Lezione del 15.4.2015 - Dipartimento di Comunicazione e Ricerca
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Lezione del 15.4.2015 - Dipartimento di Comunicazione e Ricerca
BARTHES Retorica Retorica dell’immagine • L’immagine, come il mito, naturalizza le ideologie attraverso stereotipi, tecniche, abitudini percettive, che costituiscono il piano della connotazione (diverso dalla denotazione: oggetto rappresentato). • Attraverso lo studio della retorica dell’immagine Barthes giunge a definire i semi connotativi. Analisi dell’immagine pubblicitaria la pasta Panzani • Il messaggio linguistico è doppio: denotativo e connotativo • L’immagine presenta una serie di segni discontinui: • Un primo segno ha per significante la borsa semiaperta che lascia le provviste spandersi sulla tavola come preconfezionate, il cui significato è “un ritorno dal mercato”; tale significato implica due valori euforici: la freschezza dei prodotti e la preparazione interamente casalinga a cui essi sono destinati. • Un secondo segno ha per significante l’insieme del pomodoro, del peperone e della tinta tricolore (giallo, rosso, verde), il suo significato è l’Italia, o meglio l’”italianità”. Questo segno si trova in un rapporto di ridondanza con il segno connotato del messaggio linguistico (assonanza italiana del nome Panzani); il sapere messo in moto da questo segno è propriamente “francese” (fondato su stereotipi turistici). • Terzo segno: l’assembramento di oggetti diversi che trasmette l’idea di un servizio culinario totale; la scena suggerisce un collegamento tra l’origine naturale dei prodotti e il risultato finale. • Quarto segno: la composizione evoca il ricordo di pitture alimentari note come “natura morta”, attivando (e richiedendo) un sapere fortemente culturale. • Questi quattro segni di cui si compone l’immagine sono tutti discontinui (ritagliano degli elementi per veicolare delle connotazioni), richiedono un sapere genericamente culturale, e rinviano a significati tutti di ordine globale (ad esempio l’italianità), penetrati da valori euforici. • Il lettore non si accorge subito che determinati colori connotano l’italianità o che certi prodotti sono organizzati plasticamente per connotare freschezza. Semi di connotazione • I significati connotativi sono semi (elementi minimi di significazione) di natura particolare: es. l’ “italianità” della marca Panzani, la “femminilità” di un certo nome, ecc. • «l’italianità non è l’Italia, è l’essenza condensata di tutto ciò che può essere italiano, dagli spaghetti alla pittura» (Barthes, 1964: 38) • La connotazione consente di spiegare i significati simbolici e dunque ideologici delle immagini attraverso il riferimento a semi aggiuntivi, elementi di significazione addizionali rispetto ai significati denotativi del lessico. • I connotatori sono significanti che in modo erratico e discontinuo rinviano a significati simbolici (o connotativi). L’insieme dei connotatori costituisce la retorica, mentre l’insieme dei significati connotativi costituisce l’ideologia. • Il connotativo scivola in un ambito che è più propriamente sociologico che strettamente linguistico (ma vedi Sociologia e sociologica, in L’avventura semiologica). Il messaggio linguistico Vi è sempre un testo sotto o vicino all’immagine? Il legame tra testo e immagine è molto frequente, ma sembra poco indagato dal punto di vista strutturale. Qual è la struttura significante della illustrazione? L’immagine raddoppia certe informazioni del testo, in un fenomeno di ridondanza, oppure il testo aggiunge una informazione inedita all’immagine? Non è del tutto giusto parlare oggi di civiltà dell’immagine: siamo ancora e più che mai una civiltà della scrittura (l’assenza di parola ricopre sempre un intento enigmatico). Quali sono le funzioni del messaggio linguistico in rapporto al messaggio iconico?: ancoraggio e ricambio L’immagine è polisemica, la polisemia produce una interrogazione sul senso. L’ancoraggio può essere ideologico: il testo dirige il lettore tra i significati dell’immagine, gliene fa evitare alcuni e recepire altri, lo guida verso un senso scelto in anticipo. Il testo è il ‘diritto di sguardo’ del creatore (e dunque della società) nei confronti dell’immagine; in rapporto alla libertà dell’immagine, il testo ha un valore repressivo, è al suo livello che si investono la morale e l’ideologia di una società. L’ancoraggio è la funzione più frequente: la si ritrova oltre che in pubblicità nella fotografia sui giornali. La funzione di ricambio è più rara: la si trova soprattutto nei disegni umoristici e nei fumetti. Qui le parole – come le immagini – sono frammenti di un sintagma più generale, e l’unità del messaggio si formula a un livello superiore, quello della storia, dell’aneddoto, della diegesi. (Retorica dell’immagine, pp. 27 sgg.). L’immagine denotata Non si incontra mai (almeno in pubblicità) una immagine letterale allo stato puro. Il messaggio letterale è ciò che resta quando si cancellano (mentalmente) i segni di connotazione. La lettera dell’immagine corrisponde al primo grado dell’intelligibile (al di qua di tale grado il lettore percepirebbe solo linee, forme, colori). La fotografia possiede il potere di trasmettere l’informazione (letterale) senza formarla con l’aiuto di segni discontinui e regole di trasformazione, è messaggio senza codice; e l’assenza del codice rafforza il mito del “naturale” fotografico. Gli interventi sulla fotografia (inquadratura, distanza, luce, ecc.) appartengono tutti al piano della connotazione. La fotografia installa non una coscienza dell’esserci della cosa (che ogni copia potrebbe suscitare) ma una coscienza dell’esserci stato: si tratta di una nuova categoria dello spazio-tempo: locale immediato e temporale anteriore; nella fotografia si produce una congiunzione illogica tra un qui e un tempo. L’immagine denotata, nella misura in cui non implica nessun codice (fotografia pubblicitaria), svolge nella struttura generale del messaggio iconico un ruolo particolare: l’immagine denotata naturalizza il messaggio simbolico, rende innocente l’artificio semantico, molto denso (soprattutto in pubblicità), della connotazione. Nella fotografia resta una specie di esserci naturale degli oggetti; l’assenza di codici disintellettualizza il messaggio. È questo, senza dubbio, un paradosso storico importante: più la tecnica sviluppa la diffusione delle informazioni (e soprattutto delle immagini), e più essa fornisce i mezzi per mascherare il senso costruito sotto l’apparenza del senso dato. (Retorica dell’immagine, pp. 31, sgg). Retorica dell’immagine Una stessa lessia mobilizza lessici diversi. Un lessico è una porzione del piano simbolico (del linguaggio) che corrisponde a un corpus di pratiche e di tecniche (cfr. Greimas). Lo stesso vale per le diverse letture dell’immagine: ogni segno corrisponde a un insieme di “atteggiamenti”: il turismo, la vita coniugale, la conoscenza dell’arte, alcuni dei quali possono mancare al livello di un individuo. C’è una pluralità e una coesistenza di lessici in uno stesso individuo; il numero e l’identità di questi lessici formano in qualche modo l’idioletto di ciascuno. L’immagine, nella sua connotazione, sarebbe dunque costituita da un’architettura di segni derivati da una profondità variabile di lessici (di idioletti); e ciascun lessico, per quanto profondo sia, risulta codificato. Retorica è l’insieme dei significanti connotatori; i connotatori sono sempre dei segni discontinui, “erratici”, naturalizzati dal messaggio denotato che fa loro da veicolo. L’ideologia sarebbe insomma la forma (nel senso hjelmsleviano) dei significati di connotazione, mentre la retorica sarebbe la forma dei connotatori (Elementi di semiologia, p. 81); la retorica appare cioè come il volto significante della ideologia. Questa retorica non potrà essere costituita se non a partire da un inventario assai ampio, ma si può prevedere sin d’ora che vi si ritroveranno alcune delle figure già individuate dagli antichi e dai classici. Così il pomodoro indica l’italianità per metonimia. Il sintagma del messaggio denotato naturalizza il sistema del messaggio connotato. La connotazione non è che sistema e non può definirsi se non in termini di paradigma; la denotazione iconica non è che sintagma e associa elementi senza sistema. Il mondo del senso totale è lacerato internamente tra il sistema come cultura e il sintagma come natura: i prodotti delle comunicazioni di massa uniscono, attraverso dialettiche diverse ed esiti diversi, il fascino di una natura, che è quella della narrazione, della diegesi, del sintagma, e l’intelligibilità di una cultura, rifugiata in alcuni simboli discontinui, che gli uomini “declinano” al riparo dalla loro parola vivente (Retorica dell’immagine, p. 35 sgg.). Fotografia, narrazione e argomentazione Uso delle fotografie in Barthes di Roland Barthes Chiarimento in La grana della voce, pp. 344-351: • Le fotografie connotano sempre qualche cosa di diverso da quello che mostrano sul piano della denotazione: è attraverso lo stile che la fotografia è linguaggio; ma la fotografia non è lingua perché non lavora con pezzi di materiale che hanno già un senso. • Se si vuole veramente parlare della fotografia su un piano serio, bisogna metterla in rapporto con la morte. È vero che la foto è un testimone, ma un testimone di ciò che non è più. Anche se il soggetto è sempre vivo, è un momento del soggetto, quello che è stato fotografato, e quel momento non è più. Ogni atto di cattura e di lettura di una foto è implicitamente, in maniera rimossa, un contatto con ciò che non è più, vale a dire con la morte. La ripresa della retorica antica • «una sorta di vulgata aristotelica definisce ancora un tipo di Occidente trans-storico, una civiltà (la nostra) che è quella degli endoxa: […] Aristotele (poeta, logico, retorico) fornisce a tutti il linguaggio, narrativo, discorsivo, argomentativo, che viene veicolato dalle “comunicazioni di massa”, una griglia analitica completa (a partire dalla nozione di ‘verosimile’)[…]»(La retorica antica (1970), p. 109). • La struttura del discorso persuasivo posta alla base della retorica aristotelica si trova riproposta nel discorso persuasivo della società di massa contemporanea, dominata da un’estetica del verosimile (“quel che il pubblico crede possibile”): “Meglio un verosimile impossibile che un possibile inverosimile». • «tutta la nostra letteratura, formata dalla retorica e sublimata dall’umanesimo, è uscita da una pratica politico-giudiziaria: là dove i conflitti più brutali, di denaro, di proprietà, di classe sono assunti, contenuti, ammansiti e mantenuti da un diritto di Stato, là dove l’istituzione regolamenta la parola finta e codifica ogni ricorso al significante, là nasce la nostra letteratura» (RA, 110) • Rilevanza delle passioni nella semiotica classica: movere, delectare vs docere (pathos, ethos vs logos) • Una psicologia verosimile e non vera, una psicologia “proiettata: non “quel che c’è nella testa” del pubblico, ma quel che il pubblico crede che gli altri abbiano nella testa: è un endoxon. La psicologia retorica di Aristotele è una descrizione dell’eikos, del verisimile passionale. • Le prove psicologiche si dividono in due grandi gruppi: ethe (i caratteri, i toni, le arie) e pathe (le passioni, i sentimenti, gli affetti) Ethos • Tratti del carattere (tono) che l’oratore deve mostrare all’uditorio per fare buona impressione. È una psicologia immaginaria: io devo significare quello che voglio essere per l’altro. • L’ethos è propriamente una connotazione: l’oratore enuncia un’informazione e nello stesso tempo dice: io sono questo, io sono quest’altro. • Per Aristotele ci sono tre arie che insieme costituiscono l’autorità personale dell’oratore: 1) phronesis: è la qualità di colui che delibera bene, che pesa bene il pro e il contro; è una saggezza obiettiva, un buon senso ostentato; 2) aretè: è l’ostentazione di una franchezza che non teme le proprie conseguenze e si esprime per propositi diretti, improntati a una lealtà teatrale; 3) eunoia: l’essere gradevole (e forse anche simpatico), capacità d’entrare in una complicità compiacente nei confronti dell’uditorio. Insomma, mentre parla e svolge il protocollo delle prove logiche, l’oratore deve anche dire incessantemente: seguitemi (phronesis), stimatemi (aretè) e amatemi (eunoia) (La retorica antica, pp. 86-7). Pathos • Pathe sono gli affetti di colui che ascolta, almeno per come se li immagina l’oratore. • Ogni “passione” è caratterizzata secondo il suo habitus (le disposizioni generali che la favoriscono), il suo oggetto (per cui essa viene provata) e le circostanze che suscitano la “cristallizzazione” (collera/calma, odio/amicizia, timore/fiducia, invidia/emulazione, ingratitudine/obbligo ecc.). Bisogna insistere, dato che è questo a caratterizzare la profonda modernità di Aristotele e farne il patrono ideale di una sociologia della cultura detta di massa: tutte queste passioni sono volontariamente prese nella loro banalità: la collera è ciò che tutti pensano della collera, la passione non mai altro che quel che se ne dice: intertestuale puro, “citazione” (così lo intendevano Paolo e Francesca che non si amarono se non per aver letto gli amori di Lancillotto) (La retorica antica, pp. 87-8). Psicologia retorica • «La psicologia retorica è dunque tutto il contrario di una psicologia riduttrice, che tenti di vedere cosa sta dietro a quel che le persone dicono e pretenda di ridurre la collera, per esempio, a qualcos’altro di più nascosto. Per Aristotele, l’opinione del pubblico è il dato primo e ultimo, non c’è in lui nessuna idea ermeneutica (di decifrazione): per lui, le passioni sono pezzi di linguaggio già fatti, che l’oratore deve semplicemente conoscere bene: di qui l’idea di una griglia delle passioni, non come una collezione di essenze, ma come una raccolta di opinioni. Alla psicologia riduttrice (che oggi prevale), Aristotele sostituisce (in anticipo) una psicologia classificatrice, che distingue i “linguaggi”» (La retorica antica, p. 88). • La retorica antica si offre come una classificazione (opzione ideologica). Il piacere del testo • La scrittura è al centro dell’opera di Roland Barthes, così come l’attenzione per la lettura e il lettore. • Il testo non è solo un oggetto ideologico, un oggetto di analisi, ma anche la fonte di un piacere. • L’impero dei segni (1970). Lo zen, di cui l’haiku è l’espressione letteraria, appare una immensa pratica volta ad arrestare il linguaggio, a rompere «questa sorta di radiofonia interiore che risuona continuamente in noi, sin dentro il nostro sonno». • «La brevità dell’haiku non è formale; l’haiku non è un pensiero ricco ridotto a forma breve, ma un evento breve che trova tutt’a un tratto la sua forma esatta. La parsimonia di linguaggio è ciò in cui l’Occidente si rivela meno abile: non è tanto ch’esso produca testi troppo lunghi o troppo brevi, ma tutta la sua retorica gli impone di rendere sproporzionato il significante e il significato sia diluendo il secondo sotto i fiotti loquaci del primo, sia ‘approfondendo’ la forma verso le regioni implicite del contenuto. L’esattezza dell’haiku […] ha la purezza, la sfericità e il vuoto stesso d’una nota musicale» (L’impero dei segni, p. 88). • Questo è anche il modo di lavorare di Barthes, il suo procedere «per forza di levare» nel passaggio dai materiali raccolti al testo definitivo – per soppressioni, tagli e riduzioni sia sul piano strutturale che stilistico. Ammiratore di Brecht, che ai suo attori prescriveva: «a digiuno, non ingrassatevi, siate secchi, siate a digiuno». Il frammento è un genere retorico (Lexìa=frammento di lettura). L’opera non è mai monumentale, è una proposizione che ciascuno saturerà come vorrà. • «il piacere è una nozione che ho utilizzato in modo un po’ tattico quando ho constato che gli studi, le idee, le teorie sul fatto letterario avevano fatto dei grandi progressi sul piano teorico ma che in questi progressi di tipo teorico la percezione del testo finiva per essere un po’ astratta, un po’ fredda e un po’ sottomessa a dei valori impliciti di autorità […] il testo non è solo un oggetto ideologico, un oggetto di analisi, ma […] è anche la fonte di un piacere. C’è un piacere di lettura del testo […].Il godimento è un termine molto più forte, molto più enigmatico, molto più misterioso…Ho dunque definito il piacere, soprattutto nella letteratura, come una sorta di godimento diffuso, di godimento trattenuto, di godimento relativo a delle condizioni di situazione di lettura» (Oeuvres complètes, IV, p. 534) • Immaginando un’estetica fondata interamente sul piacere del fruitore, Barthes intuisce con largo anticipo quello che diventerà un dogma non tanto dell’ambito letterario quanto paradossalmente della società dei consumi, e cioè l’estetizzazione del quotidiano e il credo del marketing contemporaneo. • Eco elaborerà la sua teoria sui modi della cooperazione testuale in Lector in fabula (1979), ponendola esplicitamente sullo sfondo del piacere/godimento barthesiani. Barthes e la semiotica Lezione (1978), Einaudi, 1981:3 «se è vero che sin dall’inizio ho legato la mia ricerca alla nascita e allo sviluppo della semiotica, è anche vero che ho pochi diritti di rappresentarla, tanto sono incline a eluderne la definizione, non appena questa mi sembrava formata, e ad appoggiarmi alle forze eccentriche della modernità, più vicino a Tel Quel che non alle numerose riviste che, nel mondo, attestano il vigore della ricerca semiologica». Critica del potere «noi abbiamo creduto che il potere fosse un oggetto eminentemente politico; oggi crediamo che esso sia anche un oggetto ideologico, che si insinua dove non risulta facile individuarlo di primo acchito (nelle istituzioni, nell’insegnamento), ma che in definitiva continui ad essere sempre uno solo. […]; ovunque, in ogni dove, vi sono capi, centri di potere, siano questi imponenti o minuscoli, gruppi di oppressione o di pressione; ovunque si odono voci “autorizzate”, che si autorizzano a farsi portavoce del discorso di ogni potere: il discorso dell’arroganza. Ecco allora intuiamo che il potere è presente anche nei più delicati meccanismi dello scambio sociale: non solo nello Stato, nelle classi, nei gruppi, ma anche nelle mode, nelle opinioni comuni, negli spettacoli, nei giochi, negli sport, nelle informazioni, nei rapporti familiari e privati, e persino nelle spinte liberatrici che cercano di contestarlo: io chiamo discorso di potere ogni discorso che genera la colpa, e di conseguenza la colpevolezza, di colui che lo riceve […] il potere è il parassita d’un organismo trans-sociale, legato all’intera storia dell’uomo, e non solamente alla sua storia politica, storica. Questo oggetto in cui, da che mondo è mondo, s’inscrive il potere è: il linguaggio – ovvero, per essere più precisi, la sua espressione obbligata: la lingua» (Lezione (1978), 1981:6-7) • «Da una parte la lingua è immediatamente assertiva: la negazione, il dubbio, la possibilità, l’incertezza di giudizio richiedono degli operatori particolari, i quali vengono essi stessi risucchiati in un gioco di maschere linguistiche; ciò che i linguisti chiamano la modalità non è mai altro che il supplemento della lingua, attraverso cui, come in una supplica, io cerco di piegare il suo inesorabile potere di constatazione. Dall’altra parte, i segni di cui la lingua è fatta esistono per quel tanto che sono riconosciuti, ossia per quel tanto che essi si ripetono; il segno è pedissequo, gregario; in ogni segno sonnecchia un mostro: lo stereotipo: io posso parlare solo se raccatto ciò che ricorre continuamente nella lingua […]. Dunque, nella lingua servilità e potere si confondono ineluttabilmente». Solo la letteratura permette di «truffare la lingua», di «concepire la lingua al di fuori del potere» (ivi: 9-11) Lingua e discorso «Lingua e discorso si muovono lungo il medesimo asse di potere […] Questa distinzione di origine saussuriana (Langue/Parole) ha reso all’inizio grandi servigi […] A un certo punto, come se fossi stato colpito da una sordità progressiva, io non ho più udito che un solo suono: quello della lingua e del discorso mescolati insieme. La linguistica mi è sembrata allora come un lavorare su un’immensa illusione, su un oggetto che essa rendeva abusivamente pulito e puro, asciugandosi le dita con la matassa del discorso […]. La semiologia sarebbe perciò quel lavoro che raccoglie l’impuro della lingua, lo scarto della linguistica, la corruzione immediata del messaggio: né più né meno che i desideri, i timori, i malumori, le intimidazioni, le avances, le affettuosità, le rimembranze, le scuse, le aggressioni, le musiche di cui è fatta la lingua attiva» (ivi:22-24) Semiologia come critica sociale • «per quel che mi riguarda la semiologia ha preso le mosse da un movimento propriamente passionale: mi era parso (intorno al 1954) che una scienza dei segni potesse attivare la critica sociale e che Sartre, Brecht e Saussure potessero trovarsi uniti in questo progetto; si trattava in fondo di capire in che modo una società produce degli stereotipi, ossia degli eccessi di artificio, che essa poi consuma come dei sensi innati, ossia come degli eccessi di natura. La semiologia (la mia, almeno) è nata da una intolleranza nei confronti di questo miscuglio di malafede e di coscienza tranquilla che caratterizza la moralità in generale, e che Brecht ha chiamato, criticandola aspramente, il Grande Uso. La lingua travagliata dal potere: ecco qual è stato l’oggetto di questa prima semiologia» (ivi:24-25) Ritorno al testo • «Se la semiologia di cui parlo è perciò tornata al Testo, è perché, in questo coro di piccole signorie, il Testo le è apparso come l’emblema stesso del de-potere. Il Testo ha in sé la forza di eludere all’infinito la parola gregaria (quella che si aggrega), anche quando questa cerca di ricostituirsi in lui; esso spinge sempre più lontano da sé […] ricaccia altrove, verso un luogo non classificato, atopico, se così si può dire, lontano dai topoi della cultura politicizzata, «quest’obbligo di dover formare dei concetti, delle specie, delle forme, dei fini, delle leggi …questo mondo di casi identici», di cui parla Nietzsche; esso solleva debolmente, transitoriamente, la cappa di genericità, di moralità, di in-differenza (separiamo bene il prefisso dal radicale), che grava sul nostro discorso collettivo. Semiologia e letteratura «La letteratura e la semiologia giungono così a coniugarsi per correggersi a vicenda. Da una parte, l’incessante ritorno al testo, antico e moderno, il regolare immergersi nella più complessa delle pratiche significanti, e cioè la scrittura […] obbligano la semiologia a lavorare su delle differenze e la trattengono dal dogmatizzare, dal “prendere” – dal prendersi per il discorso universale che non è» (ivi: 26-7). E da parte sua, lo sguardo semiotico, posato sul testo, obbliga a rifiutare il mito a cui solitamente si ricorre per salvare la letteratura dalla parola gregaria da cui essa è circondata, incanalata, e che è il mito della creatività pura: il segno deve essere pensato – o ripensato – per essere meglio tradito. Semiophysis, semioclastia, semiotropia La semiologia come scienza negativa e attiva «non si fonda su una “semiophysis”, su una inerte naturalità del segno, […] essa non è neppure una “semioclastia”, una distruzione del segno. Essa sarebbe piuttosto, per continuare il paradigma greco, una semiotropia: volta verso il segno, essa ne è catturata e lo recepisce, lo maneggia e all’occorrenza lo imita, come uno spettacolo immaginario […] non è un’ermeneutica: essa dipinge anziché scavare, è piuttosto nella linea del porre che non in quella del levare. I suoi oggetti di predilezione sono i testi dell’Immaginario: i racconti, le immagini, i ritratti, le espressioni, gli idioletti, le passioni, le strutture che giocano nello stesso tempo con un’apparenza di verosimiglianza e con un’indeterminatezza di verità» (ivi: 30-31). Post-strutturalismo • Pluralismo vs binarismo: dissolvere i fronteggiamenti e i paradigmi; la differenza sconfigge il conflitto. • Polverizzazione, dispersione. • Secondo Freud un po’ di differenza porta al conflitto ma molte ce ne allontanano. • Utopia alla Fourier: società infinitamente parcellizzata, filosofia pluralista ostile alla massificazione. • Pentecoste vs Babele.