minaccia per l’intera comunità internazionale119. Anche il metodo d’azione individuato dalla “dottrina Solana” è chiaramente alternativo a quello americano. È vero che, soprattutto in relazione all’insorgenza di ostilità e tensioni nelle aree a rischio, anche la strategia europea si sofferma sulla necessità di un «impegno preventivo»120, ma l’espressione è declinata in un’accezione differente da quella bushiana. Come mostra la versione inglese del documento, gli europei ricorrono al termine preventive per alludere alla necessità di scongiurare le minacce molto distanti nel tempo. Ma tale scopo è perseguito con una profilassi di tipo diplomatico, amministrativo, economico, che in alcuni casi può spingersi fino ad azioni ibride come il peacekeeping, 119 Ivi, p. 1 e p. 4. Il punto è evidenziato da Caffarena, A mali estremi, cit., pp. 107-110 e M. Del Pero, La politica estera e di sicurezza dell’Unione, in Vacca (a cura di), Il dilemma euroatlantico, cit., pp. 221-225. L’assenza di una strategia americana di ampio respiro sul fallimento degli Stati è rimarcata da C.A. Crocker, Engaging Failing States, «Foreign Affairs», vol. LXXXII, n. 5, September-October 2003, pp. 32-44. 120 Consiglio europeo, Un’Europa sicura in un mondo migliore, cit., p. 11. 151 mentre la guerra e i mezzi militari classici sono riservati a pericoli immediati e rientranti nel concetto di “prevenzione” codificato nella tradizione internazionalistica (cioè gli attacchi armati, che appaiono peraltro in via di estinzione). Si tratta di un’impostazione inconciliabile con quella americana, che rifiuta la distinzione fra pericoli imminenti e potenziali e afferma la liceità del ricorso alle armi pesanti per sgominare gli uni e gli altri, indipendentemente da quanto previsto da convenzioni e trattati121. L’impressione di una divaricazione fra le sensibilità politico-strategiche emerse sulle due sponde dell’Atlantico è ulteriormente rafforzata dall’insistenza con cui la “dottrina Solana” fa riferimento alla dimensione del «multilateralismo efficace»122. Le Nazioni Unite, la NATO e i vari partenariati esistenti sono le sedi formali entro cui l’Ue e i suoi Stati membri ritengono di dover discutere dei temi transnazionali in agenda, andando alla ricerca di soluzioni e misure accompagnate da un ampio consenso. L’Unione è chiamata a sviluppare i propri rapporti con i grandi attori del sistema internazionale – Stati Uniti, Russia, Cina, India ecc. – ma anche con le aggregazioni nate, come la stessa Ue, per favorire la cooperazione all’interno di alcune macroregioni e divenute soggetti imprescindibili per la costruzione di un ordine globale pacifico, economicamente efficiente ma possibilmente meno squilibrato, favorevole allo sviluppo sociale e culturale, grazie al concorso di procedure e istituzioni multilaterali123. Almeno nelle intenzioni, gli europei si fanno dunque promotori di un modello di governance policentrica e rappresentativa degli interessi delle diverse parti del pianeta, tra loro in dialogo per rintracciare principi e metodi condivisi nella gestione delle risorse, delle sfide e delle prospettive che riguardano tutti gli attori. Ne scaturisce, com’è evidente, una linea di condotta diametralmente opposta a quella seguita dall’amministrazione Bush a partire dal 2002. Le coalizioni di “volenterosi”, sul modello di quella responsabile della guerra in Iraq, sono frutto di iniziative individuali della principale potenza mondiale e dell’adesione pressoché incondizionata dei governi che, per varie ragioni, si allineano alle sue richieste, contribuendo a imporre unilateralmente a tutta la comunità internazionale le conseguenze di quelle decisioni. Le ambizioni europee così tratteggiate devono tuttavia essere tradotte in pratica, offrendo un’alternativa effettiva alla “guerra al terrore” intrapresa dagli Stati Uniti. Per dare credibilità al proprio inno al multilateralismo, l’Ue è chiamata a fornire risposte e 121 Cfr. Missiroli, La difesa europea, cit., p. 56. Consiglio europeo, Un’Europa sicura in un mondo migliore, cit., pp. 11-15. 123 Si legga in questo senso il dibattito in corso sul “neoregionalismo” e in particolare M. Telò (ed.), European Union and New Regionalism. Regional Actors and Global Governance in a Post-Hegemonic Era, Aldershot-Burlington, Ashgate, 2007. 122 152 proposte convincenti in merito ai problemi più urgenti, a partire dall’intensificazione delle missioni civili e militari all’estero, che richiede una maggiore disponibilità di strumenti tecnici e finanziari. L’avanzamento dell’integrazione nei settori PESC/PESD e della cooperazione operativa con la NATO è il principale obiettivo enucleato dalla “dottrina Solana”, che conferisce ampio rilievo all’«indissolubile interconnessione degli aspetti interni ed esterni della sicurezza»124 e alla conseguente obsolescenza dei principi strategici della guerra fredda, in cui il maggiore pericolo era rappresentato da un’invasione armata. Concordando con quanto già rilevato da parte americana, la strategia europea prende definitivamente atto di quanto sia anacronistico – nell’era globale – declinare l’attività di difesa in senso puramente “territoriale”. La protezione delle istituzioni, delle società, dei cittadini degli Stati membri presuppone anche un’azione volta a disinnescare le minacce prima che siano portate entro i confini, sulla scorta della consapevolezza che «la prima linea di difesa sarà spesso all’estero»125. Dall’analisi della strategia del dicembre 2003 emerge, in sintesi, la tendenza a interpretare il terrorismo come un fenomeno da combattere in vari modi. Lo si può contrastare promuovendo la diffusione dei valori democratici e nonviolenti, dello Stato di diritto, del rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo, evitando accuratamente di svolgere tale compito attraverso forzature e imposizioni. L’Ue si riconosce nel rifiuto della «forza rozza delle armi e dell’istinto» a favore di quella «gentile del diritto e della civiltà»126. L’esportazione verso paesi terzi della cultura giuridica europea, dai grandi principi alle singole norme che amministrano i diversi settori delle società sviluppate, può essere proficuamente condotta tramite la costruzione di partenaritati a tutto tondo – si pensi al processo di Barcellona, destinato di fatto a confluire nella nuova Politica europea di Vicinato (PEV)127 –, la tessitura di dialoghi politici e diplomatici, l’inserimento di clausole “condizionali” negli accordi commerciali, la consultazione periodica su specifiche questioni. L’insieme di queste azioni, rientranti a grandi linee nella più generale nozione di soft power, è considerato il segnale che l’Ue rispecchia il modello della “potenza 124 Consiglio europeo, Un’Europa sicura in un mondo migliore, cit., p. 2. Ivi, p. 7. 126 T. Padoa-Schioppa, Europa, forza gentile, Bologna, Il Mulino, 2001, p. 7. Cfr. anche J. Rifkin, Il sogno europeo. Come l'Europa ha creato una nuova visione del futuro che sta lentamente eclissando il sogno americano (2004), Milano, Mondadori, 2004. 127 Sul contributo che questo versante della politica europea fornisce alla lotta al terrorismo cfr. C. Sassi, Le politiche dell’Unione europea per la lotta al terrorismo internazionale: la lotta al terrorismo nelle relazioni euro-mediterranee, CSF Papers, Moncalieri, Centro Studi sul Federalismo, 2007 e S. Wolff, The Mediterranean Dimension of EU Counter-terrorism, «Journal of European Integration», vol. XXXI, n. 1, January 2009, pp. 137-156. 125 153 normativa” (normative power), inducendo pacificamente gli interlocutori ad adeguare i loro ordinamenti a norme o procedure europee128. Nel contempo, la “dottrina Solana” offre nuovi spunti ai teorici del paradigma della “potenza civile”, che vi leggono un invito esplicito a combinare, a seconda delle esigenze, i mezzi civili e militari di pertinenza della PESC e della PESD per fronteggiare la minaccia terroristica e le dinamiche che le sono direttamente o indirettamente propedeutiche. Attraverso questa impostazione ostentatamente dialogante e tollerante, determinata nell’evidenziare la bontà delle proprie ragioni ma aperta alle quelle altrui, l’Ue pare voler allontanare da sé ogni sospetto di vocazione “imperiale”, categoria tornata d’attualità dopo la fine del sistema internazionale bipolare. Numerosi commentatori ricorrono alla metafora dell’impero per descrivere la posizione dominante assunta dagli Stati Uniti con la dissoluzione dell’URSS. In virtù dell’evidente asimmetria che la separa da tutti gli altri attori, e dell’inevitabile gerarchizzazione dei rapporti internazionali che ne consegue, l’unica superpotenza può teoricamente fungere da fattore di stabilizzazione del sistema129. Se gli studiosi benevoli nei confronti della leadership imperiale americana auspicano che essa si adoperi per “pilotare” l’avanzamento delle aree arretrate del mondo verso la democrazia e lo sviluppo economico130, la letteratura critica mette in evidenza la tendenza degli Stati Uniti ad autoproclamarsi detentori della “verità” e alfieri di valori universali, che mal si concilia con il rispetto della pluralità di tradizioni e culture che chiedono di essere riconosciute131. In altri termini, gli europei non accettano di apparire semplici cortigiani, acquiescenti 128 I. Manners, Normative Power Europe: A Contraddiction in Terms, «Journal of Common Market Studies», vol. XL, 2002, n. 2, pp. 235-258. In proposito si veda anche D. Sicurelli, Il paradigma della potenza normativa nelle relazioni internazionali. Un nuovo nome per un vecchio concetto?, «Teoria politica», a. XXII, 2007, n. 3, pp. 125-144. 129 V.E. Parsi, L’impero come fato? Gli Stati Uniti e l’ordine globale, «Filosofia politica», a. XVI, n. 1, aprile 2002, pp. 83-113, dove “impero” ed “egemonia” sono utilizzati come sinonimi. Secondo H. Münkler, Imperi. Il dominio del mondo dall’antica Roma agli Stati Uniti (2005), Bologna, Il Mulino, 2008, la differenza tra i due concetti è esclusivamente relativa all’entità del divario di potenza fra le parti, che assumerebbe una forma imperiale se cospicuo ed egemonica se contenuto (pp. 63-72). Sulla funzione stabilizzatrice dell’impero, cfr. anche S. Mallaby, The Reluctant Imperialist: Terrorism, Failed States, and the Case for American Empire, «Foreign Affairs», vol. LXXXI, n. 2, March-April 2002, pp. 2-7. Sulla prospettiva che la superiorità egemonica si istituzionalizzi in un quadro di rapporti internazionali formalizzati si veda G.J. Ikenberry, Dopo la vittoria. Istituzioni, strategie della moderazione e ricostruzione dell'ordine internazionale dopo le grandi guerre (2001), Milano, Vita e Pensiero, 2003. 130 Cfr. in questo senso Ignatieff, Impero light, cit., pp. 11-36 e N. Ferguson, Colossus. Ascesa e declino dell'impero americano (2004), Milano, Mondadori, 2006, pp. 179-211 in particolare. 131 Si vedano D. Zolo, Usi contemporanei di «impero», «Filosofia politica», a. XVIII, n. 2, agosto 2004, pp. 193-196 e Losurdo, Il linguaggio dell’Impero, cit, p. 288. La dignitas dell’imperator farebbe difetto agli USA secondo G. Carnevali, Dell’impero imperfetto (voci per un dizionario minimo del dopo-11 settembre), «Teoria politica», a. XVIII, n. 3, 2002, pp. 78-81. 154 ai capricci dell’imperatore132. A preoccuparli è la prospettiva che la loro sincera condivisione dei valori fondanti della civiltà occidentale possa essere interpretata come avallo a una riedizione del colonialismo otto-novecentesco, fondato su pratiche razziste e sanguinarie a danno degli altri popoli133. Nelle sue versioni più radicali, incarnate per esempio da una “nuova destra” di matrice francese, la polemica europea verso il protagonismo internazionale dell’amministrazione Bush rientra in una più ampia reazione contro l’accettazione passiva del modello liberaldemocratico quale destino ineluttabile dell’umanità134. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, la sconfessione dell’atteggiamento americano non disconosce la centralità dei principi di libertà e democrazia, ma mette in discussione il carattere “messianico” dell’azione con cui le autorità e una parte del mondo intellettuale americano si propongono di diffonderli al di fuori dell’Occidente. La “dottrina Solana” ha dunque il delicato compito di conciliare esigenze diverse, la più immediata delle quali è ricompattare gli Stati membri dopo i mesi turbolenti dell’intervento in Iraq. Ciò non può avvenire a scapito dei rapporti con altri cruciali attori del sistema internazionale. Da un lato, occorre di rassicurare i rappresentanti delle società arabo-musulmane, fugando ogni tentazione di “scontro di civiltà”. Dall’altro, si cerca di porre le basi per una rinnovata partnership strategica con gli Stati Uniti, senza sorvolare sulle difformità di opinione. La comunanza dei valori ereditati da millenni di tradizione euro-occidentale può garantire all’alleanza transatlantica un carattere “autoritativo” (authoritative)135, foriero di una maggiore solidità, ma la promozione all’estero di quel patrimonio ideale deve avvenire nel rispetto dei limiti posti dal diritto internazionale. I canali diplomatici e le relazioni economico-commerciali appaiono gli strumenti più adeguati per perseguire gli obiettivi della democratizzazione e della stabilizzazione delle relazioni internazionali. A quei metodi si aggiungono le “missioni di pace” – espressione 132 In questa veste li vorrebbero, pur con diversi accenti, G. Baget Bozzo, L’impero d’Occidente. La storia ritorna, Torino, Lindau, 2004, pp. 64-68 e C. Jean, Il futuro dell’Europa e il nuovo patto transatlantico, in G. Bosco, F. Perfetti e G. Ravasi (a cura di), L’Unione europea fra processo costituzionale e una nuova identità politica, Milano, Nagard, 2006, pp. 156-167. 133 Si vedano G. Andréani, Imperial Loose Talk, in Lindberg (ed.), Beyond Paradise and Power, cit., pp. 6380 e J. Mayall, The Shadow of Empire: The EU and the Former Colonial World, in Hill and Smith (eds.), International Relations and European Union, cit., pp. 292-316. 134 A. de Benoist, L’impero interiore. Mito, autorità, potere nell’Europa moderna e contemporanea (1995), Firenze, Ponte alle Grazie, 1996 e Id., Terrorismo e «guerre giuste», cit. Per l’inquadramento politico della proposta del filosofo francese, cfr. P.-A. Taguieff, Sulla nuova destra. Itinerario di un intellettuale atipico (1994), Firenze, Vallecchi, 2004, pp. 280-283 e Zolo, Usi contemporanei di «impero», cit., pp. 189-191. 135 Il concetto di authoritative alliance è trattato in T. Hopf, Dissipating Egemony: US Unilateralism and European Counter-Hegemony, in Evangelista e Parsi (a cura di), Partners or Rivals?, cit., pp. 43-51, poi quasi letteralmente riprodotto in Id., Dissipare l’egemonia: l’unilateralismo degli Stati Uniti e l’erosione dell’autorevolezza transatlantica, in Parsi, Giusti e Locatelli (a cura di), Esiste ancora la comunità transatlantica?, cit., pp. 101-122. Sulla partnership fra Ue e USA come artefici di una «comunità di popoli liberi che lavorano per un mondo libero», cfr. Garton Ash, Free world, cit., pp. 187-225. 155 edulcorata che allude all’utilizzo di mezzi militari a fini prevalentemente civili – che molto più della guerra classica sembrano incontrare lo spirito del tempo. Che sia frutto di una libera scelta o di una costrizione, la decisione europea di concentrarsi sulle operazioni ibride (peacekeeping, peace-enforcement, risoluzione delle crisi), ampiamente trattate dalla strategia del 2003, può essere intesa come tentativo di specializzarsi in tali mansioni e ritagliarsi così una sfera di autonomia rispetto agli Stati Uniti, incomparabilmente superiori a chiunque nel vincere i conflitti tradizionali ma talvolta carenti e inefficaci nella gestione dei dopoguerra136. Acquisendo una spiccata capacità di affrontare questa dimensione della violenza internazionale, l’Ue potrebbe presentarsi come soggetto dotato di competenze “complementari” rispetto a quelle americane e fare leva su questa circostanza per tentare di influenzare in qualche misura la condotta del partner transatlantico, in particolare nell’ambito di quelle politiche – come la lotta al terrorismo – che sfuggono al paradigma concettuale e strategico della guerra moderna137. 136 Sui limiti insiti nelle potenzialità americane si vedano i diversi punti di vista di: Nye, Il paradosso del potere americano, cit., in particolare pp. 50-53; I. Wallerstein, Il declino degli Stati Uniti: l’aquila è precipitata, in Id., Il declino dell'America (2003), Milano, Feltrinelli, 2004, pp. 19-30; V.E. Parsi, Il sistema politico globale: da uno a molti, in Id. (a cura di), Che differenza può fare un giorno. Guerra, pace e sicurezza dopo l'11 settembre, Milano, Vita e Pensiero, 2003, pp. 101-123; Kupchan, La fine dell’era americana, cit., pp. 72-85. 137 L’idea della complementarietà fra i contributi degli Stati Uniti e dell’Ue nella regolazione delle relazioni internazionali è sviluppata da A. Moravcsik, Striking a New Transatlantic Bargain, «Foreign Affairs», vol. LXXXII, n. 1, January-February 2004, pp. 74-89. Cfr. inoltre Caffarena, A mali estremi, cit., pp. 132-136 e Parsi, L’alleanza inevitabile, cit., pp. 189-196. La convinzione che l’Europa sia più attrezzata dagli USA per svolgere le missioni militari-civili di stabilizzazione e ricostruzione è messa in dubbio da F. Fukuyama, Esportare la democrazia. State-building e ordine mondiale nel XXI secolo (2004), Torino, Lindau, 2005, cit., p. 159. Il rischio che la cooperazione transatlantica si risolva nell’immagine degli Stati Uniti che fanno le guerre e l’Europa che deve porre rimedio alle conseguenze da quelle innescate è paventato da J. LindleyFrench, Terms of Engagement. The Paradox of American Power and the Transatlantic Dilemma post-11 September, Paris, Institute for Security Studies, Chaillot Paper n. 52, May 2002, p. 14 e p. 61 e S. Romano, Il rischio americano. L’America imperiale, l’Europa irrilevante, Milano, Longanesi, 2003, pp. 113-115. 156 5. Il ritorno del terrorismo in Europa: il difficile equilibrio tra sicurezza e diritti (2004-2009) 5.1 La strage di Madrid e il terrorismo come problema “interno” La mattina dell’11 marzo 2004 costituisce uno snodo cruciale nella percezione europea del terrorismo. Con l’attentato di Madrid, perpetrato da una cellula marocchina, l’Europa diviene un bersaglio concreto – e non un semplice luogo di transito – dell’azione qaedista, che pare aver puntato l’attenzione sulla Spagna a causa del sostegno offerto alle iniziative anglo-americane in Medio Oriente1. Il Consiglio europeo ne prende atto nella Dichiarazione adottata al termine del vertice del 25 marzo: «Gli attentati vili e spietati hanno tragicamente riportato alla mente la minaccia che il terrorismo rappresenta per la nostra società. Gli atti terroristici rappresentano un attacco contro i valori su cui si fonda l’Unione. [...] La minaccia del terrorismo incombe su tutti noi»2. Confermando la linea adottata dopo l’11 settembre, i leader europei leggono nella violenza islamista un attacco al patrimonio di diritti, libertà e sentimenti civili sedimentato nella cultura europea e occidentale nel corso dei secoli. Rispetto a quanto osservato in altre occasioni, va sottolineato come il fenomeno terroristico sia posto in relazione con la «società» più che con le istituzioni, sorvolando dunque sugli obiettivi prettamente politici che normalmente gli sono attribuiti. Il documento introduce alcune innovazioni di rilievo. Dal punto di vista istituzionale, è da rimarcare il conferimento all’Alto Rappresentante PESC del potere di nominare un coordinatore dell’antiterrorismo, chiamato a mettere ordine nel lavoro svolto dal Consiglio nelle sue varie formazioni e ad agire, nel rispetto delle competenze della Commissione, da supervisore di tutti gli strumenti Ue contro il terrorismo3. L’aspetto davvero significativo è legato al profilo delle personalità scelte per ricoprire tale ruolo: Gijs de Vries, in carica dal 2004 al 2007, è stato viceministro dell’Interno in Olanda; Gilles de Kerchove, nominato 1 Non è questa la sede per discutere la concatenazione dei fatti che seguono gli attentati, dall’iniziale attribuzione della responsabilità all’ETA da parte dell’esecutivo Aznar, alla vittoria inaspettata dei socialisti alle elezioni programmate per il 14 marzo, all’insediamento del governo Zapatero con il ritiro delle truppe spagnole dall’Iraq. Su questi temi si vedano A. Greppi, Dopo il terrore. Opinione pubblica e crisi politica in Spagna tra l’11 e il 14 marzo 2004, in Bovero e Vitale (a cura di), Gli squilibri del terrore, cit., pp. 211-230; R. Bertinetti, Informazione e politica in tempo reale e A. Botti, Madrid dopo l’11 marzo, «Il Mulino», a. LIII, n. 3, maggio-giugno 2004, pp. 524-533 e pp. 534-544 rispettivamente. 2 Il testo è allegato a Consiglio dell’Unione europea, Nota del Segretariato generale, Bruxelles, 29 marzo 2004, in RCUE, doc. 7906/04, p. 2. D’ora in poi citerò questo documento come Dichiarazione sulla lotta al terrorismo. 3 Ivi, p. 14. nel settembre 2007, si è a lungo occupato di Giustizia e Affari Interni presso il segretariato del Consiglio. Sono i curricula dei prescelti, più che le nuove mansioni loro attribuite, a evidenziare come, dopo Madrid, l’Ue preferisca affidare il coordinamento della lotta al terrorismo a esperti della tutela dell’ordine pubblico e della cooperazione operativa, anziché a diplomatici di carriera. D’altra parte, non vanno sottovalutate le considerazioni formulate dal Parlamento europeo negli anni successivi per segnalare i contorni ambigui – se non l’inutilità – delle funzioni attribuite alla nuova figura istituzionale, priva di poteri effettivi4. Se la novità del marzo 2004 è rappresentata dalla scoperta che l’offensiva qaedista non risparmia più l’Ue, è comprensibile che il Consiglio europeo chieda di concentrare gli sforzi sulle misure volte a contrastare l’azione dei terroristi sul territorio degli Stati membri. Accanto agli ultimi retaggi del dibattito sulla risposta diplomatica e militare al terrorismo, sfociato nella crisi irachena del 2002-03, acquisiscono da questo momento un’enfasi crescente i provvedimenti riconducibili all’integrazione giudiziaria, operativa e di polizia fra gli Stati membri. Del terrorismo, in altri termini, si sottolineano ora gli aspetti collegati al suo dispiegarsi all’interno dell’Unione. In tal senso vanno interpretati gli accenni alla necessità di assistere le vittime degli attentati, di assicurare la sicurezza dei trasporti, di rafforzare il controllo alle frontiere, di condividere i risultati dell’intelligence, di ostruire i canali di finanziamento del terrorismo5, nonché di anticipare gli effetti della clausola di solidarietà fra gli Stati membri nella gestione delle conseguenze di un attacco terroristico o di un disastro naturale, la cui entrata in funzione è prevista dal Trattato costituzionale in discussione6. Si apre dunque una stagione della lotta al terrorismo segnata dalla prevalenza degli aspetti legati allo spazio di libertà, sicurezza e giustizia. Un’ulteriore conferma giunge dal Programma dell’Aia, elaborato nel novembre del 2004 per aggiornarne gli obiettivi. La libertà è sempre più caratterizzata in termini di “libertà di movimento” goduta dagli individui sul territorio dell’Unione, anche per effetto delle politiche relative ai settori di 4 Parlamento europeo, Discussioni, in APE, Strasburgo, seduta del 4 maggio 2004 (intervento di von Boetticher, PPE), 11 aprile 2005 (interrogazione di Cavada, gruppo liberaldemocratico), 5 settembre 2007 (interrogazione di Daul, PPE e intervento di Catania, Sinistra unitaria europea), che testimoniano la trasversalità politica della valutazione espressa. 5 Dichiarazione sulla lotta al terrorismo, cit., pp. 4-12. 6 Ivi, p. 19. Cfr. in proposito S. Dambruoso, The European Constitution Solidarity Clause against Terrorism, in AAVV, International Terrorism and Governmental Structures, Torino, UNICRI, 2005, pp. 19-23. 158 asilo, immigrazione e frontiere7. Benché l’impegno contro il terrorismo sia presentato come «elemento chiave» e trasversale allo SLSG8, è nel settore della “sicurezza” che il documento ne affronta gli sviluppi. Oltre a ricordare puntigliosamente il contributo della cooperazione giudiziaria e di polizia, e in particolare l’azione di raccordo svolta da Europol ed Eurojust, il Programma dà un inedito risalto al «ruolo di guida» che i ministri GAI – cioè Interni e Giustizia – dovrebbero svolgere nella lotta al terrorismo, pur «tenendo conto dei compiti del Consiglio “Affari generali e Relazioni esterne”»9. Benché il testo sia naturalmente portato a soffermarsi su questa dimensione del problema, tale accenno segnala che dopo Madrid il terrorismo è sempre più concepito come un fenomeno “interno” all’Unione. Di concerto con una comunicazione presentata dalla Commissione nel giugno del 10 2004 , la Dichiarazione del Consiglio europeo di marzo e il Programma dell’Aia concorrono a elaborare i criteri fondamentali per perseguire l’idea dominante di questa fase storica, cioè rendere più efficienti la raccolta e la circolazione delle informazioni potenzialmente utili a contrastare l’azione dei terroristi, secondo una concezione “poliziesca” del terrorismo, non dissimile da quella che guidava negli anni Settanta l’avvio della cooperazione operativa del gruppo TREVI. Uno degli elementi strutturali di tale disegno è il principio di “disponibilità”, secondo cui i dati e le informazioni in possesso di uno Stato membro devono essere accessibili da parte delle autorità giudiziarie e di polizia degli altri paesi. Nei mesi successivi sono avviati processi legislativi destinati a concludersi tra il 2005 e il 2006, con l’adozione di nuove disposizioni volte a facilitare lo scambio di informazioni sui casellari giudiziari11, sulle condanne penali per reati connessi al terrorismo12 e sui risultati dell’attività di intelligence, definita come la «facoltà di raccogliere, elaborare e analizzare informazioni su reati o attività criminali al fine di stabilire se sono stati commessi o possono essere commessi in futuro atti criminali 7 Consiglio europeo, Programma dell’Aia. Rafforzamento della libertà, della sicurezza e della giustizia nell’Unione europea, allegato a Id., Conclusioni della Presidenza, in Consiglio dell’Unione europea, Nota di trasmissione della Presidenza, Bruxelles, 8 dicembre 2004, in RCUE, doc. 14292/1/04 REV1, pp. 16-27. 8 Ivi, p. 3. 9 Ivi, p. 30. 10 Commissione delle Comunità europee, Comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento europeo. Migliorare l’accesso all’informazione da parte delle autorità incaricate del mantenimento dell’ordine pubblico e del rispetto della legge, Bruxelles, 16 giugno 2004, in RCE, doc. COM (2004) 429. 11 Consiglio dell’Unione europea, Atti legislativi ed altri strumenti, Bruxelles, 3 maggio 2005, in RCUE, doc. 7385/05. 12 Id., Atti legislativi e altri strumenti, Bruxelles, 5 settembre 2005, in RCUE, doc. 11259/05 (compreso l’errata corrige nella stessa data, doc. 11259/05 COR 1). 159 concreti»13. Una specifica direttiva stabilisce la conservazione dei dati telefonici e di alcuni fra quelli legati all’uso di internet (connessione ed e-mail, escludendo invece chat e peerto-peer, per una questione di costi più che di principio) per un periodo oscillante fra i sei mesi e i due anni, allo scopo di facilitare la ricerca, l’accertamento e il perseguimento dei reati gravi14. Nella medesima ottica si muovono altre due iniziative, la prima delle quali trae spunto da una forma di cooperazione esterna al perimetro Ue. Nel maggio del 2005 alcuni Stati membri firmano, nella cittadina tedesca di Prüm, un Trattato che mira a favorire lo scambio di informazioni e dati – fra cui quelli dattiloscopici e relativi al DNA – tra i paesi contraenti (Germania, Austria, Francia, Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo e Spagna). In breve tempo tuttavia altri paesi europei formuleranno la richiesta di aderire al progetto, i cui contenuti saranno parzialmente integrati nella legislazione dell’Unione tra il 2007 e il 200815. Sul pressione americana, l’Ue si cimenta anche con la regolazione dell’acquisizione dei dati relativi ai passeggeri dei voli aerei (PNR). Le trattative, avviate già dal 2003, producono nel maggio 2004 un primo accordo con gli Stati Uniti, cui è garantito l’accesso diretto agli archivi delle compagnie aeree europee16. La Commissione rivendica pubblicamente di aver svolto un’opera di contenimento rispetto alle iniziali richieste americane, riducendo i tempi di conservazione dei dati, limitandone 13 Id., Atti legislativi e altri strumenti, Bruxelles, 2 ottobre 2006, in RCUE, doc. 9827/06, p. 8. Una concezione per certi versi analoga si trova in A. Saccone, La raccolta e l’utilizzo delle informazioni nella lotta al terrorismo, in Cappè, Marelli e Zappala (a cura di), La minaccia del terrorismo e le risposte dell'antiterrorismo, cit., in cui l’autore, alto funzionario di Europol, pone l’accento su raccolta, catalogazione, verifica, organizzazione, trattamento e soprattutto analisi delle informazioni (pp. 164-165). Assai più estesa è la nozione che emerge in F. Sidoti, Morale e metodo nell’intelligence, Bari, Cacucci, 1998, che – partendo dall’antico concetto di inter-legere, inteso come abilità di discernere, selezionare, sapere cogliere una parte di informazioni rispetto alla totalità di quelle disponibili – applica l’etichetta di intelligence a tutte la attività che contribuiscono alla sicurezza dello Stato, contemplando anche il mantenimento della stabilità politica e della pace sociale, la difesa del sistema economico e produttivo, la tutela del principio di legalità (pp. 16-19). In termini operativi, secondo Sidoti, l’intelligence si concretizza in quattro azioni: collection, analysis, covert action, counterintelligence, anche se le ultime due sono talvolta sopra o sottovalutate (p. 112). 14 Cfr. la direttiva 2006/24/CE del 15 marzo 2006 e le proteste emerse in Parlamento europeo, Discussioni, Strasburgo, in APE, seduta del 7 giugno 2005, in particolare la relazione affidata all’on. A.N. Alvaro e gli interventi dei deputati Niebler, Kreissl-Dörfler, Buitenweg, Mastenbroek, Cederschiold, Kauppi, rappresentativi di quasi tutti i maggiori gruppi parlamentari. In argomento, si veda anche Paye, La fine dello Stato di diritto, cit., pp. 105-109. 15 Consiglio dell’Unione europea, Atti legislativi ed altri strumenti, Bruxelles, 17 settembre 2007, in RCUE, doc. 11896/07, poi divenuto Decisione 2008/615/GAI, pubblicata su GU L 216 del 6 agosto 2008. Alcuni parlamentari europei contesteranno – al di là del merito – la scelta di integrare un accordo nato al fuori dell’ambito Ue, imponendo a tutti gli Stati membri i contenuti negoziati solo da una minoranza di essi. Cfr. Parlamento europeo, Discussioni, in APE, Strasburgo, seduta del 6 giugno 2007. 16 Si vedano rispettivamente la decisione n. 2004/535/CE, in GU L 235 del 6 agosto 2004, pp. 11-22 e Consiglio dell’Unione europea, Atti legislativi e altri strumenti, Bruxelles, 14 maggio 2004, in RCUE, doc. 9026/04. 160 l’utilizzabilità e salvaguardando in particolare quelli “sensibili”17. In seguito a un ricorso del Parlamento europeo, che indirizza a Commissione e Consiglio contestazioni di merito e di metodo, nel maggio 2006 la Corte di Giustizia annulla i provvedimenti assunti dall’Ue, costringendola a denunciare l’accordo con gli Stati Uniti. Una nuova intesa sarà raggiunta nel luglio 2007, con la restrizione delle categorie di dati acquisibili ma con l’allungamento dei tempi di conservazione18. Sulla scia di tale risultato, la Commissione avanzerà la proposta di creare un analogo sistema di raccolta per i tutti i voli effettuati negli Stati membri19. Accanto al principio di “disponibilità”, la seconda idea-forza dell’approccio europeo è l’“interoperabilità” fra le banche dati. L’obiettivo, già oggetto di attenzione nei mesi immediatamente successivi all’11 settembre, è porre in connessione gli archivi europei e renderli accessibili da parte di un crescente numero di autorità e agenzie. Dopo un dibattito durato anni, tra il 2004 e il 2005 i dati raccolti dal sistema d’informazione istituito dagli accordi di Schengen (SIS) sono messi a disposizione delle magistrature nazionali, di Europol e di Eurojust20. Una volta entrata in funzione, la banca dati europea sui visti concessi dagli Stati membri (VIS)21 instaurerà con il SIS e con Eurodac – relativo alle domande d’asilo – un rapporto sinergico, in virtù del quale le autorità giudiziarie e di polizia avranno a disposizione una notevole mole di informazioni sul movimento delle persone a cavallo delle frontiere esterne dell’Ue, utilizzabili come spunti per prevenire o indagare su atti terroristici e altri reati gravi. Il rischio sottolineato da più parti è che le informazioni contenute in queste banche dati, teoricamente “neutre”, in quanto relative a persone che decidono semplicemente di attraversare il territorio europeo, siano 17 Cfr. Commissione delle Comunità europee, Comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento europeo. Trasferimento di dati di identificazione delle pratiche (PNR): un approccio globale dell’Ue, Bruxelles, 16 dicembre 2003, in RCE, doc. COM (2003) 826, e l’intervento del commissario Bolkestein in Parlamento europeo, Discussioni, in APE, Strasburgo, seduta del 23 settembre 2003. 18 Si vedano Consiglio dell’Unione europea, Atti legislativi e altri strumenti, Bruxelles, 18 luglio 2007, in RCUE, doc. 11595/07 e Id., Atti legislativi e altri strumenti, Bruxelles, 18 luglio 2007, in RCUE, doc. 11596/07. Cfr. il commento di J. Argomaniz, When the EU Is the «Norm-Taker»: The Passenger Name Records Agreement and the EU’s Internalization of US Border Security Norms, «Journal of European Integration», vol. XXXI, n. 1, January 2009, pp. 119-136. 19 Commissione delle Comunità europee, Proposta di decisione quadro del Consiglio sull'uso dei dati del codice di prenotazione (Passenger Name Record, PNR) nelle attività di contrasto, Bruxelles, 6 novembre 2007, in RCE, doc. COM (2007) 654. Cfr. anche F. Panzetti, Le politiche di sicurezza interna alla vigilia della comunitarizzazione, in Gualtieri e Pastore (a cura di), L’Unione europea e il governo della globalizzazione, cit., pp. 260-261. 20 Cfr. il regolamento 871/2004 e la decisione 2005/211/GAI, adottati sulla base di un accordo sostanziale del giugno 2003. 21 Si vedano il regolamento CE 767/2008, pubblicato in GU L 318 del 13 agosto 2008 e la decisione contenuta in Consiglio dell’Unione europea, Atti legislativi e altri strumenti, Bruxelles, 11 ottobre 2007, in RCUE, doc. 11077/1/07 REV 1. 161 arbitrariamente associate all’attività di terroristi e criminali. Questa potenziale distorsione, figlia dell’utilizzo di tali archivi per fini differenti da quelli originariamente immaginati, creerebbe i presupposti per una discriminazione tra i cittadini originari degli Stati membri, in larga misura ignorati da quei sistemi di controllo, e quelli provenienti da paesi terzi (in genere costretti a richiedere visti, permessi di soggiorno, status di rifugiati, ecc. e quindi registrati nelle banche dati dell’Ue), sulla cui onestà finirebbe per gravare una sorta di pregiudizio, lesivo dei loro diritti fondamentali. Consapevole dei rischi che si profilano, la Commissione si adopererà per regolare in modo ragionevole l’accesso ai dati, affermando che la stella polare dovrà essere il principio di “finalità”. Secondo questa impostazione, le informazioni sarebbero consultabili solo nelle forme e per gli scopi inizialmente indicati, e in ogni caso nel rispetto dei criteri della legalità e della proporzionalità. Anche questo intervento riconoscerà tuttavia la possibilità di derogare alla regola generale per ragioni di sicurezza, consentendo eccezionalmente l’accesso alle autorità chiamate a tutelarla22. L’Ue non riesce dunque a fugare del tutto l’inquietante scenario dell’“etnicizzazione del controllo”, categoria attraverso cui alcuni sociologi interpretano l’atteggiamento dei governi occidentali prima e dopo l’11 settembre23. L’aumento del tasso di sorveglianza a cui sono sottoposti i cittadini europei e americani è descritto anche grazie alla potenza figurativa di due note immagini: la società delineata da George Orwell in 198424 e il concetto di Panopticon, introdotto nel Settecento da Jeremy Bentham per definire il funzionamento di un edificio polifunzionale (destinato a compiti di detenzione, isolamento, rieducazione, istruzione), la cui struttura circolare consentirebbe a un unico sorvegliante 22 Id., Atti legislativi ed altri strumenti, Bruxelles, 24 giugno 2008, in RCUE, doc. 9280/08, i cui artt. 3 e 11 sanciscono il riconoscimento dell’esigenza di porre limiti all’applicazione del principio di finalità. 23 Tale aspetto è enfatizzato, in relazione al contesto europeo, da D. Bigo, Security, Exception, Ban and Surveillance e O.H. Gandy Jr., Quixotics Unite! Engaging the Pragmatists on Rational Discrimination, entrambi in D. Lyon (ed.), Theorizing Surveillance. The Panopticon and beyond, Cullompton-Devon, Willan Publishers, 2006, pp. 46-68 e pp. 318-336 rispettivamente; D. Lyon, La società sorvegliata. Tecnologie di controllo della vita quotidiana (2001), Milano, Feltrinelli, 2003, pp. 120-143. 24 G. Orwell, 1984 (1949), Milano, Mondadori, 1989, discusso in termini generali da D. Lyon, The Electronic Eye. The Rise of Surveillance Society, Cambridge, Polity Press, 1994, pp. 59-62 (trad. it. L’occhio elettronico, Milano, Feltrinelli, 1997). Si noti peraltro il rovesciamento di uno dei tratti caratteristici del romanzo orwelliano, nel quale è operata una distinzione fra membri del partito – inclusi nella vita sociale e per questo strettamente controllati – e prolet, confinati nei ghetti periferici delle città ma, proprio in virtù di tale condizione, liberi dall’occhio indagatore del Grande Fratello. Il sistema integrato di raccolta delle informazioni concepito dall’Ue, viceversa, si accanisce sui soggetti marginali, i quali, oltre a essere discriminati sul piano delle opportunità politiche, economiche e sociali, sono anche vittime di un eccesso di sorveglianza da parte delle autorità. Secondo M.C. Nussbaum, The Death of Pity: Orwell and American Political Life, in Ead., A. Gleason, J. Goldsmith (eds.), On Nineteen Eighty-Four. Orwell and Our Future, Princeton, Princeton University Press, 2005, l’attualità del romanzo orwelliano dopo l’11 settembre consiste invece nel perdurare di un’impostazione che fonda le relazioni sociali e internazionali sull’odio – deducibile da espressioni come “asse del male” – anziché su sentimenti positivi come amore, solidarietà, compassione (pp. 281-282) 162 posto al centro di controllare l’attività svolta in ogni cella25. Sulla scorta della rivisitazione critica di tale progetto da parte di Michel Foucault, che individua nel “panoptismo” una delle forme in cui si declina la tendenza delle istituzioni a irreggimentare gli individui in ogni ambito della loro esistenza26, alcuni osservatori rilevano il salto di qualità che il controllo sociale compie servendosi delle risorse tecnologiche recentemente acquisite. Per restare al caso dell’Ue, il principio dell’interoperabilità fra banche dati è interpretato come sintomo della trasformazione del tradizionale panopticon nell’inedito synopticon, modello nel quale l’unicità del sorvegliante lascia spazio all’azione combinata di una pluralità di guardiani, pubblici e privati, potenzialmente in grado di fare confluire le informazioni raccolte in un unico archivio, funzionale a scopi repressivi27. Il risultato sarebbe l’«assemblaggio» di più sistemi di sorveglianza, caratteristico di tutte le società occidentali nell’età del terrorismo qaedista28. Nel suo insieme, questo approccio connota la linea di sviluppo dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia. La messa in “sicurezza” delle società europee, attraverso strumenti giudiziari e di polizia, sembra diventare l’esigenza prevalente degli europei, anche nel momento in cui tale obiettivo impone sacrifici alla “libertà” di movimento e in particolare alla libertà di attraversamento dei confini esterni, in cui risiede l’ambizione-vocazione dell’Ue di affermarsi come “spazio aperto” e non come “fortezza”29. Questo impegno per la sicurezza collettiva, divenuto centrale tra XX e XXI secolo, pregiudica i diritti degli 25 J. Bentham, Panopticon ovvero la casa d’ispezione (1791), Venezia, Marsilio, 2002. Si veda in particolare M. Foucault, Sorvegliare e punire (1975), Torino, Einaudi, 1993, pp. 213-247. 27 P. Ceri, La società vulnerabile. Quale sicurezza, quale libertà, Roma-Bari, Laterza, 2003. In precedenza il termine synopticon era utilizzato in opposizione a panopticon da Z. Bauman, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone (1998), Roma-Bari, Laterza, 1999, per qualificare la logica globale della televisione, in virtù della quale una massa di persone – anche collocate in punti lontani fra loro nello spazio – è in grado di concentrare l’attenzione collettiva su una minoranza di osservati (pp. 57-61). 28 D. Lyon, Massima sicurezza. Sorveglianza e guerra al terrorismo (2003), Milano, Cortina, 2005, pp. 23-25 e pp. 95-118 e W. Bogard, Surveillance Assemblages and Lines of Flight, in Lyon (ed.), Theorizing Surveillance, cit., pp. 97-122. 29 Di «principio sicurezza» parla Sofsky, Rischio e sicurezza, cit., pp. 79-81. L’impatto della lotta al terrorismo sull’equilibrio fra libertà e sicurezza, fra diritti individuali ed esigenze collettive, è al centro di numerosi interventi, con diversi accenti: Weyembergh, L’impact du 11 septembre sur l’équilibre sécurité/liberté dans l’espace pénal européen, cit., p. 155; De Giovanni, L’ambigua potenza dell’Europa, cit., p. 225; De Biolley, Liberté et sécurité dans la construction de l’espace européen de justice pénale, cit., pp. 190-198; R.D. Crelinsten, Counterterrorism as Global Governance: A Research Inventory, in M. Ranstorp (ed.), Mapping Terrorism Research. State of the Art, Gaps and Future Direction, New York, Routledge, 2007, p. 227; Monar, The Problems of Balance in EU Justice and Home Affairs and the Impact of 11 September, cit., p. 177 e p. 181; Bigo, L’impact des mesures anti-terroristes sur l’équilibre entre liberté et securité et sur la cohésion sociale, cit., pp. 220-222. Sull’idea di Europa “fortezza” riflettono Occhipinti, The Politics of EU Police Cooperation, cit., pp. 198 e 207 e F. Pastore, Dobbiamo temere le migrazioni?, RomaBari, Laterza, 2004, p. 92. Sull’ipotesi che la sindrome securitaria e le paure che ne sono alla base siano cavalcate strumentalmente dalle autorità politiche, si vedano: Bauman, Dentro la globalizzazione, cit., pp. 127-140, Id., Paura liquida, cit., p. 184 e pp. 192-199; J. Bourke, Paura. Una storia culturale (2005), RomaBari, Laterza, 2007; C. Robin, Paura. La politica del dominio (2004), Milano, Egea, 2005. 26 163 individui in senso astratto, ma soprattutto quelli dei soggetti meno integrati nel tessuto sociale europeo (migranti, stranieri, ecc.). Le modalità dell’attentato di Madrid, compiuto da cittadini marocchini entrati in territorio spagnolo, contribuiscono infatti ad alimentare la percezione del terrorismo come minaccia “esterna” – in quanto legata all’azione di cittadini non europei – ma nel contempo “interna” all’Unione, colpita grazie alla permeabilità dei suoi confini. 5.2 Lo status dei prigionieri di Guantánamo e l’ambigua concezione del terrorismo La riflessione sul delicato rapporto fra rispetto dei diritti fondamentali degli individui e necessità imposte dalla lotta al terrorismo, di cui si trova traccia anche nell’azione europea, assume un significato particolare alla luce di quanto avvenuto negli Stati Uniti a partire dalla fine del 2001. Il punto di partenza è l’approvazione del cosiddetto Patriot Act del 26 ottobre 200130, che riunisce una serie di iniziative volte ad accrescere la sorveglianza sul territorio americano (la «guerra interna» al terrorismo31). Il documento contiene un vasto repertorio di provvedimenti investigativi, che riguardano l’aggiornamento dei database e dei sistemi informatici dell’FBI, il coordinamento fra quest’ultimo e la CIA, la riforma dei poteri e delle procedure dell’attività di intelligence, l’estensione del periodo di detenzione dei sospettati prima del processo, la sicurezza dei documenti, l’accesso a registrazioni, documenti e materiali privati da parte di autorità governative. In termini politico-istituzionali, la presidenza e l’esecutivo nel suo complesso vedono rafforzato il proprio margine d’intervento discrezionale, secondo la logica dell’emergenza, che sembra trascinare gli Stati Uniti verso uno “stato di eccezione” vagamente schmittiano, nell’ambito del quale la dimensione giuridica e di ordinaria amministrazione lascia spazio alla “decisione” – intesa come intervento straordinario e fondativo – da parte di un’autorità politica sovrana32. La dinamica è talmente eclatante da indurre alcuni giuristi, tra cui Bruce Ackerman, a formulare proposte per proceduralizzare l’emergenza, trovando un 30 Si veda in proposito S.J. Schulhofer, Rethinking the Patriot Act. Keeping America Safe and Free, New York, Century Foundation Press, 2005. USA PATRIOT ACT è l’acrostico di Uniting and Strengthening America by Providing Appropriate Tools Required to Intercept and Obstruct Terrorism. 31 Frum e Perle, Estirpare il male, cit., pp. 79-118. 32 Cfr. G. Agamben, Stato di eccezione, Torino, Bollati Boringhieri, 2003 e de Benoist, Terrorismo e «guerre giuste», cit., pp. 81-97. J. Butler, Detenzione infinita, in Ead., Vite precarie. Contro l'uso della violenza come risposta al lutto collettivo (2004), Roma, Meltemi, 2004, pp. 73-126, riflette sulla convivenza fra il ritorno della sovranità (e cioè del potere finalizzato alla propria esistenza e riproduzione) e della “prerogativa” (giocando sull’assonanza con l’inglese rogue, “canaglia”), incarnate simbolicamente dal decisionismo presidenziale, e l’insieme di procedure, pratiche, istituzioni dirette a gestire le persone e le cose in vista di un fine politico (la “governamentalità” foucaultiana). 164 compromesso fra l’azione tempestiva contro la minaccia terroristica e la coerenza con i principi e con lo spirito della Costituzione33. Oltre a intervenire sulla separazione “orizzontale” fra i poteri, lo spirito della reazione agli attentati terroristici pare suscettibile di modificare gli equilibri dell’impianto federale americano e dunque la divisione “verticale” fra competenze federali e statali. Si assisterebbe infatti a una torsione centripeta, che ridurrebbe di fatto la sovranità degli Stati a vantaggio del livello federale34. Assunti tocquevillianamente come antidoti alla deriva tirannica delle democrazie, i fondamenti del federalismo sembrano oggetto di una distorsione inserita in un più generale ridimensionamento delle libertà personali35. Nell’ottica abbracciata da questo lavoro è ancor più rilevante il contenuto del Military Order del 13 novembre 2001, con cui le autorità americane introducono l’inedita figura dei “combattenti nemici” (enemy combatants) per designare i soggetti catturati nelle operazioni antiterrorismo, in patria e all’estero (a partire dalla guerra afghana). Si tratta di individui dallo status ibrido, in cui si esprime l’ambiguità di fondo della nozione di terrorismo, perennemente in bilico fra la dimensione interna, che ragiona in termini di polizia e ordinamento giudiziario, e quella esterna, che si muove fra diplomazia e guerra. Per un verso, l’amministrazione Bush fa leva sul fatto che i terroristi sono sprovvisti della cittadinanza americana per sottrarli alla giustizia penale federale, con i cui strumenti vengono perseguiti i criminali comuni. Nel contempo, ai terroristi non è riconosciuta la 33 Si vedano B. Ackerman, La costituzione di emergenza. Come salvaguardare libertà e diritti civili di fronte al pericolo del terrorismo (2004), Roma, Meltemi, 2005, traduzione di un articolo apparso su «The Yale Law Journal», e soprattutto Id., Prima del prossimo attacco. Preservare le libertà civili in un’era di terrorismo globale (2006), Milano, Vita e Pensiero, 2008. L’aspetto più interessante è il meccanismo secondo cui al Congresso sarebbero richieste maggioranze crescenti per prolungare nel tempo lo stato di emergenza inizialmente proclamato dal presidente (maggioranza semplice dopo 2 settimane, del 60% dopo 2 mesi, del 70% dopo 4 mesi e poi sempre dell’80%). Per un commento alla proposta del costituzionalista americano, cfr. M. Goldoni, La costituzione rassicurante. Nota critica sulla teoria dei poteri di emergenza di Bruce Ackerman, «Teoria politica», a. XXIII, n. 3, 2007, pp. 67-86. 34 È la tesi di J. Kincaid e R.L. Cole, Issues of Federalism in Response to Terrorism (2002), ora in A. O’Day (ed.), War on Terrorism, Aldershot-Burlington, Ashgate, 2004, pp. 135-146. Sulla medesima linea cfr. F. Spoltore, La guerra al terrorismo e il futuro degli Stati Uniti, «Il Federalista», a. XLVI, n. 2, 2004, pp. 173184. La valorizzazione delle comunità locali e del settore privato, cui è per esempio affidato il controllo degli aeroporti, è invece interpretata come sintomo di una spinta centrifuga da L. Tramellini, La nuova politica americana di sicurezza e difesa, «Il Federalista», a. XLIII, n. 3, 2001, pp. 36-46. Sull’ipotesi che, a partire dalla storia americana dell’Ottocento, si possa inferire che i sistemi federali rechino in sé i germi di una deriva centralistica tale da snaturarne l’impianto originario e avvicinarli al modello statuale hobbesiano si vedano L.M. Bassani, Dalla rivoluzione alla guerra civile. Federalismo e Stato moderno in America 17761865, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2009 e, criticamente, C. Malandrino, Studi e discussioni sul federalismo e lo Stato tra modernità e postmodernità, «Il Pensiero Politico», a. XLIV, n. 1, 2011, pp. 95-105 e Id., Democrazia e federalismo nell’Italia unita, Torino, Claudiana, 2012. 35 Si vedano A.D. Van Alstyne, Libertà, in Collins e Glover (a cura di), Linguaggio collaterale, cit., pp. 133145, P.B. Heymann, Terrorism, Freedom and Security. Winning without War, Cambridge-London, The Mit Press, 2003 e P. Salazar Ugarte, Globalizzazione della paura: in che senso?, in Bovero e Vitale (a cura di), Gli squilibri del terrore, cit., pp. 79-91. 165 condizione di prigionieri di guerra, essendo protagonisti di un conflitto irriducibile a quelli regolati dalle convenzioni internazionali. Si crea una situazione di palese asimmetria, nella quale gli Stati Uniti si considerano in “guerra” contro il terrore/terrorismo, ma negano al nemico i benefici che l’essere parte di uno scontro armato conferirebbe loro36. Sul piano giuridico, i “combattenti nemici” (quasi tutti stranieri) sono dunque privati di qualsiasi garanzia processuale – sia costituzionale, sia internazionale – e lasciati in balìa della discrezionalità delle scelte dell’amministrazione Bush37. La realizzazione concreta di tali intendimenti passa attraverso la creazione di “centri di interrogatorio”, concepiti non tanto per fini detentivi, quanto per entrare in possesso di informazioni utili alla sicurezza degli Stati Uniti e degli alleati. La base Camp Delta a Guantánamo Bay è il caso più noto presso l’opinione pubblica mondiale38. I metodi americani provocano numerose proteste presso la comunità e la società civile internazionali. Per quanto attiene all’Ue, è il Parlamento europeo a sollevare dubbi sullo status dei prigionieri, preoccupato dall’anomalia giuridica che li caratterizza e da cui dipende la totale assenza di protezione. Una prima risoluzione del febbraio 2002 presenta come un dato di fatto la cattura di «158 prigionieri di guerra» in Afghanistan, ma poi riconosce che tali soggetti «non rientrano precisamente nelle definizioni della Convenzione di Ginevra». Al problema si può ovviare riformando il diritto internazionale per «far fronte alle nuove situazioni che si sono venute a creare con l'emergere del terrorismo internazionale», anche se la soluzione privilegiata sarebbe la creazione «di un tribunale internazionale competente per i crimini terroristici»39. Il Parlamento sembra dunque ribadire la specificità del terrorismo, differente tanto dalla guerra regolata dal diritto umanitario, quanto dai reati ordinari, perseguiti dalla Corte penale internazionale. A distanza di due anni, una raccomandazione adottata da una maggioranza 36 Tale anomalia, messa in luce da più parti, è resa in modo efficace da G. Andréani, Le concept de guerre contre le terrorisme fait-il le jeux des terroristes?, in Id. e P. Hassner (sous la direction de), Justifier la guerre?, Paris, Sciences Po – Les Presses, 2005, pp. 177-195, il quale sottolinea che «les Américains revendiquent pour eux toutes les facilités de la guerre dans le traitement de leurs adversaires, tout en leur en refusant le bénéfice. Ils se veulent en guerre, tout en déniant à leurs ennemies le droit de l’être eux-mêmes avec eux» (p. 184). 37 Si vedano in proposito Paye, La fine dello Stato di diritto, cit., pp. 17-41, Walzer, La libertà e i suoi nemici, cit., pp. 3-9, A. Cassese, I diritti umani oggi, Roma-Bari, Laterza, 2005, pp. 198-207 e soprattutto D. Cole, Enemy Aliens. Double Standards and Constitutional Freedoms in the War on Terrorism, New YorkLondon, The New Press, 2003, che si sofferma sulla contrapposizione fra la “nostra” sicurezza (degli USA) e la “loro” libertà (degli stranieri), poco problematizzata poiché non mette a repentaglio i diritti fondamentali dei cittadini americani, ma per l’autore inaccettabile sia dal punto di vista dell’efficacia che da quello morale. 38 K. Kipnis, Prisons, Pow Camps and Interrogation Centers: Reflections on the Juridic Status of Detainees, in Lee (ed.), Intervention, Terrorism, and Torture, cit., pp. 289-298 e, di taglio giornalistico, S.M. Hersh, Catena di comando. Dall'11 settembre allo scandalo di Abu Ghraib (2004), Milano, Rizzoli, 2004, pp. 21-41. 39 Parlamento europeo, Risoluzione del Parlamento europeo sui prigionieri detenuti a Guantánamo, Strasburgo, 7 febbraio 2002, in APE, doc. P5_TA (2002) 0066 166 parlamentare di centro-sinistra esprime, con un lessico caratteristico dell’attività di polizia più che di quella militare, l’intrinseca contraddittorietà della situazione in cui si trovano i detenuti di Guantánamo: la maggior di essi «è stata arrestata» in Afghanistan e in altre aree del mondo. Le Convenzioni di Ginevra – che nel loro insieme si occupano sia dei militari che dei civili presenti in teatri bellici – concorrono a comporre «il quadro giuridico pertinente per determinare se la detenzione dei prigionieri a Guantanamo possa o meno essere considerata arbitraria», compito che non può invece essere svolto dal Military Order o da altri provvedimenti assunti unilateralmente dall’amministrazione USA. Ribadendo che il Parlamento sostiene da tempo l’istituzione di «un tribunale internazionale ad hoc», il testo invoca il ripristino di un livello minimo di rispetto dei diritti e delle libertà individuali. È dunque formulato il duplice invito a recuperare i fondamenti del costituzionalismo euro-occidentale, accordando «la garanzia dell’“habeas corpus”», e i dettami del diritto internazionale umanitario, favorendo un accesso immediato alla giustizia al fine di determinare lo status di ciascun singolo detenuto analizzando ogni singolo caso, formulando a suo carico accuse a norma della terza e della quarta convenzione di Ginevra e del patto internazionale sui diritti civili e politici (segnatamente articoli 9 e 14) oppure procedendo alla loro immediata liberazione, e di garantire a coloro che sono accusati di crimini di guerra un processo equo in conformità con il diritto internazionale umanitario e nel pieno rispetto degli strumenti internazionali vigenti in materia di diritti dell'uomo40. La posizione del Parlamento europeo si radicalizza in seguito alla diffusione di notizie sempre più circostanziate sulle effettive condizioni di detenzione nelle prigioni extraterritoriali, al punto che una risoluzione sui rapporti fra Europa e Stati Uniti del giugno 2005 afferma che «la situazione che perdura da tempo a Guantánamo Bay sta creando tensioni nelle relazioni transatlantiche»41. Nei primi mesi del 2006 la situazione appare ormai irrecuperabile e un nuovo documento parlamentare condanna il trasferimento di centinaia di uomini catturati dalle forze statunitensi dopo l'invasione dell'Afghanistan nel 2002 al centro illegale di detenzione di Guantanamo dove, stando a numerose testimonianze, torture e altri maltrattamenti a opera del personale americano 40 Id., Raccomandazione del Parlamento europeo destinata al Consiglio sul diritto dei prigionieri di Guantánamo a un equo processo, Strasburgo, 10 marzo 2004, in APE, doc. P5_TA (2004) 0168. 41 Id., Risoluzione del Parlamento europeo sulla riuscita del prossimo Vertice UE-USA a Washington DC il 20 giugno 2005, Strasburgo, 9 giugno 2005, doc. P6_TA (2005) 0238. 167 sono all'ordine del giorno, e invita a chiudere immediatamente tale centro42. La tesi del Parlamento europeo è che l’indeterminatezza in cui è lasciato lo status dei terroristi catturati, in certa misura comprensibile alla luce delle croniche difficoltà nell’inquadrare concettualmente il fenomeno terroristico rispetto all’alternativa dicotomica fra guerra e reato, sia spregiudicatamente sfruttata dalle autorità americane per violare le basilari norme della convivenza civile. L’accusa di praticare trattamenti disumani – tra cui la tortura – diventa con il passare del tempo il tema dominante di questo versante della lotta al terrorismo, che viceversa l’Ue vorrebbe condurre senza porre limitazioni al «diritto alla vita, alla libertà dalla tortura o da altre pene e trattamenti crudeli, disumani o degradanti, alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione»43. In questi termini trova una spiegazione l’indignazione suscitata dal clamoroso episodio delle torture, delle umiliazioni e dei maltrattamenti inflitti ai detenuti nel carcere iracheno di Abu Ghraib (gestito dalle forze di occupazione) e documentati da immagini eloquenti, di fronte alle quali le autorità americane non possono fare a meno di associarsi alla condanna44. Analogamente, non deve stupire la condanna europea della prassi delle extraordinary renditions, vale a dire le missioni segrete con le quali i servizi di sicurezza americani prelevano illegalmente in Europa soggetti sospettati di legami con il terrorismo islamico e li trasferiscono in luoghi ignoti per sottoporli a interrogatori condotti con tecniche particolarmente violente45. A questo proposito, va peraltro osservato come – a fronte di una reiterata presa di distanza del Consiglio Ue da ogni metodo che possa 42 Id., Risoluzione del Parlamento europeo sull'Afghanistan, Strasburgo, 18 gennaio 2006, in APE, doc. P6_TA (2006) 0017. La linea dura è riproposta in Id., Risoluzione del Parlamento europeo su Guantánamo, Strasburgo, 15 febbraio 2006, in APE, doc. P6_TA (2006) 0070. Cfr. anche Barberini, Il giudice e il terrorista, cit., che dà conto dell’incontro del febbraio 2006 fra il COJUR (gruppo di lavoro dei giuristi dell’Ue) e John Bellinger III, esperto giuridico di C. Rice, nel quale il rappresentante americano si impegna – attraverso un’apertura unilaterale che non riconosce alcun obbligo internazionale – a fare il possibile per rispettare le previsioni del diritto umanitario (pp. 133-141). Peraltro, una situazione non dissimile, anche se meno vistosa, si trova in Gran Bretagna (cfr. H. Fenwick, Detention without Trial under Anti-Terrorism, Crime and Security Act 2001, in Freedman (ed.), Superterrorism, cit., pp. 80-104). 43 Consiglio dell’Unione europea, Nota del segretariato, Bruxelles, 26 maggio 2003, in RCUE, doc. 9864/03, punto 13 (parzialmente declassificato dal doc. 9864/03 EXT 1 del 14 febbraio 2008). Per una panoramica sul rapporto fra obiettivi e metodi dell’antiterrorismo e rispetto dei diritti umani, si veda M. Ranstorp and P. Wilkinson (eds.), Terrorism and Human Rights, London-New York, Routledge, 2008. 44 Si vedano Consiglio dell’Unione europea, Nota, Bruxelles, 17 maggio 2004, in RCUE, doc. 9630/04, p. 2 e Parlamento europeo, Risoluzione del Parlamento europeo sull'Iraq: la comunità assira e la situazione nelle prigioni irachene, Strasburgo, 6 aprile 2006, in APE, doc. P6_TA (2006) 0143. Sulla vicenda cfr. anche Hersh, Catena di comando, cit., pp. 41-68 e M. Danner, Torture and Truth. America, Abu Ghraib and the War on Terror, London, Granta, 2004. 45 Consiglio dell’Unione europea, Nota punto “I/A” del CPS, Bruxelles, 13 dicembre 2006, in RCUE, doc. 16719/06, p. 3 e p. 7. 168 approssimarsi alla tortura, anche nei casi limite46 – l’inchiesta condotta dal Parlamento europeo rilevi la responsabilità diretta o indiretta di alcuni Stati membri nel rapimento dei presunti terroristi sul territorio europeo47. 5.3 La lotta al terrorismo dalla “Costituzione europea” al Trattato di Lisbona Anche l’azione di contrasto del terrorismo risente del più ampio processo “costituente” che segna la vita dell’Unione europea all’inizio del nuovo millennio. Con il Consiglio europeo di Laeken prende il via il percorso che, anche grazie al lavoro dalla Convenzione guidata da Valéry Giscard d’Estaing, giunge a compimento nell’ottobre del 2004 con la firma del Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa, formula di compromesso per alludere a un testo che ambisce a distinguersi dai trattati internazionali classici ma non può assumere il volto di una costituzione in senso stretto48. Alcuni risvolti di tale documento sono già stati messi in luce nelle pagine o nei capitoli precedenti: è il Trattato costituzionale a prevedere la clausola di solidarietà in caso di attentati terroristici (artt. I-43 e III-329), i cui effetti sono anticipati in seguito all’attentato di Madrid del marzo 2004, e a dare una strutturazione coerente al contributo delle missioni PESC/PESD in funzione antiterroristica (art. III-309). Nel contempo, attraverso le innovazioni introdotte nella regolazione dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia, il nuovo testo si sofferma sul fenomeno terroristico in quanto tale. Si afferma infatti che lo SLSG si regge sul principio del reciproco riconoscimento delle decisioni giudiziarie, integrato dalla prospettiva del ravvicinamento fra le legislazioni nazionali (art. III-270). L’armonizzazione fra gli ordinamenti giuridici degli Stati membri è percorribile solo per una serie definita di materie, indicate come «sfere di criminalità particolarmente grave che presentano una dimensione transnazionale», fra cui il terrorismo 46 Consiglio dell’Unione europea, Nota del Segretariato generale del Consiglio, Bruxelles, 18 aprile 2008, in RCUE, doc. 8407/1/08 REV 1, p. 10. Si vedano in argomento alcuni dei saggi contenuti in Lee (ed.), Intervention, Terrorism, and Torture, cit.; Ignatieff, Il male minore, cit., pp. 192-207; A.M. Dershowitz, Terrorismo (2002), Roma, Carocci, 2003, pp. 125-155; K.J. Greenberg (ed.), The Torture Debate in America, Cambridge, Cambridge University Press, 2006. 47 Parlamento europeo, Risoluzione del Parlamento europeo sul presunto uso dei paesi europei da parte della CIA per il trasporto e la detenzione illegali di prigionieri, Strasburgo, 14 febbraio 2007, in APE, doc. P6_TA (2007) 0032. Cfr. inoltre C. Fava, Quei bravi ragazzi, Milano, Sperling & Kupfer, 2007. 48 Per un’introduzione ai contenuti del Trattato costituzionale e al significato del processo “costituente” europeo, che qui non è possibile approfondire, si vedano: G. Bonacchi (a cura di), Una costituzione senza Stato. Ricerca della Fondazione Lelio e Lisli Basso - Issoco, Bologna, Il Mulino, 2001; G. Zagrebelsky (a cura di), Diritti e Costituzione nell’Unione europea, Roma-Bari, Laterza, 2003; C. Malandrino (a cura di), Un popolo per l’Europa unita. Fra dibattito storico e nuove prospettive teoriche e politiche, Firenze, Olschki, 2004; Morelli (ed.), A Constitution for the European Union, cit.; F. Bassanini e G. Tiberi (a cura di), La costituzione europea. Un primo commento, Bologna, Il Mulino, 2004; J. Ziller, La nuova costituzione europea, Bologna, Il Mulino, 2004 (seconda edizione ampliata); J. Luther, Europa constituenda. Studi di diritto, politica e cultura costituzionale, Torino, Giappichelli, 2007. 169 (art. III-271). Ne consegue un’esplicita identificazione fra terrorismo e criminalità, che riprende un’idea già emersa in alcuni passi dei Trattati di Maastricht e Amsterdam negli anni Novanta. Non si dà viceversa risalto “costituzionale” alla nozione più “politica” di terrorismo sposata dalla decisione quadro del 2002. In termini pratici, l’impegno antiterroristico europeo potrebbe beneficiare di qualche progresso nei settori della cooperazione giudiziaria e di polizia, ma non di quello più carico di potenzialità: la prospettiva di creare una Procura europea, a partire da Eurojust, è valida solo per i reati orientati a colpire gli interessi finanziari dell’Unione (art. III-274). L’affossamento del Trattato costituzionale, in seguito alla mancata ratifica in Francia e Olanda nel giugno 2005, non comporta dunque ricadute tragiche sulla lotta al terrorismo. Pur in presenza di un visibile impasse politico-istituzionale che l’affligge nei mesi successivi, l’Ue è comunque in grado di intraprendere alcune nuove iniziative contro il terrorismo. Ciò si spiega anche con il crescente interesse delle formazioni terroristiche per il territorio degli Stati membri: dopo Madrid è infatti Londra a essere presa di mira con un attacco suicida all’affollata rete del trasporto pubblico (7 luglio 2005, con un tentativo di replica a due settimane di distanza). La risposta europea è affidata al Consiglio GAI straordinario del 13 luglio, che approva una Dichiarazione in cui sono rintracciabili, in nuce, gli elementi portanti della Strategia antiterrorismo adottata nel dicembre dello stesso anno49. Quest’ultimo documento contiene alcune significative indicazioni di tenore istituzionale, a partire dall’interazione fra Ue e Stati membri nella lotta al terrorismo. Per quanto possa risultare proficua l’attività di coordinamento, supporto, facilitazione svolta dalle istituzioni europee, sono le autorità nazionali a detenere la «responsabilità primaria»50, considerazione che rappresenta una realistica presa d’atto dei limiti insiti nei meccanismi decisionali che governano il secondo e il terzo pilastro, in cui l’azione di contrasto del terrorismo è racchiusa quasi per intero. Quanto ai rapporti fra le istituzioni Ue, il documento chiarisce che al Consiglio europeo spetta la supervisione politica, accompagnata da un dialogo politico di alto livello tra Consiglio, Commissione e Parlamento. Il Coreper, il coordinatore antiterrorismo e la Commissione sono chiamati a verificare, con i rispettivi strumenti, i 49 Cfr. rispettivamente Consiglio dell’Unione europea, Nota della Presidenza, Bruxelles, 13 luglio 2005, in RCUE, doc. 11158/05 e Consiglio europeo, Strategia antiterrorismo dell’Unione europea, in Consiglio dell’Unione europea, Nota della Presidenza e del coordinatore antiterrorismo, Bruxelles, 30 Novembre 2005, in RCUE, doc. 14469/4/05 REV 4. 50 Ivi, p. 4. 170 progressi realizzati51. Nel quadro così delineato, merita una sottolineatura la decisione di ritagliare un ruolo formale del Parlamento nella lotta al terrorismo, benché sussistano dubbi sulla possibilità che tale previsione sia sufficiente ad assolvere l’impegno a procedere nel «modo democratico e responsabile» sbandierato dalla strategia europea52. Nel merito, la Strategia di fine 2005 si articola in diversi capitoli. Quelli riassunti con i termini «protezione», «perseguimento» e «risposta» si inseriscono nel solco tracciato dalla condotta successiva all’attentato di Madrid, enfatizzando gli aspetti operativi, giudiziari e di polizia dell’antiterrorismo, che concernono la tutela del territorio e della popolazione degli Stati membri: controllo delle frontiere e protezione di trasporti e infrastrutture critiche; lotta al finanziamento dei gruppi terroristici e arresto dei loro aderenti; gestione delle conseguenze degli attentati53. Più interessante appare invece il quarto pilastro strategico, che mira a prevenire l’azione del terrorismo e in particolare quella declinazione del fenomeno che si intreccia con il fondamentalismo religioso e l’estremismo violento. In termini introduttivi, la Strategia fornisce una definizione decisamente generica di terrorismo: Il terrorismo è una minaccia per tutti gli Stati e per tutti i popoli. Rappresenta una grave minaccia per la nostra sicurezza, per i valori delle nostre società democratiche e per i diritti e le libertà dei nostri cittadini, in particolare in quanto colpisce in modo indiscriminato persone innocenti. Il terrorismo è un atto criminale e in nessuna circostanza giustificabile54. Poco oltre gli europei mettono però a fuoco il vero obiettivo, precisando che «la strategia è incentrata sulla lotta alla radicalizzazione ed al reclutamento in gruppi terroristici quali Al Qaeda e gruppi da essa ispirati in quanto questo tipo di terrorismo costituisce attualmente la minaccia principale all’Unione nel suo insieme»55. Il tema dominante è il ruolo dell’«ideologia estremista» che conduce alcuni individui ad abbracciare la causa e i metodi del terrorismo politico. La Strategia europea mira dunque a combattere la propaganda che – in carcere, nei luoghi di tensione internazionale, attraverso internet – «distorce la verità sui conflitti nel mondo ravvisandovi la presunta prova di uno scontro tra Occidente e Islam»56. L’Ue pone l’accento sulla pericolosa 51 Ivi, p. 17. Ivi, p. 5. 53 Ivi, pp. 10-16. 54 Ivi, p. 6. 55 Ivi, p. 7. 56 Ivi, p. 8. 52 171 commistione fra rivendicazioni politiche e radicalismo religioso, prospettando un duplice ordine di intervento: in primo luogo, si tratta di evitare che le «politiche nazionali ed europee» fomentino le divisioni; in secondo luogo, occorre agire nella «società civile» per far prevalere le istanze moderate, maggioritarie ma poco ascoltate, su quelle fondamentaliste o estremiste. A giudizio degli europei, insomma, l’opera di prevenzione deve porre in connessione la sfera politico-istituzionale e quella sociale, ma anche gli aspetti interni ed esterni della sicurezza, dispiegandosi tanto entro i confini europei quanto nei rapporti internazionali. I fattori decisivi per la radicalizzazione dei terroristi – «governanza [sic] carente o autocratica, modernizzazione rapida ma incontrollata, assenza di prospettive politiche ed economiche e di opportunità di istruzione» – sono prevalentemente presenti in alcuni paesi terzi, ma possono tuttavia emergere in relazione ad alcune fasce della popolazione europea. Ne consegue la volontà di mettere in atto iniziative a tutto campo per favorire sia la stabilizzazione e lo sviluppo di alcune aree del mondo, sia la piena integrazione in Europa: Per lottare contro tutto ciò, al di fuori dell’Unione dobbiamo promuovere con maggior vigore il buongoverno, i diritti umani, la democrazia, l’istruzione e la prosperità economica e impegnarci nella risoluzione dei conflitti. Dobbiamo inoltre concentrarci sulle ineguaglianze e la discriminazione, laddove esistono, e promuovere il dialogo interculturale e l’integrazione a lungo termine ove opportuno57. Questo filone della lotta al terrorismo, che coinvolge delicati equilibri politici, culturali, sociali e religiosi, rappresenta un risvolto complesso del dibattito pubblico occidentale. Alcuni studi sociologici finalizzati a ricostruire i tratti dell’Islam europeo pongono l’accento sulle modalità di trasmissione della religione alle giovani generazioni. Il loro indottrinamento è svolto in misura crescente da soggetti esterni alla cerchia familiare e acquista un carattere etico, culturale o emozionale, che porta fra l’altro a solidarizzare con correligionari coinvolti in guerre. L’appartenenza religiosa appare scarsamente connotata in termini etnici e più facilmente intesa in chiave individualistica, premessa tanto della secolarizzazione quanto della costruzione di un modello ortodosso, globale, in alcuni casi conservatore e persino fondamentalista. L’Islam europeo, dunque, unisce una condizione di minorità numerica e soggezione sociale a una vocazione universalistica, in cui si determinano i presupposti per la “rinascita” nella fede di convertiti e giovani musulmani (a 57 Ivi, p. 9. 172 lungo indifferenti alla dimensione religiosa), in conseguenza di motivazioni sociali, politiche, relazionali e non necessariamente spirituali58. Questa possibile dinamica legata agli immigrati di seconda/terza generazione è esaminata nel settembre 2005 da una comunicazione della Commissione, che individua alcuni possibili rimedi: il riconoscimento a tali soggetti di condizioni di lavoro non discriminatorie, l’accesso a servizi sociali e sanitari, all’istruzione e agli alloggi, una quota di diritti civili e politici e la “bonifica” dell’ambiente circostante dalle venature antimusulmane emerse come reazione all’11 settembre. L’insieme delle politiche da assumere, in altre parole, dovrebbe tenere conto del carattere «biunivoco» o «bilaterale» dell’integrazione, locuzioni che sottintendono lo sforzo congiunto e speculare che immigrati e società ospitanti sono chiamati a compiere nel comune interesse e nel rispetto del sottile equilibrio fra la salvaguardia dei valori fondamentali dell’Ue e quella di altre culture, religioni, tradizioni59. Lo sfondo concettuale di tali considerazioni è lo sterminato dibattito sul multiculturalismo, rispetto al quale l’approccio europeo sembra per lo più critico, allineandosi piuttosto alle posizioni sostenute dal politologo siriano-tedesco Bassam Tibi. In questa luce, il multiculturalismo è rifiutato in quanto espressione di relativismo puro e ideologia condannata ad aprire la strada alla giustapposizione di «società parallele», vale a dire di diverse comunità nate su basi identitarie, poco incentivate a ricercare il dialogo reciproco e destinate a produrre effetti di ghettizzazione. Viceversa, è preferibile la difesa di alcuni principi fondamentali europei e occidentali (la democrazia secolarizzata, i diritti umani, l’autonomia della società civile, la tolleranza di origine illuministica, la laicità, ecc.), resi vincolanti anche per gli immigrati. Il punto di partenza dell’intero discorso è la rigida separazione fra politica e religione, tradotta nell’esclusione di quest’ultima dalla 58 Si vedano J. Cesari, Musulmani in Occidente (2004), Firenze, Vallecchi, 2005, pp. 79-92, A. Pacini, Introduzione a J. Cesari e A. Pacini (a cura di), Giovani musulmani in Europa. Tipologie di appartenenza religiosa e dinamiche socio-culturali, Torino, Fondazione G. Agnelli, 2005, pp. XI-XXII, e S. Allievi, Musulmani d’occidente. Tendenze dell’Islam europeo, Roma, Carocci, 2002, che indica la città di Bruxelles – per certi versi simbolicamente considerata la “capitale” dell’Europa – come la metropoli con la più elevata rappresentanza musulmana (10% della popolazione, p. 130). Cfr. inoltre M.M. Laskier, Islamic Radicalization and Terrorism in the European Union. The Maghrebi Factor e J.S. Paris, Explaining the Causes of Radical Islam in Europe, entrambi in H. Frisch and E. Inbar (eds.), Radical Islam and International Security. Challenges and Responses, London-New York, Routledge, 2008, pp. 93-94 e pp. 121-127 in particolare. 59 Commissione delle Comunità europee, Comunicazione della Commissione al Consiglio, al Parlamento europeo, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni. Un’agenda comune per l’integrazione. Quadro per l’integrazione dei cittadini di paesi terzi nell’Unione europea, Bruxelles, 1° settembre 2005, in RCE, doc. COM (2005) 389. 173 sfera pubblica e nella sua riduzione a fatto privato, sul modello francese 60. Negli stessi mesi, la Commissione elabora un documento destinato a tradursi in una più ampia strategia europea per contrastare la radicalizzazione e il reclutamento favoriti dalle organizzazioni terroristiche61. L’impostazione adottata presuppone l’intersezione fra interventi operativi e politiche di più ampio respiro, muovendosi trasversalmente alla distinzione interno/esterno. Oltre a smantellare le reti e neutralizzare gli individui che attirano le persone verso il terrorismo, gli europei ribadiscono di auspicare la prevalenza dell’anima moderata dell’Islam su quella estremista, isolando da un lato i predicatori della violenza ed eliminando dall’altro ogni ambiguità circa l’atteggiamento occidentale verso la civiltà islamica, in nessun caso identificabile con la condotta terroristica. L’Unione dichiara inoltre di voler prestare attenzione a una serie di fattori funzionali all’avvicinamento delle masse al terrorismo: la diffusione di modelli autocratici, la realizzazione inadeguata della democrazia, la modernizzazione incontrollata, l’assenza di prospettive politiche ed economiche, la mancata soluzione di conflitti interni o internazionali, le carenze nell’istruzione e nell’offerta di opportunità culturali ai giovani. D’altra parte, si riconosce che la maggior parte delle azioni sono di pertinenza degli Stati membri e che i risultati saranno conseguiti anche grazie al contributo di organizzazioni non governative. Alle istituzioni Ue, e in particolare alla Commissione, spetta il compito di assicurare sostegno e fondi, organizzare incontri e conferenze, coordinare l’attività degli Stati e incentivare il dialogo con i Paesi terzi. Si può dunque osservare che questo versante della lotta al terrorismo resta sostanzialmente fra le competenze nazionali. 60 B. Tibi, Euro-Islam. L’integrazione mancata, Venezia, Marsilio, 2003, traduzione parziale di Islamiche Zuwanderung. Die gescheiterte Integration, München-Stuttgart, Deutsche Verlags-Anstalt GmbH, 2002. Questa impostazione è contrapposta da R. Guolo, L’Islam è compatibile con la democrazia?, Roma-Bari, Laterza, 2004 alla posizione di pensatori e leader musulmani come Tariq Ramadan (pp. 118-125), ma suscita anche la critica di alcuni studiosi europei, che vi rintracciano le ragioni del potenziale separatismo sociale vissuto dai musulmani nelle società europee, al punto da rendere l’Europa (e non gli Stati Uniti) «terreno d’elezione della tesi dello “scontro di civiltà”» (Cesari, Musulmani in Occidente, cit., pp. 57-66). Ponendosi su un piano più storico e meno sociologico, J. Goody, Islam ed Europa (2004), Milano, Cortina, 2004, giunge a conclusioni più concilianti, sottolineando come l’Islam sia divenuto parte essenziale della cultura occidentale ed europea in particolare, la cui società ha concorso a plasmare per secoli. Per un approfondimento ulteriore sul multiculturalismo, che qui non può essere svolto, si rimanda ad alcuni recenti studi sul tema: M.L. Lanzillo, Il multiculturalismo, Roma-Bari, Laterza, 2005; C. Galli (a cura di), Multiculturalismo. Ideologie e sfide, Bologna, Il Mulino, 2006; T. Modood, A. Triandafyllidou and R. Zapata-Barrero (eds.), Multiculturalism, Muslims and Citizenship. A European Approach, London-New York, Routledge, 2006; A.S. Laden and D. Owen (eds.), Multiculturalism and Political Theory, Cambridge, Cambridge University Press, 2007. 61 Si vedano Commissione delle Comunità europee, Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo e al Consiglio. Reclutamento per attività terroristiche – Affrontare i fattori che contribuiscono alla radicalizzazione violenta, Bruxelles, 21 settembre 2005, in RCE, doc. COM (2005) 313, e successivamente Consiglio dell’Unione europea, Nota punto “I/A” della Presidenza, Bruxelles, 22 novembre 2005, in RCUE, doc. 14781/1/05 REV 1. 174 Sul ruolo dei “cattivi maestri” e sulla propaganda attuata dai reclutatori di militanti si concentra una proposta di revisione della definizione di reato terroristico, che non modifica l’impianto del 2002 ma enuclea in modo più incisivo la categoria di “istigazione” al terrorismo. La nuova iniziativa, assunta dalla Commissione nell’autunno del 200762, si avventura su un terreno particolarmente scivoloso. Si tratta di decidere se considerare punibili penalmente alcuni comportamenti che, per altri versi, possono apparire legittime manifestazioni delle libertà di associazione, espressione o culto. Per queste ragioni, la presidenza slovena avverte la necessità di inserire nel testo un nuovo “considerando”, contenente un’esplicita menzione del principio di proporzionalità, e un articolo dedicato alla tutela delle libertà di stampa ed espressione e delle garanzie procedurali63. A queste generali preoccupazioni, il Parlamento europeo aggiunge alcune valutazioni sul lessico adottato dalla Commissione. Il problema non riguarda tanto la versione italiana, che parla di «istigazione» al terrorismo, quanto – per esempio – quelle inglese e francese, in cui si accenna al concetto di provocation. I parlamentari affermano di preferire l’inglese incitement e il francese incitation64, giudicati probabilmente più adatti a distinguere la volontà di diffondere il messaggio terroristico e produrre effetti concreti dalla mera espressione di un’opinione, di una visione del mondo, o anche di un auspicio, ma non suffragato da un impegno tangibile per la sua realizzazione. Sul punto, la Commissione è molto meno netta, riferendosi a discorsi che determinino direttamente o indirettamente un esito terroristico, quasi ad avvalorare la controversa prospettiva del “reato di opinione”. Ignorando le perplessità del Parlamento, il testo finale adottato dal Consiglio riprende ripetutamente il concetto di «provocazione», anche in lingua italiana65. La ricostruzione storico-politica condotta in questo studio si conclude con alcuni cenni sul contributo del nuovo Trattato di Lisbona alla lotta al terrorismo. Benché nella sostanza tale documento riproponga i contenuti della svolta “costituzionale” fallita nel 62 Commissione delle Comunità europee, Progetto di decisione quadro del Consiglio che modifica la decisione quadro 2002/475/GAI relativa alla lotta contro il terrorismo, Bruxelles, 6 novembre 2007, in RCE, doc. COM (2007) 650. 63 Consiglio dell’Unione europea, Risultati dei lavori del Consiglio “Giustizia e Affari sociali”, Bruxelles, 23 aprile 2008, in RCUE, doc. 8087/08. 64 Parlamento europeo, Relazione sulla proposta di decisione quadro del Consiglio che modifica la decisione quadro 2002/475/GAI relativa alla lotta al terrorismo, Commissione per le libertà e i diritti dei cittadini, Relatore: R. Lefrançois, 23 luglio 2008, in APE, doc. A6-0323/2008, emendamento n. 12. Il testo italiano rimarrebbe invariato, così come quello spagnolo in cui si parla di inducción. Una modifica è invece richiesta per la versione tedesca: Anstiftung sostituirebbe Aufforderung. 65 Consiglio dell’Unione europea, Atti legislativi ed altri strumenti, Bruxelles, 18 luglio 2008, in RCUE, doc. 8807/08. 175 200566, alla cui analisi si rimanda, e nonostante l’impegno europeo contro la minaccia terroristica sia proseguito anche nel periodo di stallo dell’Unione, il Trattato di Lisbona presenta alcuni elementi inediti. Nella sezione dedicata allo spazio di libertà, sicurezza e giustizia, si riconosce ai paesi membri la possibilità di promuovere «fra di loro e sotto la loro responsabilità» cooperazioni intergovernative finalizzate alla «sicurezza nazionale» (art. 61 F), reintroducendo dunque le premesse per iniziative parallele e separate rispetto al filone “ortodosso” dell’integrazione europea. Spazio autonomo viene riconosciuto alla lotta al finanziamento del terrorismo, perseguita attraverso misure amministrative come il blocco dei beni e dei capitali (art. 61 H). Degna di nota è inoltre la scelta di dare rilievo, all’interno di un Trattato e non di disposizioni ordinarie, all’eventualità che le forze dell’ordine di uno Stato membro operino al di fuori dei confini nazionali (art. 69 H). Pur vincolato a una decisione unanime da parte del Consiglio, questo scenario costituisce un ulteriore segnale della tendenza a superare – almeno parzialmente – la logica territoriale dello Stato moderno e della corrispondente idea di sovranità, di cui la tutela dell’ordine pubblico è un attributo decisivo. La realizzazione sistematica di operazioni di polizia a livello trans- o addirittura sovranazionale si presenta come uno fra i più promettenti progetti europei concepiti per adeguarsi alle necessità poste dalle minacce alla sicurezza, già da tempo inclini a infrangere gli steccati statal-nazionali. Più in generale, il Trattato di Lisbona può essere inteso come un primo e provvisorio tentativo di colmare alcune aporie politico-istituzionali che da tempo penalizzano l’azione di contrasto del terrorismo, in modo particolarmente eclatante nel momento in cui si manifesta la sua trasversalità rispetto ai tradizionali pilastri. Per la verità, il problema non è rappresentato solo dallo sviluppo asimmetrico e incoerente della struttura Ue, o dall’eterogeneità di metodi, procedure e obiettivi, che variano a seconda del settore esaminato. La lotta al terrorismo risente infatti di alcuni equivoci di fondo del processo di integrazione di ispirazione funzionalista. L’attività di agenzie come Europol o Eurojust, che risponde all’oggettiva esigenza di porre in connessione le autorità investigative e giudiziarie dei paesi membri, non è sottoposta a un reale controllo da parte del Parlamento europeo67. I vari comitati del secondo e del terzo pilastro, chiamati a raccordare le riunioni del Consiglio, finiscono per muoversi sul labile confine fra aspetti tecnici e sostanziali. A 66 È la tesi di J. Ziller, Il nuovo Trattato europeo, Bologna, Il Mulino, 2007. Sul ruolo delle agenzie indipendenti, presenti in tutti e tre i pilastri Ue, si vedano P.C. Schmitter, Come democratizzare l’Unione europea e perché (2000), Bologna, Il Mulino, 2002, pp. 116-117; G. Majone, Le agenzie regolative europee, in S. Fabbrini (a cura di), L’Unione europea. Le istituzioni e gli attori di un sistema sovranazionale, Roma-Bari, Laterza, 2002, pp. 171-199; S. Hix, The Political System of the European Union, New York-Basingstoke, Palgrave Macmillan, 2005, pp. 48-52. 67 176 tutto ciò si aggiunge il velo di opacità che ricopre i lavori del Consiglio stesso, che resta l’istituzione centrale in materia di sicurezza ma non pubblica verbali esaurienti sulle discussioni svolte e tende a classificare come riservati numerosi documenti di lavoro stilati in preparazione delle riunioni. Questa prassi evoca il più ampio dibattito sull’accountability, lemma di difficile traduzione con cui si fa riferimento alla responsabilità e alla trasparenza delle decisioni, all’accesso della società civile agli arcana imperii, alle risposte dei governanti alle domande e agli stimoli provenienti dai governati e, letteralmente, alle modalità con cui i detentori del potere sono invitati a “rendere conto” delle proprie azioni68. Per effetto di un equilibrio istituzionale che premia il Consiglio e gli organismi da esso dipendenti, e punisce il Parlamento, sembra riprodursi su scala europea la deriva che Norberto Bobbio riassume nella formula del «potere invisibile», per alludere alle pratiche di governo che sfuggono al controllo delle istituzioni rappresentative, a partire dai parlamenti, luoghi dove il potere è pubblico (nel senso di non segreto) per eccellenza69. Raffinando l’analisi, si può osservare che la prevalenza del metodo intergovernativo, e in particolare il ruolo dei comitati, dei funzionari o degli esperti che si muovono nelle sue pieghe, contribuiscono ad accentuare il tratto “tecnocratico” – e dunque non propriamente democratico – del processo di integrazione europea. È risalente nel tempo la polemica contro la natura tecnocratica di istituzioni come la Commissione europea o la Banca centrale europea. Almeno in astratto, i loro componenti sono nominati sulla base di competenze o conoscenze specifiche, con un sistema di legittimazione alternativo a quello fondato sul circuito della rappresentanza politica70. Nel caso del Consiglio e di analoghi organi intergovernativi, l’elemento tecnocratico 68 Per un’analisi di questo aspetto in relazione all’esperienza Ue, si veda C. Harlow, Accountability in the European Union, Oxford, Oxford University Press, 2002, che parla di «a continual process of “giving account” to an informed and active civic society» (p. 12). 69 Si vedano N. Bobbio, La democrazia e il potere invisibile (1980), in Id., Il futuro della democrazia, Torino, Einaudi, 1995, pp. 85-113, Id., Democrazia e conoscenza (1986) e Id., Democrazia e segreto (1990), apparsi in tempi e con titoli diversi ma ora raccolti in Id., Teoria generale della politica, a cura di M. Bovero, Torino, Einaudi, 1999, pp. 339-352 e pp. 352-369 rispettivamente. Cfr. anche V. Sorrentino, Il potere invisibile, Molfetta, La Meridiana, 1998. Sulla presenza di questo profilo nell’Ue ragiona F.W. Scharpf, Governare l’Europa. Legittimità democratica ed efficacia delle politiche nell’Unione Europea (1997), Bologna, Il Mulino, 1999, che tuttavia riconduce alla dimensione del «potere quasi invisibile» la propensione della Corte di Giustizia a rimuovere gli ostacoli incontrati dal processo di unificazione europea, cui si contrappone l’assunzione di decisioni «politicamente più visibili» da parte di Parlamento e Consiglio (p. 30). 70 Cfr. le metafore di «dittatore benevolo» e del «despota illuminato» illustrate da J.-P. Fitoussi, Il dittatore benevolo. Saggio sul governo dell’Europa (2002), Bologna, Il Mulino, 2002, pp. 13-14. Per un’introduzione a questo profilo della Commissione, si vedano N. Nugent, The Government and Politics of the European Union, New York-Basingstoke, Palgrave Macmillan, 2006, 6th edition, pp. 180-185 (trad. it. Bologna, Il Mulino, 2008, 3 voll.), e S. Gozi, La Commissione europea. Processi decisionali e poteri esecutivi, Bologna, Il Mulino, 2005, pp. 9-21. 177 si qualifica però in un altro modo: le decisioni da essi assunte sono frutto della contrattazione fra i rappresentanti dei governi, a prescindere dalla volontà degli elettori. È il politologo americano Robert A. Dahl, fra i massimi studiosi della democrazia contemporanea, a cogliere nel metodo intergovernativo la «vittoria di fatto del governo dei custodi», con un lessico che evoca la figura platonica dei governanti scelti in ragione di virtù eccezionali e naturali, anziché di procedure democratiche. Lo stesso Dahl individua nell’architettura istituzionale europea un potenziale rimedio a tale problema, a patto tuttavia di svilupparne e consolidarne i geni sovranazionali, ipotesi che incontra non pochi ostacoli71. Merita quindi una sottolineatura il contributo del Trattato di Lisbona, che elimina la struttura a pilastri e introduce interessanti novità per lo meno nell’ambito dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia. La quota di votazioni a maggioranza è innalzata dal 60% al 90% e la procedura di codecisione è estesa anche ai settori della cooperazione giudiziaria e di polizia, con benefici per i poteri d’intervento del Parlamento europeo72. È tuttavia difficile prevedere in quale modo questo insieme di correzioni procedurali e istituzionali inciderà sul funzionamento complessivo dell’Unione e sulla lotta al terrorismo, costantemente combattuto fra l’esigenza di assicurare l’efficienza e l’efficacia delle proprie azioni e quella di aprirsi ai cittadini. In assenza di uno sforzo sul versante della trasparenza, della giustificazione delle scelte di fronte all’opinione pubblica e della predisposizione ad accogliere le istanze promananti dalla società, l’intero progetto della costruzione europea corre il rischio di ripiegarsi su se stesso, sottraendo spinta propulsiva e consenso anche alle indispensabili politiche sovranazionali di cui gli Stati membri hanno bisogno a causa della transnazionalità delle sfide – politiche, economiche, sociali, militari, culturali – che li attendono. 71 R.A. Dahl, La democrazia e i suoi critici (1989), Roma, Editori Riuniti, 1990, pp. 484-486 e Id., Is Postnational Democracy Possibile?, in S. Fabbrini (ed.), Nation, Federalism and Democracy. The EU, Italy and American Experience. Trento, Italy, October 4-5, 2001, Bologna, Compositori, 2001, pp. 35-45. Per il concetto di “guardiano-custode” cfr. Platone, La Repubblica, cit., libro IV, 427d-430c (pp. 139-143). 72 Panzetti, Le politiche di sicurezza interna alla vigilia della comunitarizzazione, cit., pp. 253-257. 178 Conclusione La ricerca sviluppata in questo volume prende le mosse dall’assunto che esista un’evidente contaminazione tra il piano delle idee e quello delle istituzioni politiche. L’analisi dei testi e delle modifiche istituzionali mostra in effetti una consonanza fra il lessico politico dei documenti europei e le tappe dell’evoluzione descritta dalle strutture di funzionamento della Comunità e poi dell’Unione europea. Per quanto riguarda il tema qui affrontato, si può concludere che – nel corso del periodo preso in considerazione – il terrorismo è associato a quattro “immagini”, che esprimono diversi modi di concepire il fenomeno e si riflettono in altrettanti livelli istituzionali. L’immagine più antica è quella del terrorismo come turbolenza o fattore di instabilità per l’ordinato fluire della vita associata, che mette a repentaglio la sicurezza dei membri di una comunità. In quest’ottica la competenza di intervento ricade classicamente sul ministero dell’Interno, in quanto istituzione deputata a governare in termini generali le dinamiche sociali, assicurandone la regolarità. Per effetto dell’anomalia politicoistituzionale che caratterizza il processo di integrazione europea, privo di una vera dimensione statuale e dunque di ministeri di carattere sovranazionale, negli anni Settanta tale approccio si traduce nella calendarizzazione di periodiche riunioni tra i ministri dell’Interno e i funzionari dei paesi membri (prassi TREVI). Si tratta di una linea di sviluppo della lotta al terrorismo destinata ad assumere la forma della cooperazione intergovernativa, restando nell’ombra per più di un decennio e confluendo infine nel terzo pilastro eretto dal Trattato di Maastricht. Pur affiancato da altri strumenti, questo filone dell’antiterrorismo mantiene una posizione di un certo rilievo anche negli anni Novanta, grazie alla creazione di Europol, per tornare al centro dell’attenzione con l’esplosione del terrorismo qaedista. L’auspicio a migliorare lo scambio di informazioni e in generale la cooperazione di polizia è percepibile nel periodo successivo all’11 settembre e acquista nuova enfasi con l’attentato di Madrid del marzo 2004, che riporta il terrorismo sul territorio europeo. A cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta si consuma il primo tentativo di avviare l’integrazione anche sul fronte giudiziario. Il contributo potenziale di questa iniziativa alla lotta al terrorismo è indubitabile e di qui scaturisce la seconda immagine del terrorismo. Interpretando l’azione dei terroristi come reato punibile penalmente, la cooperazione giudiziaria mira a impedire che tali soggetti usufruiscano delle difformità fra gli ordinamenti nazionali per sfuggire alle autorità che li perseguono. L’armonizzazione fra le legislazioni degli Stati membri e il loro impegno a evitare l’uso strumentale della procedura di estradizione andrebbero di pari passo con la realizzazione di uno spazio giuridico omogeneo. Il progetto, caldeggiato in un primo momento dalla Francia giscardiana, è in realtà mortificato e definitivamente accantonato per effetto dell’estensione ai terroristi della “dottrina Mitterrand” sull’asilo ai perseguitati politici. Dopo la sfortunata operazione di rilancio dell’integrazione politica impostata da Spinelli nel 1984, è la nascita dell’Ue nel 1992-93 a sancire il rientro di tale settore nell’agenda europea. A partire dal 1999, la progressiva costruzione dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia si rivela fioriera di contributi significativi alla lotta al terrorismo: si pensi alle due decisioni quadro del giugno 2002 relative alla definizione dei reati terroristici e all’introduzione del mandato di arresto europeo. Ricco di ostacoli è anche il percorso con cui si afferma la terza concezione del terrorismo. Già dalla fine degli anni Settanta, con la crisi fra Stati Uniti e Iran, si affaccia l’ipotesi che le dinamiche terroristiche producano effetti sulle relazioni interstatali. Le successive vicende legate ai rapporti dei governi libico e siriano con la galassia terroristica confermano che la violenza politica esercitata da attori non statali può presentarsi come una minaccia alla sicurezza degli Stati sovrani e quindi come un fenomeno rilevante per la comunità internazionale. Ponendo fine alla fase segnata dalla separazione fra attività diplomatica, dedicata esclusivamente alla dimensione interstatale o intergovernativa, e azione giudiziaria e di polizia, mirata a fronteggiare le condotte terroristiche, gli europei prendono atto del carattere trasversale e complesso proprio della dimensione della sicurezza. In termini istituzionali questa nuova consapevolezza implica l’attribuzione alla cooperazione politica europea (CPE), nata per occuparsi di politica estera “tradizionale”, di nuove competenze pensate per combattere il tratto transnazionale del terrorismo ed ereditate dal secondo pilastro dell’Unione fondata negli anni Novanta. Un ultimo passaggio si compie nel momento in cui si riconosce che tale fenomeno presenta punti di contatto con la sfera militare. Le istituzioni europee, per la verità, non si spingono fino ad abbracciare la lettura radicale del terrorismo globale come “atto di guerra”, ma – specialmente dopo l’11 settembre – dimostrano di considerare gli strumenti militari idonei a contribuire alla lotta contro le organizzazioni terroristiche. Su questo punto la posizione europea non è limpida. In linea di massima, a costo di dividersi al proprio interno e di incrinare i rapporti transatlantici, l’Ue tende a escludere il ricorso alla guerra classica come mezzo adatto a colpire le reti terroristiche. Il caso del bombardamento 180 dell’Afghanistan, tuttavia, sembra costituire un’eccezione a questa posizione: il rovesciamento del regime talebano con la forza è infatti appoggiato compattamente dai governi e dalle istituzioni dell’Unione. Ciò premesso, l’impiego di strumenti militari – frutto della sinergia fra PESD e NATO – è di norma contemplato in chiave preventiva e a fini “civili”, cioè per favorire la stabilizzazione delle crisi regionali, la neutralizzazione dei conflitti e in generale l’intervento in tutti i focolai propedeutici al consolidamento del “nuovo terrorismo”. Non c’è dubbio che l’ordine in cui le quattro varianti sono elencate rispecchi la sequenza attraverso cui la lotta al terrorismo si evolve nel tempo: l’approccio giudiziario e di polizia è cronologicamente e concettualmente precedente a quello diplomaticointernazionalistico. È altrettanto evidente, d’altra parte, che le quattro concezioni del terrorismo e, in parallelo, i quattro filoni dell’integrazione convivono e si arricchiscono reciprocamente. Per effetto del processo di globalizzazione, diventa peraltro sempre più difficile distinguerne con nettezza i confini. Il superamento delle tradizionali opposizioni fra “interno” ed “esterno”, fra ambito civile e militare, fra sfera politica ed economica, più volte richiamato nel corso della trattazione perché ha ricadute notevoli sul terrorismo stesso, rende talvolta problematica la chiarezza della demarcazione tra guerra e reato, rappresaglia bellica e operazione di polizia. Ne consegue una parziale sovrapposizione fra le competenze dei ministri dell’Interno, degli Esteri, della Difesa, della Giustizia, e perfino dell’Economia (in virtù delle modalità di finanziamento del terrorismo). Su un piano ulteriore si colloca la discussione sul carattere “politico” del terrorismo, ripetutamente evocato nei capitoli precedenti. A questo proposito si può rilevare come le interpretazioni che inseriscono il fenomeno nell’alveo delle relazioni internazionali, a maggior ragione se teorizzano l’intersezione fra elementi civili e militari, sono tendenzialmente portate ad ammettere la natura politica del terrorismo, alla luce della sua capacità di interagire con gli Stati e i loro interessi. Lo scenario è molto diverso per chi si pone dal punto di vista giudiziario o di polizia. In questi casi, infatti, la “spoliticizzazione” del terrorismo, tramite l’equiparazione con la criminalità comune, diventa una necessità imposta dalla volontà di catturare e processare i terroristi senza concedere loro la facoltà di proclamarsi dissidenti politici. È questa premessa, affermata esplicitamente dalla Convenzione del Consiglio d’Europa del 1977, a spiegare perché tutti i principali documenti della storia europeo-comunitaria, nel complesso anche molto eterogenei – dal piano Genscher-Colombo al progetto Spinelli, dall’AUE al Trattato di Maastricht, dal Trattato di Amsterdam alla “Costituzione europea” –, finiscono per accreditare 181 un’interpretazione prevalentemente delinquenziale del terrorismo, ridotto a mera variante della criminalità organizzata internazionale. Alla luce di questa impostazione, coerentemente reiterata nel tempo, è dunque decisamente innovativa la scelta compiuta in occasione della decisione quadro sul terrorismo approvata tra il 2001 e il 2002. Raccogliendo spunti apparsi sporadicamente nei decenni precedenti, ma privi di carattere sistematico, tale provvedimento individua, e sancisce una volta per tutte, la peculiarità del reato terroristico nel suo indirizzarsi, a un tempo, contro popolazioni e governi, cittadini e istituzioni, o, per ricorrere alle categorie già menzionate, “società civile” e “Stato”. Il che, di per sé, non implica affatto l’accoglimento o la legittimazione degli obiettivi politici perseguiti dai terroristi, che anzi – proprio in virtù del carattere eversivo della loro condotta – sono soggetti a un trattamento penale afflittivo rispetto ai criminali comuni. Anche in questo caso, tuttavia, si rende opportuna una precisazione. Nel pronunciarsi sul terrorismo, l’Ue opera di fatto una distinzione legata al contesto in cui il fenomeno è immerso. Una condanna assoluta e inappellabile colpisce tutte le azioni perpetrate a danno di istituzioni e società democratiche, da cui discende una presa di distanza netta, compatta e automatica nei confronti dei gruppi attivi nel mondo euro-occidentale. Una posizione più sfumata viene assunta in relazione alle opposizioni politiche interne a regimi autoritari. In questo senso va letta la solidarietà mostrata da alcuni voci europee verso i movimenti antifranchisti, anche nel momento in cui essi ricorrono a mezzi violenti. Allo stesso modo, gli accenti anomali con cui gli europei commentano gli sviluppi dei conflitti mediorientali o cingalesi vanno ricondotti ai controversi scenari regionali in cui essi si dipanano. In assenza di una chiara distinzione di status fra autorità legittime ed eversori, e di canali pacifici e democratici che consentano ai gruppi sociali di dare rappresentanza politica alle proprie istanze, l’infamante etichetta di “terrorista” è maneggiata dall’Ue con cautela. A corollario di tale discorso si pone la propensione degli europei a considerare il terrorismo come una pratica che riguarda innanzi tutto, se non esclusivamente, soggetti non statali. Dopo l’11 settembre, i documenti e le analisi delle istituzioni Ue non mancano di denunciare l’anacronismo delle tradizionali categorie politiche e strategiche, modellate su impianti teorici – come quello della guerra fredda – ormai superati dagli eventi. Nell’età globale la minaccia terroristica assume volti sempre meno definiti ed è in grado di alimentare rapporti con governi irrispettosi del diritto internazionale, ma la distinzione fra “terrore” come violenza dall’alto e “terrorismo” come violenza dal basso, emersa nella storia del pensiero politico, sembra destinata a resistere sul piano concettuale. 182 L’opposizione di molti europei – alcuni leader e gran parte della popolazione – alla deriva americana del 2002-03, che presenta l’azione in Iraq come seconda fase di una generica war on terror, si regge proprio sulla convinzione che non possano essere confusi il pericolo rappresentato da Stati autocratici, erede in qualche misura del “terrore” arendtiano, e quello incarnato dalle formazioni terroristiche di nuova generazione. Dal 2005 la lotta al terrorismo è inseparabile dal più ampio dibattito sui destini dell’Ue, innescato dalla crisi “costituzionale” tamponata dal Trattato di Lisbona. Al di là degli accorgimenti adottati in quella sede, tuttavia, l’impegno europeo contro il terrorismo – tanto nei suoi aspetti di politica interna, quanto nei sui sviluppi di politica estera – richiede una comune visione delle prospettive dell’integrazione, che sembra viceversa latitare. A caratterizzare la fase storica aperta dalla crisi del Trattato costituzionale è infatti l’assenza di un progetto condiviso, a cui si cerca di sopperire con soluzioni minimaliste, come quelle contenute nel Trattato di Lisbona, le quali non riescono a mascherare le profonde divisioni fra gli Stati membri. In campi cruciali come la politica economica e monetaria, la gestione della circolazione delle persone sul territorio europeo o le relazioni esterne, si assiste a un rigurgito di egoismi nazionali, in alcune circostanze tanto marcato da rimettere in discussione l’opportunità stessa di procedere sulla strada dell’integrazione. La ricostruzione storica qui condotta mostra invece come le nuove forme di violenza politica, altamente globalizzate nei metodi e negli obiettivi, richiedano un’ulteriore accentuazione della dimensione sovranazionale europea e in prospettiva mondiale. Pur presentando limiti e contraddizioni, il rafforzamento – in varie forme – della cooperazione internazionale e del dialogo multilaterale appare la via più promettente per affrontare le sfide della post-modernità. 183 Bibliografia AAVV, Materiali per un lessico politico europeo: «paura», «Filosofia politica», a. XXIV, n. 1, aprile 2010 Abélès, Marc, Politica gioco di spazi, Roma, Meltemi, 2001 Ackerman, Bruce, La costituzione di emergenza. Come salvaguardare libertà e diritti civili di fronte al pericolo del terrorismo (2004), Roma, Meltemi, 2005 Id., Prima del prossimo attacco. 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