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- La scomparsa dei dinosauri, un delitto svelato
Roberto Weitnauer marzo 2007 – estensione luglio 2007 17 pagine, 15 immagini www.kalidoxa.com Diritti riservati - La scomparsa dei dinosauri, un delitto svelato La scoperta nella penisola messicana dello Yucatan di un enorme cratere da impatto è stata considerata dagli scienziati come “la pistola fumante” nell’ambito delle indagini attorno a un grave delitto perpetrato 65 milioni di anni fa nei confronti dell’intera biosfera. Stiamo alludendo a una meteora piovuta dal cielo che avrebbe decretato la fine del regno dei dinosauri e, in generale, la scomparsa di ben tre quarti delle specie che nel periodo Cretacico vivevano sul pianeta. La nascita e lo sviluppo della congettura dell’asteroide killer ricalca una storia abbastanza recente in cui gli scienziati del caso si sono trovati a intrecciare fortuna, acume, immaginazione, ostinazione. Oggi questa teoria è considerata la più accreditata e sono state studiate a fondo le conseguenze che la tremenda collisione del meteorite avrebbe determinato sugli habitat, in particolare attraverso il clima. È molto probabile che senza questo evento drammatico la nostra specie non avrebbe potuto fare la sua comparsa sulla Terra. Alla fine di gennaio 2007 è partito per la penisola dello Yucatan (Messico) un gruppo di ricercatori capitanati dal geologo Michael Whalen della University of Alaska Fairbanks. Lo scopo è vedere più chiaro nei resti di un’enorme lesione locale della Terra e nella correlata vicenda di morte. L’antica ferita è talmente estesa che, stando sul luogo, non se ne ha percezione. Il tempo ne ha inoltre camuffato l’aspetto, ricoprendola di vegetazione e di strati geologici più recenti, nonché modificandone i rilievi. Solo le immagini NASA riprese dallo shuttle Endeavour mostrano le cicatrici con chiarezza. Stiamo alludendo al cratere di Chicxulub che ha un diametro di 180 km e trova le sue origini nella caduta di una meteorite di 10 km, larga cioè quanto una metropoli. Avvenuto 65 milioni di anni fa, l’impatto si è prodotto parzialmente oltre la costa messicana, provocando quindi anche uno Tsunami di dimensioni smisurate. In questo evento drammatico la grande parte degli studiosi individua oggi la ragione della scomparsa del 75% delle specie che vivevano sul globo al termine del Cretacico e quindi, in modo particolare, dei dinosauri di cui sono catalogate 800 specie per quel periodo geologico. “Dinosauro” è un termine di origine greca che significa “formidabile rettile”. Il rinvenimento del cratere e le ricerche su di esso sono relativamente recenti e rispecchiano le argomentazioni interdisciplinari argute, ma anche l’immaginazione, l’ostinazione e i colpi di fortuna che spesso s’intrecciano negli sviluppi scientifici. Val la pena prendere spunto dall’attuale annuncio della spedizione geologica di Whalen per ripercorrere velocemente le tappe della scoperta e fare il punto della situazione sulla scomparsa degli imponenti sauri del passato; scomparsa senza la quale è probabile che il nostro genere, moltissimo tempo dopo, non avrebbe potuto fare la sua comparsa nell’imprevedibile regno della vita terrestre. Il Tyrannosaurus Rex, il più noto tra i dinosauri predatori. Con le sue sei tonnellate circa, una lunghezza di 15 m e un’altezza di 7 esso è quasi certamente il carnivoro più grande del tardo Cretacico, il periodo alla fine del quale, 65 milioni di anni fa, i grandi rettili sono improvvisamente scomparsi a causa dell’impatto di un meteorite nel Golfo del Messico. Questo è almeno quanto indica la teoria di Chicxulub, senz’altro oggi la più accreditata e comunque ricca di riscontri oggettivi. http://www.search4dinosaurs.com/rm_tyrannosaurus.jpg Possiamo fare iniziare tutto dal 1978 quando il geofisico di Houston Glen Penfield, che lavora per la compagnia petrolifera di stato del Messico, la PEMEX, si mette a studiare le scansioni magnetiche effettuate dalla sua società nel suolo dello Yucatan. Egli s’imbatte in una curiosa forma incurvata che emerge dal rumore di fondo delle rilevazioni. Penfiled è sorpreso e affascinato dalla grande struttura ad arco che scorge e che non è per nulla conforme alle aspettative sulla geologia regionale. Per capire meglio la situazione egli ricerca allora una mappa delle variazioni gravitazionali nello Yucatan e la trova negli archivi della PEMEX. La carta, risalente agli anni 60, è dimenticata e impolverata, ma sufficientemente chiara per mostrare un secondo arco, questa volta spostato verso l’entroterra. Penfield unisce la traccia gravimetrica a quella magnetometrica e, trasalendo, si rende conto che insieme danno luogo a un cerchio quasi perfetto di 180 km di diametro. Il tecnico pensa subito al terribile impatto di un corpo celeste, anche perché ha la passione per l’astronomia e sa che sulla Terra esistono diverse strutture geologiche di morfologia riconducibile a quel fenomeno violento. Insieme a un collega della PEMEX, Antonio Camargo, decide allora di annunciare la scoperta in una conferenza pubblica che però passa per lo più inosservata. Egli tenta successivamente tutta una serie di strade tecniche per corroborare la sua idea, ma colleziona purtroppo una serie di fallimenti. Le sue convinzioni non cadono tuttavia nel dimenticatoio. In particolare, Carlos Byars, un giornalista dello Houston Chronicle, viene in possesso del resoconto sulla conferenza e ne rimane colpito, indipendentemente dallo scarso successo della stessa. Una rappresentazione artistica del drammatico evento di Chicxulub: si vede da sopra il pianeta l’effetto istantaneo dell’impatto del meteorite che 65 milioni di anni fa avrebbe causato l’estinzione improvvisa di tre quarti delle specie viventi nella biosfera terrestre. http://www.tiac.wa.gov.au/forum/2001/hocking/famous/chixpic4.jpg Arriviamo così senza risvolti significativi agli inizi degli anni ’90 quando uno studente, tale Alan R. Hildebrand dell’Università dell’Arizona, si aggira con il tipico piccone da geologo nelle montagne dell’isola caraibica di Haiti, esaminando alcuni reperti che sembrano resti di un devastante Tsunami di tempi arcaici. Un maremoto sposta ingenti quantità di sabbia e provoca delle colate fangose sui fondi marini i cui prodotti, le torbiditi, restano intrappolati nelle rocce sedimentarie che si formano nel corso di molti milioni di anni. Le rocce possono poi affiorare per gli sconvolgimenti tettonici, così che i segni dello Tsunami finiscono per ritrovarsi in quota. Il giovane Hildebrand e il suo professore, William V. Boynton, pubblicano i risultati delle analisi petrografiche, mineralogiche e delle rilevazioni in loco e, guarda un po’, congetturano che nella regione caraibica sia caduta una meteorite insolitamente voluminosa. I due non sanno nulla di Penfield che non ha potuto produrre alcuna eco scientifica. Alan R. Hildebrand (sinistra) e William V. Boynton (destra) sono agli inizi degli anni ’90 rispettivamente uno studente laureando presso l’Università dell’Arizona e il relativo tutor. In quel periodo i due avanzano l’ipotesi che nella zona caraibica, non oltre 1000 km circa da Haiti, doveva essere caduto un enorme meteorite, nulla sapendo delle ricerche di Glen Penfield, compiute parecchi anni prima. http://miac.uqac.ca/MIAC/alan.jpg (sx) http://www.lpl.arizona.edu/faculty/Images/wboynton.jpg (dx) Le ragioni sottostanti all’ipotesi di Hildebrand e Boynton sono sostanzialmente tre. Prima di tutto i due pensano che le possenti onde che hanno distrutto le rocce siano state sollevate nell’oceano dalla caduta di un corpo celeste. In secondo luogo, riscontrano nelle rocce studiate segni inequivocabili d’intense sollecitazioni termiche e meccaniche, quali appunto potrebbe provocare un piccolo asteroide (cioè una grandissima meteorite). Infine, il materiale roccioso vetrificato e metamorfico del tipo rivenuto risulta particolarmente abbondante nella regione caraibica. Sulla base dei dati raccolti i due dell’Arizona giungono a porre il punto di collisione a una distanza di non oltre 1000 km dai luoghi di ricerca ad Haiti. L’annuncio desta subito notevole scalpore, dato che gli scienziati non hanno mai sentito parlare di un impatto meteoritico nel Golfo del Messico. A questo punto subentra Byars, il giornalista di buona memoria, che riferisce prontamente a Hildebrand che Penfield ha formulato l’ipotesi della meteora piombata dal cielo già una quindicina d’anni prima di lui sulla scorta d’interessanti indagini geofisiche. I due specialisti si mettono allora in contatto e iniziano a lavorare assieme. Dallo studio retrospettivo di carotaggi della PEMEX effettuati nello Yucatan negli anni ’50 emergono nuove conferme: Penfield e Hildebrand accertano nelle rocce la presenza di evidenti metamorfismi da stress termico e meccanico che sono molto bene in accordo con la congettura della meteorite. Tra gli addetti ai lavori la faccenda assurge finalmente al livello d’importanza elevato che merita. Ricerche geologiche vengono avviate su più fronti. Arriviamo così al 1996 quando alcuni scienziati californiani scoprono attraverso lo studio d’immagini satellitari un’inequivocabile impronta circolare sul suolo dello Yucatan con il centro posto nella località di Puerto Chicxulub, presso Merida (la parola “Chicxulub” ha un origine Maia e significa “coda del diavolo”). La traccia combacia splendidamente con i rilievi studiati da Penfield. A quel punto, tra analisi geologiche, geofisiche, gravimetriche, stratigrafiche, petrografiche e satellitari, pochi dubbi rimangono a proposito della validità della supposizione avanzata in origine da Penfield. Il resto è storia recente, ripresa più volte anche dalle trasmissioni divulgative. Il cratere di Chicxulub nella penisola messicana dello Yucatan è una grande ferita, ma risulta nascosta dall’azione del tempo. Dopo la sua formazione esso è stato ampiamente ricoperto dai sedimenti del Terziario. Tuttavia, la scansione topografica radar eseguita dal satellite (NASA/JPLCaltech) qui sopra riportata rivela con chiarezza il suo bordo. Si nota dalla traccia che una porzione del grande meteorite è andata a impattare nel mare. Scritta dell’autore sopra l’immagine. http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/9/9c/Chicxulub_radar_topography.jpg Qualcuno ritiene oggi che l’anello visibile dal satellite, che è una formazione di subsidenza sviluppatasi nel corso del tempo sulla superficie d’impatto, sia solo una parte del cratere originario il quale raggiungerebbe un diametro di ben 300 km. Un’alterazione del terreno di simili proporzioni provocata da un urto meccanico di un corpo con un diametro stimato di 30 volte inferiore lascia intendere il potenziale devastante contenuto in quel bombardamento celeste. Si valuta che l’energia in gioco sia stata pari a cento milioni di megaton, ovvero circa 6-7000 volte quella che verrebbe scatenata dall’esplosione contemporanea di tutto l’arsenale nucleare presente al tempo della Guerra Fredda, ovvero, ancora, circa 7 miliardi di esplosioni atomiche del tipo di Hiroshima. Si stima anche che le onde sollevate nel Golfo del Messico per la subitanea dislocazione dell’acqua abbiano raggiunto centinaia di metri di altezza. Un’elaborazione grafica al computer che esalta le variazioni gravitazionali nel cratere di Chicxulub. I segni circolari dell’impatto sono netti sulla terraferma e sul fondale marino. http://solarsystem.nasa.gov/multimedia/gallery/Chicxulub.jpg Questo breve resoconto mostra come sia stato possibile scoprire il cratere nascosto di Chicxulub e correlarlo a una perturbazione ingente degli equilibri del pianeta. Tuttavia, le vicende qui raccontate ancora non rendono conto di come proprio quel cratere possa risultare connesso all’improvvisa scomparsa dei dinosauri. S’intuisce che alla nostra vicenda scientifica manca ancora qualche tassello e che l’anello logico di congiunzione deve rimandare a una coincidenza cronologica, cioè a una corrispondenza tra la data dell’impatto e quella della moria degli animali. Per quanto riguarda quest’ultima le considerazioni sono presto fatte. Nei sedimenti terrestri si trovano resti o impronte di dinosauri solo fino agli strati geologici che hanno 65 milioni di anni di età. Nelle formazioni successive nessuno ha mai rilevato tracce fossili dei formidabili rettili che un tempo dominavano la biosfera. Si tratta chiaramente di un segnale oggettivo che allude alla loro improvvisa scomparsa dalla faccia della Terra, appunto 65 milioni di anni fa, quando la flora e la fauna acquatica mutano drasticamente. Fino agli anni ’70-’80 gli scienziati hanno formulato tutta una serie d’ipotesi per spiegare lo sconvolgimento ambientale in questione. Nessuno aveva però mai pensato di additare a un evento celeste. Per una conclusione di quel genere occorrevano indizi cronologici solidi e riscontri sulle dimensioni nell’ordine di grandezza di quelli ottenuti per la cavità di Chicxulub. La storia scientifica ha battuto però una via differente, così che non fu il grande cratere dello Yucatan, né altri più piccoli già noti, a stimolare la congettura meteoritica per la fine dei dinosauri. Accadde all’opposto che, per usare dei termini da romanzo giallo, il delitto fu dapprima supposto e in un secondo tempo scoperto il colpevole. Per comprendere come siano andate le cose dobbiamo tornare al 1980, anno in cui Luis Alvarez (Nobel per la fisica nel 1968) e il figlio Walter (geologo) pubblicano sulla prestigiosa rivista “Science” (n. 4488) un articolo che desta clamore e che, appunto, suggerisce l’esistenza di un colpevole venuto dalle stelle. Il lavoro si riferisce ai risultati di una spedizione effettuata due anni prima da un’équipe del Lawrence Berkeley National Laboratory (Università della California) diretta da Luis e cui partecipa Walter. In un sottile strato argilloso di circa 1 cm nelle rocce della Gola del Bottaccione presso Gubbio in Italia gli studiosi s’imbattono in un’insolita concentrazione di osmio, rodio e soprattutto iridio. L’iridio è un metallo affine al platino che risulta per lo più contenuto nel nucleo ferroso del pianeta e che è estremamente raro nella crosta terrestre: solo 2,5 parti ogni 100 miliardi. L’anomalia viene rilevata tra il livello sedimentario del Cretacico (K), l’ultimo periodo geologico dell’era Secondaria, e il livello del Paleogene, il primo periodo della successiva era del Terziario (T). Questo confine, tecnicamente definito come “limite K-T”, corrisponde a strati formatisi 65 milioni di anni fa. Le ere, i periodi e le epoche geologiche con le rispettive durate in milioni di anni. Sono indicati anche gli spessori delle rocce. Sono evidenziati in rosso l’era del Terziario, il periodo del Cretacico (o Cretaceo) e la transizione attraverso il limite K-T. Si usa la K per contrassegnare il suddetto periodo, perché la C identifica il periodo Cambriano. Grafica dell’autore. Tabella da: http://www.themeter.net/geoere.htm L’intera formazione geologica studiata è in massima parte di tipo calcareo e trae origine dalla deposizione sul fondo marino di organismi dotati di guscio a base di carbonato di calcio. Lo strato argilloso si è invece generato molto più lentamente in un periodo ormai privo di una simile fauna acquatica durante un intervallo che, attraverso accurati metodi di datazione, gli Alvarez inquadrano in 10' 000 anni (valore poi confermato da altri lavori più recenti). In esso ci sono dunque almeno tre aspetti salienti da considerare. In primo luogo la presenza abbondante di iridio rimanda a un apporto extraterrestre; in seconda istanza l’assenza di depositi calcarei di origine biotica riflette una discontinuità dell’habitat ancestrale; infine il limite K-T coincide temporalmente con la scomparsa dei dinosauri. Tutto ciò suggerisce una connessione tra l’apporto d’iridio e l’ancestrale dramma ambientale. Se inoltre consideriamo che nelle meteoriti più comuni l’iridio è presente in quantità pari a 500 parti per miliardo, cioè 17000 volte la concentrazione media della crosta terrestre, ci sentiamo spinti a compiere un passo in più, azzardando che il suddetto metallo raro sia stato portato dallo spazio e depositato sul suolo di 65 milioni di anni fa attraverso una collisione meteoritica. Si tratta anche di quello che gli Alvarez iniziano presto a sospettare. Lo straterello che costituisce il limite K-T di deposizione geologica tra il periodo Cretacico e la successiva era del Terziario. La formazione rocciosa qui raffigurata è nel Big Bend National Park del Texas. I siti geologici con limiti K-T ben studiati sono attualmente ben oltre un centinaio in tutto il mondo. Ovunque il livello di iridio è elevato. http://www2.nature.nps.gov/geology/geologic_wonders/images/KT.jpg Nondimeno, nelle indagini scientifiche importanti, come del resto in quelle poliziesche, non bastano un paio d’indizi che dopotutto potrebbero essere fuorvianti. Gli studiosi dell’epoca sono in effetti poco propensi ad accettare a cuor leggero la soluzione del meteorite. Un fenomeno radicale come un’improvvisa estinzione di massa, sostengono giustamente, deve richiedere una vera e propria catastrofe globale che qualche masso piovuto dalla volta celeste non è certo in grado di provocare. Molte altre spiegazioni restano nel frattempo in auge, comprese le epidemie, gli effetti vulcanici, l’inversione di campo magnetico, l’esplosione di una supernova e il richiamo alle estinzioni cicliche che da sempre accompagnano l’evoluzione della vita sulla Terra. Gli stessi Alvarez suppongono in un primo tempo che il tenore d’iridio contenuto nello straterello argilloso potrebbe dipendere da una concentrazione locale della consueta deposizione di polvere cosmica che altro non è che il risultato della continua frantumazione di piccoli meteoriti che vengono in contatto con l’atmosfera. Viste le opportunità offerte dal sito di Gubbio, i due procedono allora ad accurati accertamenti stratigrafici e fisico-chimici, al fine di ben quantificare l’apporto cosmico per rapporto ai tempi di produzione degli strati. In questo modo scoprono che l’iridio inglobato nello spessore argilloso è significativamente elevato: 4 parti per miliardo con punte di 9 parti per miliardo, ossia ben 360 volte di più della media valida per la crosta terrestre. In un cm di argilla formatosi in 10' 000 anni c’è in sostanza tanto iridio quanto nell’intera roccia studiata nella Gola del Bottaccione, sviluppatasi per sei metri di altezza in circa mezzo milione di anni. È segno che 65 milioni di anni fa l’apporto di iridio è stato eccezionale. Luis Alvarez (nobel per la fisica) e il figlio Walter (geologo munito del classico piccone) presso il sito di Gola del Bottaccione (Gubbio, Italia) dove nel 1978 hanno rilevato quantità elevate di iridio in uno straterello argilloso coincidente col limite K-T. http://dsd.lbl.gov/ImgLib/COLLECTIONS/BERKELEY-LAB/PEOPLE/INDIVIDUALS/images/96703338.lowres.jpeg La condizione osservata potrebbe rispecchiare una caratteristica esclusiva di Gubbio, ma non è così. Giungono infatti i risultati delle misurazioni effettuate in altre parti del mondo (Nuova Zelanda, Danimarca, Spagna, Nuovo Messico) e si desumono dati sull’iridio ancor più rimarchevoli: la concentrazione tocca le 42 parti per miliardo. Oggi strati ricchi di iridio sono rinvenibili a decine in più continenti e anche negli abissi oceanici. Sono tutti posti in corrispondenza del limite K-T. Sembra di essere di fronte a una sorta di marchio di fabbrica, un contrassegno impresso nella geologia terrestre 65 milioni di anni fa. Confortati dai risultati, gli Alvarez si sentono autorizzati a ipotizzare nell’articolo di “Science” che all’epoca dello sviluppo del limite K-T l’apporto del metallo raro è stato talmente ingente da potersi giustificare solo con l’impatto di una meteorite di dimensioni smodate che ha devastato gli habitat ed eliminato tre quarti delle specie allora viventi. Sulla scorta di considerazioni fisiche, nonché di conoscenze relative ad altri urti meteoritici e alla diffusione delle polveri vulcaniche, gli Alvarez giungono anche a stabilire la grandezza del proiettile cosmico: 10 km di diametro per una massa impattante di oltre tre centinaia di miliardi di tonnellate. A quel punto padre e figlio affermano che non resta altro da fare che mettersi a cercare il colpevole, cioè rinvenire sulla scena del crimine, la Terra, il luogo preciso dell’immane collisione. Verso la fine degli anni ’80 sono disponibili dei cataloghi inerenti tutte le tracce meteoritiche rilevate sulla Terra. Sono registrati nel complesso più di cento luoghi di collisione con tanto d’indicazioni sulle dimensioni e sull’età. Nessuna delle strutture d’impatto elencate risulta però compatibile con i requisiti richiesti dal lavoro degli Alvarez. Il colpevole resta un fantasma. Questo lascia supporre agli studiosi in un primo tempo che l’impatto asteroidale ipotizzato si sia verificato in acqua, non sulla terraferma, laddove si riscontrerebbero estese formazioni rocciose fuse o alterate in maniera caratteristica dalla violenta azione termo-meccanica. Da sinistra a destra: suevite, moldavite e tectite, tre tipici minerali che si formano a seguito dell’impatto di una meteorite. Si tratta di prodotti derivanti dalla fusione della roccia, dalla sua espulsione dal luogo di collisione e dal suo successivo rapido raffreddamento. La moldavite e la tectite sono vetrosi. Altri segni caratteristici della collisione meteoritica si riscontrano nei metamorfismi degli strati rocciosi interessati dall’energia trasmessa: le enormi pressioni e le elevatissime temperature causano stress che alterano il materiale in modo caratteristico. Immagini da: http://www.fmboschetto.it/images/galleria_terra.htm Quando, tra le varie peripezie sopra narrate, vengono avviate ricerche in massa sullo Yucatan le analisi geologiche mostrano che la cicatrice di Chicxulub è stata causata da un corpo astrale di diametro pari proprio a 10 km e piovuto sul globo proprio 65 milioni di anni fa, sparpagliando il suo carico d’iridio e altri metalli rari sulla crosta terrestre. Inoltre, si trovano le tracce dello Tsunami e vengono osservati nella regione segni inconfutabili di collisione, come brecce e tectiti. Il tempo ha alterato e coperto la ferita, ma uno sguardo più accorto mostra con evidenza ciò che prima sulla terraferma appariva nascosto. La collisione è avvenuta in parte sul suolo, in parte in mare. Si può finalmente esclamare: Bingo! Il periodo in cui il team di Berkeley si aggira nel campo geologico di Gubbio coincide più o meno con quello in cui Penfield, circa 9000 km a occidente e sul luogo del delitto, studia le mappe geomagnetiche della PEMEX, rimanendo impressionato da quel che vede. Occorre una dozzina d’anni prima che i filoni delle due investigazioni si saldino in un’unica teoria coerente. Ma quando ciò succede gli indizi a suffragio della congettura dell’asteroide killer diventano davvero solidi. Luis Alvarez muore di cancro nel 1988, poco prima. Nel 2005 è stata inoltre data la spiegazione convincente per le cosiddette “sferule di Chicxulub”. Si tratta di formazioni microscopiche sferoidali che già Hildebrand aveva scoperto in una ghiaia verdastra di Haiti, insieme agli elevati tenori di iridio. I granuli dipendono dalla condensazione, sono cioè goccioline inglobate nei minerali e formatesi per il raffreddamento dell’enorme quantità di vapore sollevata dopo la collisione dell’asteroide che ha colpito anche la superficie marina. Ingrandimento al microscopio di una sezione sottile tagliata attraverso i reperti geologici contenenti le cosiddette sferule di Chicxulub. Il diametro della sfera centrale è di circa 400 milionesimi di millimetro. http://www.geosociety.org/graphics/media/0614Chicxulub_DSCN2855.JPG Ultimamente, e siamo nel maggio del 2006, è stato scoperto nell’Antartide un cratere da impatto ancora più grande di quello nello Yucatan: 480 km di diametro, un’esagerazione, per così dire. Esso ha un’età di 250 milioni di anni e gli studiosi ritengono che il relativo asteroide abbia col suo urto causato la morte di quasi tutte le specie allora viventi. Si tratterebbe della peggiore ferita nella storia della vita sulla Terra (estinzione permiana-triassica). Quella di Chicxulub non sarebbe dunque l’unica meteora portatrice di morte. La fine della vita sul pianeta a causa di un asteroide è un’eventualità che ci si potrebbe figurare anche con riferimento ai giorni nostri. Occorre per questo certamente una buona dose di pessimismo, ma i precedenti di Chicxulub, e ora dell’Antartide, forniscono spunti realistici sui quali ha spesso fatto leva la fantascienza. Ne sono un esempio i film Armageddon o Deep Impact, entrambi del 1998. Mentre però i due lavori di Hollywood contengono una nutrita serie di svarioni scientifici e si basano sulla fantasia, il team di Whalen di cui si diceva all’inizio dell’articolo deve eseguire prove sismiche, carotaggi profondi e studi di fossili, facendo quadrare i conti con quello che di reale già si sa. In effetti, le conseguenze di una collisione asteroidale sulla superficie del pianeta sono sfaccettate e suscettibili di recare tutta una serie di conseguenze chimiche, fisiche, geologiche, climatologiche ed ecologiche. Un meteorite che cade su una metropoli odierna in un’elaborazione grafica ispirata da una fantasia catastrofica. Armageddon e Deep Impact sono due film noti che si rifanno all’eventualità di asteroidi che intercettano la rotta del nostro pianeta. Scenari di questo genere sono forse più probabili per le follie belliche umane che per le accidentalità di Madre Natura. Ciò non toglie che le meteoriti siano sul lunghissimo termine un evento in qualche modo ricorrente. La biosfera terrestre ne è stata plasmata verosimilmente almeno due volte. http://www.goroadachi.com/etemenanki/armageddon-3.jpg Si può credere che l’estinzione dei dinosauri per effetto di un meteorite caduto nel Golfo del Messico si spieghi unicamente in termini di stress termo-meccanico, ma non è così. La collisione della meteora a 108' 000 km/h ha certamente determinato una scossa e una compressione locale con conseguenze disastrose per flora e fauna. Non da meno furono i giganteschi incendi scatenatisi soprattutto a causa della ricaduta dei detriti che infiammarono l’aria (fatto accertato fin dalla metà degli anni ’80 dalla fuliggine rilevata in vari limiti K-T sparsi per il mondo). L’urto e il fuoco costituirono delle calamità che si abbatterono sulla vita delle specie del Cretacico. Tuttavia, questi fattori agirono più che altro nella fase iniziale e, per quanto concerne la scossa distruttrice e lo Tsunami, in una geografia selettiva. L’odierna teoria relativa a Chicxulub considera discriminanti soprattutto gli effetti di lungo termine e su scala planetaria. In questo senso, essa si riferisce a un cambiamento climatico che si è prodotto con modalità articolate a seguito della catastrofe termo-meccanica. Impattando sul suolo, il meteorite ha sollevato nell’atmosfera un’immane nube di vapore, polvere, nonché di gas e particelle fini che avrebbe a sua volta causato una sostanziale modificazione dell’habitat. Ma come? Studi condotti qualche anno fa presso il Geo Eco Arc Research del Maryland hanno mostrato che le polveri di un meteorite, per quanto abbondanti, provocano alterazioni sostanziali solo nell’area dell’impatto e in intervalli non lunghi. Diversa è la condizione per gli aerosol di solfati che si formano dalle rocce surriscaldate nell’urto, nonché per le ceneri provenienti dai vasti incendi. Entrambi i materiali fini possono salire in quota e diffondere su scala planetaria. Quale fu la conseguenza? Sono stati rinvenuti resti di organismi dinoflagellati e bentonici amanti del freddo in un sito archeologico della Tunisia dove un tempo c’era il mare. I fossili sono in strati di 65 milioni di anni fa e sono molto diversi da quelli che li precedettero e che vissero in acque piuttosto calde. È questa una delle testimonianze di un veloce e drastico abbassamento della temperatura della Terra dopo quella data critica. Oscurando il Sole per anni, ceneri e solfati innescarono un processo di intenso raffreddamento globale (abbondantemente sotto i 0° C), causarono piogge acide e impedirono la fotosintesi di molte piante della biosfera di allora. Essi indussero negli habitat e nelle catene alimentari variazioni profonde e durature; si ricordi a tal proposito che le piante sono produttori primari. Un’immagine simbolica: un gruppo di apatosauri si muove in un giorno nebbioso all’interno di un paesaggio arido e buio del Giurassico, ben prima dell’apocalisse di Chicxulub. Ma una scena di questo genere è con ogni probabilità caratteristica nel lungo termine dopo l’impatto del meteorite, quando le polveri oscurano il Sole, impedendo la fotosintesi delle piante, spezzando molte catene alimentari e causando un crollo delle temperature. In 10000 anni i dinosauri del Cretacico si estinguono. http://www.search4dinosaurs.com/rm_apatosaurus.jpg Dopo un buio e soprattutto lungo inverno seguirono sulla Terra periodi temperati per via dell’effetto serra dovuto all’anidride carbonica, anch’essa accumulatesi in quantità dopo i mastodontici incendi della prima fase. Ma ormai molto era cambiato sulla Terra. La vita è un processo irreversibile e risente sempre delle condizioni al contorno. I grandi sauri non sopportarono lo sbalzo e risultarono incompatibili con i nuovi habitat. In generale, tutti gli animali al di sopra di una trentina di kg soccombettero; una selezione per cui non si hanno ancora spiegazioni esaustive. Così, 10' 000 anni, pochissimi su scala evolutiva o geologica, bastarono per decretare un’estinzione massiva. La vita si riprese soprattutto grazie alla minore compromissione di alcuni habitat delle regioni più a settentrione rispetto alle latitudini dello Yucatan. In queste nicchie sopravvissero specie che, pur incontrando molte difficoltà, riuscirono forse ad approfittare dei cambiamenti, diffondendosi e ripopolando la biosfera che aveva subito una durissima depauperazione. Sembra che anche gli habitat marini siano stati meno investiti dagli effetti nefasti della meteora, così che animali acquatici di stazza maggiore di quelli terrestri poterono sopravvivere. Un’altra immagine simbolica: dopo la devastazione del fuoco e dopo il lungo e buio inverno globale la biosfera è ridotta a mal partito. I piccoli mammiferi hanno però retto al drastico mutamento dell’habitat. Torna il clima mite e l’ossigeno aumenta nell’atmosfera, favorendo la diffusione e la diversificazione dei nostri antenati. http://www.search4dinosaurs.com/rb_earlymammal.html Va precisato per completezza che nel 2005 un gruppo di ricercatori di Princeton, rafforzando un proprio precedente studio, ha messo in dubbio che l’evento incriminato fosse proprio quello di Chicxulub, sostenendo che la datazione dei detriti vetrosi del meteorite messicano non collimasse a sufficienza con quella della massa dei fossili (300' 000 anni di scarto). Il team esortò gli scienziati a cercare sul pianeta i segni di qualche altro colossale cratere, leggermente più recente. Questa posizione venne però contestata da diversi studiosi. Due eventi ravvicinati di tale portata sono inoltre poco plausibili, seppure non impossibili. Una teoria concorrente a quella di Chicxulub e ancora oggi appoggiata da alcuni scienziati è quella delle eruzioni vulcaniche, pure in grado di diffondere polveri fini e iridio su scala planetaria. In effetti, 65 milioni di anni fa si verificò in India una notevole eruzione effusiva, come dimostrano le possenti formazioni ignee del plateau basaltico del Deccan. Ma è possibile che un effetto vulcanico risulti così incisivo da potersi confrontare con le conseguenze dell’impatto di una meteora di ben 10 km? In linea di massima sì, se si considera che quell’eruzione è durata la bellezza di mezzo milione di anni, sia pure producendosi a singhiozzo. Tuttavia, questa durata è incompatibile con la fulminea estinzione dei dinosauri. Inoltre, gli Alvarez hanno messo in mostra alcune manchevolezze di questa congettura rispetto alla realtà geologica rilevabile sul campo. Un’eruzione vulcanica, anche se molto protratta e ripetuta, e una collisione meteoritica non lasciano proprio gli stessi segni nelle rocce. Il peso degli elementi scientifici a suffragio della congettura del meteorite killer è oggi preponderante rispetto a quello di altre ipotesi. La teoria di Chicxulub risulta quindi quella attualmente più accreditata e viene definita come “convenzionale”. Naturalmente, trattandosi di un periodo molto lontano, di una scoperta piuttosto recente e di un evento dalle implicazioni complesse, non si può contare su certezze assolute; c’è ancora molto da esaminare e da interpretare. Ed è per questo che spedizioni come quella di Whalen ottengono finanziamenti e suscitano aspettative. Michael Whalen del dipartimento di geologia e geofisica dell’Università dell’Alaska, Fairbanks. Il professor Whalen è un esperto di sedimentazione e stratigrafia delle rocce carbonatiche. Studia in modo particolare le relazioni tra esse e le ancestrali condizioni ambientali terrestri. I suoi corsi universitari comprendono, tra le altre cose, le teorie delle grandi estinzioni sul pianeta. A gennaio 2007 Whalen e il suo gruppo si sono recati nello Yucatan per avviare indagini approfondite sul cratere di Chicxulub. http://www.uaf.edu/geology/Facultyn/facphotos/Whalen2.jpg Al momento della catastrofe non sussistevano telecamere o apparecchi rilevatori; i segni su cui possiamo oggi contare risultano quasi tutti alterati o nascosti dal tempo, proprio come insegna il caso di Chicxulub. Scorgere in essi una sequela di eventi come se si osservasse un filmato è un compito demandato alla scienza. Ricordiamo ad ogni modo che l’evoluzione, essendo opportunistica e retta da fattori casuali, non è una macchina che segua percorsi obbligati in base a un progetto prestabilito. È allora ragionevole pensare che senza il meteorite di Chicxulub o qualche altra causa distruttiva planetaria noi umani non avremmo mai potuto fare capolino nella biosfera della Terra. Andamento della percentulae di ossigeno nell’atmosfera dal Giurassico a oggi confrontata con la variazione di massa media dei mammiferi e la loro diversificazione filogenetica. Si nota come da 50 a 30 milioni di anni fa si sia manifestato un salto positivo notevole nel tenore di ossigeno e come di conseguenza i mammiferi siano cresciuti dimensionalmente (la crescita di massa precedente del Cretacico non è invece correlata all’ossigeno). La parte destra della figura illustra che le prime tracce dei mammiferi risalgono a oltre 200 milioni di anni fa. I mammiferi placentali, ordine cui noi umani apparteniamo, si sviluppano a partire da circa 70 milioni di anni fa. http://pharyngula.org/images/O2_over_time_lg.jpg Un aspetto interessante sembra essere in questo quadro costituito dalle ricerche condotte sul rapporto tra la diffusione dei mammiferi e la concentrazione di ossigeno nell’atmosfera. Al tempo dei dinosauri l’ossigeno era stabile intorno al 10%, meno della metà di oggi. Ciò non consentiva ai mammiferi che hanno un metabolismo piuttosto attivo di svilupparsi oltre certe dimensioni corporee. I nostri trisavoli erano dunque creature decisamente piccole. Dopo che il campo fu liberato dal predominio dei grandi rettili si produsse (50 milioni di anni fa) anche un rapido incremento dell’ossigeno nell’atmosfera. I due fattori permisero così ai mammiferi di svilupparsi in numero, in specie e anche in dimensioni. Indagare sulla scomparsa dei grandi sauri in un habitat profondamente alterato significa comprendere meglio le nostre origini e la nostra natura biologica sulla Terra odierna. Per sottacere della circostanza che, come purtroppo ormai sappiamo, potrebbe essere proprio un cambiamento climatico a minacciare seriamente il nostro genere. Roberto Weitnauer